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VINCITORI O VINCENTI? - Ricreatorio San Michele

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VINCITORI O VINCENTI? - Ricreatorio San Michele
ALTA UOTA
Anno 7 Numero 36 edizione Maggio-Giugno 2011
Periodico bimestrale gratuito - Tiratura 1.000 copie - Registrazione Tribunale di Udine n. 15 del 15 marzo 2005
Il Ricreatorio San Michele è iscritto nel Registro
Regionale delle Associazioni di Promozione Sociale al n. 121
www. fvgsolidale.regione.fvg.it
Segreteria telefonica e fax: 0431 35233 Sito internet: www.ricre.org
Direttore responsabile: Andrea Doncovio Redattori: Simone Bearzot, Norman Rusin, Giuseppe Ancona, don Moris Tonso,
Sandro Campisi, Vanni Veronesi, Sofia Balducci, Christian Franetovich, Marco Simeon, Alessandro Morlacco, Manuela
Fraioli, Giulia Bonifacio.
Responsabile web: Riccardo Rigonat Responsabile marketing: Alex Zanetti Stampa: Goliardica Editrice, Bagnaria Arsa
Centro Giovanile di Cultura e Ricreazione “Ricreatorio San Michele” via Mercato, 1 - 33052 Cervignano del Friuli (UD) www.ricre.org
CENTRO ESTIVO
IN RICREATORIO!
DAL 13 GIUGNO INIZIA
‘DJ: UN RITMO
PER CAMBIARE’
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C R PERTE!
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LE GIÀ
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ANDREA DONCOVIO
CLAUDIA ROSSI p. 4
GIADA DIJUST p. 8
DON BANELLI p. 9
mortale sulla pista di Imola sconvolse il mondo. Il giorno
precedente, la morte del suo collega Roland Ratzemberger, sulla stessa pista e praticamente alla stessa ora, passò
quasi inosservata. Pochi mesi prima, Senna aveva visitato
una favela di San Paolo, nel suo Brasile. Alla stampa aveva confessato: «Sono qui perché spero che la mia fama
porti l’attenzione del mondo sulle condizioni di povertà
in cui vive questa gente». Di sicuro, la sua fama contribuì
a rendere più sicuro il suo sport: da quel tragico giorno in
Romagna, infatti, non si è più registrato alcun incidente
mortale in Formula 1.
Eppure la fama rischia di divenire la nemesi stessa dello
sport. Perché se è vero che quest’ultimo rappresenta lo
specchio della società, e la società attuale tende a rendere
merito solo ai vincitori garantendo esclusivamente a loro
prestigio e denaro, una domanda sorge spontanea: uno
sportivo cos’è disposto a fare per ottenere tutto questo?
La prima volta che mi posi seriamente questo interrogativo fu il 5 giugno 1999. Allora, bastò una semplice notizia a sgretolare un mondo di sogni e speranze, come da
sempre è quello sportivo. «Marco Pantani allontanato dal
Giro d’Italia per presunto uso di doping». Il Pirata, colui
che ci aveva stregato davanti alla tv mentre conquistava
Giro e Tour, avrebbe barato.
Perché?
Come me, in quei giorni tanti altri appassionati se lo chiesero ripetutamente. Ma se la risposta fuggì per sempre
con lui il 14 febbraio del 2004 nella stanza di un residence
di Rimini, quel quesito continua ancora oggi a moltiplicarsi. Perché indagini giornalistiche e studi medici fanno
emergere un fenomeno in drammatica crescita: l’abuso di
sostanze dopanti (o comunque alteranti la prestazione) in
ogni sport, ad ogni livello e ad ogni età.
Perché se non vinci, non sei nessuno.
Uno scenario sconfortante, che provo a scalzare con le
parole di Francesco Damiani, campione mondiale di pugilato agli inizi degli anni Novanta: «Bisogna sempre
distinguere tra vincitore e vincente. Il primo è colui che
vince qualcosa, il secondo è colui che trionfa sempre, anche quando perde, perché sa di aver dato il meglio di sé».
Se lo sport è la metafora della vita e della nostra società,
è da qui che bisogna ripartire.
LUIGI COSMI p. 10
Un cestista, un pilota, un ciclista e un pugile. Non è l’inizio di una barzelletta, ma di una riflessione. Quella
che questo numero di Alta Quota vuole proporre a 360
gradi sul mondo dello sport. Un universo sterminato in
cui convivono professionisti plurimiliardari e dilettanti
appassionati, giovani ambiziosi e persone alla ricerca di
una dimensione. Perché, parafrasando Jean Paul Sartre,
lo sport può essere considerato una metafora della vita, in
grado di sconquassare l’individuo tra successi inebrianti e
sconfitte laceranti, ma anche di offrirgli l’opportunità per
emergere e trovare il riscatto alla propria esistenza.
Pensieri che alla fine degli anni Sessanta un ragazzino di
Sebenico, nell’allora Yugoslavia (oggi Croazia), ancora
non faceva. Attorniato dalla miseria, rispetto ai suoi coetanei, aveva una fortuna: suo papà era il custode della
palestra cittadina e lui ogni mattina, prima di andare a
scuola, si intrufolava sul parquet, recuperava un pallone
da basket, e trascorreva un’ora a tirare a canestro. In quei
momenti di solitudine e di confronto con se stesso, Drazen Petrovic ancora non sapeva che sarebbe diventato «il
Mozart del basket», il più forte cestista europeo di tutti i
tempi. Un ragazzo partito dal grigio regno di Tito e sbarcato negli Stati Uniti d’America, dove grazie al proprio
talento ed alla propria determinazione riuscì a guadagnare
milioni di dollari e l’ammirazione del mondo, raggiungendo l’apice della carriera nello stesso periodo in cui la
sua terra d’origine veniva sconvolta da una sanguinosa
guerra fratricida. Eppure, sotto le bombe dell’artiglieria
di Belgrado, le notti del popolo croato ritrovavano sogni e
speranze grazie alle immagini provenienti dall’altra parte
del globo, dove il ‘loro’ Drazen, su un campo da gioco e
non in mezzo alle mine, a suon di canestri cantava la gloria di un’intera nazione. Un popolo che, mentre la guerra lentamente abbandonava i propri confini, il 7 giugno
1993 si ritrovò a piangere il suo eroe, vittima a 29 anni in
Germania di un incidente stradale. Un giorno che, ancora
oggi, viene commemorato come lutto nazionale.
Dentro alla sua auto trovò la fine anche Ayrton Senna,
secondo molti il più grande pilota della storia della Formula 1. Ai giornalisti che gli domandavano se provasse
mai paura svolgendo il suo mestiere, Senna era solito rispondere: «Ringrazio Dio perché mi ha dato la forza per
trasformare in un lavoro la mia passione: mi sento un privilegiato, perché ogni giorno posso fare la cosa che mi
diverte di più». Il primo maggio del 1994, il suo schianto
STEFANO FLORIT p. 2
VINCITORI O VINCENTI?
tutte le info
a pag. 12
di questo
numero!
luilei 83x26.pdf 15/02/2010 13.45.19
2
VOCI dal mondo
QUANDO UN COLPO DI TACCO VALE PIÙ
DELLA VITTORIA
Lo sport, i bambini, l’educazione e il fair-play
nell’esperienza di Stefano Florit
Come si fa a trasmettere a bambini e ragazzi il bello dello
sport attraverso l’insegnamento del calcio? Per STEFANO
FLORIT, strassoldino di 26 anni, questa domanda si è trasformata in una missione giornaliera.
in
uotattualità
- Stefano, raccontaci il tuo lavoro.
«Mi trovo sempre in difficoltà nello spiegare a parole il mio
‘lavoro’. A San Giorgio coordino l’Attività di Base, la fascia
della Scuola Calcio che va dai 5 ai 12 anni e comprende le
categorie dei Piccoli Amici (5-8), Pulcini (8-10) ed Esordienti
(10-12). In questo settore abbiamo circa 110 iscritti e le cose
da fare sono così tante che è difficile riassumerle, ma ci provo.
Da 3 anni sono responsabile dell’area tecnica: alleno i Piccoli
Amici, ad inizio stagione definisco gli organici e le guide tecniche di ogni squadra, imposto la programmazione annuale
con obiettivi e linee guida. Durante la stagione sono sempre
in campo per verificare l’andamento dell’attività. Oltre a questo, dirigo l’organizzazione dei dirigenti: i compiti da svolgere, dall’ordine e gestione dell’abbigliamento alla designazione arbitrale fino ad aspetti medici. Attraverso una riunione
settimanale con i responsabili di ogni squadra viene definito
quello che c’è da fare e da comunicare alle famiglie. Da 7
anni, la nostra Scuola Calcio viene riconosciuta dalla F.I.G.C.
con il livello di Qualificata - il più alto dei 3 esistenti - e deve
quindi assolvere a 14 requisiti, tra cui l’obbligo di stipulare
una convenzione con una Scuola Primaria (nella quale vado a
fare un progetto di educazione motoria) e l’organizzazione di
incontri formativi su temi vari quali psicologia, alimentazione, regolamento del calcio, prevenzione degli infortuni. Infine,
all’interno della F.I.G.C. settore Giovanile e Scolastico, sono
un collaboratore regionale».
- Entriamo nel vivo del tema. Lo sport si basa su una serie di
valori legati al fair play, la correttezza, il rispetto dell’avversario. Come si fa a insegnare queste cose a dei bambini?
«I valori che elenchi sono indispensabili non solo in campo,
ma anche nella vita, per diventare cittadini responsabili e rispettosi degli altri. Più che insegnati, direi che questi valori
vanno trasmessi e per questo, secondo me, si può intervenire
su due livelli.
Il primo è personale e riguarda le persone che operano con
i bambini tutti i giorni. Bisogna ricordare che i ragazzini
sono come degli scanner che registrano i comportamenti degli adulti: per questo motivo è importante che allenatori e
dirigenti condividano e trasmettano fair play, correttezza e
rispetto, ricordando sempre di avere a che fare con bambini,
non con adulti in miniatura.
Il secondo livello invece riguarda l’impostazione della società. Dai dati statistici, vediamo come solo un giovane giocatore
su 30.000 arriva al professionismo. Per questo motivo è obbligo delle società sportive lavorare per tutti: talenti, giocatori
medi che non diventeranno mai campioni, bambini che probabilmente smetteranno e che non dimostrano grandi propensione all’attività sportiva. Secondo me, il modo migliore per
trasmettere i valori dello sport è quello di evitare la selezione precoce. Dove possibile, l’ideale è formare le squadre per
anno di nascita, in modo da permettere a bambini con diversi
livelli di abilità di confrontarsi e aiutarsi. Nella fase evolutiva, le differenze di qualità sono spesso dettate da una precoce
maturazione biologica e per questo il giocatore che sembra
un fenomeno all’età di 8 anni non è detto che mantenga le
aspettative fino all’età adulta, perché prima o poi anche i suoi
coetanei cresceranno come lui. La selezione non ha senso prima dei 12 anni, momento fino al quale, al massimo, si può
intuire la propensione per uno sport piuttosto che per un altro.
L’Attività di Base è fondamentale per far capire l’importanza
dei valori su cui si basa lo sport; l’organizzazione della società
è un elemento importante per trasmetterli».
ALTA UOTA
- Quali sono invece le difficoltà più grandi nel trasmettere il
messaggio che vuoi dare loro?
«La difficoltà principale è contrastare la cultura del risultato
che dilaga nello sport degli adulti e che, inevitabilmente, tende a riflettersi nell’attività giovanile. Mi spiego: se vinci, sei
un bravo allenatore, giocatore o direttore sportivo; se perdi,
non vali nulla. Alleno da 8 anni e posso affermare con certezza che il bambino, di per sé, si interessa poco del risultato
e alla fine della partita tende a ricordare con felicità solo il
gol, l’azione, la parata o il colpo di tacco. Spesso gli adulti,
invece di chiedere “Ti sei divertito?”, chiedono “Cosa avete
fatto?” o “Hai
segnato?”,
mentre
l’attenzione andrebbe posta
seidonna.pdf
1 05/06/2011
22:36:21
sulla prestazione, sui miglioramenti e sul comportamento. Se
ci si fa condizionare da questa tendenza a esaltare il risultato,
anche il lavoro delle società rischia di indirizzarsi verso questo obiettivo. Devo ammettere che parecchie realtà regionali
lavorano in funzione del punteggio della partita piuttosto che
dell’insegnamento del gioco del calcio e della prospettiva a
lungo termine. È un aspetto su cui si deve lavorare ancora
molto. Una società dovrebbe lavorare come una scuola, dove
c’è una programmazione che nel rispetto delle fasi di crescita
accompagna il bambino nella sua formazione: tecnica, tattica,
fisica e soprattutto educativa. Niente può essere improvvisato
o lasciato al caso».
- Un anno e mezzo fa, due figure importanti del calco italiano e
della Figc come Arrigo Sacchi e Demetrio Albertini hanno presentato un decalogo per il rilancio dell’attività giovanile. Tra le
varie proposte, anche quella di togliere le classifiche a tutti i
campionati giovanili, in modo da ridare totalmente la priorità
alla crescita dei ragazzi. Che ne pensi?
«Fino alla categoria Esordienti, giustamente, non esistono né
classifiche né divisioni dei tornei per livelli di abilità. Dai giovanissimi in poi, credo che una differenziazione ci possa stare, anche per premiare chi lavora bene e chi effettivamente ha
qualità superiori. Più che togliere le classifiche, bisognerebbe
lavorare sull’approccio al risultato, perché la vera soluzione
del problema si può ottenere solo alla fonte, diffondendo una
corretta cultura sportiva. L’esito delle partite dovrebbe essere vissuto con serenità. Il calcio è uno sport di situazione, il
risultato è frutto di una serie di circostanze che non sempre
premiano il più forte o chi ha giocato meglio. Questo è un
punto su cui ci soffermiamo molto anche negli interventi che
facciamo con il Settore Giovanile e Scolastico».
- Le persone che ruotano attorno al mondo del calcio e ai
bambini – in particolare società e famiglie – sono più di aiuto
o d’ostacolo?
«Per quanto riguarda i genitori, la maggior parte sono d’aiuto.
La cosa più importante è spiegare alle famiglie, fin dal primo
giorno, ruoli e compiti di ogni figura che opera all’interno
della società. La difficoltà più grande sta nel riuscire a far
capire che allenatori e dirigenti operano nell’attività giovanile per passione. Il pagamento della quota annuale, che copre
solo parte delle spese della società, non permette di pretendere tutto e subito: vestiario, organizzazione e quant’altro. È
anche vero che le persone maleducate si trovano ovunque e
con queste spiegazioni e discorsi non valgono nulla. Tuttavia,
le famiglie rappresentano una risorsa per le società sportive,
non un ostacolo. Per quanto riguarda allenatori e dirigenti,
l’invito è ad ascoltare maggiormente i principi che propone
il Settore Giovanile e Scolastico della F.I.G.C. riportati sul
Comunicato Ufficiale N°1, un documento che riporta tutte le
regole e le linee guida dell’attività giovanile. È uno strumento
importante che andrebbe conosciuto bene».
I GENITORI D’OGGI?
Giovani, sport ed educazione: ne ho parlato con UGO DE
FRANZONI, per molti anni docente di educazione fisica
alla scuola media G. Randaccio di Cervignano. Attualmente in pensione, De Franzoni ha svolto per parecchio
tempo anche l’attività di allenatore di atletica. Il ‘prof’,
come molti lo chiamano affettuosamente, ricorda con un
pizzico di nostalgia i tempi in cui, nel suo paese e in quelli vicini, i ragazzini passavano intere estati a giocare nei
cortili. Senza regole fisse, ma con tanta voglia di divertirsi.
- Che cosa è cambiato, professore, da quei tempi?
«Una volta tutti gli sport venivano praticati in modo più
semplice, senza costrizioni né intromissioni degli adulti. La maggior parte dei ragazzi iniziava a giocare nelle
strade e nei campi, sin dalla più giovane età, senza troppe
regole. Oggi sembra che chiunque voglia praticare una
minima attività fisica debba iscriversi a qualche società
sportiva o trascorrere pomeriggi in piscina o in palestra.
i bambini non hanno l’opportunità di praticare liberamente lo
sport al di fuori dell’ambiente scolastico e della società sportiva. La quantità di pratica è uno degli elementi fondamentali
che permette al proprio talento di esprimersi e svilupparsi. Se
tronchiamo la possibilità di sperimentazione sportiva, soffochiamo anche le opportunità di arrivare ad un alto livello
di specializzazione in età adulta. Proprio su questo aspetto,
all’interno della nostra società, abbiamo organizzato un’iniziativa denominata: ‘3 corner, 1 rigore’. Il sabato pomeriggio
invitiamo sul campo tutti i bambini dell’ultimo anno Piccoli
Amici. Ai piccoli giocatori viene consegnato il materiale per
organizzarsi una partita di calcio: ‘cinesini’, palloni, casacche.
In modo autonomo fanno il campo, organizzano le squadre,
decidono le regole e giocano per un’ora e mezza liberi da vincoli tattici e comandi degli adulti, come si faceva una volta
negli oratori o nelle piazze di paese. Abbiamo cominciato da
poco, ma è un’iniziativa che funziona: i bambini imparano ad
organizzarsi autonomamente e ad essere più responsabili».
- Il calcio vive anche e soprattutto dei suoi campioni. Chi sono
i ‘modelli’ per i bambini di oggi?
«Nella fascia d’età che alleno, per fortuna i bambini sono
poco interessati agli scandali arbitrali, economici, sessuali,
che coinvolgono il mondo del calcio. Per questo, i campioni
vengono scelti principalmente per le abilità tecniche. Il colpo
di spalla di Cristiano Ronaldo, la rovesciata di Rooney e lo
slalom di Messi, visti in tv, sono i gesti che rimangono più
impressi e fanno innamorare del campione o della squadra.
Le squadre simbolo sono quelle più forti, dal Barcellona al
Real Madrid, passando per Manchester United, Inter e Milan. Tra l’altro, molti cominciano a tifare anche Udinese.
Evidentemente i buoni risultati delle ultime stagioni hanno
fatto proseliti».
SIMONE BEARZOT
- «Fino a 25-30 anni fa (...) l’organizzazione della vita di ogni
giorno lasciava bambini e ragazzi molto più liberi. Per strada
c’erano meno macchine, soprattutto meno pericoli, e questo
permetteva di lasciar crescere i ragazzi in libertà, affrontando
tutte le esperienze motorie possibili, tutti gli sport accessibili.
Quante ore di attività fisica si facevano? Tante. Dal primo pomeriggio, dopo la scuola, a quando c’era luce. In estate, anche
di mattina e pomeriggio. Quanta attività fisica, quanti sport…
e senza l’assillo di campionati e specializzazioni». Sono parole di Vincenzo Pincolini, storico ex preparatore atletico del
Milan. Tu da piccolo hai fatto tutta la trafila delle giovanili. Ora
le giovanili le alleni. Cosa vedi di diverso rispetto a quando il
bambino eri tu?
«Sarà una banalità, ma noi avevamo meno distrazioni. Computer e tv cominciavano a farsi largo, ma il campetto con gli
amici era un richiamo a cui era impossibile resistere. In realtà,
non ho avuto un’esperienza calcistica del tutto regolare, visto
che ho smesso per due anni (categoria Esordienti) perché non
mi divertivo più. Solo dopo aver trovato un clima tranquillo e
senza pressioni, ho ripreso. Sono un esempio di ‘abbandono
precoce’, aspetto che va limitato il più possibile, cercando di
far divertire i bambini ad allenamento. Il gioco è un elemento fondamentale, in tutte le fasce d’età, in modo particolare
adesso, che la motivazione non è così elevata come anni fa e
l’allenatore deve lottare contro una lunga serie di distrazioni.
Riguardo a quanto dice Pincolini, uno dei motivi per cui i nostri settori giovanili non ‘sfornano’ più talenti è proprio perché
credifriuli.pdf 15/02/2010 13.46.47
Per chi volesse approfondire l’argomento, è possibile contattarci
attraverso la mail del Settore: [email protected].
Il coordinatore federale regionale del SGS, dott. Giovanni Messina, e il responsabile dell’Attività di Base, prof. Carlo Giorgiutti,
sono sempre disponibili a chiarimenti e delucidazioni, non solo nei
confronti delle società, ma anche delle famiglie.
d e l l o
NON SANNO PERDERE
Così facendo, si è persa la funzione aggregativa dello sport, spostando l’accento sul raggiungimento di risultati agonistici ben precisi: ma in un’età così giovane, questo può rivelarsi un grave errore. Certo, le ragioni di questo cambiamento vedono coinvolti fattori
sociali e culturali: già negli anni ’70, quando iniziai ad insegnare, si notava la differenza
tra i giovani di Cervignano e i paesini limitrofi. I ragazzi di campagna erano più ‘ruspanti’,
mentre i cervignanesi si sentivano già ‘cittadini’, e non vedevano di buon occhio attività
come la corsa campestre. Con questo non voglio dire che i ragazzi di oggi non amino lo
sport, ma negli anni sono andati sicuramente perdendosi il piacere della fatica e la gioia di
un risultato conquistato con il sudore».
- Cosa significa per lei educare allo sport, allora?
«Esistono due ambiti diversi ai quali fare riferimento: quello della scuola e quello delle società sportive. A scuola, l’obiettivo è quello di educare ad una giusta attività motoria, portando i ragazzi a trovare soddisfazione in quello che fanno piuttosto che nelle vittorie che
conseguono. Uno dei migliori risultati dell’insegnamento dell’educazione fisica è quello
di riuscire a coinvolgere tutti gli studenti: chi è meno dotato o talentuoso non dovrà sentirsi
escluso, mentre chi è troppo intraprendente dovrà imparare un po’ d’umiltà. Il discorso è
diverso se parliamo della società sportiva: qui la componente agonistica, giustamente, ha
un peso maggiore. Tuttavia, non si dovrebbe mai dimenticare che fino all’età adolescenziale lo sport dovrebbe essere innanzitutto divertimento. Esagerando con la competizione,
si rischia di scatenare dinamiche perverse all’interno del gruppo».
- Di chi è la colpa di questa ‘perversione’?
- Che significa, questo? Quale danno subiscono questi ragazzi sotto il profilo educativo?
- Lei è molto critico nei confronti delle famiglie… ma è davvero sempre così?
«Certamente no. Nella mia esperienza ci sono stati numerosissimi esempi di rapporti positivi con le famiglie. La questione è che i genitori intelligenti sono disposti a delegare la
formazione dei loro figli a chi ha maggiori competenze in ambito sportivo, naturalmente
controllando l’attività di docenti e allenatori, ma senza intervenire a sproposito. Questo
delicato equilibrio non è sempre facile da mantenere: la situazione attuale costringe spesso
a coinvolgere le famiglie per i trasporti e altre questioni organizzative. In queste circostanze, i genitori che per primi si rendono disponibili sono proprio quelli più apprensivi».
ALESSANDRO MORLACCO
«LO SPORT È UNA SCUOLA DI VITA»
Giorgio Iemmolo: quarant’anni di passione per la pallacanestro
«L’allenatore sembrava contento, e allora mise il cuore
dentro alle scarpe, e corse più veloce del vento». Questo verso de La leva calcistica della classe ’68, una nota
canzone di De Gregori, continua ed echeggiare nella
mia testa. È una storia d’amore quella che mi racconta
GIORGIO IEMMOLO, 59 anni: lo sport è un altro, ma
lo spirito è lo stesso della canzone. «Alleno squadre di
pallacanestro da più di 40 anni, ma ogni volta è come se
ricominciassi daccapo» mi dice all’inizio di questa appassionata intervista.
- Facendo un rapido calcolo, direi che hai cominciato proprio da ragazzino…
«È vero: avevo da poco compiuto 18 anni quando iniziai a
seguire una squadra di tredicenni, proprio qui a Cervignano. Negli anni successivi ho continuato a fare l’allenatore
di pallacanestro, sia nel settore giovanile sia in squadre di
serie A, B e C. Attualmente mi occupo dell’under 17 maschile dell’ABC (Associazione Basket Cervignano, ndr)».
cui ho a che fare non riconoscano il modo ‘classico’ di
comunicare. Noi adulti siamo abituati agli incontri faccia a faccia, alla discussione e ai confronti anche aspri,
mentre loro scambiano messaggi via telefono o internet,
magari senza vedersi per settimane. La conseguenza si
nota nella difficoltà dei giovani nel far fronte a situazioni
che non conoscono, o nel mantenere un rapporto adeguato con arbitri e altri adulti. Tra di loro, invece, ci sono
delle regole implicite, c’è la consapevolezza di far parte di un gruppo, e la comunicazione è in genere ottima.
Proprio perché noto questa difficoltà, sono convinto che
uno dei momenti fondamentali della pratica sportiva sia
l’educazione al rispetto. Non parlo solo dell’osservanza
- Forse posso immaginarlo…
«Le dissi “Signora, questo è il più bel complimento che
qualcuno mi abbia mai fatto”. Lei restò basita. Un bravo
allenatore, credo, dovrebbe imparare a scendere dal suo
‘piedistallo’ di adulto e mettersi in gioco assieme ai suoi
ragazzi. Tutto questo, naturalmente, senza dimenticare
che ci sono dei ruoli ben precisi».
- Quale dovrebbe essere la funzione educativa dello sport
in età giovanile?
- Quali problemi ci sono, oggi, nell’educare allo sport?
«La mia principale preoccupazione è quella della comunicazione. Mi trovo spesso a pensare che i ragazzi con
- C’è qualche segreto, allora, per mantenere un giusto
equilibrio all’interno del gruppo?
Giorgio Iemmolo è il 4º in piedi, da sinistra.
‘formale’ dei regolamenti, ma soprattutto della capacità
di costruire relazioni umane autentiche».
- E del rapporto con i genitori, che mi dici? Qualcuno sostiene che con le famiglie d’oggi gli allenatori non possano
proprio lavorare…
«Un tempo qualcuno diceva, esagerando, che la miglior
squadra per un allenatore fosse una squadra di orfani...
Tuttavia, nella mia personale esperienza ho avuto quasi
sempre ottimi rapporti con i genitori. Ti dirò di più: trovo che le famiglie di oggi siano più sensibili ed attente
all’educazione sportiva, e comprendono gli sforzi che la
«Il segreto, se c’è, sta nell’allenamento e nella preparazione costanti. Gli aspetti psicologici hanno grande importanza, e non vanno mai trascurati. È fondamentale,
ad esempio, stimolare i ragazzi a riflettere sul perché una
partita è stata vinta o persa, discutendone assieme a loro.
Naturalmente, bisogna essere pronti anche a dare qualche
lezione: una volta un mio atleta disse ai suoi compagni
“Senza di me voi non vincerete”. Non lo feci giocare, e
la squadra vinse lo stesso. Quel ragazzino pianse lacrime
amare, ma credo che quell’esperienza gli sia servita come
occasione per sviluppare un po’ di autocritica. Sai qual è
la cosa che mi dà più soddisfazione? Incontrare qualche
vecchio giocatore, del quale magari io non mi ricordo,
che mi ringrazia perché ciò che ha imparato nella pallacanestro gli è stato utile nella vita».
ALESSANDRO MORLACCO
ALTA UOTA
«C’è un primo stadio, quello dell’infanzia, di cui ho poca
esperienza: ci vogliono competenze, anche di carattere pedagogico, che non possiedo. L’età di cui mi sono sempre
occupato, invece, è quella che va dalla pubertà alla giovinezza: è una fase delicata, in cui la pratica sportiva può
essere altamente formativa. Poiché si inizia a fare dell’agonismo ‘serio’, la cosa fondamentale è imparare a prendersi delle responsabilità, conciliando gli impegni sportivi
con le altre attività della vita quotidiana, prima fra tutte la
scuola. Cerco sempre di far crescere nei miei ragazzi la
consapevolezza che solo con un impegno e una preparazione costanti si possono raggiungere dei buoni risultati,
senza esasperare la componente agonistica. Quelli che si
apprendono nello sport, in fin dei conti, sono tutti valori
che tornano utili soprattutto fuori dal campo, nella vita».
squadra fa per raggiungere un risultato. Naturalmente le
critiche non mancano, anche perché io sono una persona
piuttosto diretta, ma ciò che mi importa davvero, al di là
dei genitori, è il riscontro che mi danno i ragazzi. Ricordo
un episodio emblematico: qualche anno fa mi capitò un
atleta che ad un certo punto dell’allenamento ebbe una
sorta di ‘crisi isterica’, si buttò a terra gridando. Quando
conobbi la famiglia, capii qual era il suo problema: quel
ragazzino era ‘compresso’ nei suoi doveri, e solo nella
pallacanestro trovava un po’ di libertà. Naturalmente,
questo non piacque alla madre, che dopo la prima partita
si venne a lamentare con me. Un uomo di cinquant’anni
come me, mi disse, non può mettersi al livello di un ragazzino. Sai cosa le risposi?».
uotattualità
«Le conseguenze sono molte e gravi: innanzitutto, un ragazzo può convincersi di essere
davvero un campione, se gareggia sempre con persone di livello inferiore al suo, magari
nella piccola società sportiva del paese. Il confronto con atleti più bravi sarà per queste
persone una vera doccia fredda! Chi subisce una delusione così cocente, difficilmente sarà
portato a proseguire qualche attività sportiva in età più adulta: si perde così uno degli scopi
fondamentali della pratica sportiva in epoca giovanile. Inoltre, l’agonismo estremo conduce ad una scarsa attenzione per il rispetto delle regole e per la correttezza nei confronti
dell’avversario, che invece dovrebbero essere tra i primi obiettivi di chi educa allo sport.
Se l’obiettivo è vincere ad ogni costo, in età più adulta si può arrivare fino alle aberrazioni
del doping, una pratica diffusa non solo a livello agonistico, ma anche tra chi pratica sport
a livello amatoriale».
MIO FIGLIO QUEL CAMPIONE
Anche una intervista mai fatta ha qualcosa da dire.
Nei sette anni di vita di questo giornale, modesto, ma ambizioso, e rigorosamente
quanto appassionatamente costruito, credo di non aver mai saltato un numero. Non
volevo mancare nemmeno questa volta.
Quando, nel corso della ideazione di questo trentacinquesimo numero, la redazione
ha attribuito i diversi incarichi ed io ho assunto la mia personale responsabilità, ero
contento di ciò di cui mi sarei occupato.
Forse perché mi sento più genitore che sportivo, avrei avuto l'occasione d'incontrare altri genitori. Ad essi, avrei spiegato come nel presente numero Alta Quota
si sarebbe occupata di sport e di come questo, un tempo portatore di nobili valori,
stia smarrendo un po' quelle sue proprie caratteristiche di fucina delle giovani generazioni, di palestra della meritocrazia, ma anche di asilo gratuito dell'impegno e
del più sano divertimento, in favore della competizione più spinta. Di come oggi lo
sport premi solo il risultato a qualunque costo escludendo la mediocrità, ancorché
sostenuta dall'impegno e dal sacrificio.
A questi genitori avrei chiesto come si vive con un campione in casa, come si organizza il tempo, quanto sia impegnativo, quante possano essere le soddisfazioni.
Ma anche quali siano le scelte che si impongono, e quali diventino le priorità per
un ragazzo che, oltre ad essere una autentica promessa nella sua specialità sportiva,
ha in corso i propri studi fondamentali, ma che ha anche una propria affettività e
relazionalità da gestire. Come può immaginare il proprio futuro un ragazzo che si
affaccia alla vita e cosa significhi per un genitore accompagnare il proprio figlio su
questa strada. Anche in termini pratici e reali, in quanto, trattandosi di minore, non
ha una propria indipendenza negli spostamenti e deve essere accompagnato.
In realtà le mie domande non sono riuscito a farle, ma alcune risposte le ho ricevute
ugualmente.
Ho incontrato quasi subito la mamma, che stava ammirando le meraviglie di un
pomeriggio di questa calda primavera nel giardino della propria casa, in una bella
villetta della nostra città. Mi sono presentato, ho spiegato ciò che avevo in mente
e ci siamo dati appuntamento in seguito per una telefonata in cui concordare un
incontro, se possibile anche con il marito.
Non sarebbe mai avvenuto.
In effetti, ho avuto il numero di telefono, anche del cellulare. Ci siamo più volte
sentiti e sempre mi è stata confermata la iniziale cortese disponibilità. Di fatto, però,
non è mai stato possibile trovare mezzora per incontrarci e fare una chiacchierata.
Certo, io ho i miei impegni, lavoro cinque giorni su sette, ma in quattro settimane
(durante le quali per alcuni giorni sono stato in ferie ed ho offerto la mia disponibilità completa) non sono riuscito ad incontrare questi signori. Non per motivi
pretestuosi, ma per reali impedimenti.
Fra lavoro (di entrambi i genitori), allenamenti del ragazzo, che hanno cadenza
quotidiana ed iniziano nel pomeriggio durando fino a tarda sera, impegni agonistici
che occupano i fine settimana con trasferte forzate in giro per l'Italia... sono passate
quattro settimane con il rimpianto per me di non aver chiesto subito, in quel primo
fortunato incontro, ciò che mi incuriosiva.
Ma anche questo susseguirsi di contrattempi ed impedimenti, in fondo in fondo,
a me qualcosa dicono. Ho ancora in mente la voce affannata della signora, che al
telefono cerca inutilmente, con tono desolato e rassegnato, uno spazio libero nella
propria agenda, che non trova, per darmi un appuntamento che non si sarebbe mai
realizzato.
Io e questo giornale possiamo accontentarci dell'idea che ci siamo fatti, ma è questo
ciò che offre la carriera sportiva?
GIUSEPPE ANCONA
3
in
«Mi duole dirlo, ma la responsabilità maggiore è dei genitori. Sembra che tutti vogliano
avere per figlio un campione, forse più per soddisfazione personale che per assecondare i
reali interessi del ragazzo. In alcuni casi, le pressioni esercitate dai familiari sono davvero
insostenibili: ho visto giovani atleti in lacrime, insultati dai genitori perché non avevano
vinto la gara, pur essendosi impegnati al massimo. Chi si comporta così, dimostra di non
saper perdere: spesso a queste persone manca la capacità di comprendere che un insuccesso
del figlio può dipendere da un’oggettiva superiorità dell’avversario, e non da una cattiva
prestazione del ragazzo. E se non sanno perdere i genitori, neanche i figli ne sono capaci».
S P O R T
4
VOCI dal mondo
«E POI VEDI UN RAGAZZINO TIRARE
PALLATE ALL’ARBITRO...»
ALTA UOTA
in
uotattualità
Paola Voli, ex-giocatrice e maestra di tennis: la crisi dei valori esiste, ed è forte
PAOLA VOLI è maestra nazionale della Federazione
Italiana Tennis e da 5 anni svolge anche il ruolo di
tecnico regionale per tutta l’attività giovanile. Questo
ruolo la porta a visionare e selezionare gli atleti nati
dal 2002 al 1996; in più segue tutte le rappresentative regionali impegnate nelle competizioni nazionali a
squadre. Lavora dal 2006 presso la società sportiva
ASD NOVA PALMA. Paola Voli è stata la mia allenatrice di tennis per un paio d’anni. Meglio, è stata la
mia maestra: così si dice in questo sport, nobile sulla
carta, ma forse ormai solo lì. Ma per lei questa definizione è appropriata: raramente ho visto gente dell’ambiente sportivo comportarsi con la consapevolezza,
che le è propria, che insegnare una disciplina non è
solo una questione tecnica. Ma anche, e in modo preponderante, una questione di valori, di pedagogia, di
moralità, di crescita non solo fisica.
Quando le parlo dell’argomento che vogliamo trattare, come previsto, non si tira indietro. Anzi, mi racconta di un convegno di psicologia dello sport cui ha di
recente partecipato: il tema era proprio la perdita dei
valori dello sport ‘sano’ e la necessità di recuperarli.
«In questo convegno la psicologa relatrice ci ha portato l’esempio di una ragazzina di quattordici anni che
praticava nuoto a livello agonistico, dopata dal padre
con l’ormone della crescita per farle ottenere risultati
migliori: lei è stata radiata, mentre il padre, davanti al
giudice sportivo, ha accusato i giudici di aver distrutto
il sogno della figlia».
- Pazzesco.
«Certo, ma il punto è che questo non ha ammesso l’errore. E la ragazzina sarebbe potuta benissimo morire
a trent’anni di infarto a causa del padre. Lo sport è
malato anche per colpa dei genitori, degli adulti ‘altri’
dall’atleta, che antepongono alla persona in questione
le proprie frustrazioni personali, il loro desiderio di riscatto, o anche solo l’ambizione economica».
- Certo i soldi hanno contribuito a rovinare un po’ tutti
gli sport.
«I modelli di atleti per i ragazzini non sono certo quelli
provenienti da sport ‘poveri’, come la campionessa di
canoa Josefa Idem, che a quarant’anni passati è ancora
un eccezionale modello di spirito di sacrificio, ma di
cui ci si ricorda solo ogni quattro anni per le Olimpiadi.
I modelli sono i calciatori: e chiaramente il ragazzino
non si confronta solo con il loro aspetto sportivo. Infatti i modelli, in questo senso, non sono sempre quelli
‘sportivamente’ migliori: non è possibile che ci si riferisca a Ibrahimovic e Balotelli. Dovrebbero esserlo, ad
esempio, Del Piero, o Di Natale, o un Pellissier, solo
per dirne alcuni. Persone che dimostrano che lo sport
è anche un insieme di valori. Anche questi sono grandi
giocatori, e uomini molto più corretti dei primi, ma non
rispondono allo standard odierno: soldi, fama, vittorie,
macchine di lusso, donne».
- E chiaramente se lo scopo è solo ‘arrivare’, ogni mezzo sembrerà lecito.
«Esatto. L’unica cosa che conta, ormai, è vincere. I
giovani sportivi stanno perdendo il senso educativo
della sconfitta. Che, se accettata, può avere una grande importanza: può insegnare a migliorarsi, a tributare
merito all’avversario. Il vincere è diventato un valore
in sé: non conta più vincere giocando pulito. A questo
si collega anche il discorso del doping, chiaramente».
- Secondo te, anni fa era diverso?
«Certo. Io di agonismo ne vedo da trent’anni, e moltissime cose sono cambiate. Ad esempio, come dicevo,
girano molti più soldi. Quando a 17 anni ero in seconda
categoria, la società di Treviso mi pagava l’albergo per
le trasferte a squadre e poco altro, e a me non restava
nulla. Per me era una gratificazione in sé giocare e potermi allenare con il grande Renzo Furlan».
- Oggi invece?
«Oggi vedi ragazzini pagati fin da piccoli. E genitori
che li montano e li spalleggiano, contrattano per loro.
Insomma, appena uno è bravo, viene considerato un
campione, senza che sappia neanche cos’è il professionismo o l’agonismo vero».
- Sono cambiati i genitori?
«Senza dubbio. Penso che l’ambiente familiare sia determinante. I ragazzi che allenavo agli inizi della mia
professione, ragazzi nati fra la fine dei Settanta e gli
Ottanta, avevano molto presenti e chiari certi valori
etici. Chiaramente insegnati loro dalla famiglia. Ora i
DANZA,
MONDO DIFFICILE
Nel panorama che abbiamo cercato di creare in questo
numero, non poteva mancare un’esperienza legata al
mondo della danza, disciplina che forse impropriamente
rientra nella categoria ‘sport’, per la sua connotazione
spiccatamente artistica. Ciononostante, specialmente a
livello amatoriale, la danza può essere considerata come
un modo piacevole ed elegante per trascorrere il tempo
libero e tenersi in forma, anche se forse ciò non è sempre
possibile. Per capire questo abbiamo intervistato CLAUDIA ROSSI, studentessa all’ultimo anno presso la Facoltà di Architettura di Udine, che ci ha raccontato la sua
esperienza non del tutto positiva con la danza.
- Quando hai iniziato a frequentare una scuola di danza?
«Ho iniziato a danzare quando ero in terza media e ho
smesso quando ero in quarta superiore. Avevo circa 18
anni, periodo molto impegnativo tra impegni scolastici,
fidanzato, corsi per la patente...»
- Quante volte a settimana dovevi dedicare alcune ore del
pomeriggio alla danza?
genitori non accettano che tu rimproveri i loro figli.
Ma non accettano neanche che tu insegni loro a essere
corretti in campo: loro pensano che sia più importante
insegnare loro a essere furbi. Oppure mi sono sentita
dire che se rimprovero un bambino di dodici anni che
bestemmia, rischio di bloccare la sua energia».
- Secondo te perché sono così diseducativi?
«Non lo so. Per me l’onestà e la correttezza sono cose
normali, mi sembra assurdo il contrario. Alle volte
il problema, però, sono gli stessi allenatori, presi da
questo dogma della vittoria a ogni costo. Se non ci si
impegna a costruire un codice morale negli atleti fin
da piccoli, dopo non li si cambia più. Ma come diceva
la psicologa di cui sopra: oggi è spesso più importante
essere vincenti che essere persone».
- Penso che tutto questo sia dettato anche dai paradigmi sociali che abbiamo intorno: nella civiltà del successo e della ricchezza a ogni costo, lo sport, come anche
la politica per certi versi, diventano solo un mezzo di
affermazione. E non un fine nobile in sé.
«Ma se lo scopo diventa quello, si pone sui ragazzini una pressione pazzesca. Se lo sport è un valore in
sé, la vittoria è solo un di più, un coronamento. Ma se
il fine è affermarsi, si coprono di aspettative e stress
atleti giovanissimi, che poi magari non riescono ad
affermarsi, proprio bloccati da queste situazioni. L’ho
provata io, quando ero giocatrice, questa terribile pressione, e di situazioni del genere ne ho viste tantissime.
Bisogna far crescere anche gli atleti bravi, educarli alla
vittoria come alla sconfitta. Purtroppo, invece, spesso
si antepongono a questo gli interessi personali di altri».
- Dei genitori, appunto?
«Ma non solo, anche noi allenatori spesso sbagliamo.
Mi è capitato un mio allievo di 11 anni che, persa una
partita importante, ha pianto e ha detto: spero di non
aver deluso tutti. Capisci: non è possibile giocare per
gli altri, a questa età. Bisognerebbe fosse solo passione, o confronto con sé stessi al massimo».
- Certo è una bella utopia.
«Penso anche che il metodo di allenamento, nello sport,
come accade anche nella scuola, così com’è, non aiuti
a pensare: è tutto diviso in compartimenti stagni. Non
si insegna quasi in nessun ambito ad avere una visione
complessiva. Ma così come non si vive secondo singole competenze tecniche, nello sport non esistono gesti
tecnici isolati: esiste la partita. Bisognerebbe insegnare
molto di più; io ci provo, ad affrontare la partita nel
suo complesso, con un certa attitudine psicologica e
morale. Oggi, certi comportamenti derivano anche dalla mancanza di preparazione ad affrontare le difficoltà.
Non si possono trattare gli atleti come macchine».
- Insomma, per essere buoni maestri bisogna essere
anche buoni psicologi.
«È fondamentale. Bisogna rimboccarsi le maniche e
cominciare a lavorare secondo certi metodi, con un’etica vera: altrimenti ti capitano cose come questa. L’altra settimana c’era la finale dei campionato under11 di
tennis: a un certo punto, il ragazzino che era sotto 6-0
3-0, contestando una chiamata dell’arbitro, gli ha tirato
una pallata da pochi metri, per poi attaccarsi al suo seggiolone e cominciare a scuoterlo. Capisci dove stiamo
arrivando? Qui non si tratta di insegnare a giocare, ma
di insegnare a vivere. E lo sport dovrebbe essere soprattutto questo: sacrificio, accettazione dell’altro, della sconfitta. In una parola: una scuola di vita».
MARCO SIMEON
«Il nostro gruppo faceva le prove tre volte alla settimana, più la domenica. Inoltre, da gennaio dell’anno in cui
ho lasciato, gli allenamenti settimanali erano aumentati
a quattro e per me questo stava diventando un problema:
specialmente la domenica, che ritengo dovrebbe essere
una giornata da dedicare alla famiglia o agli amici».
- Solo tu avevi questo problema?
«No, anche altre mie compagne erano un po’ scontente,
ma io mi sono scontrata direttamente con la nostra maestra, a causa di due assenze consecutive da parte mia per
impegni non prorogabili. La maestra si è offesa per questo, cominciando a dedurre che questa mia assenza fosse
dovuta a scarso interesse per la disciplina e poco impegno
e senso di responsabilità, e mi ha ‘punito’ togliendomi da
uno dei pezzi che avevamo preparato per il saggio finale.
Quel giorno sono andata a casa e non sono più tornata».
- Quali sono stati i motivi di questa tua scelta?
«Intanto il modo di affrontare le cose: se ci sono dei problemi non serve fare scenate, ma mi sembra più opportuno prendere l’interessata da parte. Inoltre, il motivo
principale è che pensare di non saltare nessuna lezione di
danza, neppure la domenica, era impensabile o comunque molto difficile. Non è possibile che quello a cui ci si
avvicina per divertirsi diventi un obbligo peggiore della
scuola; oltretutto io sono una cliente e questo diventa una
contraddizione, a mio parere».
- Quindi ritieni che si perdesse un po’ il concetto di ‘divertimento’?
«Sì... Nel nostro gruppo c’erano anche ragazze più grandi che già lavoravano e venivano a lezione dopo un’intera
giornata lavorativa, quindi era ovvio che fosse per pura passione, non certo per il saggio finale. Ho l’impressione che
talvolta alcune maestre di danza pensino più a fare bella
figura nel momento della dimostrazione finale piuttosto che
a realizzare qualcosa di realmente piacevole per le allieve».
- Credi che questo possa diventare davvero diseducativo,
L’IMPORTANZA
Lo sport visto come missione educativa, senza
avere l’obiettivo da raggiungere a tutti i costi.
Abbiamo fatto una chiacchierata con ADRIANO PALIAGA, allenatore da 30 anni e padre di
due figli, impegnato nel progetto di un settore
giovanile a Villa Vicentina.
- Qual è la tua esperienza personale nel mondo dello sport?
«Un’esperienza lunga, continua e presente, visto che ho
allenato per 30 anni consecutivamente e ho due figli che
giocano a calcio. Di questo devo dire grazie a mia moglie per la pazienza e la disponibilità che ha avuto in tutto
questo tempo. Tutti i weekend sono sempre stati occupati
da impegni sportivi; sono felice di questo, perché si sta
con i ragazzi, si sta in mezzo alla gente e si comprendono
meglio le esigenze di questo ambiente».
- Come giudichi il ruolo educativo dello sport al giorno d’oggi?
«Per me, il ruolo educativo assieme al rispetto delle regole e della squadra ospite sono fondamentali. Una cosa
indispensabile è trasmettere la passione ai ragazzi; se riesci in questo, il ragazzo alla prima difficoltà non molla; se
ha solamente qualità tecniche, c’è il rischio che al primo
ostacolo abbandoni. Se un atleta ha passione per la sua
disciplina, un domani potrà fare l’allenatore, il dirigente
o l’arbitro, rimanendo sempre nell’ambiente sportivo. Per
farti un esempio: prima di Pasqua ho salutato un ragazzo
che ha lasciato il basket per un problema fisico e mi ha
detto che partecipava ad un corso per arbitro... È stata una
grossa soddisfazione».
- Sport come divertimento o come carriera…
«Il problema è che vengono date molte illusioni ai ragazzi, invece come prima cosa devono divertirsi. Spesso capita che il ragazzo sia un campioncino e il genitore,
d e l l o
S P O R T
MICHAELA CECOT, UNA VITA PER LA PALLAVOLO
MICHAELA CECOT è l’allenatrice della squadra di
pallavolo maschile di Cervignano.
Da trentasei anni
si dedica a questo
sport con passione
e interesse.
magari nel momento in cui non
parliamo più di
liceali bensì di
bambine?
- Emerge uno scenario molto competitivo...
- In conclusione, ritieni che si potrebbero fare dei cambiamenti per rendere questo ambiente meno ‘impegnativo’?
«A mio parere una scuola di danza non dovrebbe pretendere così tanto. È scontato che se scegli di praticare uno
sport, l’interesse c’è. Nel caso della danza, però, la maggior parte dell’anno è dedicato alla preparazione del saggio. Non dico assolutamente che bisognerebbe eliminare
i saggi, ma almeno non vivere l’anno in previsione della
rappresentazione finale: dovrebbe essere più una lezione
dimostrativa, che una specie di gara così competitiva.
Ovviamente la serietà deve essere un punto fermo, però
dev’esserci un limite».
SOFIA BALDUCCI
DELL’ETICA SPORTIVA
pensando di fare del bene, lo carica troppo e magari succede che sul lungo periodo molti mollano, soprattutto per
stanchezza mentale».
- Quanto conta la famiglia in tutto questo?
«La famiglia è fondamentale: essa cerca un ambiente
sano, organizzato e con bravi insegnanti. La realtà in cui
un ragazzino cresce è di vitale importanza».
- Lo sport come palestra per imparare ad affrontare gli
ostacoli nella vita...
«Lo sport è una forma educativa che si riflette nella vita
quotidiana; i compiti di un allenatore sono anche il rispetto dei compagni, delle regole e della puntualità, in modo
da far maturare il ragazzo».
«Ad ogni età dell’atleta devono esserci degli obiettivi; se
però si cerca il risultato ad ogni costo, si perdono di vista
le priorità dei ragazzi. Queste priorità non le deve dettare
l’allenatore, bensì la società sportiva, che dev’essere protagonista nel dare le indicazioni. Un genitore deve sapere
quali sono le regole e i principi, in modo da non poter
rinfacciarti comportamenti sbagliati».
- Com’è stato il tuo primo approccio da genitore nel mondo dello sport?
«È stato un approccio tranquillo perché i miei figli venivano alle partite e quindi hanno familiarizzato con l’ambiente e hanno cominciato a giocare a basket fin da subito».
- Oggi manca parecchio la valorizzazione del settore giovanile…
«Venti anni fa allenavo la serie B femminile di basket ed
ho rifiutato di avere ragazze di altre società per poter far
giocare quelle del vivaio. Oggi tutti hanno chiaro il con-
- Hai sempre avuto la passione del gioco?
«La pallavolo è sempre stata una passione, fin dall’inizio.
Quando ho smesso di giocare, ho fatto il tesserino e ho
cominciato subito ad allenare».
- Riesci a trasmettere la tua passione anche ai ragazzi
che alleni?
«Sì. All’inizio la pallavolo era quasi solo femminile, quindi allenavo squadre di ragazze. Poi ho lasciato il lavoro per
un po’ di anni, nel frattempo mi ero sposata e avevo avuto
un bambino. Quando mio figlio ha espresso il desiderio
di cominciare a giocare a pallavolo, ho ricominciato ad
allenare. Adesso da sette anni alleno la squadra maschile».
- Noti qualche cambiamento da quando hai iniziato tu a
giocare?
«Sono cambiate tante regole nella pallavolo, ma sono cambiati anche tanto i ragazzi. Ricordo che quando giocavo
eravamo più di una cinquantina nel minivolley e l’istruttore
riusciva a seguirci tutte sempre e senza difficoltà. Facevamo un po’ la solita confusione delle ragazzine, ma mai più
del dovuto. Invece adesso se ci sono anche solo dieci bambini, sia maschi che femmine, è un problema riuscire a far
stare attenti tutti e dieci. Hanno dei problemi motori, collegati alla psicomotricità e alla coordinazione. È un guaio».
- Quindi vengono riscontrati soprattutto problemi fisici?
«Sì. Non sono problemi fisici irrisolvibili: non hanno handicap o deformazioni. Semplicemente non sanno muoversi nel modo corretto. Purtroppo la società attuale porta a
questo. I ragazzi non sono abituati a muoversi in autonomia, anche perché il fatto di giocare all’aria aperta non
è più una cosa scontata. D’altra parte non ci si può più
permettere di lasciare un ragazzo giocare in cortile, perché ci sono troppe distrazioni e pericoli. Dal non lasciarlo
giocare in cortile al non lasciarlo proprio giocare all’aria
aperta, il passo è breve. Se il genitore sta mezz’ora giù in
cortile con i ragazzi, ad assicurarsi che giochino in tutta
tranquillità e lontano dai rischi, va benissimo. Ma i genitori non lo fanno perché non ne hanno il tempo e di conseguenza i ragazzi non possono andare a giocare da soli.
Quindi stanno davanti alla tv e al computer, e non hanno
la coordinazione e la psicomotricità che potrebbero avere
e che tutti possiedono nella loro base genetica.
Ho seguito un corso di un docente di psicomotricità dell’università di Verona. In un asilo nido e in una scuola della
città è in atto un esperimento: i ragazzini devono presentarsi circa una ventina di minuti prima dell’inizio delle
lezioni. Le scuole sono dotate di un corridoio abbastanza
lungo, circa una trentina o quarantina di metri, munito di
un tappeto di linoleum. I genitori o i tutori devono lasciare
i bambini sulla soglia e questi, se frequentano le elementari o l’asilo, devono camminare, e se sono all’asilo nido
devono gattonare o strisciare su questi tappeti. Ciò facilita
la camminata crociata, cioè la camminata che si esegue
portando il piede sinistro avanti e il braccio destro avanti.
Questa è la camminata della quale tutti abbiamo la facoltà,
ma che pochissimi sanno fare in questi tempi. I bambini
piccoli, che passano dal passeggino alla macchina e dalla
macchina alle braccia del genitore, non sanno fare questa
camminata crociata che è la base dello sviluppo della corcetto che ogni società deve organizzare bene il proprio
settore giovanile: questo è indispensabile per avere una
continuità in prima squadra».
- Illustraci il tuo progetto con l’asd Villa Vicentina.
«Da qui parte appunto il progetto Villa Vicentina: la creazione di un settore giovanile con circa 100 atleti tesserati,
sperando di arrivare negli anni ad avere tutte le categorie.
Abbiamo già trovato diversi dirigenti con delle responsabilità specifiche, in particolare la relazione con i genitori, mettendo in pratica il ‘terzo tempo’. L’obiettivo è
quello di non perdere i ragazzi e fare in modo che essi
siano pronti fisicamente e tecnicamente all’età giusta. Io
sarò referente di due aspetti: il terzo tempo appunto e le
relazioni con i genitori. Il terzo tempo parte dal concetto fondamentale di ospite e non di avversario. Quando
la squadra ospite arriva, avviene l’accoglienza con delle
caramelle in spogliatoio. All’ingresso in campo si dà la
mano e si fa l’urlo per la squadra ospite. Durante la partita
«Sono meno costanti. Avendo molti più stimoli e avendo
molta più scelta alla quale aderire, tendono a essere meno
costanti nel tipo di sport scelto, sopratutto all’inizio. Ciò
non è un male, anzi, dà la possibilità di sviluppare varie
attività motorie e ciò è importante. Purché si faccia uno
sport, qualsiasi va bene!»
- I ragazzi mirano di più alla squadra o a essere i migliori e a farsi notare? C’è competizione tra loro o unione e
amicizia?
«La pallavolo per sua stessa definizione è sport di squadra. È difficile all’inizio farglielo comprendere, parlo
della fascia d’età delle elementari, anche se in quinta riescono a capire: se sbaglia uno è un errore per tutta la
squadra. Ma quando sono piccolini si cerca di far capire
in tutti i modi che la pallavolo è uno sport di squadra: non
si premia l’individualità. Per quella c’è il tennis o il nuoto, dove non si ha il confronto con il gruppo ma solo con
l’avversario. I ragazzi che ho allenato sono riusciti a capire questa differenza e chi non la capisce si auto-elimina.
Se uno vuole primeggiare gli altri non glielo permettono
perché sono un gruppo e formano un gruppo anche al di
fuori della pallavolo. Questo è lo spirito giusto».
- Di questi tempi si sente parlare spesso di problemi legati
alle società sportive …
«È difficilissimo riuscire a gestire un gruppo di persone.
Difficile nella pallavolo come nel lavoro.
Bisogna cercare di mediare tra ciò che è il proprio carattere e quello delle altre persone, a maggior ragione per
chi coordina e dirige la società. Questo ha degli onori ma
soprattutto degli oneri: nella scelta delle persone che ti
affiancano, nella scelta degli allenatori. Si affidano dei
ragazzini dai sei ai diciotto anni a delle persone di cui bisognerebbe fidarsi, sia dal punto di vista atletico, cioè per
quanto riguarda le capacità della persona, ma soprattutto
dal punto di vista umano e psicologico.
Tantissime persone lasciano lo sport per colpa dell’incompatibilità di carattere con allenatore e vice allenatore.
È un esperienza molto più frequente di quello che si pensa. Ma non è facile trovare una persona che corrisponda
perfettamente a quella del proprio ideale.
Un bravo allenatore dovrebbe essere anche un bravo insegnante, un bravo psicologo, un bravo amico, un bravo aiuto. Ed è difficile trovare tutto ciò in una persona. Proprio
per questo, se è possibile, bisognerebbe sempre avere due
persone in palestra: ciò che ha debole uno, lo ha forte l’altro. Per cui si compensano a vicenda. Nella mia esperienza
personale non ho cambiato molti allenatori: ai miei tempi
c’erano meno allenatori e più ragazzi, adesso ci sono più
allenatori e meno ragazzi. Per cui non posso dire che mi
sono trovata malissimo con uno o benissimo con l’altro.
Ce n’è stato uno che non mi è stato mai particolarmente
simpatico ed è l’unico allenatore che mi ha fatto piangere;
però non ho mollato la pallavolo, ho mollato lui.
Certo, bisogna abituarsi a stringere i denti un pochino. Le
ultime generazioni probabilmente non sono abituate a farlo. Non è solo quello il problema. Di questi ultimi tempi
i ragazzi hanno avuto sempre la ‘pappa pronta’. Con ciò
intendo dire che se ad esempio qualcosa non è di gradimento per il ragazzo si tende a cambiarla subito e non è
la mentalità giusta. Bisogna cercare di capirsi e cercare di
mediare due posizioni magari agli estremi opposti.
Da questo punto di vista gli abbandoni dell’attività sportiva e dei cambi troppo frequenti di allenatori o di dirigenti
sono problemi molto frequenti: nella pallavolo femminile
inizia ad esserci un decremento del numero di atlete. In
questi giorni sto facendo delle lezioni nelle scuole elementari e in tantissime classi noto che ci sono ragazzine che
non fanno alcuna disciplina. Né ginnastica, né nuoto né
qualsiasi altro sport. Questo è sbagliato. Probabilmente i
genitori non hanno tempo di portarli a fare qualche attività, ma soprattutto c’è un problema di coinvolgimento e di
rapporto umano. Il problema dell’abbandono è una cosa
seria, soprattutto per quanto riguarda l’attività sportiva».
GIULIA BONIFACIO
i genitori devono applaudire le gesta dei ragazzi durante
la partita: per primi lo devono fare gli allenatori e i dirigenti. Al termine i genitori preparano panino e bibita per
tutti i ragazzi. È necessario migliorare i genitori per avere
dei ragazzi migliori, poiché al centro dell’attenzione ci
dev’essere l’atleta. Per quanto riguarda le relazioni, quando un genitore sbaglia, educatamente bisogna far notare
l’errore, come anche bisogna rimarcare quando un genitore è positivo, per essere di buon esempio. L’etica sportiva
è importantissima al giorno d’oggi. Un esempio lampante
è il progetto Educare con lo sport organizzato dalla Provincia di Gorizia, con adesione di tutti i comuni del territorio provinciale. Alla presentazione di questo progetto
quello che mi ha colpito è stata la frase di un professore
che si occupa di pedagogia: ha detto di non condividere la
frase “i ragazzi sono il nostro futuro”, perché è più corretto dire “siamo noi genitori il futuro dei nostri ragazzi”».
SANDRO CAMPISI
ALTA UOTA
- Il fanatismo estremo dei genitori e la vittoria ad ogni
costo cercata dalle società spesso portano a conseguenze
negative.
lascio a te il conto degli anni!»
«A Cervignano la
pallavolo ha cominciato a ‘funzionare’ nel ’75,
- E l’approccio dei giovani con l’attività fisica è cambiato?
uotattualità
«Sì, inoltre c’è un altro aspetto: durante le lezioni c’era la
tendenza a spingere ognuna ad essere più brava dell’altra,
ad accaparrarsi la prima fila in un pezzo importante, ad aggiudicarsi più balletti da sola. Pian piano sale la competizione, non ci si riesce più a rapportare in modo naturale,
perché c’è sempre la voglia di primeggiare. Capitava che,
convocati per la lezione tutti alla stessa ora, si trascorresse
mezz’ora a guardare la ‘più brava’ allenarsi individualmente sul suo pezzo personale. Non dico che la competitività
sia completamente negativa, però questo meccanismo non
porta benefici a livello di relazioni umane, specialmente se
le stesse cose avvengono in un gruppo di ragazzine più piccole. Inoltre questo non si verifica solo se si parla di danza:
da piccola ho giocato a pallavolo e il sistema era lo stesso
(se salti allenamento, non giochi la partita)».
- Da quanto tempo
la pallavolo fa parte della tua vita?
teccia cerebrale per quanto riguarda l’attività fisica».
in
«Purtroppo,
a
volte, sono gli
stessi genitori a
spingere le bambine ad avvicinarsi al mondo
della danza a tutti i costi, magari
in virtù dello
stereotipo classico per cui una
bimba deve diventare per forza una ballerina. Comunque
l’ambiente non era diseducativo solo per i più giovani
e anche nel nostro gruppo si verificavano episodi spiacevoli: per esempio, se c’era una ragazza più in carne,
questa veniva sistematicamente piazzata nelle ultime file.
Ad alcune è stato detto, addirittura, che non potevano più
seguire le lezioni insieme al nostro gruppo, bensì con uno
di livello ed età inferiore. Capisco che ci sono esigenze
particolari in una disciplina come questa, però c’è modo
e modo, e soprattutto bisogna prevedere in modo responsabile le conseguenze che un’umiliazione del genere può
causare a livello psicologico».
5
6
Alta ucina
i
(ovviamente si fa per dire…)
IBIS REDIBIS… NON MORIERIS IN BELLO
MEZZANI DI POZZUOLI AL CACIOCAVALLO
IBIS REDIBIS NON… MORIERIS IN BELLO ALTA UOTA
ba eka
Sono grato al nostro Archimede86@..., al secolo Vanni
Veronesi, che con il suo Viaggiatori nel mondo del numero scorso ha dato l’incipit a questo mio nuovo capitolo.
Ma prima di proseguire preferisco ritornare sull’argomento ‘olio extra vergine’ in quanto, presumibilmente,
non tutti avranno la pazienza e la voglia di arrivare alle
battute finali.
Si era scritto che alcune etichette, parlando di olio extra
vergine, portavano la dicitura «provenienti da oli comunitari». Giorni or sono in un grande centro commerciale,
non di Cervignano, erano in vendita due bottiglie uguali
di olio extra vergine d’oliva, da 0,75 l, di una notissima
ditta, con due etichette uguali in tutto tranne (ma bisognava guardar bene) nella frase «oli comunitari», in piccolo,
su di una di essa, al prezzo di 2,72 euro. Sull’altra, in
vendita a 8,75 euro, figurava la scritta facilmente leggibile «proveniente da olive delle Marche». Il che conferma,
che, come è stato dimostrato, «Ruby non è la nipote di
Mubarak».
Tornando ai viaggi, nel numero scorso, e per pura combinazione, avevo parlato dei miei viaggi da bambino, sul
terrazzino di Eboli, sull’ippogrifo, mentre da grande ho
viaggiato esclusivamente l’Italia. E mi sento ‘fantozziano’ in quanto «quest’anno ho fatto la Tailandia», mi dice
Tizia; «lo scorso anno ho fatto la Birmania», afferma
Caia; «l’anno venturo farò il Messico» aggiunge Sempronia. Ma, evidentemente, tutto il mondo è paese, e le
mucche che Federico Vignola ha visto a Playa Bolonia
in Andalusia, io le ho viste quasi mezzo secolo fa, sulle
rocce di Santa Teresa di Gallura, bere l’acqua salata che
riempiva le buche formatesi con l’erosione.
E veniamo all’«ibis redibis» di cui sopra, una frase che mi
ha affascinato sin dai banchi della terza media, a maggior
ragione quando, quale premio per la conseguita licenza
media, ho potuto soggiornare e viaggiare in zona Pozzuoli, (città nota più per Sophia Loren che, come sanno i frequentatori di quiz, è comunque nata a Roma, e meno per il
tempio di Serapide sulle cui colonne si possono misurare i
fenomeni del bradisismo in zona, e per la solfatara), Campi Flegrei, Baia e Cuma. Località, quest’ultima, abitata
dalla nota sibilla a cui risale, secondo le leggende, l’ibis
redibis e che mi è venuta in mente leggendo il virgolettato
all’inizio dell’articolo di Vanni «…alla fine di un viaggio
c’è sempre un viaggio da ricominciare». Speriamo anche
‘dall’ultimo’, altrimenti «sarà - parole di Vittorio Gassman - una grande fregatura».
E «ibis redibis non morieris in bello», pronunciato dalla
sibilla senza pausa, affermava tutto ed il contrario di tutto.
Ed alle mamme dei soldati romani, che non erano tornati
e che avevano interpretato la frase in senso inverso, le
quali andavano a reclamare per il responso sbagliato (forse reclamando anche la restituzione dell’obolo versato),
la sibilla rispondeva di aver predetto giusto: Ibis redibis
non (pausa) morieris in bello («Andrai, non ritornerai,
morirai in guerra») significato totalmente opposto a Ibis
redibis (pausa) non morieris in bello («Andrai ritornerai,
non morirai in guerra»). E la frase viene portata quale
esempio per sottolineare l’importanza della virgola. Ed
ora a tavola. Buon appetito.
Mezzani al caciocavallo.
I mezzani sono uno degli oltre 100 tipi di pasta descritti
sul vademecum della pasta, in particolare quello a metà
via tra bucatini e zitoni, che assumono, ovviamente, nomi
diversi nelle varie regioni. Spezzati in tre - quattro parti, cuoceteli in abbondante acqua giustamente salata. Nel
frattempo dorate in una larga padella, in olio extra vergine, qualche spicchio di aglio e versatevi dei pomodori
pelati spezzettati, insieme con abbondante basilico; un
niente di sale e fate cuocere leggermente. Versate nella
padella i mezzani scolati, più o meno grossolanamente,
a seconda di come avete ridotto il sugo, e condite con il
caciocavallo grattugiato anch’esso grossolanamente con
una grattugia a punte più alte e larghe, mescolando e ‘saltando’ bene per far amalgamare il formaggio. Servite in
una zuppiera calda cospargendo i mezzani con altro formaggio e basilico spezzettato.
ALBERTO LANDI
Altritempi
Cervignano, 1915: Festa dello Statuto.
le foto
uriose
«Parco giochi percani...»
bambini, non per
Gennaro Riccardi
ia
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b
a
u
t
e
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c
«Si speora qualcosa, nel
conclus po...»
frattem
Andrea Coppola
da parte di Leda!
comelli.pdf 15/02/2010 13.46.30
OLTRE LO SPECCHIO
E
di Manuela Fraioli
7
SGUARDO DIAFRAMMATO
La fotografia è, dopo
la scrittura, la mia
passione più grande.
Posseggo diverse macchine fotografiche, ma
prediligo quelle a rullino. Amo fare foto e mi appassiona condividere questa particolare forma di scrittura con i
miei amici fotografi, con i quali spesso collaboro.
Uno di loro l’ho conosciuto per caso (come destino vuole
quando unisce due intelligenze compatibili): un ragazzo
di Trieste, un fotografo abile e amante dell’immagine e di
quella speciale focale che lui punta sul mondo catturandone i sensi.
Demis Albertacci ha iniziato la sua carriera nel 2004, partecipando a diversi concorsi fotografici e diventando poi
fotografo ufficiale della Barcolana. Da qualche anno è diventato fotografo amato e ricercato dai cosplayer (ragazzi
che si travestono dai personaggi di anime/manga/movie),
partecipando a diversi eventi dedicati a questo nuovo fenomeno. La scorsa estate con Indastria, mostra personale
dei suoi ultimi lavori, ha iniziato a imbastire la tela della
sua carriera fotografica.
Demis è oggi uno dei fotografi selezionati per la mostra
Future Pass alla Biennale di Venezia 2011: insieme a oltre 100 artisti, asiatici e non, vengono esposte le sue fotografie in una cornice che vuole indagare la nuova estetica
asiatica attraverso un linguaggio digitale.
La fotografia di Demis è l’istante di un mondo in perenne
bilico tra l’immagine di un sogno e una realtà evocata e
caotica che penetra, senza però mutare, la figura onirica
che viene ritratta. Demis cattura provocazioni, suggestioni, istanti di memorie fantastiche, anomalie dei sentimenti
e la sua capacità è quella di saper narrare, attraverso luci e
inquadrature, storie e sentimenti che inchiodano i piedi a
terra mentre la mente vola via tra le nuvole bianche.
Future Pass, dal 4 giugno al 27 novembre.
Fondazione Claudio Buziol,
Abbazia di San Gregorio, Venezia.
facebook.com/demis.albertacci
www.demisalbertacci.com
www.labiennale.org
FESTA DEI POPOLI 2011
A CERVIGNANO!!!
Finalmente quest’anno, grazie alla disponibilità di
don Dario Franco e ad un discreto numero di collaboratori che sin dal mese di novembre si sono
messi all’opera, si è potuto organizzare la Festa dei
Popoli nella parrocchia di San Michele Arcangelo,
all’insegna di una frase che per Cervignano, detta in
occasione dell’inaugurazione della Sala Parrocchiale da Mons. Silvano Cocolin, è diventata il simbolo
dell’Accoglienza: «Uno diventa uomo solo quando
sa stare insieme agli altri» .
Del resto non è molto lontano il tempo in cui Giovanni Paolo II ci esortava così:
«Non abbiate paura, aprite, anzi
spalancate le porte a Cristo… Aprite i confini degli
Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti
campi di cultura, di civiltà, di sviluppo… Permettete
a Cristo di parlare all’uomo, solo Lui ha parole di
vita eterna».
Con queste premesse, giovedì 9 giugno, in occasione dello spettacolo conclusivo dell’anno scolastico
‘Canta Estate’, a cura delle scuole primarie e dell’infanzia di Cervignano, è stata ufficialmente presentata la Festa dei Popoli 2011, seguita da un susseguirsi di momenti culturali e sportivi: presentazione
di due libri di tradizioni africane, un laboratorio di
acconciature e narrazioni ed un laboratorio musicale
organizzato dalla Biblioteca comunale; un torneo di
calcetto con la partecipazione di squadre di diverse etnie con la preziosa organizzazione dell’Associazione Amatori Calcio e la Pro Cervignano; uno
spettacolo teatrale offerto dalle Briciole d’Arte del
Ricreatorio San Michele presso il Teatro Pasolini.
Ed è con spirito di apertura e di accoglienza verso
tutti gli uomini di questo nostro meraviglioso Pianeta che che la nostra Comunità si preparasse ha voluto vivere questo evento e la sua fase culminante di
domenica 12 giugno con la S.Messa di Pentecoste,
cantata con cori di varie nazionalità, seguita dalla
sfilata per le vie principali della città accompagnata
dalla Banda mandamentale di Cervignano e la festa
presso la piazza Indipendenza, con l’allestimento
dei gazebi per ogni etnia presente per offrire i propri
piatti tipici a tutti i partecipanti.
Buona Festa dei Popoli 2011 a tutti.
arteottica.pdf 15/02/2010 19.52.07
DON VALTER MILOCCO
per la Caritas Diocesana
FRANCESCA TRAPANI
per Corima
ALTA UOTA
peterpan.pdf 15/02/2010 13.47.50
in materia: la Caritas e la Fondazione Migrantes. La
prima è maggiormente attenta alle necessità materiali, la seconda considera le persone depositarie di
un patrimonio culturale e religioso che va considerato e valorizzato.
Nel fenomeno dell’immigrazione, quello che maggiormente emerge e colpisce l’opinione pubblica è
l’emergenza, ma l’aspetto principale che richiede
attenzione e impegno è la convivenza protratta nel
tempo e stabile. La diversità di cultura e di mentalità, la pluralità religiosa e linguistica sono aspetti che
noi locali un tempo non conoscevamo e che ora ci
si presentano a volte in forma esigente o addirittura
violenta. Tutto ciò va accompagnato e aiutato, per
trovare un modo di vivere rispettoso e accogliente.
Tra le tante iniziative prese al riguardo, la Festa dei
Popoli vuole contribuire alla reciproca conoscenza e
stima tra le nuove realtà etniche presenti nel nostro
territorio e gli abitanti locali, mediante la valorizzazione delle ricchezze culturali, degli usi e dei costumi che ciascuno porta con sé. La Festa dei Popoli
vuole essere, quindi, un ‘luogo’ dove si crea integrazione mediante la socializzazione e lo scambio
culturale.
La Migrantes e la Caritas della nostra Diocesi hanno finora organizzato, assieme alle associazioni, ai
gruppi informali di immigrati e alle parrocchie competenti sul territorio, varie edizioni di Feste dei Popoli, ma finora l’unico territorio non ancora visitato
da questa iniziativa è la Bassa Friulana. Da tempo e
in più riprese si era contattata la parrocchia di Cervignano, senza arrivare ad una conclusione.
ba eka
L’Italia, il Bel Paese, terra un tempo ambita e oggetto di conquista da parte di tanti popoli, ha conosciuto
il fenomeno dell’emigrazione soprattutto dall’Ottocento in poi. A più riprese i nostri villaggi e le nostre
città hanno visto giovani robusti e promettenti partire verso terre lontane, in cerca di un lavoro sicuro
che garantisse a sé e ai familiari una condizione economica più stabile. America del Nord (soprattutto
Canada), America del Sud (in particolare Argentina), Australia, Sudafrica... sono state le nazioni più
visitate. Non di meno alcune nazioni europee: Germania, Francia, Belgio... Spesso ci furono drammi
umani, con persone abbandonate al loro destino.
La Chiesa non poteva rimanere a lungo indifferente ed estranea a questo fenomeno. Per iniziativa di
mons. Scalabrini, vescovo di Piacenza, e di suor
Francesca Cabrini si attuarono delle attività di servizio, principalmente religioso, e anche di supporto e
accompagnamento per i problemi che caratterizzano
la vita e la condizione dell’emigrato. Sarà papa Pio
X a dare maggior ufficialità, istituendo la giornata
del migrante con lo scopo di sensibilizzare i credenti
sul problema della mobilità umana.
Nel periodo che seguì la Seconda Guerra Mondiale, dalle rovine materiali e spirituali causate dai fatti
bellici è sorta una Italia che gradatamente ha conosciuto un livello economico e di benessere mai visto
prima. Grazie ai mezzi di comunicazione, questa
‘nuova America’ non è sfuggita all’attenzione delle molte popolazioni che languono nella miseria nei
paesi del cosiddetto Terzo Mondo.
Spinto dagli stessi motivi e aspirazioni che hanno
caratterizzato l’emigrazione di ieri e, in aggiunta,
a causa delle persecuzioni politiche e religiose, in
questi ultimi decenni è sorto da noi il fenomeno
dell’immigrazione. Dal Vietnam del Sud al termine
del disastroso conflitto, dall’Albania dopo il crollo
del comunismo, dai Balcani ed ora da Afghanistan,
Iraq, Iran e Pakistan, e ultimamente da Libia, Tunisia, Marocco, moltitudini di giovani si riversano nel
nostro Paese, porta dell’Europa.
Anche in questo caso, la Chiesa italiana si è mobilitata attivando i due organismi più rappresentativi
8
GIADA, LA GLORIA DELLA PESISTICA CERVIGNANESE!
Cari lettori, devo confessarvi una cosa, e lo faccio senza vergogna… Per me è stato davvero difficile essere obiettivo in questa intervista. L’amicizia che mi lega a questa persona,
unita a un fascino prorompente abbinato a un fisico da star, mi ha creato non pochi problemi a svolgere un onesto lavoro da giornalista… La ragazza in questione si chiama GIADA
DIJUST, 20 anni, cervignanese, per gli amici Benny (ma tu per me sei la mia Foffina!). Da circa 7 anni ha intrapreso la strada del sollevamento pesi, ottenendo grandi risultati. Lo
possiamo dire? Ma sì, diciamolo… Cara Giada, sei una campionessa! Ho voluto raccontarvi un po’ di lei con questa intervista fatta a casa sua, davanti a una scodella di fragole…
- Come convivono, in te, la voglia di essere bella e il fatto
che il tuo sport richieda una preparazione in un certo senso ‘maschile’?
«Mediamente mi alleno cinque ore al giorno tra mattina
e tardo pomeriggio, ma c’è da dire che non tutti gli
allenamenti sono uguali. Esiste il ‘carico’, in cui il lavoro
è più intenso, richiede più recupero e un maggiore sforzo
fisico, e dunque anche più tempo. Esiste poi lo scarico,
che è una tipologia di allenamento più leggera e quindi
più veloce».
- Alimentazione: segui una dieta particolare?
«Sarebbe veramente gratificante vincere una medaglia
agli europei under 23… Ci spero tanto e sto lavorando
duramente per raggiungere questo obiettivo! Dopo di che,
spero di far parte della squadra che a novembre disputerà
i mondiali validi per la qualificazione olimpica».
- Come ti sei avvicinata al sollevamento pesi?
«Avevo circa 13 anni. Posso sicuramente dire che tutto
è stato per puro caso: ero a scuola durante dei giochi
sportivi. Da li è nato tutto…»
«La mia è stata una scelta di vita senza mezzi termini.
Posso confessare che ogni tanto ci penso… Quando mi
guardo allo specchio magari noto che le mie spalle sono
un po’ troppo larghe, ma il motivo di tutto ciò è molto
semplice: faccio sollevamento pesi a livello agonistico!»
- Obiettivi futuri?
«Noi non abbiamo diete particolari, tuttavia seguo
alcune regole base: ad esempio, mangio sempre i
carboidrati a pranzo, quindi pasta, riso ecc. La sera, dopo
l’allenamento, proteine abbinate a qualche verdura cotta o
cruda. Nei periodi pre-gara intensifico il tutto con qualche
integratore: proteine o aminoacidi per il recupero fisico».
- Se ti dico Londra 2012?
«Bello… Cosa posso dirti: un sogno che si avvera!
Speriamo!»
- Vorresti fare un saluto particolare?
«Sì: saluto mio nonno, che mi guarda da lassù e so che
sarebbe fiero di me».
SALVO BARBERA
- Quanto tempo ti alleni al giorno?
ALTA UOTA
i più
uotati
L’ECCIDIO DEL 28, 29
E 30 APRILE 1945
la ban a della memoria
In questa puntata della BanQa della Memoria ho provato a
raccontare un episodio importante e profondamente triste,
in ogni suo aspetto, che purtroppo è diventato parte integrante della storia recente di Cervignano. Mi riferisco a
quanto accaduto il 28, 29 e 30 aprile 1945, quando, a causa di una rappresaglia da parte dei soldati tedeschi, morirono fucilati ventuno nostri concittadini, giustiziati brutalmente sull’argine del fiume Ausa e in località Tre Ponti.
I punti chiari sugli eventi immediatamente precedenti
l’eccidio del 29 aprile non sono molti e forse, addirittura,
si riducono ad un solo evento chiave: l’attacco da parte di
un gruppo di partigiani della GAP ai danni di alcuni soldati tedeschi. Le testimonianze raccolte fino a poco tempo
fa non hanno mai segnalato i nomi dei diretti responsabili
di questo attacco; solo ora, dopo accurate ricerche, è stato
possibile acquisire nuove informazioni.
Innanzitutto, per sviscerare la vicenda in modo quanto più
possibile oggettivo, è necessario indagare sull’identità dei
soldati tedeschi e sul motivo per cui si trovavano a Cervignano. Approfondendo la questione, prendiamo in analisi
documenti militari ufficiali tedeschi di cui sono venuti
in possesso i comandi americani alla fine della guerra.
I tedeschi che passano per Cervignano gli ultimi giorni
dell’aprile 1945 provengono dalla zona di Grado e sono
un reparto misto composto dalla 6ª Flottiglia trasporto,
dalla Marina Contraerea e da allievi ufficiali della Marina Contraerea: si tratta di circa 70 uomini in tutto, con
un camion che ne traina un secondo, rimasto senza carburante. Il dubbio rimane sul motivo per cui ci sia stato
un conflitto a fuoco che ha provocato conseguenze così
drammatiche, nel momento del passaggio apparentemente pacifico di questi soldati attraverso Cervignano. La
nebbia è ancora più fitta nel momento in cui si riflette su
un’altra premessa molto importante, che consiste nell’Operation Sunrise (Operazione Alba). Com’è noto il 25
aprile denota convenzionalmente la liberazione dell’Italia
dal dominio nazi-fascista. Dal punto di vista storico, però,
ci sono altre date piuttosto precise e significative: risale
al 29 aprile 1945, infatti, la firma di un documento che
segna la resa segreta di 800.000 soldati tedeschi perfettamente armati, divenuta pubblica e ufficiale il 2 maggio.
Nelle clausole del trattato ai tedeschi viene riservato il
trattamento ‘Koppel und Seitengewern’ (con cinturone e
baionetta), vale a dire ‘onorevole’. Anche prima dell’ufficializzazione, però, l’idea che la resa sia ormai molto
vicina è nell’aria; evidentemente, il reparto di marina che
da sud si sta dirigendo verso Palmanova è già al corrente dell’esito di quel viaggio: arrendersi alle truppe degli
Alleati (neo-zelandesi) e consegnare le proprie armi (per
evitare di consegnarle ai partigiani o alle truppe titine)
in presidi appositamente preparati (per quanto riguarda
il nostro territorio, la città di riferimento è Palmanova).
Possiamo, quindi, affermare con certezza che i soldati tedeschi stanno rispettando le regole della resa concordata,
sancita dal buon esito dell’Operation Sunrise, dirigendosi
verso il presidio stabilito per deporre le armi, con l’ordine di non attaccare, salvo per difendersi da eventuali
attacchi. Nel corso del loro spostamento, in diversi punti
del tragitto vengono fatti segno di numerosi colpi, finché,
anche alle porte di Cervignano, il reparto misto viene attaccato da alcuni gruppi partigiani. Durante questi scontri
muoiono due soldati e ne vengono feriti il doppio (uno
di questi morirà alcuni giorni dopo durante il ritorno in
Germania). Gli attacchi subiti dal reparto a Cervignano
sono documentati da fonti ufficiali firmate dal generale
Herrmann, responsabile operativo del Gruppo di Combattimento H, che descrive in una riga, nel suo rapporto,
«l’eliminazione di alcune sollevazioni di alcune bande a
Cervignano». A questo punto, però, le condizioni che garantiscono un pacifico transito delle truppe attraverso il
territorio cervignanese vengono irrimediabilmente compromesse: infatti la risposta tedesca non si fa attendere.
Innanzitutto il reparto attaccato viene subito raggiunto da
alcune forze militari che si trovano a San Vito al Torre,
più precisamente da un plotone di SS cosacche, da un
reparto di SS Polizei e dalla 7ª Compagnia della 24ª divisione ‘Karstjager’ al comando del tenente Merkwald.
Quest’ultima, la più armata, dopo essere giunta nei pressi
di Aquileia, inizia un’operazione di assalto a Cervignano:
è una vera e propria guerriglia, ci sono colpi di arma da
fuoco in via Pradati, via Aquileia, sulle sponde del fiume Ausa, in via Roma, in piazza Indipendenza e presso
l’attuale incrocio di via Udine (Rotonde). I tedeschi usano le mitraglie pesanti contro Villa Triestina (via Udine)
per eliminare un nucleo di resistenti. Proprio per questo
motivo molti cervignanesi ricordano nettamente il fragore
delle mitragliatrici ‘Flak’ da 20 mm: questo ci dà ulteriore conferma dell’appartenenza di questi soldati al gruppo
proveniente da Grado, visto che l’arma è utilizzata esclusivamente dalla contraerea. Tutte questi combattimenti
sono raccontati, in modo frammentato, anche in alcune
interviste raccolte da Giorgio Milocco nel libro Quei colpi
di coda: per esempio don Giacomo Cian, decano dal 1930
al 1959, racconta che il comando tedesco, a Cervignano,
non era mai stato particolarmente aggressivo e non si interessava alle faccende interne. Continua don Cian: «noi
cittadini eravamo indifesi sia dalla parte dei tedeschi, sia
da quella dei partigiani, che avevano i loro piani di cui la
popolazione era all’oscuro o di cui veniva al corrente per
sentito dire». Lo scarso interesse per Cervignano da parte
dei tedeschi è dimostrato nei loro documenti ufficiali: le
zone considerate pericolose, perché vicine alle truppe titine e russe, erano altre. Don Cian racconta, inoltre, che
il 28 aprile è sabato ed è già stata data la notizia della
resa della Germania (Operation Sunrise) e che, quindi,
sembrava tutto finito: ciò a prova del fatto che, sebbene
le date ufficiali siano precise, l’esito della guerra è già
chiaro prima della fine del mese di aprile.
Purtroppo, però, a Cervignano la tragedia doveva appena
iniziare: il rastrellamento è organizzato non dalla 7ª Compagnia
(che prosegue velocemente con
i marinai verso Palmanova), ma
dalle SS Polizei con l’ausilio dei
cosacchi. Il 29 aprile 1945, di
mattina, i soldati tedeschi si aggirano per le vie della cittadina,
entrano nelle case e sequestrano
alcuni uomini, raggruppandoli in
piazza Unità. Nel gruppo di persone, alcune sono messe da parte
e proprio su di queste si abbatte la rabbia e la frustrazione dei
soldati tedeschi, che danno vita,
come di frequente per tutto il
periodo della guerra, alla rappresaglia in risposta all’uccisione
dei loro soldati da parte dei partigiani. Mario Gregoris, classe
1931, racconta di aver assistito
da lontano alla tragica scena in-
/10
sieme alla nonna: «Un prigioniero, vedendola, disse:
“Dica a mia mamma la fine
che ho fatto!”». Continua
raccontando che «…vicino alla riva del fiume li hanno ammazzati brutalmente.
Uno con la pistola sparava al petto e l’altro finiva l’opera
sparando in testa. Uno per uno». Quattordici uomini vengono fucilati presso la vecchia fornace Sarcinelli, lungo
l’argine del fiume Ausa, mentre altri otto sono giustiziati
in località Tre Ponti. Pietosa, la difficoltosa operazione di
recupero delle vittime cadute nel fiume, da parte di alcune donne e di alcuni uomini più coraggiosi. Il giorno 30
un’aliquota di truppe neo-zelandesi del generale Frejburg
arriva finalmente a Cervignano .
In conclusione, però, paiono inevitabili alcune riflessioni
completamente lontane da ogni implicazione politica. Innanzitutto è quanto mai doveroso condannare l’uccisione
di 21 innocenti, giovani uomini o padri di famiglia. Ma
entrando per un attimo nel terribile codice della guerra,
sorge una domanda: sapendo che era triste consuetudine
attuare una rappresaglia sistematica ed arbitraria da parte
dell’esercito tedesco per ogni uccisione di un loro soldato, la strage di cervignanesi poteva essere evitata? Ancor
oggi rimane aperto un inquietante interrogativo: perché,
pur sapendo quale fosse il motivo scatenante la rappresaglia nazista, e pur conoscendo gli autori che con la loro
azione hanno provocato la reazione nazista, inconsulta
ma prevedibile, gli unici a pagare con il sacrificio della
vita siano state persone innocenti ed estranee alla vicenda, strappate alle loro famiglie in una tiepida mattina di
aprile, e costrette a pagare un prezzo troppo alto per una
colpa mai commessa?
Fonti:
Quei colpi di coda di Giorgio Milocco.
Operation Adiatisches Küstenland di Stefano di Giusto.
Operation Sunrise di Elena Aga-Rossi e Bradley F. Smith.
Nel nome della Resa, di Marco Picone Chiodo,
archivi del N.A.R.A di Washington e B.A.M.A di Friburgo
SOFIA BALDUCCI
Il recupero delle salme dopo la strage.
9
A CENA COL DRAGONE
Le cronache di Cina: le bacchette, il piccione e la democrazia
bito ci sia grande differenza, nel paese del Dragone. Sono
ovviamente l’unico straniero nella stanza, quasi sicuramente l’unico nel ristorante, e non escluderei nell’intera
città. Gli altri guardano, osservano, bisbigliano: mi sento
allo zoo, solo che stavolta il panda sono io. Tattica da
adottare: sorriso di circostanza e sguardo fisso nel vuoto,
prima o poi passerà.
La cena inizia, l’atmosfera è allegra. Il Governo ha da
poco annunciato i sussidi all’agricoltura, che faranno la
fortuna delle persone presenti a tavola. Entra in scena il
‘vino di riso’, in realtà più simile alla grappa, e diventa
subito protagonista, in una successione di brindisi scanditi dall’augurale «Kambè». Liu si avvicina e mi bisbiglia qualcosa in un inglese reso biascicato dall’alcool:
«Non vorrei bere, ma qua funziona così, non ci si può
tirare indietro». Le cameriere iniziano a portare in tavola
le prime portate: pecora arrosto, verdure stufate, zuppa
di tofu e molte altre cose sulla cui origine non ho l’ardire di chiedere. Per non sentirmi troppo un ‘diverso’, mi
sforzo di usare le bacchette, ma ottengo pochi risultati.
È una sensazione strana, quella di sentirsi un ‘diverso’,
non solo nel classico trittico lingua-cultura-usiecostumi
ma anche in cose più semplici. In quel preciso momento,
la cosa che desidero di più al mondo è sapermi destreggiare con le bacchette come fanno loro, volteggiando tra
i piatti in maniera rapida, veloce, precisa, armonica. Io
ci provo, ma niente, resto un diverso, un extracomunitario delle bacchette. Mi guardano per un po’, poi mossi a
compassione blaterano qualcosa a una cameriera.
Mi vengono portati forchetta e coltello, ma questa ventata
di ottimismo si spegne alla vista della prossima portata:
piccione arrosto. Ecco, il piccione mi fa schifo. Ma non
solo l’idea di mangiarlo, mi fa schifo proprio sempre, anche in piazza San Marco a Venezia, anche a Cervignano.
Ovunque. Sono un razzista dei piccioni. Capita. Solo che
ad Hohhot tirarsi indietro non si può, «è uno dei piatti
tipici», «un assaggio e basta», e allora tocca provare. Se
non muoio prima ne uscirò fortificato, mi aggrappo disperatamente al proverbio e procedo.
La cena è finita. È durata più di tre ore, l’aria nella saletta
è intrisa di fumo, l’atmosfera allegra. In fin dei conti, direi che è andata bene. Al ritorno in albergo mi fermo nella
hall, dove ci sono alcuni computer connessi ad Internet
a disposizione dei clienti. Provo ad accedere a Facebook, ma la schermata mi dice che si tratta di un sito non
disponibile - il Dragone non vuole - ma riesco ad entrare
comunque per vie traverse. A modo mio, sto facendo una
piccola infrazione, infiltrandomi tra le maglie del regime, mettendomi contro il Sistema. Sento quasi il brivido
dell’essere un contestatore, pur nel mio piccolo, inizio a
sbirciare furtivamente nella hall per controllare chi c’è,
aspettando la comparsa di qualche ufficiale in divisa kaki
con la stelletta rossa sul cappello. Poi ci penso e mi sento
un cretino che sta giocando a guardie e ladri, spengo e
vado a dormire. Eppure in Cina basta poco più di quello che sto facendo io per finire dentro con l’etichetta di
‘sovversivo dei poteri dello Stato’. Mi viene voglia di
tornare a casa. Il Dragone non mi sta più molto simpatico, quasi quanto il piccione.
Simone BearzoT
Nello scorso mese di aprile, presso la comunità di Muscoli, si è tenuta la festa del patrono San Zenone Vescovo. Gli eventi comunitari per la celebrazione della solenne festa sono iniziati venerdì 15 aprile, quando si è
tenuta nella casa canonica la presentazione del libro Don
Giovanni Banelli, parroco di Muscoli dal 1988 al 1996.
Questo piccolo libro, frutto del lavoro del Gruppo Giovani della parrocchia, è una raccolta di testimonianze e
ricordi della piccola comunità su don Banelli. All’evento
sono intervenuti il Vicario Generale dell’Arcidiocesi di
Gorizia, mons. Adelchi Cabass, e il ricercatore, storico
locale e scrittore, prof. Ferruccio Tassin, che hanno commentato ed analizzato non solo il libro, ma anche il vivere quotidiano di una parrocchia legata al suo parroco.
La serata è stata inoltre allietata da alcuni brani musicali
eseguiti da Ilaria Girardi e Mauro Pestel.
Coloro che desiderano acquistare una copia del libro possono rivolgersi a don Moris.
GIACOMO JARC
alessiopaolo.pdf 20/04/2010 7.53.31
burba.pdf 15/02/2010 13.46.06
ALTA UOTA
 foto in alto a sinistra: Ilaria Girardi e Mauro Pestel

foto in basso a sinistra: Ferrucio Tassin, mons. Adelchi
Cabass e don Moris Tonso
uotati
DON GIOVANNI BANELLI:
UNA BELLA STORIA DI POESIA E DI SPERANZA
i più
Hohhot è una città dal nome improbabile, conta più abitanti di Torino e Napoli messe insieme ed è la capitale della Mongolia Interna, una tra le più grandi regioni
cinesi. Larghi viali con sparuti alberi, condomini come
enormi casermoni in omaggio al razionalismo comunista, qualche locale illuminato da neon colorati. In lontananza, si vedono le montagne che separano questa terra
dalla Mongolia vera e propria. A differenza di Pechino,
asfissiata dai gas di scarico di un traffico tentacolare, a
Hohhot il cielo è di un azzurro bellissimo, le nuvole spazzate dal fresco vento primaverile.
«Stasera andiamo a cena con un funzionario del Governo
e alcuni clienti. Preparati, di solito si beve molto». Liu mi
fa da collaboratore, guida e ‘consigliere’. A occhio ha la
mia età, anzi qualche anno di meno: più verso i venti che
non i trenta. Un luogo comune recita che i cinesi sono tutti uguali. Liu sembra fatto apposta per smentirlo: è molto
più sgraziato della media dei suoi connazionali. Però è
gentile e parla inglese, pregio non da poco. Il ristorante si
trova al terzo piano di un palazzone illuminato, la hall è
molto lussuosa, ragazze vestite elegantemente ci accompagnano al nostro tavolo.
Il terzo piano è essenzialmente un lungo corridoio sul
quale si affacciano una miriade di porte. Dietro ad ognuna, una piccola saletta separata dal resto. Liu mi fa entrare nella stanza, al cui centro troneggia un grande tavolo
rotondo con un vetro al centro. La figura più autorevole,
in elegante vestito grigio da burocrate e pettinatura precisa con la riga in parte, è il signor Hong, il funzionario del
Governo. O del Partito, non ho capito bene. Anche se du-
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STORIA, BIBBIA E MISTERO:
UN LIBRO SU MOSÈ
Centro Giovanile di Cultura e Ricreazione “RICREATORIO SAN MICHELE” Cervignano del Friuli
www.ricre.org - www.altaquotaonline.org
CROSSROADS
LUIGI COSMI è l’autore di un bellissimo saggio, pubblicato da Goliardica Editrice, intitolato Mosè dei faraoni.
Non voglio fare altri preamboli: vi prometto che ciò che
leggerete sarà davvero sorprendente...
- Innanzittutto, chi è Luigi Cosmi?
giovedì 23 giugno 2011
ore 20.45
Sala Don Bosco
Ricreatorio San Michele
via Mercato 1
Cervignano del Friuli
ingresso gratuito
MOSÈ DEI FARAONI
Analisi storica, teologica e
biblica della vita del Profeta
Relatori:
uotati
× LUIGI COSMI, autore del libro Mosè dei faraoni,
edito da Goliardica Editrice
× prof. don GIORGIO GIORDANI, Licenziato in Teologia
e Sacra Scrittura, docente di Sacra Scrittura nello Studio
teologico interdiocesano di Trieste, Gorizia e Udine, preside del
Liceo Linguistico “Paolino d’Aquileia” di Gorizia
Moderatore:
× ANDREA
DONCOVIO, direttore di Alta Quota
i più
ARTE OTTICA SPEGNE 30 CANDELINE!
Il negozio ARTE OTTICA compie trent’anni di attività nel
nostro centro cittadino. Siamo andati ad intervistare i due
gestori dell’esercizio, Nellido e Mirko Pasqualini, padre
e figlio che lavorano insieme con passione e dedizione,
mantenendo quel rapporto umano con il cliente che nella
società attuale sta in parte scomparendo a favore dei numeri del grande centro commerciale.
- Quando avete aperto l’attività?
«Precisamente il 23 gennaio 1981, quindi 30 anni giusti
giusti».
- Qual è stato il periodo di maggior fervore economico in
tutti questi anni?
«Diciamo che abbiamo avuto una costante crescita negli
anni, in base anche alle novità offerte nel nostro settore.
In generale il lavoro c’è sempre stato, quello che conta è
la professionalità. Inoltre bisogna sempre stare al passo
con i tempi facendo continui aggiornamenti, sia in campo
professionale sia in quello del marketing».
- Cos’è cambiato rispetto a 30 anni fa in questo lavoro?
«La gente è più esigente nella scelta perché è più informata. La tecnologia ci ha aiutato moltissimo, permettendoci
di lavorare in maniera più precisa. Oggi questo tipo di
attività viene vista più come professionale e di servizio
che non come puro commercio».
«A metà degli anni ‘50 mio padre emigrò in Venezuela
per lavoro; io dovevo ancora nascere, mio padre riuscì a
ricomporre il nucleo familiare solo l’anno dopo, quando
tutti ci trasferimmo a Caracas, che a quel tempo era una
vera capitale moderna: evoluta, caotica, ma assai migliore
rispetto ad oggi… Alle elementari ho frequentato sia la
scuola con ordinamento venezuelano, sia quella con ordinamento italiano, a giorni alterni; finite le elementari,
si poteva scegliere fra la scuola solo venezuelana e quella
solo italiana. Scegliemmo la seconda, anche se molte materie erano comunque legate al luogo dove vivevo: la storia, la geografia, la letteratura e l’educazione civica erano
‘doppie’, italiane e sudamericane».
- Una faticaccia...
«Sì, senza contare che il mio liceo scientifico era di quattro
anni, ma il programma era comunque tarato sui normali
cinque: puoi immaginare la quantità di studio! Lingua e
letteratura straniera; inglese. Lingua e letteratura ‘madre’:
italiana. Lingua e letteratura spagnola e sudamericana...
perché ero in Venezuela. E infine latino, ovviamente. Più
tutte le tipiche materie dello scientifico. Poi fu la volta
dell’università: decisi che era il momento di andare in
Italia. Per me, l’università era sostanzialmente tre cose:
medicina, legge, ingegneria. Il resto non sapevo neanche
che esistesse... Arrivai dunque a Padova, dove fui accolto
dai miei zii, conosciuti per la prima volta in aeroporto.
Scelsi medicina, ma...»
- Ma?
«I primi due anni completai tutti gli esami, eppure sentivo che qualcosa non andava. Mi pesava alzarmi e andare
all’università e ciò mi faceva pensare: “Ma come? È una
scelta che ho fatto io, non è possibile soffrirne”. Così,
scrissi una lettera ai miei genitori: “Mi iscrivo a psicologia”, facoltà che avevo scoperto per puro caso esistere a Padova. Ma nemmeno quella fu la volta buona: mi
dividevo fra Venezuela e Italia, non sapevo davvero che
fare della mia vita. Nel frattempo, però, mio padre era diventato qualcuno a Caracas: era regista e aveva una casa
di produzione cinematografica. Mi propose dunque di entrare nel mondo della pubblicità, ambiente che conosceva
bene: in poco tempo fui assunto in un’azienda pubblicitaria molto importante. Ci rimasi due anni e mezzo, ma il
richiamo dell’Italia e della ragazza che avevo conosciuto
all’università mi convinsero: sarei tornato definitivamente per riprendere gli studi. Così, tornai a Padova, mi sposai e poi mi trasferii con mia moglie a Roma, dove mi
laureai in psicologia nel 1985. L’anno dopo ero già psicologo a Udine: da allora sono consulente per la formazione
degli insegnanti di sostegno. Mi sono occupato anche di
elaborazione di dati cognitivi».
- Devo dire che questo si nota, nel libro: la capacità di analisi dei dati a disposizione... Venendo più nel dettaglio al
tema dell’opera, com’è nata l’idea di un saggio su Mosè?
«Cominciò tutto un pomeriggio a Caracas. Avevo quindici anni ed ero solo in casa: vidi un volumone viola sugli scaffali, con la scritta dorata La Sagrada Bibla (era la
ALTA UOTA
- Raccontateci un simpatico aneddoto che vi è capitato..
«Un giorno una signora era venuta per il controllo visivo,
ha cambiato la lente sul suo occhiale e ha ordinato un
paio di occhiali da vista che le piacevano molto. Alcuni
giorni dopo è venuta a ritirarli ed era molto contenta, ma
- Non voglio svelare la tesi più affascinante di questo saggio, ma una cosa è doveroso affermare: nel libro, l’interpretazione della vicenda di Mosè è - non esagero - ‘rivoluzionaria’, o quantomeno molto originale.
«Diciamo che è un’interpretazione... nuova. Basata, però,
rigorosamente sul racconto dei testi sacri e sulle testimonianze dell’archeologia e dell’egittologia. Queste ultime
dimostrano, per me inequivocabilmente, che quanto leggiamo nella Bibbia a proposito di Mosè è vero, autentico: si trattava solo di dare un sistemazione interpretativa
chiara. Non so se la mia sia quella corretta: la mia è una
proposta. Sarà il lettore a giudicare».
- Di certo, quella famosa frase “Dio cercò di farlo morire”
è uno dei punti focali del saggio...
«Mi ha ossessionato per anni. Ricordo che domandai in
classe, al professore di religione, il motivo di quell’episodio così incredibile; la replica fu: “Chi ti ha mai detto
una cosa del genere?”. Eppure era scritto nell’Esodo! Gli
stessi interpreti, cristiani ed ebrei, di tutte le epoche e di
tutti i luoghi, o non ne hanno parlato, o ne hanno dato una
spiegazione rapida e poco convincente».
- In Mosè dei faraoni si ha anche l’opportunità di riscoprire alcuni grandi personaggi dell’antico Egitto come
Ramses II e, soprattutto, Amenophis IV, il famoso ‘Akhenaton’. Quest’ultimo mi ha affascinato fin da bambino...
«Fu un personaggio straordinario. Abbandonò il politeismo e instaurò una religione basata sul culto del solo dio
Aton, rappresentato come ‘disco solare’; creò dal nulla
una nuova capitale, Tell El Amarna; si fece raffigurare,
per la prima volta nella storia egizia, con tratti di assoluto
naturalismo, rompendo con la tradizionale astrazione e
idealizzazione dell’arte precedente. In un libro di cui non
condivido più quasi nulla e che tuttavia mi ha influenzato
moltissimo, ossia L’uomo Mosè e la religione monoteista,
Sigmund Freud arriva addirittura a dire che il dio unico
degli Ebrei e di Mosè altro non sarebbe che una ‘riedizione’ del monoteismo di Akhenaton».
- E direi che il compito è perfettamente riuscito!
- Qual è la vostra opinione in merito alla concorrenza dei
grandi centri commerciali?
«Il rapporto può essere visto sia in termini professionali sia in termini di amicizia e familiarità. Essendo in un
contesto di paese, naturalmente, abbiamo stretto diversi
rapporti di questo genere».
«Non volevo scrivere una storia ispirata a Mosè: anzi,
sentivo l’esigenza di fare piazza pulita di tutto l’immaginario cinematografico e di ‘sentito dire’ su questa figura
così complessa. Nello stesso tempo, mi sono preoccupato
molto di non appesantire il libro: desideravo un’opera accessibile a tutti, non solo agli addetti ai lavori».
«Vero. In ogni modo, il suo è stato un libro che mi ha fatto
molto riflettere, assieme a tanti altri che ho voluto - e non
dovuto - leggere per capire la figura di Mosè. Quello che
a me interessa, più di ogni altra cosa, è presentare un’ipotesi basata sul rigore assoluto riguardo ad un argomento
di importanza enorme...»
«Sicuramente la soddisfazione di lavorare in un campo
vasto, dalla semplice vendita al dettaglio passando dal
laboratorio per arrivare al reparto visite. Come difetti, la
pressione fiscale e la burocrazia in generale».
- Com’è il rapporto con i clienti?
- Di questo libro colpisce una cosa, in particolare: la capacità di fondere la serietà e il rigore di un saggio, per
giunta fedelissimo al testo biblico, con uno stile da vero e
proprio romanzo.
- Tesi affascinante, ma Freud sbagliava spesso.
- Pregi e difetti di questo genere di attività.
«L’unica concorrenza che può darci il centro commerciale è la più ampia scelta nelle montature, soprattutto da
sole, anche per una questione di spazio. Nei centri commerciali gli ottici dispongono di ampi locali, mentre nel
negozio al dettaglio bisogna ottimizzare tutti gli spazi
possibili. Tuttavia, nei grandi centri cala la professionalità e di conseguenza il fattore umano, che secondo noi è
fondamentale per il lavoro».
Bibbia in spagnolo), e sentii la curiosità di aprirla, cosa
mai fatta prima. Aprii il tomo sulla pagina segnata dalla
fettuccia segnalibro e lessi questa frase: “Mentre si trovava in viaggio... Dio cercò di farlo morire». Ne fui sconvolto. Ma come? Mi era sempre stato insegnato che Dio
era amore, pace, bontà immensa... e la Bibbia riportava
una frase come questa? Volli subito saperne di più: sfogliai all’indietro il libro e capii che il soggetto del tentato assassinio divino doveva essere Mosè. Proprio lui,
il liberatore degli Ebrei dalla schiavitù egizia! Il libro ha
la sua origine in quel fatidico pomeriggio ed è frutto di
decenni di ricerche appassionate, letture onnivore, studi
da autodidatta. Volevo sottolineare proprio quest’ultimo
aspetto: non ho una formazione da teologo né da egittologo, ma ho studiato molto per conto mio e tante volte mi
sono affidato a rabbini, sacerdoti ed esperti del settore,
con molta umiltà».
VANNI VERONESI
ad un certo punto si è bloccata perché, guardandosi allo
specchio, si vedeva tutte le rughe. A quel punto la signora
ha voluto farsi rimettere le lenti vecchie, preferendo non
vedere bene piuttosto che vedersi le rughe!»
- Un bilancio complessivo di 30 anni di attività?
«Siamo soddisfatti del lavoro, nonostante le difficoltà che
ci sono state. Il fatto che l’attività passerà da padre in figlio sarà un motivo di soddisfazione. Speriamo di trovarci qui fra trent’anni, per festeggiare l’anniversario dei 60
anni di attività!»
SANDRO CAMPISI
 Luigi Cosmi (a sx) e Andrea Doncovio alla presentazione del libro Mosè dei faraoni (Trieste, Libreria Lovat,
19 maggio 2011).
11
Cervignanesi nella storia
di VANNI VERONESI
TERZA PUNTATA
L’ABATE GIOVANNI BIAVI
Giovanni Biavi è di sicuro il cervignanese più illustre
della storia: una figura di rilievo - oserei dire - internazionale. Per scoprire la sua storia, vorrei proporvi, così
come sta a giace (particolarità ortografiche comprese),
il testo che rappresenta la fonte principale sulla vita di
questo importante personaggio: la Istoria della contea di
Gorizia di Carlo Morelli di Schönfeld (1730 - 1792). In
un colpo solo, riscopriamo la figura di Giovanni Biavi e
il bell’italiano del Settecento.
 Fig. 3. Copertina delle Rime di Giovanni Biavi.
Foto tratta da Cerveniana - Toponomastica urbana
del comune di Cervignano del Friuli. Una mostra
alla riscoperta della nostra identità (catalogo),
Mariano 2010.
Fig. 2. Simbolo dell’Accademia d’Arcadia.
Note
[A] È importante ricordare che, in quel periodo, Cervignano era
territorio dell’Impero austro-ungarico. Si veda anche la frase:
«Colla partenza del conte di Harrsch lasciò (1733) anche il Biavi l’Italia e ritirossi in Cervignano».
[B] Con «maneggi», Carlo Morelli intende riferirsi alle azioni
di sobillamento della popolazione polacca e ungherese ad opera
di fazioni favorevoli alla Francia e ostili alla casa d’Asburgo.
Biavi, grazie alla sua corrispondenza con il barone Tiepold,
rappresentante imperiale a Varsavia, e con il gesuita Granelli,
confessore dell’imperatrice Amalia e dunque vicino al ministro
della guerra austriaco, seppe fermare in tempo i focolai di rivolta e di guerra.
[C] Dal 1707 al 1734, il Regno di Napoli fu alle dirette dipendenze dell’Impero austro-ungarico: ecco perché il testo parla di
‘viceré’ inviati da Vienna a Napoli.
[D] L’Accademia d’Arcadia venne fondata a Roma nel 1690
(ed esiste ancora oggi!). Nata per riunire poeti e scrittori sotto il
comune gusto classicista e anti-barocco, per molto tempo segnò
il destino letterario del nostro paese. Ogni membro, al momento
dell’ingresso in Accademia, assumeva un soprannome ‘pastorale’: quello di Giovanni Biavi fu, appunto, Fiorillo Cromonio.
porporato a Roma ed indi a Napoli; ed il conte Luigi di
Harrsch, che succedette nella dignità di vicerè al cardinale, lo trattenne alla sua corte col titolo di consigliere
[nota C].
L’imperadore Carlo VI, per ricompensare i servigi prestatigli dal Biavi in Polonia, avevagli al passaggio di lui
per Vienna (1721) fatto assegnare una pensione di quattrocento fiorini; e la s. Sede mostrandosi nulla men grata
verso di esso assegnoli pochi anni dopo (1728) un uguale
annuo provvedimento. Era generalmente il suo credito
tale in Roma, che conseguì (29 marzo 1732) per sé e pei
suoi nipoti la dignità di patrizio romano.
Molta pratica ne’ pubblici affari non fu il solo pregio del
nostro cittadino. Era egli ancora studioso delle belle lettere. In Firenze fu ricevuto membro di quella accademia,
e l’Arcadia di Roma
lo distinse col nome
pastoreccio di Fiorillo Cromonio [nota
D]. Coltivò dalla sua
gioventù la poesia, e
diede all’età di ventinove anni alla luce
il dramma intitolato:
Fulvia, ch’egli dedicò all’imperadore Carlo VI. Le sue
serie
occupazioni
in Napoli non lo
distolsero dal suo
genio per la poesia.
Nell’anno 1722 pubblicò in Roma Coro,
sua tragicommedia, e
nel susseguente anno
in Napoli Polinice,
tragedia
dedicata
al cardinale Pietro
Ottoboni,
ch’egli
probabilmente avrà
scritte in tempo della
sua dimora in Polonia. V’ha un’altra sua
tragedia intitolata:
La morte di Cesare,
ch’ei dedicò al cardinale Angelo Cienfuegos, di cui non
sappiamo né l’anno
né il il luogo in cui fu
stampata. Finalmente nell’anno 1722
comparve in Napoli
un volume in quarto
delle sue rime.
Colla partenza del
conte di Harrsch lasciò (1733) anche il
Biavi l’Italia, e riticrogiolo.pdf 15/02/2010 13.47.03
rossi in Cervignano
luogo della sua nascita. Benché gli fosse
stata esibita la parocchia di Lucinico,
la ricusò, e preferì lo
studio e l’educazione
de’ suoi nipoti alle
rendite non piccole
di quel benefizio. In
ALTA UOTA
 Fig. 1. Ritratto di Giovanni Biavi (xilografia dal...
delle sue Rime). Foto tratta da A. Rossetti, Cervignano e il suo antico territorio nel Medioevo, 1984.
•
t
ultura
Dalla Istoria della contea di Gorizia di Carlo Morelli di
Schönfeld, vol. III, pp. 264 ss:
«Da Giuseppe Biavi e da Borosa Claricini nacque il nostro Giovanni in Cervignano il dì 26 febbraio 1684 [nota
A]. Ricevette nelle scuole dei Gesuiti di Gorizia le prime
istruzioni, e terminata in patria la filosofia passò (1705)
a Vienna per attendere agli studi teologici. Da Francesco
Ferdinando Rumel vescovo di Vienna fu (1707) consagrato sacerdote; e finito il corso di teologia portossi in
Cracovia, dove ottenne (27 giugno 1711) la laurea sì delle
teologiche, che delle filosofiche discipline. Dalla casa del
principe Alessandro Lubomirski, in cui dimorò (nel 1714)
come segretario, entrò in qualità di auditore presso monsignore Spinola, nunzio apostolico in Polonia.
L’auditore del Nunzio non dimenticossi di essere suddito
austriaco. Spettatore de’ maneggi, onde il partito francese eccitava in quelle contrade gli animi contro la casa
d’Austria, seppe mantenere col barone Tiepold, residente
imperiale in Varsavia, colla maggiore destrezza una non
interrotta corrispondenza, comunicandogli tutti gli andamenti segreti della Francia, diretti ad accendere il fuoco
della guerra in Ungheria; e dando anche spesso col mezzo
del padre Granelli, confessore della vedova imperadrice
Amalia, immediati ragguagli al ministro della corte di Cesare [nota B].
Dalla Polonia fece l’abbate Biavi nell’anno 1721 ritorno in Vienna, dove il cardinale Michele d’Altan lo ricercò per suo segretario. In tale qualità accompagnò egli il
questo suo ritiro scrisse la istoria dei fatti accaduti in Europa dall’anno 1700 all’anno 1732, che conservasi manoscritta in due grossi volumi nelle mani de’ suoi eredi.
Morì Giovanni Biavi in Cervignano nel di 12 agosto
dell’anno 1755, e fu seppellito nella chiesa parocchiale
di detto luogo».
12
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Parrocchia San Michele Arcangelo,
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ri rreatorio
o
I “Belli per caso”, squadra vincitrice della terza edizione del Torneo di Calcio a 5
organizzato dal Ricreatorio San Michele. Da sinistra: Roberto Lasaracina, Raffaele
Contin (eletto anche miglior giocatore del torneo), Vlado Markovic, Massimiliano
Casadei, Daniele Marino, la consigliera del Ricreatorio Giulia Mari e Stefano Florio.
Al torneo, durato tre settimane, hanno partecipato 20 squadre e oltre cento atleti.
CAMPO IN SINTETICO: VIENI A GIOCARE ANCHE TU!
Il campo di calcio in sintetico del Ricreatorio San Michele
può essere prenotato ogni giorno, dal lunedì al venerdì
dalle 18.30 alle 22.30, per organizzare partite tra amici,
con la possibilità di usufruire degli spogliatoi per le
docce a fine gara. Per le prenotazioni è sufficiente contattare il responsabile del campo, Matteo
Comuzzi, telefonando al numero 345 4549770.
ROBERTO GREGORIS
CENTRO ESTIVO
IN RICREATORIO!
NUOVO PRESIDENTE DELLA PRO CERVIGNANO
DAL 13 GIUGNO INIZIA ‘DJ: UN RITMO PER CAMBIARE’
Sarà Roberto Gregoris, a partire dalla prossima stagione
calcistica, il nuovo presidente della Pro Cervignano. Nel
Dove trascorrere i primi giorni di vacanza quest’estate?
corso di un’assemblea straordinaria tenutasi giovedì 19
Ovviamente in Ricreatorio!
maggio e presieduta dall’assessore allo sport, Gigi SaLunedì 13 giugno inizia infatti l’imperdibile centro estivo ‘DJ, un ritmo per
vino, l’attuale consiglio direttivo ha formalizzato le sue
cambiare’, organizzato dal Ricreatorio San Michele. Per tre settimane, fino a venerdì 1
luglio, tutte le mattine, dal lunedì al venerdì con orario 8:30 - 12:30 (ma accoglienza già a par- dimissioni, restando comunque in carica per la normale
tire dalle ore 8 e fino alle ore 13 per venire incontro alle esigenze dei genitori che lavorano), gli amministrazione fino al 30 giugno, data della chiusura
ambienti del Ricreatorio ospiteranno bambini e ragazzi dai 6 ai 12 anni per offrire loro momenti della stagione. La stessa assemblea ha deliberato, sucdi svago, divertimento e formazione. Assieme agli animatori del Ricreatorio, i partecipanti sa- cessivamente, l’ingresso in società di sei nuovi dirigenti
ranno impegnati in giochi appassionanti, laboratori manuali e attività sportive. Il tutto, senza (con Gregoris, Giorgio Tellini, Roberto Spanghero, Marco
scordare le immancabili gite settimanali alla scoperta dei luoghi del nostro territorio.
Finco, Damiano Gobbo, Silvio Falanca), onde essere in
Tutti i partecipanti potranno iscriversi al Centro estivo per l’intero periodo della sua condizione di anticipare l’impostazione della stagione
durata (3 settimane) o scegliere singole settimane (13-17 giugno, 20-24 giugno, 27
2011-2012. Roberto Gregoris è già stato indicato quale
giugno-1 luglio). Le iscrizioni avranno inizio a partire da lunedì 2 maggio presso la
segreteria del Ricreatorio San Michele, in via Mercato 1, di fronte ai campi da gioco, presidente, mentre all’unanimità Sabatino Mansi, presidente uscente, è stato acclamato presidente onorario.
ogni pomeriggio dal lunedì al venerdì dalle 14:30 alle 17:30.
Mansi ha retto le sorti della Pro Cervignano dal 1996, porPer informazioni
tando la società «dal possibile derby in seconda categoria
•Alex Zanetti: 340 3611418
•Segreteria del Ricreatorio: 0431 35233 (Matteo Comuzzi),
con lo Strassoldo, in Eccellenza nel 2009, ricostruendo l’[email protected]
tero settore giovanile». Tale ricostruzione è stata ricordata
•www.ricre.org
dallo stesso Mansi, precisando come avesse assunto tale
compito, su invito dal sindaco dell’epoca, Mauro Travanut,
come «un impegno sociale» nei confronti della città.
Da parte sua Roberto Gregoris (circa 400 partite in maglia
gialloblu, ndr ) ha sottolineato come il passaggio di testimone avvenga nel senso della continuità, con l’impegno
di dare ancora una spinta all’attività della Pro Cervignano. A conclusione dell’assemblea straordinaria, Gigi Savino ha rilevato come i cambiamenti al vertice, per il clima
e le modalità con i quali sono avvenuti, rappresentano
un importante momento nella storia della Pro Cervignano.
La nomina tempestiva dei nuovi dirigenti ha avuto come
conseguenza logica di aver potuto per tempo scegliere i
tecnici che occuperanno i ruoli di direttore sportivo (Dario
Delpiccolo) e di team manager (Maurizio Zanutel), mentre
altri incarichi saranno assegnati nel quadro di un’organizzazione più dettagliata e ramificata, riguardante il
settore giovanile. Primo compito: la scelta dell’allenatore
che sostituirà Fabio Franti, che ha lasciato dopo quattro
anni la panchina della Pro Cervignano.
ALBERTO LANDI
RESOCONTO 44ª OPERAZIONE
«UOMINI COME NOI»
Il resconto completo e tutte le foto su www.ricre.org.
ALTA UOTA
INIZIATIVA
MERCATINO DELL’USATO (19-22, 26-29/05/2011) 68 persone di “Buona Volontà”
RACCOLTA MATERIALI FERROSI (28-29/05/2011) 78.010 Kg = ~ 78 t (10 containers)
RACCOLTA INDUMENTI (28-29/05/2011)
11.000 Kg = 11 t (1 bilico)
spese organizzative
riparazione tetto magazzino
adeguamento locali ecc.
contributo alla parrocchia
arrotondamento
da destinarsi al CENTRO MISSIONARIO DIOCESANO per i progetti 2011
capocasale.pdf 15/02/2010 19.42.54
VALORE €
40.172,09
22.035,45
1.623,60
- 4.144,89
- 3.600,00
- 12.086,11
- 4.000,00
-0,14
40.000,00
21/08 ÷ 04/09
tutti i giorni!
Iscriviti dal 12 luglio al 18
agosto ogni martedì e giovedì dalle 18 alle 19 presso
la Direzione del Ricreatorio
(dietro i campi da gioco).
INFO: 0431 35233, Marco
Giusti 346 3908945, Sandro Campisi 347 4007667.
papaveriepapere.pdf 19/04/2010 16.40.11
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