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Giobbe faccia a faccia con Dio

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Giobbe faccia a faccia con Dio
BASILICA PARROCCHIALE S. FRANCESCO
P.ZA S. FRANCESCO ALLA ROCCA N.6
01100 VITERBO
Incontri biblici del Giovedì
Tel.: 0761-341696
Fax: 0761-347287
Sito Web:
www.sanfrancescoviterbo.
Giobbe faccia a faccia con Dio
Scheda n.19
Ricavata da vari testi di Gianfranco Ravasi
Giobbe faccia a faccia con Dio
1. Alla ricerca del vero volto di Dio
Il libro di Giobbe cristallizza al proprio interno una voce che risuona nel deserto del dolore, un grido verso Dio. Egli lancia il
suo grido sempre e solo verso l'alto e non attende altra risposta se non quella che discenda dall'alto: è vana quella che proviene
dagli amici e, se si vuole, è vana pure quella fornita dalla sua stessa intelligenza e dall'esperienza personale precedente. La sua
voce è la voce di un sofferente, ma anche la voce di un credente.
Parlare di Dio non significa far chiacchiere al suo riguardo, come secondo Giobbe fanno i suoi amici. Parlare, nel linguaggio
biblico, significa scoprire il senso. Detto altrimenti, si tratta di scoprire Dio proprio in quel terreno nel quale di solito è più facile
che germoglino le bestemmie o le apostasie. In questo, il libro di Giobbe è estremamente originale rispetto a tutto l'Antico Testamento, solitamente più incline a vedere Dio nell'epifania gloriosa su un monte, nelle solennità del tempio, nei momenti prosperi della nazione, nella fertilità dei campi: sono situazioni e immagini di festa, di gioia, di luce.
Giobbe invece sospetta di tutte queste immagini: è convinto che si parla di Dio in maniera più giusta, scoprendone il vero volto,
nel tempo della sofferenza. L'intuizione fondamentale di Giobbe è questa: quando si è nel dolore, bisogna avviarsi sulla strada
della fede personale per cercare un incontro diretto con Dio, senza lasciarsi distrarre dai percorsi prefabbricati, dalle spiegazioni
di seconda mano. Il dolore è il momento ideale per parlare di Dio in modo puro, impedendosi di dare ascolto a tante motivazioni
che non sono libere e disinteressate; nella prosperità, infatti, si hanno tutte le ragioni per lodare Dio e per incontrarlo.
2. Una lotta con Dio
Proprio perché bisogna parlare di Dio e parlarne in modo retto, il libro si configura come un viaggio incontro a Dio, un itinerario
che comprende anche la sfida. Contrariamente all'opinione comune - che ritiene Dio più incline ad andare incontro a chi lo prega, fa le opere buone e se ne sta tranquillo -, Dio accetta la sfida e l'incontro-scontro con Giobbe. La persona ferita, che urla a
Dio tutta la sua desolazione e la sua disperazione, è per il libro di Giobbe l'interlocutore migliore a cui Dio voglia rispondere. E
Dio infatti risponde.
In altri termini, Giobbe sostiene che per scoprire Dio bisogna lottare con lui. La lotta è il momento più forte che genera l'abbraccio. Uno dei quadri più emozionanti della Bibbia è la scena indimenticabile, di Gen 32, quando Giacobbe lotta con un essere
misterioso, identificato dalla tradizione con l'angelo, ma che in realtà è il simbolo di Dio. Giacobbe lotta nella tenebra e all'alba
riesce vittorioso senza conoscere il nome di Dio: Dio resta sempre un mistero, impossibile da ridurre alla propria misura; se questo accade, è perché si è incontrato un intermediario, un angelo o un profeta, ma non lui.
Come Giacobbe, che ha incontrato Dio e che ha lottato con lui, non rimane indenne, ma zoppica, colpito da Dio, anche Giobbe
non esce indenne dal suo incontro con Dio. Anzi, proprio Giobbe, che nel suo dolore si è avvalso della spada della parola, al
termine si ritrova silenzioso, senza più nulla da dire. Dio non compare per distribuire carezze e facili consolazioni, come vorrebbe il finale della parabola che costituisce il prologo e l'epilogo del libro. Il nucleo centrale del libro di Giobbe presenta invece un
Dio lottatore che invita al confronto.
3.Non risposte, ma domande: il «progetto» di Dio
Il confronto si sviluppa in due discorsi divini, cui seguono due balbettanti risposte da parte di Giobbe. Una volta di fronte a Dio,
Giobbe non combatte più, pur essendo invitato e sfidato alla lotta. Il perché lo dirà lui stesso: in quel momento, avrà una visione
diversa, si muoverà a un livello differente da quello della protesta; avrà aperto gli occhi e non sarà più quello di prima. In questa
linea, i capitoli finali forse le pagine più belle e più alte del libro - sono curiosamente intessuti di domande e non di risposte.
Sono ben sedici domande, articolate in sedici strofe. La cifra non è casuale: il numero quattro per la cultura orientale rievoca i
punti cardinali ed è un simbolo di totalità. Dio presenta a Giobbe la totalità dell'essere, ma non spiegandogli come essa è; gliela
presenta coinvolgendolo, sfidandolo a rispondere alle domande che egli pone.
Il primo discorso che è quello dei capitoli 38-39. Rispetto alla cultura dell'antico Oriente, della stessa Bibbia, esso ci offre una
vera e propria rivoluzione copernicana: l'uomo non è più al centro, con la natura relegata a semplice fondale; ora è l'universo,
l'immenso fluire dell'essere, a presentarsi alla piccolezza umana, soverchiandone la capacità di contemplare e di comprendere.
Così, la creazione appare incomprensibile per l'uomo come, ad esempio, il motivo della pioggia nel deserto, che non serve a
nulla (cf. 38,26). Questo mondo, nella dimensione dell'infinitamente grande, delle strutture cosmiche, gli appare ignoto. Gli appare incomprensibile e ignoto anche nella dimensione dell'infinitamente piccolo, il livello atomico o subatomico, diremmo noi,
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rappresentato qui in modo tutto orientale, nel parto delle camozze o capre nubiane (cf. 39,1).
Eppure questo universo, di cui l'uomo afferra soltanto alcuni elementi, è coerente e unitario, perché frutto di un «progetto». Questo termine fondamentale, in ebraico esa (38,2), intende un disegno dinamico concepito col rigore della mente, come l'architettura di un edificio o la trama di un romanzo, la raffinatezza di un manufatto o anche il programma di una giornata.
Per l'autore, Giobbe, considerando razionalmente la propria sofferenza, ha tutto il diritto di urlare e di ritenere il dolore insensato; tuttavia, se condotto da Dio - giacché da soli è impossibile - egli adottasse il punto di vista divino, riuscirebbe a vederne tutto
intero il progetto. Tale progetto non si riduce a qualcosa di misterioso, da accogliere senza discutere, sulla falsariga del credo
quia absurdum.
Non è possibile affermare che Dio agisca in modo arbitrario secondo piani incomprensibili. Piuttosto, i discorsi attribuiti a Dio
mostrano come il suo progetto e la sua azione corrispondente garantiscano una reale unità del cosmo, nonostante i limiti della
conoscenza umana, in modo che all'interno dell'essere esista per così dire - una metarazionalità, una ragione più alta, un significato coerente trascendente.
Il comportamento iniziale di Giobbe (cf. 1,21: «Dio ha dato, Dio ha tolto, sia benedetto il nome del Signore») si avvicina alla
tradizione coranica per la quale Dio considera la sua creatura «come il cadavere nelle mani del lavatore». Il cadavere - che non
può in alcun modo reagire: è un corpo morto, - è in stato di totale passività nelle mani di colui che prepara la salma per il funerale. L'intervento divino denuncia come inadeguato un tale comportamento: Dio non vuole questa passività; anzi, si presenta a
Giobbe per mostrargli il suo grande disegno.
La gragnuola di domande presenti nei capitoli 38-39 ha lo scopo di dimostrare a Giobbe che esiste una logica suprema (esa) che
raccoglie tutto l'essere e tutta la storia in un disegno efficace, capace di armonizzare in sé anche ciò che la mente di Giobbe trova
incomprensibile, disarmonico e scandaloso.
Il testo presenta un'elaborazione teologica in senso stretto; il Dio di cui parla non è un gorgo oscuro e tenebroso, in cui si precipita e si viene risucchiati come in un buco nero. È piuttosto un Dio personale, che ha un progetto e una volontà; tuttavia, egli è
trascendente e il suo sguardo come quel suo disegno generale sull'essere è infinito ed eterno.
4. Le meraviglie del creato e il silenzio di Giobbe
Le sedici domande rivolte da Dio a Giobbe appartengono a una specie di grande affresco, che si distende in scene straordinarie,
ricche di figure e di colori: gli studiosi usano parlare, alla tedesca,di«letteratura delle meraviglie». con la quale si mostra la
complessità del reale.
Si rappresentano innanzi tutto le grandi strutture cosmiche. La terra viene concepita come una piattaforma, posta su enormi colonne, che si regge al di sopra del mare, simbolo del caos. Nella pagina bellissima di Gb 38,8-11 si rappresenta l'oceano come
un bimbo appena uscito dal grembo, agitato al punto che non si riesce a trattenerlo, avvolto nelle fasce delle nubi ma perennemente in moto; oppure come un carcerato incatenato al limite della battigia, ma in continua agitazione.
La creazione non è tranquilla e quieta, comprende anche il caos, la minaccia del nulla e del non senso; eppure in essa tutto si
tiene, secondo le disposizione divine: «Tu – vien detto all'oceano - fin qui giungerai e non oltre, qui si infrangerà l'orgoglio
delle tue onde». L'aurora è rappresentata come una massaia mentre scuote via dal tappeto multicolore del mondo i malvagi che
temono la luce, che vivono nella notte. L'aurora è protagonista in altre scene successive: sotto il suo dolce splendore prende forma la terra come un pezzo di argilla sulla quale non sia ancora inciso il sigillo, non vi sia ancora alcun disegno. Al mattino,
quando si stende la luce del sole, tutto ciò che prima era oscuro e indistinguibile, diventa luminoso, come un grande disegno. Il
poema poi descrive il giorno e la notte, la neve e la grandine, i ghiacci e la brina; compaiono pure il calore dello scirocco e la
pioggia che, cadendo sulle solitudini desertiche, fa sbocciare qua e là germogli privi di futuro, ma detentori anch'essi di una peculiare funzione nell'universo.
Lo sguardo muove verso il cielo dove occhieggiano le costellazioni delle Pleiadi, di Orione, dell'Orsa e dello Zodiaco, tra loro
legate da misteriosi vincoli che stringono anche la terra e gli uomini, secondo le credenze popolari di allora, ma anche di oggi.
Seguono versetti affascinanti sui fenomeni atmosferici, sulle nubi, ad esempio: «Le nubi come otri che si inclinano versando la
pioggia sulla terra». Secondo l'antica credenza, le previsioni meteorologiche erano affidate all'ibis, l'uccello che soprattutto in
Egitto si riteneva segnasse il tempo e le piene del Nilo, e al gallo, altro animale considerato una sorta di barometro vivente.
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L'obiettivo poi si sposta in una selva con i leoncelli appiattati e pronti a balzare per afferrare la preda, il nutrimento che li farà
crescere forti. Dio ha pensato anche a questo intreccio - per altro un po' scandaloso -, ma che permette la sopravvivenza delle
specie. Ci sono i corvi che si agitano nel nido e lanciano al cielo il loro gracchiare affamato, e Dio si preoccupa anche di loro.
Il poema mostra uno stupore particolare, che forse può sorprendere, per l'animale chiamato yael, termine di solito tradotto con
«camoscio», al femminile «camozze» nella traduzione della CEI; in realtà, si tratta della capra nubiana, che vive tra i dirupi bruciati dal sole e dal sale presso le coste del mar Morto. Gli antichi zoologi si interessavano in maniera particolare di questa capra,
di cui ignoravano la fisiologia riproduttiva. Quando la capra è gravida, infatti, fugge fra le rocce e le rupi più impervie e non è
possibile osservarla, se non quando ricompare col suo piccolo. Perché si ricorre a questa immagine? Per dire a Giobbe che anche per realtà limitate e di poca importanza, non certo grandiose e drammatiche come il dolore, gli uomini non hanno potuto
trovare una spiegazione; eppure anch'esse hanno un senso, un frutto di vita. Segue una rassegna di misteri della natura, tra cui
l'asino selvatico, l'onagro, pervaso da un'irresistibile voglia di libertà, che gli fa preferire terre salmastre e inospitali alla ricca
pastura di una greppia domestica. Allo stesso modo, il bufalo, eccezionale condensato di forza, non può essere piegato dal giogo al lavoro agricolo, se non raramente. Perché Dio ha creato nel mondo anche queste energie incontrollabili?
Un gioiello a sé stante è l'unica strofa non formulata come interrogativo: è il ritratto dello struzzo (39,13-18), animale molto
diffamato in Oriente al punto che ancora oggi nel mondo arabo si dice «stupido come uno struzzo»: si riteneva infatti che, dopo
aver deposto le uova sotto la sabbia, ne dimenticasse l'ubicazione, lasciando che altri animali le calpestassero o finisse per calpestarle egli stesso. In realtà, il caldo sviluppato dalla sabbia la rende un'ottima incubatrice per le uova.
Soprattutto, lo struzzo era irriso per il suo strano piumaggio da cicogna, che rendeva ancor più ridicolo il suo goffo agitarsi, le
sue forme strane. Non esiste, tuttavia, animale più veloce di lui, dotato di una straordinaria capacità di corsa, che lo mette in
grado di evitare tutti i pericoli. La descrizione è molto vivace: «L'ala dello struzzo batte festante, ma è forse penna e piuma di
cicogna? Abbandona infatti alla terra le uova e sulla polvere le lascia riscaldare, dimentica che un piede può schiacciarle, una
bestia selvatica calpestarle. Tratta duramente i figli, come se non fossero suoi, della sua inutile fatica non si affanna, perché
Dio gli ha negato la saggezza e non gli ha dato in sorte discernimento. Ma, quando giunge il saettatore egli fugge agitando le
ali: si beffa del cavallo e del suo cavaliere» (39,13-18). Lo struzzo diviene così l'emblema di come nel cosmo si uniscano mancanza di senno e abilità, assurdità e ordine: non esiste realtà che non abbia aspetti positivi.
L'accenno al cavallo fa da transizione verso una delle pagine più belle in assoluto. Il cavallo in battaglia era, nell'antico Oriente,
la rappresentazione di quanto più elegante e possente si potesse immaginare. Il poeta si lascia catturare da questa figura, che
rappresenta quella parte del mondo creato da Dio più familiare all'uomo. Tuttavia, anche questa realtà nota esprime un mistero.
La scena è presa dal vivo, una scena di battaglia ove riecheggia un nitrito: «Puoi tu dare la forza al cavallo e vestire di fremiti il
suo collo? Lo fai tu sbuffare come un fumaiolo? Il suo alto nitrito incute spavento. Scalpita nella valle giulivo e con impeto va
incontro alle armi. Sprezza la paura, non teme, né retrocede davanti alla spada. Su di lui risuona la faretra, il luccicare della
lancia e del dardo. Strepitando, fremendo, divora lo spazio e al suono della tromba più non si tiene. Al primo squillo grida:
"Aah! ... " e da lontano fiuta la battaglia, gli urli dei capi, il fragore della mischia» (39,19-25).
Partito dal cielo - con l'aurora, le stelle e le costellazioni -, questo viaggio tra le meraviglie del creato finisce ancora però rivolto
al cielo, ove volteggia maestoso lo sparviero. Dall'alto degli speroni rocciosi, lungo le spirali dei suoi voli, lo sguardo acutissimo
di questo animale si appunta implacabile su una meta. L'autore lo segue, mentre come un proiettile si piomba con impeto nel
fondovalle, su una carogna: ad essa e al suo sangue mira il rapace, con un istinto e un'abilità che nessun uomo saprebbe insegnargli. Tali doti e abitudini (la vista acuta, il gusto della preda, la precisione nell'identificarla) rimangono misteriose nella loro
origine.
Perlustrati tutti e quattro i punti cardinali, il discorso divino dischiude agli occhi di Giobbe una planimetria mirabile che sfugge
al controllo umano e in cui le apparenti contraddizioni hanno un senso e si placano. Giobbe comprende il messaggio: il dolore e
la sofferenza, nel mare di una realtà a volte contraddittoria e altre volte superba, non sono un isolotto refrattario al senso del
tutto, sono da collocare in una realtà più grande. Solo che Dio non spiega tutto: Giobbe e il suo dolore fanno parte del suo disegno e il suo disegno può essere percepito, ma non esaurito.
Giobbe, apostrofato in maniera diretta, reagisce quasi balbettando (cf. 40,1-5). Si esprime con un linguaggio giuridico: «Ecco
sono ben meschino, che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Una volta ho parlato, non replicherò più; due
volte ho parlato, non insisterò più». Nel gergo forense dell'antico Egitto, «chiudersi la bocca con la mano» significava riconoBasilica Parrocchiale S. Francesco
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scere ufficialmente, in sede di giudizio, la ragione dell'avversario o anche l'innocenza dell'accusato. Con questo gesto Giobbe
riconosce l'innocenza di Dio, che egli ha accusato. Il filosofo Ricoeur, in un'altra opera intitolata Le mythe de la peine (“il mito
della pena”), commentava: «Non è una risposta quella che Giobbe ha ricevuto da Dio, ma è il potere di sospendere la sua domanda, comprendendo che c'è un ordine incomprensibile». Questa affermazione riassume davvero il discorso di Dio e la posizione ultima dell'autore del libro di Giobbe. Giobbe sospende la domanda non perché ha trovato la risposta, ma perché ha inteso
che nella realtà regna non l'incomprensibilità cieca e assurda, ma un ordine che egli non riesce ad esaurire e all'interno del quale
deve collocare anche la grande domanda della sua sofferenza.
5. Dio domina la natura e la storia
Tuttavia, Dio pare non accontentarsi e torna ancora all'attacco con un secondo discorso, steso con un linguaggio completamente
diverso. La pagina è di grande bellezza e meriterebbe una lettura molto accurata. Non si compone più di domande (le sedici brevi scene precedenti), ma è fatta invece di due tavole immense, come due grandi quadri dinamici, un vero e proprio solenne dittico (40,7-41,26). Dai bozzetti in successione giungiamo a due quadri potenti: in essi campeggiano due grandi figure, rappresentate in uno stile poetico così differente da quello del primo discorso divino, che alcuni studiosi ritengono di riconoscere la penna
di un altro autore. Questa pagina ha catturato molti lettori soprattutto per uno dei due protagonisti: il famoso Leviatano.
Il filosofo inglese Thomas Hobbes aveva intitolato Leviathan (1651) la sua opera maggiore sulla politica e le strutture degli stati; per la pubblicazione, aveva voluto che sul frontespizio dell'opera apparisse, nel latino della Vulgata, una citazione di questa
pagina: non est potestas super terram quae comparetur ei, «sulla terra non c'è un potere che gli sia simile» (41,25).
Anche Moby Dick, la balena bianca di Melville, è descritta con una citazione letterale di questi capitoli 40-41. Moby Dick è la
rappresentazione del mostruoso presente nella storia; è un romanzo arduo, filosofico, metafisico, di lettura tutt'altro che facile.
Lo scrittore francese Julien Green, riferendosi esplicitamente al testo di Giobbe, ha intitolato Leviathan il suo romanzo in cui
rappresenta il caos, il non senso in cui siamo continuamente immersi.
L'anonimo autore russo de La via di un pellegrino usava la descrizione del Leviatano per rappresentare il demonio, il male.
Il termine liwyatàn contiene una radice arcaica del semitico nord occidentale, la radice ltn, che indica letteralmente l'
«avvinghiarsi», l' «avvoltolarsi» del serpente. Gli animali rappresentati sono però due. Il primo in ordine di apparizione è chiamato béhemòt. Come suona in ebraico, il termine è un plurale femminile: potrebbe essere inteso «gli animali». In realtà si tratta
di una desinenza femminile singolare arcaica: béhemòt è quindi un solo animale, la bestia per eccellenza, che incarna per così
dire le potenze oscure.
Leggendo queste pagine, passo per passo, si nota che béhemòt è rappresentato come un animale acquatico, simile all'ippopotamo, qualcosa di minaccioso che avanza come una grande nave da guerra. Si muove nel mare, nell'oceano, nell'acqua, simbolo
del caos.
E la seconda bestia, il liwyatàn, è chiaramente rappresentato come un enorme coccodrillo che nessuno osa frenare o stuzzicare
mentre nuota nell'oceano, che nessuno osa cacciare con l'arpione. La corazza di cui è rivestito gli conferisce un aspetto bellicoso, le sue fauci mostrano denti terrificanti; quando si leva e si avventa nessuna difesa gli resiste, nessuna arma lo colpisce. Il suo
passaggio sconvolge la natura intera, per mare e per terra. Indimenticabile è la scena finale in cui il Leviatano «con lo starnuto
che irradia luce» e il suo corpo corazzato affonda nel mare in un trionfo di schiuma, proprio come un sommergibile.
L'oceano, simbolo del caos, è l'habitat di entrambi i mostri; essi incarnano tutto ciò che nel mondo è tormentoso, oscuro, privo di
senso, nulla. In realtà, più precisamente, la loro funzione nel discorso divino è quella di rappresentare il caos o il nulla in equilibrio con l'essere: pur attraversato da elementi di disordine e di disarmonia, il mondo continua ad esistere come insieme di opposti. Nell'esperienza degli uomini, anche il dolore (visto come béhemòt e liwyatàn) si accompagna alla gioia, al bene, alla luce.
Ebbene, secondo l'autore, solo il Dio creatore dell'universo è capace di comporre i contrasti temibili tra il caos e l'essere e può
dare un senso anche all'esperienza del male e del dolore.
I due mostri sono infine definiti «i sovrani di tutti i mostri più orgogliosi» (41,26). Anche per questo dettaglio. alcuni studiosi
hanno pensato all'eventualità che i due mostri siano personificazioni del male come agisce nella storia e nelle istituzioni, ossia
delle grandi potenze egemoni dell'antichità: béhemòt potrebbe essere lo stemma della superpotenza orientale, la Mesopotamia,
poiché lungo il Tigri e l'Eufrate un tempo viveva l'ippopotamo; il liwyatàn o coccodrillo, che vive nel Nilo, potrebbe rappresentare l'Egitto, la superpotenza occidentale.
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Perfino lungo il corso della storia, dove si muovono le grandi potenze distruttrici. il potere del caos non domina incontrastato:
anche lì Dio realizza il suo disegno o cesa, unità e senso della realtà intera, nonostante le ingiustizie, le violenze e il dolore
generati dalla libertà umana.
6. «Ora i miei occhi ti vedono»
Al termine del discorso divino, Giobbe pronuncia la sua frase in assoluto più importante. È l'autentica «ultima parola» dell'autore, che spiega in sintesi che cosa il libro intende sostenere. «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono. Per
questo mi ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere» (42,5-6).
Giobbe sostiene di essersi comportato fino a questo momento come i suoi amici, avendo parlato per sentito dire. Anch'egli, come gli amici, desiderava che Dio intervenisse in modo conforme allo schema del proprio ragionamento: se era innocente, perché doveva essere punito? Inconsciamente, Giobbe ragionava come gli amici, voleva che Dio si comportasse razionalmente.
Ma Dio gli ha presentato un altro modo di leggere tutta la realtà; ciò è avvenuto direttamente, senza mediazioni, attraverso un'esperienza di fede diretta, mistica, una visione nella quale Dio ha incontrato Giobbe e gli ha parlato. Per questo, per spiegare il
dolore, nella visione cristiana è fondamentale la presenza di Cristo: egli vive il dolore sulla propria pelle, ma al tempo stesso è
realmente Dio, collocando il dolore all'interno di un disegno differente.
Il poeta biblico perciò non ha voluto fare una teodicea, una giustificazione di Dio. Ha voluto fare una vera teologia, presentando il vero volto e la vera azione di Dio. A questo punto, Giobbe non ha più bisogno che Dio lo guarisca e gli restituisca tutto. Se
ha ripudiato la logica della retribuzione propugnata dagli amici, non può avvalersene ora, non può ricollocare il mistero del dolore in uno schema razionale a misura d'uomo.
Dio non tenta di dimostrare a Giobbe come l'esperienza del male possa coesistere con l'essere e il senso; ma gli dice che questo
incastro esiste. Nel mondo c'è caos ed essere, tenebra e luce, senso e non senso, animali strani e animali utili, tutti insieme all'interno di un disegno non dominabile razionalmente. È un disegno che può essere colto solo per via mistica.
Il poeta biblico è convinto che il terribile e costante scandalo del male non possa essere razionalizzato e addomesticato con un
facile teorema teologico, ma il poeta biblico non si ferma a questa soluzione meramente negativa. Egli è convinto che esiste una
razionalità superiore, un disegno o ‘esa di Dio che riesce a contenere al suo interno ciò che per l'uomo sembra uscire da ogni
progetto. Ma si tratta di un'armonia reale, che si percepisce soltanto attraverso la rivelazione, se Dio la mostra in azione.
7. Conclusione
È utile terminare questo percorso con le parole di un grande esegeta di Giobbe, il gesuita spagnolo Luis Alonso Schokel, perché
rendono in modo suggestivo e intenso il messaggio del libro di Giobbe. «Il libro di Giobbe è un'opera geniale, emergente nella
letteratura universale. Gigantesca e imperfetta, come un ciclope cui manchi un occhio o abbia dita in eccedenza. Forse la sua
stessa imperfezione, la sua incompiutezza è segno dell'insufficienza umana di fronte ai problemi ultimi dell'uomo. Forse, se fosse perfetta, ci fideremmo meno di essa. Essa è audace nello sfidare il grande enigma, sorprendente nell'imbastire la situazione,
tesa in gran parte dello sviluppo; nello stesso tempo è ripetitiva, imbrigliata in ambiguità e allusioni, claudicante di incoerenze.
Giobbe è un libro affascinante e sconcertante».
«Il libro di Giobbe è un libro singolarmente moderno, provocante, non adatto ai conformisti. È difficile ascoltarlo senza sentirsi
interpellati. È difficile comprenderlo se non si prende posizione. Esso vuole un pubblico inizialmente curioso che ne esca compromesso. Anche lo spettatore deve cambiare nel corso della rappresentazione. Poiché questo libro lascia un segno su colui che
vi si espone, come Giacobbe che uscì zoppicante dalla lotta. Giobbe è un "vino da vertigini" che scardina e trasporta oltre; è un
reagente inesorabile che corregge alcune idee e cambia un modo di pensare».
Ed ecco la frase di L. Alonso Schokel che condensa il frutto della riflessione teologica del libro di Giobbe: «Terminata la scena,
quando si toglie lo scenario, parleremo con Dio, parleremo di Dio nello stesso modo di prima?».
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