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COME bEStiE?
Come bestie copertina_Layout 1 27/12/10 09:23 Pagina 1
Come bestie?
forme e paradossi della violenza
tra mondo antico
e disagio contemporaneo
a cura di
Valeria Andò e Nicola Cusumano
€ 20,00
Immagine di copertina:
Achille guarda il cadavere di Ettore
Coppa attica a figure rosse (490‑480 a.C.), Museo del Louvre, Parigi.
Salvatore
Sciascia
Editore
Salvatore Sciascia Editore
CISap
MATHESIS. RICERCHE SULLA TRASMISSIONE DEL SAPERE
Serie del Centro interdipartimentale
“Forme di produzione e trasmissione del sapere
nelle società antiche e moderne”
dell’Università degli Studi di Palermo ‑ vol. 4
diretta da Nicola Cusumano
Come bestie?
Forme e paradossi della violenza
tra mondo antico e disagio contemporaneo
A cura di
Valeria Andò e Nicola Cusumano
SALVATORE SCIASCIA EDITORE
Caltanissetta‑Roma 2010
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
©
Copyright 2010 by Salvatore Sciascia Editore s.a.s.
Caltanissetta‑Roma
www.sciasciaeditore.it
[email protected]
ISBN 978‑88‑8241‑356‑9
Volume pubblicato con il contributo del CISap su fondi di Ateneo
Stampato in Italia/Printed in Italy
Indice generale
Premessa
Cannibalismo e antropopoiesi nella poesia iliadica
VALERIA ANDÒ
I Sette contro Tebe di Eschilo e l’assedio come dimensione
della bestialità
MAURIZIO CIVILETTI
VII
1
19
Eracle e l’odio di Era. L’immagine del toro nell’Eracle di Euripide
ANTONIETTA PROVENZA
45
Alastores. Violenza e memoria oltre l’umano
BARBARA MARINO
63
Né uomo né bestia. Riflessioni sulla theriotes a partire
dal VII libro dell’Etica Nicomachea
MARZIA SOARDI
77
L’artefice crudele e il tiranno che una volta fu giusto.
Il toro di Falaride e la hybris della mimesi
ROBERTO POMELLI
89
Trofei punici
SERGIO RIBICHINI
La passione dell’odio e la violenza correttiva.
Greci e Cartaginesi in Sicilia (409‑396 a.C.)
NICOLA CUSUMANO
121
141
VI
INDICE GENERALE
Da Crono agli eroi. Ordine e disordine,
violenza e homonoia nelle Argonautiche di Apollonio Rodio
STEFANO G. CANEVA
165
Granchi, uomini e altri animali.
La genesi della violenza nel De sollertia animalium di Plutarco
PIETRO LI CAUSI
189
Confini in discesa.
Rappresentazioni della violenza e della bestialità nella cultura romana 209
FABIO TUTRONE
In forma di serpente.
Incesti, mostri e diavoli nella condanna cristiana dei culti dionisiaci
FRANCESCO MASSA
235
Tra imbestiarsi e trasumanar.
Politica ed educazione come antropopoiesi
GIUSEPPE BURGIO
257
Bibliografia generale
281
Indice tematico
309
Appunti per una premessa
Riflettere sulla violenza si rivela immediatamente un’impresa faticosa e un
obiettivo sfuggente, destinato ad una marca di inadeguatezza, forse in primo
luogo epistemologica. Nonostante una tale premessa possa apparire scoraggiante,
interrogarsi sulla violenza, e soprattutto sul suo profondo incardinamento
nei codici simbolici di una cultura, ha almeno un merito: mettere in luce il
suo effetto perturbante nelle rappresentazioni culturali e la difficoltà di
approdare ad un regime condiviso di concettualizzazione1. Gli studi riuniti
in questo volume non hanno perciò nessuna pretesa di esaustività, consapevoli
come siamo tutti noi che vi abbiamo partecipato dell’ambivalenza del tema e
di quanto esso comporti un coinvolgimento che non è sempre facile mantenere
su un livello di riflessione controllata, ma non isterilita.
In questo volume compaiono alcuni contributi generati da una stimolante
esperienza seminariale sul tema della violenza e delle strategie di rappre‑
sentazioni adottate nelle culture del cosiddetto mondo classico. Il seminario,
durato alcuni anni, ha visto la partecipazione di docenti e giovani studiosi
della Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo, soprattutto in ambito
antichistico. Altri, che si sono riconosciuti nel percorso di riflessione, si
sono aggiunti nella fase di elaborazione del progetto editoriale2, altri ancora,
che pure hanno partecipato agli incontri seminariali arricchendoli col loro
contributo di idee, non sono qui presenti. Che la violenza sia oggetto di
1
NAEPELS 2006, 493. Tenere desta l’attenzione sulla distanza tra codici antichi e sensibilità
moderna è un obiettivo già da tempo fissato nella ricerca.
2 Stefano G. Caneva e Francesco Massa si sono formati all’Università di Pavia, Sergio
Ribichini è Dirigente di ricerca presso l’ISCIMA (Istituto di studi sulle Civiltà Italiche e del
Mediterraneo antico) ‑ CNR, Roma.
VIII
APPUNTI PER UNA PREMESSA
ricerca di difficile delimitazione e di imprecisa definizione è apparso subito
chiaro fin dai primi incontri del seminario, nei quali il nostro primo obiettivo
è stato appunto quello di definire il tema che avevamo scelto come oggetto
di ricerca, attraverso il confronto con specialisti di differenti ambiti (storici,
sociologi, filosofi, psicologici), per passare poi all’analisi dei modi della nar‑
razione (storica o letteraria), e delle forme di rappresentazione culturale del
fenomeno.
Ci è sembrato sintomatico che né l’oggetto del nostro interesse né la pro‑
spettiva adottata fossero isolati: lo spazio storico della violenza mette in
tensione la temporalità con l’etica, la memoria con la sofferenza. L’obiettivo
di concettualizzare la violenza – obiettivo necessario, se si vuole intraprendere
la via della riflessione – rischia di confondersi con una scelta di astrazione
anestetizzante, che finisce per disgregare un campo di esperienza difficilmente
pensabile e ancor più difficilmente “inscrivibile” in un testo. Quanto più ci si
sforza di mantenere la dimensione di esperienza “sociale” della violenza, tanto
più questo tema resiste ad una categorizzazione operativa: riflettere sulla
violenza conduce fuori dai limiti della sola (per quanto sofisticata) descrizione,
e mette in gioco la dimensione etica.
Il rischio (il timore) sempre incombente di fronte alla crudeltà della
violenza è che il desiderio di “sapere” finisca per consentire l’accesso ad una
“fascinazione” altrettanto rivoltante della violenza stessa. Questo rischio di
estetizzazione è emerso costantemente negli incontri e nelle discussioni che
hanno scandito il seminario per tutta la sua durata ed è un’altra preoccupazione
che caratterizza molti dei contributi.
Diversi per contenuti tematici e per angolazione di indagine, i testi
qui raccolti appaiono tuttavia concentrati su due elementi: il riferimento
alla bestialità (bestializzazione, theriotes, cannibalismo) come stato di
pericolo non solo individuale ma comunitario, e la definizione dell’umanità
come condizione acquisita “culturalmente” attraverso un processo com‑
plicato e ricco di insidie e paradossi, non alieno da ricadute in una “bestia‑
lità” sempre da domare (antropopoiesi). Che la natura bestiale sia stata
considerata buona per pensare la violenza non stupisce, se si presta atten‑
zione a quanto gli animali siano stati usati come operatori simbolici, di
segno diverso, ma sempre strumenti per riflettere sulle diverse grammatiche
sociali.
APPUNTI PER UNA PREMESSA
IX
Procedendo per cenni, alcuni animali sono in particolare presi in esame
per la loro efficacia simbolica, come il leone, il serpente, il toro, ma è soprattutto
l’essere umano a predominare per la sua capacità (tutta culturale?) di
collocarsi in una posizione di entre‑deux, di ambiguità tra spazi e ruoli,
tra umanità e bestialità, tanto diversi quanto strettamente correlati come le
oscillazioni di un’altalena tra alto e basso, umanità e disumanità: gioco di
definizione, innanzitutto, attraverso cui si affermano memorie, gerarchie e
strutture di potere.
Un’altra questione che si affaccia nelle pagine del volume è la strategia
che ogni universo culturale mette in atto per stabilire una gradazione della
violenza e dunque, implicitamente, una soglia di accettabilità. Al riguardo,
c’è da chiedersi se l’interesse che le testimonianze prese in esame mostrano
per i casi di violenza estrema non sia una scelta precisa per fissare di volta in
volta l’asticella sul grado di accettabilità della violenza3.
Sotto questo aspetto l’esperienza della bestializzazione va considerata
nella sua duplicità di fondo: esercitare una violenza fuori “norma”, ma
anche essere ridotti ad una condizione bestiale come vittime della stessa
violenza. Ecco il nucleo incandescente del tema, che ne mostra tutta la
difficoltà: la violenza non è mai un atto “delirante” e “altro”, piuttosto è
uno strumento di messa in ordine e di gerarchizzazione interno al mondo
umano e finalizzato a ottenere un surplus in termini sociali e politici.
Rispetto a forme di razionalizzazione rassicuranti come quella fornita
dalla riflessione aristotelica, il decentramento teoretico della violenza si
rivela illusorio: la violenza non sta ai margini, ma al centro, nella quoti‑
dianità che circonda e irrompe nella riflessione intellettuale, dentro e fuori
la ricerca accademica.
La violenza disumanizzante non preme dunque dall’esterno, ma origina
dall’interno e si intreccia con effetti perversi sulla definizione dell’umano:
recuperare l’umanità è impresa “eroica”, raggiungerla dall’esterno può risultare
impossibile, se l’impresa riguarda un nemico incorreggibile per natura. Parlare
di violenza, in una certa misura, implica al tempo stesso l’attribuzione di uno
stigma e la costruzione di un ordine (che stabilisce al suo interno una violenza
“giusta”).
3
ZIMMERMANN 2009.
X
APPUNTI PER UNA PREMESSA
Sappiamo che è una sfida complessa quella che qui proponiamo. Non indi‑
chiamo risposte dogmatiche ma ribadiamo la necessità della riflessione come
spazio privilegiato di resistenza al potere stesso della violenza.
VALERIA ANDÒ
NICOLA CUSUMANO
Come bestie?
Forme e paradossi della violenza
tra mondo antico e disagio contemporaneo
PIETRO LI CAUSI
Granchi, uomini e altri animali.
La genesi della violenza nel De Sollertia
animalium di Plutarco
Antefatto balneare
È un giorno di agosto e mi trovo in una spiaggia privata, a Marsala.
Sto camminando nell’acqua tenendo per mano mia figlia Irene, che fra
pochi giorni compirà sette anni. È con noi una bambina che ha conosciuto
da pochi giorni. Si chiama F., ed è la figlia dei nostri vicini di ombrel‑
lone.
L’acqua è bassa e limpida, e ad ogni nostro passo vediamo nuvolette
di sabbia che si sollevano a schiera dal fondo del mare, quando, all’im‑
provviso, mi sento sfiorare la gamba da qualcosa. Potrebbe essere –
questo è il mio primo pensiero – una medusa. In questi ultimi giorni,
del resto, il mare ne è stato pieno.
Mi guardo in giro per cercare di individuarne una possibile forma
polipoide, ma non vedo niente che galleggi sul pelo dell’acqua. Forse
era un’alga, o magari – così mi convinco – è stata soltanto un’impressione
fallace. Del resto la sensazione che ho provato – me ne rendo conto
solo adesso – non era quella di un contatto con qualcosa di viscido ed
urticante, e il polpaccio in fondo non sembra che stia per arrossarsi. Di
qualunque cosa si sia trattato, dunque, non me ne curo più, e continuo
la mia passeggiata con le bambine.
Poco più avanti, nel tratto successivo della spiaggia, ci lasciamo
incuriosire da un gruppo di bagnanti. Ci sono adulti attorniati da bam‑
bini. Si affannano a cercare di prendere qualcosa con un secchiello nel‑
l’acqua. «Meduse!», penso.
E invece no. È un granchio. Nonostante la sua buffa andatura
laterale, aiutato dalla risacca, scappa da tutte le parti, e quando sembra
190
PIETRO LI CAUSI
che sia entrato nel secchiello ecco che arriva un’onda che gli permette
di sgusciarne fuori. «È furbo!», dice una signora a sua figlia, «non si fa
prendere!».
«Ma noi siamo più furbi!», ribatte un tizio corpulento, mentre fa
per dirigersi verso il suo ombrellone. Fa ritorno con una paletta in
mano. Con questa spinge il granchio verso il secchiello. Lo ha catturato,
e lo mostra, soddisfatto, a tutti i piccoli che lo attorniano.
A questo punto, io e le bambine torniamo verso il nostro ombrellone.
Vorremmo portare qui Matteo, mio figlio, che ha appena sedici mesi
ed è rimasto a giocare con mia moglie accanto alla sdraio. Vorremmo
fargli vedere l’animaletto. Facendo ritorno alla nostra base, proprio
nello stesso punto in cui mi sono sentito pizzicare, mi accorgo di una
piccola massa che si muove camminando lateralmente sotto l’acqua.
«Un granchio!», grida sorpresa e felice F.
«Catturiamolo, così lo facciamo vedere a Matteo!», dico io. Decido
di andare a prendere la nostra paletta e il nostro secchiello, ma prima
ancora che io abbia fatto un passo è già arrivato il nonno di F.
Con un movimento lesto mette la mano sotto l’acqua e con una
stretta vigorosa cattura l’animaletto. Facendo attenzione a non farsi
pizzicare, quindi, gli strappa le chele. «Così non vi potrà mordere!»,
dice alle bambine nell’atto di darlo loro in mano.
All’improvviso un brivido mi attraversa la schiena. Cosa accadrebbe
se qualcuno mi strappasse le braccia all’improvviso? Mettiamo il caso
che un’orda di alieni superintelligenti, come ad esempio i Quong, inva‑
desse la terra e decidesse che noi umani, in quanto forme inferiori di
vita, possiamo essere alla loro totale e completa mercé; ebbene, per‑
metteremmo a cuor leggero di essere trattati da questi Quong come
noi siamo stati abituati a trattare i nostri animali?1 Ci lasceremmo, in
altri termini, “bestializzare”?
Vorrei protestare vibratamente con il nonno di F., chiedergli conto
di quanto ha fatto. Poi però mi blocco: la mia reazione non sarà percepita
come sentimentalistica, emotiva, infantile, astratta, irrazionale? Il nonno
di F., che mi conosce da pochi giorni e non sa nulla di me, non penserà,
in altri termini, che io sia un adulto immaturo o, comunque, che io sia
1
Ringrazio Mary Midgley (MIDGLEY 1985) per i suoi splendidi exempla ficta. I Quong sono
una sua creatura.
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 191
uno di quegli intellettuali lagnosi un po’ tocchi e rompiscatole? E poi
– mi chiedo –, il granchio ha un sistema nervoso? Riesce a sentire
dolore?2 Potrebbe, in altri termini, la menomazione che il nonno di F.
gli ha inflitto essere vista come una violenza bella e buona? Insomma
– mi chiedo – le mie eventuali proteste avrebbero un qualche fondamento
scientifico?
Lì per lì, non ho alcuna risposta. Benché mi sia occupato in passato
di rappresentazioni animali nel mondo antico, in realtà sono del tutto
ignorante in materia di crostacei. Guardo le bambine che si avviano felici
verso l’ombrellone. Mostrano l’animaletto a Matteo, che dapprima lo
guarda incuriosito e poi ritorna a giocare sulla sabbia con le sue formine.
Irene ed F. giocano qualche altro minuto con il granchietto. Lo
mettono dentro il secchiello pieno d’acqua e lo guardano muoversi, lo
fanno camminare sulla battigia. Dopo qualche minuto, però, Irene
comincia a piangere: il granchietto, lontano dalla sua mamma e senza
le zampette, morirà!
Vinta dal rimorso, prende delicatamente l’animale fra le dita e lo
rimette in mare. È sentimentalismo quello di mia figlia? Mi toccherebbe
spiegarle, adesso, che noi umani siamo soliti mangiare i granchi, che
sono ottimi per condire proprio quel couscous che mia madre le aveva
fatto la settimana prima e che le era piaciuto così tanto?
In fondo – penso – il sentimentalismo nei bambini è normale: secondo
il senso comune, del resto, emotività e infantilismo sono un vizio depre‑
cabile negli adulti, ma vengono pienamente giustificati nei piccoli degli
umani. È per questo che decido di giustificarli anch’io, almeno per un
altro po’. Ma – mi chiedo – se avessero ragione loro? I bambini, intendo.
Fuori dall’acqua: una premessa
Mi basta un semplice sguardo su Google per capire che, nonostante
possano apparire come il frutto di una semplice distrazione balneare,
2
Quella del dolore è una delle soglie che, a partire da Bentham (Introduction to the Principles
of Morals and Legislation: MIDGLEY 1985, 96 ss.), gli utilitaristi individuano per l’ammissione
degli animali all’interno della comunità morale degli umani. In particolare, nel dibattito con‑
temporaneo, è prevalentemente Peter Singer (SINGER 1991) che porta alle ennesime conseguenze
questo argomento (NEWMYER 2006, 100; MIDGLEY 1985, 97; SCRUTON 2008, 37 ss.).
192
PIETRO LI CAUSI
i miei quesiti estivi, in realtà, trovano una risonanza più ampia all’interno
del dibattito etico, giuridico e filosofico contemporaneo3: gli animali
hanno diritti? Possono essere pensati come soggetti morali? E se così
fosse, quali specie in particolare possono vantare diritti? E quali diritti?
Non è mia intenzione, in questa sede, trattare esaustivamente pro‑
blemi complessi come questi cui ho appena accennato, tuttavia dirò
subito che le pagine seguenti muovono dalla ferma convinzione che
sia possibile individuare un legame fra la bestializzazione degli umani
e la giustificazione razionalistica della violenza su quegli oggetti reificati
che possono diventare le bestie4. Semplicemente, vorrei mostrare come
un pensiero del genere compaia già in nuce nel mondo antico, in un’opera
come il De sollertia animalium di Plutarco. Il mio scopo è dunque estre‑
mamente circoscritto. Si tratta cioè di capire come un testo antico, sia
pur non rappresentativo di tutta l’antichità, risponderebbe alle domande
che mi sono posto mentre il nonno di F. stava menomando il malcapitato
granchio. Cosa direbbe, dunque, Plutarco di tutto questo?
La ragione degli animali
Prima di entrare in medias res è forse opportuna una breve introduzione
all’opera5, il cui titolo originario doveva essere, stando al catalogo di
Lampria, “Fra gli animali sono più intelligenti i terrestri o gli acquatici?”
(Πότερα τῶν ζῴων φρονιμώτερα, τὰ χερσαῖα ἤ τὰ ἔνυδρα).
Effettivamente, il corpo centrale del testo (cc. 9‑22 e 23‑26), sviluppa
coerentemente il problema proposto dal titolo. I due giovani Aristotimo
e Fedimo, l’uno cacciatore e l’altro pescatore, si impegnano infatti,
secondo la tecnica della disputatio in utramque partem, in una coppia di
discorsi contrapposti in cui si sostiene ora la superiorità degli animali
terrestri ora la superiorità degli animali acquatici.
3
Per un quadro sul dibattito contemporaneo cf. ad es. STEINER 2005, 4 ss. e 202 ss. (o
anche, per aggiornamenti in riferimento al settore degli animals studies, http://www.h‑net.org/~ani‑
mal/).
4 Un legame fra violenza e reificazione è messo in evidenza da LÉVINAS 2000, 6 ss. (ripreso
da COZZO 2004, 18). Quanto al meccanismo della pseudo‑speciazione culturale, ovvero quel
processo in base al quale i popoli distinguono il “noi” e gli “altri” come se si trattasse di specie
biologicamente e naturalmente diverse, cf. ERIKSON 1966, 337 ss.
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 193
Dopo avere proposto una serie di aneddoti tratti a piene mani dalla
tradizione del sapere zoologico antico6, la domanda cui si dovrebbe
rispondere rimane però elusa:
«ARISTOTIMO: Ebbene, giudici, potete votare.
SOCLARO: A dire il vero, da tempo condividiamo l’opinione di
Sofocle: “opportunamente il discorso, sia pur discorde, ha forgiato
argomenti strettamente connessi e comuni a entrambi”. Infatti colle‑
gando i vostri discorsi contrapposti, entrambi lotterete insieme e
validamente contro chi priva gli animali di ragione e di intelligenza»
(37, 985 C 6‑14)7.
Il testo plutarcheo termina poco prima che i giudici emettano il loro
verdetto, e dunque, agli occhi del lettore, l’agone retorico che ha coinvolto
i due giovani non ha di fatto vincitori né vinti. Nel frattempo, però, la
prospettiva di Soclaro, che timidamente si era fatto portavoce di un
senso comune che attribuiva agli umani una schiacciante superiorità
sulle bestie (5, 963 A 8‑10), e che riteneva che non si potessero intrattenere
con esse rapporti regolati da giustizia (6, 963 F 4 ‑ 964 C 1), è mutata
completamente. L’esito aperto del dialogo sposta dunque su un altro
terreno l’agone. Soclaro – e con lui Plurarco – sembra dire che non
importa veramente chi fra Aristotimo e Fedimo avrà la meglio; sarà
invece importante che i loro argomenti si intreccino in futuro in un fuoco
congiunto contro chi – gli stoici ad esempio, o certi peripatetici – sosterrà
che gli animali sono privi di ragione8. Gli animali, dunque, hanno accesso
a forme di intelligenza che differiscono da quelle umane non tanto in
termini di “qualità” quanto in termini di “quantità” e di grado9.
5
Per un’introduzione più dettagliata cf. comunque DE FONTENAY 1992, 18 ss. e 48 ss.; DEL
CORNO 2001, 43 ss. Cf. anche NEWMYER 2006, spec. 30 SS. e, soprattutto, BECCHI 1993, 59 ss.;
BECCHI 2000, 205 ss.; BECCHI 2001, 119 ss.
6 Sulle fonti di Plutarco, e sul suo riuso di materiale di provenienza peripatetica, cf. BECCHI
2002, 159 ss.; BECCHI 2004, 26 ss. Quanto all’atteggiamento con cui viene costruita la sua zoop‑
sicologia, bisogna precisare che «Plutarch was neither a systematic philosopher nor an obser‑
vational scientist, but he seems rather to have been willing to borrow ideas from a variety of
schools as these suited his purposes» (NEWMYER 2006, 8).
7 I versi sofoclei citati da Plutarco sono di una tragedia ignota (TrGF 4, F 866 Radt). Tutte
le traduzioni dei passi plutarchei sono di DEL CORNO 2001.
8 Sul motivo della mancanza di logos negli animali (e più in generale sul dibattito relativo
a questo problema) cf. ad es. LABARRIÈRE 2000, 107 ss.; LABARRIÈRE 2005, 11 ss. (ma cf. anche
DIERAUER 1977; SORABJI 1993).
9 BECCHI 2000, 207 e NEWMYER 2006, 34.
194
PIETRO LI CAUSI
Il punto è però che la dimostrazione dell’intelligenza degli animali
non è, come alcuni hanno pensato, fine a se stessa. A tale proposito, ad
eccezione di Stephen Newmyer, che in un suo recente volume ha ana‑
lizzato punto per punto le consonanze fra gli argomenti della zoopsi‑
cologia plutarchea e le posizioni degli animalisti contemporanei, in
genere le conclusioni del trattatello sono state lette unicamente in
chiave antistoica10.
L’equivoco nel quale si rischia di incorrere, in tal senso, consiste
nel muovere implicitamente un’accusa secondo la quale Plutarco non
intenderebbe veramente modificare lo status degli animali o affermarne
i diritti, quanto piuttosto muovere un generico attacco all’intellettualismo
della scuola rivale, divertendosi soltanto a dimostrare, per il semplice
gusto della polemica, il paradosso secondo cui gli aloga – ovvero gli
“esseri privi di ragione” – sono in realtà esseri dotati di logos e possono
anche talvolta dimostrarsi più intelligenti e svegli di certi umani “mar‑
ginali” che non hanno alcuna educazione filosofica11.
Tuttavia, benché l’intellettualismo degli Stoici e la loro posizione
di “esclusione assoluta” nei confronti degli animali sia chiaramente
uno dei principali obiettivi polemici di Plutarco12, sarebbe limitativo
pensare che il suo unico problema fosse quello di affermare, quasi per
ripicca e beffardo spirito di contrapposizione, che gli animali sono – in
misura diversa – partecipi del logos, dal momento che, soprattutto da
testi come il De esu carnium, è proprio dall’affermazione di questo prin‑
cipio che deriva la prescrizione di tutta una serie di atteggiamenti con‑
10
Così ad esempio LABARRIÈRE 2005, 25 ss.; BECCHI 2001, spec. 223; BECCHI 1993, 61 ss. (in
particolare 83); SANTESE 1994, 146 ss. SORABJI 1993, 52; 125; 176, invece, non ha mai degnato di
attenzione particolare Plutarco (NEWMYER 2006, 1).
11 Cf. ad es. De sollertia animalium 962 C 10‑12, in cui si dice che «tutti gli esseri animati
partecipano delle facoltà razionali; quanto però a quella forma di perfezione intellettuale e alla
saggezza che essi cercano, non possono asserire che appartenga neppure all’uomo» (ma cf.
anche BECCHI 2000, 208 e 220). Plutarco utilizza dunque, come argomento per dimostrare la
ragione animale, il dato di fatto secondo cui esistono varie gradazioni di intelligenza anche
negli umani. Una posizione, questa, che presenta alcune consonanze con l’argomento dell’umanità
marginale, utilizzato nel dibattito contemporaneo sullo status morale e giuridico degli animali
(cf. ad es. SCRUTON 2008, 42). Quanto al termine alogos, in riferimento agli animali, bisogna dire
non è mai usato sistematicamente prima del V sec. a.C. (ZUCKER 2005, 11), ma che nel tempo in
cui lo utilizza Plutarco più che indicare tout court l’assenza di ragione, rimanda ad una generica
idea di “animalità” (BECCHI 2000, 212 e relativa bibliografia).
12 Riguardo all’atteggiamento di “esclusione assoluta”, cf. MIDGLEY 1985, 13 ss.
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 195
seguenti, come ad esempio l’invito ad osservare diversi gradi di
astinenza dal consumo di carne animale13.
In questo senso bisogna dire che neanche il De sollertia animalium
– che è fra tutte le opere zoopsicologiche di Plutarco quella che vanta
il maggiore spessore teorico – è esente dal presentare potenti tratti di
perlocutività performativa.
In altri termini, anche in questo dialogo la tesi secondo cui tutti gli
zoia partecipano in diversa misura del logos è funzionale ad una modifica
di pratiche e abitudini di senso comune. Più in particolare, vorrei
cercare di dimostrare come la riflessione plutarchea sui diversi gradi
di intelligenza negli zoia serva ad una ristrutturazione teorica e pratica
di certi comportamenti aggressivi comunemente accettati dai più e
ripensati invece adesso come “violenza”. Cosa, questa, che si potrà
comprendere soltanto se si analizza attentamente la sezione iniziale
dell’opera, che fa da cornice teorica all’agone che vede coinvolti Ari‑
stotimo e Fedimo.
Prima di fare questo, però, è forse necessario interrogarsi sul ruolo
dei due giovani cacciatori.
I cacciatori usati contro la caccia
Se Aristotimo e Fedimo sono, come si è visto, i protagonisti dell’agone
che sviluppa il titolo dell’opera, sicuramente non ne sono i registi. I
contenuti dei discorsi dei due risultano infatti incorporati all’interno
della cornice teorica tratteggiata dai discorsi iniziali di Autobulo e
Soclaro (cc. 1‑7).
13 In apparente contraddizione con le tesi del De esu carnium ci sono alcuni passi dei
Moralia in cui Plutarco sembra propenso ad ammettere il consumo di carni (cf. ad es. Quaestionum
Convivialium libri 667 C‑669 E; 669 F‑671 C; 642 C). A tale proposito, per sanare le apparenti con‑
traddizioni, NEWMYER 2006, 100 ss. avanza l’ipotesi secondo la quale Plutarco, consapevole di
quanto il carnivorismo fosse ormai diventato una seconda natura per molti uomini comuni, lo
proponesse come dovere primario almeno per i soli filosofi. Sono comunque da segnalare, a
tale proposito, almeno le posizioni di TSEKOURAKIS 1987, 379 (secondo il quale il vegetarianismo
di Plutarco sarebbe legato soltanto ad una particolare nozione di salutismo più che a sentimenti
realmente zoofili), di BARIGAZZI 1992, 302 (che propende per un uso meramente retorico del
motivo) e infine di G. Santese in INGLESE, SANTESE 1999, 43 (che pensa piuttosto ad un uso
polemico, in senso antistoico, del vegetarianismo plutarcheo).
196
PIETRO LI CAUSI
Il dato che però a me sembra importante mettere in rilievo è che
Aristotimo e Fedimo vengono completamente tenuti all’oscuro rispetto
alla reale posta in gioco del loro agone14. Ognuno di loro è convinto di
potere dimostrare la superiorità della classe di animali che si trova di
solito a cacciare, e quindi, in definitiva, della tipologia di caccia che di
solito pratica. Nessuno dei due, però, ha avuto modo di ascoltare le
parole dei più anziani Soclaro e Autobulo, né ci sono altri personaggi
del dialogo che ritengono opportuno informarli di quello che, prima
del loro arrivo, è stato detto. Emblematica, in tal senso, è la battuta con
cui Soclaro frena l’impetuoso argomentare dell’amico nel momento in
cui fanno il loro ingresso in scena i cacciatori:
«Trattieniti, Autobulo, e chiudi la porta dell’accusa. Perché ecco
che si stanno avvicinando molti uomini tutti amanti della caccia.
Non sarà facile far mutare loro opinione, né dobbiamo necessariamente
ferirne i sentimenti» (8, 965 B 8‑11).
Aristotimo, Fedimo, e tutti gli altri personaggi che al dialogo partecipano
senza mai prendere la parola, ovvero Eubioto, Eacide, Aristone, Eracleone
e Filostrato, sono dunque appassionati di caccia, e, per una questione di
tatto e di discrezione, è giusto – secondo Soclaro – non metterli a parte
delle argomentazioni portate avanti, poco prima, da Autobulo.
Il tatto, tuttavia, in quella che è la logica profonda del dialogo, si tra‑
sforma in una forma di strumentalizzazione: i due giovani cacciatori, che
elogiando gli animali che cacciano pensano in realtà di elogiare la loro
arte, si ritrovano inconsapevolmente a produrre una messe enorme di
argomenti e di prove a favore di chi, come Autobulo, ha in precedenza
messo in dubbio la legittimità di quella stessa arte: una volta che si è dimo‑
strato che è possibile parlare di forme di intelligenza degli animali, sarà
infatti quanto meno difficile giustificare ogni forma di violenza su di essi.
Uomo‑bestia: il mito plutarcheo della genesi della violenza
È giunta l’ora di dare la parola ai due anziani personaggi che danno il
via all’agone retorico che forma il corpo principale dell’opera e che, in
14
Fedimo e Aristotimo entrano in scena, accompagnati da una comitiva, in De sollertia
animalium 965 B 8 ss.
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 197
qualche modo, ne sono i registi. Si è a lungo discusso in passato, a pro‑
posito dell’incipit, del problema della paternità dell’Encomio della Caccia
cui fa riferimento Autobulo in 959 B 415. Non mi risulta, tuttavia, l’esi‑
stenza di studi che si siano interrogati sulla reale funzione di questo
encomio all’interno del dialogo16:
«Temo davvero, amici, che anche l’Encomio della Caccia, letto ieri,
infiammi i nostri giovani amanti di tale attività, al punto da indurli
a ritenere secondarie e di nessun conto tutte le altre occupazioni, per
dedicarsi completamente a questa passione» (1, 959 B).
La lettura del fantomatico encomio costituisce l’antefatto del “dram‑
ma” che Autobulo e compagni inscenano. Al di là di chi sia il reale
autore dell’opera – che, sia detto per inciso, potrebbe anche essere una
semplice trovata letteraria funzionale alle strategie argomentative di
Plutarco – mi pare tuttavia opportuno segnalare la reazione di Autobulo,
che è sconcertata e preoccupata. Se l’encomio ha risvegliato perfino la
sua passione nei confronti della caccia, nei giovani potrebbe finire per
avere effetti totalizzanti e pericolosi.
È di diverso avviso Soclaro:
«Hai ragione, Autobulo; mi sembra in effetti che l’autore di ieri
abbia risvegliato la retorica dopo lungo tempo, facendo cosa gradita
ai giovani e condividendo la loro primavera. Ho apprezzato soprattutto
la sua menzione dei gladiatori e la sua convinzione che sia motivo
di non piccola lode per la caccia il fatto che essa abbia stornato su di
sé la maggior parte del nostro piacere, naturale o acquisito, per i
combattimenti armati fra uomini e che offra, di conseguenza, uno
spettacolo puro, al tempo stesso di arte e di coraggio intelligente,
che si oppone alla forza bruta e alla violenza. E dà ragione del passo
euripideo:
“Debole è la forza dell’uomo. Ma
con le risorse della sua mente
le temibili creature del mare
15
ZIEGLER 1965, 129 ss. ha individuato in Plutarco l’autore del trattato cui si fa riferimento.
MARTIN 1979, 99 ss. e DEL CORNO 2001, 233 n. 4 hanno invece, a mio avviso, addotto argomentazioni
convincenti contro questa ipotesi.
16 Recentemente JAZDZEWSKA (C. S.) ha letto in funzione antiromana e “identitaria” la critica
all’arte gladiatoria presente nell’encomio e l’implicita condanna delle venationes che emergerebbe
in controluce dalle riflessioni di Autobulo sulla caccia – ritenute dalla studiosa prive di coerenza
– e da altri brevi accenni presenti nel corso dell’opera (cf. 959 C 5 ‑ D 3).
198
PIETRO LI CAUSI
e quante vivono sulla terra
e nel cielo egli doma”» (1, 959 C 3 ‑ D 3)17.
Se Autobulo vede nell’encomio, sia pure con fare sornione18, un’opera
pericolosa, Soclaro ne individua, in base a quello che è un senso comune
diffuso, le potenzialità educative. A suo avviso, la sua lettura dell’operetta
di cui l’amico ha fatto menzione da un lato può facilmente attirare l’in‑
teresse dei giovani, dall’altro però li spinge a canalizzare la loro innata
aggressività distogliendoli dall’interesse per gli spettacoli gladiatori,
che vengono bollati, implicitamente, come violenti. Il modello che qui
Soclaro attiva è dunque quello tradizionale, che vede nella caccia una
funzione paideutica e culturale, un mezzo attraverso il quale il mondo
umano e civilizzato si confronta con quello selvaggio e ferino e lo
domina per mezzo della ragione e della tecnica19.
Nell’ottica di Autobulo, tuttavia, la caccia finisce per perdere inte‑
ramente la sua patina simbolica e diventa mera uccisione di esseri
viventi. È emblematica, in tal senso, la sua immediata replica:
«Eppure, caro Soclaro, si dice che proprio la caccia sia responsabile
del diffondersi fra gli uomini dell’insensibilità e della ferocia (τὴν
ἀπάθειαν καὶ τὴν ἀγριότητα), che ha assaporato il gusto della strage
e che si è avvezzata, nel corso delle battute di caccia, a non provare
ripugnanza per il sangue e per le ferite degli animali, ma a trarre
piuttosto godimento della loro morte violenta (ἀλλὰ χαίρειν
σφαττομένοις καὶ ἀποθνήσκουσιν). Accadde così ad Atene: il primo
uomo condannato a morte dai Trenta, un sicofante, fu giudicato
meritevole di tale sorte, e analogamente si verificò con il secondo e
con il terzo; ma poi i Trenta misero progressivamente le mani sulle
persone oneste e alla fine non risparmiarono neppure i migliori citta‑
dini. Allo stesso modo, il primo uomo che uccise un orso o un lupo
riportò buona fama, mentre un bue o un porco furono condannati a
morte per aver assaggiato offerte sacrificali che giacevano loro innanzi;
17
I versi citati sono tratti dall’Eolo di Euripide (fr. 27 Nauck).
JAZDZEWSKA (C. S.) ha visto nel fare di Autobulo una certa incoerenza. Ho tuttavia l’im‑
pressione che tale incoerenza sia in realtà per certi versi strutturale e funzionale al modus
operandi del personaggio che, lungi dal proporre certezze, semina invece dubbi e pretende di
operare (quasi maieuticamente) affinché siano i suoi interlocutori a giungere alle loro conclu‑
sioni.
19 NEWMYER 2006, 33 ha messo in luce l’originalità controculturale della posizione plutarchea
sulla caccia, vista dai Greci come un gesto identitario e culturale per eccellenza.
18
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 199
in seguito, il fatto che da quel momento ormai venissero mangiati
cervi, lepri e caprioli, introdusse l’uso di consumare carne di pecora
e, in qualche luogo, carne di cane e di cavallo. E lacerando e smem‑
brando l’oca domestica, “inquilina del focolare”, per dirla con Sofocle,
non per nutrirsi sotto il pungolo della fame come fanno le donnole
e i gatti, ma per diletto e per procurarsi un cibo prelibato, gli uomini
corroborarono la componente sanguinaria e ferina, che è insita in
loro per natura, e la resero inflessibile alla pietà, mentre smussarono
per la più gran parte la loro componente mansueta (ἀλλ’ ἐφ’ ἡδονῇ
καὶ ὄψῳ διασπῶντες καὶ κατακόπτοντες ὅσον <ἔν>εστι τῇ φύσει
φονικὸν καὶ θηριῶδες ἔρρωσαν καὶ πρὸς οἶκτον ἀκαμπὲς
ἀπειργάσαντο, τοῦ δ’ἡμέρου τὸ πλεῖστον ἀπήμβλυναν). Analo‑
gamente, ma in senso contrario, i Pitagorici praticarono la mansue‑
tudine verso gli animali per sviluppare il proprio sentimento di uma‑
nità e di compassione (οἱ Πυθαγορικοὶ τὴν πρὸς τὰ θηρία πραότητα
μελέτην ἐποιήσαντο πρὸς τὸ φιλάνθρωπον καὶ φιλοίκτιρμον):
infatti l’abitudine è straordinariamente efficace nel far progredire
l’uomo con il graduale insinuarsi degli affetti» (2, 959 D 4‑ 960 A 3).
Lungi dall’essere vista come uno strumento di culturalizzazione,
la caccia viene indicata, secondo un movimento che agli stessi lettori
del tempo doveva sembrare controintuitivo, come il primo grado di
un percorso climactico che conduce alla apatheia e alla agriotes. Stephen
Newmyer ha fatto notare come riguardo al primo termine Plutarco
operi un processo di risemantizzazione rispetto a quella che, a partire
dagli Stoici, era diventata una accezione tecnica, nel campo della
filosofia, per indicare la liberazione dalle passioni e il raggiungimento
del pieno stato di razionalità che è tipico degli esseri umani20.
Ebbene, nella ridefinizione di Plutarco, il versare il sangue degli
animali non è più tanto da considerarsi come una generica liberazione
dai pathe (passioni), e dunque non è da intendere come un atto conforme
a logos, bensì come un gesto bestiale di generica insensibilità. In tal
20 NEWMYER 2006, 32: «It is highly significant, and completely in keeping with Plutarch’s
technique of using Stoic technical terms to refute Stoic doctrines, that Autobulus calls this
callous attitude towards animals a case of ἀπάθεια (apatheia), apparently in the meaning of
“insensibility” (959 D), although the Stoics had used the term to characterize the goal of their
ethical system, that freedom from the passions for which their devotees strove» (SVF III 201).
Una critica analoga alla apatheia degli Stoici si trova in Cic. de domo sua 97‑98 che denuncia come
l’assenza di passioni possa facilmente trasformarsi in stupor e in disumana indifferenza e insen‑
sibilità (cf. a tale proposito NARDUCCI 1997, 60).
200
PIETRO LI CAUSI
senso il secondo termine della coppia, agriotes (ferocia), definisce e
completa il primo21. L’uccisione degli animali, pertanto, è presentata
da Autobulo come un elemento degradante di bestializzazione del‑
l’uomo, che dal primo momento in cui versa il sangue di una specie
diversa dalla propria comincia a spogliarsi delle marche che lo caratte‑
rizzano come tale.
Il confronto con l’animale, in questo senso, opera come un dispositivo
antropopoietico di costruzione dell’umano, definendo, in negativo, i tratti
ideali per la realizzazione completa dell’anthropos che, in quanto tale,
deve mostrarsi indistintamente praos, ovvero “docile” con tutte le specie
viventi22. In questo senso, pur essendo presente all’interno del testo, la
distinzione fra animali domestici, docili e prossimi all’uomo da un lato
e animali selvatici e pericolosi dall’altro è meramente irrilevante per le
riflessioni che Autobulo sviluppa. L’uccisione del primo orso o del primo
lupo – osserva il protagonista del dialogo – può pure avere arrecato la
fama del primo cacciatore, e tuttavia, pur se giustificata, l’uccisione di
questi animali – e la stessa fama che ne consegue – non è esente dal mec‑
canismo dell’assuefazione alla vista del sangue. Al lupo e all’orso, infatti,
seguono cervi, lepri, caprioli e, infine, in una sorta di crescendo, gli
animali domestici e prossimi all’uomo come il cavallo e il cane.
Il cammino verso la violenza e la reificazione delle specie viventi
procedono così per cerchi concentrici dalla classe degli animali più
lontani dall’uomo per passare a quelli più vicini o innocui e poi, infine,
arrivare all’uomo stesso. Il modello plutarcheo della genesi della
violenza si innesta, pertanto, all’interno di un altro modello culturale
ampiamente diffuso nel mondo antico almeno a partire dal V sec. a.C.,
che è quello della scala naturae, ovvero quella idea in base alla quale è
possibile pensare l’insieme degli oggetti presenti in natura come una
scala ascendente di perfezioni23. Questo modello non solo si rivela fun‑
21
Sulle funzioni della polarità domestico/selvatico nelle classificazioni greche, cf. ZUCKER
2005, 341 ss., il quale ha sottolineato la “culturalità” di tali categorie, atte a descrivere e isolare
gli animali in una distinzione assiologica che cela implicitamente giudizi di valore (negativo
per il selvatico, positivo per il domestico).
22
DE FONTENAY 1997, 281 ss. sull’ideale della praotes in Plutarco.
23
P. D’Angelo, s. v. scala naturae, in Paolo D’Angelo, Scala naturae, in Dizionario degli
Studi Culturali: http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/storia_delle_idee_body. html).
Il modello della scala naturae è stato formulato, per la prima volta, in un saggio di LOVEJOY
(197613) più volte ristampato.
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 201
zionale per spiegare diacronicamente la genesi degli istinti violenti,
ma permette anche di pensare, per analogia, a quella che è l’escalation
di episodi di violenza politica come quelli che hanno portato alla deriva
del regime dei Trenta.
Bestializzazione, umanizzazione: il pitagorismo “moderato” di Plutarco
Come ho cercato di sottolineare in un mio recente studio ancora in
corso di pubblicazione, l’uomo e l’animale vengono collocati da Plutarco
in sfere estremamente contigue sul piano ontologico e biologico, al
punto che è possibile parlare di veri e propri meccanismi di interscambio
simbolico secondo i quali, laddove da un lato agli animali si attribuiscono
tratti specifici dell’antroposfera, dall’altro gli uomini vengono in parte
pensati, secondo una tradizione risalente alla filosofia presocratica,
come animali a tutti gli effetti24. L’uomo plutarcheo, in tal senso, è una
sorta di ibrido, costituito da una componente ferina e sanguinaria
(ὅσον <ἔν>εστι τῇ φύσει φονικὸν καὶ θηριῶδες) e da una “addome‑
sticata” e civile che viene indicata come maggioritaria (τοῦ δ’ἡμέρου
τὸ πλεῖστον)25.
Il cammino verso la violenza, in questo senso, viene visto da
Plutarco come una progressiva erosione della parte “addomesticata”
e più pienamente umana (hemeros) e dunque come una progressiva
metamorfosi dell’uomo in fiera, laddove invece, secondo gli insegna‑
menti di Pitagora, è anche possibile, come via di uscita, compiere il
cammino inverso: se lo spargere sangue animale porta a poco a poco
alla reificazione degli stessi esseri umani, al contrario, il rispetto e la
cura (melete) di tutti gli esseri viventi, compresi gli animali non umani,
porta alla philanthropia e alla compassione.
Secondo un’interpretazione del tutto originale del pitagorismo26,
dunque, costruirsi come umani, significa per Plutarco de‑bestializzarsi,
24
LI CAUSI 2009‑2010, 47 ss. e LI CAUSI 2008, 43 ss.
959 E 9 e 959 E 10‑F 1.
26 È da notare che ogni volta che parla dei Pitagorici, Plutarco non fa mai riferimento, in
questo dialogo, alla dottrina della metempsicosi. Ne viene fuori dunque una versione, per così
dire, “razionalizzata” e monca del pitagorismo (il cui centro di attenzione non è mai l’animale
in sé, ma l’animale in quanto ex‑uomo). Cf. a tale proposito NEWMYER 2006, 20 ss.
25
202
PIETRO LI CAUSI
laddove invece nella violenza la bestializzazione, unita alla reificazione
del vivente, opera sempre, al contempo, come esito e come causa: è
esito perché disumanizza, rendendolo simile alle bestie feroci, l’uomo
che la esercita; è causa perché la componente psicologica che la innesca
parte dall’assuefazione e dal presupposto che le vittime, previamente
ferinizzate e reificate, possano essere viste alla stregua di bestie e
subire lo stesso trattamento che viene loro riservato o per punirle o
per debellarle.
In questo senso, se da un lato, secondo quanto avviene in molte
culture, il modello plutarcheo di costruzione dell’umano è pensabile
come un percorso di progressiva epurazione dell’animalità27, dall’altro
lato lo spogliarsi della componente ferina al contempo si accompagna
ad una pertinentizzazione e ad una valorizzazione della relazione e
della “coniugazione” con gli stessi animali, che vengono pensati come
possibili partner perfettamente associabili nell’ambito della comunità
degli umani.
Ciononostante, il pitagorismo di Plutarco è, oltre che sui generis,
moderato: non solo è in alcuni casi possibile il consumo di carne28, ma
talvolta è anche necessario uccidere gli animali. A tale proposito, non
appena Soclaro ha appena finito di ripetere il luogo comune secondo
cui non è possibile intrattenere rapporti di giustizia con gli animali (6,
963 F 4 ‑ 964 C 1), Autobulo risponde, proprio citando Pitagora, che
esiste in fondo una via di mezzo fra il rispettare tutte le forme di vita
e il considerarle tutte alla stregua di oggetti inanimati29:
«esiste però un’alternativa confortevole e idonea, che non priva della
ragione gli animali e al tempo stesso non intacca la giustizia di coloro
27
MARCHESINI 2007, 133.
Cf. n. 13.
29 Cf. ad es. 3, 960 C 4 ss., dove Plutarco spiega che fra irrazionale e razionale c’è una
categoria di mezzo: irrazionali sono le cose inanimate (come ad esempio le pietre), in mezzo ci
stanno gli animali e quindi, all’estremo gli uomini, pienamente razionali. Anche se Plutarco
non lo dice esplicitamente, bisogna sottolineare come una classificazione di questo tipo, che
traccia una linea di demarcazione fra le cose da un lato e gli esseri animati dall’altro, è una base
per la dimostrazione dell’impossibilità logica della reificazione: se gli animali non sono cose,
allora non possono essere trattati come cose. Bisogna altresì notare come questo modello gra‑
dualistico presenti alcuni punti di consonanza con le teorie aristoteliche sulle funzioni intellettive
animali viste come “analoghe” rispetto a quelle umane (BECCHI 2000, 209; LABARRIÈRE 2005, 11
ss.; 85 ss.; 225 ss.). Sui punti di divergenza fra Aristotele e Plutarco comunque cf. LI CAUSI 2009‑
2010, n. 14.
28
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 203
che si servono di essi in modo conveniente. Questa ipotesi, introdotta
dagli antichi saggi, fu poi bandita e sradicata poiché l’ingordigia si
associò a un tenore di vita rilassato. Pitagora, però, la introdusse
nuovamente, insegnando a trarre vantaggio dagli animali senza com‑
mettere ingiustizia: non sono ingiusti, infatti, coloro che puniscono
e ammazzano gli animali selvatici e veramente dannosi, mentre addo‑
mesticano quelli mansueti e amanti dell’uomo e ne fanno dei colla‑
boratori nelle occupazioni, per le quali ciascuno di essi gode di buone
predisposizioni naturali, vale a dire.
“Gli stalloni di cavalli e di asini, e la prole dei tori”.
Al loro riguardo, il Prometeo di Eschilo asserisce di “averli dati”
a noi.
“Perché fungano da schiavi e si assumano le nostre fatiche”.
E così adoperiamo i cani come animali da guardia e conduciamo
al pascolo capre e pecore, che siamo soliti mungere e tosare. Non
risulta di certo annullato l’atto di vivere, né la vita si estingue per gli
uomini, se essi non hanno a disposizione piatti di pesci e fegato
d’oca, se non ammazzano buoi e capretti per i loro conviti, e se,
oziando nei teatri e sollazzandosi nelle battute di caccia, non costrin‑
gono alcuni animali a osare audaci imprese e a combattere contro la
loro volontà, e non ne eliminano altri, che per natura non sono
neppure in grado di difendersi. Ritengo infatti che chi si diverte e si
ricrea debba trovarsi con esseri che condividono il suo divertimento
e provano gioia: e non, come diceva Bione, osservando i fanciulli
colpire per gioco le rane con le pietre, mentre le rane non muoiono
per gioco ma per davvero» (7, 964 E 7 ‑965 B 3).
Le risposte – in parte anacronistiche – di Plutarco
Anticipando di molti secoli le posizioni di alcuni animalisti contemporanei,
Plutarco, a prima vista, avrebbe dunque risposto ai miei paralizzanti
dubbi estivi dicendo che avrei dovuto fermare il nonno di F. mentre si
apprestava a strappare al povero granchio le sue chele; tanto più che, al
mio ritorno dalle vacanze, non appena ho potuto consultare uno straccio
di enciclopedia, ho scoperto che i granchi «sono considerati animali rela‑
tivamente evoluti […] e possiedono un sistema nervoso relativamente
complesso»30. Pertanto, qualunque cosa significhi il termine “relativa‑
30
Per la cronaca, ho preso le mie informazioni da http://it.encarta.msn.com.
204
PIETRO LI CAUSI
mente”, benché le sue chele gli vengano strappate per gioco, come
avviene nel caso delle rane di cui parla il moralista di Cheronea, non è
per gioco che il granchio prova dolore: lo prova veramente!
Nell’ottica del De sollertia animalium quella che il povero crostaceo
marsalese ha subito è stata quindi una vera e propria violenza. Proba‑
bilmente il nonno di F. non era pienamente consapevole di ciò che
stava facendo e stava semplicemente, e meccanicamente, replicando
un programma di azione appreso da tanti altri occasionali cacciatori
di granchi della zona; cacciatori come, immagino, suo padre o il padre
di suo padre. A Marsala, in fondo, uno dei passatempi domenicali pre‑
feriti che alcune famiglie si trasmettono di generazione in generazione
di padre in figlio è proprio quello di andare a caccia di crostacei sulla
riva dello Stagnone31. So poi bene che esistono, nel dibattito contem‑
poraneo sui diritti degli animali alcune posizioni, come quella del
filosofo e polemista neoconservatore Roger Scruton, secondo cui la
caccia e l’uccisione degli animali può (a mio avviso discutibilmente)
non considerarsi violenza quando avviene secondo determinate regole
e rinsalda e rafforza la nostra sensazione di fare parte di una comunità32.
Questo è quello che accade, ad esempio, nel caso della caccia alla volpe
e, in fondo, questo è quello che è accaduto, più o meno analogamente,
in quel giorno di agosto nella spiaggia marsalese. C’erano gruppi di
uomini che non si erano mai visti prima d’ora che celebravano una
sorta di rito di comunione e di affratellamento: cacciare i granchi, per
loro, non era in fondo soltanto un semplice trastullo balneare, bensì
un eccezionale occasione sociale che permetteva a tutti i partecipanti
di riconoscersi come facenti parte della comunità degli umani e, insieme,
per rinsaldare il legame fra le generazioni attraverso l’ostensione ai
più piccoli, per il loro diletto, delle prede animali.
31
Benché io sia marsalese, dal momento che mi sono ritrovato a passare tutte le estati
della mia vita da ragazzo a Calatafimi, devo in realtà questa informazione a Natale Saladino,
che di tanto in tanto va a caccia di granchi nelle domeniche di estate assieme ai suoi figli, che
hanno uno 14 e l’altro 17 anni.
32 SCRUTON 2008, 117 ss., spec. 125: «Nella competizione tra l’uomo e la sua preda c’è un
significato sociale intrinseco, un richiamo, un riaffiorare a livello consapevole dell’appannato
ricordo della vita tribale». Le dinamiche psicologiche di posizioni analoghe a questa (anche se,
a dire il vero, più estreme e patologiche) sono state tuttavia analizzate da MIDGLEY 1985, 16 s.,
che vede in esse all’opera costruzioni autoingannevoli di pattern narratologici in cui l’animale
è costruito come “antagonista”.
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 205
Continuo però a chiedermi se, per fare avvicinare i piccoli degli
umani al mondo dei crostacei, sia realmente necessario – a meno che
non li si voglia mangiare –33 menomarli. In fondo gli occupanti degli
ombrelloni più distanti, che erano riusciti con il semplice uso di una
paletta e di un secchiello a catturare il primo granchio della mattinata,
dimostrano che sarebbe stato possibile mostrarne un esemplare integro
al piccolo Matteo!
So bene – lo ripeto – che il mio atteggiamento potrebbe essere visto
come inutilmente sentimentalistico ed emotivo34, e tuttavia, come
insegna una antesignana nel campo degli animal studies come Mary
Midgley, le emozioni e gli scandali che esse suscitano, quando sono
sinceri, associati al pensiero, e quando non nascono da forme inadeguate
di autocompiacimento, sono il motore del senso morale in sé35. È infatti
dalla materia grezza delle emozioni che, oltre che legami, «si sviluppano
scrupoli reali, e finalmente principi etici» che «non potrebbero esistere
senza quel fondamento»36.
A tale proposito, Roger Scruton, che pur senza mai citarla esplici‑
tamente sembra conoscere bene le riflessioni della Midgley sull’etica
emozionale, distingue fra le emozioni “reali” e le emozioni “sentimen‑
talistiche”, specificando che «un’emozione sentimentalistica è una
forma di consapevole messa in scena poiché per la persona troppo
“sentimentale” l’importante non è l’oggetto dell’emozione, bensì se
stessa, il soggetto che la prova»37.
«L’amore si focalizza su un altro individuo […]» – continua Scru‑
ton –, mentre «l’amore “simulato” del sentimentale non va oltre il Sé
33
Sia detto per inciso: benché sia strenuamente convinto della necessità di un comporta‑
mento “umano” nei confronti degli animali, penso tuttavia che, come recita il bugiardino di
copertina del libro di SCRUTON 2008, «il problema con i “diritti degli animali” è… farli rispettare
dagli animali stessi». E, in quanto animale, io stesso non so quanto riuscirei a resistere alla ten‑
tazione – l’istinto? – di mangiare un gambero o un granchio, soprattutto se ben cucinato.
34 Cf. ad es. la reprimenda di SCRUTON 2008, 68 (che tuttavia non è esente, a mio avviso,
da qualche eccesso retorico): «Comportarsi con sentimentalismo nei confronti degli animali,
farne oggetto di attenzioni smodate – e in qualche modo di cattivo gusto – può sembrare a
molti l’epitome della bontà di cuore. Di fatto, è spesso vero il contrario: è un modo di godere il
lusso di calde emozioni senza il normale prezzo da pagare provandole davvero; di evitare di
rivelare un temperamento insensibile facendo di una vittima innocente il bersaglio di un amore
simulato che essa non è in grado di rifiutare o criticare».
35 Cf. le affascinanti e convincenti riflessioni in proposito di MIDGLEY 1985, 35 ss.
36 MIDGLEY 1985, 46.
37 SCRUTON 2008, 100.
206
PIETRO LI CAUSI
e dà priorità ai suoi stessi piaceri e dolori, oppure inventa per se stesso
un immagine gratificante dei piaceri e dei dolori del suo oggetto:
sembra dolersi della pena dell’altro, ma non ne è veramente rattristato,
poiché – sebbene segretamente – le persone sentimentali gradiscono
di quel dispiacere dell’altro che li spinge alle lacrime. È un’altra scusa
per un nobile gesto, un’altra occasione per contemplare l’immagine di
un Sé magnanimo»38.
Questa distinzione fra emozioni reali ed emozioni simulate, tuttavia,
mi sembra fin troppo sottile. In fondo, come è possibile per un soggetto
che prova un’emozione capire se è reale o se la sta “simulando senti‑
mentalisticamente”? E, ad esempio, come è possibile che una persona
ami un’altra persona senza al contempo amare se stessa?
A mia discolpa, posso solo dire che l’emozione che ho provato
mentre il nonno di F. strappava le chele al granchio è stata di reale e
totale empatia nei confronti di quel singolo animale che era lì, in quel
momento, davanti a me. Ho immaginato, antropomorficamente, il suo
dolore all’atto dell’essere smembrato come se fosse il mio39, e come
conseguenza di questo dolore immaginato, sono stato indotto, nelle
ore estive in cui i miei bambini dormivano il pomeriggio, a riflettere,
leggere e cercare di capire se il mio scrupolo potesse avere un fonda‑
mento razionale e se potesse in qualche modo modificare i miei com‑
portamenti in futuro. Nella fattispecie, quello che accadrà è che, pro‑
babilmente, continuerò a mangiare i granchi nel couscous, e tuttavia
mi sa che non permetterò più che vengano inutilmente menomati o
uccisi per mero diletto. In questo Plutarco potrebbe essere d’accordo
con me (anche se probabilmente mi chiederebbe – se veramente voglio
diventare un “filosofo” – di rinunciare anche a mangiare la polpa dei
crostacei e la carne di tutti gli altri animali)40: in alcune circostanze
umanizzare gli esseri non umani, anziché “bestializzarli” e reificarli,
in fondo non soltanto è un segno di rispetto nei confronti delle specie
38
SCRUTON 2008, 100.
Sono particolarmente degne di interesse le riflessioni della MIDGLEY 1985, 137 ss. sul‑
l’antropomorfismo, visto – entro certi limiti – come strumento cognitivo legittimo per tutte
quelle funzioni biologiche che possono realisticamente essere paragonate a quelle umane.
40 La carne è sempre indicata da Plutarco come opson, ovvero come pietanza inutilmente
ricercata e che è possibile evitare: cf. De sollertia animalium 7, 965 A 3‑9; Bruta animalia ratione uti
8, 991 C 10 ‑ D 7; De esu carnium 1, 1, 993 A 1 ss.; 2, 994 B 3‑7; 5, 995 B 10 ‑ C 10. Cf. DEL CORNO
2001, 236 n. 16.
39
GRANCHI, UOMINI E ALTRI ANIMALI. LA GENESI DELLA VIOLENZA NEL DE SOLLERTIA ANIMALIUM … 207
diverse dalla nostra, ma anche – per dirla con Plutarco – un utile
esercizio per educarsi alla compassione e alla filantropia.
Il punto è che però, se in alcuni tratti, la riflessione del moralista di
Cheronea anticipa molti argomenti che sono tipici dell’animalismo
contemporaneo41, non è così facile attualizzare sempre e comunque il
suo insegnamento. Il rischio che si corre, dietro il paravento delle
analogie e delle consonanze, è quello di incorrere, infatti, in inopportuni
anacronismi.
Innanzitutto, il quadro epistemologico all’interno del quale opera
il moralista di Cheronea è ancora quello pre‑darwiniano della storia
naturale antica. Come si è già avuto modo di accennare, gli animali,
per Plutarco, benché ontologicamente e biologicamente contigui, non
hanno alcun reale rapporto evoluzionistico di parentela con gli umani.
Plutarco accetta in fondo che il mondo dei viventi possa essere suddiviso
per sfere concentriche e disposto su diversi livelli progressivi di perfe‑
zione. Benché l’antroposfera plutarchea sia costruita in relazione coniu‑
gativa con la zoosfera, e benché ci siano diverse aree di sovrapposizione
che permettono talvolta di pensare le differenze fra gli umani e gli ani‑
mali in termini di soglia piuttosto che in termini di confine42, l’ideale
antropocentrico che uniforma di sé tutto il mondo antico non è mai,
pertanto, seriamente intaccato43.
Il mondo dei viventi viene dunque pensato in termini di maggiore
o minore prossimità rispetto a quel centro valoriale e biologico che è
la sfera umana. E tale prossimità o lontananza non sono mai pensate,
da Plutarco, in termini genealogici. È per questo che il pitagorismo
moderato del moralista di Cheronea, così legato, in fondo, all’idea
della scala naturae, non può che macchiarsi di un male comune a certo
animalismo contemporaneo d’accatto che consiste nel “favoritismo di
specie”, ovvero in quell’atteggiamento in base al quale «quelle specie
41
NEWMYER 2006, passim.
Cf. ad esempio il caso di reversibilità dall’umano all’animale che, sia pur sotto l’ombra
della finzione, è presentato dal caso del Grillo del Bruta animalia ratione uti, su cui LI CAUSI
2009‑2010, 47 ss.
43
In questo senso il modello della “teriofilia” elaborato da BOAS 1935, 389 ss.; BOAS 1973,
384 ss. (e successivamente sviluppato da GILL 1969, 401 ss. e CHAPOUTIER 1990, 261 ss.) è da sot‑
toporre, almeno in riferimento a Plutarco, a pesanti modifiche: il fatto che gli animali possiedano
forme di ragione, infatti, non diventa mai un argomento di superiorità rispetto agli uomini (cf.
ad es. NEWMYER 2005, 12, o anche BECCHI 2000, 217; LI CAUSI 2009‑2010, 54 ss.).
42
208
PIETRO LI CAUSI
che più contribuiscono alla nostra felicità domestica – cani, gatti e
cavalli […] – sono destinate ad avere un trattamento preferenziale»44 a
discapito di alcune specie che, percepite come distanti o disgustose,
svolgono comunque il loro ruolo nel mantenimento dell’equilibrio
naturale45.
In tal senso la distinzione che Plutarco fa tra animali domestici e
animali selvatici non può che perdere il proprio senso, dal momento
che oggi, in un’ottica ecosistemica, «i nostri obblighi morali nei confronti
delle creature che abbiamo rese dipendenti da noi non sono diversi da
quelli verso gli animali selvatici»46. In un contesto epistemologico in
cui la natura non è più pensabile come un’entità da domare e sconfiggere,
abbiamo il dovere di proteggere l’habitat anche delle specie “lontane”
da noi e, ovviamente, se non i singoli esemplari, le specie stesse.
In questo, paradossalmente, Plutarco, che pure vede nella bestia‑
lizzazione la radice della violenza, rischia di fornirne paradossalmente
una facile giustificazione. In base a cosa possiamo stabilire se e quali
animali sono effettivamente dannosi al punto da giustificarne l’abbatti‑
mento o l’eliminazione? È ovvio che, in un’ottica ecosistemica, una
domanda del genere non ha senso, dal momento che è possibile – come
ad esempio avviene nei parchi nazionali e nelle riserve protette –
effettuare l’abbattimento selettivo di alcuni individui al fine di preser‑
varne la specie47. In un’ottica meramente simbolica, tuttavia, come
sanno bene gli antropologi e i sociologi che hanno studiato i meccanismi
del razzismo e della pseudospeciazione48, c’è sempre un nemico bestiale
da abbattere o comunque allontanare perché pericoloso o, come un
granchio che pizzica, fastidioso.
È all’interno di questa logica, che, in fondo, per evitare la violenza,
si potrebbe dare ascolto, più che a Plutarco, ai nostri bambini e alle
nostre emozioni; cosa, questa, che mi pento di non avere fatto con il
nonno di F.
44
SCRUTON 2008, 4.
SCRUTON 2008, 4 s. cita ad esempio il caso dei roditori o degli insetti come le pulci e le
locuste, le cui forme di vita animale «che ci sono più sconosciute […] non sono, nello stesso
modo, candidate a entrare nelle nostre preoccupazioni morali. Ci interessano principalmente
in quanto specie; ma solo raramente come singole creature» (p. 5).
46
SCRUTON 2008, 98.
47
Cf. ad es. SCRUTON 2008, X e 122.
48
Cf. n. 4.
45
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Indice tematico
A
Abbrutimento 87
Agrios/selvaggio 3‑5, 5 (n. 15), 8‑11, 13, 15,
21, 29, 30 (n. 54), 31 (n. 63), 38, 39, 59
(n. 79), 80, 81, 84 (n. 25), 103, 104, 145,
155, 159, 171, 172, 198, 209 (n. 1), 227,
243
Agriotes 198‑200
Aidòs 8, 11, 12, 16, 28 (n. 41), 40, 145
Akrasia 242, 242 (n. 27)
Akroteriasmòs 128 (n. 29), 129 (n. 32)
Alalagmòs 58, 143, 145
Alastos/alestos 63, 63 (n. 2), 66 (n. 18 e 22),
67, 67 (n. 27), 69, 69 (n. 42)
Alastor/alastoros/elasteros 47 (n. 13), 63‑67,
63 n. (1 e 2), 66 (n. 18 e 22), 68 (n. 38),
69‑76, 69 (n. 39, 41 e 42), 70 (n. 45, 48
e 49), 73 (n. 63 e 65)
Alienazione 272, 274
Aliterioi 65, 65 (n. 14)
Alitroi 65
Allelofagia 4
Alogos 31 (n. 63), 194 (n. 11)
Alterità 2‑4, 24 (n. 15), 76, 147, 151 (n. 20),
156, 159, 162, 230, 268
Anathema 105, 107
Androfagi/androphagoi 5 (n. 15), 81
Animale/animalità/animalizzazione 2‑4, 9,
11, 11 (n. 25), 12, 22‑24, 23 (n. 12 e 13),
28, 29 (n. 44), 30, 30 (n. 54), 31‑39, 33 (n.
69), 34 (n. 70), 35 (n. 75), 36 (n. 83, 84,
85, 86 e 87), 37 (n. 88 e 89), 39 (n. 96),
43, 44, 44 n. (112 e 113), 46, 50‑52, 54,
55, 55 (n. 52), 57, 58, 61, 81‑87, 84 (n. 26
e 27), 85 (n. 29, 30 e 31), 88 (n. 36), 107,
109 (n. 62), 113, 115 (n. 73), 134 (n. 52),
165, 173‑175, 174 (n. 30), 179, 186, 189‑
196, 191 (n. 2), 192 (n. 3), 193 (n. 8), 194
(n. 11), 196 (n. 14), 198‑209, 199 (n. 20),
200 (n. 21), 201 (n. 26), 202 (n. 29), 204
(n. 32), 205 (n. 33 e 34), 206 (n. 40), 207
(n. 42 e 43), 208 (n. 45), 209 (n. 1), 211‑
213, 212 (n. 6), 213 (n. 7 e 10), 217‑225,
218 (n. 29), 220 (n. 40), 227, 231, 231 (n.
83), 235, 236, 240, 243, 246, 247, 249, 252,
257‑262, 267, 272, 273, 276, 279
Antifunerale 10
Antropofagia 5 (n. 15), 81‑83, 222 (n. 52),
228, 228 (n. 68)
Antropopoiesi 1, 6, 7, 163 (n. 49), 257‑260,
262‑266, 271‑276, 279, 280
Apatheia 198, 199, 199 (n. 20)
Apprendimento 261, 262
Asebeia 105, 155 (n. 26)
Assassino 47, 64‑66, 65 (n. 14), 69‑72, 70 (n.
45), 71 (n. 53), 72 (n. 54), 73‑76, 76 (n.
76), 105, 129 (n. 33), 145 (n. 6)
Atrocità 6, 121, 142, 151
Autoalterazione 268, 269
Avversario, vd. Nemico
B
Baccanti/baccante di Ade/bakcheios/bak‑
chos/Menadi/menadismo/mimallones
47, 47 (n. 13), 49 (n. 22), 50‑52, 51 (n.
29), 54, 54 (n. 44 e 46), 55, 60, 73, 241
(n. 25), 246‑249, 247 (n. 42), 253, 254
(n. 67)
310
Belva/bestia/bestiale/bestialità/bestializza‑
re/bestializzazione/imbestiamento/im
bestiarsi/de‑bestializzarsi 3‑5, 10‑13,
19, 21, 24, 28, 28 (n. 43), 29, 31‑34, 34
(n. 74), 35 (n. 75), 36‑46, 39 (n. 94), 48,
49, 61, 77‑81, 83‑88, 84 (n. 25), 85 (n.
29), 96, 104, 111, 115, 117, 122 (n. 4),
123 (n. 7), 124, 144, 146, 151, 153, 162,
190, 192, 193, 196, 199‑202, 206, 208‑
222, 213 (n. 8 e 10), 218 (n. 29), 223 (n.
54), 224‑233, 228 (n. 67), 229 (n. 72),
235, 240, 257‑260, 262, 263, 265‑267,
271, 272, 278, 280
Biaiothanatoi 64
Bie 6, 11, 50, 53, 165
C
Caccia/cacciatore 31, 46 (n. 5), 60 (n. 88),
126, 127, 156, 192, 195‑200, 197 (n. 16),
198 (n. 19), 203, 204, 204 (n. 31), 209
(n. 1), 224
Cadavere 8‑10, 12, 51 (n. 32), 93, 121, 122
(n. 6), 125, 126 (n. 20 e 24), 127‑129,
128 (n. 28), 142‑146, 143 (n. 4), 146 (n.
8), 155, 209 (n. 1), 228
Cagne/cane 2, 9, 10, 30 (n. 54), 46 (n. 6 e
7), 54, 67 (n. 30), 82, 85, 106 (n. 47),
110, 199, 200, 203, 208, 219, 220, 220
(n. 33)
Cannibale/cannibalismo 1‑7, 9‑18, 81, 83,
84, 228, 230, 232
Carne/carnivorismo 2‑4, 5 (n. 15), 9, 10, 14‑
16, 38, 42, 47 (n. 13), 51 (n. 30), 80‑83,
173, 194, 195, 195 (n. 13), 199, 202, 206,
206 (n. 40), 212 (n. 6), 213 (n. 10), 230,
249, 258
Castigo, vd. Pena
Chere 48, 48 (n. 18)
Collera, vd. Ira
Colpa/colpevole/colpevolezza 41, 45 (n. 3),
64, 65, 69, 70 (n. 45), 73‑75, 96, 96 (n.
20), 102, 104 (n. 43), 113, 117, 119, 122
(n. 4), 124 (n. 11), 219, 222, 239, 245,
246, 254, 278
Conflitto, vd. Contesa
Contaminazione, vd. Miasma
Contesa/conflitto/neikos 17, 26, 34, 35, 40,
41, 56 (n. 57), 57 (n. 62), 101, 122 (n.
3), 124, 125, 139, 140, 147, 151 (n. 19),
165‑167, 167 (n. 6), 175, 176, 177 (n.
INDICE TEMATICO
40), 178‑180, 185, 187, 188, 230, 275,
277, 278, 280
Corpo 3, 6, 10, 30 (n. 54), 31, 38, 43 (n. 111),
52, 70, 76, 84 (n. 25), 86, 94 (n. 15), 99,
104, 109 (n. 62), 112, 114, 122 (n. 4),
125, 126 (n. 24), 129, 143, 146, 150, 151,
162, 173, 192, 196, 211, 212 (n. 6), 217,
223 (n. 54), 235, 236 (n. 5), 242, 251,
265, 274
Cosificazione 260, 266
Crimine 66, 75, 150, 227, 235 (n. 3), 237 (n.
10), 239
Crudelitas/crudeltà 20 (n. 1), 30, 90, 92 (n.
6), 93, 94 (n. 15), 102, 104‑106, 116, 166
(n. 75), 118, 121, 122, 123 (n. 7), 128,
130 (n. 35), 131, 134, 139, 140, 143, 145,
147, 150, 154, 155, 212 (n. 6), 222, 227‑
229, 245, 255
Crudivoro/crudo 4, 6, 9, 11 (n. 28), 12, 14,
16, 17, 29, 30 (n. 52), 32, 38, 42, 47 (n.
13), 51 (n. 30), 80‑83, 82 (n. 18), 104,
212, 213 (n. 10), 218, 249, 258
D
De‑bestializzarsi, vd. Belva
Deculturalizzazione 211
Defunto, vd. Morto
Degradazione 45, 85, 90, 96, 115, 117, 211,
212, 227, 230
De‑poteramento 266
Depravazione 78, 79, 84‑88
Deumanizzazione 21
Disordine 2, 84 (n. 25), 103, 165, 167, 168,
173, 185, 187
Disumanità/disumanizzante/disumanizza‑
zione 5, 13, 30, 33, 59, 95, 99, 104, 146,
156, 224, 228 (n. 67), 232 (n. 86), 260
E
Educazione, vd. Paideia
Elasteros, vd. Alastor
Eleos/pietà 7, 8, 10‑13, 13 (n. 29), 16, 20, 31,
32, 40, 88, 96, 101, 144, 156, 157, 199
Eniò 19
Ethos 6, 78 (n. 6), 125, 125 (n. 16), 143, 224
Erinni/Lyssades/Omobrotes/Poinai 24 (n. 19),
40, 47 (n. 13), 48 (n. 17, 19 e 21), 51 (n.
30), 54 (n. 42 e 43), 66, 66 (n. 19 e 20),
73 (n. 65)
311
INDICE TEMATICO
Eris 17, 166, 166 (n. 5), 167, 175, 177, 179,
181
F
Ferinità/feritas/ferocia 17, 20, 21, 28 (n. 43),
29 (n. 48), 31, 32, 34 (n. 73), 43, 85, 90,
122, 122 (n. 3), 123 (n. 7), 143, 143 (n.
4), 144, 145 (n. 6), 156, 167, 168, 187,
198, 200, 209 (n. 1), 213 (n. 7), 217, 220,
223 (n. 54), 225, 227, 228, 228 (n. 69),
230, 232
Follia, vd. Lyssa
Fraticidio 214
Furia/furore 7, 9, 10, 17, 22 (n. 11), 23, 25‑
26, 27 (n. 39), 35, 38, 42‑44, 43 (n. 111),
50, 52, 65, 95, 154, 156, 181, 228, 228
(n. 67), 229 (n. 71), 242, 249
G
Gorgone 29, 29 (n. 48), 47, 136 (n. 59)
H
Hostis, vd. Nemico
Hybris 25, 25 (n. 21), 89, 93, 115, 117, 150
I
Imbestiamento/imbestiarsi, vd. Belva
Impurità, vd. Μiasma
Incesto/incestuoso 222, 235, 239, 240, 242
Inimicus, vd. Nemico
Ira/collera/orghè 9, 17, 27 (n. 39), 28, 38, 39,
41, 52 (n. 35), 64, 65 (n. 14), 67, 68, 75,
75 (n. 72), 176, 180, 180 (n. 49), 221,
224‑226, 224 (n. 57 e 58), 225 (n. 60 e
61), 228, 228 (n. 69), 232, 241, 253
L
Lapidazione 122, 122 (n. 5 e 6)
Lyssa/follia/pazzia 19, 24 (n. 19), 25‑27, 26
(n. 28), 27 (n. 39), 45‑47, 45 (n. 1), 46
(n. 4, 5, 6 e 7), 47 (n. 11, 12, 13 e 15),
48‑50, 48 (n. 18 e 20), 52, 52 (n. 34), 53‑
55, 53 (n. 39), 54 (n. 41), 58, 58 (n. 73),
60‑62, 70, 73, 75, 79, 114 (n. 71)
Lyssades, vd. Erinni
M
Male/maledetto/maledizione 25, 35, 40, 58,
59, 66, 67, 84, 86, 88, 95, 153, 166, 175,
180, 207, 227, 242, 245, 249, 256
Malvagità 86, 87, 96, 117
Massacro 128 (n. 31), 133, 142, 143 (n. 4),
145, 147, 148, 148 (n. 12), 154
Mathesis 151, 153, 155
Menadi/menadismo, vd. Baccanti
Menos 9, 17, 27, 37, 43 (n. 111), 73 (n. 62)
Metis 6, 98, 98 (n. 25), 155, 156
Metus vd. Phobos
Miasma/miasmata/contaminazione/impurità
14, 14 (n. 31), 15, 65, 65 (n. 14), 66, 66
(n. 18), 69, 69 (n. 41), 70, 71, 72, 72 (n.
59), 73, 73 (n. 63 e 65), 75, 76, 117
Mimallones, vd. Baccanti
Misos/odio 9, 15, 17, 22 (n. 11), 29, 35, 39‑
41, 45, 47 (n. 10), 48 (n. 19), 52, 53, 55,
61, 65 (n. 14), 123 (n. 7), 141, 147‑151,
149 (n. 14), 159, 159 (n. 38 e 39)
Morto/defunto 9, 10, 30 (n. 54), 46, 61, 64,
64 (n. 8 e 10), 65, 65 (n. 14), 66 (n. 20),
67‑69, 67 (n. 30), 69 (n. 39), 70 (n. 44),
73, 73 (n. 62), 74, 81, 122 (n. 4), 130,
133, 144, 148 (n. 12)
Mostro/mostruosità 29, 32, 32 (n. 66), 45 (n.
2), 49, 55, 55 (n. 49), 168, 170, 181, 186,
219, 222, 223, 223 (n. 54), 235, 238
Mutilazione 126 (n. 24), 129, 146
N
Neikos, vd. Contesa
Nemico/avversario/hostis/inimicus 6, 8‑10,
12, 13, 15, 15 (n. 37), 16, 19, 21, 22, 22
(n. 11), 26‑28, 30‑32, 30 (n. 52), 34, 34
(n. 72), 35 (n. 75), 38, 40, 41, 44, 53, 67,
93, 102, 103, 115‑117, 123‑125, 123 (n.
7), 126 (n. 22, 23 e 24), 127‑129, 128 (n.
28), 135, 136, 141‑145, 146 (n. 7), 147‑
149, 149 (n. 15), 153, 160, 161, 163, 208,
212, 212 (n. 6), 214, 221, 228, 230
O
Odio, vd. Misos
Omestès, vd. Omobròs
Omicida/omicidio 13, 19, 27, 32, 38, 40, 42,
312
43, 49, 52, 55, 64‑66, 64 (n. 8), 65 (n.
14), 68 (n. 38), 69‑ 74, 71 (n. 53), 72 (n.
54 e 59), 73 (n. 65), 75 (n. 71), 81, 95,
107, 122 (n. 5), 176, 215, 215 (n. 21)
Omobròs/omestès/omodakes/omofagia/omo‑
phagos/omositos/omotes 3, 4, 9, 12, 14,
16, 29, 29 (n. 49), 30, 30 (n. 53 e 54), 31,
31 (n. 60, 62 e 63), 38, 42, 47 (n. 13), 51,
51 (n. 30), 81, 82, 102, 105, 132, 143,
144, 150, 151, 151 (n. 20), 154, 156
Orghè, vd. Ira
Orrore 2, 4, 13 (n. 29), 15, 112, 125, 144, 145
(n. 6), 152, 153, 239
P
Paideia/educazione 79, 82 (n. 18), 85‑87, 151,
152, 161, 194, 257, 260‑266, 271, 274‑
277, 280
Palamnaioi 65, 66, 66 (n. 17 e 18), 69 (n. 41),
71 (n. 53)
Parricida/parricidio 218‑220, 220 (n. 36 e
41), 222, 223, 223 (n. 54)
Paura vd. Phobos
Pazzia, vd. Lyssa
Pena/castigo 13, 64, 64 (n. 9), 75, 91, 95 (n.
18), 96 (n. 20), 109 (n. 62), 116, 124 (n.
11), 151 (n. 21), 206, 218, 219, 219 (n.
30), 220 (n. 41), 254
Pharmakon/pharmakòs 58 (n. 72), 76, 92 (n.
8)
Philanthropia 101, 149, 201
Philotes 166, 167 (n. 6), 174‑176, 174 (n. 30)
Phobos/metus/paura 14, 19, 22 n. 11, 32, 39,
48, 48 (n. 19), 52‑54, 54 (n. 46), 66 (n.
17), 73, 74, 114, 143, 153, 155, 230
Phonos 22, 23, 31 (n. 59), 34, 64 (n. 8), 70 (n.
49)
Pietà, vd. Eleos
Poinai, vd. Erinni
Prigioniero 47 (n. 13), 121‑ 125, 123 (n. 8),
124 (n. 10), 126 (n. 20), 127 (n. 26), 129‑
134, 130 (n. 35), 131 (n. 38), 132 (n. 40),
133 (n. 45), 134 (n. 47), 138‑140, 144,
146, 150, 151, 153‑158, 155 (n. 26)
Prostropaioi 65, 65 (n. 14)
Punizione 27, 57‑59, 59 (n. 76), 93, 95, 96,
96 (n. 20), 103‑105, 107, 111, 114‑117,
124 (n. 11), 167, 170, 210, 242, 258
Purezza/purificazione 13 (n. 29), 58, 59 (n.
79), 70‑72, 71 (n. 53), 105, 117, 119
INDICE TEMATICO
R
Rabbia 14, 17, 20, 22 (n. 11), 26, 30 (n. 54),
44, 46 (n. 6), 63, 65
Reciprocità 148, 151, 152, 152 (n. 22), 154,
159, 162, 261, 262
Reversibilità 152, 152 (n. 22), 154, 158, 159,
159 (n. 37), 162, 207 (n. 42)
Ricordo 66‑69, 67 (n. 27), 74‑76, 150, 168,
172, 204 (n. 32)
S
Sangue/sanguinarietà/sanguinosità 9, 12,
16, 17, 20 (n. 1), 31, 31 (n. 58), 34, 38,
40, 42, 49, 64, 66, 67, 70, 71, 71 (n. 53),
73 (n. 65), 94 (n. 15), 123 (n. 8), 125,
128 (n. 31), 134, 135, 144, 171, 198‑201,
215, 217, 219, 219 (n. 32), 221, 223, 223
(n. 54), 227, 228 (n. 67 e 69), 229, 229
(n. 71), 230, 239, 247, 254
Selvaggio, vd. Agrios
Sevizia 104, 129 (n. 33), 212 (n. 6)
Sgozzamento/sgozzare 44, 103, 121, 124,
124 (n. 10), 130, 131, 131 (n. 38), 133
Sparagmòs 51 (n. 29), 247
Strage 7‑11, 22, 31, 45, 46, 47 (n. 15), 49, 52,
53, 61, 62 (n. 93), 128 (n. 31), 143, 145
(n. 6), 154, 172, 198, 227, 229
Straniamento 112, 112 (n. 70)
Sub‑umano 35, 213
Suicidio 124 (n. 11)
Supplice 13, 24 (n. 19), 25, 70, 71, 71 (n. 53),
124, 133
Supplizio 91‑93, 97, 98 (n. 27), 104, 112, 114,
115, 117, 118, 121 (n. 2), 124 (n. 11),
129, 129 (n. 33), 130 (n. 35), 131, 133,
157 (n. 31), 220 (n. 41)
T
Tecnofagia 5 (n. 15)
Terrore 48, 73, 74, 88, 103, 152
Theriotes 77‑ 79, 78 (n. 6), 83, 84 (n. 25), 85,
86 (n. 34)
Timoria, vd. Vendetta
Tortura 118, 129, 129 (n. 33), 143 (n. 4)
Trofeo 49 (n. 22), 121, 123, 125‑128 , 126 (n.
23), 131 (n. 37), 135, 136, 136 (n. 59),
140
INDICE TEMATICO
U
Umanità/uomo 1 ‑3, 5, 7‑9, 11‑13, 16, 19,
25‑27, 25 (n. 26), 29, 34, 35, 36 (n. 83 e
86), 37‑40, 37 (n. 88), 42, 47, 47 (n. 11),
50, 52 (n. 36), 57, 61, 62, 64‑66, 68‑70,
73, 74, 77‑79, 81‑88, 85 (n. 29), 100, 101,
103, 105, 109 (n. 62), 110, 115, 118, 122
(n. 4), 128 (n. 31), 130, 130 (n. 35), 133,
136, 145, 149 (n. 15), 154, 157, 158, 162,
163, 166, 171, 172, 175, 179, 181, 187,
189, 194 (n. 11), 195 (n. 13), 196‑204,
201 (n. 26), 202 (n. 29), 204 (n. 32), 207
(n. 43), 209, 209 (n. 1), 210, 212, 212 (n.
6), 213, 213 (n. 8 e 10), 217, 215, 217,
218, 218 (n. 28 e 29), 220‑233, 220 (n.
36), 223 (n. 54), 224 (n. 59), 231 (n. 79),
245, 254, 255, 257‑261, 263‑265, 272,
276, 279
V
Vendetta/vendicatore/timoria 16, 17, 19, 20
(n. 1), 29, 41, 46, 57, 60, 61, 63‑66, 65
(n. 14), 67 (n. 27), 68 (n. 38), 69, 73, 75,
313
93, 95, 102, 107, 116, 117, 123 (n. 7),
126 (n. 20), 150, 151 (n. 21), 153
Violenza 5‑7, 10 (n. 22), 12, 13, 15, 16, 18,
19, 23, 25, 28, 29, 30 (n. 54), 33‑35, 38,
42, 44‑46, 48‑50, 61, 63, 66, 68, 69, 73,
74, 76, 87, 94, 101, 102, 103 (n. 40), 104,
114, 116, 123 (n. 7), 124 (n. 10), 141‑
145, 145 (n. 6), 147, 149 (n. 15), 150‑
153, 151 (n. 21), 155, 155 (n. 28), 156,
162, 163, 165, 185, 187‑189, 191, 192,
192 (n. 4), 195‑197, 200‑202, 204, 208‑
217, 209 (n. 1), 210 (n. 2 e 3), 214 (n.
11), 220‑222 , 221 (n. 42), 224, 225, 227‑
229, 228 (n. 67), 229 (n. 71), 238, 239,
254, 255, 266, 272, 278
Vis 221, 221 (n. 42), 223 (n. 54)
Vittima/ucciso 3, 4, 6, 8, 9, 14, 16, 44, 42, 49
(n. 24), 51 (n. 32), 54‑56, 60, 61, 64‑67,
65 (n. 14), 68 (n. 38), 69, 73‑75, 82, 90,
91, 93 (n. 11), 94 (n. 15), 95, 96, 114,
115, 115 (n. 73), 117, 118, 121, 125, 127,
129, 131, 132, 133 (n. 45), 140, 140 (n.
70), 145, 151, 153, 154, 157, 171, 172,
182, 202, 205 (n. 34), 206, 212, 214 (n.
12), 226, 254
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