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La nascita dell`idea di un`Europa unita dal primo

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La nascita dell`idea di un`Europa unita dal primo
CULTURA
E IDEOLOGIE
APPROFONDIMENTO B
La nascita dell’idea
di un’Europa unita
dal primo Novecento
a oggi
Progetti e ideali nel primo Novecento
genza non fosse affrontata da ciascun Paese in modo
autonomo, con proprie misure protezionistiche. Al contrario,
si pensava che solo un fronte comune e provvedimenti concordati avrebbero permesso agli Stati europei di uscire dalla depressione. Il progetto di un’Europa capace di gestire la
crisi, tuttavia, non decollò mai, mentre Hitler e altre forze
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 14
Parte l’idea di una
federazione europea
1
John Maynard Keynes.
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
Nel XIX secolo, il progetto di una vasta federazione europea era stato sostenuto da Giuseppe Mazzini, da numerosi filosofi e da vari scrittori. Tuttavia, al posto degli Stati Uniti d’Europa sognati da quegli intellettuali, la realtà politica effettiva aveva visto invece la
crescita incontrollata dei nazionalismi, che si sarebbero scontrati senza esclusione di colpi durante la prima guerra mondiale.
Dopo il 1918, l’idea fu rilanciata su nuove e più solide basi, ma i diversi soggetti che proposero i propri progetti lo fecero per le ragioni più disparate. Alcuni intellettuali erano
rimasti turbati dagli orrori della guerra (da più parti chiamata fratricida) e quindi proposero
la federazione europea come antidoto ai nazionalismo e come strumento che, nelle loro
intenzioni, avrebbe impedito per sempre il ripetersi di una catastrofe simile al conflitto
esploso nel 1914. In altri casi, prevalevano invece i timori nei confronti di alcune potenze
extra-europee: mentre alcuni temevano l’espansionismo degli Stati Uniti, numerosi uomini politici europei erano preoccupati per il cosiddetto pericolo giallo, termine con cui
si indicava l’inarrestabile crescita demografica dei popoli asiatici.
Nell’Inghilterra degli anni Venti e Trenta, Winston Churchill metteva invece l’accento sul
comunismo, che, dopo la stabilizzazione del nuovo regime sovietico, poteva contare sulla
forza della Russia e sulla sua sterminata estensione territoriale. Secondo lo statista britannico, l’Europa avrebbe potuto salvarsi solo dando vita a una vasta entità politica federale, capace di competere alla pari con l’URSS e di affiancarsi
all’impero britannico nella gestione dell’equilibrio internazionale. Churchill, di fatto, teorizzò quella che sarebbe stata per molto tempo la posizione ufficiale inglese nel secondo dopoguerra: approvazione assoluta del progetto di Unione Europea, accompagnata però da un sostegno puramente esterno, visto che la Gran Bretagna dichiarò inizialmente di non voler assolutamente far parte della nuova federazione continentale (qualora essa avesse davvero preso vita).
Solo la progressiva crisi e la smobilitazione dell’impero avrebbero infine spinto i governi inglesi su posizioni differenti.
La grande crisi esplosa nel 1929 fu un’altra importante occasione per discutere sui progetti europei. Il britannico John
Maynard Keynes e altri economisti proposero che l’emer-
APPROFONDIMENTO B
nazionaliste salivano al potere e preparavano un nuovo conflitto. Gli anni della seconda guerra mondiale videro la provvisoria realizzazione di una particolare forma di unità europea,
all’insegna della razza ariana e dell’anticomunismo; inutile precisare che il nuovo ordine europeo nazista non aveva nulla in comune con i progetti o gli ideali precedenti, di cui anzi
era la completa negazione, visto che era nato sotto il segno della sopraffazione, della violenza
e della supremazia della Germania su tutti gli altri Stati d’Europa.
Il movimento di resistenza al nazismo non prestò in genere molto interesse agli ideali europeistici. In effetti, in vari Paesi occupati il fenomeno partigiano era guidato dai comunisti, che avevano una propria idea della fratellanza internazionale fra i popoli; essi, inoltre, avevano ben chiaro che, per Churchill e altri statisti conservatori, l’unità europea doveva essere costruita, principalmente, in funzione antirussa e antisovietica. In Francia, viceversa, il movimento di resistenza era animato dal desiderio di riscattare l’onore nazionale infangato dalla resa del 1940, ma, ovviamente, patriottismo e sforzo di riportare in
alto il prestigio della Francia si conciliavano male con i progetti europeistici: questi, infatti, avrebbero richiesto il sacrificio di una parte della sovranità dei singoli Stati a vantaggio della comune federazione.
UNITÀ 14
Altiero Spinelli e il Manifesto di Ventotene
Il circolo
di Kreisau
IL TEMPO DEL DISORDINE
2
Altiero Spinelli.
Durante la guerra, l’interesse maggiore per i progetti di respiro continentale da realizzare a conflitto finito si manifestò in Germania e in Italia. All’interno del mondo tedesco,
l’idea di una futura integrazione politica europea fu sostenuta dal circolo di Kreisau, un
gruppo di intellettuali e funzionari conservatori antinazisti, decisi a preparare un nuovo
mondo alternativo a quello hitleriano. Nel 1943, questi uomini (ricordiamo, ad esempio,
Carl Goerdeler) sognavano una moneta comune europea, la fine delle barriere doganali
e una gestione comune (sopranazionale) delle risorse, delle materie prime essenziali all’industria pesante, delle infrastrutture e dei trasporti. Su scala più ridotta, progetti simili
furono subito accolti dai governi di Belgio, Olanda e Lussemburgo, che poco dopo la fine
del conflitto diedero vita al Benelux, un’area territoriale ampiamente integrata sotto il profilo economico e commerciale.
In Italia, la forza politica che mostrò il maggior interesse per le tematiche di natura europea fu il Partito d’Azione, che si presentava come un movimento di sinistra e progressista, ma nel medesimo tempo voleva nettamente distinguersi dai
comunisti. In un documento del dicembre 1944, il Partito d’Azione arrivò a chiedere che, nella futura Costituzione italiana, fosse proclamato il principio secondo il quale «la sovranità assoluta di cui dispone lo Stato italiano» doveva essere considerata «provvisoria»; nel medesimo tempo, la Carta costituzionale avrebbe dovuto impegnare i futuri governi ad «adottare una politica estera
che non pregiudichi la sua adesione ad una federazione».
Le basi teoriche dell’europeismo azionista erano state gettate nel
1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che si trovavano al
confino nell’isola di Ventotene (nel Tirreno meridionale): insieme stesero un breve testo intitolato Per un’Europa libera e unita.
Progetto d’un manifesto. Il documento (noto come Manifesto di
Ventotene) inizia individuando nell’imperialismo e nel nazionalismo le cause del secondo conflitto mondiale. In origine, secondo
i due autori, l’idea di nazione era stata «un potente lievito di progresso»; con il passar del tempo, tuttavia, essa si era invece trasformata in una concezione pericolosissima per l’umanità, nella
misura in cui la nazione «è invece divenuta un’entità divina, un
organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne. La sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO B
ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo spazio vitale territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello Stato più forte su tutti gli altri asserviti».
A giudizio di Spinelli e Rossi, la sconfitta della Germania e del nazismo erano condizioni indispensabili per una ripresa del cammino in direzione di un’Europa più libera e più giusta; però, per il dopoguerra, l’esempio di quanto era accaduto dopo il 1918
dimostrava che il problema andava affrontato alla radice, impedendo la rinascita dei vecchi organismi statali, dotati di sovranità. Anche se, al posto delle dittature totalitarie, fossero nate delle democrazie capaci di lasciare ampi spazi di azione politica alle classi lavoratrici, il pericolo di un rinnovato nazionalismo sarebbe stato sempre in agguato, affiancato dalla tentazione di sostenere unilateralmente i propri interessi, a danno degli altri.
Secondo Spinelli, poiché «lo Stato nazionale è organicamente inadatto a vedere gli interessi di tutti i popoli», l’atmosfera sarebbe stata in breve tempo di nuovo avvelenata dalla competizione tra i vari Stati, generando una insopportabile tensione che avrebbe potuto facilmente portare a un ennesimo conflitto europeo. Pertanto, il solo cambiamento
veramente rivoluzionario, l’unico che avrebbe garantito all’Europa una pace duratura, sarebbe stato l’abolizione delle sovranità nazionali e la loro sostituzione con una federazione di soggetti dotati di pari diritti e uguali doveri.
DOCUMENTI
UNITÀ 14
Il progetto di una federazione europea
Il nazionalismo,
nemico
dell’integrazione
europea
Il cosiddetto Manifesto di Ventotene fu steso da Altiero Spinelli e da Ernesto Rossi nel 1941. Spinelli ne scrisse la maggior parte (circa tre quarti). In un primo tempo, il documento circolò in forma clandestina, sotto forma di dattiloscritto ciclostilato. Più tardi, nel 1944, trovò ampia diffusione per opera
di Eugenio Colorni, che lo pubblicò insieme ad altri due scritti di Spinelli: questi documenti esortavano
le forze politiche a mettere il federalismo a base della loro azione politica.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non
è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli Stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che, o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria
in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto
meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di
Stati europei indipendenti, con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni
degli altri Paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che
sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun Paese in Europa può restarsene da parte
mentre gli altri si battono, a niente valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società
delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare
capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli Stati partecipanti.
Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione
interna di ogni singolo Stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri Paesi europei. Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del
continente – tracciato dei confini nelle zone di popolazione mista, difesa delle minoranze allogene [estranee, cioè diverse dal gruppo di maggioranza presente in uno Stato nazionale,
n.d.r.], sbocco al mare dei Paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese,
ecc. – che troverebbe nella Federazione Europea la più semplice soluzione – come l’hanno
trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte della più vasta
3

APPROFONDIMENTO B
DOCUMENTI
unità nazionale avendo perso la loro acredine, col trasformarsi in problemi di rapporti fra le
diverse province. […]
La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo
la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da
istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono
come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale
– e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato
internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato
il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità
internazionale.
A. SPINELLI- E. ROSSI, Il Manifesto di Ventotene, Milano, RCS Quotiniani, 2010, pp. 9-31
UNITÀ 14
Che cosa era la Società delle Nazioni? Ti ricordi quando nacque? Da quale organismo è stata
sostituita nel 1945?
In quale misura, secondo il tuo parere, il progetto di Spinelli e Rossi ha trovato realizzazione?
Le difficoltà del dopoguerra
IL TEMPO DEL DISORDINE
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Le preoccupazioni
di Churchill
nel dopoguerra
La posizione
degli Stati Uniti
Al termine della seconda guerra mondiale, l’Europa era disperata e disorientata. Come disse Churchill in un discorso pronunciato a Zurigo il 19 settembre 1946 «in vaste regioni,
masse di esseri umani affamati e impauriti si aggirano tra le rovine delle proprie città e
delle proprie case, esplorando un orizzonte buio, nel timore di vedere apparire qualche
nuova forma di tirannia e di terrore». In queste parole, mentre da un lato descriveva con
efficacia la condizione materiale di milioni di italiani, tedeschi o francesi, che avevano letteralmente perso tutto a seguito della violenza bellica, lo statista britannico esprimeva anche la propria principale preoccupazione, condivisa da gran parte degli uomini politici
europei: il timore che i comunisti riuscissero ad approfittare della situazione di caos
e povertà generalizzata, per conquistare il potere, proprio com’era accaduto nella Russia del 1917.
Questa preoccupazione era condivisa anche da numerosi uomini vicini al presidente americano Harry Truman, in particolare dal segretario di Stato James Byrnes, che si dichiarò
disponibile a contribuire alla ricostruzione della Germania e a far sì che essa recuperasse
al più presto il suo posto tradizionale di forza trainante dell’economia europea. Quando
Byrnes lasciò il proprio incarico a George Marshall, le dichiarazioni di principio si trasformarono poi in un preciso e vasto progetto di aiuti economici (il cosiddetto piano Marshall), che prevedeva anche la possibilità di un eventuale sviluppo della situazione politica europea in direzione federale. Una risoluzione approvata dal parlamento americano il
22 marzo 1947 dichiarava esplicitamente che «il Congresso degli Stati Uniti favorisce la
creazione degli Stati Uniti d’Europa». In effetti, rilancio dell’economia e integrazione
politico-militare parevano al governo statunitense, nell’immediato dopoguerra, la migliore ricetta possibile, capace di contrastare sia le ambizioni espansionistiche dell’URSS sia la forza elettorale dei partiti di sinistra, che potevano contare sull’appoggio di
milioni di operai disoccupati e privi di alternative.
Il progetto di una federazione europea, dunque, cambiava di segno politico. Se nel Manifesto di Ventotene tale progetto era stato lanciato come un ideale progressista, capace di
trascendere e superare (da sinistra) perfino i progetti comunisti, negli anni seguenti il 1947
fu monopolizzato dalle forze che si opponevano a radicali cambiamenti sociali e, anzi, veF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Federalisti
e funzionalisti
APPROFONDIMENTO B
devano nell’Unione degli Stati del continente il più efficace baluardo contro i sovietici.
Europeismo ed atlantismo (nel senso di alleanza con gli Stati Uniti in un contesto di tensione, di guerra fredda, sempre più evidente) finivano per fondersi.
Nel medesimo tempo, l’urgenza di rilanciare l’industria e la produzione spingeva nella direzione di accelerare i tempi dell’integrazione economica, di dare la precedenza
a quest’ultima, e non ai temi politici. Di conseguenza, le posizioni dei federalisti (che volevano una drastica riduzione della sovranità dei vari Stati, considerata come la principale
radice delle guerre del XX secolo) furono sempre più sovrastate da quelle dei funzionalisti, che ragionavano in termini di integrazione dei mercati, di abolizione delle dogane, di
libera circolazione delle merci o dei capitali, ma non mettevano affatto in discussione il
principio della sovranità dei singoli soggetti nazionali. L’eventuale trasferimento di poteri politici a un vero (e forte) potere sovra-nazionale, a giudizio dei funzionalisti, doveva avvenire in modo lento e graduale, non in modo rapido, come invece volevano i federalisti alla Spinelli. Sarebbe stato il traguardo, non il punto di partenza dell’intero itinerario, come dichiarò il primo ministro francese Robert Schuman, al momento della nascita della Comunità del carbone e dell’acciaio (prima vera e importante successo della strategia funzionalista): «L’Europa non verrà creata tutta in una volta e secondo un unico progetto generale, ma verrà costruita attraverso realizzazioni concrete, dirette a creare solidarietà reali».
18 aprile 1951:
nasce la ceca
5
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
Schuman era approdato alla direzione della politica francese nel luglio 1948. Tra i suoi
consiglieri spiccava Jean Monnet, che va considerato il vero artefice della CECA, la già menzionata Comunità del carbone e dell’acciaio, creata con un accordo siglato a Parigi il
18 aprile 1951. Il trattato prevedeva la nascita di un’Alta Autorità (alla cui presidenza fu
assegnato, nel 1952, lo stesso Monnet), che era un’istituzione dotata di ampi poteri nella gestione della produzione e della commercializzazione del carbone e dell’acciaio di Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Italia. L’Inghilterra, dal canto suo, rifiutò
polemicamente di entrare a far parte della nuova Comunità. Come dichiarò Churchill «non
potremmo mai accettare un’autorità sopranazionale con il potere di dirci di non estrarre
più carbone e di non produrre più acciaio, e di coltivare invece pomodori». A partire da
questo momento, il Regno Unito non svolse più alcun ruolo importante nella promozione
dell’unificazione europea e l’iniziativa passò invece a Francia e Germania.
In virtù del trattato, la Francia ottenne che le sue industrie potessero contare su un regolare rifornimento di carbone tedesco, ma, nello stesso tempo, veniva rassicurata sul fatto che nessun programma di riarmo (auspicato dagli Stati Uniti, in funzione antisovieti-
Fotografia che raffigura
alcuni rappresentanti
degli Stati membri della
CECA.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 14
Carbone, acciaio e difesa: successi e fallimenti
APPROFONDIMENTO B
UNITÀ 14
Parigi 1954. Nella
capitale francese si
incontrano il primo
ministro padrone di
casa, Pierre Mendes,
il cancelliere tedesco
Konrad Adenauer,
il primo ministro
inglese Anthony Eden
e il segretario di Stato
americano John Foster
Dulles.
IL TEMPO DEL DISORDINE
6
La discussione
sul riarmo tedesco
ca e, ovviamente, basato sulla produzione di acciaio) avrebbe potuto essere intrapreso dai
tedeschi senza un rigoroso controllo degli altri Paesi europei. Quanto alla Germania Federale (nata nel 1949 e guidata, all’epoca, dal cancelliere Conrad Adenauer, democristiano)
otteneva il suo primo importante successo diplomatico: riuscì infatti a ritornare a pieno
titolo nel gruppo dei Paesi occidentali, senza subire alcuna punizione o penalizzazione per
il suo recente passato nazista.
Il significato storico dell’accordo è fondamentale, se solo si tiene conto che i due principali
soggetti – Francia e Germania – dopo un conflitto che durava dal 1871, nel 1950 gettarono le basi per una collaborazione solida e duratura, che tutti fino a poco tempo prima avrebbero ritenuto impossibile. Sulla carta, l’accordo dichiarava di voler essere «il primo passo verso una federazione europea», e in effetti esso comportava un trasferimento di sovranità dagli
Stati a un’entità sopranazionale. La CECA, tuttavia, era una realtà quanto mai limitata e settoriale: e in un’ottica veramente federalista, ciò costituiva il suo limite più evidente.
Se si voleva procedere oltre, bisognava affrontare i delicati temi della creazione di un vero
esercito europeo e degli armamenti. In altri termini, si sarebbe dovuto dar vita a una Comunità europea di difesa (o CED). All’inizio degli anni Cinquanta, la questione era tutt’altro
che accademica o puramente teorica, visto che era in corso la guerra di Corea e in Europa
era molto diffuso il timore che Stalin potesse lanciare un’offensiva nel Vecchio continente,
approfittando del fatto che un gran numero di soldati americani era impegnato in Asia. In
questo clima, dall’Inghilterra, Churchill fu tra i primi a lanciare l’idea di un esercito europeo unificato, operante in stretto contatto con quelli del Canada e degli Stati Uniti. Secondo
lo statista britannico, la Germania non poteva assolutamente essere esclusa da questo progetto: pertanto, si doveva accettare l’idea di un riarmo tedesco e procedere a una normalizzazione della Germania ovest anche sotto il profilo militare, dopo che la CECA aveva già contribuito alla sua integrazione nella vita economica dell’Occidente.
Il rapido riarmo della Germania era visto molto favorevolmente dagli Stati Uniti e, in Europa, sia dal governo italiano, guidato da Alcide De Gasperi, sia da quello olandese. Durissimo e categorico, invece, fu il rifiuto dei francesi, che si opponevano a priori all’idea
di un esercito tedesco, giudicavano prematura la creazione di un Ministero della Difesa
nella Germania Federale e, soprattutto, temevano che quest’ultima, una volta riarmata,
diventasse il principale alleato degli USA in Europa, a scapito della Francia. Pertanto, quando fu chiamata a discutere il progetto di una Comunità europea di difesa, a larga maggioranza
(319 contro 264) l’Assemblea nazionale di Parigi respinse il piano, affossando con esso
anche qualsiasi tentativo di far evolvere in tempi brevi la CECA in federazione.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
La pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creativi proporzionati ai
pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può offrire alla
civiltà è indispensabile per il mantenimento di rapporti pacifici. La Francia, da oltre vent’anni
paladina dell’Europa unita, persegue da sempre un obiettivo essenziale: servire la pace. L’Europa non è stata fatta, abbiamo avuto la guerra. L’Europa non verrà fatta in una volta sola,
né potrà essere costruita tutta insieme. Essa vedrà la luce attraverso realizzazioni concrete che permettano di
creare innanzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni europee esige che
venga eliminata la secolare contrapposizione tra Francia e Germania: l’azione intrapresa deve riguardare in
prima istanza Francia e Germania.
A tal fine, il governo francese
propone di agire immediatamente
su un punto circoscritto e tuttavia
decisivo.
Il governo francese propone
di porre l’intera produzione
franco-tedesca del carbone e dell’acciaio sotto un’Alta Autorità comune, nel quadro di un’organizzazione a cui possano aderire altri paesi
europei.
La condivisione delle produzioni di
carbone e acciaio garantirà immediatamente la creazione di basi comuni di sviluppo
economico, prima tappa della Federazione europea, e
cambierà il destino di quelle regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di armi da guerra, armi di cui sono state le vittime più frequenti. Il legame di solidarietà produttiva che verrà a crearsi in tal modo renderà manifesto che una guerra tra Francia e Germania diventa non solo impensabile, ma anche materialmente impossibile. La
realizzazione di questa potente unità di produzione – aperta a tutti i paesi che desidereranno prendervi parte e il cui scopo è quello di fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi basilari della produzione industriale a pari condizioni – getterà le fondamenta reali
della loro unificazione economica.
R. Schuman - K. Adenauer - J. Monnet - A. De Gasperi, La costruzione dell’Italia unita,
Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2011, pp. 19-21. Traduzione di L. Cisbani
Spiega l’affermazione: «L’azione intrapresa deve riguardare in prima istanza Francia
e Germania».
Spiega le ragioni per cui una guerra tra Francia e Germania sarebbe diventata «non solo
impensabile, ma anche materialmente impossibile».
Che cosa distingue la posizione di Schuman e di Monnet, da quella di Altiero Spinelli?
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Medaglia
commemorativa
dei “padri storici”
del progetto europeo:
il francese Schuman,
il tedesco Adenauer
e l’italiano
De Gasperi.
APPROFONDIMENTO B
Il 9 maggio 1950, il primo ministro francese Robert Schuman tenne un importante discorso, nel quale
annunciava la piena disponibilità della Francia a costruire una Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Dal testo emerge con chiarezza la strategia politica dei primi artefici della Comunità Economica Europea e, in particolare, di Jean Monnet, stretto collaboratore di Schuman. La federazione
europea non era concepita come il punto di inizio, ma il risultato finale di una serie di azioni concrete,
limitate a un solo specifico settore, in cui la sovranità dei vari Stati cedeva il posto ad un’autorità di respiro più ampio di quelle nazionali.
UNITÀ 14
DOCUMENTI
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La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
La Dichiarazione Schuman
APPROFONDIMENTO B
UNITÀ 14
IL TEMPO DEL DISORDINE
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Il trattato di Roma
Fallito il progetto di un esercito integrato e unificato, l’idea di un’Unione Europea sembrava priva di qualsiasi futuro. Nei Paesi del Benelux, tuttavia, si fece strada l’ipotesi di
una nuova strategia, diversa sia da quella rigorosamente settoriale di Jean Monnet e della CECA, sia da quella che si proponeva di realizzare in tempi brevi importanti fusioni a
livello politico e militare. La nuova idea, che ben presto trovò sostenitori in Germania e
in Italia, era quella del Mercato comune; il terreno su cui si sarebbe operato sarebbe stato
solo quello della cooperazione economica, cosicché in tutti gli altri campi (primi fra tutti la difesa e la politica estera) gli Stati non avrebbero ceduto quasi nulla della propria sovranità. L’approccio rispetto alla CECA, però, era di tipo affatto diverso, visto che l’intero mondo dell’economia (e non solo uno o più settori) sarebbe stato coinvolto.
Quando anche il governo francese si convinse della fattibilità del progetto, si giunse al trattato di Roma, siglato il 25 marzo 1957, nella capitale italiana, in Campidoglio. Il docuRiferimento mento principale istituì la cosiddetta Comunità Economica Europea e ne riassumeva i
fini in questo modo: «promuovere, mediante l’instaurazione di un mercato comune e il
1 storiografico
graduale riavvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, un’espansione
pag. 16
continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido
del tenore di vita e più strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano».
25 marzo 1957: A livello operativo, il trattato prevedeva, in primo luogo, l’abolizione di qualunque tariffa
viene istituita la doganale all’interno della nuova vasta area economica che veniva istituita e che comprendeva
Comunità Economica
sei Paesi: Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. In altri termini, quanEuropea
do il trattato fosse andato a completo regime, non ci sarebbe più stata alcuna differenza
Soldati inglesi issano la tra la vendita di una merce all’interno di un dato Paese e un’esportazione effettuata in uno
bandiera della marina dei sei Stati membri della CEE. Ad esempio, un automobile fabbricata in Germania, ma
da guerra a Port Said,
venduta in Italia, non avrebbe subito alcuna penalizzazione o variazione di prezzo, dato
sul canale di Suez, nel
1956. Il controllo del che il Paese importatore non avrebbe più potuto imporre alcun dazio protezionistico sui
canale da parte di prodotti provenienti da un altro Stato che faceva parte dell’unione doganale. Inoltre, da
Inghilterra e Francia allora in avanti, tutti i Paesi firmatari avrebbero agito insieme e si sarebbero comportati
durerà però ancora solo
un paio di mesi: un nella stessa maniera, nei confronti di soggetti estranei alla CEE (come, ad esempio, la Gran
segnale evidente della Bretagna, gli Stati Uniti o il Giappone).
debolezza europea. In secondo luogo, per mantenere elevati i prezzi delle derrate agricole, gli organi direttivi della Comunità avrebbero fissato precise regole e indicazioni, capaci di impedire gli improvvisi crolli delle quotazioni dei prodotti, provocati da eventuali eccessi di produzione. L’entrata in vigore del trattato venne fissata al 1° gennaio 1958; ci si diede comunque
un margine di dieci anni perché il meccanismo potesse decollare e
tutti i dazi interni fossero gradualmente cancellati senza conseguenze
eccessivamente dannose.
Nel lungo percorso che portò al trattato di Roma, secondo vari storici svolse un ruolo determinante la crisi di Suez dell’autunno del
1956. Dopo che l’Egitto di Nasser aveva nazionalizzato il canale di
Suez, Francia e Inghilterra erano intervenuti militarmente in
quella delicata area strategica, ma la loro azione era stata pesantemente condannata da USA e URSS, per una volta uniti e concordi.
La minaccia americana di sospendere a Francia e Gran Bretagna qualsiasi aiuto finanziario obbligò i governi di Parigi e di Londra a un
repentino ritiro delle proprie forze.
La debolezza dell’Europa emerse con una chiarezza lampante. Tuttavia, mentre Londra scelse di appoggiarsi in maniera ancora
più stretta agli Stati Uniti, la Francia decise di guardare di nuovo
all’Europa: a livello operativo, dapprima si fece promotrice di un
trattato sull’energia atomica (promosso da Jean Monnet, secondo
la logica settoriale che aveva portato alla nascita della CECA, e infine denominato Euratom) e poi accettò di entrare nella Comunità
Economica Europea.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
CEE e la Francia furono spesso tese, ma accordi e compromessi vennero comunque
trovati su singoli concreti problemi. In tal modo, la Comunità riuscì ugualmente a fun-
zionare come strumento di regolazione dell’economia europea e a trasformarsi in uno straordinario strumento di sviluppo economico: tra il 1958 e il 1965, la produzione industriale
dei sei Paesi CEE crebbe del 52%, le esportazioni verso Paesi terzi (non membri della
Comunità) aumentarono del 51%, mentre
il commercio intercomunitario registrò un
incremento del 166%.
Quando De Gaulle si allontanò dalla scena
politica, nel 1969, il suo posto fu preso da
Georges Pompidou, che fin dall’inizio del
suo mandato presidenziale si mostrò disponibile a dialogare con la Gran Bretagna.
Le ragioni della svolta francese vanno cercate
nella nuova politica tedesca, condotta dal
cancelliere Willy Brandt e denominata Ostpolitik. Negli anni in cui fu guidata da
Brandt, infatti, la Germania federale iniziò
a guardare con occhi nuovi ai Paesi comunisti dell’Est, con i quali bisognava, a giudizio del cancelliere, convivere e collaborare. Il sogno di Gaulle era stato quello di attirare la Germania in un blocco politico forte, guidato dalla Francia; la politica di
Brandt non significava per nulla che lo Stato tedesco si allontanava dagli Stati Uniti: tuttavia, era nel medesimo tempo un evidente rifiuto dell’invito francese e il segno di una
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
UNITÀ 14
Il progetto
francese
Willy Brandt con
il presidente americano
Kennedy, fotografia
del 1961.
9
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
Nel 1961, l’Inghilterra manifestò evidenti segni di ripensamento e intraprese i primi passi diplomatici per entrare nella CEE. Per tutti gli anni Sessanta, tuttavia, la candidatura britannica venne fermamente avversata dal governo di Parigi, guidato dal generale Charles
De Gaulle. Deciso oppositore a ogni evoluzione in senso federale della Comunità, il presidente dimostrò di non aver affatto compreso la lezione di Suez, continuando a sognare una Francia capace di farsi valere a livello internazionale come terza forza, soggetto paritetico rispetto a Stati Uniti e URSS. Il generale accettava che l’economia del suo
Paese fosse in qualche modo regolata da meccanismi di tipo sopranazionale, ma amava
ribadire che «gli interessi francesi non hanno altri tutori che il governo francese».
Tutto sommato, il settore economico che maggiormente stava a cuore alla Francia era quello agricolo, visto che ben il 17% della popolazione viveva ancora nelle campagne. L’esistenza della CEE garantiva a questi contadini francesi alti dazi doganali sui cereali statunitensi o canadesi e, viceversa, i prezzi elevati previsti dalla Comunità per le derrate prodotte dagli agricoltori europei, visto che gli organismi comunitari si impegnavano ad acquistare tutta la produzione in eccesso. Dati questi vantaggi essenziali, che rendevano l’agricoltura europea «un settore completamente impermeabile alle leggi di mercato» (G. Mammarella), De Gaulle non poteva permettersi di uscire dalla CEE.
Il suo progetto era quello di un’Europa in cui la Francia fosse il centro della politica continentale: il che lo spingeva a considerare gli Stati Uniti un alleato troppo ingombrante,
la Gran Bretagna un potenziale concorrente per la supremazia in Europa, la CEE uno strumento da tenere sotto controllo, sfruttare o respingere, a seconda degli interessi francesi. Gli altri Paesi della Comunità, tuttavia, non seguirono mai il generale sulla strada che
egli proponeva loro, non volendo rinunciare affatto a buone relazioni con gli Stati Uniti, indispensabili a livello militare, per quanto il clima internazionale degli anni Sessanta fosse decisamente più disteso di quello dell’immediato dopoguerra. Le relazioni tra la
APPROFONDIMENTO B
Gli anni Sessanta
APPROFONDIMENTO B
UNITÀ 14
Georges Pompidou
(a destra in primo
piano) con il presidente
americano Nixon,
fotografia del 1973.
IL TEMPO DEL DISORDINE
10
rinnovata e dinamica iniziativa
autonoma. Nacque da questa constatazione la nuova linea di Pompidou, determinato a ricreare un
legame forte con l’Inghilterra, per
bilanciare la ritrovata energia dei tedeschi. D’altra parte, il presidente
francese poteva contare sul fatto che
anche gli inglesi, come il governo
di Parigi, era contrario a qualsiasi
evoluzione in senso federale degli
accordi puramente economici che
legavano i Paesi della CEE.
La questione fu affrontata in una
lunga serie di incontri al vertice e
trovò inizialmente alcuni ostacoli
di non facile soluzione. La Gran
Bretagna, infatti, aveva relazioni
privilegiate con vari Paesi del Commonwealth e chiedeva che questi rapporti fossero conservati; inoltre, vi era lo scoglio dei prezzi agricoli: entrando nella CEE, i consumatori britannici li avrebbero visti lievitare, considerata la tradizionale politica comunitaria di sostegno all’agricoltura.
L’allargamento della Comunità
Il Parlamento di Londra votò l’ingresso del Regno Unito nella CEE il 28 ottobre 1971,
con 356 voti a favore, 244 contrari e 22 astensioni. Nel medesimo anno, furono accolte
Gran Bretagna, anche Irlanda e Danimarca. In Norvegia, il governo sostenne una politica analoga, ma quanIrlanda e Danimarca do venne proposto ai cittadini un referendum relativo all’ingresso o meno nella Comuentrano nella cee nità, i norvegesi bocciarono l’idea con una maggioranza del 53,3%. La Norvegia, pertanto,
è tuttora fuori dall’Unione Europea.
In tutti gli Stati europei fu necessario approvare l’allargamento della CEE ai nuovi membri, e la ratifica avvenne con procedure differenti, Paese per Paese. La Francia scelse il referendum: i favorevoli alla nuova linea del presidente risultarono 10 502 756, a fronte di
5 008 469 elettori contrari alla partecipazione dell’Inghilterra alla Comunità; numerosissimi gli astenuti, circa 11 milioni e mezzo. Si trattava di numeri che mandavano un messaggio decisamente chiaro: moltissimi francesi guardavano all’idea di allargare la CEE con
notevole scetticismo, anche se riconoscevano che non c’era un’autentica alternativa. In Italia, poiché non è previsto l’uso del referendum per i trattati internazionali, la ratifica fu
affidata al Parlamento; in questa sede (5 dicembre 1972, alla Camera; 19 dicembre 1972,
al Senato), la grande novità storica fu rappresentata dal PCI, che non giudicò più la CEE
come un puro strumento tecnico del capitalismo o, peggio, una macchinazione antisovietica. Deputati e senatori comunisti, pertanto, non votarono contro l’allargamento della CEE a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, ma scelsero l’astensione.
La nuova Comunità allargata diventava la prima potenza commerciale del mondo,
nonché la più grande produttrice mondiale di acciaio e di automobili. Con i suoi 252 milioni di abitanti, anche in termini di popolazione complessiva la CEE superava sia gli Stati Uniti (205 milioni) che l’URSS (242 milioni), mentre il Prodotto Interno Lordo (cioè la
ricchezza complessivamente prodotta) restava molto inferiore a quello americano: il PIL
europeo, infatti, era di 630 miliardi di dollari, cifra pari ai due terzi di quello statunitense.
La ricchezza americana, comunque, era in netto calo: se nel 1950 la percentuale delle esportazioni degli USA era pari al 16,7%, nel 1970 era scesa al 13,7%, a tutto beneficio del Giappone, della Germania Federale e degli altri Paesi CEE. Inoltre, il bilancio americano era
in grave sofferenza a causa delle spese sostenute in Vietnam. Nacque da queste esigenze
(rilanciare le esportazioni e proteggere il mercato interno) la storica decisione del presidente Nixon (annunciata il il 15 agosto 1971) di abbandonare la tradizionale convertiF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Negli anni seguenti, una delle questioni più delicate, tra le numerose che furono discusse, riguardò la riforma della politica agricola: questa aveva raggiunto costi insostenibili per i fondi della Comunità, in un momento in cui tutti gli Stati uscivano da una crisi
economica durissima come quella degli anni Settanta. Il governo inglese, in particolare,
si rifiutava di pagare un contributo che riteneva troppo gravoso in proporzione ai benefici ricavati, visto che solo il 2% dei lavoratori britannici era impiegato in agricoltura e
che questa contribuiva appena per il 2% al PIL del Paese. La riforma della politica agricola venne infine approvata nel 1988, allorché furono fissate delle quote precise per i diversi prodotti, superate le quali i produttori non avrebbero ricevuto alcun sussidio (o addirittura sarebbero stati penalizzati mediante sanzioni). Il denaro risparmiato dalle minori
sovvenzioni concesse all’agricoltura poteva essere così dirottato a sostegno dell’industria
siderurgica, in gravissima crisi per un eccesso di produzione a livello mondiale: questa crisi aveva provocato un crollo dei prezzi e la perdita di almeno 150 000 posti di lavoro nei
primi anni Ottanta.
Nello stesso periodo, la Comunità dovette affrontare il problema di un ulteriore allargamento a Grecia, Portogallo e Spagna, Stati che possedevano numerosi tratti in comune. In effetti, tutti e tre erano stati governati, fino al 1973-1974, da regimi autoritari; inoltre, si trattava di Paesi mediterranei, a basso tasso di industrializzazione, i cui prodotti agricoli potevano fare concorrenza a quelli di Francia e Italia. La Grecia entrò nella CEE il 1° gennaio 1981, Spagna e Portogallo nel 1986.
A quel punto, l’Europa dei 12 si pose una serie di problemi che fino ad allora erano stati tralasciati. Perché la circolazione delle merci, dei capitali e degli individui potesse essere davvero libera, occorreva eliminare o ridurre al minimo i controlli alle dogane. Per i
prodotti sarebbe poi stato molto più efficace l’adozione di standard comuni, identici in
tutti i Paesi (perché fissati da precise direttive comunitarie), per quello che riguardava l’igiene, la salute e le garanzie da offrire al consumatore. Nel 1990 venne firmato il cosiddetto accordo di Schengen (entrato in vigore il 1° gennaio 1993), in base al quale furono soppressi tutti i controlli sulle persone alle frontiere.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
L’Europa dei 12
UNITÀ 14
Manifesto per le elezioni
del primo Parlamento
europeo
nel 1979. La scritta
recita: “Il 7 giugno,
la più grande elezione
nella storia europea
sceglierà un Parlamento
per l’Europa”.
11
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
Gli anni Ottanta
APPROFONDIMENTO B
bilità del dollaro in oro, di svalutare la moneta statunitense e
di porre elevati dazi doganali alle frontiere.
A tutto ciò si aggiunse la brusca impennata che, dal 1973, i
Paesi produttori imposero al prezzo del petrolio: questo passò bruscamente da 3 dollari il barile a 11,65. La CEE attraversò allora uno dei suoi momenti più difficili, in quanto i diversi Paesi non seppero assolutamente affrontare uniti la crisi né
elaborare un’efficace strategia comune. Tuttavia, proprio in questo momento di sostanziale paralisi, ci si rese conto della necessità
di strutture comunitarie più efficaci, di istituzioni dotate di maggiori poteri e di un sistema più stabile nel campo dei cambi delle diverse valute. Pertanto, fu proprio negli anni 1974-1976,
nel cuore della crisi, che emersero per la prima volta l’idea di
eleggere a suffragio universale un Parlamento europeo e quella di un’unione monetaria.
Le prime elezioni del Parlamento europeo di Strasburgo ebbero
luogo nei giorni 7-10 giugno 1979; furono eletti 410 deputati, così ripartiti: 81 per Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna; 25 per l’Olanda; 24 per il Belgio; 16 per la Danimarca;
15 per l’Irlanda; 6 per il Lussemburgo. La partecipazione alle
urne fu relativamente elevata, con una media del 65%; un’analisi scorporata dei dati, però, mostra una divaricazione clamorosa, visto che in Belgio votò il 91% degli elettori e in Inghilterra solo il 33%, segno di un palese disinteresse nei confronti della nuova struttura che stava nascendo.
I problemi dell’Unione Europea
7 febbraio 1992:
il trattato di
Maastricht
UNITÀ 14
APPROFONDIMENTO B
Mentre venivano esaminate tali questioni, si abbatté sull’Europa il ciclone del crollo del comunismo, nel 1989, e divenne improvvisamente d’attualità il problema dell’unificazione tedesca. Dopo un’iniziale perplessità di Francia e Gran Bretagna, nel giugno 1990 la Comunità Europea diede il suo assenso al progetto del cancelliere Helmut Kohl, determinato a procedere in tempi brevi all’annessione della DDR. Il 3 ottobre 1990, la Germania comunista cessava di esistere e il nuovo Stato unificato veniva formalmente accolto nella CEE.
IL TEMPO DEL DISORDINE
12
Una riunione
del Parlamento europeo
a Strasburgo.
Il 7 febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht si riunirono i ministri dei 12 Stati
membri della Comunità Europea. A Maastricht, venne ufficialmente siglato il trattato che istituiva l’Unione Europea, un organismo finalizzato a far sì che i dodici firmatari affrontassero in modo comune questioni di fondamentale importanza come lo sviluppo tecnologico, la tutela dell’ambiente, la sanità. In campo economico, il trattato di
Maastricht prevedeva la nascita della nuova moneta unica europea (l’euro) di cui si parlava da tempo.
Per garantire forza e sicurezza alla nuova moneta, destinata gradualmente a sostituire le
diverse valute nazionali, era indispensabile che i Paesi che intendevano adottarla possedessero una notevole dose di stabilità economica e finanziaria; il trattato di Maastricht stabilì quindi con precisione dei rigidi parametri per ottenere l’ingresso nell’Unione europea. Una valuta nazionale che aspirava a fondersi nell’euro, ad esempio, non doveva
subire per due anni alcuna svalutazione; in secondo luogo, il tasso d’inflazione di un Paese non poteva superare dell’1,5% il tasso del Paese con inflazione più bassa. Inoltre, mentre il debito pubblico di un Paese doveva essere inferiore al 60% del prodotto interno lordo, il deficit di bilancio non poteva superare il 3% del PIL stesso.
L’Italia, pur figurando tra gli Stati firmatari del trattato del 1992, sembrava destinata a
non poter accedere alla futura unione monetaria europea, in quanto all’inizio degli anni
Novanta il debito pubblico era al 103% rispetto al PIL (cioè era superiore al prodotto interno lordo), il deficit di bilancio corrispondeva al 9,9% del PIL e l’inflazione (al 6,9%)
era molto superiore rispetto al parametro imposto. Malgrado ciò, il governo presieduto
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Riferimento
storiografico
UNITÀ 14
13
Paesi membri non aderenti
alla moneta unica
Finlandia
Paesi entrati nel 2007
Paesi che hanno chiesto
di aderire
Estonia
Irlanda
Lettonia
Lituania
Danimarca
Regno Unito
Olanda
Polonia
Belgio Germania
Lussemburgo
Rep. Ceca
Slovacchia
Francia
Austria Ungheria
Slovenia
Romania
Croazia
Portogallo
Spagna
Italia
Bulgaria
Turchia
Grecia
Malta
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Cipro
2
pag. 17
Area dell’euro
Svezia
APPROFONDIMENTO B
L’Europa dei 27
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
da Romano Prodi, con interventi finanziari drastici e decisi, riuscì a raggiungere l’ambizioso obiettivo dell’ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria, allorché essa venne varata,
all’inizio del 1999.
Considerata nel suo complesso, l’Unione Europea è una delle aree economiche più importanti del mondo. Il suo punto debole è la mancanza di una vera politica estera comune; in
tutte le più gravi crisi internazionali, infatti, essa non ha saputo assumere una posizione veramente unitaria, cosicché ogni Paese ha agito per conto proprio.
Inoltre, all’inizio del nuovo secolo, l’Unione Europea si è ulteriormente allargata, fino a
comprendere 27 Stati membri. Molti dei nuovi Paesi, tuttavia, erano appena usciti dall’esperienza comunista: prendendo l’intera area dell’Europa orientale, nel 1994, il prodotto interno lordo (globale) era ancora inferiore del 12% rispetto a quello del 1989, mentre
soltanto la Polonia, nel 1995, era riuscita a far sì che la propria economia tornasse ai livelli del 1989. Ovunque, invece, era esplosa la piaga della disoccupazione di massa: se si
eccettua la Repubblica Ceca, dove questa si era attestata intorno al 3%, negli altri Stati i disoccupati erano, a seconda dei casi, il 10% (Romania) o il 16% (Polonia e Bulgaria) dell’intera forza lavoro. Nel complesso, per l’insieme dell’Europa orientale, nel 1995 il numero dei senza lavoro era stimato superiore ai quattro milioni. A causa di questi gravissimi problemi, fin dall’inizio, per la maggioranza dei nuovi Stati membri della Unione Europea, l’adozione della moneta unica si presentava come un traguardo difficile e lontano.
La gravissima crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti a partire dal 2008 ha aggravato ulteriormente la situazione di questi Paesi e di altri (come l’Italia, l’Irlanda, la Spagna,
il Portogallo o la Grecia), che, sia pure per ragioni diverse, attraversano gravi difficoltà economiche e finanziarie. Oltre tutto, anche in questo caso – come in tutte le crisi, politiche o economiche, del dopoguerra – l’Europa non ha reagito in modo compatto, mentre alcuni progetti di darle una costituzione comune erano appena falliti (nel 2008) per
la contrarietà dei francesi e degli olandesi. Secondo lo storico Valerio Castronovo «mai
come negli ultimi anni si è assistito ad una situazione così desolante». L’unica consolazione può venire dal fatto che anche diverse altre volte il progetto europeo sembrava sull’orlo del fallimento totale, ma poi, in tutte le circostanze, ha saputo uscire dalla paralisi
e rilanciarsi più dinamico di prima.
APPROFONDIMENTO B
UNITÀ 14
IL TEMPO DEL DISORDINE
14
I PROBLEMI ECONOMICI DEI PAESI POST-COMUNISTI
ENTRATI NELLA UNIONE EUROPEA:
RIORGANIZZAZIONE INDUSTRIALE, DISOCCUPAZIONE, INQUINAMENTO AMBIENTALE
Paesi
Popolazione
in milioni
(all’1-1-2004)
Mortalità infantile
per 1000 nel 2002
(UE = 4,15)
Aspettativa di vita alla
nascita nel 2002
(UE = m. 75,5 – f. 81,6)
Repubblica Ceca
10,2
4,1
m. 72,1 – f. 78,5
Estonia
1,4
5,7
m. 65,2 – f. 77,00
Lettonia
2,3
9,8
m. 65,5 – f. 77,00
Lituania
3,5
7,9
m. 65,9 – f. 77,4
Polonia
38,2
7,5
m. 70,9 – f. 78,4
Slovacchia
5,4
7,6
m. 69,5 – f. 79,6
Tasso di
crescita
anno 2003
Disoccupazione
anno 2003
Utenti internet 10 000 abitanti
anno 2002
(UE = 404,57 –
Italia = 119,13)
Repubblica Ceca 62,0
2,9
7,8
223,21
Estonia
40,0
4,8
10,0
467,63
Lettonia
39,0
7,5
10,5
152,39
Lituania
39,0
8,9
12,7
157,82
Polonia
41,0
0,4
19,8
170,30
Slovacchia
47,0
4,2
17,1
159,91
Paesi
Pil pro capite
anno 2002
(UE = 100)
Paesi
Qualità ambientale: tonnellate di diossido
di carbonio pro capite nell’anno 2002
(ue = 8,38)
Repubblica Ceca
11,56
Estonia
10,22
Lettonia
2,76
Lituania
3,04
Polonia
7,58
Slovacchia
7,27
Fonte: E. Letta, L’Europa a venticinque, Bologna, Il Mulino, 2005
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Il Parlamento europeo è composto da 785 membri, ha sede a Strasburgo e si rinnova
ogni 5 anni. Ha i seguenti poteri:
– esprime pareri sulle proposte di legge (la cui approvazione spetta però al Consiglio dei
Ministri);
– approva (o meno) il bilancio comunitario;
– approva (o meno) le decisioni prese dalla Commissione europea.
Il Consiglio dei Ministri Europei riunisce i rappresentanti dei singoli Stati membri che si occupano della materia trattata: così se l’argomento all’ordine del giorno è la politica economica dell’Unione Europea, si incontreranno i ministri dell’Economia. Ha i seguenti poteri:
– approva i provvedimenti di legge;
– coordina le politiche economiche generali adottate dagli Stati membri;
– conclude, a nome della UE, accordi internazionali tra la UE e le organizzazioni internazionali o uno o più Stati.
APPROFONDIMENTO B
Come funziona l’Unione Europea
La Corte dei Conti europea è composta da un rappresentante di ogni Stato membro. Ha
il compito di controllare le entrate e le uscite dell’Unione; redige inoltre una relazione annuale sul bilancio.
Il Comitato economico e sociale riunisce i rappresentanti delle varie categorie economiche e sociali (per esempio dei liberi professionisti, degli imprenditori, dei consumatori, ecc.). Il Comitato espone i loro pareri davanti alla Commissione europea. Ha però solo
una funzione consultiva e mai decisionale.
PARLAMENTO
EUROPEO
785
27
CONSIGLIO DEI MINISTRI EUROPEI
COMITATO
ECONOMICO E SOCIALE
27
27
COMMISSIONE EUROPEA
COMITATO
ECONOMICO E SOCIALE
27
CORTE DI GIUSTIZIA
Decisioni
Proposte
CORTE DEI CONTI
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Pareri
15
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
La Corte di giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro e da otto avvocati generali. Ha il compito di verificare che le leggi comunitarie siano applicate nei Paesi membri. Le sue sentenze sono vincolanti: può quindi ordinare agli Stati di uniformare la legislazione alle norme comunitarie.
UNITÀ 14
La Commissione europea è composta da 27 commissari (uno per ogni Stato membro)
e da un Presidente (che però non è il presidente dell’Unione Europea). Ogni commissario si occupa in modo specifico di un settore (agricoltura, trasporti, commercio, ecc.).
La Commissione europea vigila sulla corretta applicazione dei trattati e sull’attuazione delle politiche comunitarie. Può altresì fare proposte al Consiglio dei Ministri.
UNITÀ 14
APPROFONDIMENTO B
Riferimenti storiografici
IL TEMPO DEL DISORDINE
16
1
La nascita della Comunità Economica Europea
Firmato dai governanti di sei Paesi europei, il trattato di Roma diede vita a una vasta area economica, a un grande mercato comune europeo. Non si trattava di un’unione federale (e quindi, proprio per
questo, il trattato fu duramente osteggiato da Altiero Spinelli e altri federalisti convinti). Tuttavia, a posteriori, quell’accordo può essere considerato un passo avanti fondamentale nel percorso verso un’Europa integrata e unificata.
Manifesto per
l’integrazione europea:
le nazioni firmatarie
del trattato di Roma
sono viste come
sorelle.
Il progetto europeo, se mai aveva avuto una propria esistenza fuori dall’immaginazione
di qualche idealista, alla metà degli anni Cinquanta aveva subito una battuta d’arresto. L’Assemblea nazionale francese aveva posto il veto sulla proposta di un esercito comune e di
conseguenza anche su qualsiasi prospettiva di un più stretto coordinamento tra i Paesi. Si
erano stipulati vari accordi regionali sul modello di quello del Benelux (in particolare, nel 1954,
il Common Nordic Labour Market tra i Paesi scandinavi), ma non c’era nulla di più ambizioso
in programma. La sola cosa su cui i sostenitori della cooperazione europea potevano richiamare l’attenzione era la nuova European Atomic Energy Community, annunciata nella
primavera del 1955; ma si trattava – come nel caso della CECA – di un’iniziativa francese e
il suo successo si doveva, significativamente, al carattere ristretto e in larga misura tecnico
dei suoi compiti. Se gli inglesi continuavano a rimanere scettici sulle prospettive di unità europea, non li si poteva certo accusare di mantenere una posizione del tutto irragionevole.
L’impulso per un nuovo avvio arrivò, piuttosto comprensibilmente, dal Benelux, che possedeva maggior esperienza nel campo delle unioni doganali, oltre ad avere meno da perdere dal diluirsi delle identità nazionali. Ai principali statisti europei (in particolare a Spaak,
ministro degli Esteri belga) appariva ormai chiaro che un’integrazione politica o militare dell’Europa non era attuabile, almeno per il momento. In
ogni caso, attorno alla metà degli anni Cinquanta l’agenda [il quadro politico, che dettava le priorità – n.d.r.]
non era più dominata dalle preoccupazioni militari del
precedente decennio. L’attenzione doveva ora essere
concentrata sull’integrazione economica, vale a dire su
un terreno nel quale si potevano combinare interesse nazionale e cooperazione, senza offendere le tradizionali
sensibilità. Per discutere questa strategia, Spaak, insieme al ministro degli Esteri olandese, organizzò un incontro che si svolse a Messina nel giugno 1955. Vi parteciparono i 6 Paesi membri della CECA, più un osservatore inglese (compito affidato a un funzionario di secondo rango). Spaak e collaboratori presentarono una
serie di proposte per unioni doganali, accordi commerciali e altri progetti piuttosto convenzionali di coordinamento transnazionale, tutti scrupolosamente confezionati
in modo da non offendere le sensibilità di inglesi o francesi. I secondi si dimostrarono moderatamente favorevoli, i primi decisamente scettici. Dopo la conferenza, i
negoziati furono continuati da un comitato di pianificazione internazionale presieduto dallo stesso Spaak, con
lo scopo di formulare precise proposte per un’economia
più integrata: un Mercato comune. Ma nel novembre
1955 gli inglesi abbandonarono il negoziato, allarmati
dalla prospettiva proprio di quell’Europa prefederale su
cui avevano sempre nutrito forti dubbi.
I francesi, invece, avevano deciso di fare il tuffo: nel
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
T. Judt, Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi,
Milano, Mondadori, 2007, pp. 372-374, traduzione di A. Piccato
2
L’Unione Europea al tempo della
globalizzazione
Di fronte alle sfide del nuovo secolo, l’Unione Europea si è dimostrata lenta e intorpidita, del tutto
incapace di assumere atteggiamenti efficaci sia in ambito politico, sia a livello economico. Ad esempio, di fronte alla gravissima crisi finanziaria esplosa nel 2008, i Paesi europei sono indecisi sul da farsi. E se da un lato non possono tornare indietro rispetto agli accordi di Maastricht, dall’altro non sanno come procedere in direzione di una vera federazione sopranazionale.
Quell’Unione Europea che, con l’allargamento dopo l’Ottantanove ai Paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica, è diventata una compagine di oltre 450 milioni di persone e un’area economica con notevoli potenzialità, ha visto svanire progressivamente le sue ambizioni e le sue
chance [opportunità – n.d.r.] di affermazione al centro della ribalta mondiale. E questa parabola declinante è avvenuta per cause che, seppur dovute in parte alla crescita di statura
di altri attori e ad alcune infelici evenienze congiunturali, riguardano soprattutto sia le forme
istituzionali e di governo intrinseche alla UE sia i suoi strumenti operativi e gestionali. Fatto
sta che, mentre i processi decisionali della Comunità sono diventati sempre più farraginosi,
dopo l’ampliamento troppo affrettato delle frontiere dell’Unione a est e la bocciatura del progetto costituzionale, è emersa in termini tangibili e avvilenti l’incapacità della UE di esprimersi
e agire in modo unitario, in base a una sostanziale compattezza e coerenza d’indirizzi fra i
suoi Paesi membri. […]
I ritardi e poi gli interventi sporadici o confusi con cui la UE ha reagito all’aggravarsi della
recessione economica hanno dimostrato ancora una volta le sue difficoltà a concepire e attuare una linea d’azione omogenea ed efficace. E ciò malgrado quanto affermato solenneF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO B
UNITÀ 14
Da chi partì
l’iniziativa di
rilanciare
l’integrazione
europea, alla metà
degli anni
Cinquanta? Per
quali motivi?
Per quali ragioni il
Regno Unito non
aderì al trattato di
Roma? Di che
cosa gli inglesi
non si erano resi
conto?
È lecito affermare
che il Mercato
comune europeo
nacque allo scopo
di contrastare la
potenza militare
degli Stati Uniti?
17
La nascita dell’idea di un’Europa unita dal primo Novecento a oggi
marzo 1956, quando il comitato presieduto da Spaak presentò la proposta ufficiale per la
creazione di un Mercato comune, si dichiararono d’accordo. Gli osservatori inglesi rimasero
scettici. Erano senza dubbio consapevoli del rischio di essere lasciati fuori: come aveva confidenzialmente osservato un comitato governativo soltanto poche settimane prima che fosse
resa nota la proposta di Spaak, «se i Paesi riunitisi a Messina realizzano un’integrazione economica senza il Regno Unito, il risultato sarà l’egemonia tedesca in Europa». Ciononostante,
e malgrado le esortazioni dell’anglofilo Spaak e la fragilità dell’area internazionale della sterlina, di cui si ebbe pochi mesi dopo la prova lampante a Suez, Londra non poteva persuadersi a unire la propria sorte con quella degli europei. Quando, il 25 marzo 1957, fu firmato
a Roma il trattato costitutivo della CEE – e dell’Euratom, l’Autorità per l’energia atomica –,
entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 1958, la nuova istituzione – la cui sede fu posta a
Bruxelles – comprendeva gli stessi 6 Paesi che sette anni prima avevano fondato la CECA.
È importante non sopravvalutare l’importanza del trattato di Roma: era, in larga misura,
una semplice dichiarazione d’intenti. I firmatari stabilirono un programma per la riduzione e
l’armonizzazione delle tariffe, delinearono la prospettiva di un allineamento delle valute e si
accordarono per promuovere il libero movimento di merci, denaro e lavoro. […] Alla base
della CEE stava la debolezza, non la forza. Come si sottolineava nel rapporto preparato da
Spaak nel 1956 «l’Europa, che un tempo aveva il monopolio dell’industria manifatturiera e
otteneva importanti risorse dai suoi possedimenti oltremare, oggi vede indebolirsi la sua posizione internazionale, declinare la sua influenza e arrestarsi la sua capacità di progresso per
colpa delle proprie divisioni interne». Appunto perché non interpretavano ancora la loro situazione in questi termini, gli inglesi avevano deciso di non aderire alla CEE. L’idea che il Mercato comune facesse parte di una calcolata strategia per sfidare la crescente potenza degli USA (tesi che qualche decennio più tardi avrebbe goduto di una certa popolarità nelle
cerchie politiche di Washington) è quindi del tutto assurda: la CEE dipendeva completamente
dalla sicurezza garantita dagli americani, senza la quale i membri non avrebbero mai potuto
permettersi di realizzare un’integrazione economica, trascurando al contempo ogni preoccupazione per una difesa comune.
APPROFONDIMENTO B
UNITÀ 14
Logo dell’allargamento
dell’Unione Europea.
IL TEMPO DEL DISORDINE
18
Spiega il termine
euroscettici.
Spiega
l’espressione:
opacità dei
processi
decisionali
Secondo l’autore,
l’esistenza di una
valuta unica da
che cosa non è
ancora
accompagnata?
mente dai suoi rappresentanti in un documento
congiunto approvato al vertice europeo di Parigi
nel gennaio 2009, dove stava scritto che occorreva valutare le cose con un’impostazione di
largo respiro per ridisegnare il sistema finanziario e rilanciare quello produttivo all’insegna di
un’«economia sostenibile». Da allora è tornata a
manifestarsi la tendenza dei vari Paesi membri
ad agire isolatamente, badando al proprio orto
di casa e presumendo in tal modo di tutelarlo
meglio. Di fatto si è assistito, invece che all’allestimento di una trincea comune, robusta e compatta, solo al varo di una soluzione di compromesso che consentiva di sforare per un anno il
tetto del deficit pubblico. Per di più, si è lasciato
che ogni governo assumesse le misure che più
gli erano congeniali a livello nazionale e, quindi,
in ordine sparso e in base a logiche diverse. […]
Tutto questo ha generato nell’opinione pubblica l’impressione che l’Unione Europea sia sostanzialmente un apparato burocratico. D’altra
parte, la ricerca ogni volta di soluzioni che riscuotano il maggior consenso possibile si traduce, all’atto pratico, in un lavoro al ribasso,
nella tendenza a puntare su iniziative non già di vasto respiro ma minimaliste e di compromesso. Ciò comporta, inoltre, come è avvenuto nel novembre 2009, che nella scelta delle
massime cariche (dalla presidenza del Consiglio europeo alla guida della politica estera) si
preferiscano personaggi di non eccelsa statura politica. Si spiega pertanto come da una tornata all’altra delle elezioni europee vada calando costantemente il numero di quanti si recano alle urne, tant’è che nell’ultima consultazione per il rinnovo del Parlamento europeo
svoltasi nel giugno 2009 si è manifestata un’ulteriore diminuzione dei votanti. Oltretutto, mentre sono sempre più folte le file dei partiti nazionalisti di ultradestra e dei movimenti euroscettici, si è registrata, in molti casi, una discrasia [divergenza clamorosa, dissociazione –
n.d.r.] fra le maggioranze presenti nei Parlamenti nazionali e quella degli eletti all’Assemblea
di Strasburgo, di cui nel 2009 ha fatto le spese soprattutto la famiglia socialista (umiliata dai
rovesci subiti a Parigi e Berlino, ma anche all’Aia, Dublino, Budapest e Sofia). La complessità e l’opacità dei processi decisionali, il ruolo preminente assunto dalla tecnocrazia comunitaria e il crescente disinteresse dei cittadini per le elezioni europee, e quindi nei riguardi
di quanto si discute e si elabora nell’emiciclo [aula parlamentare – n.d.r.] di Strasburgo, rischiano di compromettere anche ciò che di buono e di valido si è costruito finora nell’ambito di Eurolandia.
L’economia europea è grande quasi quanto quella degli Stati Uniti e tre volte più di quella
della Cina e del Giappone; ma Spagna, Grecia, Irlanda e i Paesi dell’Est hanno subito nel
frattempo un forte deterioramento delle loro posizioni e devono trovare pressoché da soli
una via d’uscita dalla crisi, in quanto non c’è nessun Paese, a cominciare dalla Germania,
disposto a prestare loro dei soldi. E se la BCE [Banca Centrale Europea, il soggetto istituzionale dell’Unione che emette l’Euro – n.d.r.], da frangiflutti qual era in passato contro le
spinte inflazionistiche, ha contribuito a fare dell’euro una moneta forte, l’esistenza di una valuta unica e di un mercato unico non significa l’esistenza di un’entità politica unica. […] Insomma, mentre la globalizzazione ha contribuito da un lato ad acuire o a ridestare il bisogno d’identità nazionale, dall’altro non è valsa a rafforzare o a creare uno spirito europeo né
a rendere più saldi i poteri e le istituzioni politiche della UE. E la comparsa sulla scena del G20
[la riunione dei capi di Stato o di governo dei 20 Stati più Grandi, cioè più potenti, del mondo
– n.d.r.] fa presagire che il peso specifico dell’Unione Europea subirà una decurtazione, per
lasciare più voce e spazio alle nuove potenze emergenti, dalla Cina all’India, al Brasile.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
V. Castronovo, Le ombre lunghe del Novecento. Perché la Storia non è finita,
Milano, Mondadori, 2010, pp. 200-206
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