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Il feticcio della merce - Benvenuto al Dipartimento di Filosofia

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Il feticcio della merce - Benvenuto al Dipartimento di Filosofia
K. Marx, G. Simmel,
G. Lukács, W. Benjamin
Il feticcio della merce
Materiali per il corso di Estetica (prof. Andrea Pinotti)
Corso di Laurea in
Scienze Umanistiche per la Comunicazione
a.a. 2006-07
I semestre
1
Indice
Karl Marx, Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano
p. 3
Georg Simmel, Denaro e stile di vita
p. 8
György Lukács, Il fenomeno della reificazione
p. 17
Walter Benjamin, Il sex-appeal dell’inorganico
p. 22
2
KARL MARX
Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano (1867)*
A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa
imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è
nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità,
bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. È chiaro come la luce
del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali.
P. es. quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane
legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa
sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a
testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse
spontaneamente a ballare.
Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal
contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i
lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica ch’essi sono funzioni dell’organismo umano, e
che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di
cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani. In secondo luogo, per quel che sta alla base della
determinazione della grandezza di valore, cioè la durata temporale di quel dispendio, ossia la quantità del
lavoro: la quantità del lavoro è distinguibile dalla qualità in maniera addirittura tangibile. In nessuna
situazione il tempo di lavoro che costa la produzione dei mezzi di sussistenza ha potuto non interessare gli
uomini, benché tale interessamento non sia uniforme nei vari gradi di sviluppo. Infine, appena gli uomini
lavorano in una qualsiasi maniera l’uno per l’altro, il loro lavoro riceve anche una forma sociale.
Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce?
Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale di eguale
oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la
sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra
i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d’un
rapporto sociale dei prodotti del lavoro.
L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli
uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei
prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto
sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di
fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose
sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo
ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una
cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa,
l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce
e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che
fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per
gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra
gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo
religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che
stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti
della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono
prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Come l’analisi precedente ha già dimostrato, tale carattere feticistico del mondo delle merci sorge dal
carattere sociale peculiare del lavoro che produce merci.
Gli oggetti d’uso diventano merci, in genere, soltanto perché sono prodotti di lavori privati, eseguiti
indipendentemente l’uno dall’altro. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale
complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del
loro lavoro, anche i caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di
tale scambio. Ossia, i lavori privati effettuano di fatto la loro qualità di articolazioni del lavoro
*
Da K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, tr. it. di D. Cantimori, Ed. Rinascita, Roma 1956, libro I, pp. 84-97.
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complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i
prodotti stessi, i produttori. Quindi a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono
come quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma
anzi, come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose.
Solo all’interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un’oggettività di valore
socialmente eguale, separala dalla loro oggettività d’uso, materialmente differente. Questa scissione del
prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha
acquistato estensione e importanza sufficienti affinché cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a
dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo
momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato,
come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sé
come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del
lavoro; dall’altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni
lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è
equiparato. L’eguaglianza di lavori toto coelo differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla
loro reale diseguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi posseggono, di dispendio di forzalavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta
questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico,
nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa
forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale
dell’eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose
materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro.
Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il
fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo.
Viceversa. Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando
l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo
fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di
lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico,
cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti
d’uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti
di lavoro, in quanto soli valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro
produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell’umanità, ma non disperde affatto la parvenza
oggettiva del carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di
produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati
indipendenti l’uno dall’altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del
carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a
coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva come il fatto che
la scomposizione scientifica dell’aria nei suoi elementi ha lasciato sussistere nella fisica l’atmosfera come
forma corporea.
Quel che interessa praticamente in primo luogo coloro che scambiano prodotti, è il problema di quanti
prodotti altrui riceveranno per il proprio prodotto, quindi, in quale proporzione si scambiano i prodotti.
Appena queste proporzioni sono maturate raggiungendo una certa stabilità abituale, sembrano sgorgare
dalla natura dei prodotti del lavoro, cosicché p. es. una tonnellata di ferro e due once d’oro sono di egual
valore allo stesso modo che una libbra d’oro e una libbra di ferro sono di egual peso nonostante le loro
differenti qualità chimiche e fisiche. Di fatto, il carattere dì valore dei prodotti del lavoro si consolida
soltanto attraverso la loro attuazione come grandezze di valore. Le grandezze di valore variano
continuamente, indipendentemente dalla volontà, della prescienza, e dall’azione dei permutanti, per i
quali il loro proprio movimento sociale assume la forma d’un movimento di cose, sotto il cui controllo
essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo. Occorre che ci sia una produzione di merci
completamente sviluppata, prima che dall’esperienza stessa nasca la cognizione scientifica che i lavori
privati – compiuti indipendentemente l’uno dall’altro, ma dipendenti l’uno dall’altro da ogni parte come
articolazioni naturali spontanee della divisione sociale del lavoro – vengono continuamente ridotti alla
loro misura socialmente proporzionale, perché nei rapporti di scambio dei loro prodotti, casuali e sempre
oscillanti, trionfa con la forza, come legge naturale regolatrice, il tempo di lavoro socialmente necessario
per la loro produzione, così come p. es. trionfa con la forza la legge della gravità, quando la casa ci
capitombola sulla testa. La determinazione della grandezza di valore mediante il tempo di lavoro è quindi
un arcano, celato sotto i movimenti appariscenti dei valori relativi delle merci. La sua scoperta elimina la
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parvenza della determinazione puramente casuale delle grandezze di valore dei prodotti del lavoro, ma
non elimina affatto la sua forma oggettiva.
In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse,
prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e quindi parte dai risultati belli e
pronti del processo di svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro l’impronta di merci e
quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme naturali della vita
sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che
per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro contenuto. Così, soltanto l’analisi dei prezzi delle merci
ha condotto alla determinazione della grandezza di valore; soltanto l’espressione comune delle merci in
denaro ha condotto alla fissazione del loro carattere di valore. Ma proprio questa forma finita – la forma
di denaro – del mondo delle merci vela materialmente, invece di svelarlo, il carattere sociale dei lavori
privati, e quindi i rapporti sociali dei lavoratori privati. Quando dico: abito, stivali, ecc. si riferiscono alla
tela come incarnazione generale del lavoro umano astratto, la stravaganza di questa espressione salta agli
occhi. Ma quando i produttori dell’abito, degli stivali, ecc. riferiscono queste merci alla tela – o all’oro e
argento, il che non cambia niente alla sostanza – come equivalente generale, la relazione dei loro lavori
privati col lavoro complessivo sociale si presenta loro appunto in quella forma stravagante.
Tali forme costituiscono appunto le categorie dell’economia borghese. Sono forme di pensiero
socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale
storicamente determinato, per i rapporti di produzione della produzione di merci. Quindi, appena ci
rifugiamo in altre forme di produzione, scompare subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto
l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di
merci.
Poiché l’economia politica predilige le robinsonate evochiamo per primo Robinson nella sua isola.
Sobrio com’è di natura, ha tuttavia bisogni di vario genere da soddisfare, e quindi deve compiere lavori
utili di vario genere, deve fare strumenti, fabbricare mobili, addomesticare dei lama, pescare, cacciare,
ecc. Qui non parliamo delle preghiere e simili, poiché il nostro Robinson ci prende il suo gusto e
considera tali attività come ricreazione. Nonostante la differenza fra le sue funzioni produttive egli sa che
esse sono soltanto differenti forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti di lavoro
umano. Proprio la necessità lo costringe a distribuire esattamente il proprio tempo fra le sue differenti
funzioni. Che l’una prenda più posto, l’altra meno posto nella sua operosità complessiva dipende dalla
difficoltà maggiore o minore da superare per raggiungere il desiderato effetto d’utilità. Questo glielo
insegna l’esperienza, e il nostro Robinson che ha salvato dal naufragio orologio, libro mastro, penna e
calamaio, comincia da buon inglese a tenere la contabilità di se stesso. Il suo inventario contiene un
elenco degli oggetti d’uso che possiede, delle diverse operazioni richieste per la loro produzione, e infine
del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di questi diversi prodotti. Tutte le
relazioni fra Robinson e le cose che costituiscono la ricchezza che egli stesso s’è creata, sono qui tanto
semplici e trasparenti che perfino il signor M. Wirth potrebbe capirle senza particolare sforzo mentale.
Eppure, vi sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore.
Trasportiamoci ora dalla luminosa isola di Robinson nel tenebroso Medioevo europeo. Qui, invece
dell’uomo indipendente, troviamo che tutti sono dipendenti: servi della gleba e padroni, vassalli e signori
feudali, laici e preti. La dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione
materiale, quanto le sfere di vita su di essa edificate. Ma proprio perché rapporti personali di dipendenza
costituiscono il fondamento sociale dato, lavori e prodotti non han bisogno di assumere una figura
fantastica differente dalla loro realtà: si risolvono nell’ingranaggio della società come servizi in natura e
prestazioni in natura. La forma naturale del lavoro, la sua particolarità, è qui la sua forma sociale
immediata, e non la sua generalità, come avviene sulla base della produzione di merci. La corvée si
misura col tempo, proprio come il lavoro produttore di merci, ma ogni servo della gleba sa che quel che
egli aliena al servizio del suo padrone è una quantità determinata della sua forza-lavoro personale. La
decima che si deve fornire al prete è più evidente della benedizione del prete. Quindi, qualunque sia il
giudizio che si voglia dare delle maschere nelle quali gli uomini si presentano l’uno all’altro in quel
teatro, i rapporti sociali delle persone appaiono in ogni modo come loro rapporti personali, e non sono
travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti del lavoro.
Non abbiamo bisogno, ai fini della considerazione di un lavoro comune, cioè immediatamente
socializzato, di risalire alla sua forma naturale spontanea, che incontriamo sulla soglia della storia di ogni
popolo civile. Un esempio più vicino è costituito dall’industria rusticamente patriarcale d’una famiglia di
contadini, che produce grano, bestiame, filati, tela, pezzi di vestiario, ecc. Per quanto riguarda la famiglia,
queste cose differenti si presentano come prodotti differenti del suo lavoro familiare; invece per quanto
riguarda le cose stesse, esse non si presentano reciprocamente l’una all’altra come merci. I differenti
5
lavori che generano quei prodotti, aratura, allevamento, filatura, tessitura, sartoria, nella loro forma
naturale sono funzioni sociali, poiché sono funzioni della famiglia che ha, proprio come la produzione di
merci, la sua propria divisione del lavoro, naturale ed originaria. Le differenze di sesso e di età, e le
condizioni naturali di lavoro varianti col variare della stagione, regolano la distribuzione di quelle
funzioni entro la famiglia e il tempo di lavoro dei singoli membri. Però qui il dispendio delle forze-lavoro
individuali misurato con la durata temporale si presenta per la sua natura stessa come determinazione
sociale dei lavori stessi, poiché le forze-lavoro individuali operano per la loro stessa natura soltanto come
organi dalla forza-lavoro comune della famiglia.
Immaginiamoci in fine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di
produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola
forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson, però socialmente
invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale,
e quindi oggetti d’uso, immediatamente per lui. La produzione complessiva dell’associazione è una
produzione sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione. Rimane sociale. Ma un’altra
parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione. Quindi deve essere
distribuita fra di essi. Il genere di tale distribuzione varierà col variare del genere particolare dello stesso
organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di sviluppo dei produttori. Solo per
mantenere il parallelo con la produzione delle merci presupponiamo che la partecipazione di ogni
produttore ai mezzi di sussistenza sia determinata dal suo tempo di lavoro. Quindi il tempo di lavoro
rappresenterebbe una doppia parte. La sua distribuzione, compiuta socialmente secondo un piano, regola
l’esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni. D’altra parte, il tempo di
lavoro serve allo stesso tempo come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro in
comune, e quindi anche alla parte della produzione comune consumabile individualmente. Le relazioni
sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti
tanto nella produzione quanto nella distribuzione.
Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste
nell’essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri
lavori privati l’uno all’altro in questa forma oggettiva come eguale lavoro umano, il cristianesimo col suo
culto dell’uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la
forma di religione più corrispondente. Nei modi di produzione della vecchia Asia e dell’antichità classica,
ecc., la trasformazione del prodotto in merce, e quindi l’esistenza dell’uomo come produttore di merci,
rappresenta una parte subordinata, che pure diventa lauto più importante, quanto più le comunità
s’addentrano nello stadio del loro tramonto. Popoli commerciali veri e propri esistono solo negli
intermondi del mondo antico, come gli dèi di Epicuro, o come gli ebrei nei pori della società polacca.
Quegli antichi organismi sociali di produzione sono straordinariamente più semplici e più trasparenti
dell’organismo borghese, ma poggiano o sulla immaturità dell’uomo individuale, che ancora non s’è
distaccato dal cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini, oppure su rapporti
immediati di padronanza e di servitù. Sono il portato di un basso grado di svolgimento delle forze
produttive del lavoro, e di rapporti fra gli uomini chiusi entro il processo materiale di generazione della
vita, e quindi fra loro stessi, e fra loro e la natura: rapporti che sono ancora impacciati, in corrispondenza
a quel basso grado di svolgimento. Tale impaccio reale si rispecchia idealmente nelle antiche religioni
naturali ed etniche. Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i
rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente
razionali fra di loro e fra loro e la natura. La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale
di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini
liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano. Tuttavia,
affinché ciò avvenga si richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni
materiali di esistenza che a loro volta sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento
lungo e tormentoso.
Ora, l’economia politica ha certo analizzato, sia pure incompletamente, il valore e la grandezza di
valore, ed ha scoperto il contenuto nascosto in queste forme. Ma non ha mai posto neppure il problema
del perché quel contenuto assuma quella forma, e dunque del perché il lavoro rappresenti se stesso nel
valore, e la misura del lavoro mediante la sua durata temporale rappresenti se stessa nella grandezza di
valore del prodotto del lavoro. Queste formule portano segnata in fronte la loro appartenenza a una
formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli nomini, e l’uomo non
padroneggia ancora il processo produttivo; ed esse valgono per la sua coscienza borghese come necessità
naturale, ovvia quanto il lavoro produttivo stesso. Le forme preborghesi dell’organismo sociale di
6
produzione vengono quindi trattate dall’economia politica press’a poco come le religioni precristiane
sono trattate dai padri della Chiesa.
La noiosa e insipida contesa sulla funzione della natura nella formazione del valore di scambio
dimostra, fra le altre cose, fino a che punto una parte degli economisti sia ingannata dal feticismo inerente
al mondo delle merci ossia dalla parvenza oggettiva delle determinazioni sociali del lavoro. Poiché il
valore di scambio è una determinata maniera sociale di esprimere il lavoro applicato alle cose, non può
contenere più elementi naturali di quanti ne contenga per esempio il corso dei cambi.
Poiché la forma di merce è la forma più generale e meno sviluppata della produzione borghese –
ragion per la quale essa si presenta così presto, benché non ancora nel medesimo modo dominante, quindi
caratteristico, di oggi – il suo carattere di feticcio sembra ancor relativamente facile da penetrare. Ma in
forme più concrete scompare perfino questa parvenza di semplicità. Di dove vengono le illusioni del
sistema monetario? Questo sistema non ha visto nell’oro e nell’argento che, come denaro, essi
rappresentano un rapporto sociale di produzione, ma li ha considerati nella forma di cose naturali con
strane qualità sociali. E l’economia moderna, che sorride con molta distinzione guardando dall’alto in
basso il sistema monetario – non diventa tangibile il suo feticismo, appena tratta del capitale? Da quanto
tempo è scomparsa l’illusione fisiocratica che la rendita fondiaria cresca dalla terra e non dalla società?
Ma, per non fare anticipazioni, basti qui ancora un esempio riferentesi alla stessa forma di valore. Se
le merci potessero parlare, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose,
non compete. Ma quello che, come cose, ci compete, è il nostro valore. Questo lo dimostrano le nostre
proprie relazioni come cose-merci. Noi ci riferiamo reciprocamente l’una all’altra soltanto come valori di
scambio. Si ascolti ora come l’economista parla con l’anima stessa della merce: «Valore (valore di
scambio) è qualità delle cose, ricchezza (valore d’uso) dell’uomo. Valore in questo senso implica
necessariamente scambio; ricchezza, no». «La ricchezza (valore d’uso) è un attributo dell’uomo, il valore
è un attributo delle cose. Un uomo o una comunità è ricca; una perla o un diamante è di valore... Una
perla o un diamante ha valore come perla o diamante». Finora nessun chimico ha ancora scoperto valore
di scambio in perle o diamanti. Gli scopritori economici di questa sostanza chimica, i quali hanno pretese
speciali di profondità critica, trovano però che il valore d’uso delle cose è indipendente dalle loro qualità
di cose, mentre il loro valore compete ad esse come cose. Quel che li conferma in ciò, è la strana
circostanza che il valore d’uso delle cose si realizza per l’uomo senza scambio, cioè nel rapporto
immediato fra cosa e uomo; mentre il loro valore si realizza inversamente soltanto nello scambio, cioè in
un processo sociale. Chi non ricorderà qui il buon Dogberry, che ammaestra il guardiano notturno
Seacoal: «Essere un uomo di bell’aspetto è un dono delle circostanze, ma saper leggere e scrivere viene
per natura».
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GEORG SIMMEL
Denaro e stile di vita (1900)*
Il concetto di cultura
Se definiamo come cultura i perfezionamenti e le forme di vita più spiritualizzate, i risultati
dell’elaborazione interiore ed esterna di essa, ordiniamo questi valori in una direzione in cui non vengono
collocati soltanto in base al loro significato concreto. Sono per noi contenuti della cultura in quanto li
consideriamo alla stregua di sviluppi potenziali di germi naturali e di tendenze, che superano la misura
dello sviluppo della pienezza e della differenziazione che sarebbe raggiungibile in base alla loro mera
natura. Un’energia o una disposizione di natura – che certo devono esistere soltanto per essere superate
dallo sviluppo reale – costituiscono il presupposto del concetto di cultura. Infatti, dal punto di vista di tale
concetto, i valori della vita sono appunto natura «culturalizzata», non hanno ancora il significato isolato
che, per così dire, si commisura dall’alto all’ideale della felicità, dell’intelligenza, della bellezza, ma
appaiono come sviluppi di un principio che chiamiamo natura, le cui forze e il cui contenuto di idee essi
superano in quanto appunto diventano cultura. Perciò, anche se i frutti ottenuti con innesti e una statua
sono in egual misura prodotti della cultura, la lingua rileva tale differenza con molta finezza, col chiamare
coltivato l’albero da frutta, mentre non dice che il grezzo blocco di marmo è stato in qualche modo
«coltivato» fino a farne una statua. Infatti, nel primo caso si considera un impulso naturale e una
disposizione dell’albero a produrre quei frutti che vengono fatti crescere oltre il loro limite naturale
mediante un intervento intelligente, mentre nel blocco di marmo non presupponiamo nessuna
corrispondente tendenza a divenire statua; la cultura che si realizza nella statua significa l’elevazione e
l’affinamento di determinate energie umane, le cui manifestazioni originarie noi definiamo «naturali».
Appare innanzitutto evidente che solo metaforicamente le cose impersonali si possono definire
coltivate. Infatti, noi attribuiamo questa caratteristica soltanto a ciò cui è dato svilupparsi sotto la .guida
della volontà e dell’intelletto, oltre i limiti di un’estrinsecazione meramente naturale, per trovare il
proprio sbocco in noi o in cose i cui sviluppi si colleghino in definitiva ai nostri impulsi, o per reazione
stimolino i nostri sentimenti. I beni culturali materiali: mobili e piante coltivate, opere d’arte e macchine,
utensili e libri – nei quali i materiali naturali vengono certo modellati in forme adeguate, non però per
effetto delle loro stesse forze – sono la nostra volontà e i nostri sentimenti dispiegati attraverso le idee,
che comprendono in sé le possibilità di sviluppo delle cose che il nostro volere e sentire incontra sulla
propria strada. Lo stesso avviene nel caso della cultura che plasma il rapporto dell’uomo con gli altri e
con se stesso attraverso la lingua, il costume, la religione, il diritto. In quanto questi valori vengono
considerati culturali, noi li distinguiamo dagli stadi di formazione delle energie che vivono in essi, che
essi, per così dire, possono raggiungere da sé e che per il processo della cultura sono, in egual misura,
soltanto materiale, come il legno e il metallo, le piante e l’elettricità. Coltivando le cose, aumentando cioè
la loro misura di valore, al di là di quella che ci viene fornita dal loro meccanismo naturale, coltiviamo
noi stessi: è lo stesso processo di elevazione dei valori, che parte da noi e ritorna a noi, ad abbracciare la
natura fuori di noi o in noi. L’arte figurativa mostra questo concetto di cultura nel modo più puro, perché
lo manifesta in contrapposizioni di grandissima tensione. Infatti, soprattutto in questo caso la formazione
dell’oggetto sembra sottrarsi completamente alla collocazione nel processo della nostra soggettività.
L’opera d’arte ci indica proprio il senso del fenomeno stesso, sia che consista nella raffigurazione della
spazialità, sia che si fondi sui rapporti dei colori o sulla spiritualità che vive tanto nel visibile quanto
dietro il visibile. Ma bisogna sempre ascoltare le cose per apprenderne il significato e il segreto, per
rappresentarle in una forma più chiara o più pura di quella a cui conduce il loro sviluppo naturale – certo,
non nel senso di una tecnologia chimica o fisica, che ne accerta la legalità per collocarle nelle serie dei
nostri fini, al di fuori di loro stesse; piuttosto, il processo artistico si conclude non appena ha sviluppato
l’oggetto fino a farlo giungere al suo significato più proprio. Effettivamente, si soddisfa così anche
l’ideale puramente artistico, perché per esso la perfezione dell’opera d’arte in quanto tale è un valore
oggettivo del tutto indipendente dal suo risultato per il nostro sentire soggettivo: il motto de l’art pour
*
Da G. Simmel, Filosofia del denaro (1900), ed. it. a c. di A. Cavalli e L. Perucchi, Utet, Torino 1984, pp. 630-638 e 659-669.
8
l’art designa felicemente l’autosufficienza della tendenza puramente artistica. Ma le cose stanno
diversamente dal punto di vista dell’ideale della cultura. La sua essenza consiste proprio nel superare il
valore autonomo dell’atto estetico, scientifico, morale, eudemonistico, persino religioso, per innestarli
tutti, come elementi o componenti, nello sviluppo dell’essenza umana oltre la sua condizione naturale; o,
più precisamente: essi sono le tappe della via che questo sviluppo percorre. Certo, in ogni attimo tale
sviluppo deve trovarsi in una di queste tappe; non può mai procedere senza un contenuto, in modo
puramente formale e chiuso in se stesso; non foss’altro che per questo non è mai identico a questo
contenuto. I contenuti della cultura consistono in formazioni che rientrano nel dominio di un ideale
autonomo, ma che vengono considerate nell’ottica dello sviluppo delle forze del nostro essere, da esse
portato avanti e sostenuto oltre il suo limite meramente naturale. Coltivando gli oggetti, l’uomo ne
costruisce l’immagine: nella misura in cui lo sviluppo transnaturale delle loro energie vale come processo
culturale, è soltanto l’aspetto visibile o il corpo del corrispondente sviluppo delle nostre energie. Certo,
nello sviluppo del singolo contenuto di vita, il confine in cui la forma naturale trapassa nella forma
culturale è fluido e su di esso il giudizio non sarà mai unanime. Ma qui si annuncia soltanto una delle più
generali difficoltà del pensiero. Le categorie a cui vengono ricondotti i singoli fenomeni per entrare a far
parte in questo modo dell’ambito della conoscenza, delle sue norme e delle sue connessioni, sono
nettamente delimitate l’una rispetto all’altra, e già in questo contrasto si forniscono reciprocamente di
senso, formano serie con gradi discontinui. Ma le singolarità, che devono venir ordinate in base a questi
concetti, di solito non trovano per nulla il loro posto con la corrispondente chiarezza; piuttosto, sono
spesso le loro determinazioni quantitative che decidono dell’appartenenza all’uno o all’altro concetto,
così che dal punto di vista della continuità di tutto ciò che è quantitativo, della media sempre possibile tra
due misure, ognuna delle quali corrisponde ad una precisa categoria, il fenomeno singolare può venir
attribuito ora all’una ora all’altra, e quindi appare come qualcosa di indeterminato tra loro, anzi come una
mescolanza di concetti che in base al loro senso proprio si escluderebbero a vicenda. La certezza in linea
di principio del limite tra natura e cultura, dove l’una incomincia proprio dove l’altra cessa, non è scalfita
dal fatto che la collocazione del singolo fenomeno appare incerta, come i concetti del giorno e della notte
non si confondono tra loro perché il crepuscolo si può attribuire, ora all’uno e ora all’altra.
L’avanzamento della cultura delle cose e l’arretratezza della cultura delle persone
Questa trattazione del concetto generale di cultura mi permette ora di affrontare una situazione
particolare nell’ambito della cultura contemporanea. Se si confronta la cultura attuale con quella di cento
anni fa, allora – salvo molte eccezioni individuali – si può dire che le cose che oggettivamente riempiono
e circondano la nostra vita, gli utensili, i mezzi di comunicazione, i prodotti della scienza, della tecnica,
dell’arte, sono oltre ogni dite «coltivate»; ma la cultura degli individui, perlomeno nei ceti più elevati, non
è assolutamente progredita nella stessa misura, anzi spesso è persino regredita. Questa situazione non
richiede una trattazione particolare. Perciò rilevo soltanto poche cose. Da cento anni le possibilità
linguistiche di espressione, nel tedesco come nel francese, si sono straordinariamente arricchite, e hanno
acquistato molte sfumature; non solo ci è stata donata la lingua di Goethe, ma a ciò si è aggiunto anche un
gran numero di finezze, di toni, di espressioni individuali. Tuttavia, se si considera il modo di parlare e di
scrivere del singolo, vediamo che nel complesso il linguaggio diventa sempre più scorretto, meno
dignitoso e più banale. Dal punto di vista del contenuto, l’orizzonte da cui la conversazione attinge i suoi
oggetti si è oggettivamente ampliato in modo rilevante per il progredire delle teorie e della prassi;
tuttavia, sembra che la capacità di intrattenere, sia su un piano sociale, sia anche ad un livello più intimo
ed epistolare, sia diminuita e che tutto sia diventato più piatto, meno interessante e serio che non alla fine
del XVIII secolo. Rientra in questa categoria il fatto che la macchina è divenuta molto più «spirituale» del
lavoratore. Quanti lavoratori, persino all’interno della grande industria, sono in grado oggi di capire la
macchina con cui hanno a che fare, di capire cioè lo spirito investito nella macchina? Lo stesso vale per la
cultura militare. Quello che deve fare il singolo soldato è rimasto sostanzialmente invariato da molto
tempo; anzi, in alcuni casi, il livello della sua prestazione è stato svalutato dal modo moderno di condurre
la guerra. Al contrario, non solo gli strumenti materiali, ma anche, prima di tutto, l’organizzazione
dell’esercito, al di là degli individui che la compongono, sono divenuti incredibilmente raffinati e
rappresentano un vero trionfo della cultura oggettiva. Sul piano puramente spirituale, anche gli uomini
più colti e riflessivi operano con un numero sempre crescente di rappresentazioni, concetti e affermazioni
il cui senso e il cui contenuto precisi conoscono solo in modo incompleto. L’incredibile estensione della
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materia del sapere oggettivamente disponibile permette (anzi impone) l’uso di espressioni che passano di
mano in mano come recipienti chiusi, senza che il contenuto di pensiero che vi è effettivamente compreso
si manifesti al singolo utente. Come la nostra vita esterna viene invasa da un numero sempre crescente di
oggetti il cui spirito oggettivo, lo spirito impiegato nel loro processo di produzione, neppure lontanamente
concepiamo, così la nostra vita interiore e di relazione – come ho già posto precedentemente in rilievo in
altra occasione – è riempita da strutture che sono divenute simboliche, strutture nelle quali è cumulato un
ampio contenuto intellettuale; ma lo spirito individuale di solito ne utilizza soltanto una minima parte. In
certa misura, il predominio che la cultura oggettiva ha acquisito su quella soggettiva nel XIX secolo si
basa essenzialmente sul fatto che, mentre l’ideale educativo del XVIII secolo mirava alla formazione
dell’uomo, quindi ad un valore personale, interno, nel XIX secolo il concetto di «formazione» si è
ristretto a una somma di conoscenze oggettive e di tipi di comportamento. Sembra che questa discrepanza
si ampli di continuo. Ogni giorno e da ogni parte si accresce il patrimonio della cultura oggettiva, ma lo
spirito individuale può accrescere le forme e i contenuti della sua formazione solo con grande ritardo
poiché procede con un’accelerazione assai minore.
Come si spiega questo fenomeno? Se, come abbiamo visto, ogni cultura delle cose è soltanto cultura
degli uomini, così che forgiando le cose plasmiamo noi stessi, cosa significano quello sviluppo, quella
configurazione, quella spiritualizzazione degli oggetti che si compie quasi con proprie forze e secondo
proprie norme, senza che i singoli individui si sviluppino in modo corrispondente? Assistiamo in questo
caso ad una accentuazione del rapporto enigmatico tra la vita e i prodotti della vita da una parte e i
contenuti frammentari dell’esistenza degli individui dall’altra. Nella lingua e nel costume, nella struttura
politica e nelle dottrine religiose, nella letteratura e nella tecnica, è depositato il lavoro di infinite
generazioni, come spirito oggettivato dal quale ognuno prende quanto vuole o può, ma che nessuno
potrebbe esaurire; il rapporto tra la quantità di questo patrimonio e la quantità di ciò che da esso viene
attinto è il più svariato e casuale e la esiguità o l’irrazionalità delle quote individuali lascia intatti il
contenuto o la dignità di quel patrimonio comune, come un qualsiasi essere corporeo non è minimamente
toccato dal fatto di essere percepito o meno. Come il contenuto e il significato di un libro in quanto tali
sono indifferenti al fatto che la sua cerchia di lettori sia grande o piccola e sia in grado o meno di capirli,
così ogni altro prodotto della cultura, di fronte alla cerchia della cultura, è certo pronto a venir assimilato
da chiunque, ma trova sempre, in rapporto a questa disponibilità, soltanto sporadica accettazione. Il
rapporto tra il lavoro spirituale condensato nella comunità culturale e la sua vitalità negli spiriti
individuali è dunque lo stesso che intercorre tra la pienezza della possibilità e la limitatezza della realtà.
La comprensione della forma di esistenza di tali contenuti spirituali oggettivi richiede il loro inserimento
in una particolare organizzazione delle categorie con cui concepiamo il mondo. All’interno di esse anche
il rapporto antagonistico tra cultura oggettiva e soggettiva, che costituisce il nostro problema specifico,
troverà il suo posto.
Se, secondo il mito platonico, l’anima nella sua preesistenza vede la pura essenza, l’assoluto
significato delle cose, così che il suo conoscere successivo sarebbe solo un ricordo di quella verità,
ricordo che affiora quando intervengano degli stimoli sensibili, allora il motivo più prossimo di questo
mito è l’incertezza circa il luogo da cui derivano le nostre conoscenze, se si nega ad esse, come fa
Platone, l’origine dell’esperienza. Ma, al di là di questa causa eventuale della loro origine, in quella
speculazione metafisica si manifesta un profondo atteggiamento epistemologico della nostra anima: anche
se vogliamo considerare il nostro conoscere come un effetto immediato degli oggetti esterni, oppure come
un processo puramente interno nel quale tutto ciò che è esterno è forma immanente o rapporto di elementi
spirituali, sentiamo sempre il nostro pensiero, nella misura in cui ha per noi valore di verità, come
l’adempimento di un’esigenza reale, come la copia di un’ideale prefigurazione. Perfino se un
rispecchiamento esatto delle cose, tale da riprodurle come esse sono in sé, formasse la nostra
rappresentazione, l’unità, la precisione e la perfezione a cui la conoscenza, momento per momento, si
avvicina all’infinito, non giungerebbe alle cose stesse. Piuttosto, l’ideale del nostro conoscere sarebbe
sempre soltanto il loro contenuto nella forma della rappresentazione, perché anche il più estremo
realismo non vuole raggiungere le cose, ma la conoscenza delle cose. Se noi dunque definiamo la somma
dei frammenti che in ogni momento dato costituisce il nostro patrimonio di sapere dal punto di vista dello
sviluppo al quale esso aspira e a cui viene commisurato ogni stadio attuale nel suo significato, ciò ci
risulta possibile solo in base al presupposto che è alla base della dottrina platonica, e cioè che esiste un
regno ideale dei valori teoretici, del senso e delle connessioni intellettuali compiute, che non coincide né
con gli oggetti – perché questi sono appunto soltanto i suoi oggetti – né con il conoscere reale da un punto
di vista psicologico, che viene di volta in volta raggiunto. Quest’ultimo, piuttosto, solo gradualmente e in
modo sempre imperfetto, giunge a coincidere con quello, che comprende ogni verità in generale possibile,
ed è vero nella misura in cui ciò gli riesce. L’elemento fondamentale di questo sentimento – il fatto che il
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nostro conoscere in ogni attimo è parte di un complesso di conoscenze che è solo idealmente disponibile,
ma che ci viene offerto e richiede di venir realizzato a livello psichico – questo solo elemento sembra aver
contato per Platone; egli lo esprime come distacco del conoscere reale dal possesso passato di questa
totalità, come un non-più, mentre oggi dobbiamo interpretarlo come un non-ancora. Lo stesso rapporto
però può evidentemente sottendere entrambe le interpretazioni ed essere sentito come un rapporto uguale,
come una somma identica si può ottenere sia mediante sottrazione dal numero maggiore, sia con
l’addizione dal numero minore. Lo specifico modo di esistere di questo ideale conoscitivo, che di fronte
alle nostre conoscenze reali appare come norma o come totalità, è lo stesso che spetta alla totalità dei
valori morali e delle prescrizioni di fronte all’agire effettivo degli individui. Questa norma – che del resto
in base al suo contenuto può essere diversa per ogni uomo e per ogni epoca della sua vita – non è
reperibile nel tempo e nello spazio, né coincide con la coscienza etica, che piuttosto si sente dipendente da
essa. Ed è questa, infine, la formula della nostra vita, dalla banale prassi quotidiana fino alle più alte vette
della spiritualità: in ogni azione abbiamo una norma, una misura, una totalità idealmente prefigurata al di
sopra di noi, che proprio mediante questo agire viene tradotta nella forma della realtà. Con ciò non si
intende soltanto il fatto semplice e generale che ogni volontà viene guidata da qualche ideale. È in
questione un carattere determinato più o meno chiaro del nostro agire che si può esprimere soltanto
mediante il fatto che con esso, senza tener conto della possibilità che il suo valore sia fortemente contrario
all’ideale, realizziamo una possibilità in qualche modo prefigurata, per così dire un programma ideale. La
nostra esistenza pratica, per quanto insufficiente e frammentaria, raggiunge una certa significatività e
connessione perché è, per così dire, la realizzazione parziale di una totalità. È come se il nostro agire, anzi
tutto il nostro essere, bello o brutto, giusto o sbagliato, grande o meschino che sia, venisse tratto da un
patrimonio di possibilità in modo tale che in ogni attimo il suo rapporto con il proprio contenuto
idealmente determinato risulti uguale a quello della singola cosa concreta con il proprio concetto, che ne
esprime la legge interna e l’essenza logica, senza che il significato di questo contenuto dipenda dalla
possibilità, dal modo e dalla frequenza delle sue realizzazioni. Non possiamo raffigurarci il conoscere se
non come ciò che realizza all’interno della coscienza quelle rappresentazioni che hanno, per così dire,
atteso questo proprio nel luogo in questione. Il fatto che chiamiamo necessarie le nostre conoscenze, cioè
il fatto che esse in base al loro contenuto possono essere soltanto in un modo, esprime solo diversamente
quello stato della coscienza in base al quale le avvertiamo come realizzazioni psichiche di quel contenuto
idealmente già stabilito. Che il modo sia unico, tuttavia, non significa affatto che esista un’unica verità.
Piuttosto, se da una parte è dato un intelletto che ha un certo tipo di conformazione e, dall’altra, una
determinata realtà oggettiva, ciò che per questo intelletto è «verità» è oggettivamente preformato, come il
risultato di un calcolò se sono dati i fattori. Ad ogni cambiamento della struttura mentale si modifica il
contenuto di questa verità, senza che per questo essa persista meno oggettivamente e meno
indipendentemente da ogni processo di consapevolezza che si sviluppi in questo intelletto. La conclusione
inevitabile che deduciamo da determinati dati del sapere e che ci impone di accettarne anche determinati
altri è la causa occasionale che rende visibile l’essenza del nostro conoscere: ogni singola conoscenza è il
farsi consapevole di qualcosa che è già valido e stabilito nella concatenazione oggettivamente determinata
dei contenuti della conoscenza. Dal lato psicologico ciò rientra nella teoria secondo cui ogni cosa ritenuta
vera è un sentimento certo che accompagna i contenuti della rappresentazione; ciò che chiamiamo
«prova» non è altro che il richiamo ad una costellazione psicologica che dà vita a quel sentimento.
Nessuna percezione sensibile e nessuna deduzione logica produce immediatamente la convinzione della
verità; sono soltanto condizioni che provocano il sentimento ultra-teoretico dell’affermazione, dell’assenso, comunque si voglia chiamare questo indescrivibile sentimento della verità. Esso costituisce il
veicolo psicologico tra le due categorie epistemologiche: tra il contenuto di senso delle cose, valido,
sostenuto dalla sua connessione interna e in grado di indicare il suo posto ad ogni elemento, e la nostra
rappresentazione di esse, che significa la loro realtà per il soggetto.
[…]
In ogni comunità culturale il rapporto tra lo spirito divenuto oggettivo (e il suo sviluppo) e gli spiriti
soggettivi è di estrema importanza, e proprio per quanto riguarda lo stile di vita; perché se il significato
dello stile è di permettere a qualsiasi contenuto di esprimersi in modo formalmente uguale, certamente la
relazione tra spirito oggettivo e soggettivo, per quanto riguarda quantità, grado e tempo di sviluppo, può
essere la stessa in riferimento a diversi contenuti dello spirito culturale. Il modo generale in cui si svolge
la vita, la cornice che la cultura della società offre agli impulsi dell’individuo, viene circoscritta dai
seguenti interrogativi: se il singolo avverte la propria vita interiore vicina o estranea al movimento
culturale oggettivo del suo tempo, se egli lo sente come qualcosa di superiore, di cui può toccare, per così
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dire, soltanto l’orlo della veste, oppure sente il proprio valore personale superiore ad ogni spirito
oggettivato; se all’interno della sua vita spirituale gli elementi oggettivi, storicamente dati, sono una forza
dotata di legalità propria così che essi, e il nucleo vero e proprio della sua personalità, si sviluppano quasi
indipendentemente l’uno dall’altro, oppure se l’anima è, per così dire, padrona a casa propria, o
perlomeno, tra la sua vita più intima e i contenuti impersonali che essa vi accoglie, si stabilisce
un’armonia d’intensità, di senso e di ritmo. Queste formulazioni, per quanto astratte, definiscono lo
schema di infiniti interessi concreti e infiniti stati d’animo della vita quotidiana, e in questo modo
definiscono la misura in cui le relazioni tra cultura oggettiva e cultura soggettiva determinano lo stile
della vita.
Il rapporto del denaro con gli agenti di queste opposte tendenze
Se la configurazione attuale di questo rapporto è sorretta dalla divisione del lavoro, essa è anche un
derivato dell’economia monetaria. In primo luogo perché il frazionamento della produzione in molte
prestazioni parziali richiede un’organizzazione che funzioni con quell’assoluta precisione e affidabilità
che dal tempo in cui cessò il lavoro degli schiavi si può ottenere solo con il lavoro salariato degli operai.
Ogni rapporto diversamente mediato tra imprenditore e operaio comporterebbe elementi imprevedibili,
sia perché il pagamento in natura non è così semplice e non è determinabile con altrettanta esattezza, sia
perché il puro rapporto in denaro ha quel carattere puramente oggettivo e automatico senza il quale non
sono possibili organizzazioni molto differenziate e complesse. In secondo luogo, perché il motivo
essenziale della comparsa del denaro diventa in generale più efficace nella misura in cui la produzione si
specializza maggiormente. Infatti, nella circolazione economica uno dà all’altro ciò che desidera, se
questi fa lo stesso con lui. La regola morale: fai agli altri ciò che desideri venga fatto a te, trova la
massima realizzazione nell’economia. Anche se un produttore trova qualcuno disposto a prendere
l’oggetto A che vuole scambiare, spesso non desidererà l’oggetto B che quest’ultimo è in grado di dargli
in cambio. Il fatto che la diversità dei desideri tra due persone non coincida sempre con la diversità dei
prodotti che esse hanno da offrire richiede – come è noto – l’introduzione di un mezzo di scambio; in
modo che, se i proprietari di A e di B non possono accordarsi sullo scambio immediato, il primo dà il suo
A in cambio di denaro, con il quale può procurarsi ora l’oggetto C desiderato, mentre il proprietario di B
si procura il denaro per l’acquisto di A offrendo B allo stesso modo nei confronti di un terzo. Poiché
dunque la differenza dei prodotti, ovvero dei desideri diretti nei loro confronti, è la ragione che spiega la
comparsa del denaro, il suo ruolo sarà evidentemente tanto più importante ed ineliminabile, quanto più gli
oggetti in circolazione sono diversi; oppure, considerando la cosa da un altro lato: si può giungere ad una
avanzata specializzazione delle prestazioni solo quando non si è più costretti allo scambio immediato. La
possibilità che l’acquirente di un prodotto abbia da parte sua un oggetto da offrire che sia gradito a quel
produttore diminuisce nella misura in cui aumenta la specificità dei prodotti e quella dei desideri umani.
In questa direzione non subentra dunque nessun nuovo momento che colleghi la moderna differenziazione
delle prestazioni al dominio universale del denaro; ma il legame tra i due valori culturali esiste già nel
profondo delle loro radici e il fatto che le condizioni della specializzazione, attraverso l’interazione con
l’economia monetaria, formino con essa una completa unità storica, costituisce soltanto il potenziamento
graduale di una sintesi data con l’essenza di entrambe.
Attraverso questa mediazione lo stile della vita si collega dunque alla circolazione del denaro nella
misura in cui dipende dal rapporto tra la cultura oggettiva e la cultura soggettiva. E, più precisamente,
l’essenza di questa circolazione viene completamente svelata dalla circostanza che su di essa si basa tanto
la prevalenza dello spirito oggettivo su quello soggettivo, quanto la conservazione, il potenzia- mento
indipendente e lo sviluppo autonomo di quest’ultimo. Ciò che fa della cultura delle cose una potenza così
prevalente nei confronti della cultura della persona singola è l’unità e la compattezza autonoma a cui
quella è pervenuta nell’epoca moderna. La produzione, con la sua tecnica e i suoi risultati, appare come
un cosmo dotato di solide determinatezze di sviluppi per così dire logici, che sta di fronte all’individuo
Come il destino sta di fronte all’incostanza e all’irregolarità del nostro volere. Questo formale appartenere
a se stessa, questa coazione interna che unifica i contenuti della cultura facendone un’immagine speculare
della connessione della natura, si realizza soltanto mediante il denaro; il denaro funge da un lato da
cerniera di questo organismo; rende i suoi elementi reciprocamente sostituibili, stabilisce un rapporto di
dipendenza reciproca e di continuità tra tutti gli impulsi. Da un altro lato, il denaro è paragonabile al
sangue, la cui corrente continua penetra tutte le diramazioni delle membra e, nutrendole tutte
contemporaneamente, fonda l’unità delle loro funzioni. Per quanto riguarda il secondo punto, il denaro,
ponendosi tra l’uomo e le cose, consente all’uomo un’esistenza per così dire astratta, una libertà dalla
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considerazione immediata per le cose e dal rapporto immediato con esse, in mancanza della quale non si
realizzerebbero determinate possibilità di sviluppo della nostra interiorità. Se l’uomo moderno, in
circostanze favorevoli, si assicura una sfera di riservatezza della propria soggettività, una segretezza e un
isolamento del suo essere più personale – non in senso sociale, ma in un senso più profondo, metafisico –
segretezza e isolamento che surrogano in qualche modo lo stile religioso di vita di altri tempi, ciò dipende
dal fatto che il denaro, in misura sempre crescente, ci risparmia i contatti immediati con le cose, mentre ci
facilita infinitamente il loro dominio e la scelta di ciò che va bene per noi.
Queste direzioni contrarie, una volta prese, possono aspirare anche ad un ideale di separazione
assoluta, in cui ogni contenuto oggettivo della vita diventi sempre più oggettivo e impersonale, in modo
tale che il residuo non oggettivabile della vita stessa diventi tanto più personale, come proprietà tanto più
incontestabile dell’Io. Un singolo caso tipico di questo orientamento è la macchina da scrivere; lo
scrivere, un atto esternamente oggettivo, che tuttavia in ogni caso ha una forma individuale caratteristica,
abbandona tale forma a favore di una uniformità meccanica. Ma in questo modo, da un altro lato, si
raggiunge un doppio risultato: in primo luogo l’efficacia di ciò che viene scritto si basa sul suo puro
contenuto, senza che l’aspetto agisca in senso favorevole o provochi alcun disturbo, e, in secondo luogo,
viene eliminato quell’elemento che tradisce l’aspetto più personale che il manoscritto così spesso lascia
trasparire nelle comunicazioni più esteriori e indifferenti non meno che nelle più intime. Per quanto
dunque il processo di meccanizzazione possa agire in modo socializzante, esso potenzia ciò che rimane
della proprietà privata dell’Io spirituale verso una esclusività tanto più gelosa. Certo, questo
allontanamento della spiritualità soggettiva da tutto ciò che è esteriore è tanto ostile all’ideale estetico di
vita quanto può essere favorevole all’ideale della pura interiorità : una combinazione che spiega tanto lo
sgomento nei confronti del tempo presente di personalità dotate di disposizioni puramente estetiche,
quanto la lieve tensione che cresce in forme per cosi dire sotterranee – del tutto diverse da quelle del
tempo di Savonarola – tra gli spiriti di questo tipo e coloro che aspirano soltanto alla salvezza interiore. In
quanto il denaro è tanto simbolo quanto causa del livellamento e della esteriorizzazione di tutto ciò che si
fa livellare ed esteriorizzare, diventa anche il custode del massimo livello di interiorità che può
svilupparsi solo all’interno dei confini più personali.
Fino a che punto questo processo porti a quell’affinamento, a quella particolarizzazione e
interiorizzazione del soggetto, oppure, al contrario, faccia degli oggetti sottoposti, proprio per la facilità
con la quale si può ottenerli, i padroni dell’uomo, non dipende più dal denaro, ma soltanto dall’uomo.
L’economia monetaria si mostra anche qui in un rapporto formale con le condizioni del socialismo;
infatti, ciò che da esse ci si aspetta – la liberazione dalla lotta individuale per l’esistenza, la garanzia dei
livelli economici minimi e la facile accessibilità di quelli più elevati – potrebbe ugualmente esercitare un
effetto di differenziazione tale da far sì che una certa frazione della società giunga ad un inaudito livello
di spiritualità, lontanissimo dalla cura per le cose terrene, mentre un’altra frazione cada in un
materialismo pratico altrettanto inaudito.
In complesso, il denaro raggiunge il massimo dell’influenza proprio in quegli aspetti della nostra vita
il cui stile viene determinato dal prevalere della cultura oggettiva su quella soggettiva. Il fatto che non si
sottragga dal fare da sostegno anche all’eventualità opposta, pone nella luce più chiara le modalità e
l’ambito della sua potenza storica. Per qualche verso si potrebbe paragonare il denaro alla lingua che,
ugualmente, si presta ai più divergenti orientamenti del pensiero e del sentimento, fornendo ad essi una
base di spiegazione e di elaborazione. Si tratta di una di quelle forze la cui specificità consiste proprio
nell’assenza di specificità, ma che tuttavia possono tingere la vita in modo molto diverso perché
l’elemento puramente formale, funzionale, quantitativo, che è il loro modo di essere, si incontra con i
contenuti della vita e i suoi orientamenti qualitativi determinati e li determina nel senso della produzione
di formazioni qualitativamente nuove. Favorendo il potenziamento e la maturazione di entrambi i rapporti
possibili tra lo spirito oggettivo e quello soggettivo, la sua importanza per lo stile della vita non viene
eliminata, ma accresciuta, non contraddetta, ma confermata.
La modificazione della distanza tra l’io e le cose come espressione della diversità degli stili di
vita
Raramente si chiarisce in che misura le nostre rappresentazioni dei processi psicologici abbiano un
significato meramente simbolico. La primitiva necessità della vita ci ha costretto a fare del mondo
spaziale esterno il primo oggetto delle nostre attenzioni; per i suoi contenuti e rapporti valgono perciò
soprattutto i concetti con i quali ci rappresentiamo l’esistenza osservata al di fuori del soggetto che
osserva; a questo mondo appartiene la categoria dell’oggetto in generale e alle sue forme deve adattarsi
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ogni rappresentazione che debba diventare per noi oggetto. Questa esigenza si impadronisce dell’anima
stessa che si fa oggetto della propria osservazione. Prima, tutta via, sembra che si presenti l’osservazione
del Tu, evidentemente la più urgente necessità della vita di comunità e dell’autoaffermazione individuale.
Ma poiché non possiamo mai osservare direttamente l’animo altrui, poiché l’altro fornisce alla nostra
percezione soltanto le impressioni dei sensi esterni, ogni conoscenza psicologica dell’altro è
esclusivamente una spiegazione interna di processi della coscienza che percepiamo nella nostra anima e
trasferiamo su di lui quando impressioni fisiche, che da lui provengono, ci stimolano in questa direzione.
Peraltro, questa trasposizione, orientata esclusivamente alla propria meta, generalmente non si rende
conto del proprio punto di partenza. Quando l’anima si fa oggetto del proprio rappresentare può farlo
soltanto nel quadro dei processi spaziali. Se parliamo di rappresentazioni e dei loro collegamenti, del loro
emergere alla coscienza e del loro scendere al di sotto della sua soglia, delle inclinazioni e delle resistenze
interne, dell’umore con le sue esaltazioni e le sue depressioni, queste, e infinite altre espressioni dello
stesso ambito, sono evidentemente sottratte alla possibilità di percezione esterna. Anche se siamo convinti
che la legalità della nostra vita spirituale è di natura completamente diversa da quella di un meccanismo
esterno – prima di tutto perché manca la netta delimitazione e la sicura riconoscibilità dei singoli elementi
–, ci rappresentiamo inevitabilmente le «rappresentazioni» come qualcosa che si pone nei termini delle
relazioni meccaniche del collegare e del separare, del sollevare e dell’abbassare. Siamo convinti – e la
prassi ci dà ragione – che questa spiegazione dei processi interni, che segue il modello dei processi
visibili, ne rappresenti in modo valido la verità, proprio come per l’astronomo il calcolo sulla carta
rappresenta i movimenti degli astri in modo cosi efficace che il risultato presenta esattamente il quadro
che viene confermato dal risultato delle forze reali.
Ma questo rapporto risulta valido anche in senso inverso, come spiegazione dell’accadere esterno in
base ai contenuti della vita interiore. Non intendo dire che anche quello sia a priori soltanto un mondo di
rappresentazioni, bensì, una volta che, su questa o su un’altra base epistemologica, un evento
relativamente esterno è stato posto di fronte a un evento relativamente interno, gli specifici fenomeni di
quest’ultimo servono a configurare un’immagine comprensibile del primo. Così, l’oggetto unitario
ricompone la somma delle sue qualità, che sono le sole che si presentano a noi, solo se gli conferiamo la
forma unitaria del nostro lo, nella quale cogliamo nel modo più profondo come una varietà di
determinazioni e di destini può fissarsi in un’unità permanente. Lo stesso – come spesso si è rilevato –
vale per la forza e la causalità delle cose esterne: in esse noi proiettiamo i sentimenti della tensione fisiopsichica, dell’impulso, dell’atto di volontà, e se dietro la loro immediata percettibilità poniamo quelle
categorie esplicative, ci orientiamo in esse in base alle esperienze dei sentimenti della nostra interiorità.
Così, se al di là di quella prima simbolizzazione di ciò che è interno attraverso l’elemento corporeo si
scava in uno strato più profondo, ci si imbatte nella connessione opposta. Se definiamo i processi psichici
come legami di rappresentazioni, ne avremo conoscenza in base a categorie spaziali; ma questa stessa
categoria di legame trova forse il proprio senso e significato in un processo meramente interiore, per nulla
visibile. Ciò che noi definiamo in termini di legame nel mondo esterno, cioè in qualche modo unificato e
compenetrato, rimane tuttavia nel mondo esterno eternamente contiguo, e riferendoci a questo legame
intendiamo qualcosa che può essere colto empaticamente nelle cose soltanto a partire dalla nostra
interiorità, qualcosa che è incomparabile con tutto ciò che è esterno, vale a dire il simbolo di ciò che non
possiamo stabilire ed esprimere direttamente. C’è dunque una specie di relativismo, per così dire, un
processo infinito tra l’interno e l’esterno: l’uno, in quanto simbolo dell’altro, lo rende pensabile e
rappresentabile, nessuno è primo o secondo, ma nella loro dipendenza reciproca realizzano l’unità del
loro, cioè del nostro, essere.
A questa spiegazione in termini di reciprocità simbolica i contenuti spirituali e fisici dell’esistenza si
prestano tanto più facilmente quanto più sono semplici. Nei processi semplici del collegamento, della
fusione, della riproduzione delle rappresentazioni noi possiamo ancora mantenere in una certa misura
l’idea di una legalità formale generale, che prescriva tanto al mondo interno quanto a quello esterno un
comportamento analogo e renda così l’uno adatto a rappresentare l’altro. Nel caso di forme spirituali
complesse e singolari la caratterizzazione in termini di analogie con processi visibili nello spazio risulta
sempre più difficile; risulta sempre più necessario che essa sia applicabile ad una pluralità di casi, per non
apparire casuale e arbitraria e per presentare una relazione fissa, anche se soltanto simbolica, con la realtà
psichica. Partendo da se stessa, quest’ultima troverà la comprensione delle cose, l’interpretazione del loro
senso e significato, in modo tanto più difficile e insicuro quanto più speciali o complessi sono i processi
da entrambi i lati; infatti quella misteriosa identità formale tra fenomeni interni ed esterni, che getta un
ponte dagli uni agli altri, diventa più inverosimile e più difficilmente percepibile. A questo punto vanno
introdotte altre considerazioni che collegano una serie molteplice di fenomeni culturali interni tutti
interpretabili in base ad una stessa analogia intuitiva, e che chiariranno la loro comune appartenenza ad un
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medesimo stile di vita.
Una delle immagini più frequenti con le quali di solito si illustra l’organizzazione dei contenuti della
vita è il loro ordinamento in un cerchio al cui centro è collocato l’individuo. C’è un tipo di rapporto tra
questo Io e le cose, gli uomini, le idee, gli interessi, che possiamo definire soltanto come distanza tra loro.
Ciò che diventa oggetto per noi può, rimanendo invariato dal punto di vista del contenuto, porsi vicino al
centro o spostarsi fino alla periferia del nostro cerchio di attenzione e di interessi. Ciò non provoca
tuttavia un mutamento del nostro rapporto interno con l’oggetto, al contrario, possiamo definire certi
rapporti dell’Io con i suoi contenuti solo mediante il simbolo visivo di una distanza determinata, o
mutevole, tra i due. È già a priori espressione simbolica di un fatto in sé inesprimibile il separare la nostra
esistenza interna in un Io centrale e in contenuti disposti intorno ad esso. E, in riferimento alle enormi
differenze delle impressioni sensoriali esterne delle cose in base alla loro distanza dai nostri organi –
differenze non solo nella nitidezza, ma anche nella qualità e nel carattere globale delle immagini ricevute
–, è ovvio che quella simbolizzazione deve essere estesa al punto che anche la differenza delle relazioni
più intime con le cose deve essere spiegata come differenza della distanza da loro.
Tra i fenomeni che da questo punto di vista costituiscono una serie unitaria vorrei sottolineare
soprattutto i fenomeni artistici. L’interna significatività degli stili artistici si può intendere come una
conseguenza della diversa distanza che essi stabiliscono tra noi e le cose. Ogni arte trasforma il campo
visivo in cui ci poniamo originariamente e naturalmente di fronte alla realtà. Da un lato essa ce l’avvicina,
ci pone in un rapporto più immediato con il suo senso più vero e più intimo; dietro la fredda estraneità del
mondo esterno ci svela l’anima interna dell’essere, che ce lo rende affine e comprensibile. D’altra parte,
però, ogni arte comporta un allontanamento dall’immediatezza delle cose, arretra la concretezza degli
stimoli e stende un velo tra noi e loro, simile al sottile vapore turchino che aleggia sui monti lontani. A
entrambi i lati di questa contrapposizione si collegano stimoli ugualmente forti: la tensione tra essi, la loro
distribuzione nella molteplicità delle domande poste all’opera d’arte, dà ad ogni stile artistico la sua
impronta caratteristica. Anzi, il mero fatto dello stile è già in sé uno degli esempi più significativi di
distanziazione. Lo stile nella estrinsecazione dei nostri processi interiori indica che questi non sgorgano
immediatamente, ma indossano una veste nell’attimo del loro rivelarsi. Lo stile, come formazione
generale dell’individuale, è per esso un involucro che costituisce una barriera e crea una distanziazione
nei confronti di chi ne accoglie l’estrinsecazione. A questo principio vitale di ogni arte che consiste
nell’avvicinarci alle cose ponendoci ad una certa distanza da esse, non si sottrae nemmeno l’arte
naturalistica, il cui senso sembra diretto esclusivamente al superamento della distanza tra noi e la realtà.
Infatti, soltanto un’illusione può far disconoscere al Naturalismo il fatto che è anch’esso uno stile, cioè
che anch’esso articola e trasforma l’immediatezza dell’impressione a partire da determinate premesse ed
esigenze – il che è incontestabilmente dimostrato dallo sviluppo storico dell’arte, nel quale tutto ciò che
un’epoca riteneva l’immagine letteralmente fedele e realistica della realtà è stato riconosciuto come pieno
di pregiudizi e falso dall’epoca successiva, che sola avrebbe rappresentato le cose come veramente sono.
Il realismo artistico cade nello stesso errore di quello scientifico quando pensa di poter fare a meno di un
a priori, di una forma che sgorgando dalle disposizioni e dai bisogni della nostra natura vesta o trasformi
la realtà sensibile. La trasformazione che la realtà subisce muovendo verso la nostra coscienza è certo una
barriera tra noi e il suo essere immediato, ma anche, nello stesso tempo, la condizione per immaginarla e
rappresentarla. Anzi, in un certo senso, il Naturalismo può indurre un distanziamento del tutto particolare
nei confronti delle cose se facciamo attenzione alla predilezione con cui cerca i suoi oggetti nella vita più
quotidiana, nell’insignificante e nel banale. Infatti, proprio perché il Naturalismo è anche, senza dubbio,
una stilizzazione, per chi è dotato di una sensibilità più raffinata e quindi nell’opera d’arte veda l’arte e
non il suo oggetto rappresentabile in molti modi possibili, tale stile sarà tanto più apprezzabile quanto più
comune, rozzo, terreno è il materiale nel quale si realizza.
Tendenze moderne all’aumento e alla riduzione di questa distanza
In complesso, l’interesse estetico del tempo recente va verso l’aumento della distanza dalle cose,
creata dall’inserimento delle cose in una dimensione artistica. Si ricordi l’immenso fascino che esercitano
gli stili artistici più remoti, temporalmente e spazialmente, per il sentimento artistico del tempo presente.
Ciò che è remoto risveglia molte vivide rappresentazioni che compaiono e svaniscono e soddisfano in
questo modo il nostro bisogno di varietà di stimoli; tuttavia, ognuna di queste rappresentazioni estranee e
lontane suscita solo una debole eco in noi, poiché non ha rapporti con i nostri interessi più personali e
immediati e procura pertanto solo una lieve eccitazione nei nostri nervi indeboliti. Quello che oggi
chiamiamo «spirito storico» forse non è soltanto una condizione favorevole all’insorgere di questo
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fenomeno, ma deriva insieme ad esso dalla stessa causa. Con la pienezza delle relazioni interne con
interessi molto lontani nel tempo e nello spazio, lo spirito storico ci rende sempre più sensibili agli chocs
e ai turbamenti che derivano dalla prossimità immediata e dal contatto con uomini e cose. La fuga
nell’inattuale diventa più facile, meno dannosa, in una certa misura viene legittimata, se porta alla
rappresentazione e al godimento di realtà concrete, che sono tuttavia molto lontane e non immediatamente
percepibili. Ne deriva anche il fascino del frammento, oggi così vivamente sentito, della mera allusione,
dell’aforisma, del simbolo, degli stili artistici non sviluppati. Tutte queste forme, che sono presenti in tutte
le arti, ci distanziano dalla totalità e dalla pienezza delle cose, ci parlano «come da lontano», la realtà non
si presenta in esse con vera sicurezza, ma quasi in punta di piedi, ritirandosi subito. L’estrema raffinatezza
del nostro stile letterario evita la definizione diretta degli oggetti, ne sfiora con la parola soltanto un lato
riposto, invece delle cose afferra i veli che le circondano. Le tendenze simboliche nelle arti figurative e
letterarie illustrano questo fenomeno nel modo più chiaro. Qui, la distanza che l’arte in quanto tale
stabilisce tra noi e le cose risulta estesa di una ulteriore stazione, in quanto le rappresentazioni, che
costituiscono il contenuto del processo psichico suscitato, non hanno più alcun riscontro sensibile
nell’opera d’arte stessa, ma sono soltanto un’eco che proviene da percezioni di contenuto completamente
diverso. In tutto questo manifesta la sua efficacia un tratto della sensibilità, la cui degenerazione
patologica è la cosiddetta «fobia del contatto»: la paura di venire a contatto con gli oggetti, una
conseguenza dell’iperestesia, per la quale ogni contatto immediato ed energico provoca dolore. Perciò la
finezza, la spiritualità, la sensibilità differenziata di molti uomini moderni si manifesta prevalentemente in
un gusto negativo, cioè nella facile suscettibilità nei confronti di ciò che non è appropriato,
nell’esclusione risoluta di ciò che non è simpatico, nella repulsione nei confronti di buona parte, anzi
spesso della maggior parte degli stimoli offerti, mentre il gusto positivo, l’energico dire-di-sì, l’afferrare il
piacere, gioioso e privo di riserve, in breve le energie che si appropriano attivamente di qualcosa vengono
a mancare.
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GYÖRGY LUKÁCS
Il fenomeno della reificazione (1923)*
L’essenza della struttura di merce è già stata spesso messa in rilievo. Essa consiste nel fatto che un
rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità e quindi un’«oggettualità spettrale»
che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della
propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini. Non è qui il caso di indagare in che modo questa
impostazione del problema sia divenuta centrale per l’economia stessa e quali conseguenze siano derivate
dall’abbandono di questa premessa metodologica in rapporto alle concezioni del marxismo volgare sul
terreno economico. Basterà qui – presupponendo l’analisi economica marxiana – richiamare l’attenzione
su quei problemi fondamentali che derivano da un lato dal carattere di feticcio della merce come forma di
oggettualità e, dall’altro, dal comportamento soggettivo ad essa coordinato, perché solo attraverso la loro
comprensione diventa per noi possibile penetrare con chiaro sguardo nei problemi ideologici del
capitalismo e del suo tramonto.
Tuttavia, prima di passare alla trattazione di questo problema, dobbiamo renderci chiaramente conto
che la questione del feticismo delle merci è un problema specifico della nostra epoca, del capitalismo
moderno. Come è noto, il traffico di merci ed i corrispondenti rapporti mercantili, soggettivi ed oggettivi,
sono esistiti anche in gradi molto primitivi dello sviluppo sociale. Ma ciò che qui importa è in che misura
il commercio di merci e le sue conseguenze strutturali (struktiv) sono in grado di influire sull’intera vita
esterna ed interna della società. Quindi, il problema di sapere fino a che punto il traffico di merci sia la
forma dominante del ricambio organico di una società non può essere semplicemente trattato – secondo
le abitudini di pensiero già reificate sotto l’influsso della forma di merce dominante – come una
questione quantitativa. In effetti, la differenza sussistente tra una società nella quale la forma di merce è
la forma dominante che influisce in maniera decisiva su tutte le manifestazioni di vita, ed una società
nella quale essa si presenta soltanto in modo episodico, ha un carattere qualitativo. In conformità con
questa differenza, tutti i fenomeni soggettivi ed oggettivi delle società in questione ricevono forme di
oggettualità qualitativamente diverse. Questa episodicità che caratterizza la società primitiva viene
decisamente sottolineata da Marx: «II commercio di scambio immediato, forma spontanea del processo
di scambio, rappresenta piuttosto l’iniziale trasformazione dei valori d’uso in merci che non quella delle
merci in denaro. Il valore di scambio non acquisisce forma libera, è bensì ancora vincolato direttamente
al valore d’uso. Questo risulta in due modi. La produzione stessa in tutta la sua costruzione è diretta al
valore d’uso, non al valore di scambio, e quindi soltanto in quanto i valori d’uso eccedono sulla misura
in cui sono richiesti per il consumo, essi cessano qui di essere valori d’uso e diventano mezzi di scambio,
merce. D’altra parte, diventano propriamente merci solo entro i limiti del valore d’uso diretto, sia pure
distribuito polarmente, cosicché le merci che i possessori si scambiano debbono essere per entrambi
valori d’uso, ma ognuna di esse dovrà essere valore d’uso per il suo non-possessore. In realtà, il processo
di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità naturali e spontanee, bensì là
dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano in contatto con altre comunità. Qui
ha inizio il commercio di scambio e di qui si ripercuote sull’interno della comunità, con un’azione
disgregatrice». Dove la constatazione dell’effetto di dissolvimento esercitato dal traffico di merci diretto
verso l’interno rinvia chiaramente alla svolta qualitativa provocata dal dominio della merce. Tuttavia,
questo influsso sulla struttura sociale interna non basta per far sì che la forma di merce diventi forma
costitutiva di una società. A tal fine, come abbiamo notato in precedenza, essa non deve limitarsi a
stabilire un collegamento esterno tra processi in se stessi indipendenti e diretti alla produzione di valori
d’uso, ma deve permeare la manifestazione di vita della società nella loro totalità, riplasmandole secondo
la propria immagine. La differenza qualitativa tra la merce come una forma tra le altre del ricambio
organico sociale dell’uomo e la merce come forma universale della strutturazione (Gestaltung) sociale
non si rivela tuttavia soltanto nel fatto che il rapporto di merce, come fenomeno particolare, esercita un
influsso estremamente negativo sulla struttura e sull’articolazione della società: essa ha anche un effetto
retroattivo sulla natura e sulla validità della categoria stessa. In quanto forma universale, la forma di
merce – anche considerata di per se stessa – presenta un altro volto da quello che le è proprio in quanto
fenomeno particolare singolo, non dominante. E la fluidità mantenuta anche in questo caso dai momenti
*
Da G. Lukács, Storia e coscienza di classe, tr. it. di G. Piana, SugarCo, Milano 1991, pp. 108-120.
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di transizione non deve celare il carattere qualitativo della differenza determinante. Così Marx mette in
evidenza l’elemento che caratterizza la situazione in cui il traffico di merci non è dominante: «II rapporto
quantitativo secondo il quale i prodotti si scambiano è in un primo tempo del tutto accidentale. Questi
prodotti acquistano la forma di merci, nel senso che essi sono in generale atti allo scambio, ossia
espressioni dello stesso terzo termine. La continuità dello scambio e la maggiore regolarità della
riproduzione per lo scambio fanno sparire sempre più questo carattere accidentale: all’inizio, tuttavia, non
tanto per i produttori e per i consumatori quanto per l’intermediario fra i due, il commerciante, il quale
confronta i prezzi in denaro e ne intasca la differenza. Mediante questo stesso movimento egli stabilisce
l’equivalenza. All’inizio il capitale commerciale non è che il movimento intermediario fra estremi che
esso non domina e fra presupposti che esso non crea». E questo sviluppo della forma di merce in forma
effettiva di dominio della società nella sua totalità è sorto soltanto nel capitalismo moderno. Perciò non
c’è da meravigliarsi se il carattere personale dei rapporti economici è stato intravisto all’inizio dello
sviluppo capitalistico in modo talora relativamente chiaro mentre, con il procedere di questo sviluppo e
con il sorgere di forme sempre più complicate e mediate, sempre più raramente e con maggior difficoltà si
riesce a penetrare con lo sguardo al di là di questi veli cosali. Secondo Marx, accade quanto segue: «Nelle
precedenti forme di società questa mistificazione economica si riscontra soprattutto solo in relazione al
denaro e al capitale produttivo di interesse. Essa è, per sua natura, esclusa in primo luogo dove predomina
la produzione per il valore d’uso, per i bisogni personali immediati; in secondo luogo dove la schiavitù o
la servitù della gleba, come nei tempi antichi o nel Medioevo, costituisce la larga base della produzione
sociale: il dominio delle condizioni di produzione sui produttori è qui celato dai rapporti di signoria e di
servitù, che appaiono e sono visibili come le molle dirette del processo di produzione».
Infatti, la merce è afferrabile nel suo carattere essenziale, non falsificato, soltanto come categoria
universale dell’essere sociale totale. Soltanto in questo nesso, la reificazione sorta per via del rapporto di
merce assume un’importanza decisiva sia per lo sviluppo oggettivo della società, sia per l’atteggiamento
degli uomini di fronte ad essa; per l’assoggettamento della loro coscienza alle forme in cui si esprime
questa reificazione; per i tentativi di afferrare questo processo o di ribellarsi ai suoi effetti disastrosi, di
liberarsi dalla servitù di questa «seconda natura» che così ha origine. Cosi Marx descrive il fenomeno
fondamentale della reificazione: «L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto
che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro
trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e
quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale
di oggetti che esiste al di fuori di essi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano
merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali... Quel che qui assume per gli uomini la forma
fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi».
A proposito di questo fatto strutturale fondamentale bisogna notare anzitutto che attraverso di esso
all’uomo viene contrapposta la propria attività, il proprio lavoro, come qualcosa di oggettivo e di
indipendente, che lo domina mediante leggi autonome che gli sono estranee. E ciò accade sia
soggettivamente che oggettivamente. Dal punto di vista oggettivo, sorge un mondo di cose già fatte e di
rapporti tra cose (il mondo delle merci ed il loro movimento sul mercato), regolato da leggi le quali, pur
potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini, si contrappongono ugualmente ad essi come forze
che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione. Quindi, benché
possa indubbiamente utilizzare a proprio vantaggio la conoscenza di queste leggi, l’individuo non può
influire, mediante la propria attività, sullo stesso decorso della realtà in modo da modificarlo. L’aspetto
soggettivo consiste invece nel fatto che, in una economia compiutamente mercificata, l’attività umana si
oggettiva di fronte all’uomo stesso trasformandosi in merce, ed essendo sottoposta all’oggettività estranea
all’uomo delle leggi naturali della società, deve compiere i propri movimenti in modo indipendente
dall’uomo, così come accade per ogni bene destinato a soddisfare i bisogni non appena si è trasformato in
cosa-merce. «Ciò che caratterizza l’epoca capitalistica – dice Marx – è che la forza-lavoro... riceve per il
lavoratore stesso la forma di una merce che gli appartiene. D’altro lato, solo in questo momento si
generalizza la forma di merce dei prodotti del lavoro».
L’universalità della forma di merce determina quindi un’astrazione del lavoro umano che si
oggettualizza nelle merci, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo. (D’altro lato la sua
possibilità storica è a sua volta determinata dalla reale effettuazione di questo processo di astrazione). Dal
punto di vista oggettivo, in quanto la forma di merce come forma di uguaglianza, di scambiabilità, tra
oggetti qualitativamente diversi diventa possibile solo perché – in questo rapporto, nel quale ricevono
indubbiamente soltanto la loro oggettualità come merci – essi vengono intesi come formalmente uguali.
Per questa ragione il principio della loro uguaglianza formale deve essere fondato sulla loro essenza in
quanto prodotti del lavoro umano astratto, e perciò formalmente uguale. Dal punto di vista soggettivo, in
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quanto quest’uguaglianza formale del lavoro umano astratto non è soltanto il comune denominatore a cui
vengono ridotti i diversi oggetti nel rapporto di merci, ma si trasforma in principio reale dell’effettivo
processo di produzione delle merci. Naturalmente, non è nostra intenzione descrivere anche soltanto in
forma di abbozzo questo processo: il sorgere del moderno processo lavorativo, del lavoratore «libero»
come singolo, della divisione del lavoro, ecc. Importa qui soltanto osservare che il lavoro astratto, uguale,
comparabile, che può essere commisurato con crescente esattezza al tempo di lavoro socialmente
necessario, il lavoro della divisione capitalistica del lavoro, sorge contemporaneamente come risultato e
presupposto della produzione capitalistica soltanto nel corso del suo sviluppo. Quindi, soltanto nel corso
di questo sviluppo esso si trasforma in una categoria sociale capace di influire in maniera determinante
sulla forma di oggettualità sia degli oggetti come dei soggetti della società che cosi ha origine, del riferirsi
di questa società alla natura, dei rapporti degli uomini tra loro in essa possibili. Se si segue il cammino
percorso dallo sviluppo del processo lavorativo dall’artigianato sino all’industria meccanizzata, attraverso
la cooperazione e la manifattura, si può vedere una crescente razionalizzazione, mentre vengono sempre
più messe da patte le proprietà qualitative, umano-individuali, del lavoratore. Da un lato, in quanto il
processo lavorativo viene sempre più frazionato in operazioni parziali astrattamente razionali: si spezza
così il riferirsi del lavoratore al prodotto in quanto intero ed il suo lavoro si riduce ad una funzione
specialistica che si ripete meccanicamente. Dall’altro, in quanto in ed in conseguenza di questa
razionalizzazione il tempo di lavoro socialmente necessario, la base del calcolo razionale, il tempo di
lavoro medio che inizialmente può essere fissato solo empiricamente, in seguito viene prodotto come
quantità di lavoro obbiettivamente calcolabile, che si contrappone al lavoratore in un’obbietti vita definita
e conclusa, in forza della crescente meccanizzazione e razionalizzazione del processo lavorativo. Con il
frazionamento moderno, «psicologico», del processo lavorativo (taylorismo) questa meccanizzazione
razionale giunge al punto di penetrare all’interno della stessa «anima» del lavoratore: anche le sue
proprietà psicologiche vengono separate dalla sua personalità complessiva, obbiettivate di fronte ad essa,
per poter essere inserite in sistemi specialistico-razionali e ricondotte ad un concetto calcolistico.
Per noi è di estrema importanza il principio che si afferma a questo punto: il principio della
razionalizzazione fondata sul calcolo, sulla calcolabilità. Le modificazioni decisive che vengono
effettuate nell’oggetto e nel soggetto del processo economico sono le seguenti: anzitutto la calcolabilità
del processo lavorativo esige che non si abbia più a che fare con l’unità organico-irrazionale, che è
sempre condizionata in senso qualitativo, del prodotto stesso. La razionalizzazione intesa come precalcolabilità sempre più esatta di tutti i risultati a cui si tende è raggiungibile soltanto mediante la più
precisa scomposizione di ogni complesso nei suoi elementi, mediante l’indagine delle leggi parziali
speciali della loro produzione. Essa deve quindi da un lato farla finita con un modo di produrre basato
sulla connessione tradizionale di esperienze empiriche di lavoro: la razionalizzazione è impensabile senza
specializzazione. Il prodotto unitario come oggetto del processo lavorativo si dissolve. Il processo si
trasforma in una riunione obbiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto
calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità. La scomposizione
razional-calcolistica del processo lavorativo annienta la necessità organica delle operazioni parziali che
sono reciprocamente collegate e che arrivano ad unificarsi nel prodotto. L’unità del prodotto come merce
non coincide più con la sua unità come valore d’uso: l’autonomizzazione tecnica delle manipolazioni
parziali nelle quali essa sorge, mentre la società si trasforma da parte a parte in senso capitalistico, si
esprime anche sul terreno economico come autonomizzazione delle operazioni parziali, come
relativizzazione crescente del carattere di merce di un prodotto ai diversi gradi della sua produzione. Ed a
questa possibilità di operare una scissione spazio-temporale nella produzione di un valore d’uso è di solito
associata la connessione spazio-temporale di manipolazioni parziali che si riferiscono a loro volta a valori
d’uso del tutto eterogenei.
In secondo luogo, questo scindersi dell’oggetto della produzione significa necessariamente anche
scissione del suo soggetto. Per effetto della razionalizzazione del processo lavorativo le qualità e le
peculiarità umane del lavoratore appaiono sempre più come mere fonti di errori di fronte al
funzionamento calcolato in anticipo di quelle leggi parziali esatte. Né dal punto di vista oggettivo, né da
quello del rapporto tra l’uomo ed il processo lavorativo, l’uomo stesso si presenta come l’autentico
tramite di questo processo: egli viene invece inserito come una parte meccanizzata in un sistema
meccanico, un sistema che egli trova bell’e pronto di fronte a sé e che funziona in piena indipendenza da
lui secondo leggi alle quali egli si deve adeguare senza far intervenire la propria volontà. Questa assenza
del volere viene accentuata dal fatto che, con la crescente razionalizzazione e meccanizzazione del
processo lavorativo, l’attività del lavoratore perde sempre più il suo carattere di attività, trasformandosi in
un comportamento contemplativo. L’atteggiamento contemplativo di fronte ad un processo regolato
secondo leggi meccaniche che si svolge indipendentemente dalla coscienza, sul quale l’attività umana non
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ha alcun influsso e che si manifesta perciò come un sistema definito e concluso, modifica anche le
categorie fondamentali del rapporto immediato dell’uomo con il mondo: esso riduce il tempo e lo spazio
ad un unico denominatore, porta il tempo al livello dello spazio: «A causa della subordinazione dell’uomo
alla macchina» dice Marx, accade che «gli uomini scompaiono davanti al lavoro; che il bilanciere della
pendola diviene la misura esatta dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due
locomotive. Per cui non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto
che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più nulla; è tutt’al più
farsi corpo (Verkörperung) del tempo. Non vi è più alcun problema di qualità. La quantità soltanto decide
di tutto: ora per ora, giorno per giorno...». II tempo perde così il suo carattere qualitativo, mutevole,
fluido: esso si irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito
da «cose» quantitativamente misurabili (le «operazioni» reificate del lavoratore, oggettivate
meccanicamente ed esattamente separate dalla sua personalità umana complessiva): in uno spazio. In un
tempo astratto, esattamente misurabile, che si è trasformato in uno spazio fisicalistico, come mondo
circostante, che è contemporaneamente premessa e conseguenza della produzione specializzata e
frazionata in modo scientifico-meccanico dell’oggetto del lavoro, i soggetti debbono a loro volta essere
razionalmente frazionati in modo corrispondente. Da un lato, in quanto il loro lavoro parziale
meccanizzato, l’obbiettivazione della loro forza-lavoro di fronte alla loro personalità complessiva che si è
già compiuta mediante la vendita di questa forza-lavoro come merce, si trasforma in realtà quotidiana
permanente ed insuperabile, cosicché la persona diventa anche in questo caso uno spettatore incapace di
influire su ciò che accade della sua esistenza, come una particella isolata ed inserita in un sistema
estraneo. D’altro lato, il meccanico frazionamento del processo di produzione spezza anche quei vincoli
che, nel caso della produzione «organica», ricollegavano in una comunità i soggetti singoli del lavoro. La
meccanizzazione della produzione li trasforma, anche sotto questo riguardo, in atomi astrattamente isolati
che non si trovano più in una relazione reciproca, organica ed immediata, per via delle loro operazioni
lavorative: la loro coesione è invece mediata con crescente esclusività dalle leggi astratte del meccanismo
nel quale sono inseriti.
Un simile effetto della forma organizzativa interna dell’azienda industriale sarebbe tuttavia
impossibile – anche all’interno dell’azienda – se in essa non si manifestasse in modo concentrato la
struttura dell’intera società capitalistica. In effetti, anche le società precapitalistiche hanno conosciuto
l’oppressione spinta sino alle forme più estreme dì sfruttamento, con pieno disprezzo di qualsiasi dignità
umana; e persino le imprese di massa caratterizzate dalla meccanica omogeneità del lavoro, come nel
caso delle costruzioni di canali in Egitto ed in Asia Minore, delle miniere di Roma, ecc. Il lavoro di massa
non poté tuttavia in questi casi trasformarsi in un lavoro razionalmente meccanizzato, e d’altra parte
queste attività rimasero sempre fenomeni isolati all’interno di collettività che producevano, e quindi
vivevano, in modo diverso («naturale»). Gli schiavi sfruttati si trovavano perciò al di là della società
«umana» in questione, il loro destino non poteva apparire ai loro contemporanei, neppure ai più grandi e
più nobili pensatori, come un destino umano, come il destino dell’uomo. Nel momento in cui la categoria
della merce si universalizza, questo rapporto si muta radicalmente e qualitativamente. Il destino del
lavoratore si trasforma in destino generale dell’intera società; l’universalità di questo destino è anzi la
premessa perché il processo lavorativo delle aziende si configuri e si orienti in questa direzione. La
meccanizzazione razionale del processo lavorativo diventa infatti possibile soltanto se è sorto il lavoratore
«libero», il quale è messo in condizioni di vendere liberamente sul mercato la propria forza-lavoro come
una merce che gli « appartiene », come una cosa che egli «possiede». Fintantoché questo processo si trova
alle sue origini, i mezzi per l’estorsione del plusvalore sono più diretti e brutali che nei successivi stadi
più evoluti, mentre è scarsamente avanzato il processo di reificazione del lavoro stesso, e quindi anche
della coscienza del lavoratore. Per giungere a questo punto è assolutamente necessario che l’intero
soddisfacimento dei bisogni della società si svolga nella forma dello scambio delle merci. La separazione
del produttore dai suoi mezzi di produzione, la dissoluzione e la frantumazione delle unità produttive
originarie, ecc. – tutte le premesse economico-sociali della formazione del capitalismo moderno operano
nel senso di sostituire le relazioni razionalmente reificate a quelle originarie, nelle quali si possono ancora
vedere senza veli i rapporti umani. «I rapporti sociali delle persone – dice Marx – appaiono in ogni modo
come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti di lavoro».
Ciò significa tuttavia che il principio della calcolabilità e della meccanizzazione razionale deve
abbracciare tutte le forme fenomeniche della vita. Gli oggetti del soddisfacimento del bisogno non si
presentano più come prodotti del processo vitale organico di una comunità (ad esempio, della comunità di
un villaggio), ma come esemplari astratti di un genere che non sono per principio distinti da altri
esemplari dello stesso genere, e d’altro lato come oggetti isolati il cui avere o non avere dipende da
calcoli razionali. Soltanto in quanto la vita intera della società viene così polverizzata in atti isolati di
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scambio di merci, può sorgere il lavoratore «libero»; ed al tempo stesso il suo destino si trasforma
necessariamente nel destino tipico dell’intera società.
È vero che l’isolamento e l’atomizzazione che così hanno origine sono soltanto un’apparenza. Il
movimento delle merci sul mercato, il sorgere del loro valore, in una parola l’ambito in cui opera ogni
calcolo razionale non è soltanto sottoposto a leggi rigorose, ma presuppone come base del calcolo la
rigorosa legalità di ogni accadimento. Questa atomizzazione dell’individuo è quindi soltanto il riflesso
nella coscienza del fatto che le «leggi di natura» della produzione capitalistica hanno afferrato tutte le
manifestazioni di vita della società: per la prima volta nella storia l’intera società, almeno
tendenzialmente, è sottoposta ad un processo economico unitario ed il destino di tutti i membri della
società viene mosso da leggi unitarie. (Le unità organiche delle società precapitalistiche hanno invece
compiuto il loro ricambio organico in un rapporto di reciproca indipendenza). Ma quest’apparenza è
necessaria in quanto apparenza; cioè, il confronto diretto, pratico ed anche intellettuale dell’individuo con
la società, l’immediata produzione e riproduzione della vita – in una situazione in cui la struttura
merceologica di tutte le «cose» e la «legalità naturale» dei loro rapporti si presenta all’individuo come
qualcosa di già definito, come un dato invalicabile – può svolgersi unicamente in questa forma di atti
razionali ed isolati di scambio tra possessori isolati di merce. Come si è detto, il lavoratore deve
considerarsi possessore della propria forza-lavoro come merce. Ciò che rende tipico il suo destino in
rapporto alla struttura di tutta la società è che questa auto-oggettivazione (Selbstobjektivierung), questo
trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e
disumanizzante del rapporto di merce.
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WALTER BENJAMIN
Il sex-appeal dell’inorganico (1935)*
Le acque sono azzurre e gli arbusti sono rosa;
la sera è dolce da vedere;
È l’ora del passeggio. Le grandi signore vanno
a spasso; dietro a loro vanno piccole signore.
Nguyen-Trong-Hiep, Paris capitale de la France.
Recueil de vers, Hanoi 1897. Poésie xxv.
1. Fourier o i «passages»
De ces palais les colonnes magiques
A 1’amateur montrent de toutes parts,
Dans les objets qu’etalent leurs portiques,
Que l’industrie est rivale des arts.
Nouveaux Tableaux de Paris (1828)
La maggior parte dei passages di Parigi sorge nei quindici anni dopo il 1822. La prima condizione del
loro sorgere è l’alta congiuntura del mercato tessile. Cominciano ad apparire i magasins de nouveautés, i
primi établissements che tengono grossi depositi di merci. Essi sono i precursori dei grandi magazzini.
Era allora che Balzac scriveva: «Le grand poème de l’étalage chante ses sttophes de couleur depuis la
Madeleine jusqu’à la porte Saint-Denis». I passages sono un centro del commercio di artticoli di lusso.
Nel loro arredamento l’arte entra al servizio del commerciante. I contemporanei non si stancano di
ammirarli. A lungo restano un centro di attrazione per gli stranieri. Una Guida illustrata di Parigi dice:
«Questi passages, recente invenzione del lusso industriale, sono corridoi ricoperti di vetro e dalle pareti
rivestite di marmo, che attraversano interi caseggiati, i cui proprietari si sono uniti per queste
speculazioni. Sui due lati di questi corridoi, che ricevono luce dall’alto, si succedono i più eleganti
negozi, sicché un passaggio del genere è una città, anzi un mondo in miniatura». I passages sono 1a sede
della prima illuminazione a gas.
La seconda condizione del sorgere dei passages è data dagli inizi della costruzione in ferro. L’Impero
aveva visto in questa tecnica un contributo al rinnovamento dell’architettura in senso greco-antico. Il
teorico dell’architettura Bötticher esprime la convinzione gener:ale quando dice che «per quanto riguarda
le forme artistiche del nuovo sistema» deve valere «il principio formale della maniera ellenica». L’empire
è lo stile del terrorismo rivoluzionario, per cui lo Stato è fine a se stesso. Come Napoleone misconobbe la
natura funzionale dello Stato come strumento di dominio della classe borghese, così gli architetti del suo
tempo misconobbero la natura funzionale del ferro, con cui il principio costruttivo si avvia a trionfare
nell’architettura. Questi architetti danno ai sostegni in ferro la forma di colonne pompeiane, alle fabbriche
quella di case d’abitazione, come piu tardi le prime stazioni cercano di imitare gli chalet. «La costruzione
assume il ruolo del subcosciente». Ciononostante, il concetto di ingegnere, che deriva dalle guerre
rivoluzionarie, comincia ad affermarsi, e cominciano le lotte fra costruttori e decoratori, École
Polytechnique ed École des Beaux-Arts.
Per la prima volta nella storia dell’architettura appare, col ferro, un materiale di costruzione artificiale.
Esso subisce un’evoluzione il cui ritmo si accelera nel corso del secolo. Questa evoluzione riceve un
impulso decisivo quando si vede che la locomotiva, con cui si sono fatti esperimenti a partire dalla fine
degli anni ’20, funziona solo su binari di ferro. Il binario diventa la prima parte montabile in ferro,
l’antesignano del pilone. Si evita il ferro nelle case di abitazione, e lo si impiega nei passages, nei
padiglioni delle esposizioni, nelle stazioni ferroviarie – che sono tutte costruzioni a scopi di transito.
*
Da W. Benjamin, I “passages” di Parigi, ed. it. a c. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, pp. 5-15.
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Nello stesso tempo si estende il campo di applicazione architettonica del vetro. Ma le premesse sociali di
una sua piu ampia utilizzazione come materiale edilizio si ritrovano solo cent’anni dopo. Ancora
nell’Architettura in vetro di Scheerbart (1914) essa appare in un quadro utopistico.
Chaque époque rêve la suivante.
Michelet
Avenir! Avenir!
Alla forma del nuovo mezzo di produzione, che, all’inizio, è ancora dominata da quella del vecchio
(Marx), corrispondono, nella coscienza collettiva, immagini in cui il nuovo si compenetra col vecchio. Si
tratta di immagini ideali, in cui la collettività cerca di eliminare o di trasfigurare l’imperfezione del
prodotto sociale; come pure i difetti del sistema produttivo sociale. Emerge insieme, in queste immagini,
l’energica tendenza a distanziarsi dall’invecchiato – e cioè dal passato più recente. Queste tendenze
rimandano la fantasia, che ha tratto impulso dal nuovo, al passato antichissimo. Nel sogno in cui, a ogni
epoca, appare in immagini la seguente, questa appare sposata a elementi della storia originaria, e cioè di
una società senza classi. Le esperienze della quale, depositate nell’inconscio della collettività, producono,
compenetrandosi col nuovo, l’utopia, che lascia le sue tracce in mille configurazioni della vita, dalle
costruzioni durevoli alle mode effimere.
Tali circostanze sono riconoscibili nell’utopia di Fourier. Essa deve il suo impulso più intimo
all’apparizione delle macchine. Ma ciò non appare direttamente dalle sue esposizioni, che partono
dall’immoralità del commercio, e dalla falsa morale addetta al loro servizio. Il falanstero deve ricondurre
gli uomini a condizioni in cui la moralità risulti sperflua. La sa complicatissima organizzazione appare
come un meccanismo. Gli addentellati delle passioni, la complessa interazione delle passions mécanistes
con la passion cabaliste, sono analogie primitive della macchina nel materiale psicologico. Questo
macchinario umano produce il paese della cuccagna, il sogno antichissimo che l’utopia di Fourier ha
riempito di nuova vita.
Fourier ha visto nei passages il canone architettonico del falanstero. La loro interpretazione in chiave
reazionaria da parte di Fourier è significativa: mentre essi servono in origine a scopi commerciali,
diventano in lui luoghi di abitazione. Il falanstero è una città di passages. Fourier introduce, nel rigido
mondo delle forme dell’Impero, l’idillio colorato del Biedermeier. Il suo splendore dura, affievolito, fino
a Zola: che accoglie le idee di Fourier nel Travail, come prende congedo dai passages nella Thérèse
Raquin. – Marx ha preso (contro Carl Grün) le difese di Fourier, e ha sottolineato la sua «grandiosa
concezione dell’uomo». E ha anche attirato l’attenzione sullo humour di Fourier. E in realtà Jean Paul,
nella Levana, è altrettanto affine al Fourier pedagogo quanto Scheerbart, nella sua Architettum in vetro, lo
è al Fourier utopista.
[…]
3. Grandville o le esposizioni universali
[…]
Le esposizioni universali sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce. «L’Europe s’est déplacé
pour voir des marchandises», dice Taine nel 1855. Le esposizioni universali sono precedute da
esposizioni nazionali dell’industria, di cui la prima ha luogo nel 1798 sul Campo di Marte. Essa nasce
dall’intento di «divertire le classi operaie e diventa per loro una festa di emancipazione». La classe
operaia è in primo piano come cliente. L’ambito dell’industria dei divertimenti non si è ancora formato.
Esso è fornito dalla festa popolare. Il discorso di Chaptal all’industria inaugura questa esposizione. – I
sansimoniani, che progettano l’industrializzazione del globo, fanno propria l’idea delle esposizioni
universali. Chevalier, la prima autorità nel nuovo campo, è allievo di Enfantin ed editore del giornale
sansimoniano «Le Globe». I sansimoniani hanno previsto lo sviluppo dell’economia mondiale, ma non la
lotta di classe. Alla loro partecipazione alle imprese industriali e commerciali verso la metà del secolo si
accompagna il loro imbarazzo nelle questioni riguardanti il proletariato.
Le esposizioni universali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro
valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi
distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo all’altezza della merce.
Egli si abbandona alle sue manipolazioni, godendo della propria estraniazione da sé e dagli altri. –
L’intronizzazione della merce e l’aureola di distrazione che la circonda è il tema segreto dell’arte di
Grandville. A ciò corrisponde il dissidio fra l’elemento utopistico e l’elemento cinico di essa. Le sue
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arguzie nella rappresentazione di oggetti morti corrispondono a ciò che Marx chiama i «capricci
teologici» della merce. Essi si riflettono chiaramente nella spécialité –una denominazione merceologica
che sorge in questo periodo nell’industria del lusso; sotto la matita di Grandville la natura intera si
trasforma in spécialités; Egli la presenta nello stesso spirito in cui la pubblicità – anche questa parola
sorge in quel periodo – comincia a presentare i suoi articoli. Finisce pazzo.
Moda: Madama morte! Madama morte!
Leopardi, Dialogo della moda e della morte
Le esposizioni universali edificano l’universo delle merci. Le fantasie di Grandville trasferiscono il
carattere di merce all’universo. Lo modernizzano. L’anello di Saturno diventa un balcone in ferro battuto
su cui gli abitanti di Saturno prendono aria la sera. L’equivalente letterario di questa utopia grafica è
rappresentato dai libri del naturalista fourierista Toussenal. – La moda prescrive il rituale secondo cui va
adorato il feticcio della merce; Grandville estende i diritti della moda agli oggetti dell’uso quotidiano e al
cosmo intero. Seguendola nei suoi estremi, ne svela la natura. Essa è in conflitto con l’organico; accoppia
il corpo vivente al mondo inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere.
Il feticismo, che soggiace al sex appeal dell’inorganico, è il suo ganglio vitale. Il culto della merce lo
mette al proprio servizio.
Per l’esposizione universale di Parigi del 1867 Victor Hugo lancia un manifesto: «Ai popoli
d’Europa». Prima e più chiaramente i loro interessi sono stati rappresentati dalle delegazioni operaie
francesi, deputata la prima all’esposizione universale di Londra del 1851, e la seconda, forte di 750
membri, a quella del 1862. Questa seconda ha avuto un’importanza indiretta per la fondazione
dell’Associazione internazionale operaia di Marx. – La fantasmagoria della civiltà capitalistica raggiunge
la sua massima realizzazione nell’esposizione universale del 1867. L’Impero è al culmine della sua
potenza. Parigi si conferma capitale del lusso e delle mode. Offenbach detta il ritmo alla vita parigina.
L’operetta è l’utopia ironica di un dominio permanente del capitale.
4. Luigi Filippo o l’«intérieur»
La tête…
Sur la table de nuit, comme une renoncule,
Repose.
Baudelaire, Une martyre.
Sotto Luigi Filippo fa il suo ingresso sulla scena storica il privato cittadino. L’estensione del sistema
democratico grazie al nuovo diritto elettorale coincide con la corruzione parlamentare organizzata da
Guizot. Protetta da questa corruzione, la classe dominante fa la storia curando semplicemente i propri
affari. Promuove la costruzione delle ferrovie per aumentare i propri possessi azionari; e favorisce il
regno di Luigi Filippo, quale regno del privato cittadino che amministra gli affari. Con la rivoluzione di
Luglio la borghesia ha realizzato gli obiettivi del 1789 (Marx).
Per il privato cittadino lo spazio vitale entra per la prima volta in contrasto col luogo di lavoro. Il
primo si costituisce nell’intérieur. Il suo complemento è il comptoir. Il privato cittadino, che tiene conto
della realtà nel comptoir, esige dall’intérieur di essere cullato nelle proprie illusioni. Questa necessità è
tanto più pressante in quanto egli non pensa affatto a estendere le sue considerazioni affaristiche a
riflessioni d’ordine sociale. Nel configurare il suo ambiente privato egli rimuove le une e le altre. Di qui
hanno origine le fantasmagorie dell’intérieur. Per il privato cittadino, esso rappresenta l’universo. In esso
egli raccoglie il lontano e il passato. Il suo salotto è un palco nel teatro universale.
Digressione sull’art nouveau. La crisi dell’intérieur ha luogo intorno alla fine del secolo nell’art
nouveau. È vero che – nella sua ideologia – esso sembra condurre l’intérieur al suo compimento. La
trasfigurazione dell’anima solitaria appare come la sua meta; l’individualismo è la sua teoria. In Van de
Velde la casa appare come espressione della personalità. L’ornamento è, per questa casa, ciò che la firma
è per il quadro. Ma il vero significato dell’art nouveau non si manifesta nella sua ideologia. Esso
rappresenta l’ultimo tentativo di sortita dell’arte assediata dalla tecnica nella sua torre d’avorio: un
tentativo che mobilita tutte le riserve dell’interiorità. Essa trova la sua espressione nel linguaggio lineare
medianico, nel fiore come simbolo della natura nuda e vegetativa, che si oppone all’ambiente
tecnicamente armato. I nuovi elementi della costruzione in ferro, piloni e forme di sostegno, impegnano
l’art nouveau. Nell’ornamento esso si sforza di riconquistare queste forme all’arte. Il cemento armato gli
apre nuove prospettive di modellazione plastica nell’architettura. Intorno a questo periodo l’epicentro
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reale dello spazio vitale si trasferisce nell’ufficio. L’altro, privato della sua realtà, si crea una sede nella
dimora personale. Le somme dell’art nouveau sono tirate nel Costruttore Solneß: il tentativo
dell’individuo di tenere testa alla tecnica in nome della propria interiorità conduce alla sua rovina.
Je crois à mon âme, la Chose.
Léon Deubel, Oeuvres, Paris 1929
L’intérieur è il rifugio dell’arte. Il collezionista è il vero inquilino dell’intérieur. Egli si assume il
compito di trasfigurare le cose. È un lavoro di Sisifo, che consiste nel togliere alle cose, mediante il suo
possesso di esse, il loro carattere di merce. Ma egli dà loro solo un valore d’amatore in vece del valore
d’uso. Il collezionista si trasferisce idealmente, non solo in un mondo remoto nello spazio o nel tempo,
ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario
che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono libere dalla schiavitù di essere utili.
L’intérieur non è solo l’universo, ma anche la custodia del privato cittadino. Abitare significa lasciare
tracce, ed esse acquistano, nell’intérieur, un rilievo particolare. Si inventano fodere e copertine, astucci e
custodie in quantità, dove si imprimono le tracce degli oggetti d’uso quotidiano. Anche le tracce
dell’inquilino s’imprimono nell’intérieur; e nasce la storia poliziesca, che segue appunto queste impronte.
La Filosofia del mobilio come i suoi racconti polizieschi fanno di Poe il primo fisionomista dell’intérieur.
I criminali dei primi romanzi polizieschi non sono né gentlemen né apaches, ma privati cittadini.
5. Baudelaire o le strade di Parigi
Tout pour moi devient allégorie.
Baudelaire, Le Cygne
L’ingegno di Baudelaire, che si nutre di melancolia, è un ingegno allegorico. Per la prima volta, in
Baudelaire, Parigi diventa oggetto della poesia lirica. Questa poesia non è un genere di arte regionale; lo
sguardo dell’allegorico, che coglie la città, è lo sguardo dell’estraniato. È lo sguardo del flâneur, il cui
modo di vivere avvolge ancora di un’aura conciliante quello futuro, sconsolato dell’abitante della grande
città. Il flâneur è ancora sulla soglia, sia della grande città che della classe borghese. Né l’una né l’altra lo
hanno ancora travolto. Egli non si sente a suo agio in nessuna delle due; e cerca un asilo nella folla.
Precoci contributi alla fisionomia della folla si trovano in Engels e in Poe. La folla è il velo attraverso il
quale la città familiare appare al flâneur come fantasmagoria. In questa fantasmagoria essa è ora
paesaggio, ora stanza. Entrambi sono poi realizzati nel grande magazzino, che rende la flânerie stessa
funzionale alle vendite. Il grande magazzino è l’ultimo marciapiede del flâneur.
Col flâneur l’intellighenzia si reca al mercato. A vederlo, secondo lei; ma, in realtà, già per trovare un
compratore. In questo stadio intermedio, in cui ha ancora mecenati, ma comincia già a familiarizzarsi col
mercato, essa appare come bohème. All’incertezza della sua posizione economica corrisponde quella
della sua funzione politica; come appare nel modo piu evidente nei cospiratori di professione, che
appartengono in tutto alla bohème. Il loro campo d’azione iniziale è l’esercito, poi diventa la piccola
borghesia, e all’occasione il proletariato. Ma tale ceto vede i suoi avversari negli autentici capi di
quest’ultimo. II Manifesto comunista mette fine alla loro esistenza politica. La poesia di Baudelaire
attinge la sua forza dal pathos ribelle di questo ceto. Egli si mette dalla parte degli asociali. La sua sola
comunità sessuale è quella con una puttana.
Facilis descensus Averni.
Virgilio, Eneide
È l’unicità della poesia di Baudelaire che le immagini della donna e della morte si mescolino in una
terza: quella di Parigi. La Parigi delle sue poesie è una città sprofondata, piu ancora sottomarina che
sotterranea. Gli elementi ctoni della città – la sua formazione topografica, il vecchio letto abbandonato
della Senna – hanno lasciato un’impronta nella sua poesia. Ma decisivo, in Baudelaire, nella «sostanza
idillica funebre» della città, è un sostrato sociale, moderno. Il moderno è un accento fondamentale della
sua poesia. Come spleen, esso frantuma l’ideale (Spleen et Idéal). Ma proprio la modernità cita sempre la
storia originaria. Ciò accade, qui, attraverso l’ambiguità che è propria dei rapporti e dei prodotti sociali
dell’epoca. Ambiguità è l’apparizione figurata della dialettica, la legge della dialettica nell’immobilità.
Questo arresto, o immobilità, è utopia, e l’immagine dialettica un’immagine di sogno. Un’immagine del
genere è la merce stessa: come feticcio. Un’immagine del genere sono i passages, che sono casa come
sono strade. Un’immagine del genere è la puttana, che è insieme venditrice e merce.
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Je voyage pour connaître ma géographie.
Nota di un pazzo (Marcel Réja, L’art chez les fous, Paris 1907)
L’ultima poesia delle Fleurs du mal: Le voyage; «O mort, vieux capitaine, il est temps, levons
l’ancre». L’ultimo viaggio del flâneur: la morte. La sua meta: il nuovo. «Au fond de l’inconnu pour
trouver du nouveau». La novità è una qualità indipendente dal valore d’uso della merce. È l’origine
dell’apparenza che è inseparabile dalle immagini prodotte dall’inconscio collettivo. È la quintessenza
della falsa coscienza, di cui la moda è l’agente infaticabile. Questa apparenza di novità si riflette, come
uno specchio nell’altro, nell’apparenza del sempreuguale. Il prodotto di questo riflettersi è la
fantasmagoria della «storia culturale», in cui la borghesia deliba la sua falsa coscienza. L’arte, che
comincia a dubitare del suo compito e cessa di essere «inséparable de l’utilité» (Baudelaire), deve fare del
nuovo il suo valore supremo. Lo snob diventa per lei l’arbiter novarum rerum. Egli è per l’arte ciò che il
dandy è per la moda. –Come nel Seicento l’allegoria, così nell’Ottocento la nouveauté diviene il canone
delle immagini dialettiche. Ai magasins de nouveautés si affiancano i giornali. La stampa organizza il
mercato dei valori spirituali, che in un primo momento registra una grande impennata. I nonconformisti si
ribellano alla consegna dell’arte al mercato, Essi si raccolgono intorno alla bandiera dell’«art pour l’art».
Da questa parola d’ordine scaturisce la concezione dell’opera d’arte totale, che cerca di preservare l’arte
dallo sviluppo della tecnica. La solennità con cui l’opera d’arte totale celebra se stessa è il pendant degli
svaghi che trasfigurano la merce. L’uno e l’altra astraggono dall’esistenza sociale dell’uomo. Baudelaire
soggiace alla malia di Wagner.
[…]
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