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Donne globali. Tate, colf e badanti (la Repubblica) Ci avevate mai

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Donne globali. Tate, colf e badanti (la Repubblica) Ci avevate mai
Donne globali. Tate, colf e badanti
(la Repubblica)
Ci avevate mai pensato? Dietro ogni donna affermata c'è un'altra donna, una dea ex machina
(stipendiata) che lava, pulisce e riporta ordine in casa e tranquillità in famiglia. Se non lo avevate fatto,
niente paura, ci pensa Barbara Ehrenreich, la scomodissima autrice americana di libri come "Una paga
da fame", straordinario reportage sui lavori di serie B, C e D negli Stati Uniti.
Arriva il 4 marzo in libreria "Donne globali. Tate, colf e badanti" (Feltrinelli), un saggio che
Erhenreich ha scritto a quattro mani con Arlie Russel Hochschild, sociologa di Berkeley che da tempo
studia ciò che accade tra le mura di casa. La tesi è semplice ed estrema: dietro i flussi migratori che
ogni mese portano tate filippine nelle case italiane o newyorchesi, donne cinesi in quelle di Taiwan,
badanti rumene accanto agli anziani di tutta l'Europa occidentale c'è un nuovo colonialismo, un
capitalismo che commercia cura, amore e affetti anziché petrolio o tecnologie.
Le autrici non hanno paura di far leva sul senso di colpa delle donne, di quelle donne italiane in questo caso - che dopo essere arrivate con fatica a lavorare (oggi, in Italia, è 'occupato' il 33% circa
delle donne, ma il dato è assai più significativo se si considerano solo quelle effettivamente in età da
lavoro: le 'disoccupate', infatti, sono scese al 12%) e a guadagnare (pur sempre il 16% in meno dei
maschi) hanno assunto un'altra donna perché si occupi dei loro figli e della loro casa.
Il punto di partenza del duo Barbara-Arlie è sacrosanto: siccome al massiccio ingresso delle donne nel
lavoro non ha fatto da contrappeso alcuna suddivisione dei carichi familiari, sono arrivate tate e
badanti. Poi però le autrici ci presentano un 'conto moralè piuttosto salato: i 'nostri' lavori sono svolti
da donne che hanno lasciato a casa i propri bambini per poter garantire loro un futuro migliore.
Chiediamo a loro di occuparsi dei nostri figli esattamente come noi faremmo, pretendiamo molto,
salvo poi essere gelose se nostro figlio si è "affezionato troppo".
--Ecco la storia di Josephine Perera, una donna dello Sri Lanka che viaggia per il mondo e, con i
suoi assegni, mantiene i tre figli rimasti a casa e li fa studiare senza il minimo aiuto da parte dell'ex
marito. L'ha raccontata Nilita Vachani in un documentario, "When mother comes home for
Christmas", quando la mamma torna a casa per Natale. Josephine lavora ad Atene, dove si occupa di
Isadora, una bella bambina di due anni, mentre i genitori di quest'ultima possono "dedicarsi alla
carriera e alla realizzazione personale".
Alla domanda "chi è tua mamma", Isadora sembra indecisa tra la porta chiusa dello studio
dietro la quale la madre 'vera' sta lavorando e la stessa Josephine, poi dichiara alla telecamera: "io ho
due mamme". Intanto, a migliaia di chilometri di distanza, arrivano i dollari che servono ai 'veri' figli
di Josephine alla dote per sposarsi, al pullman che darà lavoro alla famiglia, e così via.
In un certo senso, è la storia di un grande successo personale. In un altro, quella del fallimento (tutto
occidentale, in questo caso) di una società che cresce dimenticandosì di mantenere gli spazi e i tempi
necessari per gli individui che la compongono, per gli affetti, per l'amore.
Ed è per proteggere un'illusione, quella di case-albergo dove ogni sera si rientra e tutto funziona, i
bambini sono lavati e nutriti, che esistono loro, 'le altre', capaci anche, a tarda sera, di scomparire
magicamente alla vista dei 'titolari' dell'appartamento e dei legami familiari.
Lasciamo perdere, per non inquietarci troppo, i paragoni storici tracciati da Ehrenrich e Hochschild
(con le schiave di un tempo, ad esempio) e atteniamoci ai numeri italiani: il 77 per cento delle donne
straniere che lavorano nelle nostre case è in regola, il 27 per cento possiede una laurea, come ha
rivelato una recente indagine del Cnel, il 46 per cento possiede invece un diploma. Con lo stipendio,
ognuna di loro mantiene in media da 6 a 10 persone nel paese d'origine.
Quanto alla felicità, ammesso che la si possa misurare, l'indagine rivela qualche sorpresa: al Nord si
lavora e si guadagna di più, ma spesso le colf si sentono 'maltrattate', al Sud i soldi sono pochi ma le
'reti familiari' più forti, e in qualche modo più rassicuranti anche per chi è arrivato dall'altra parte del
pianeta.
La cosa più sconvolgente? "La mancanza di rispetto verso i genitori, ad ogni età". Ma, alla
fine, le ragioni economiche prevalgono, e soltanto il 10% coltiva il progetto di tornare, in pochi anni,
al paese d'origine.
Lo sanno bene anche i governi stranieri, che spesso incoraggiano le donne ad emigrare perché
sanno che, comunque, manderanno indietro più denaro di quanto farebbe un uomo. E lo sanno anche i
consulenti matrimoniali che, ormai anche in Italia (dove si chiamano sessuologi o psicologi e fanno
anche questo lavoro) consigliano questo investimento quando il delicato equilibrio tempo-lavorofamiglia appare sull'orlo del collasso.
La tendenza all'outsourcing, cioè ad affidare all'esterno il lavoro domestico, è inarrestabile ed
è inutile coltivate utopici sogni di ritorno al passato. Ma la 'morale' contenuta nel libro 'Donne globali'
si può concentrare in tre messaggi, da non sottovalutare: le persone alle quali affidiamo casa e parenti
sono, appunto, persone. Con una modo di lavorare, di pensare e di agire diverso dal nostro. Sono le
principali alleate delle donne, in un mondo nel quale 'condividere' tra i sessi sembra ancora molto
difficile. E se pensiamo di non poter più vivere senza di loro, forse è giunto il momento di prendersi
una pausa. Per riflettere.
Atipici: precari fino ai 40 anni
Poco tutelati, stressati, malpagati
di ROSARIA AMATO
(la Repubblica)
ROMA - Rimangono precari anche alle soglie dei 40 anni, non riescono ad avere un mutuo ma spesso
neanche una casa in affitto, non se la sentono di mettere al mondo figli, non possono fare sciopero,
non hanno tutele sindacali, non vanno mai in malattia anche se poi soffrono di mille malanni
psicosomatici, sono pessimisti sul proprio futuro: sono i lavoratori atipici, secondo una ricerca
effettuata dall'Eurispes per il Rapporto Italia 2005, che verrà presentato a Roma il 28 gennaio.
"La flessibilità purtroppo - osserva Gian Maria Fara, presidente dell'Eurispes - in Italia è stata
interpretata soltanto come possibilità per l'imprenditore di modificare in qualsiasi momento le
condizioni del rapporto di lavoro (e quindi anche le modalità di cessazione del rapporto di lavoro) con
il proprio dipendente e non come strumento in grado di rendere flessibile l'organizzazione stessa del
lavoro".
Il campione. L'indagine è stata effettuata dall'Eurispes su un campione rappresentativo di 446
lavoratori atipici di età compresa tra i 18 e i 39 anni. Il 27,9 per cento degli intervistati lavora 'a
progetto', il 22,9 per cento ha un contratto occasionale, il 20,9 per cento è un collaboratore coordinato
e continuativo (il co.co.co. è stato abrogato due mesi fa, e sostituito dalla collaborazione a progetto,
ma si applica ancora nella Pubblica Amministrazione e nel caso in cui il contratto non sia ancora
scaduto), il 13,2 per cento ha un contratto di tipo subordinato a tempo parziale, l'8,5 per cento lavora
tramite agenzie interinali e il 5,4 per cento tramite contratto d'inserimento. Il 55,9 per cento degli
intervistati è in possesso di master o specializzazione post-laurea, l'83,2 per cento ha una laurea.
L'aticipicità si cristallizza. L'ingresso nel mondo del lavoro con un contratto 'flessibile' tende a
cristallizzarsi, tanto che per il 67,8 per cento delle persone tra i 33 e i 39 anni l'atipicità ha assunto un
carattere permanente. Per pochi fortunati il lavoro flessibile si limita ad essere un'opportunità di primo
inserimento lavorativo: il 56,6 per cento degli intervistati ha lavorato sempre da atipico per un periodo
compreso tra i tre i cinque anni, il 67,4 per cento per oltre un quinquennio e il 51,4 per cento da oltre
10 anni.
Atipicità apparente. L'aticipicità del contratto è solo apparente: nella maggior parte dei casi si tratta
di rapporti di lavoro subordinato mascherati, soprattutto per i collaboratori. Infatti tra i co.co.co. il 78,5
per cento lavora per un unico datore di lavoro, il 73,1 per cento svolge un lavoro a tempo pieno e al 71
per cento viene richiesta una presenza quotidiana. Solo il 12,9 per cento gestisce in modo del tutto
autonomo i modi e i tempi del proprio lavoro.
Stipendi bassi. Gli stipendi sono in media bassi, soprattutto per le donne: oltre i tre quarti dei
lavoratori atipici percepisce una retribuzione mensile che non supera i 1.000 euro netti (la percentuale
cambia a seconda del sesso: si tratta dell'82,9 per cento delle donne e del 67,9 per cento degli uomini).
In effetti però il 30 per cento delle donne non va oltre i 400 euro mensili, contro il 20,2 per cento degli
uomini. Solo il 17,1 per cento degli uomini e il 15 per cento delle donne percepisce tra i 1000 e i 1400
euro al mese. I due terzi degli intervistati (65,9 per cento) dichiarano di essere poco o per niente
soddisfatti del trattamento economico: si dichiara molto soddisfatto appena il 4,7 per cento.
Mancanza di tutela. Essere atipici significa non poter effettuare scelte di vita importanti: lo denuncia
il 76,3 per cento delle donne e il 52,8 per cento degli uomini. E' un aspetto che si fa sentire di più con
l'età (pesa al 74,7 per cento di coloro che hanno tra i 33 e i 39 anni). Il 90,5 per cento delle donne e
l'83,9 per cento degli uomini ritiene che il diritto alla maternità sia poco o per niente garantito. Non ci
si stupisce dunque che la stragrande maggioranza del campione (l'89,7 per cento) sia celibe o nubile:
solo il 6,5 per cento degli intervistati ha uno (3,4 per cento) o più figli (3,1 per cento).
Nessun diritto. Per l'81,6 per cento degli intervistati non è tutelato il diritto alla malattia. Oltre il 90
per cento degli intervistati si sente poco o per nulla tutelato rispetto al diritto di sciopero. L'87,9 per
cento lamenta la mancanza del diritto alla formazione.
La casa: niente mutuo, difficoltà per l'affitto. Il 71,3 per cento degli intervistati afferma che il fatto
di essere un lavoratore atipico ha influito molto (51,8 per cento) o abbastanza (19,5 per cento) sulla
possibilità di avere un mutuo per comprare una casa. Ma per il 58,8 per cento ha condizionato
negativamente perfino la possibilità di prendere in affitto un appartamento.
Ansia, depressione, malattie psicosomatiche. La maggior parte delle donne lamenta stati di ansia
(52,5 per cento, contro il 37,7 degli uomini) dovuti alla preoccupazione per la mancanza di stabilità nel
proprio lavoro. Il 36,7 per cento del segmento più maturo del campione (33-39 anni) è soggetto a stati
depressivi frequenti (28,7 per cento) o continui (8 per cento). Il 59,6 per cento soffre almeno qualche
volta di disturbi gastro-intestinali, il 55,8 per cento di di dolori muscolari, il 55,3 per cento di
emicranie e mal di testa, il 45,5 per cento di stanchezza cronica, il 40,2 per cento di disturbi della vista,
il 38,8 per cento di problemi cutanei, il 37,2 per cento di inappetenza e debolezza. Il 16,3 per cento
accusa disturbi sessuali, alimentari (15,9 per cento) e il 18 per cento soffre di attacchi di panico, tra
questi ultimi il 6,1 per cento in modo frequente o continuo.
La pensione. Tra le donne il 37,5 per cento ritiene che quando smetterà di lavorare non avrà una
pensione, mentre il 34 per cento pensa che comunque questa non sarà sufficiente a garantire una
vecchiaia dignitosa. In totale il 63,7 per cento del campione ritiene che comunque la pensione che avrà
a fine lavoro sarà insufficiente a garantire un livello di vita dignitoso o non ci sarà affatto. Non a caso
il 34,5 per cento vorrebbe garantirsi una pensione integrativa ma non riesce a provvedervi, perché non
ne ha i mezzi.
Il futuro? Pessimo. Il 52,2 per cento delle donne immagina il proprio futuro economico mediocre o
pessimo. Stessa percezione per il 59,8 per cento degli intervistati di età compresa tra i 33 e i 39 anni, e
per il 59,5 per cento di coloro che vantano un'esperienza lavorativa ultradecennale.
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