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06H 188 - Rimango qui ancora un po IMPtagliato
LIBROTECA PAOLINE 188 Elena Miglioli - Renato Bottura RIMANGO QUI ANCORA UN PO’ Storie di vita e segreti di longevità Prefazione di Umberto Veronesi PAOLINE Editoriale Libri © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2015 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it [email protected] Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI) Il vento mi chiama e con voce carezzevole sussurra nelle mie orecchie: « Fra poco non è forse ora di andare in quel mondo? ». Allora io di getto rispondo: « Rimango qui ancora un po’, perché ci sono cose che vorrei ancora fare », e il vento, rassegnato, in silenzio se ne va. Shibata Toyo, 100 anni, La risposta* * In Se sei triste guarda il cielo, Mondadori, Milano 2012. Shibata Toyo è una poetessa giapponese morta il 20 gennaio 2013 all’età di 101 anni. PREFAZIONE Queste delicate storie di centenari narrate da Elena Miglioli, unite alle considerazioni scientifiche di Renato Bottura, contribuiscono a una delle riflessioni centrali dei nostri giorni: come diffondere la coscienza che la longevità è un patrimonio. Io credo sia necessaria e urgente una rivoluzione culturale che convinca che una lunga vita ha un valore concreto se l’anziano è nella condizione di trasmettere le proprie idee. Per questo bisognerebbe esplorare la mente senile nella sua profondità – come fa Elena nei suoi ritratti – che è l’esatto contrario di ciò che avviene oggi nelle società occidentali, in cui più si invecchia e meno si viene considerati. In realtà, dal punto di vista del pensiero, la vecchiaia è l’età umana più prolifica e profonda perché pone di fronte alle domande fondamentali sul senso della vita e la sua fine. Molti uomini di pensiero, artisti e scrittori hanno dato il meglio di sé da anziani. Pensiamo a Chagall nella pittura, a Montale e Vicente Aleixandre nella poesia o a De Oliveira nel cinema. Ho sempre sostenuto che la nostra età è l’età della nostra mente e in gran parte dipende da noi mantenere giovane il nostro cervello. La scienza ha dimostrato, infatti, che il cervello può non invecchiare, perché ha una riserva di cellule 7 staminali proprie, in grado di rigenerare costantemente le cellule cerebrali (i neuroni) che vanno perdute. Dunque, dal punto di vista anatomico non esiste un irreversibile decadimento cerebrale, se non in presenza di specifiche malattie; anzi, con il tempo aumentano le sinapsi, le strutture che permettono i collegamenti fra neuroni. Questo significa che con il passare degli anni si può perdere la memoria ma continuare a sviluppare la capacità logica e creativa. Quindi la buona longevità non è privilegio dei pochi favoriti dal destino, ma è anche una costruzione personale. Come nutriamo il nostro corpo con il cibo e lo teniamo attivo con il movimento, così dobbiamo alimentare il nostro pensiero con la conoscenza. In ogni età della vita è importante conservare la curiosità intellettuale e costruire e difendere il proprio sistema autonomo di pensiero. I modi per farlo sono molti e alla portata di tutti: leggere, scrivere, frequentare dibattiti. La mente va mantenuta attiva nella consapevolezza che la propria « produzione intellettuale » non è una mera soddisfazione del proprio ego, ma può diventare un’eredità condivisa dalle nuove generazioni. È così che, come accennavo all’inizio, la longevità diventa patrimonio. Uno dei motivi principali per cui tutti noi temiamo la vecchiaia – e la morte a cui la vecchiaia inesorabilmente ci avvicina – è l’oblio. Molti pensano che scacciare questa paura sia uno dei fondamenti delle religioni rivelate, che assolverebbero un ruolo consolatorio. Anche il pensiero razionale ha trovato tuttavia una sua risposta, perché per la scienza ha individuato due forme di « immortalità ». La prima è quella del DNA, che si trasmet8 te dai genitori ai figli di generazione in generazione, la seconda è quella delle idee. In realtà, questa ipotesi nasce dalla filosofia, perché il primo a teorizzare la sopravvivenza intellettuale fu Platone, il quale nel Fedone racconta che Socrate, condannato a morte per empietà (aveva dichiarato pubblicamente di non credere agli dèi), afferma di non essere angosciato per la morte fisica del proprio corpo, perché la propria anima sopravviverà. Ma nella filosofia socratica per « anima » si intende il proprio pensiero. Infatti Socrate è ancora vivo: dopo 2400 anni stiamo dibattendo di lui, poiché le sue idee e il suo insegnamento sono vivi. Ecco come può essere la nostra personale immortalità. Dunque la morte ha un grandissimo valore anche nel pensiero scientifico, tanto da attribuirne ancora di più alla vita stessa, a ogni forma di vita. E di conseguenza la scienza rivaluta anche la vecchiaia, come età della vita dedicata più alla riflessione che all’azione, e quindi come momento di trasmissione dell’esperienza e della saggezza. E aggiungerei anche dell’amore, come ci insegna Elena raccontandoci, nelle prime pagine del libro, della sua nonna Lucia. Umberto Veronesi Direttore dell’Istituto Europeo di Oncologia, Milano 9 Elena Miglioli CENTO DI QUESTI GIORNI A mo’ di introduzione I VECCHI, GIARDINIERI DELLE NOSTRE RADICI « Ve-lo dico e ve-lo nego... Ve-lo torno a dir di nuovo e se non lo capirete... teste d’asino sarete! » « Nooonnaaa, ci arrendiamo, questo indovinello è troppo difficile! » « Nessuno di voi conosce la risposta? Che asini! Vi cresceranno le orecchie, come a Pinocchio. Per non parlare del naso, quello vi si allunga ogni giorno, colpa delle vostre bugie! » « Ihooo, ihooo, ihooo! Nonna, almeno un suggerimento… » « Veee-lo… veee-lo… dico e ve-lo nego… » « ?! » « Insomma: il velo. Ecco la soluzione ». I bambini mimano il raglio dell’animale, scorrazzando attorno al tavolo della cucina. La donna prosegue il suo lavoro imperterrita, fingendo noncuranza. Agita energicamente una bottiglia di vetro dentro la quale, di lì a qualche ora, prenderà forma un panetto di burro. È un’operazione magica, come le filastrocche e gli indovinelli che spuntano sulla sua lingua. Le lettere sono zampe di millepiedi che saltellano fuori dalle labbra, scivolano nelle tasche del grembiule, si nascondono dietro ai cuscini. 13 Nonna Lucia è un incantesimo. Le sue filastrocche vengono da quella terra lontana da cui è partita ragaz za per mettere su famiglia. Le ha portate in valigia dal Friuli, insieme alla dote delle nozze. Sanno di polenta e formaggio. Profumano di mosto e brace. Hanno il suono delle cantilene riscaldate nei camini fumanti, girate e rigirate dentro i pentoloni di rame sul fuoco scoppiettante che culla le sere come una ninnananna. Quelle mani di piuma hanno munto, cucito, zappato, cucinato, accarezzato, consolato. Gli occhi strappati ai cieli di primavera si sono chiusi davanti agli orrori delle guerre e spalancati come finestre in cerca d’aria pura sui giorni traboccanti di letizia. I vecchi, giardinieri che innaffiano con premura le nostre radici, offrono ponti che resistono ai bombardamenti sui quali camminare per non cadere nel vuoto della memoria. Ci ricordano l’alternarsi delle stagioni. Nelle case della storia erano i pilastri della famiglia: dispensatori di buoni consigli, conforto nelle asperità, slancio rassicurante verso l’avvenire. I vecchi oggi siamo noi, in questo mondo sempre più canuto che pure sbatte la porta in faccia alla vecchiaia e la lascia fuori al freddo, con i piedi nella neve. Quell’ospite respinto che invece entrerebbe a testa bassa e, senza disturbare troppo, si siederebbe umilmente in un cantuccio aprendo un forziere carico di saggezza. Nonna, quando te ne sei andata, ho pianto più dei torrenti che precipitano lungo i pendii della tua Carnia. Sbirciando dalla finestra, dentro la cucina che ora nessuno abita più, ti ho vista ancora a lungo sul divano in 14 pelle marrone che a forza di reggerti aveva trattenuto la forma del tuo corpo ricurvo. Mi sorridevi, facendomi segno di entrare. Ho sempre sospettato che fossi una strega buona. Per questo potevi permetterti di rimanere là dentro un altro po’, accanto alla stufa fumante. Rannicchiata con i pulcini pigolanti che tenevi al caldo nella scatola foderata di cotone, come neonati in un’incubatrice. Anche se dall’Alto ti avevano già assegnato una nuova destinazione. Sei partita troppo presto perché io potessi fermare sulla carta le tue storie. Allora, sulla carta fermo te, mani di piuma e occhi di cielo. Arrivederci, nonna. 15 Parte prima CENTO DI QUESTE NOTE I. UN DO DI PETTO SEMPRE IN VALIGIA « Canta davanti ai denti! » Il maestro si alza, fermandosi accanto al pianoforte. Pianta i piedi sul pavimento quasi fossero radici d’albero, allarga il petto e spara nella stanza un acuto che ha la potenza di un proiettile. È il celebre « do della Pira », il punto più arduo dello spartito del Trovatore di Verdi, dalla cabaletta di Manrico. « Di quella pira l’orrendo foco, tutte le fibre m’arse, avvampò!... Empi, spegnetela, o ch’io tra poco col sangue vostro la spegnerò... Era già figlio prima d’amarti, non può frenarmi il tuo martir. Madre infelice, corro a salvarti, o teco almeno corro a morir! Vedi come faccio io? Canta davanti ai denti: o teeeeeeeeeco almeeeno corro a morir! » Angelo Loforese1 sa ancora raccontare e mettere in pratica, a 95 anni compiuti, i segreti della lirica. Le sensazioni misteriose percepite da un cantante e trasmesse agli allievi attraverso le metafore più singolari. Un linguaggio decifrato solo dagli addetti ai lavori, che 1 La maggioranza dei personaggi descritti in questa prima metà del volume verranno ripresi nella seconda metà, a firma di Renato Bottura, attraverso un’analisi scientifica. Per rispetto della privacy sono stati riportati solo i nomi di battesimo, salvo nei casi di persone note al pubblico. 19 trasforma le parti del corpo in spugne, maschere, tubi, salvagenti e fa galleggiare sul fiato, girare, appoggiare e arrotondare la voce. Quella di Loforese, di voce, è pulita, piena e squillante come ai tempi d’oro della carriera, in giro per i teatri del mondo. Si spande nella stanza dell’appartamento milanese che ha della scenografia di un’opera. Pullula di oggetti, fotografie, ritagli di una memoria traboccante. Per contenerla tutta non basta quell’abitazione. Servirebbero altre stanze. E poi corridoi, balconi, terrazze. Platee, palchi, gallerie, loggioni. Applausi, applausi, maestro. Anche oggi meriterebbe un bel bis urlato a pieni polmoni. Le occasioni non mancano, visto che il tenore si esibisce ancora in qualche concerto come quando, nel dicembre del 2012, ha festeggiato sessant’anni di carriera lirica al Rosetum di Milano eseguendo due do di petto proprio nella cabaletta Di quella pira. Anche se quell’arte, l’arte del bel canto, vissuta con sincerità e dedizione per una vita intera, ha finito in parte per deluderlo. L’arte che per concezione dovrebbe innalzare lo spirito rivela invece i suoi retroscena più opachi, quelli che stanno dietro le copertine patinate delle riviste. Ciò che impedisce alla luminosità di certi talenti di svelarsi come dovrebbero sui palcoscenici, frenati da uno star system spietato. « Quando ho iniziato a fare della mia passione un lavoro pensavo all’arte con la A maiuscola. In realtà ho sofferto, perché anche questo mondo presenta non pochi lati oscuri ». Il camaleontico Loforese riuscì ad attraversare tre registri vocali: nacque come basso, nel 1948 diventò 20 baritono con il maestro Primo Montanari e nel 1950 si trasformò in tenore, grazie agli insegnamenti di Emilio Ghirardini. Fu quest’ultimo a trasmettergli il consiglio cruciale: cantare davanti ai denti2. Il passaggio decisivo al registro di tenore fu determinato anche da un episodio personale che Loforese non ha mai dimenticato. « Dovevo scegliere, ero davanti a un bivio. Così una notte mi apparve in sogno mio padre. Disse che Ghirardini aveva ragione, secondo lui sarei dovuto diventare tenore ». Il padre, profeta onirico, fu anche la persona che per prima introdusse alla lirica il figlio ancora bambino. Dal suo grammofono, che a tutt’oggi troneggia intatto nella casa di via Melchiorre Gioia, uscivano le voci dei miti dell’epoca. Gli studi musicali iniziarono a 18 anni, poi si interruppero nel 1941: durante la guerra Angelo Loforese si trasferì in Svizzera. Al ritorno in Italia ripresero le lezioni e il debutto risale al 1948: il baritono fu Silvio nei Pagliacci. L’esordio tenorile, invece, nel 1952 con Il Trovatore. Di valigie ne fece e ne disfece tante il cantante milanese di nascita e pugliese di famiglia, interpretando oltre ottanta opere nei principali teatri italiani. Europa, America, Africa, Giappone. Spesso veniva convocato a distanza di poche ore dalla recita, anche senza prove. « Ricordo quando mi chiamarono dalla Scala alle tredici per sostituire Corelli. Stavo pranzando. Due ore più tardi entrai in scena. Occorrono nervi saldi, tanto 2 Cioè portare idealmente il suono tra le labbra, escludendo la zona della gola dal processo di emissione della voce. 21 studio e non poca fede per superare ostacoli e paure. Pregare aiuta molto. Un giorno un amico mi disse che Dio mi aveva donato la voce e che io avrei dovuto restituirgliela attraverso il pubblico ». Però, oltre che con le preghiere, l’ansia si poteva esorcizzare anche con esercizi più modesti: i cruciverba. Qualche pagina della Settimana enigmistica prima della recita e tutto filava liscio. Senza contare il sostegno prezioso della moglie, che seguiva il marito con amore e pazienza, più di una volta da casa, per crescere i due figli, maschio e femmina. « Anche perché quando veniva ad ascoltarmi si chiudeva in camerino, non riuscendo a reggere l’emozione ». Quella moglie mai gelosa delle altre cantanti, dote indispensabile per amare un uomo immerso nella ba raonda dello spettacolo. Gli suggeriva di stringerle un po’ quelle donne, di non essere troppo freddo con loro. La coppia si incontrò grazie a un trabocchetto della futura suocera che mandò la figlia a studiare canto dalla stessa insegnante di Loforese. Anche se la ragazza non proseguì gli studi, quelle prime lezioni incrociate furono galeotte. Di un rapporto straordinario, basato sulla reciproca fiducia, resta oggi solo un tenero ricordo. La signora Loforese se n’è andata da quasi un ventennio: si è spenta alla vigilia di Natale, senza far rumore, così come silenziosamente accompagnava il marito da lontano in tutte le sue esibizioni. Date, libretti, incontri, amicizie, persone, luoghi. Il novantenne parla e canta senza fermarsi e viene da chiedersi dove peschi ancora quell’entusiasmo, quella pro22 fondità di animo e di pensiero. Come si può invecchiare così bene? « Ho puntato sui valori, sulla semplicità, sul rispetto degli altri, re o persone umili che fossero. E poi ci vuole tanta passione. La musica stimola il cervello. Ma anche la cultura che bisogna farsi per cantare aiuta. Io ho sempre letto i romanzi da cui sono tratte le opere che ho interpretato per potermi immedesimare meglio ». Suona il campanello. Loforese interrompe il discorso e si avvia verso la porta. Apre. « Buongiorno, maestro ». « Avanti il prossimo ». Entra un giovane con le partiture sottobraccio. Un aspirante cantante o un professionista già formato, anche lui in cerca di suggerimenti da una delle più belle voci del Novecento. Pronti? Dosare il fiato, rallentare la risalita del diaframma. Poi recitare, calandosi nei personaggi, nei loro stati d’animo. E, soprattutto, cantare davanti ai denti. 23