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Guerra tra clan per una donna contesa

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Guerra tra clan per una donna contesa
Guerra tra clan per una donna contesa
Una vendetta covata in silenzio tra due capi clan della "zona - centro" per anni, esplosa con
il pretesto di una "donna contesa". Una donna che abbandona un boss dopo avergli dato
due figli e va a convivere col fratello di un altro boss, e diventa madre di altri due figli. Una
guerra di mafia interrotta quando era appena cominciata. Un capoclan che fugge da un letto
d'ospedale sentendo "puzza di bruciato". Un poliziotto che era «organico» ad un gruppo
criminale tanto da partecipare all'esecuzione di un omicidio sfruttando il suo distintivo. Ma
soprattutto un "uomo di rispetto" che dopo essere uscito dal carcere decide anche di dare
un taglio con la malavita e comincia a collaborare con la giustizia, snocciolando nomi e fatti
sui due clan in guerra.
C'è molto dietro i 20 provvedimenti di fermo decisi dalla Procura ed eseguiti dalla Squadra
mobile nel corso dell'operazione denominata "Omero", nei confronti dei clan De Luca e
Vadalà. E tutto è successo in un paio di settimane. Non si poteva aspettare che i morti
cominciassero a diventare troppi per le strade, cosi capi e gregari delle due “Famiglie” in
guerra sono stati mandati dietro le sbarre.
I provvedimenti di fermo sono stati firmati dal procuratore Luigi Croce, dal sostituto della
Direzione nazionale antimafia Carmelo Petralia, e dal sostituto procuratore Pietro Mondaini.
Nei prossimi giorni i provvedimenti verranno esaminati per la convalida dal gip Alfredo
Sicuro. «Ci troviamo di fronte ad un provvedimento eccezionale - ha detto ieri il
procuratore Croce in conferenza stampa -, che andava adottato per la gravità dei fatti e per
l'incolumità della gente». «Da ciò emerge - ha aggiunto poi il sostituto della Dna Petralia -,
come una città grande e importante come Messina continui a vivere con una cappa d'intimidazione mafiosa».
LA GUERRA DI MAFIA - Inserirsi nel contesto criminale dei due clan non è stato facile
per gli investigatori della Squadra mobile, che son dovuti partire da due tragici dati di fatto:
l'omicidio di Domenico Randazzo, giustiziato da un commando esperto e trovato cadavere
in via Roosevelt il 29 gennaio scorso, e la mancata esecuzione di Massimo Russo,
"sbagliato" da due killer poco precisi tre giorni prima in una sala giochi di via Buganza.
Randazzo e Russo - gli investigatori lo sapevano bene -, erano “uomini” di Antonino De
Luca, che dopo essersi allontanato dal gruppo di Luigi Sparacio aveva creato una sua
“Famiglia”. Perché queste due azioni di fuoco dopo anni di silenzio? Ecco l'interrogativo
principale che gli uomini della Mobile sono riusciti a chiarire dopo due settimane continue
d'indagine. Due sono le chiavi di lettura, che devono essere inserite nella «contrapposizione
sanguinaria» tra i clan capeggiati da Antonino De Luca e da Ferdinando Vadalà. Da un lato
ci sono i dissapori per la spartizione della "torta" delle estorsioni e del traffico di droga
nella zona centrale della città che si sono trascinate quasi in silenzio per anni. Dall'altro
questi contrasti sono però esplosi negli ultimi tempi a causa di una "donna contesa":
Salvatrice "Sabrina" Fondarò, che prima era sposata con Antonino De Luca, dal quale
aveva avuto due figli, e poi, circa quattro anni or sono, era andata a convivere con Pietro
Vadalà, fratello di Ferdinando Vadalà e quindi componente di un clan avverso.
Una "offesa" che De Luca in questi anni non ha dimenticato, durante le notti passate in cella
(è già condannato all'ergastolo ed è imputato in diversi processi per omicidio); quando De
Luca è uscito dal carcere per scontare gli arresti domiciliari al padiglione H del Policlinico
potendosi "muovere meglio" ha decretato la morte del suo antagonista, Pietro Vadalà
Campolo. Ma per le “1eggi” non scritte della mafia (si tratta di due gruppi contrapposti ma
non ufficialmente in guerra) ha dovuto chiedere a Ferdinando Vadalà “l’autorizzazione” ad
uccidergli il fratello; un' autorizzazione che però non e mai arrivata. C'è stata una lunga
"mediazione" portata avanti tra i due clan e anche dai componenti di una terza “Famiglia”. Il
risultato finale dei “meeting” è stato il permesso accordato a De Luca di «sfogare» la sua
vendetta sulla sua ex moglie che lo aveva abbandonato. Ma la vendetta è un piatto che va
servito freddo. De Luca ha saputo aspettare. Ha atteso infatti che un suo fedelissimo
Domenico Randazzo, abile killer, uscisse dal carcere il 20 gennaio scorso. E dal letto del
padiglione H del Policlinico, dove si trovava ricoverato agli arresti ospedalieri, De Luca, ha
dato l'ordine a Randazzo e all'altro suo "fedelissimo", Massimo Russo, di uccidere l'ex
moglie. Randazzo e Russo hanno così cominciato a pedinare "Sabrina" Fondarò per
organizzare l'agguato mortale, ma hanno commesso un gravissimo errore: la sera tra il 21 e
il 22 gennaio si sono fatti notare proprio sotto casa della Fondarò, al rione Carrubbara, da
Paolo Freni un "picciotto" di Ferdinando Vadalà. Così la Fondarò e Ferdinando Vadalà
hanno capito che De Luca stava mettendo in atto la sua vendetta. La “Famiglia” dei Vadalà
così giocando d'anticipo ha organizzato una reazione. Il 25 gennaio, di mattina, "Sabrina"
Fondarò è andata in carcere a trovare il convivente Pietro Vadalà. La donna tornando a
casa ha portato “l’imbasciata” del convivente ai fratelli: in sostanza l'uccisione dei due killer
incaricati da De Luca, Randazzo e Russo.
Nel pomeriggio dello stesso giorno Ferdinando Vadalà -secondo quanto ricostruito dagli
inquirenti -, ha consegnato a due suoi uomini incensurati, Domenico Trentin e Antonino Pagliaro, una pistola calibro 7,65 che doveva "servire" per Russo. L'indomani i due si sono
recati nel circolo ricreativo di via Buganza per uccidere Massimo Russo. Ma la loro
missione di morte è fallita: Russo è riuscito a schivare quasi tutte le pallottole. Se la prima
"risposta" dei Vadalà è fallita la seconda è andata tragicamente a segno. Nella notte tra il 28
e 29 gennaio un commando di quattro uomini, costituito dal poliziotto Francesco Tringali, e
da Domenico Trentin, Antonino Pagliaro e Rocco Noschese ha prelevato nella sua abitazione Domenico Randazzo, che è stato ucciso poco dopo con quattro colpi di pistola
calibro 38.
IL RUOLO DEL PENTITO - Ancora è definito «persona informata sui fatti». Ma la
collaborazione del "nuovo pentito", un elemento del clan Vadalà che da pochi mesi è uscito
di cella., si è rivelata una vera e propria svolta nelle indagini, e le sue dichiarazioni sono
state pazientemente riscontrate dagli investigatori. Il collaboratore, giudicato «pienamente
coerente», ha delineato agli inquirenti gli organigrammi dei due clan in guerra, e si è anche
autoaccusato di diversi delitti, tra i quali omicidi e tentati omicidi. Per almeno uno di questi
fatti - ecco un'altra prova della sua “genuinità” - non era stato mai indagato. I suoi verbali
sono recentissimi, l'ultimo è datato 3 febbraio. E tra i tanti fatti raccontati dal collaborante
c'e anche un agguato che non è mai stato scoperto, avvenuto nell'estate del '97 nei confronti di due componenti del clan De Luca da parte di due picciotti di Ferdinando Vadalà. Un
agguato che fallì perché la pistola dei killer si inceppò. E oltre al primo pentito gli inquirenti
hanno acquisito la “verità” di un secondo collaborante, che da più tempo aveva deciso di
raccontare tutto quello che sapeva.
Nuccio Anselmo
EMEROTECA ASSOCIAZIONE MESSINESE ANTIUSURA ONLUS
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