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Fibromialgia: non bastano soltanto i farmaci

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Fibromialgia: non bastano soltanto i farmaci
05/02/2016
Pag. 88 N.2 - febbraio 2016
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Fibromialgia: non bastano soltanto i farmaci
Nell'ambito della reumatologia il dolore è un sintomo molto importante, che deve essere sempre tenuto in
grande considerazione. Ne esistono diverse tipologie, a seconda delle cause scatenanti: c'è quello
nocicettivo, periferico, che può derivare da un trauma o da malattie infiammatorie come l'artrite reumatoide
o l'artrosi, oppure un dolore di tipo neuropatico che interessa le strutture del sistema nervoso centrale o
periferico, o un dolore di tipo algo-disfunzionale 0 da sensibilizzazione centrale, come nel caso della
fibromialgia, in cui il meccanismo che genera la sintomatologia dolorosa è legato a un'alterata soglia della
percezione degli stessi stimoli periferici. Gli attuali trattamenti disponibili per la fibromialgia permettono solo
parzialmente di controllare il dolore e gli altri sintomi associati. Pertanto la ricerca medica sta cercando di
individuare nuove soluzioni farmacologiche e nonfarmacologiche, che consentiranno nei prossimi anni di
arricchire l'armamentario terapeutico. «Quando trattiamo un tipo di dolore da sensibilizzazione centrale,
non sempre 1 risultati risultano soddisfacenti. Questo implica che la ricerca deve proseguire per individuare
nuove soluzioni terapeutiche. Quello della fibromialgia rappresenta, infatti, per noi reumatologi, un modello
assai complesso nella gestione del dolore, perché riguarda il sistema nervoso centrale. È, quindi, più
difficile da curare, meno responsivo ai trattamenti e, di conseguenza, più soggetto al rischio di prescrizioni
inappropriate», dichiara il professor Pier Carlo Sarzi Puttini, direttore dell'Unità Operativa Complessa di
Reumatologia presso l'Azienda Ospedaliera Polo Universitario L. Sacco di Milano. In alcuni casi, poi, ci
troviamo di fronte alla coesistenza della fibromialgia con altre patologie reumatiche come, ad esempio,
l'artrite reumatoide o l'artrosi della colonna, che generano un'amplificazione della percezione del dolore,
richiedendo approcci terapeutici differenziati. Questo, infatti, comporta che per un tipo di malattia come
l'artrosi, si dovrebbero prescrivere analgesici 0 antinfiammatori non steroidei ma, per la fibromialgia,
andrebbero assunti farmaci che agiscono sulle vie centrali del dolore. «Attualmente per il trattamento della
fibromialgia abbiamo a disposizione diverse soluzioni, che agiscono all'interno della "catena del dolore"
sulla via serotoninergica o noradrenergica, che comprendono anche farmaci antidepressivi,
anticonvulsivanti, oppioidi, che una volta usavamo con grande difficoltà e diffidenza, ma che ora abbiamo
imparato a utilizzare al meglio», continua Sarzi Puttini. Le novità più interessanti attese nei prossimi anni
per il trattamento della fibromialgia sono: TD-9855, farmaco sperimentale, inibitore della ricaptazione della
noradrenalina e serotonina (NSRI), la cui penetrazione e maggiore selettività nel sistema nervoso centrale
per i trasportatori della noradrenalina e della serotonina, è stata confermata in uno studio di Fase I e i cui
risultati hanno mostrato una buona tollerabilità con un profilo farmacocinetico e una lunga emivita di circa
35 ore, permettendo un'unica somministrazione quotidiana. «Tra 1 farmaci anti-epilettici, grande attenzione
è puntata sul mirogabalin (DS-5565), un potente antagonista della subunità 2-1 dei canali del calcio
voltaggio-sensibili. I primi studi condotti nel dolore neuropatico diabetico e nella nevralgia posterpetica
hanno dimostrato un'efficacia paragonabile a quella dei gabapentin e del pregabalin, ma a dosaggi inferiori.
Ora sono in corso due trial clinici di Fase III per testare l'efficacia del mirogabalin anche nella fibromialgia»,
continua il professore. Tra i farmaci sperimentali, NMC1, una combinazione di un nucleoside anti-herpes
virus e il celecoxib è risultato efficace nel ridurre il dolore e l'astenia in un trial clinico randomizzato,
condotto su 143 pazienti affetti da fibromialgia. Infine, è in corso un trial clinico di Fase II per testare la
sicurezza e l'efficacia della neurotropina, un estratto nonproteico isolato dalla cute infiammata di topi
inoculati con il virus del vaccino. «Numerose ricerche, inoltre, sono in corso per cercare di identificare
anche nuove strategie terapeutiche non-farmacologiche efficaci nel controllo dei disturbi della fibromialgia.
Un recente studio ha dimostrato che la camera iperbarica può migliorare i sintomi e la qualità della vita dei
pazienti, dimostrando che tale strumento può indurre una neuroplasticità e correggere in maniera
significativa l'attività cerebrale anormale nelle aree del dolore dei pazienti. Alcuni filoni di ricerca si
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Reumatologia / In fase di studio sia nuove terapie farmacologiche, sia approcci di tipo multidisciplinare
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indirizzano verso approcci di tipo cognitivo-comportamentale, o di tipo psico-educazionale, per far
comprendere al paziente l'origine del proprio dolore, arrivando a gestirlo in autonomia, attraverso un
programma educazionale. Per questo motivo è opportuno affermare che il dolore sta diventando sempre
più un problema non solto farmacologico, ma multidisciplinare, per il quale devono essere attivate più
competenze, non soltanto del reumatologo, ma anche del medico che si occupa dell'apparato muscolo
scheletrico, delPalgologo, dello psichiatra, dello psicologo», conclude Sarzi Puttini.
05/02/2016
Pag. 94 N.2 - febbraio 2016
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Una VITA senza DOLORE
Ogni giorno milioni di italiani, in particolare donne e anziani, combattono con una forma di sofferenza
cronica. Vietato rassegnarsi: gli strumenti normativi e farmacologici esistono e offrono la speranza di un
futuro migliore
servizio di Simona Cortopassi
L'unica cosa che si desidera è che W se ne vada. Al più presto. Perché il dolore cronico è uno stato I di
sofferenza che coinvolge totalmente l'individuo, dal punto di vista fisico ed emotivo. Chi ne soffre fatica a
compiere anche le più semplici attività, come fare una doccia o guidare. Ha difficoltà nei rapporti di coppia e
conseguenze psicologiche non trascurabili: spesso i pazienti vivono un senso di abbandono, sviluppando di
conseguenza depressione, sfiducia e malessere. Se eliminare completamente il dolore non è possibile,
l'obiettivo della medicina resta quello di ridurlo a dei limiti soggettivamente accettabili, che rendano
possibile il ritorno alla quotidianità. Ne abbiamo parlato con il professor Carmelo Scarpignato, docente di
Farmacologia Clinica presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell'Università di Parma.
Donne, le più colpite Bisogna distinguere tra due aspetti del dolore. C'è quello acuto, che è un segno di
malattia e rispecchia la presenza di una patologia. Quindi è un dolore "utile", che serve da segnale
d'allarme, gli deve essere attribuita la giusta importanza, ma rimane un sintomo tra gli altri. E poi c'è il
dolore cronico, che diventa la malattia in se stessa che condiziona l'intera esistenza dell'individuo, influenza
profondamente la qualità della sua vita e non è utile al fine di migliorare e caratterizzare una diagnosi. Si
stima che quasi 15 milioni di italiani combattano ogni giorno con una forma di sofferenza cronica.
Emicrania, fibromialgia, artrite reumatoide, artrosi, fuoco di Sant'Antonio e lombalgie sono solo alcune delle
forme riscontrate più comuni. Chi ne soffre? Anziani prima di tutto ma, indipendentemente dall'età, le donne
sono quelle che lo percepiscono in modo più intenso. Secondo quanto riferito da una recente indagine della
Stanford University, i soggetti femminili soffrirebbero circa il 20 per cento in più rispetto al genere maschile.
In questi casi, il dolore è più frequente e intenso, anche perché gli ormoni femminili (estrogeni)
incrementano la reattività del sistema nervoso e, di conseguenza, la trasmissione del sintomo doloroso. Il
tutto è aggravato dal fatto che queste sofferenze vengono sopportate a lungo dalle donne, anche per mesi
o anni, nella convinzione che il dolore vada accettato perché fa parte della vita, talvolta addirittura
sottovalutato dai medici che hanno poco tempo a disposizione per ascoltare o credere alle pazienti. L'aiuto
della legislazione Al dolore cronico, invece, non ci si deve rassegnare. E una malattia che si può e si deve
combattere, senza lasciare che diventi una sgradevole compagna di vita. Oggi esistono gli strumenti
normativi e terapeutici in grado di contrastare sofferenze inutili. «Tutti i pazienti con dolore moderato e
severo possono, con poche eccezioni, far ricorso agli oppioicontinua a pag. 96 segue da pag. 95 di»,
afferma il professor Carmelo Scarpignato, docente di Farmacologia Clinica presso il Dipartimento di
Medicina Clinica e Sperimentale dell'Università di Parma. Grazie alla Legge 38, infatti, è stato sancito per
tutti i cittadini italiani il diritto alla terapia del dolore e alle cure palliative. Questa normativa impone ai medici
di considerare il dolore come parametro vitale da monitorare e riportare obbligatoriamente nella cartella
clinica di ogni paziente, così come avviene per pressione arteriosa, battito cardiaco, temperatura e
frequenza respiratoria. E soprattutto impone di curarlo. La legislazione ha avuto, tra gli altri, il merito di
semplificare anche le modalità di prescrizione dei farmaci oppioidi, che l'Organizzazione Mondiale della
Sanità e le Linee Guida internazionali indicano come i più appropriati per il trattamento delle forme di dolore
moderato-severo. Stop agli allarmismi Efficaci e sicuri, gli oppiacei svolgono un ruolo terapeutico
insostituibile nella terapia del dolore, specie in quello cronico causato dal cancro. Malgrado ciò, l'impiego di
tali farmaci è ancora in Italia molto ostacolato. Questa situazione è stata più volte messa in luce, senza
però che ne sia stato trovato una soluzione. Quello che bisogna distinguere è l'impiego terapeutico di questi
farmaci, prescritto dal medico a scopo analgesico, dall'uso improprio in soggetti sani. L'abuso di un
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Terapie
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oppiaceo da parte di chi è dedito al consumo di droghe può generare dipendenza, ma lo stesso problema
può verificarsi con l'abuso di molti altri farmaci, come gli antidepressivi. «Secondo una ricerca recente, negli
USA l'abuso di oppioidi oscilla tra il 21 e il 29 per cento. In Italia mancano analisi adeguate, ma il fenomeno
è certamente molto meno frequente, con una prevalenza circa dell'I per cento. L'ente regolatorio
statunitense (FDA) ha dettato delle linee guida su come sviluppare formulazioni di oppioidi in grado di
limitarne l'abuso. Fra queste le formulazioni che, insieme al farmaco (agonista), contengano anche un
antagonista degli oppioidi, come ad esempio l'associazione oxicodone/naloxone, presentano il doppio
vantaggio di possedere delle proprietà "deterrenti" e di essere meglio tollerati. La formulazione a rilascio
ritardato di naloxone è infatti in grado di antagonizzare gli effetti periferici degli oppioidi (come stipsi e
nausea) senza interferire con quelli centrali (come l'analgesia)», aggiunge il professore. Di sicuro, nel
nostro Paese c'è ancora molto da fare per far entrare nella cultura del concetto e del trattamento del dolore
cronico, anche se è evidente a tutti i medici il ruolo invalidante che questo sintomo può avere sui pazienti,
dal punto di vista fisico e psicologico. Basta pensare alla paura e allo stress provati dai soggetti per la
continua minaccia del dolore. Le problematiche aperte sono varie, ma le soluzioni non mancano. Ecco
perché il medico di base dovrebbe svi gere il ruolo di informatore del pazien riguardo alle possibilità di
assisten: domiciliare e di cure palliative, ricc dando che gli oppioidi sono farmaci sic ri e soprattutto efficaci.
Questo per da speranze e aspettative di vita migliori chi per troppo tempo ha sofferto.
Foto: TRATTAMENTI EFFICACI Ci sono dei dolori che durano solo giorni, come quelli causati da traumi,
postumi di operazioni o malattie che si riacutizzano. Il dolore che più spaventa è quello cronico, che dura
per mesi o anni. Oggi la sua soppressione è possibile grazie a trattamenti farmacologici specifici.
Foto: servizio di Simona Cortopassi, con la consulenza del professor Carmelo Scarpignato, docente di
Farmacologia Clinica presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell'Università di Parma
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Pag. 96 N.2 - febbraio 2016
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Un notevole impatto socio-economico
Tra i primi Paesi europei per prevalenza del problema, in Italia il dolore cronico affligge 1 persona su 4,
interessando nel complesso circa 15 milioni di connazionali. Secondo dati recenti, la sofferenza impatta
ogni anno sul nostro Servizio Sanitario Nazionale con oltre 11 miliardi di costi diretti (farmaci, ricoveri,
diagnostica), ai quali si aggiungono 25 miliardi di costi indiretti (giornate lavorative perse, distacchi definitivi
dal lavoro), per un totale di 36 miliardi di spesa. Si è inoltre calcolato che il dolore cronico in questi ultimi
anni ha assorbito risorse destinate alla spesa sanitaria diretta, ma anche "bruciate" dalla perdita di
produttività dei pazienti. L'impegno delle istituzioni politiche e sanitarie, con il sostegno e il contributo delle
numerose associazioni italiane volte alla lotta contro il dolore, è stato finalizzato all'attuazione degli obiettivi
previsti dalla legge e a un attento monitoraggio delle conseguenze sociali ed economiche del dolore
cronico. Con l'aderenza alla terapia si guadagna in salute e si possono far risparmiare milioni di euro ai
sistemi sanitari europei.
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 08/02/2016
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Terapie / 11 miliardi di costi diretti
05/02/2016
Pag. 96 N.2 - febbraio 2016
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Medicinali oppioidi : come agiscono, qua! è la loro potenza analgesica e
perché sonò considerati dei farmaci sicuri?*
Gli oppiacei svolgono un ruolo terapeutico insostituibile nella terapia del dolore. Scopriamo in che modo
agiscono. Come si può curare il dolore cronico? «Contrariamente al dolore acuto, che è di breve durata e si
esaurisce quando cessa l'applicazione dello stimolo, quello cronico è un dolore che si prolunga per più di 6
mesi. È spesso un sintomo che diventa malattia. Anche se la causa del dolore viene rimossa, il dolore a
volte permane. Una corretta diagnosi (dolore nocicettivo o neuropatico) è essenziale prima di iniziare una
terapia a lungo termine. I FANS e il paracetamolo rappresentano il primo gradino della cosiddetta "scala
analgesica" dell'OMS. A parte i loro effetti indesiderati a livello del rene e dell'apparato gastrointestinale e
cardiovascolare, la loro efficacia nel dolore cronico è modesta. Utilizzati in maniera adeguata, gli oppioidi,
oltre a essere più efficaci, sono anche più maneggevoli». Come agiscono questi farmaci? «I farmaci
oppioidi agiscono a livello del sistema nervoso centrale innalzando la soglia percettiva del dolore e riducono
al tempo stesso la componente emotiva che accompagna ogni sindrome dolorosa. È stato recentemente
scoperto che gli oppiacei sono in grado non solo di alleviare il dolore, ma anche di cancellarne la memoria
dal midollo spinale. Una scoperta interessante, che aggiunge un tassello nella comprensione dei
meccanismi che si innescano nel caso del dolore cronico. La risposta ai farmaci oppioidi varia in rapporto
alle diverse sindromi e ai diversi tipi di dolore. Così nell'ambito del dolore nocicettivo, la risposta varia in
rapporto alla sede dei recettori coinvolti e in rapporto al movimento: il dolore viscerale (localizzato più
profondamente) e il dolore continuo, indipendente dal movimento rispondono bene agli oppioidi, mentre il
dolore somatico, quello incidente (presente al movimento) e il dolore infiammatorio necessitano di più alte
dosi di farmaco per essere dominati. Alcune forme di dolore neuropatico possono rispondere agli oppioidi.
Tuttavia, in presenza di lesioni delle vie o dei centri nervosi, il dolore è generalmente refrattario a questa
classe di farmaci». Ci sono dei pazienti a cui è sconsigliata la loro somministrazione? «Ci sono poche vere
controindicazioni, che possono essere assolute e quindi far ritenere sempre dannosa la somministrazione,
oppure relative, ovvero tali da rendere possibile la somministrazione di oppioidi sotto assoluta e stretta
sorveglianza medica. Una controindicazione assoluta è, ad esempio, l'ipersensibilità (peraltro molto rara)
verso questi farmaci. Gli oppioidi sono da usare con cautela in presenza di depressione respiratoria,
occlusione intestinale, asma bronchiale e broncopatia cronica ostruttiva. Non sono consigliati in gravidanza
e durante l'allattamento, nei soggetti ;he assumono particolari farmaci antidepressivi (i cosiddetti nibitori
delle monoaminossidasi) e negli alcolisti». ' medicinali oppioidi sono sicuri o, assumendoli, i pazienti
corrono '/ rischio di andare incontro a dipendenza? dolore possibile. L'uso improprio degli tppioidi può
condurre, con il passare del tempo, all'instaurarsi di :ambiamenti nel cervello, che interferiscono con le sue
normali unzioni e portano alla cosiddetta "dipendenza da oppioidi". Tale condizione, caratterizzata
dall'ansia provocata dall'intenso e insopprimibile desiderio di oppioidi ( craving ), dal dolore fisico e dal
disagio dovuto ai segni e sintomi da astinenza, è definita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
come una malattia mentale di lunga durata. La dipendenza è, di fatto, un evento molto raro, soprattutto nei
malati oncologici. La tossicodipendenza, che può verificarsi con qualunque farmaco, è caratterizzata
dall'incoercibile bisogno di far uso continuato di sostanze psicotrope nonostante i problemi di tossicità.
Qualunque classe di farmaci (lassativi, ansiolitici, eccetera) può generare una dipendenza psicologica,
specialmente nei soggetti che li usano senza una reale necessità. L'Italia è uno dei Paesi industrializzati in
cui gli oppioidi sono meno utilizzati, soprattutto a causa del persistere di alcuni pregiudizi infondati. È bene,
quindi, sottolineare che, quando utilizzati correttamente a scopo terapeutico per la terapia del dolore, questi
farmaci generano molto raramente dipendenza. Uno studio ha dimostrato un'incidenza di dipendenza dello
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Terapie / L'ESPERTO RISPONDE La parola al professor Carmelo Scarpignato, docente di Farmacolog
Clinica nella sede del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell'Università di Parma
05/02/2016
Pag. 96 N.2 - febbraio 2016
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0,03 per cento (4/11.482) in pazienti senza precedente abuso di oppioidi».
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Pag. 97 N.2 - febbraio 2016
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L'incidenza sulla vita di ogni giorno
Quando si parla di dolore si affronta uno dei principali problemi sanitari dei nostri giorni a livello mondiale,
sia per l'invecchiamento della popolazione, sia per l'aumento delle patologie cronicodegenerative. Tra
queste ultime, i disturbi osteoarticolari (per esempio il mal di schiena) sono oggi riconosciuti come le cause
principali di dolore cronico non oncologico in Italia. Artrosi e osteoartrosi affliggono 4 milioni di connazionali
e sono all'origine di una sofferenza cronica non neoplastica nel 67 per cento dei casi, con un pesante
impatto sulla vita quotidiana dei pazienti, laddove questa sofferenza non venga adeguatamente curata.
Secondo l'indagine The Painful Truth Survey: the State of Pain Management in Europe svolgere lavori
domestici risulta difficoltoso per il 58 per cento dei pazienti, guidare per il 45 per cento e arriva al 64 per
cento la percentuale degli intervistati che attribuiscono al dolore cronico difficoltà nei rapporti di coppia.
Anche le conseguenze psicologiche non sono trascurabili: spesso i pazienti che soffrono di dolore cronico
vivono un senso di abbandono e una sensazione di perdere il proprio ruolo all'interno della famiglia,
sviluppando depressione e generale malessere.
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 08/02/2016
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Terapie / Conseguenze psicologiche non trascurabili
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Sito Web
IlFarmacistaOnline.it
Il documento è stato elaborato da un gruppo tecnico costituito da professionisti del servizio sanitario
regionale e condiviso dai direttori sanitari. Stabilisce i requisiti minimi e le modalità organizzative per
l'accreditamento delle strutture di assistenza, sui prodili delle figure professionali coinvolte e sulle strutture
competenti.
05 FEB - Via libera dalla Giunta regionale del Friuli Venezia Giulia al documento "La rete per le cure
palliative e la rete per la terapia del dolore della Regione Friuli Venezia Giulia", proposto dall'assessore alla
Salute e integrazione socio-sanitaria Maria Sandra Telesca e approvato contestualmente al recepimento
dei due accordi e dell'intesa stipulati sulla materia tra Governo, Regioni e Province autonome. A darne
notizia è la Giunta in una nota in cui si spiega che il documento stabilisce le caratteristiche della rete
regionale e delle reti locali delle cure palliative e della terapia del dolore, il modello organizzativo e i requisiti
delle reti locali, le modalità di presa in carico dalla rete locale delle cure palliative e i criteri di accesso ai
nodi della rete della terapia del dolore. Vengono inoltre definite la formazione del personale sulla materia e
gli indicatori per il monitoraggio del funzionamento e dello sviluppo delle reti locali. "Il documento - riferisce
la nota - è stato elaborato da un gruppo tecnico costituito da professionisti del servizio sanitario regionale e
condiviso lo scorso 3 dicembre dai direttori sanitari, ed è coerente con l'accordo tra governo, Regioni e
Province autonome del 16 dicembre 2010, seguito dall'intesa del 25 luglio 2012 e da un successivo
accordo del 10 luglio 2014 in cui si sono via via indicate, in chiave di armonizzazione nazionale, le linee
guida sulla materia, i requisiti minimi e le modalità organizzative per l'accreditamento delle strutture di
assistenza rivolte ai malati terminali e delle unità di cure palliative e terapia del dolore e, da ultimo, le figure
professionali e le strutture competenti". La delibera approvata oggi dalla Giunta regionale dà mandato alla
direzione regionale centrale Salute di costituire il coordinamento regionale per le cure palliative e la terapia
del dolore, nel quale sarà presente una rappresentanza delle figure professionali coinvolte.
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 08/02/2016
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FVG. Definite le Reti per le cure palliative e la terapia dolore
06/02/2016
Pag. 17 Ed. Catanzaro
Quando la Cannabis combatte il dolore
Le profonde differenze che ci sono rispetto all'uso per così dire "ricr eativo"
di FRANCESCO AMATO* Cannabis per uso terapeutico LA Cannabis sativa ha una lunga storia come
analgesico. Prove dell'utilizzo della cannabis si hanno fin dai tempi del Neolitico, testimoniate dal
ritrovamento di alcuni semi fossilizzati in una grotta in Romania. Nei secoli successivi fu utilizzata in
svariate condizioni dolorose, come nel dolore da parto, negli spasmi dolorosi, nelle nevralgie e
nell'emicrania. Come si spiegano le loro proprietà farmacologiche? Le azioni farmacologiche sono legate ai
rispettivi recettori specifici nel SNC, similmente agli oppiacei e alle benzodiazepine. I recettori dei
cannabinoidi (CB1) sono localizzati in specifiche regioni del SNC: l'ippocampo, le aree corticali coinvolte
nella memoria e nell'apprendimento, i gangli basali ed il cervelletto (controllo della coordinazione e del
bilanciamento). L' analgesia mediata dai recettori CB1attiva ,inoltre, le vie discendenti noradrenergiche con
la stimolazione di oppioidi endogeni. Esistono poi recettori periferici, denominati CB2, che sembra giochino
un ruolo nella modulazione della risposta immunitaria e dell'infiammazione. E' stata evidenziata una
possibile interazione dei cannabinoidianche conirecettori vanilloidi TRPV1 (capsaicina) deputati alla
sensibilità termodolorifica ed alla capacità di trasformare gli impulsi dolorosi in stimoli elettrici per i centri
superiori. Principi Attivi Per prima cosa è necessario far chiarezza: c'è una grossa differenza tra i principi
attivi impiegati a scopo terapeutico, e quelli impiegati per uso "ricreativo". Sono due i principi attivi della
cannabis presi in causa: il THC (delta 9-tetraidrocannabinolo), che se abusato provocaeffetti psicotropi, ma
se è dosato correttamente porta sollievo a diversi disturbi e il cannabidiolo, il quale non causa psicotropia,
dispone di rilevanti proprietà farmacologiche e antinfiammatorie, e che secondo dati clinici e sperimentali
non produce rilevanti effetti collaterali. Entrambi i principi vengono quindi usati nelle terapie che
coinvolgono la cannabis, ma il dosaggio del THC è calibrato in modo che gli effetti psicotropi vengano
controllati dal cannabidiolo conferendone maggiore tollerabilità. Il THC infatti è efficacemente impiegato da
diversi anni contro la nausea (come anti- emetico) e per stimolare l'appetito in pazienti che soffrono di
disturbialimentari, inpazienti oncologici in cura chemioterapica e in pazienti con AIDS conclamata. Quindi
combinando THC e cannabidiolo con metodo scientifico si possono ottenere buoni effetti terapeutici. Le
patologie dolorose in cui la Cannabis sembra avere un ruolo degno di essere indagato in maniera
approfondita sono varie. Vi è un potenziale ruolo dei cannabinoidi per il trattamento del dolore neuropatico,
area in cui attualmente pochi farmaci sono efficaci, compresa la morfina. Nella terapia del dolore tumorale
oltre l'effetto antalgico vi può essere un effetto positivo sull'appetito, con riduzione della nausea da
chemioterapia; benefica l'azione sull'umore. Un interessante campo di applicazione potrebbe ancora essere
quello del dolore muscolo-scheletrico. La Cannabis potrebbe infine avere un ruolo nel trattamento dell'
emicrania. E'importante però sottolineare che bisogna monitorare le concentrazioni farmacologiche da
farne assumereaffinchèci siaunbuon uso dei suddetti farmaci oppioidi. Alte dosi, infatti, possono provocare
in primis euforia poi subentra uno stato di sedazione , gli atti del respiro possono rallentare al punto che nei
casi più gravi si rischia l'arresto respiratorio. Se poi si beve è anche peggio, perché l'alcol potenzia l'effetto
sedativo dei derivati dell'oppio. In Calabria come in altre regioni verrà affidato ai Centri Hub della Terapia
del Dolore il monitoraggio e controllo di questa classe di farmaci per evitare il rischio di cadute in
comportamenti inappropriati. *Responsabile Centro Hub regionale Terapia del dolore Cosenza
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 08/02/2016
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FOCUS Le misure per un corretto uso della sostanza evitando utilizzi inappropriati
06/02/2016
Pag. 12
diffusione:41112
tiratura:81689
Malattia cronica? Sei messo male
Andrebbe studiata più a fondo, nella sua specifi cità
GOFFREDO PISTELLI
Un suo libro, Liberi dal dolore, pubblicato da Mondadori nel 2011, è ancora vendutissimo, e alla Fondazione
Maugeri di Pavia vanno a cercarlo da tutta Italia, perché Cesare Bonezzi, classe 1946, pavese, medico, è
considerato uno degli iniziatori della medicina del dolore in Italia, di cui si occupa da una trentina d'anni. Nel
2010, fece parte del pool di esperti che l'allora ministro della Salute, Ferruccio Fazio, chiamò a scrivere la
legge 38, sul dolore e sulle cure palliative, una norma considerata avanzatissima in tutto il mondo, perché
riconosce il diritto del cittadino a veder trattata la sua s o f f e r e n z a cronica. Domanda. Dottor Bonezzi,
sul fronte del dolore, in Italia, qual è la questione d'attualità? Risposta. Senza dubbio il concetto di cronicità.
D. Vale a dire? R. Su che cosa vogliamo dire, cioè, con «dolore cronico». D. Spieghiamolo. R.
Quell'aggettivo viene aggiunto al sostantivo «dolore», con signifi cati diversi. Quando si vuol intendere che
semplicemente dura nel tempo, secondo l'etimo greco « kronos ». Può durare nel tempo perché la malattia
che lo genera dura a sua volta nel tempo, a causa di una medicina che cura ma non guarisce, vedi le
malattie reumatiche o quelle dei nervi periferici. Oppure... D. Oppure? R. Oppure è cronico perché persiste,
ossia va aldilà del tempo previsto dopo la guarigione di una certa malattia, forse parché la malattia stessa
non è realmente scomparsa o ha causato una defi nitiva alterazione dei sistemi di controllo del dolore. Più
spesso, però, la medicina definisce cronico un dolore perché non sa individuare i meccanismi che ne
stanno all'origine. D. Ma nella prassi medica cos'è che non va? R. Che quando il dolore si complica,
associandosi a comportamenti che coinvolgono la sfera psicologica e sociale, diventando invalidante per di
più, l'aggettivo cronico consiste in un gettare la spugna. Non si vuole più studiarlo. È cronico? E allora che
ci facciamo? E quell'aggettivo si dà un signifi cato come maledizione eterna. Ed è il gioco più squallido, con
la politica che, talvolta, è complice. D. In che senso? R. In un quadro di risorse scarse, se una malattia è
cronica, si toglie dal capitolo delle patologie acute e le si dedicano meno risorse. Perché approfondire la
diagnosi, e cercare trattamenti specifi ci e costosi, se abbiamo definito che è cronico? D. E che cosa
succede? R. Succede che troviamo malati che percorrono gli ambulatori specialistici per anni, in cerca di
una cura, etichettati come affetti da dolore cronico, e curati solo con farmaci oppioidi. Non c'è stato, cioè,
uno sforzo diagnostico specifi co. D. Invece? R. Invece lo studio del dolore rivela che, a volte, i meccanismi
che ne sono responsabili sono curabili. Certo ci vuole tempo, sapere e risorse. D. Che fare allora con la
cronicità. R. Bisogna toglierla dal limbo dove l'opinione di medici inesperti e la politica sanitaria l'hanno
messa. Altrimenti significa nascondere persone che si possono curare e addirittura guarire, ma anche, e
soprattutto, smettere di fare ricerca. Qui da noi, in Maugeri, vengono pazienti con una durata media di
dolore di ... No, anzi, non glielo dico, indovini lei. D. Chessò, un anno? R. Magari. La media è quattro anni e
sei mesi. Capisce? Quasi un lustro di dolore prima di trovare, nel 51% di casi, una soluzione. D. Ossia un
paziente su due, esce senza dolore da qui? Ma quanti sono gli «ammalati di dolore»? R. Non ci sono dati
nazionali, però posso dirle che cosa sta succedendo in Lombardia, dove si sono costituiti quattro hub,
Varese, Garbagnate (Mi), Niguarda a Milano e noi, a Pavia. L'anno scorso 78.651 pazienti assistiti si sono
rivolti a tutti i centri esistenti, 37mila sono stati trattati con farmaci mentre per oltre 41mila è iniziata una
terapia del dolore mininvasiva. D. Ma come paese, siamo indietro? R. Mettiamola così: c'è un'offerta di cura
notevole, sicuramente pari, se non superiore, a quella di cui godono i cittadini francesi o tedeschi, ma tutta
a macchia di leopardo. La legge, in compenso, è una grande legge. D. Beh lo dice perché lei dette un
contributo decisivo al ministro Fazio, che la volle fra quanti scrissero quella norma. R. C'era un board di
dieci persone, fra terapisti del dolore, medici di medicina generale, palliativisti e, come coordinatore, c'era
Guido Fanelli dell'Università di Parma. D. Le legge 38 del 2010 viene considerata avanzatissima. R. Per la
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 08/02/2016
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Affermare che un dolore è cronico è come gettare la spugna. Non si vuole più studiarlo
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TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 08/02/2016
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prima volta riconosce il diritto del cittadino a non soffrire. D. Spesso però la terapia del dolore viene fatta
coincidere tout court con le cure palliative, anch'esse contemplate in quella legge. R. Ed è un errore, sono
cose diverse. Anzi, bisogna strappare la cura del dolore alla emotività di quel tipo di terapie. D.
Spieghiamolo. R. Anche se, nel gergo comune, palliazione porta all'idea di una rinuncia alla vera cura quei
trattamenti offrono una vera assistenza globale del paziente e un'attenuazione dei sintomi di una malattia, il
cancro, quando è nella sua fase terminale. D. Invece, la terapia del dolore? R. Si rivolge a persone attive e
vuol cercare di guarire e di interv e n i r e sui meccanismi fi siopatologici del d o l o r e . Sono stati tra i
primi, negli anni '90, a fare le cure domiciliari palliative ai malati oncologici, con l'Associazione Sartori, ma la
terapia del dolore è un'altra cosa. D. E che cosa ricorda di quell'esperienza? R. Si piombava nel teatro del
morire, catapultati nella tragedia, perché nessuno, paziente e familiari, e forse anche noi medici, è in
genere pronto. D. Si è chiesto mai il perché? R. Viviamo in una società che ha demonizzato il morire e l'ha
rimosso, ne ha annullato l'esperienza quotidiana. Ma il poter morire nel proprio letto, in mezzo ai propri cari,
rende la morte dignitosa. D. Oggi ci sono gli hospice. R. Ottime cose, per chi non ha una famiglia che
possa accompagnarlo, però è il ribaltamento esatto di quella situazione che le dicevo prima: non il medico
in mezzo al teatro del dolore ma, viceversa, quel palcoscenico è inserito in ospedale. C'è il rischio di un
grande internamento, ma forse non abbiamo altre soluzioni. D. Torniamo alla legge. R. Ha dato dignità
scientifi ca al dolore. Lo ha reso visibile come faccio io, coi miei pazienti, ai quali, per prima cosa, do un
pennarello e chiedo di disegnare, sul proprio corpo, l'area dolorante. D. Perché la medicina, sin qui, non ha
voluto o potuto curare il dolore? R. Perché l'ha trattato con le malattie, quando ha potuto. Spesso il dolore fi
nisce in chirurgia. D. Facciamo un esempio. R. Il mal di schiena può esser invalidante, migliaia di persone
ne soffrono, con costi sociali enormi, anche solo in termini di giorni di lavoro perduti. Bene, il chirurgo cerca
la soluzione osservando la colonna vertebrale, cercando un'alterazione, una malattia da curare, dimentica
cioè il dolore, mentre noi, al contrario, osserviamo il dolore e, seguendolo, troviamo come si genera. Non
esiste la malattia o l'alterazione ma il dolore. D. Ora si fa un gran parlare della cannabis per uso
terapeutico. Sembra un po' una moda. R. In parte, forse. Contro la nausea e la spasticità funziona
benissimo. Per lenire per esempio la nausea dei farmaci chemioterapici. D. Nel dolore? R . n e l dolore
cronico che vediamo nei nostri ambulatori non tanto, come unico farmaco, ma in combinazione con gli
oppioidi, come la morfi na. Ma tutto va fatto secondo protocolli precisi. Perché anche gli oppioidi non sono
la panacea, perché non tolgono tutti i dolori e poi non sono certo privi di effetti pesanti: a volte e se presi
con altri farmaci e senza un preciso controllo, diventa impossibile, per esempio, guidare un'auto. E a questo
punto, Bonezzi ci mostra sull'iPad il video di una paziente trattata: non se ne vede il volto, ma è una donna
sulla cinquantina, che riferisce di soffrire da anni e di non poter più andare avanti con gli oppiacei: «Mi
addormento di colpo ai semafori», spiega. D. Ma la moda-cannabis la aiuta nella sua battaglia per dare
dignità alla medicina del dolore? R. Sì, purché, come dicevo prima, si regolamenti con attenzione. D. Di
cosa c'è bisogno, ancora? R. Di insegnare la medicina del dolore nelle università, nelle scuole di medicina.
D. E, secondo lei, quale sarebbe il cuore di quell'insegnamento? R. Che bisogna imparare una relazione di
aiuto verso il paziente. Noi facciamo diagnosi su un discorso, ossia su quello che il malato ci riferisce,
costruiamo un'attività clinica attraverso il linguaggio. D. L'empatia verso il paziente, non è un optional, cioè.
R. Sì, empatia è la parola giusta: il dialogo attento è già il 30% della cura. © Riproduzione riservata La
legge italiana sul dolore (che ho contribuito ad elaborare) è una delle più avanzate nel mondo. Essa ha
dato dignità scientifi ca al dolore. Lo ha reso visibile come faccio io, coi miei pazienti ai quali do un
pennarello a chiedo di disegnare sul loro corpo l'area dolorante Il mal di schiena può essere invalidante,
milgiaia di persone ne soffrono, con costi personali e sociali enormi. Bene, il chirurgo cerca una soluzione
dopo aver individuato un'alterazione ossea. Noi invece osserviamo il dolore e, seguendolo, troviamo anche
come si genera La terapia del dolore che applichiamo alla Fondazione Maugeri di Pavia si rivolge a
persone attive e si propone di gaarire, intervenendo sui meccanismo fi siopatologici dell sofferenza. Non
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consideriamo il dolore come seguito di una malattia ma lo studiamo partendo dal dolore
Foto: Cesare Bonezzi
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07/02/2016
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Scacciare quei fastidiosi "doloretti"
A lamentarsene sono più le donne degli uomini, in particolare quelle che hanno superato la cinquantina
Non risparmia nessuna specie vertebrato: dal cane al cavallo, dalla balena al delfino, tutti sono soggetti all
'artrosi. Si tratta infatti della più frequente fra le malattie osteoarticolari, tanto da essere una delle principali
cause di assenza dal lavoro e di ricovero in ospedale. In particolare nel nostro Paese ne soffrono almeno
cinque milioni di persone con una frequenza che aumenta progressivamente con l'età ed una prevalenza
maggiore nel sesso femminile. è una malattia caratterizzata dalla coesistenza di fenomeni di tipo
degenerativo e infiammatorio a carico delle articolazioni che come conseguenza vanno incontro ad
alterazioni della cartilagine articolare ed a deformità e perdita di mobilità. Ne possono essere vittima
potenzialmente tutte le articolazioni: in ordine decrescente, quelle della colonna lombare, della colonna
cervicale, delle ginocchia, delle anche, delle mani e dei piedi, ma anche quelle della spalla e del gomito.
Indipendentemente dall'articolazione colpita, i sintomi che provoca sono però sempre gli stessi e facilmente
riconoscibili: un è radicato il pregiudizio che l'artrosi sia un disturbo contro il quale non sia possibile fare
nulla dolore intenso e una limitazione funzionale che compaiono quando si muove l'articolazione, dopo
alcune ore di immobilità e che si attenuano fino a scomparire con il riposo, quando l'articolazione non è più
sollecitata. è necessario darsi da fare Fino a pochi anni fa l'artrosi era giudicata un'ineluttabile conseguenza
dell'età. Oggi però questa visione è superata in quanto questa malattia è considerata una condizione che si
può prevenire mediante la correzione dei fattori di rischio. Infatti oramai sono conosciute le diverse cause
che singolarmente o associandosi fra loro, la possono scatenare: età, familiarità, malformazioni congenite o
acquisite, traumi, sovrappeso, sedentarietà e posture scorrette. E se per contrastare alcuni di questi fattori
non si può fare niente, è però possibile combattere gli altri. è dunque necessario cercare di non aumentare
eccessivamente di peso, in quanto i chili in eccesso causano troppo carico sulle articolazioni e praticare
dell'attività fisica, perché le sollecitazioni dovute al movimento contribuiscono a mantenere un buono stato
di salute delle cartilagini articolari. Inoltre il movimento è consigliato anche quando l'artrosi è già presente
perché aiuta a mantenere movimenti ampi e rinforza la muscolatura vicino all'articolazione. Altrettanto
importante è cercare di mantenere sempre posture corrette sia di giorno durante lo svolgimento delle
proprie attività, sia durante il riposo notturno. Quando ci sono disturbi Quando si avvertono i primi dolori
associati a rigidità articolare è necessario andare dal medico. Per arrivare alla diagnosi di artrosi
generalmente è sufficiente una precisa descrizione dei sintomi e la visita clinica, ma il medico può anche
prescrivere un esame radiologico per valutare il grado della malattia. In ogni caso la principale arma
nell'artrosi sono gli antinfiammatori non steroidei (Fans) che alleviano il dolore e lo stato infiammatorio, da
assumere su prescrizione del medico. Questi farmaci hanno però degli effetti collaterali a carico
dell'apparato gastrointestinale che ne sconsigliano una loro assunzione per lunghi periodi. In alternativa si
può ricorre a degli integratori alimentari a base di sostanze con comprovata attività antinfiammatoria.
Quando il dolore persiste ed è intenso, è consigliabile rivolgersi al medico per valutare la terapia più
indicata, fra le molte altre disponibili.
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 08/02/2016
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dolori alle articolazioni causati dall'artrosi sono molto frequenti, ma si possono prevenire
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About Pharma and Medical Devices
DOLORE POST OPERATORIO: PER INQUADRAMENTO E TERAPIA
STRADA ANCORA IN SALITA
Complicanze anche gravi e cronicizzazione sono le conseguenze più dirette di trattamenti omessi o non
appropriati. La Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) denuncia i
ritardi formativi e organizzativi. Del tema si è parlato anche al recente congresso nazionale che gli
specialisti hanno tenuto a Bologna
Stefano Di Marzio
Soffrire è inutile e pure pericoloso. Il dolore post operatorio, se non curato, induce complicanze, può
diventare cronico e nell'uno e nell'altro caso peggiorare la qualità di vita dei pazienti e aggravare di molto i
costi dell'assistenza. Questo sostiene in modo inoppugnabile la letteratura scientifica e questo ha ribadito la
Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) in due diversi momenti: al
69° congresso nazionale che si è svolto in autunno a Bologna e - per bocca del suo nuovo presidente
Antonio Corcione (Ao dei Colli, presidio "V. Monaldi" di Napoli) - in un recente workshop che si è svolto a
Milano a metà gennaio. Sofferenza inutile, dunque. Peccato che proprio a casa nostra la terapia del dolore
post operatorio non raggiunga gli standard internazionali, sia spesso sottovalutata dai medici,
somministrata in modo improprio, non riconosciuta dai Drg chirurgici e - in un circolo vizioso - non invocata
dai pazienti stessi che ancora non considerano l'analgesia post operatoria un loro diritto, introiettando l'idea
erronea che il dolore è ineluttabile. E sì che su 4 milioni di pazienti sottoposti a interventi chirurgici ogni
anno in Italia, l'80% riferisce di aver sofferto per le sequele del bisturi. Anche il contesto internazionale - per
la verità - mostra che qualche correttivo vada apportato. Di recente la British Association of Day Surgery ha
ripescato uno studio (Lemos et Al.: "Patient satisfaction following day surgery" pubblicato su Journal of
Clinical Anaesthesia, 2009), secondo cui le percentuali di soddisfazione dei pazienti erano sì pari al 95%,
ma l'inadeguato controllo del dolore postoperatorio, insieme al tema delle liste d'attesa, rappresentava il
maggior motivo di insoddisfazione. Tornando in Italia - affiancati dai dati di Cittadinanzattiva - gli specialisti
parlano oggi di carenze formative e di organizzazione, ritardi culturali, di un Servizio sanitario nazionale che
lesina risorse umane ed economiche, etc. Ne consegue che solo il 10% dei pazienti sottoposti a intervento
chirurgico riceve un idoneo trattamento, nonostante esistano specifiche linee guida Ebm, una legge (la
38/2010 concepita contro tutti i dolori "inutili"), farmaci e devices sempre più efficaci. Spiega Antonio
Corcione. "Il dolore postoperatorio è una complicanza dell'intervento chirurgico, così come le infezioni, gli
squilibri idroelettrolitici, etc. Come tale va trattato o meglio prevenuto in funzione dell'algogenicità
dell'intervento subito. Non è un caso che la Legge 38/2010 promuova la rilevazione e la registrazione in
cartella clinica del parametro dolore". Dalle complicanze cardiovascolari a quelle respiratorie, sono
molteplici gli esiti di una mancata o errata terapia. "Nelle popolazioni speciali di pazienti, quali ad esempio
anziani, o persone affette da comorbidità - prosegue Corcione - il dolore post operatorio può essere causa
di protratto allettamento, mancata riabilitazione o ancor peggio di accesso imprevisto in ospedale". L'altra
importante questione riguarda il dolore cronico che può scaturire da un omesso o non adeguato
trattamento. Spiega ancora il presidente Siaarti: "La ricerca sta indagando i meccanismi patogenetici. Si
pensa tervistati aveva seguito almeno un corso). Inoltre, gli anestesisti italiani raccontano che i principali
ostacoli all'uso di protocolli validati era imputabile per il 35% a inadeguato training e per il 50% a carenze
organizzative" (non è un caso che Grünenthal stia lanciando in tutta Italia una campagna info/formativa
denominata Change Pain Acute). "Siamo tornati a trent'anni fa" chiosa amaro Guido Fanelli, direttore della
Uoc di Anestesia e rianimazione all'Azienda ospedaliera universitaria di Parma e "padre" della Legge 38.
Fanelli auspica sull'argomento dolore post operatorio anche una maggiore omogeneità nei programmi
formativi delle quaranta scuole di specialità italiane. Ma non solo. Fanelli riflette sulla necessità di incentivi e
rispolvera l'istituzione di un premium price (l'esperimento è stato fatto in anni recenti in Emilia Romagna)
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 10/02/2016
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MEDICINA, SCIENZA E RICERCA
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Pag. 72 N.135 - febbraio 2016
About Pharma and Medical Devices
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 10/02/2016
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per quei dipartimenti che inseriscono in cartella clinica la valutazione del dolore post operatorio. "So che
non sono tempi di rivendicazioni economiche - aggiunge Fanelli - ma se il sistema dei Drg non premia chi fa
le cose per bene, che almeno si attribuisca un valore simbolico alle best practice. Sarebbe anche un modo
per spostare l'analgesia dalla casella dei costi a quella dei benefici".
Foto: Stefano Di Marzio AboutPharma and Medical Devices [email protected]
10/02/2016
Pag. 74 N.416 - dicembre 2015
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tiratura:72750
II fumo fa male alla schiena: lo dicono le ultime ricerche, secondo le quali questo disturbo può avere anche
origine genetica e sarebbe dovuto a un difetto nel metabolismo della vitamina D. Ma con il dolore c'entra
pure la postura eratta
Barbara Merlo
Ne soffrono circa 15 milioni di italiani e le statìstiche dicono che sia la prima causa di assenteismo sul
lavoro: il mal di schiena, che più o meno tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita, è
invalidante anche se nella maggior parte dei casi non è una grave malattia. Ma visti i costi sociali che
comporta, gli scienziati hanno cercato di capirci di più e alcuni ricercatori europei hanno svolto uno studio
sulle malattie legate alla degenerazione del disco intervertebrale, quella struttura di cartilagine e collagene
che fa da cuscinetto ammortizzatore tra una vertebra e l'altra. Il progetto si chiama Genodisc e ha coinvolto
diversi centri di ricerca, tra cui l'Irccs Istituto ortopedico Galeazzi di Milano. Lo studio del Dna Sono stati
esaminati 2.573 pazienti affetti da mal di schiena cronico, dai quali è stato anche prelevato il Dna per
individuare varianti genetiche associate all'ernia del disco, una malattia che colpisce in prevalenza i giovani
e gli adulti in piena età lavorativa, fra i 20 e i 50 anni. «Le varianti più promettenti identificate sino a oggi
sono presenti in geni che influenzano la struttura del tessuto nel disco intervertebrale, o il suo stato di
infiammazione o il metabolismo delle sue cellule», spiega Alessandra Colombini, ricercatrice nel
Laboratorio di Biochimica sperimentale e Biologia molecolare dell'Irccs Galeazzi. Il ruolo della vitamina D
«II nostro gruppo di ricerca», continua la bioioga, «nell'ambito del progetto ha studiato oltre 200 pazienti
italiani con malattie della colonna. Nelle persone affette da ernia del disco, abbiamo identificato delle
varianti nel gene del recettore della vitamina D, un potente ormone che, secondo i risultati di altri nostri
studi, influenza anche il metabolismo delle cellule presenti nel disco intervertebrale». La vitamina D è molto
importante per la salute delle ossa, del sistema immunitario e per la prevenzione di molte malattie. La sua
carenza è sempre più diffusa, soprattutto nei paesi dell'emisfero Nord, perché il nostro organismo per
produrla ha bisogno di esporsi alla luce solare e la nostra vita in luoghi chiusi per molti mesi all'anno rende
spesso insufficiente questa esposizione. Con il progetto Genodisc si è scoperto che chi soffre di ernia del
disco potrebbe avere delle alterazioni, dipendenti da fattori genetici, del metabolismo della vitamina D nella
colonna vertebrale. Ciò non significa che il mal di schiena dipenda solo dalla genetica. «Le malattie discali
sono dovute a molti fattori, ma la genetica è in grado di influenzare sia la loro insorgenza sia la loro
progressione», conclude la ricercatrice. Un'evoluzione incompiuta Tuttavia, la causa principale di tanti
nostri mal di schiena non si può prevenire perché fa parte della natura umana: è la posizione eretta che ci
"condanna". A seguito della stazione eretta, infatti, la colonna vertebrale ha assunto la sua caratteristica
conformazione a cune e non ha ancora trovato il proprio assetto ideale. «L'uomo è in piedi da un tempo
relativamente breve e la sua evoluzione non è certo terminata», fa notare Roberto Pozzoni, specialista in
Traumatologia e Ortopedia al Centro di Traumatologia dello sport dell'Irccs Galeazzi. E aggiunge: «Dal
punto di vista muscoloscheletrico siamo ancora imperfetti. Lo dimostra il fatto che le nostre principali
articolazioni sottoposte a carichi, come l'anca, la colonna vertebrale, il ginocchio e la caviglia, vanno
incontro a una degenerazione spesso anche precoce». Per prevenire il mal di schiena, i medici consigliano
di mantenere sotto controllo il peso corporeo, di praticare una blanda attività fisica tutti i giorni, di rafforzare
gli addominali che sono molto importanti per evitare il sovraccarico della colonna vertebrale e di correggere
le posture sbagliate. «Se si lavora seduti per tante ore è importante alzarsi appena possibile, fare due passi
e una flessione sulle gambe. Al contrario, se si sta molto in piedi, bisogna piegare ogni tanto le ginocchia e
praticare qualche esercizio di stretching», consiglia Marco Brayda-Bruno, responsabile dell'Unità di
Chinirgia vertebrale e scoliosi dell'Istituto ortopedico Galeazzi e coordinatore, per l'Istituto, del progetto
Genodisc. Se compaiono i disairbi, si può ricorrere a diverse terapie: osteopatia, fisioterapia, terapia del
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 11/02/2016
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HAI MAL DI SCHIENA ? SMETTI DI FUMARE
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dolore, infiltrazione di farmaci, agopuntura e ozonoterapia. Chinirgia nei casi difficili La sala operatoria
rappresenta una soluzione nei casi particolari che non rispondono a tutte le altre terapie. Oggi la chinirgia si
avvale di tecniche sempre meno invasive grazie a microscopi, endoscopi e radiofrequenze. «Gli studi
scientifici dicono che solo dopo un anno di terapie conservative risultate inefficaci si può valutare
l'opportunità di un intervento chirurgico», sottolinea Brayda-Bruno. E chiarisce: «Attenti alle tecniche "mini
invasive" propagandate come risolutive. Certi risultati si ottengono solo con interventi più importanti che
però garantiscono la guarigione».
A che cosa serve la colonna vertebrale D Non si chiamerebbe colonna se non servisse proprio a
sostenere la testa e il tronco e a garantire la stabilità della parte superiore del corpo formata da tronco e
braccia. Ma è anche una scatola: come il cranio protegge il cervello, così la colonna vertebrale protegge il
midollo spinale, formato da un fascio di cellule nervose (neuroni), e le radici nervose che scorrono al suo
interno e collegano il sistema nervoso centrale alla periferia del corpo. Infine permette i movimenti della
testa e del tronco e assorbe le sollecitazioni meccaniche che derivano dalla nostra stazione eretta e dalla
deambulazione.
L'EVOLUZIONE UMANA non è terminata. L'uomo ha conquistato la stazione eretta da un tempo
relativamente limitato e il suo apparato muscoloscheletrico non ha ancora trovato l'assetto ideale
per sostenerla.
Queste sono le malattie più diffuse Degenerazione del disco Tra le vertebre è posizionato un disco che ne
permette il movimento reciproco ed è fatto di cartilagine e collagene con un anello fibroso esterno e un
nucleo polposo interno, contenente acqua, che si comporta come un ammortizzatore idraulico. Non ha vasi
sanguigni e le sue cellule ricevono il nutrimento dal sangue che circola nelle vertebre. Il disco si può
danneggiare per disidratazione, dovuta all'avanzare dell'età, oppure per lacerazioni post traumatiche, oltre
che per cause genetiche. Ernia del disco Si manifesta quando il nucleo polposo migra attraverso le fibre
dell'anello fibroso sino a fuoriuscire. Nella maggior parte dei casi, è causata dalle lacerazioni del disco
intervertebrale. L'ernia più comune è quella lombare (parte bassa della schiena), seguita da quella
cervicale (parte alta) e dalla meno diffusa ernia dorsale (parte centrale). Scoliosi dell'adolescenza È la
deviazione sul piano frontale con rotazione tridimensionale della colonna vertebrale. È vera scoliosi quando
la curva supera i 10 gradi. Scoliosi dell'adulto Spesso si accompagna a un restringimento (stenosi) del
tratto lombare della colonna vertebrale (canale lombare). Può essere dovuta ad artrosi o a una scoliosi
giovanile trascurata. Spondilolistesi È lo scivolamento in avanti di una vertebra su quella sottostante:
interessa soprattutto la quinta e la quarta vertebra lombare. Sciatalgia Chiamata anche sciatica, è causata
dalla compressione di una radice di un nervo spinale lombare, oppure, più raramente, dalla compressione
lungo l'arto del nervo sciatico. Il dolore, a volte accompagnato da torpore e difficoltà a muovere la gamba, si
percepisce dalla parte posteriore della coscia fino al retro dello stinco e può estendersi fino all'anca oppure
giù fino al piede. SCOLIOSI A sinistra, una schiena sana. A destra: una forma di scoliosi giovanile.
SCIATALGIA Nel disegno, le frecce indicano la direzione del dolore, che si propaga per tutta la gamba fino
alla caviglia e al piede.
Fumare aggrava il mal di schiena D Fumare non solo ci espone ai tumori e alle malattie dell'apparato
cardiovascolare, ma secondo le ultime ricerche è nocivo anche per la schiena. Il fumo, infatti, danneggia la
microcircolazione sanguigna, fondamentale per nutrire i dischi intervertebrali e per apportarvi ossigeno.
Uno studio statunitense delle Università di Rochester, Florida e Texas, che ha esaminato 5.300 pazienti
seguiti per 8 mesi, ha dimostrato che le terapie per curare i dolori alla schiena funzionano meglio sui non
fumatori o su chi decide di smettere. La nicotina, tra l'altro, si è rivelata un analgesico inutile: molti studi,
che intendevano verificame presunte proprietà antidolorifiche, hanno invece evidenziato l'alto numero di
fumatori, fra gli adulti, che soffre di dolore cronico, spesso perché la sigaretta è percepita come un aiuto nel
gestire i sintomi. Ma si è visto, al contrario, che la nicotina aggrava il dolore muscoloscheletrico nei pazienti
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Pag. 74 N.416 - dicembre 2015
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TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 11/02/2016
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fumatori.
il mal di schiena occorre mantenere il peso sotto controllo e fare attività fisica: è utile rafforzare con
appositi esercizi i muscoli addominali, che evitano il sovraccarico della colonna vertebrale.
Curiamoci col massaggio • Secondo alcuni ricercatori del German Institute for quality and efficiency in
Health Care di Colonia (Germania), alcuni tipi di massaggio leniscono il mal di schiena: il classico, chiamato
anche svedese, il thailandese e la digitopressione possono aiutare nel caso di mal di schiena prolungato.
«Il massaggio è consigliato nella prima fase, dopo 15 giorni dall'inizio del dolore, ma può essere utile anche
nelle fasi croniche», afferma Peter Sawicki, direttore dell'Istituto tedesco. Chiarisce: «II vantaggio, se a
praticarlo sono dei professionisti, è l'assenza di controindicazioni e di effetti collaterali».
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Pag. 38.39.40 N.7 - 14 febbraio 2016
diffusione:327984
tiratura:382575
«La speranza che aiuta a vivere»
L'EX DIRETTORE DEL "CORRIERE DELLA SERA" ASSUME UN IMPEGNO MOLTO DIVERSO DAL SUO
LAVORO DI GIORNALISTA. IMPARANDO COSÌ QUANTO SIA DIFFICILE TROVARE LE PAROLE PER
COMUNICARE CON CHI SOFFRE
Manuel Gandin
Morte: parola che ci impaurisce, che non vogliamo pronunciare, pensiero che cerchiamo di negare a noi
stessi, pur sentendone quasi sempre la presenza incombente. Temiamo la morte, e questo è
comprensibile. Ma non sarà che temiamo di più come si muore, piuttosto che non esserci più? Ne parliamo
con Ferruccio De Bortoli, presidente dell'Associazione Vidas, la struttura che offre assistenza sociosanitaria
completa e gratuita ai malati terminali, fondata nel 1982 da Giovanna Cavazzoni. L'ex direttore del Corriere
della Sera cita un'imprenditrice statunitense tra le più influenti del mondo, Sheryl Sandberg, attuale
direttrice operativa di Facebook: «Le morì il marito per un banale incidente in palestra. Trenta giorni dopo,
durante la cerimonia di commemorazione del marito, un suo amico d'infanzia le ricordò una frase: "Non
lasciare che io muoia mentre sono ancora vivo". È la speranza che aiuta a vivere, mentre perdere la
speranza significa aiutare a morire e non a vivere». E Vidas, che cura ogni anno 1.600 pazienti a Milano,
Monza e in 103 Comuni delle due provincie grazie alle cure palliative, fa della speranza di un fine vita
migliore uno dei suoi presupposti. Giada Lonati, direttrice sociosanitaria di Vidas, ci descrive chi si rivolge
all'hospice dell'associazione: «Si viene qui quando, di fatto, non c'è più niente da fare dal punto di vista
medico. I parenti di un malato terminale = si trovano, così, di fronte alla terribile § scelta: dove far morire la
persona cara.? Ecco che allora interviene la nostra struttura, perché le cure palliative j non si accostano
solo al malato ma 4 1 * anche alle famiglie, spesso smarrite di fronte a ciò che, obbligatoriamente, presto o
tardi accadrà. E noi cerchiamo i presupposti affinché il paziente possa tornare a casa, per i suoi ultimi
momenti di vita». De Bortoli sottolinea: «Giovanna Cavazzoni ha costituito con Vidas un gruppo di
volontariato che è un esempio di misericordia civile, che ha a cuore il prossimo. È questa la missione vera
di Vidas. Non è solo cura del malato, ma farsi carico delle famiglie che sopportano quel dolore. Una
comunità non ha solo un "interesse" e quando accompagna le famiglie in questo modo dimostra una
compassionevole misericordia. Perché le persone incurabili non sono oggetti, scarti della società. Sono
cittadini con i loro diritti, i loro affetti personali e quel poco di vita che resta, allora, va vissuto bene». Eppure
la paura e il dolore finiscono per mischiarsi e confondersi... «Noi cittadini moderni», risponde De Bortoli,
«abbiamo paura della morte e del dolore. Così, la morte viene esorcizzata. Nella civiltà contadina, invece,
la morte faceva parte della quotidianità; oggi no, e siamo impreparati, rimuoviamo e non troviamo mai le
parole che servono ad accompagnare le persone. Il dialogo è diventato difficile proprio in una società così
iperconnessa. Siamo diventati più bravi a parlare al mondo piuttosto che con chi soffre, mentre questo
dovrebbe essere un impegno da buon cristiano. Perfino nella liturgia, oggi la morte tende a essere
nascosta, perfino nelle camere mortuarie degli ospedali». I 34 anni di Vidas fanno sì che l'associazione sia
pronta per un nuovo passo, quello del Progetto Casa del sollievo per cure gratuite destinate a bambini e
adolescenti con malattie inguaribili. La realizzazione è avviata, i lavori inizieranno in primavera e il centro
dovrebbe essere aperto a marzo 2018, di fianco all'hospice Casa Vidas, in via Ojetti a Milano. Al progetto
ha dato forza anche una campagna pubblicitaria dell'agenzia Armando Testa, con molti personaggi celebri
che hanno aderito come testimonial, da Silvio Muccino (che ha curato la regia di uno spot) a Teresa
Mannino, dal duo Ale e Franz a Philippe Daverio. Lo slogan scelto dall'agenzia pubblicitaria è chiarissimo:
"Tutti siamo stati bambini. Non dimentichiamolo". Ma quanti sono i minorenni che necessitano delle cure
palliative? In Lombardia, secondo i dati forniti da Vidas, sono 1.200 ogni anno, 400 dei quali con malattie
oncologiche. In tutt'Italia, ogni anno i minori terminali sono, invece, 11 mila. «La Legge 38», dice Giada
Lonati, «sancisce il diritto dei minori alle cure palliative. Ma c'è un passo in avanti da fare dal punto di vista
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 11/02/2016
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FERRUCCIO DE BORTOLI NUOVO PRESIDENTE VIDAS
11/02/2016
Pag. 38.39.40 N.7 - 14 febbraio 2016
diffusione:327984
tiratura:382575
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 11/02/2016
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culturale. Le cure palliative, purtroppo, sono associate ancora alla morte piuttosto che a un tratto di vita».
Ancora De Bortoli rafforza il concetto: «Le cure palliative sono una necessità vitale di una società civile».
Ma perché un giornalista come lui decide di accostarsi a questo mondo? «Ero nel consiglio
d'amministrazione di Vidas da una decina d'anni ma mi considero quasi un praticante», dice sorridendo.
«Per me è una forma d'arricchimento culturale, quasi una sorta di legge del contrappasso rispetto al
mestiere del giornalismo, spesso ritenuto, e non a torto, un lavoro cinico. Quello che posso dire con
certezza è che il volontariato è un capitale sociale molto diffuso. La società italiana è più sana di quella che
descriviamo noi giornalisti».
«IMPREPARATI ALLA MORTE, RIMUOVIAMO E NON TROVIAMO MAI LE PAROLE CHE SERVONO AD
ACCOMPAGNARE LE PERSONE»
GIADA LONATI Direttrice sociosanitaria di Vidas. Prende in carico i malati e le loro famiglie.
AL LAVORO Sopra: un gruppo di operatori sociosanitari presso l'hospice Casa Vidas in via Ojetti a Milano.
Le famiglie smarrite qui trovano aiuto.
Foto: UN NUOVO HOSPICE Ferruccio De Bortoli (anche a destra) e Giovanna Cavazzoni alla
presentazione del Progetto Casa del sollievo, destinato alla cura di bambini e adolescenti con malattie
inguaribili. Sotto: Casa Vidas a Milano.
11/02/2016
Pag. 76 N.6 - 17 febbraio 2016
diffusione:314113
tiratura:449347
Francesca Solari
In questi giorni sta facendo discutere e sta occupando ampio spazio sui media un argomento piuttosto
spinoso: l'uso terapeutico della Cannabis. 11 Ministero della Salute ha infatti depenalizzato la violazione
delle procedure di coltivazione, specificando però che l'iniziativa si riferisce esclusivamente agli impianti
autorizzati alla produzione a fini medici. Non solo: da qualche giorno la Regione Lombardia ha dato il via
libera alla Cannabis terapeutica, in relazione a cinque precisi tipi di patologie per curare le quali potranno
essere usati specifici farmaci che ne contengono i principi attivi (vedi box per l'approfondimento). Come
recepire questa novità? Quali implicazioni può avere? Quali sono le situazioni e le patologie per cui l'uso
terapeutico della Cannabis può effettivamente rivelarsi efficace e perché? Abbiamo cercato di sciogliere
questi dubbi interpellando il professor Mauro Porta, neurologo presso il Gruppo Ospedaliero San Donato.
Per prima cosa ci aiuta a inquadrare, con un po' di numeri, la portata dei consumi di cannabinoidi a livello
mondiale. «Nel mondo i consumatori sono 160 milioni, il che significa il 4 per cento della popolazione
globale. Il business generato da questi consumi si attesta sugli 11 miliardi di dollari. Va poi aggiunto che, fra
le persone che iniziano a consumare abitualmente Cannabis prima dei 25 anni di età, il 50 per cento
sperimenta, successivamente, anche quello di cocaina e il 10 per cento addirittura quello di eroina».
Bisogna gestire le conseguenze Le cifre riportate dall'esperto non vogliono innescare giudizi, ma riportare
l'attenzione sul fatto, non trascurabile, che la Cannabis è una sostanza che crea dipendenza e che questo
è un fatto da prendere in considerazione in relazione al suo uso in ambito terapeutico, valutando
attentamente le condizioni del paziente, le caratteristiche della sua malattia, la sua aspettativa di vita. «Le
patologie individuate dal decreto del Ministero della Salute e recepite da alcune Regioni italiane
contemplano, fatta eccezione per l'anoressia nervosa, dolore e spasmi: si tratta infatti della sclerosi
multipla, delle lesioni del midollo spinale, del dolore cronico causato dai tumori e della sindrome di
Tourette», spiega il professor Porta. «Personalmente sono, però, dell'idea che l'uso terapeutico della
Cannabis possa essere, oltre che efficace, davvero sicuro limitatamente ai casi dell'anoressia e del dolore
cronico di tipo oncologico», specifica. Vediamo ora il perché, capendo come agisce la Cannabis sul nostro
organismo. «11 principale agente psicoattivo della cannabis è il THC (delta-9-tetraidrocannabinolo). Questa
sostanza ha numerosi effetti sull'organismo: determina l'aumento della frequenza cardiaca e l'appetito;
porta a una diminuzione della pressione intraoculare, può indurre nausea e abbassare la pressione. Alcune
alterazioni coinvolgono soprattutto la sfera psichica: la Cannabis amplifica i sensi, ma al contempo provoca
un ottundimento delle cosiddette funzioni corticali superiori, quali memoria, linguaggio, capacità di
ragionamento e pianificazione. Apatia, stati allucinatori, paura di morire, momenti depressivi alternati a
euforia sono ulteriori, tipiche alterazioni provocate dalla Cannabis», spiega l'esperto. Così inibisce i segnali
dolorosi Il legame dei cannabinoidi a particolari recettori, poi, fa sì che inibiscano i segnali dolorosi, mentre
l'attività del THC sull'ipotalamo, struttura del sistema nervoso centrale che, fra le varie funzioni, ha quella di
regolare l'appetito, spiega il perché lo stimoli. La Cannabis che i consumatori abituali assumono in forma di
hashish (ossia di resina) oppure di marijuana (foglie secche), contenenti entrambi percentuali di THC
variabili dal 10 al 20 per cento, viene utilizzata in ambito farmaceutico per produrre alcuni medicinali. «Nel
somministrarli ai pazienti, però, non vanno trascurati gli effetti collaterali generati dalla dipendenza
provocata da questa sostanza, soprattutto ansia e inquietudine; ritengo dunque che andrebbero evitati per
curare quei pazienti le cui malattie comportano stati psicotici, tic, forme ossessivocompulsive. In questi casi,
infatti, la situazione potrebbe peggiorare; ecco la ragione per cui avrei delle riserve a impiegarli per la cura
della sindrome di Tourette, un disordine neurologico caratterizzato dalla presenza di tic motori e disturbi
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 11/02/2016
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IL GOVERNO "SDOGANA"LA CANNABIS , MA SOLO A SCOPO
TERAPEUTICO, PER COMBATTERE IL DOLORE "
11/02/2016
Pag. 76 N.6 - 17 febbraio 2016
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TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 11/02/2016
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ossessivo-compulsivi, che esordisce nell'infanzia ma tende a sparire in seguito, o nella sclerosi multipla.
Uno studio ha dimostrato che il consumo protratto di Cannabis può provocare anomalie cerebrali,
riducendo del 10 per cento il volume dell'ippocampo (una parte del cervello che svolge un ruolo importante
nella memoria a lungo termine e nell'orientamento, ndr) e dell'amigdala, una parte del cervello che gestisce
le emozioni», chiarisce il neurologo. Queste riserve possono cadere se si parla della cosiddetta "terapia del
dolore" riferita ai malati di tumore: per i pazienti oncologici i farmaci a base di Cannabis possono lenire il
dolore acuto e ridurre il consumo di antidolorifici. Per indurre la fame nei casi di anoressia Anche nei casi
gravi di anoressia il loro impiego potrebbe aprire nuove prospettive: come già evidenziato, il principio attivo
della marijuana invia un messaggio di fame anche quando il corpo è sazio, e ciò potrebbe essere di aiuto
come "trattamento d'urto" nel momento in cui l'eccessivo calo di peso dovesse mettere a rischio la vita.
[email protected] Sopportare il dolore non e facile, soprattutto quando diventa cronico e accompagna la
vita di un malato giorno e notte. Per questo, una volta riconosciuti gli effetti terapeutici delia Cannabis nel
trattamento del dolore, il Governo ha permesso il suo utilizzo. Naturalmente solo in ambito terapeutico e
sotto stretto controllo medico.CRONACA 01 UN PERCORSO ACCIDENTATO, CON QUALCHE
IMPRECISIONE
farmaci: i primi ietti pronti entro giugno Verso la fine dello scorso anno il ministro della Salute Beatrice
Lorenzin e quello della Difesa, Roberta Pinotti, hanno dato il loro ok alla produzione di Cannabis
terapeutica nello stabilimento chimico farmaceutico gravi patologie, dalla Sia alla sclerosi multipla, per i
quali si ritiene che questi farmaci possano essere utili. Nel mese di dicembre uno specifico decreto legge, il
"Decreto Lorenzin", ha regolamentato per la prima volta in Italia la coltivazione, produzione e distribuzione
di medicinali di origine vegetale a base di Cannabis: è stato inoltre comunicato che i primi lotti di farmaci
prodotti a Firenze sarebbero stati pronti e messi in vendita entro i primi sei mesi di quest'anno. Nel mese di
gennaio, poi, un decreto legislativo approvato dal Governo ha depenalizzato gli illeciti di carattere
procedurale commessi dai produttori di Cannabis a uso terapeutico e ciò ha dato adito a fraintendimenti. Il
ministro della Salute ha però precisato che l'iniziativa non deve essere interpretata come un passo verso la
legalizzazione dì questa sostanza, sulla quale si è detta contraria: ribadendo che questa depenalizzazione
non riguarda il consumo generale o la coltivazione per uso personale. Le novità non finiscono qui. Con il
nuovo anno, la Regione Lombardia ha inoltre autorizzato l'uso della Cannabis per fini terapeutici per 5 tipi
dì patologie. Il Servizio Sanitario regionale offrirà gratuitamente farmaci a base di Cannabis a circa mille
pazienti affetti da diverse patologie per le quali si ritiene possano essere utili: malati di tumore in cura
chemioterapica o radioterapia, malati di AIDS, ma anche di anoressia, sclerosi multipla e sindromedi
Tourette. La Lombardia si aggiunge cosi ad altre Regioni che hanno già dato il via libera da mesi
all'iniziativa: fra queste spiccano Liguria, Veneto, Emilia Romagna. Toscana, Sicilia e Abruzzo, che a
questo riguardo hanno già emanato specifiche leggi regionali.
12/02/2016
Pag. 15
diffusione:26983
tiratura:32866
Una rete coordinata per le cure palliative
Una rete coordinata per le cure palliative
La giunta punta a organizzare il riassetto su base regionale con un organo di coordinamento alla Direzione
centrale Salute
LA STRUTTURA SUL TERRITORIO Le Aziende dovranno fare riferimento al medico di famiglia di Diego
D'Amelio wTRIESTE La Regione mette mano al riordino delle reti per le cure palliative e la terapia del
dolore, con la delibera di giunta che punta a organizzare su base regionale l'assistenza per il trattamento
dei pazienti cronici, delle malattie degenerative e del fine vita. Il riassetto, previsto entro giugno, è parte
della riforma sanitaria portata avanti dall'assessore alla Salute Maria Sandra Telesca, ma era stabilito dalle
norme statali già da alcuni anni, per uniformare le reti locali su cui finora le Aziende si sono mosse in ordine
sparso. La rete per le cure palliative riguarda l'insieme degli interventi terapeutici e assistenziali rivolti al
paziente e alla sua famiglia, finalizzati ad accompagnare il decorso di malattie destinate a concludersi con
la morte, per le quali le cure specifiche non esistono o non dimostrano più efficacia. Il caso tipico è quello
dei tumori. La rete si occupa del controllo del dolore e di altri sintomi invalidanti, ma anche del sostegno
psicologico e spirituale, al fine di garantire il miglior stile di vita possibile alla persona presa in carico. Le
cure palliative saranno organizzate sia a livello ospedaliero che territoriale, per permettere la continuità
della cura nei quattro ambiti di presenza del malato: l'ospedale, le strutture socio-sanitarie, gli hospice e il
domicilio. L'assistenza ospedaliera avverrà in regime ambulatoriale o di degenza, ma sarà il territorio a
svolgere una parte importante del lavoro: ogni distretto avrà allora un'unità dedicata, composta da medici,
infermieri e riabilitatori specializzati, in collegamento con il medico di famiglia, incaricato di coordinare gli
interventi di base e la comunicazione con il paziente e la famiglia. Ogni Aas affiderà ad un medico esperto
la direzione del servizio, che funzionerà sette giorni su sette, prevedendo anche la pronta disponibilità sulle
24 ore, in considerazione del fatto che la gestione della malattia si complica con il procedere del suo
decorso. La rete della terapia del dolore coinvolge invece il trattamento di malattie croniche, attraverso
farmaci, operazioni chirurgiche, interventi strumentali, riabilitazione e supporto psicologico. Tale approccio
integrato si propone di eliminare o almeno ridurre il dolore, a prescindere dalla sua origine, favorendo la
reintegrazione del paziente nel proprio contesto sociale e lavorativo. Nonostante il quadro nazionale
permetta un centro ospedaliero specializzato ogni 2,5 milioni di abitanti, la specialità consente alla Regione
di mantenerne in vita tre: a Trieste, Udine e Pordenone, rispettivamente negli ospedali di CattinaraMaggiore, Santa Maria della Misericordia e Santa Maria degli Angeli. Il primo passo per sottoporsi alla
terapia si compirà tuttavia dai medici di famiglia, che misureranno intensità del dolore e impatto sulla qualità
della vita. I casi saranno inquadrati in tre livelli di gravità crescente, a seconda della complessità della
patologia, dei farmaci somministrati (dal paracetamolo agli oppioidi) e degli interventi più o meno invasivi
richiesti. Il riassetto classificherà inoltre le strutture a seconda del livello di assistenza erogato, con
l'individuazione di "hub" esterni alla rete locale di riferimento per trattare i casi più spinosi. Per le situazioni
più semplici, l'assistenza sarà invece svolta nei centri ospedalieri specializzati, negli ambulatori ospedalieri
e territoriali oppure dai medici di famiglia, senza escludere anche in questo caso la dimensione domiciliare.
Ad assicurare l'uniformità organizzativa e di servizio, c'è inoltre la creazione di un organo di coordinamento
presso la Direzione regionale Salute, dove saranno rappresentate tutte le specializzazioni e le professioni
coinvolte. Il coordinamento fornirà supporto tecnico alle Aziende, valuterà lo stato d'attuazione delle reti,
monitorerà i dati su base annua, parteciperà alla programmazione futura, oltre a curare la formazione
specifica del personale, che già oggi prevede la conoscenza del campo delle cure palliative per tutti gli
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 12/02/2016
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Una rete coordinata per le cure palliative La giunta punta a organizzare il riassetto su base regionale con
un organo di coordinamento alla Direzione centrale Salute LA STRUTTURA SUL TERRITORIO Le Aziende
dovranno fare riferimento al medico di famiglia
12/02/2016
Pag. 15
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infermieri operanti nell'assistenza domiciliare. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
TERAPIA DEL DOLORE - Rassegna Stampa 12/02/2016
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