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La nascita dell`idea di un`Europa unita dal primo
CULTURA E IDEOLOGIE APPROFONDIMENTO B La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi Progetti e ideali nel primo Novecento genza non fosse affrontata da ciascun Paese in modo autonomo, con proprie misure protezionistiche. Al contrario, si pensava che solo un fronte comune e provvedimenti concordati avrebbero permesso agli Stati europei di uscire dalla depressione. Il progetto di un’Europa capace di gestire la crisi, tuttavia, non decollò mai, mentre Hitler e altre forze F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 14 Parte l’idea di una federazione europea 1 John Maynard Keynes. La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi Nel XIX secolo, il progetto di una vasta federazione europea era stato sostenuto da Giuseppe Mazzini, da numerosi filosofi e da vari scrittori. Tuttavia, al posto degli Stati Uniti d’Europa sognati da quegli intellettuali, la realtà politica effettiva aveva visto invece la crescita incontrollata dei nazionalismi, che si sarebbero scontrati senza esclusione di colpi durante la prima guerra mondiale. Dopo il 1918, l’idea fu rilanciata su nuove e più solide basi, ma i diversi soggetti che proposero i propri progetti lo fecero per le ragioni più disparate. Alcuni intellettuali erano rimasti turbati dagli orrori della guerra (da più parti chiamata fratricida) e quindi proposero la federazione europea come antidoto ai nazionalismo e come strumento che, nelle loro intenzioni, avrebbe impedito per sempre il ripetersi di una catastrofe simile al conflitto esploso nel 1914. In altri casi, prevalevano invece i timori nei confronti di alcune potenze extra-europee: mentre alcuni temevano l’espansionismo degli Stati Uniti, numerosi uomini politici europei erano preoccupati per il cosiddetto pericolo giallo, termine con cui si indicava l’inarrestabile crescita demografica dei popoli asiatici. Nell’Inghilterra degli anni Venti e Trenta, Winston Churchill metteva invece l’accento sul comunismo, che, dopo la stabilizzazione del nuovo regime sovietico, poteva contare sulla forza della Russia e sulla sua sterminata estensione territoriale. Secondo lo statista britannico, l’Europa avrebbe potuto salvarsi solo dando vita a una vasta entità politica federale, capace di competere alla pari con l’URSS e di affiancarsi all’impero britannico nella gestione dell’equilibrio internazionale. Churchill, di fatto, teorizzò quella che sarebbe stata per molto tempo la posizione ufficiale inglese nel secondo dopoguerra: approvazione assoluta del progetto di Unione Europea, accompagnata però da un sostegno puramente esterno, visto che la Gran Bretagna dichiarò inizialmente di non voler assolutamente far parte della nuova federazione continentale (qualora essa avesse davvero preso vita). Solo la progressiva crisi e la smobilitazione dell’impero avrebbero infine spinto i governi inglesi su posizioni differenti. La grande crisi esplosa nel 1929 fu un’altra importante occasione per discutere sui progetti europei. Il britannico John Maynard Keynes e altri economisti proposero che l’emer- APPROFONDIMENTO B nazionaliste salivano al potere e preparavano un nuovo conflitto. Gli anni della seconda guerra mondiale videro la provvisoria realizzazione di una particolare forma di unità europea, all’insegna della razza ariana e dell’anticomunismo; inutile precisare che il nuovo ordine europeo nazista non aveva nulla in comune con i progetti o gli ideali precedenti, di cui anzi era la completa negazione, visto che era nato sotto il segno della sopraffazione, della violenza e della supremazia della Germania su tutti gli altri Stati d’Europa. Il movimento di resistenza al nazismo non prestò in genere molto interesse agli ideali europeistici. In effetti, in vari Paesi occupati il fenomeno partigiano era guidato dai comunisti, che avevano una propria idea della fratellanza internazionale fra i popoli; essi, inoltre, avevano ben chiaro che, per Churchill e altri statisti conservatori, l’unità europea doveva essere costruita, principalmente, in funzione antirussa e antisovietica. In Francia, viceversa, il movimento di resistenza era animato dal desiderio di riscattare l’onore nazionale infangato dalla resa del 1940, ma, ovviamente, patriottismo e sforzo di riportare in alto il prestigio della Francia si conciliavano male con i progetti europeistici: questi, infatti, avrebbero richiesto il sacrificio di una parte della sovranità dei singoli Stati a vantaggio della comune federazione. UNITÀ 14 Altiero Spinelli e il Manifesto di Ventotene Il circolo di Kreisau IL TEMPO DEL DISORDINE 2 Altiero Spinelli. Durante la guerra, l’interesse maggiore per i progetti di respiro continentale da realizzare a conflitto finito si manifestò in Germania e in Italia. All’interno del mondo tedesco, l’idea di una futura integrazione politica europea fu sostenuta dal circolo di Kreisau, un gruppo di intellettuali e funzionari conservatori antinazisti, decisi a preparare un nuovo mondo alternativo a quello hitleriano. Nel 1943, questi uomini (ricordiamo, ad esempio, Carl Goerdeler) sognavano una moneta comune europea, la fine delle barriere doganali e una gestione comune (sopranazionale) delle risorse, delle materie prime essenziali all’industria pesante, delle infrastrutture e dei trasporti. Su scala più ridotta, progetti simili furono subito accolti dai governi di Belgio, Olanda e Lussemburgo, che poco dopo la fine del conflitto diedero vita al Benelux, un’area territoriale ampiamente integrata sotto il profilo economico e commerciale. In Italia, la forza politica che mostrò il maggior interesse per le tematiche di natura europea fu il Partito d’Azione, che si presentava come un movimento di sinistra e progressista, ma nel medesimo tempo voleva nettamente distinguersi dai comunisti. In un documento del dicembre 1944, il Partito d’Azione arrivò a chiedere che, nella futura Costituzione italiana, fosse proclamato il principio secondo il quale «la sovranità assoluta di cui dispone lo Stato italiano» doveva essere considerata «provvisoria»; nel medesimo tempo, la Carta costituzionale avrebbe dovuto impegnare i futuri governi ad «adottare una politica estera che non pregiudichi la sua adesione ad una federazione». Le basi teoriche dell’europeismo azionista erano state gettate nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che si trovavano al confino nell’isola di Ventotene (nel Tirreno meridionale): insieme stesero un breve testo intitolato Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto. Il documento (noto come Manifesto di Ventotene) inizia individuando nell’imperialismo e nel nazionalismo le cause del secondo conflitto mondiale. In origine, secondo i due autori, l’idea di nazione era stata «un potente lievito di progresso»; con il passar del tempo, tuttavia, essa si era invece trasformata in una concezione pericolosissima per l’umanità, nella misura in cui la nazione «è invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne. La sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO B ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo spazio vitale territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello Stato più forte su tutti gli altri asserviti». A giudizio di Spinelli e Rossi, la sconfitta della Germania e del nazismo erano condizioni indispensabili per una ripresa del cammino in direzione di un’Europa più libera e più giusta; però, per il dopoguerra, l’esempio di quanto era accaduto dopo il 1918 dimostrava che il problema andava affrontato alla radice, impedendo la rinascita dei vecchi organismi statali, dotati di sovranità. Anche se, al posto delle dittature totalitarie, fossero nate delle democrazie capaci di lasciare ampi spazi di azione politica alle classi lavoratrici, il pericolo di un rinnovato nazionalismo sarebbe stato sempre in agguato, affiancato dalla tentazione di sostenere unilateralmente i propri interessi, a danno degli altri. Secondo Spinelli, poiché «lo Stato nazionale è organicamente inadatto a vedere gli interessi di tutti i popoli», l’atmosfera sarebbe stata in breve tempo di nuovo avvelenata dalla competizione tra i vari Stati, generando una insopportabile tensione che avrebbe potuto facilmente portare a un ennesimo conflitto europeo. Pertanto, il solo cambiamento veramente rivoluzionario, l’unico che avrebbe garantito all’Europa una pace duratura, sarebbe stato l’abolizione delle sovranità nazionali e la loro sostituzione con una federazione di soggetti dotati di pari diritti e uguali doveri. DOCUMENTI UNITÀ 14 Il progetto di una federazione europea Il nazionalismo, nemico dell’integrazione europea Il cosiddetto Manifesto di Ventotene fu steso da Altiero Spinelli e da Ernesto Rossi nel 1941. Spinelli ne scrisse la maggior parte (circa tre quarti). In un primo tempo, il documento circolò in forma clandestina, sotto forma di dattiloscritto ciclostilato. Più tardi, nel 1944, trovò ampia diffusione per opera di Eugenio Colorni, che lo pubblicò insieme ad altri due scritti di Spinelli: questi documenti esortavano le forze politiche a mettere il federalismo a base della loro azione politica. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli Stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che, o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale. Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di Stati europei indipendenti, con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni degli altri Paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun Paese in Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a niente valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli Stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo Stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri Paesi europei. Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente – tracciato dei confini nelle zone di popolazione mista, difesa delle minoranze allogene [estranee, cioè diverse dal gruppo di maggioranza presente in uno Stato nazionale, n.d.r.], sbocco al mare dei Paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc. – che troverebbe nella Federazione Europea la più semplice soluzione – come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte della più vasta 3 APPROFONDIMENTO B DOCUMENTI unità nazionale avendo perso la loro acredine, col trasformarsi in problemi di rapporti fra le diverse province. […] La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale. A. SPINELLI- E. ROSSI, Il Manifesto di Ventotene, Milano, RCS Quotiniani, 2010, pp. 9-31 UNITÀ 14 Che cosa era la Società delle Nazioni? Ti ricordi quando nacque? Da quale organismo è stata sostituita nel 1945? In quale misura, secondo il tuo parere, il progetto di Spinelli e Rossi ha trovato realizzazione? Le difficoltà del dopoguerra IL TEMPO DEL DISORDINE 4 Le preoccupazioni di Churchill nel dopoguerra La posizione degli Stati Uniti Al termine della seconda guerra mondiale, l’Europa era disperata e disorientata. Come disse Churchill in un discorso pronunciato a Zurigo il 19 settembre 1946 «in vaste regioni, masse di esseri umani affamati e impauriti si aggirano tra le rovine delle proprie città e delle proprie case, esplorando un orizzonte buio, nel timore di vedere apparire qualche nuova forma di tirannia e di terrore». In queste parole, mentre da un lato descriveva con efficacia la condizione materiale di milioni di italiani, tedeschi o francesi, che avevano letteralmente perso tutto a seguito della violenza bellica, lo statista britannico esprimeva anche la propria principale preoccupazione, condivisa da gran parte degli uomini politici europei: il timore che i comunisti riuscissero ad approfittare della situazione di caos e povertà generalizzata, per conquistare il potere, proprio com’era accaduto nella Russia del 1917. Questa preoccupazione era condivisa anche da numerosi uomini vicini al presidente americano Harry Truman, in particolare dal segretario di Stato James Byrnes, che si dichiarò disponibile a contribuire alla ricostruzione della Germania e a far sì che essa recuperasse al più presto il suo posto tradizionale di forza trainante dell’economia europea. Quando Byrnes lasciò il proprio incarico a George Marshall, le dichiarazioni di principio si trasformarono poi in un preciso e vasto progetto di aiuti economici (il cosiddetto piano Marshall), che prevedeva anche la possibilità di un eventuale sviluppo della situazione politica europea in direzione federale. Una risoluzione approvata dal parlamento americano il 22 marzo 1947 dichiarava esplicitamente che «il Congresso degli Stati Uniti favorisce la creazione degli Stati Uniti d’Europa». In effetti, rilancio dell’economia e integrazione politico-militare parevano al governo statunitense, nell’immediato dopoguerra, la migliore ricetta possibile, capace di contrastare sia le ambizioni espansionistiche dell’URSS sia la forza elettorale dei partiti di sinistra, che potevano contare sull’appoggio di milioni di operai disoccupati e privi di alternative. Il progetto di una federazione europea, dunque, cambiava di segno politico. Se nel Manifesto di Ventotene tale progetto era stato lanciato come un ideale progressista, capace di trascendere e superare (da sinistra) perfino i progetti comunisti, negli anni seguenti il 1947 fu monopolizzato dalle forze che si opponevano a radicali cambiamenti sociali e, anzi, veF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Federalisti e funzionalisti APPROFONDIMENTO B devano nell’Unione degli Stati del continente il più efficace baluardo contro i sovietici. Europeismo ed atlantismo (nel senso di alleanza con gli Stati Uniti in un contesto di tensione, di guerra fredda, sempre più evidente) finivano per fondersi. Nel medesimo tempo, l’urgenza di rilanciare l’industria e la produzione spingeva nella direzione di accelerare i tempi dell’integrazione economica, di dare la precedenza a quest’ultima, e non ai temi politici. Di conseguenza, le posizioni dei federalisti (che volevano una drastica riduzione della sovranità dei vari Stati, considerata come la principale radice delle guerre del XX secolo) furono sempre più sovrastate da quelle dei funzionalisti, che ragionavano in termini di integrazione dei mercati, di abolizione delle dogane, di libera circolazione delle merci o dei capitali, ma non mettevano affatto in discussione il principio della sovranità dei singoli soggetti nazionali. L’eventuale trasferimento di poteri politici a un vero (e forte) potere sovra-nazionale, a giudizio dei funzionalisti, doveva avvenire in modo lento e graduale, non in modo rapido, come invece volevano i federalisti alla Spinelli. Sarebbe stato il traguardo, non il punto di partenza dell’intero itinerario, come dichiarò il primo ministro francese Robert Schuman, al momento della nascita della Comunità del carbone e dell’acciaio (prima vera e importante successo della strategia funzionalista): «L’Europa non verrà creata tutta in una volta e secondo un unico progetto generale, ma verrà costruita attraverso realizzazioni concrete, dirette a creare solidarietà reali». 18 aprile 1951: nasce la ceca 5 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi Schuman era approdato alla direzione della politica francese nel luglio 1948. Tra i suoi consiglieri spiccava Jean Monnet, che va considerato il vero artefice della CECA, la già menzionata Comunità del carbone e dell’acciaio, creata con un accordo siglato a Parigi il 18 aprile 1951. Il trattato prevedeva la nascita di un’Alta Autorità (alla cui presidenza fu assegnato, nel 1952, lo stesso Monnet), che era un’istituzione dotata di ampi poteri nella gestione della produzione e della commercializzazione del carbone e dell’acciaio di Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Italia. L’Inghilterra, dal canto suo, rifiutò polemicamente di entrare a far parte della nuova Comunità. Come dichiarò Churchill «non potremmo mai accettare un’autorità sopranazionale con il potere di dirci di non estrarre più carbone e di non produrre più acciaio, e di coltivare invece pomodori». A partire da questo momento, il Regno Unito non svolse più alcun ruolo importante nella promozione dell’unificazione europea e l’iniziativa passò invece a Francia e Germania. In virtù del trattato, la Francia ottenne che le sue industrie potessero contare su un regolare rifornimento di carbone tedesco, ma, nello stesso tempo, veniva rassicurata sul fatto che nessun programma di riarmo (auspicato dagli Stati Uniti, in funzione antisovieti- Fotografia che raffigura alcuni rappresentanti degli Stati membri della CECA. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 14 Carbone, acciaio e difesa: successi e fallimenti APPROFONDIMENTO B UNITÀ 14 Parigi 1954. Nella capitale francese si incontrano il primo ministro padrone di casa, Pierre Mendes, il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, il primo ministro inglese Anthony Eden e il segretario di Stato americano John Foster Dulles. IL TEMPO DEL DISORDINE 6 La discussione sul riarmo tedesco ca e, ovviamente, basato sulla produzione di acciaio) avrebbe potuto essere intrapreso dai tedeschi senza un rigoroso controllo degli altri Paesi europei. Quanto alla Germania Federale (nata nel 1949 e guidata, all’epoca, dal cancelliere Conrad Adenauer, democristiano) otteneva il suo primo importante successo diplomatico: riuscì infatti a ritornare a pieno titolo nel gruppo dei Paesi occidentali, senza subire alcuna punizione o penalizzazione per il suo recente passato nazista. Il significato storico dell’accordo è fondamentale, se solo si tiene conto che i due principali soggetti – Francia e Germania – dopo un conflitto che durava dal 1871, nel 1950 gettarono le basi per una collaborazione solida e duratura, che tutti fino a poco tempo prima avrebbero ritenuto impossibile. Sulla carta, l’accordo dichiarava di voler essere «il primo passo verso una federazione europea», e in effetti esso comportava un trasferimento di sovranità dagli Stati a un’entità sopranazionale. La CECA, tuttavia, era una realtà quanto mai limitata e settoriale: e in un’ottica veramente federalista, ciò costituiva il suo limite più evidente. Se si voleva procedere oltre, bisognava affrontare i delicati temi della creazione di un vero esercito europeo e degli armamenti. In altri termini, si sarebbe dovuto dar vita a una Comunità europea di difesa (o CED). All’inizio degli anni Cinquanta, la questione era tutt’altro che accademica o puramente teorica, visto che era in corso la guerra di Corea e in Europa era molto diffuso il timore che Stalin potesse lanciare un’offensiva nel Vecchio continente, approfittando del fatto che un gran numero di soldati americani era impegnato in Asia. In questo clima, dall’Inghilterra, Churchill fu tra i primi a lanciare l’idea di un esercito europeo unificato, operante in stretto contatto con quelli del Canada e degli Stati Uniti. Secondo lo statista britannico, la Germania non poteva assolutamente essere esclusa da questo progetto: pertanto, si doveva accettare l’idea di un riarmo tedesco e procedere a una normalizzazione della Germania ovest anche sotto il profilo militare, dopo che la CECA aveva già contribuito alla sua integrazione nella vita economica dell’Occidente. Il rapido riarmo della Germania era visto molto favorevolmente dagli Stati Uniti e, in Europa, sia dal governo italiano, guidato da Alcide De Gasperi, sia da quello olandese. Durissimo e categorico, invece, fu il rifiuto dei francesi, che si opponevano a priori all’idea di un esercito tedesco, giudicavano prematura la creazione di un Ministero della Difesa nella Germania Federale e, soprattutto, temevano che quest’ultima, una volta riarmata, diventasse il principale alleato degli USA in Europa, a scapito della Francia. Pertanto, quando fu chiamata a discutere il progetto di una Comunità europea di difesa, a larga maggioranza (319 contro 264) l’Assemblea nazionale di Parigi respinse il piano, affossando con esso anche qualsiasi tentativo di far evolvere in tempi brevi la CECA in federazione. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 La pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creativi proporzionati ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può offrire alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di rapporti pacifici. La Francia, da oltre vent’anni paladina dell’Europa unita, persegue da sempre un obiettivo essenziale: servire la pace. L’Europa non è stata fatta, abbiamo avuto la guerra. L’Europa non verrà fatta in una volta sola, né potrà essere costruita tutta insieme. Essa vedrà la luce attraverso realizzazioni concrete che permettano di creare innanzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni europee esige che venga eliminata la secolare contrapposizione tra Francia e Germania: l’azione intrapresa deve riguardare in prima istanza Francia e Germania. A tal fine, il governo francese propone di agire immediatamente su un punto circoscritto e tuttavia decisivo. Il governo francese propone di porre l’intera produzione franco-tedesca del carbone e dell’acciaio sotto un’Alta Autorità comune, nel quadro di un’organizzazione a cui possano aderire altri paesi europei. La condivisione delle produzioni di carbone e acciaio garantirà immediatamente la creazione di basi comuni di sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di quelle regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di armi da guerra, armi di cui sono state le vittime più frequenti. Il legame di solidarietà produttiva che verrà a crearsi in tal modo renderà manifesto che una guerra tra Francia e Germania diventa non solo impensabile, ma anche materialmente impossibile. La realizzazione di questa potente unità di produzione – aperta a tutti i paesi che desidereranno prendervi parte e il cui scopo è quello di fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi basilari della produzione industriale a pari condizioni – getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica. R. Schuman - K. Adenauer - J. Monnet - A. De Gasperi, La costruzione dell’Italia unita, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2011, pp. 19-21. Traduzione di L. Cisbani Spiega l’affermazione: «L’azione intrapresa deve riguardare in prima istanza Francia e Germania». Spiega le ragioni per cui una guerra tra Francia e Germania sarebbe diventata «non solo impensabile, ma anche materialmente impossibile». Che cosa distingue la posizione di Schuman e di Monnet, da quella di Altiero Spinelli? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Medaglia commemorativa dei “padri storici” del progetto europeo: il francese Schuman, il tedesco Adenauer e l’italiano De Gasperi. APPROFONDIMENTO B Il 9 maggio 1950, il primo ministro francese Robert Schuman tenne un importante discorso, nel quale annunciava la piena disponibilità della Francia a costruire una Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Dal testo emerge con chiarezza la strategia politica dei primi artefici della Comunità Economica Europea e, in particolare, di Jean Monnet, stretto collaboratore di Schuman. La federazione europea non era concepita come il punto di inizio, ma il risultato finale di una serie di azioni concrete, limitate a un solo specifico settore, in cui la sovranità dei vari Stati cedeva il posto ad un’autorità di respiro più ampio di quelle nazionali. UNITÀ 14 DOCUMENTI 7 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi La Dichiarazione Schuman APPROFONDIMENTO B UNITÀ 14 IL TEMPO DEL DISORDINE 8 Il trattato di Roma Fallito il progetto di un esercito integrato e unificato, l’idea di un’Unione Europea sembrava priva di qualsiasi futuro. Nei Paesi del Benelux, tuttavia, si fece strada l’ipotesi di una nuova strategia, diversa sia da quella rigorosamente settoriale di Jean Monnet e della CECA, sia da quella che si proponeva di realizzare in tempi brevi importanti fusioni a livello politico e militare. La nuova idea, che ben presto trovò sostenitori in Germania e in Italia, era quella del Mercato comune; il terreno su cui si sarebbe operato sarebbe stato solo quello della cooperazione economica, cosicché in tutti gli altri campi (primi fra tutti la difesa e la politica estera) gli Stati non avrebbero ceduto quasi nulla della propria sovranità. L’approccio rispetto alla CECA, però, era di tipo affatto diverso, visto che l’intero mondo dell’economia (e non solo uno o più settori) sarebbe stato coinvolto. Quando anche il governo francese si convinse della fattibilità del progetto, si giunse al trattato di Roma, siglato il 25 marzo 1957, nella capitale italiana, in Campidoglio. Il docuRiferimento mento principale istituì la cosiddetta Comunità Economica Europea e ne riassumeva i fini in questo modo: «promuovere, mediante l’instaurazione di un mercato comune e il 1 storiografico graduale riavvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, un’espansione pag. 16 continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano». 25 marzo 1957: A livello operativo, il trattato prevedeva, in primo luogo, l’abolizione di qualunque tariffa viene istituita la doganale all’interno della nuova vasta area economica che veniva istituita e che comprendeva Comunità Economica sei Paesi: Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. In altri termini, quanEuropea do il trattato fosse andato a completo regime, non ci sarebbe più stata alcuna differenza Soldati inglesi issano la tra la vendita di una merce all’interno di un dato Paese e un’esportazione effettuata in uno bandiera della marina dei sei Stati membri della CEE. Ad esempio, un automobile fabbricata in Germania, ma da guerra a Port Said, venduta in Italia, non avrebbe subito alcuna penalizzazione o variazione di prezzo, dato sul canale di Suez, nel 1956. Il controllo del che il Paese importatore non avrebbe più potuto imporre alcun dazio protezionistico sui canale da parte di prodotti provenienti da un altro Stato che faceva parte dell’unione doganale. Inoltre, da Inghilterra e Francia allora in avanti, tutti i Paesi firmatari avrebbero agito insieme e si sarebbero comportati durerà però ancora solo un paio di mesi: un nella stessa maniera, nei confronti di soggetti estranei alla CEE (come, ad esempio, la Gran segnale evidente della Bretagna, gli Stati Uniti o il Giappone). debolezza europea. In secondo luogo, per mantenere elevati i prezzi delle derrate agricole, gli organi direttivi della Comunità avrebbero fissato precise regole e indicazioni, capaci di impedire gli improvvisi crolli delle quotazioni dei prodotti, provocati da eventuali eccessi di produzione. L’entrata in vigore del trattato venne fissata al 1° gennaio 1958; ci si diede comunque un margine di dieci anni perché il meccanismo potesse decollare e tutti i dazi interni fossero gradualmente cancellati senza conseguenze eccessivamente dannose. Nel lungo percorso che portò al trattato di Roma, secondo vari storici svolse un ruolo determinante la crisi di Suez dell’autunno del 1956. Dopo che l’Egitto di Nasser aveva nazionalizzato il canale di Suez, Francia e Inghilterra erano intervenuti militarmente in quella delicata area strategica, ma la loro azione era stata pesantemente condannata da USA e URSS, per una volta uniti e concordi. La minaccia americana di sospendere a Francia e Gran Bretagna qualsiasi aiuto finanziario obbligò i governi di Parigi e di Londra a un repentino ritiro delle proprie forze. La debolezza dell’Europa emerse con una chiarezza lampante. Tuttavia, mentre Londra scelse di appoggiarsi in maniera ancora più stretta agli Stati Uniti, la Francia decise di guardare di nuovo all’Europa: a livello operativo, dapprima si fece promotrice di un trattato sull’energia atomica (promosso da Jean Monnet, secondo la logica settoriale che aveva portato alla nascita della CECA, e infine denominato Euratom) e poi accettò di entrare nella Comunità Economica Europea. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 CEE e la Francia furono spesso tese, ma accordi e compromessi vennero comunque trovati su singoli concreti problemi. In tal modo, la Comunità riuscì ugualmente a fun- zionare come strumento di regolazione dell’economia europea e a trasformarsi in uno straordinario strumento di sviluppo economico: tra il 1958 e il 1965, la produzione industriale dei sei Paesi CEE crebbe del 52%, le esportazioni verso Paesi terzi (non membri della Comunità) aumentarono del 51%, mentre il commercio intercomunitario registrò un incremento del 166%. Quando De Gaulle si allontanò dalla scena politica, nel 1969, il suo posto fu preso da Georges Pompidou, che fin dall’inizio del suo mandato presidenziale si mostrò disponibile a dialogare con la Gran Bretagna. Le ragioni della svolta francese vanno cercate nella nuova politica tedesca, condotta dal cancelliere Willy Brandt e denominata Ostpolitik. Negli anni in cui fu guidata da Brandt, infatti, la Germania federale iniziò a guardare con occhi nuovi ai Paesi comunisti dell’Est, con i quali bisognava, a giudizio del cancelliere, convivere e collaborare. Il sogno di Gaulle era stato quello di attirare la Germania in un blocco politico forte, guidato dalla Francia; la politica di Brandt non significava per nulla che lo Stato tedesco si allontanava dagli Stati Uniti: tuttavia, era nel medesimo tempo un evidente rifiuto dell’invito francese e il segno di una F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 14 Il progetto francese Willy Brandt con il presidente americano Kennedy, fotografia del 1961. 9 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi Nel 1961, l’Inghilterra manifestò evidenti segni di ripensamento e intraprese i primi passi diplomatici per entrare nella CEE. Per tutti gli anni Sessanta, tuttavia, la candidatura britannica venne fermamente avversata dal governo di Parigi, guidato dal generale Charles De Gaulle. Deciso oppositore a ogni evoluzione in senso federale della Comunità, il presidente dimostrò di non aver affatto compreso la lezione di Suez, continuando a sognare una Francia capace di farsi valere a livello internazionale come terza forza, soggetto paritetico rispetto a Stati Uniti e URSS. Il generale accettava che l’economia del suo Paese fosse in qualche modo regolata da meccanismi di tipo sopranazionale, ma amava ribadire che «gli interessi francesi non hanno altri tutori che il governo francese». Tutto sommato, il settore economico che maggiormente stava a cuore alla Francia era quello agricolo, visto che ben il 17% della popolazione viveva ancora nelle campagne. L’esistenza della CEE garantiva a questi contadini francesi alti dazi doganali sui cereali statunitensi o canadesi e, viceversa, i prezzi elevati previsti dalla Comunità per le derrate prodotte dagli agricoltori europei, visto che gli organismi comunitari si impegnavano ad acquistare tutta la produzione in eccesso. Dati questi vantaggi essenziali, che rendevano l’agricoltura europea «un settore completamente impermeabile alle leggi di mercato» (G. Mammarella), De Gaulle non poteva permettersi di uscire dalla CEE. Il suo progetto era quello di un’Europa in cui la Francia fosse il centro della politica continentale: il che lo spingeva a considerare gli Stati Uniti un alleato troppo ingombrante, la Gran Bretagna un potenziale concorrente per la supremazia in Europa, la CEE uno strumento da tenere sotto controllo, sfruttare o respingere, a seconda degli interessi francesi. Gli altri Paesi della Comunità, tuttavia, non seguirono mai il generale sulla strada che egli proponeva loro, non volendo rinunciare affatto a buone relazioni con gli Stati Uniti, indispensabili a livello militare, per quanto il clima internazionale degli anni Sessanta fosse decisamente più disteso di quello dell’immediato dopoguerra. Le relazioni tra la APPROFONDIMENTO B Gli anni Sessanta APPROFONDIMENTO B UNITÀ 14 Georges Pompidou (a destra in primo piano) con il presidente americano Nixon, fotografia del 1973. IL TEMPO DEL DISORDINE 10 rinnovata e dinamica iniziativa autonoma. Nacque da questa constatazione la nuova linea di Pompidou, determinato a ricreare un legame forte con l’Inghilterra, per bilanciare la ritrovata energia dei tedeschi. D’altra parte, il presidente francese poteva contare sul fatto che anche gli inglesi, come il governo di Parigi, era contrario a qualsiasi evoluzione in senso federale degli accordi puramente economici che legavano i Paesi della CEE. La questione fu affrontata in una lunga serie di incontri al vertice e trovò inizialmente alcuni ostacoli di non facile soluzione. La Gran Bretagna, infatti, aveva relazioni privilegiate con vari Paesi del Commonwealth e chiedeva che questi rapporti fossero conservati; inoltre, vi era lo scoglio dei prezzi agricoli: entrando nella CEE, i consumatori britannici li avrebbero visti lievitare, considerata la tradizionale politica comunitaria di sostegno all’agricoltura. L’allargamento della Comunità Il Parlamento di Londra votò l’ingresso del Regno Unito nella CEE il 28 ottobre 1971, con 356 voti a favore, 244 contrari e 22 astensioni. Nel medesimo anno, furono accolte Gran Bretagna, anche Irlanda e Danimarca. In Norvegia, il governo sostenne una politica analoga, ma quanIrlanda e Danimarca do venne proposto ai cittadini un referendum relativo all’ingresso o meno nella Comuentrano nella cee nità, i norvegesi bocciarono l’idea con una maggioranza del 53,3%. La Norvegia, pertanto, è tuttora fuori dall’Unione Europea. In tutti gli Stati europei fu necessario approvare l’allargamento della CEE ai nuovi membri, e la ratifica avvenne con procedure differenti, Paese per Paese. La Francia scelse il referendum: i favorevoli alla nuova linea del presidente risultarono 10 502 756, a fronte di 5 008 469 elettori contrari alla partecipazione dell’Inghilterra alla Comunità; numerosissimi gli astenuti, circa 11 milioni e mezzo. Si trattava di numeri che mandavano un messaggio decisamente chiaro: moltissimi francesi guardavano all’idea di allargare la CEE con notevole scetticismo, anche se riconoscevano che non c’era un’autentica alternativa. In Italia, poiché non è previsto l’uso del referendum per i trattati internazionali, la ratifica fu affidata al Parlamento; in questa sede (5 dicembre 1972, alla Camera; 19 dicembre 1972, al Senato), la grande novità storica fu rappresentata dal PCI, che non giudicò più la CEE come un puro strumento tecnico del capitalismo o, peggio, una macchinazione antisovietica. Deputati e senatori comunisti, pertanto, non votarono contro l’allargamento della CEE a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, ma scelsero l’astensione. La nuova Comunità allargata diventava la prima potenza commerciale del mondo, nonché la più grande produttrice mondiale di acciaio e di automobili. Con i suoi 252 milioni di abitanti, anche in termini di popolazione complessiva la CEE superava sia gli Stati Uniti (205 milioni) che l’URSS (242 milioni), mentre il Prodotto Interno Lordo (cioè la ricchezza complessivamente prodotta) restava molto inferiore a quello americano: il PIL europeo, infatti, era di 630 miliardi di dollari, cifra pari ai due terzi di quello statunitense. La ricchezza americana, comunque, era in netto calo: se nel 1950 la percentuale delle esportazioni degli USA era pari al 16,7%, nel 1970 era scesa al 13,7%, a tutto beneficio del Giappone, della Germania Federale e degli altri Paesi CEE. Inoltre, il bilancio americano era in grave sofferenza a causa delle spese sostenute in Vietnam. Nacque da queste esigenze (rilanciare le esportazioni e proteggere il mercato interno) la storica decisione del presidente Nixon (annunciata il il 15 agosto 1971) di abbandonare la tradizionale convertiF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Negli anni seguenti, una delle questioni più delicate, tra le numerose che furono discusse, riguardò la riforma della politica agricola: questa aveva raggiunto costi insostenibili per i fondi della Comunità, in un momento in cui tutti gli Stati uscivano da una crisi economica durissima come quella degli anni Settanta. Il governo inglese, in particolare, si rifiutava di pagare un contributo che riteneva troppo gravoso in proporzione ai benefici ricavati, visto che solo il 2% dei lavoratori britannici era impiegato in agricoltura e che questa contribuiva appena per il 2% al PIL del Paese. La riforma della politica agricola venne infine approvata nel 1988, allorché furono fissate delle quote precise per i diversi prodotti, superate le quali i produttori non avrebbero ricevuto alcun sussidio (o addirittura sarebbero stati penalizzati mediante sanzioni). Il denaro risparmiato dalle minori sovvenzioni concesse all’agricoltura poteva essere così dirottato a sostegno dell’industria siderurgica, in gravissima crisi per un eccesso di produzione a livello mondiale: questa crisi aveva provocato un crollo dei prezzi e la perdita di almeno 150 000 posti di lavoro nei primi anni Ottanta. Nello stesso periodo, la Comunità dovette affrontare il problema di un ulteriore allargamento a Grecia, Portogallo e Spagna, Stati che possedevano numerosi tratti in comune. In effetti, tutti e tre erano stati governati, fino al 1973-1974, da regimi autoritari; inoltre, si trattava di Paesi mediterranei, a basso tasso di industrializzazione, i cui prodotti agricoli potevano fare concorrenza a quelli di Francia e Italia. La Grecia entrò nella CEE il 1° gennaio 1981, Spagna e Portogallo nel 1986. A quel punto, l’Europa dei 12 si pose una serie di problemi che fino ad allora erano stati tralasciati. Perché la circolazione delle merci, dei capitali e degli individui potesse essere davvero libera, occorreva eliminare o ridurre al minimo i controlli alle dogane. Per i prodotti sarebbe poi stato molto più efficace l’adozione di standard comuni, identici in tutti i Paesi (perché fissati da precise direttive comunitarie), per quello che riguardava l’igiene, la salute e le garanzie da offrire al consumatore. Nel 1990 venne firmato il cosiddetto accordo di Schengen (entrato in vigore il 1° gennaio 1993), in base al quale furono soppressi tutti i controlli sulle persone alle frontiere. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 L’Europa dei 12 UNITÀ 14 Manifesto per le elezioni del primo Parlamento europeo nel 1979. La scritta recita: “Il 7 giugno, la più grande elezione nella storia europea sceglierà un Parlamento per l’Europa”. 11 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi Gli anni Ottanta APPROFONDIMENTO B bilità del dollaro in oro, di svalutare la moneta statunitense e di porre elevati dazi doganali alle frontiere. A tutto ciò si aggiunse la brusca impennata che, dal 1973, i Paesi produttori imposero al prezzo del petrolio: questo passò bruscamente da 3 dollari il barile a 11,65. La CEE attraversò allora uno dei suoi momenti più difficili, in quanto i diversi Paesi non seppero assolutamente affrontare uniti la crisi né elaborare un’efficace strategia comune. Tuttavia, proprio in questo momento di sostanziale paralisi, ci si rese conto della necessità di strutture comunitarie più efficaci, di istituzioni dotate di maggiori poteri e di un sistema più stabile nel campo dei cambi delle diverse valute. Pertanto, fu proprio negli anni 1974-1976, nel cuore della crisi, che emersero per la prima volta l’idea di eleggere a suffragio universale un Parlamento europeo e quella di un’unione monetaria. Le prime elezioni del Parlamento europeo di Strasburgo ebbero luogo nei giorni 7-10 giugno 1979; furono eletti 410 deputati, così ripartiti: 81 per Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna; 25 per l’Olanda; 24 per il Belgio; 16 per la Danimarca; 15 per l’Irlanda; 6 per il Lussemburgo. La partecipazione alle urne fu relativamente elevata, con una media del 65%; un’analisi scorporata dei dati, però, mostra una divaricazione clamorosa, visto che in Belgio votò il 91% degli elettori e in Inghilterra solo il 33%, segno di un palese disinteresse nei confronti della nuova struttura che stava nascendo. I problemi dell’Unione Europea 7 febbraio 1992: il trattato di Maastricht UNITÀ 14 APPROFONDIMENTO B Mentre venivano esaminate tali questioni, si abbatté sull’Europa il ciclone del crollo del comunismo, nel 1989, e divenne improvvisamente d’attualità il problema dell’unificazione tedesca. Dopo un’iniziale perplessità di Francia e Gran Bretagna, nel giugno 1990 la Comunità Europea diede il suo assenso al progetto del cancelliere Helmut Kohl, determinato a procedere in tempi brevi all’annessione della DDR. Il 3 ottobre 1990, la Germania comunista cessava di esistere e il nuovo Stato unificato veniva formalmente accolto nella CEE. IL TEMPO DEL DISORDINE 12 Una riunione del Parlamento europeo a Strasburgo. Il 7 febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht si riunirono i ministri dei 12 Stati membri della Comunità Europea. A Maastricht, venne ufficialmente siglato il trattato che istituiva l’Unione Europea, un organismo finalizzato a far sì che i dodici firmatari affrontassero in modo comune questioni di fondamentale importanza come lo sviluppo tecnologico, la tutela dell’ambiente, la sanità. In campo economico, il trattato di Maastricht prevedeva la nascita della nuova moneta unica europea (l’euro) di cui si parlava da tempo. Per garantire forza e sicurezza alla nuova moneta, destinata gradualmente a sostituire le diverse valute nazionali, era indispensabile che i Paesi che intendevano adottarla possedessero una notevole dose di stabilità economica e finanziaria; il trattato di Maastricht stabilì quindi con precisione dei rigidi parametri per ottenere l’ingresso nell’Unione europea. Una valuta nazionale che aspirava a fondersi nell’euro, ad esempio, non doveva subire per due anni alcuna svalutazione; in secondo luogo, il tasso d’inflazione di un Paese non poteva superare dell’1,5% il tasso del Paese con inflazione più bassa. Inoltre, mentre il debito pubblico di un Paese doveva essere inferiore al 60% del prodotto interno lordo, il deficit di bilancio non poteva superare il 3% del PIL stesso. L’Italia, pur figurando tra gli Stati firmatari del trattato del 1992, sembrava destinata a non poter accedere alla futura unione monetaria europea, in quanto all’inizio degli anni Novanta il debito pubblico era al 103% rispetto al PIL (cioè era superiore al prodotto interno lordo), il deficit di bilancio corrispondeva al 9,9% del PIL e l’inflazione (al 6,9%) era molto superiore rispetto al parametro imposto. Malgrado ciò, il governo presieduto F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Riferimento storiografico UNITÀ 14 13 Paesi membri non aderenti alla moneta unica Finlandia Paesi entrati nel 2007 Paesi che hanno chiesto di aderire Estonia Irlanda Lettonia Lituania Danimarca Regno Unito Olanda Polonia Belgio Germania Lussemburgo Rep. Ceca Slovacchia Francia Austria Ungheria Slovenia Romania Croazia Portogallo Spagna Italia Bulgaria Turchia Grecia Malta F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Cipro 2 pag. 17 Area dell’euro Svezia APPROFONDIMENTO B L’Europa dei 27 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi da Romano Prodi, con interventi finanziari drastici e decisi, riuscì a raggiungere l’ambizioso obiettivo dell’ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria, allorché essa venne varata, all’inizio del 1999. Considerata nel suo complesso, l’Unione Europea è una delle aree economiche più importanti del mondo. Il suo punto debole è la mancanza di una vera politica estera comune; in tutte le più gravi crisi internazionali, infatti, essa non ha saputo assumere una posizione veramente unitaria, cosicché ogni Paese ha agito per conto proprio. Inoltre, all’inizio del nuovo secolo, l’Unione Europea si è ulteriormente allargata, fino a comprendere 27 Stati membri. Molti dei nuovi Paesi, tuttavia, erano appena usciti dall’esperienza comunista: prendendo l’intera area dell’Europa orientale, nel 1994, il prodotto interno lordo (globale) era ancora inferiore del 12% rispetto a quello del 1989, mentre soltanto la Polonia, nel 1995, era riuscita a far sì che la propria economia tornasse ai livelli del 1989. Ovunque, invece, era esplosa la piaga della disoccupazione di massa: se si eccettua la Repubblica Ceca, dove questa si era attestata intorno al 3%, negli altri Stati i disoccupati erano, a seconda dei casi, il 10% (Romania) o il 16% (Polonia e Bulgaria) dell’intera forza lavoro. Nel complesso, per l’insieme dell’Europa orientale, nel 1995 il numero dei senza lavoro era stimato superiore ai quattro milioni. A causa di questi gravissimi problemi, fin dall’inizio, per la maggioranza dei nuovi Stati membri della Unione Europea, l’adozione della moneta unica si presentava come un traguardo difficile e lontano. La gravissima crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti a partire dal 2008 ha aggravato ulteriormente la situazione di questi Paesi e di altri (come l’Italia, l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo o la Grecia), che, sia pure per ragioni diverse, attraversano gravi difficoltà economiche e finanziarie. Oltre tutto, anche in questo caso – come in tutte le crisi, politiche o economiche, del dopoguerra – l’Europa non ha reagito in modo compatto, mentre alcuni progetti di darle una costituzione comune erano appena falliti (nel 2008) per la contrarietà dei francesi e degli olandesi. Secondo lo storico Valerio Castronovo «mai come negli ultimi anni si è assistito ad una situazione così desolante». L’unica consolazione può venire dal fatto che anche diverse altre volte il progetto europeo sembrava sull’orlo del fallimento totale, ma poi, in tutte le circostanze, ha saputo uscire dalla paralisi e rilanciarsi più dinamico di prima. APPROFONDIMENTO B UNITÀ 14 IL TEMPO DEL DISORDINE 14 I PROBLEMI ECONOMICI DEI PAESI POST-COMUNISTI ENTRATI NELLA UNIONE EUROPEA: RIORGANIZZAZIONE INDUSTRIALE, DISOCCUPAZIONE, INQUINAMENTO AMBIENTALE Paesi Popolazione in milioni (all’1-1-2004) Mortalità infantile per 1000 nel 2002 (UE = 4,15) Aspettativa di vita alla nascita nel 2002 (UE = m. 75,5 – f. 81,6) Repubblica Ceca 10,2 4,1 m. 72,1 – f. 78,5 Estonia 1,4 5,7 m. 65,2 – f. 77,00 Lettonia 2,3 9,8 m. 65,5 – f. 77,00 Lituania 3,5 7,9 m. 65,9 – f. 77,4 Polonia 38,2 7,5 m. 70,9 – f. 78,4 Slovacchia 5,4 7,6 m. 69,5 – f. 79,6 Tasso di crescita anno 2003 Disoccupazione anno 2003 Utenti internet 10 000 abitanti anno 2002 (UE = 404,57 – Italia = 119,13) Repubblica Ceca 62,0 2,9 7,8 223,21 Estonia 40,0 4,8 10,0 467,63 Lettonia 39,0 7,5 10,5 152,39 Lituania 39,0 8,9 12,7 157,82 Polonia 41,0 0,4 19,8 170,30 Slovacchia 47,0 4,2 17,1 159,91 Paesi Pil pro capite anno 2002 (UE = 100) Paesi Qualità ambientale: tonnellate di diossido di carbonio pro capite nell’anno 2002 (ue = 8,38) Repubblica Ceca 11,56 Estonia 10,22 Lettonia 2,76 Lituania 3,04 Polonia 7,58 Slovacchia 7,27 Fonte: E. Letta, L’Europa a venticinque, Bologna, Il Mulino, 2005 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il Parlamento europeo è composto da 785 membri, ha sede a Strasburgo e si rinnova ogni 5 anni. Ha i seguenti poteri: – esprime pareri sulle proposte di legge (la cui approvazione spetta però al Consiglio dei Ministri); – approva (o meno) il bilancio comunitario; – approva (o meno) le decisioni prese dalla Commissione europea. Il Consiglio dei Ministri Europei riunisce i rappresentanti dei singoli Stati membri che si occupano della materia trattata: così se l’argomento all’ordine del giorno è la politica economica dell’Unione Europea, si incontreranno i ministri dell’Economia. Ha i seguenti poteri: – approva i provvedimenti di legge; – coordina le politiche economiche generali adottate dagli Stati membri; – conclude, a nome della UE, accordi internazionali tra la UE e le organizzazioni internazionali o uno o più Stati. APPROFONDIMENTO B Come funziona l’Unione Europea La Corte dei Conti europea è composta da un rappresentante di ogni Stato membro. Ha il compito di controllare le entrate e le uscite dell’Unione; redige inoltre una relazione annuale sul bilancio. Il Comitato economico e sociale riunisce i rappresentanti delle varie categorie economiche e sociali (per esempio dei liberi professionisti, degli imprenditori, dei consumatori, ecc.). Il Comitato espone i loro pareri davanti alla Commissione europea. Ha però solo una funzione consultiva e mai decisionale. PARLAMENTO EUROPEO 785 27 CONSIGLIO DEI MINISTRI EUROPEI COMITATO ECONOMICO E SOCIALE 27 27 COMMISSIONE EUROPEA COMITATO ECONOMICO E SOCIALE 27 CORTE DI GIUSTIZIA Decisioni Proposte CORTE DEI CONTI F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Pareri 15 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi La Corte di giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro e da otto avvocati generali. Ha il compito di verificare che le leggi comunitarie siano applicate nei Paesi membri. Le sue sentenze sono vincolanti: può quindi ordinare agli Stati di uniformare la legislazione alle norme comunitarie. UNITÀ 14 La Commissione europea è composta da 27 commissari (uno per ogni Stato membro) e da un Presidente (che però non è il presidente dell’Unione Europea). Ogni commissario si occupa in modo specifico di un settore (agricoltura, trasporti, commercio, ecc.). La Commissione europea vigila sulla corretta applicazione dei trattati e sull’attuazione delle politiche comunitarie. Può altresì fare proposte al Consiglio dei Ministri. UNITÀ 14 APPROFONDIMENTO B Riferimenti storiografici IL TEMPO DEL DISORDINE 16 1 La nascita della Comunità Economica Europea Firmato dai governanti di sei Paesi europei, il trattato di Roma diede vita a una vasta area economica, a un grande mercato comune europeo. Non si trattava di un’unione federale (e quindi, proprio per questo, il trattato fu duramente osteggiato da Altiero Spinelli e altri federalisti convinti). Tuttavia, a posteriori, quell’accordo può essere considerato un passo avanti fondamentale nel percorso verso un’Europa integrata e unificata. Manifesto per l’integrazione europea: le nazioni firmatarie del trattato di Roma sono viste come sorelle. Il progetto europeo, se mai aveva avuto una propria esistenza fuori dall’immaginazione di qualche idealista, alla metà degli anni Cinquanta aveva subito una battuta d’arresto. L’Assemblea nazionale francese aveva posto il veto sulla proposta di un esercito comune e di conseguenza anche su qualsiasi prospettiva di un più stretto coordinamento tra i Paesi. Si erano stipulati vari accordi regionali sul modello di quello del Benelux (in particolare, nel 1954, il Common Nordic Labour Market tra i Paesi scandinavi), ma non c’era nulla di più ambizioso in programma. La sola cosa su cui i sostenitori della cooperazione europea potevano richiamare l’attenzione era la nuova European Atomic Energy Community, annunciata nella primavera del 1955; ma si trattava – come nel caso della CECA – di un’iniziativa francese e il suo successo si doveva, significativamente, al carattere ristretto e in larga misura tecnico dei suoi compiti. Se gli inglesi continuavano a rimanere scettici sulle prospettive di unità europea, non li si poteva certo accusare di mantenere una posizione del tutto irragionevole. L’impulso per un nuovo avvio arrivò, piuttosto comprensibilmente, dal Benelux, che possedeva maggior esperienza nel campo delle unioni doganali, oltre ad avere meno da perdere dal diluirsi delle identità nazionali. Ai principali statisti europei (in particolare a Spaak, ministro degli Esteri belga) appariva ormai chiaro che un’integrazione politica o militare dell’Europa non era attuabile, almeno per il momento. In ogni caso, attorno alla metà degli anni Cinquanta l’agenda [il quadro politico, che dettava le priorità – n.d.r.] non era più dominata dalle preoccupazioni militari del precedente decennio. L’attenzione doveva ora essere concentrata sull’integrazione economica, vale a dire su un terreno nel quale si potevano combinare interesse nazionale e cooperazione, senza offendere le tradizionali sensibilità. Per discutere questa strategia, Spaak, insieme al ministro degli Esteri olandese, organizzò un incontro che si svolse a Messina nel giugno 1955. Vi parteciparono i 6 Paesi membri della CECA, più un osservatore inglese (compito affidato a un funzionario di secondo rango). Spaak e collaboratori presentarono una serie di proposte per unioni doganali, accordi commerciali e altri progetti piuttosto convenzionali di coordinamento transnazionale, tutti scrupolosamente confezionati in modo da non offendere le sensibilità di inglesi o francesi. I secondi si dimostrarono moderatamente favorevoli, i primi decisamente scettici. Dopo la conferenza, i negoziati furono continuati da un comitato di pianificazione internazionale presieduto dallo stesso Spaak, con lo scopo di formulare precise proposte per un’economia più integrata: un Mercato comune. Ma nel novembre 1955 gli inglesi abbandonarono il negoziato, allarmati dalla prospettiva proprio di quell’Europa prefederale su cui avevano sempre nutrito forti dubbi. I francesi, invece, avevano deciso di fare il tuffo: nel F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 T. Judt, Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Milano, Mondadori, 2007, pp. 372-374, traduzione di A. Piccato 2 L’Unione Europea al tempo della globalizzazione Di fronte alle sfide del nuovo secolo, l’Unione Europea si è dimostrata lenta e intorpidita, del tutto incapace di assumere atteggiamenti efficaci sia in ambito politico, sia a livello economico. Ad esempio, di fronte alla gravissima crisi finanziaria esplosa nel 2008, i Paesi europei sono indecisi sul da farsi. E se da un lato non possono tornare indietro rispetto agli accordi di Maastricht, dall’altro non sanno come procedere in direzione di una vera federazione sopranazionale. Quell’Unione Europea che, con l’allargamento dopo l’Ottantanove ai Paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica, è diventata una compagine di oltre 450 milioni di persone e un’area economica con notevoli potenzialità, ha visto svanire progressivamente le sue ambizioni e le sue chance [opportunità – n.d.r.] di affermazione al centro della ribalta mondiale. E questa parabola declinante è avvenuta per cause che, seppur dovute in parte alla crescita di statura di altri attori e ad alcune infelici evenienze congiunturali, riguardano soprattutto sia le forme istituzionali e di governo intrinseche alla UE sia i suoi strumenti operativi e gestionali. Fatto sta che, mentre i processi decisionali della Comunità sono diventati sempre più farraginosi, dopo l’ampliamento troppo affrettato delle frontiere dell’Unione a est e la bocciatura del progetto costituzionale, è emersa in termini tangibili e avvilenti l’incapacità della UE di esprimersi e agire in modo unitario, in base a una sostanziale compattezza e coerenza d’indirizzi fra i suoi Paesi membri. […] I ritardi e poi gli interventi sporadici o confusi con cui la UE ha reagito all’aggravarsi della recessione economica hanno dimostrato ancora una volta le sue difficoltà a concepire e attuare una linea d’azione omogenea ed efficace. E ciò malgrado quanto affermato solenneF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO B UNITÀ 14 Da chi partì l’iniziativa di rilanciare l’integrazione europea, alla metà degli anni Cinquanta? Per quali motivi? Per quali ragioni il Regno Unito non aderì al trattato di Roma? Di che cosa gli inglesi non si erano resi conto? È lecito affermare che il Mercato comune europeo nacque allo scopo di contrastare la potenza militare degli Stati Uniti? 17 La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi marzo 1956, quando il comitato presieduto da Spaak presentò la proposta ufficiale per la creazione di un Mercato comune, si dichiararono d’accordo. Gli osservatori inglesi rimasero scettici. Erano senza dubbio consapevoli del rischio di essere lasciati fuori: come aveva confidenzialmente osservato un comitato governativo soltanto poche settimane prima che fosse resa nota la proposta di Spaak, «se i Paesi riunitisi a Messina realizzano un’integrazione economica senza il Regno Unito, il risultato sarà l’egemonia tedesca in Europa». Ciononostante, e malgrado le esortazioni dell’anglofilo Spaak e la fragilità dell’area internazionale della sterlina, di cui si ebbe pochi mesi dopo la prova lampante a Suez, Londra non poteva persuadersi a unire la propria sorte con quella degli europei. Quando, il 25 marzo 1957, fu firmato a Roma il trattato costitutivo della CEE – e dell’Euratom, l’Autorità per l’energia atomica –, entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 1958, la nuova istituzione – la cui sede fu posta a Bruxelles – comprendeva gli stessi 6 Paesi che sette anni prima avevano fondato la CECA. È importante non sopravvalutare l’importanza del trattato di Roma: era, in larga misura, una semplice dichiarazione d’intenti. I firmatari stabilirono un programma per la riduzione e l’armonizzazione delle tariffe, delinearono la prospettiva di un allineamento delle valute e si accordarono per promuovere il libero movimento di merci, denaro e lavoro. […] Alla base della CEE stava la debolezza, non la forza. Come si sottolineava nel rapporto preparato da Spaak nel 1956 «l’Europa, che un tempo aveva il monopolio dell’industria manifatturiera e otteneva importanti risorse dai suoi possedimenti oltremare, oggi vede indebolirsi la sua posizione internazionale, declinare la sua influenza e arrestarsi la sua capacità di progresso per colpa delle proprie divisioni interne». Appunto perché non interpretavano ancora la loro situazione in questi termini, gli inglesi avevano deciso di non aderire alla CEE. L’idea che il Mercato comune facesse parte di una calcolata strategia per sfidare la crescente potenza degli USA (tesi che qualche decennio più tardi avrebbe goduto di una certa popolarità nelle cerchie politiche di Washington) è quindi del tutto assurda: la CEE dipendeva completamente dalla sicurezza garantita dagli americani, senza la quale i membri non avrebbero mai potuto permettersi di realizzare un’integrazione economica, trascurando al contempo ogni preoccupazione per una difesa comune. APPROFONDIMENTO B UNITÀ 14 Logo dell’allargamento dell’Unione Europea. IL TEMPO DEL DISORDINE 18 Spiega il termine euroscettici. Spiega l’espressione: opacità dei processi decisionali Secondo l’autore, l’esistenza di una valuta unica da che cosa non è ancora accompagnata? mente dai suoi rappresentanti in un documento congiunto approvato al vertice europeo di Parigi nel gennaio 2009, dove stava scritto che occorreva valutare le cose con un’impostazione di largo respiro per ridisegnare il sistema finanziario e rilanciare quello produttivo all’insegna di un’«economia sostenibile». Da allora è tornata a manifestarsi la tendenza dei vari Paesi membri ad agire isolatamente, badando al proprio orto di casa e presumendo in tal modo di tutelarlo meglio. Di fatto si è assistito, invece che all’allestimento di una trincea comune, robusta e compatta, solo al varo di una soluzione di compromesso che consentiva di sforare per un anno il tetto del deficit pubblico. Per di più, si è lasciato che ogni governo assumesse le misure che più gli erano congeniali a livello nazionale e, quindi, in ordine sparso e in base a logiche diverse. […] Tutto questo ha generato nell’opinione pubblica l’impressione che l’Unione Europea sia sostanzialmente un apparato burocratico. D’altra parte, la ricerca ogni volta di soluzioni che riscuotano il maggior consenso possibile si traduce, all’atto pratico, in un lavoro al ribasso, nella tendenza a puntare su iniziative non già di vasto respiro ma minimaliste e di compromesso. Ciò comporta, inoltre, come è avvenuto nel novembre 2009, che nella scelta delle massime cariche (dalla presidenza del Consiglio europeo alla guida della politica estera) si preferiscano personaggi di non eccelsa statura politica. Si spiega pertanto come da una tornata all’altra delle elezioni europee vada calando costantemente il numero di quanti si recano alle urne, tant’è che nell’ultima consultazione per il rinnovo del Parlamento europeo svoltasi nel giugno 2009 si è manifestata un’ulteriore diminuzione dei votanti. Oltretutto, mentre sono sempre più folte le file dei partiti nazionalisti di ultradestra e dei movimenti euroscettici, si è registrata, in molti casi, una discrasia [divergenza clamorosa, dissociazione – n.d.r.] fra le maggioranze presenti nei Parlamenti nazionali e quella degli eletti all’Assemblea di Strasburgo, di cui nel 2009 ha fatto le spese soprattutto la famiglia socialista (umiliata dai rovesci subiti a Parigi e Berlino, ma anche all’Aia, Dublino, Budapest e Sofia). La complessità e l’opacità dei processi decisionali, il ruolo preminente assunto dalla tecnocrazia comunitaria e il crescente disinteresse dei cittadini per le elezioni europee, e quindi nei riguardi di quanto si discute e si elabora nell’emiciclo [aula parlamentare – n.d.r.] di Strasburgo, rischiano di compromettere anche ciò che di buono e di valido si è costruito finora nell’ambito di Eurolandia. L’economia europea è grande quasi quanto quella degli Stati Uniti e tre volte più di quella della Cina e del Giappone; ma Spagna, Grecia, Irlanda e i Paesi dell’Est hanno subito nel frattempo un forte deterioramento delle loro posizioni e devono trovare pressoché da soli una via d’uscita dalla crisi, in quanto non c’è nessun Paese, a cominciare dalla Germania, disposto a prestare loro dei soldi. E se la BCE [Banca Centrale Europea, il soggetto istituzionale dell’Unione che emette l’Euro – n.d.r.], da frangiflutti qual era in passato contro le spinte inflazionistiche, ha contribuito a fare dell’euro una moneta forte, l’esistenza di una valuta unica e di un mercato unico non significa l’esistenza di un’entità politica unica. […] Insomma, mentre la globalizzazione ha contribuito da un lato ad acuire o a ridestare il bisogno d’identità nazionale, dall’altro non è valsa a rafforzare o a creare uno spirito europeo né a rendere più saldi i poteri e le istituzioni politiche della UE. E la comparsa sulla scena del G20 [la riunione dei capi di Stato o di governo dei 20 Stati più Grandi, cioè più potenti, del mondo – n.d.r.] fa presagire che il peso specifico dell’Unione Europea subirà una decurtazione, per lasciare più voce e spazio alle nuove potenze emergenti, dalla Cina all’India, al Brasile. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 V. Castronovo, Le ombre lunghe del Novecento. Perché la Storia non è finita, Milano, Mondadori, 2010, pp. 200-206