Harold Bloom, Presentazione de La dodicesima notte di Shakespeare
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Harold Bloom, Presentazione de La dodicesima notte di Shakespeare
^ William ^ La dodicesima notte Se la musica è nutrimento dell’amore, suonate ancora e datemene in abbondanza. CD Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Estratto della pubblicazione ^ William ^ Opere Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma. La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilievo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare, in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate (Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizione letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –, le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Manualetto shakespeariano. Estratto della pubblicazione z William z ,ADODICESIMA NOTTE #$ #URAEINTRODUZIONE DI'ABRIELE"ALDINI #ONUNTESTO DI(AROLD"LOOM Estratto della pubblicazione WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE 14 – La dodicesima notte Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera © 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano via Solferino 28, 20121 Milano Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli ISBN 9788861261518 Proprietà letteraria riservata © 1963-2012 RCS Libri S.p.A., Milano Titolo originale dell’opera: Twelfth Night: Or, What You Will Traduzione e note di Gabriele Baldini Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo © 2001 RCS Libri S.p.A. Titolo originale dell’opera: Shakespeare: the Invention of the Human © 1998 by Harold Bloom Traduzione di Roberta Zuppet Prima edizione digitale 2012 da edizione WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE 2012 Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Estratto della pubblicazione PRESENTAZIONE di Harold Bloom Nonostante la mia preferenza personale per Come vi piace, motivata dalla simpatia per Rosalinda, devo ammettere che La dodicesima notte è senza dubbio la migliore tra le commedie pure di Shakespeare. Nessun personaggio di quest’opera, nemmeno Viola, è tuttavia mirabile quanto Rosalinda. La dodicesima notte ovvero quel che volete fu scritta con ogni probabilità nel 1601-1602 e va a colmare la lacuna tra l’ultima stesura di Amleto e Troilo e Cressida. Il dramma contiene elementi di autoparodia, non al livello dell’autoderisione di Cymbeline, ma a metà strada tra le feroci ironie di Amleto e l’irriverenza di Troilo e Cressida, superbamente espressa da Tersite. Credo che Shakespeare abbia recitato la parte di Antonio sia nel Mercante di Venezia sia nella Dodicesima notte, dove il secondo, omoerotico, Antonio è parodia del primo. Nella Dodicesima notte confluiscono quasi tutte le precedenti commedie di Shakespeare, non perché il drammaturgo avesse perso la sua inventiva umoristica, ma perché si era lasciato dominare dallo spirito comico di «quel che volete», se non altro come difesa contro l’amarezza delle tre dark comedies immediatamente successive: Troilo e Cressida, Tutto è bene quel che finisce bene e Misura per misura. Subito dopo La dodicesima notte si apre un abisso, e l’unico modo per non cadervi dentro consiste nel capire che tutti, ad eccezione di Feste, il buffone riluttante, sono pazzi senza saperlo. Quando viene rinchiuso nella buia stanza riservata ai matti, lo sventurato Malvolio dovrebbe essere in compagnia di Orsino, Olivia, Sir Tobia Derutti, Sir Andrea Malagota, Maria, Sebastiano, Antonio e persino Viola, perché il comportamento Estratto della pubblicazione di tutti e nove rasenta a dir poco la follia. Il maggiore difetto delle rappresentazioni cui ho assistito finora è un’eccessiva lentezza. Il dramma andrebbe infatti recitato al ritmo frenetico adatto a questo gruppo di pazzi e buffoni. Mi spiace che Shakespeare abbia usato La dodicesima notte come titolo principale; Quel che volete sarebbe stato più azzeccato e, tra i vari significati, in inglese equivale all’espressione «Toccato!», anticamente usata nei duelli. Non si può dire che l’opera sia una farsa di alto livello. Come tutti i drammi shakespeariani più felici, non appartiene infatti ad alcun genere preciso. Non ha la portata cosmologica di Amleto, ma, in un modo del tutto sorprendente, è anch’essa un «poema infinito». Non riusciamo ad arrivare alla conclusione, perché anche le battute all’apparenza più insignificanti ci riecheggiano senza fine nella mente. Il dottor Johnson, alquanto irritato, affermò che il dramma non offriva «un’immagine fedele della vita», ma, secondo i canoni della severa definizione johnsoniana, la commedia è senza dubbio «un’esatta rappresentazione di natura generale». Mi inchino davanti a Johnson, soprattutto quando parla di Shakespeare, e credo che il suo equilibrio precario, la sua paura della pazzia, lo spingessero a cercare un intento razionale dove non ve n’era alcuno: Viola sembra aver escogitato un piano molto accurato con pochissima premeditazione; fa naufragio su una costa sconosciuta, apprende che il principe è scapolo e si risolve a sostituire la donna ch’egli corteggia. Questo comportamento non è affatto tipico di Viola, anche se è evidente che la protagonista si innamora a prima vista del folle Orsino. Trasaliamo di fronte a gran parte delle coppie shakespeariane, e il Duca è forse il compagno più sciocco e indegno per la coerente e allegra Viola, colpevole solo di essere un po’ stravagante. La dodicesima notte si rifiuta tuttavia di prendersi sul serio, e noi le useremmo violenza con Estratto della pubblicazione aspettative così realistiche, se non fosse per il fatto che nel dramma l’invenzione dell’umano di Shakespeare emerge con sorprendente forza mimetica. I suoi personaggi più assurdi, tra cui anche Orsino, si aprono verso l’interno, il che è sconcertante in una farsa, o in un’autoparodia delle farse precedenti. Malvolio non possiede l’estensione infinita di Falstaff o Amleto, ma sfugge al controllo del drammaturgo e, oltre a costituire una sublime satira del moraleggiante Ben Jonson, ha una tremenda causticità pur essendo dotato di una sinistra simpatia. Shakespeare è più vicino all’atmosfera di Amleto che a quella di Misura per misura: la soggettività e l’individualità, le sue grandiose invenzioni, sono la norma nella Dodicesima notte. Ritengo che questo sia il più divertente tra i drammi shakespeariani, anche più della prima parte di Enrico IV, dove Falstaff, come Amleto dopo di lui, è intelligente al di là dell’intelligenza e suscita quindi riflessioni troppo profonde per indurci a ridere. Nella Dodicesima notte l’unico personaggio savio è Feste, ma nel dramma tutti vibrano di vitalità, soprattutto l’incurante Sir Tobia Derutti, il meno falstaffiano degli spacconi. C.L. Barber ha inserito l’opera tra le «commedie festive», ma ha aggiunto tante descrizioni da suscitare numerosi dubbi sul leitmotiv della festa. Una festa di pazzi arriva al limite abbastanza in fretta; La dodicesima notte si allarga a ogni rilettura e persino durante una rappresentazione poco brillante. Il dramma è decentrato; non vi è quasi alcuna azione significativa, forse perché tutti si comportano in maniera involontaria. L’avrebbe potuta scrivere un Nietzsche più allegro, poiché si ha l’impressione che la vita dei personaggi venga vissuta da forze al di là del loro controllo. Il cuore nascosto della Dodicesima notte è racchiuso nella rivalità semiseria tra Shakespeare e Ben Jonson, la cui comedy of humors viene satireggiata nell’intero testo. L’antica medicina greca postulava l’esistenza di quattro «umori»: sangue, umor nero, flemma e bile. In un individuo equilibrato, nes- suna di tali sostanze prevaleva sulle altre, ma l’eccesso di una delle quattro era causa di gravi disturbi emotivi. All’epoca di Jonson e Shakespeare, la teoria era stata semplificata e gli umori si erano ridotti a due: umor nero e sangue. Un’eccessiva quantità del primo sfociava nell’ira, mentre il temperamento sanguigno si esprimeva attraverso una lascivia ossessiva e spesso perversa. Abbracciando queste idee, la psicologia popolare spiegava in maniera semplicistica ogni tipo di ipocrisia o affettazione, i bersagli delle commedie teatrali di Jonson. Per certi aspetti, questa versione impoverita della teoria degli umori assomiglia alle nostre comuni volgarizzazioni di quello che Freud chiamava inconscio. L’umore collerico corrisponde più o meno al Thanatos, o pulsione di morte, mentre l’umore sanguigno ricorda l’Eros. Di solito Shakespeare si fa beffe di queste operazioni meccaniche della mente; la sua ben più vasta invenzione dell’umano disprezza tali limitazioni. Il drammaturgo sceglie pertanto l’Epifania, la dodicesima notte dopo Natale, come occasione per un’ambigua commedia di gozzoviglie imperniata su un tiro mancino a spese del collerico Malvolio, una figura tanto jonsoniana da ricordare il collerico Ben in persona. Il sanguigno Will ci regala Quel che volete, in cui domina l’atmosfera da Saturnali tramandata dalle celebrazioni religiose dell’Epifania, la manifestazione di Gesù Bambino ai Magi. Il dramma di «quel che volete» che, come gran parte delle opere di Shakespeare ha un tono allegro e secolare, non fa alcun riferimento all’Epifania. Non siamo nel periodo natalizio nello stravagante ducato dell’Illiria, dove Viola fa naufragio e, con il suo atteggiamento passivo e ilare, forse non raggiunge la propria felicità ma di certo agevola la nostra. La commedia non si apre tuttavia con l’affascinante Viola, bensì alla corte del duca Orsino, dove quel sublime e irriverente amante dell’amore, sanguigno fino al limite della follia, ci incanta con uno dei discorsi più squisiti nati dalla penna di Shakespeare: Se la musica è nutrimento dell’amore, suonate ancora, e datemene in abbondanza così che essendone saziato, il mio appetito ne ammali e se ne muoia. Ancora quella melodia! Moribonda cadenza giunge al mio orecchio come un dolce fiato che spira da un banco di violette, rubando e diffondendo il profumo attorno. Basta, non più: non è così dolce ora, come era innanzi. O spirito d’amore! agile e fresco sei; che sebbene la tua capacità superi quella dei mari, pure nulla può penetrare in te, per quanto potente e sublime, che non ne resti diminuito e vinto. Amore, così multiforme che esso medesimo è soltanto pura immaginazione. [I.i.1-15] La metafora d’apertura di Orsino doveva essere rimasta impressa nella mente di Shakespeare, poiché Cleopatra, cinque anni dopo, la ripete quando sente nostalgia di Antonio: «Ch’io senta della musica. Musica, malinconico cibo di noi che traffichiamo in amore». Molto più innamorato della lingua, della musica, dell’amore e di se stesso di quanto lo sia di Olivia, o lo sarà di Viola, Orsino dice a se stesso e a noi che l’amore è troppo affamato per essere soddisfatto da una qualsiasi persona. Eppure, i primi otto versi di questa rapsodia hanno più a che fare con la musica, e, per analogia, con la poesia, che con l’amore. Quella «cadenza esanime» è una cantilena che riecheggia nella successiva poesia inglese, soprattutto nella tradizione che va da Keats a Tennyson. Orsino, dotato davvero di una «fantasia suprema», chiede un eccesso di musica, e non d’amore, ma la sua intensità metaforica fa sì che la frase «non è più così dolce ora, qual era» si riferisca anche alla passione sessuale. Il Duca supererà persino questa autorivelazione parlando con Viola, che, nei panni del paggio Cesario, riceve l’ordine di presentare a Olivia le dichiarazioni d’amore del Duca. Con il suo sconfinato amore per le iperboli, Orsino sfiora qui l’apice della fatuità maschile: Non c’è cuore di donna che possa contenere l’impeto di una passione violenta come quella che l’amore ha acceso nel mio cuore; non cuore di donna così grande e capace di poter tanto accogliere in sé. L’amore delle donne può chiamarsi, ahimè, un desiderio che non viene dal cuore ma dal palato, pronto alla sazietà al disgusto alla rivolta. Il mio amore è una insaziabile fame e divora come il mare. Ah, non paragonare l’amore che potrebbe darmi una donna con quello che io sento per Olivia. [II.iv.94-104] Se estrapolato dal contesto, questo passo è ancor più bello del canto d’apertura ma, trattandosi di Orsino, non è che meravigliosa magniloquenza comica. Benché il Duca sia un personaggio secondario rispetto a Viola, Olivia, Malvolio (come suonano bene insieme i loro nomi) e al mirabile Feste, l’amabile follia erotica del suo personaggio determina il tono della Dodicesima notte. Nonostante il suo stupefacente egocentrismo, Orsino commuove davvero il pubblico, non solo perché il suo tardo Romanticismo è così donchisciottesco, ma anche perché il suo sentimentalismo è troppo universale per essere respinto. Amico, ripetici la canzone della notte scorsa. Seguila con attenzione, Cesario; è antica e piana. La cantano le filatrici e le cucitrici al sole; e le tessitrici giovinette spensierate lanciando le loro spole d’osso. È piena d’ingenuità e scherza d’amore, con la bella innocenza dei tempi andati. [II.iv.42-48] Quando dice la verità, Orsino dimostra anche la propria magnifica incoerenza: Estratto della pubblicazione Perché, fanciullo, anche se ci vantiamo del contrario, in noi uomini le fantasie sono molto più mobili e incostanti, impazienti, fluide; e più presto consumate e spente che nelle donne. [II.iv.32-35] Il povero Malvolio sarebbe più felice in un altro dramma, e anche Viola, Olivia e soprattutto Feste troverebbero contesti idonei in altre opere di Shakespeare. Orsino è il genius loci del testo; è l’unico personaggio che si adatti alla sfrenata follia della Dodicesima notte. 2 Il principale enigma dell’incantevole Viola è la sua straordinaria passività, che senza dubbio aiuta a spiegare perché la donna si innamori di Orsino. Anne Barton osserva giustamente che il travestimento maschile della protagonista «non è uno strumento di liberazione, ma solo uno stratagemma per sfuggire a una situazione difficile». Nell’intera commedia si respira un’aria di improvvisazione, e il travestimento di Viola fa parte di questa atmosfera, sebbene io creda che nemmeno Shakespeare sarebbe riuscito a improvvisare un dramma tanto bello e complesso; la sua arte attenta si mette all’opera per regalarci l’effetto estetico dell’improvvisazione. La personalità di Viola è insieme ricettiva e difensiva: l’eroina mostra «lo scudo di un benvenuto» (per usare l’espressione di John Ashbery). Il suo stile è il più sfaccettato del dramma, poiché la donna cambia linguaggio a seconda dei capricci dei discorsi altrui. Benché, in modo sottile, Viola sia interessante quanto lo sventurato Malvolio e il riluttante buffone Feste, Shakespeare preferisce lasciarla avvolta nel mistero, con molti aspetti ancora da scoprire. Forse l’Orsino della «fantasia suprema» la attira perché è il suo esatto contrario; le iperboli del Estratto della pubblicazione Duca completano le sue reticenze. Se nel dramma vi è una vera voce del sentimento, deve essere quella di Viola, ma la udiamo solo di rado. Quando emerge, il suo pathos è tuttavia irresistibile: Una capanna vorrei farmi alle soglie della vostra porta, tutta di salici: e reclamare l’anima mia prigioniera qui dentro. Scrivere chiari canti di infelice amore e cantarveli a distesa nel cuore della notte. Il vostro nome lanciare contro i ripercossi colli e che il ciarliero spirito dell’aria sempre dovesse echeggiar forte: «Olivia». Oh, non vi lascerei restar così, tra cielo e terra, a mezzo; ma dovreste sentir compassione di me. [I.v.272-280] L’effetto del discorso è ironico, poiché spinge Olivia a innamorarsi del presunto Cesario. Per Viola, il lamento scaturisce da una diversa ironia: l’assurdo dilemma di dover alimentare l’amore di Orsino per Olivia quando i suoi desideri sono del tutto contrari a quell’unione. Quel che fa capolino tra queste ironie è l’elemento più profondo e lamentoso di Viola, ma forse anche un’intensa sofferenza, nuova o antica, nello stesso Shakespeare. Possiamo definire Viola una vitalista repressa, animata dall’intensità di Rosalinda ma costretta a soffocare la propria forza, forse perché la sua identità si mescola a quella del gemello, Sebastiano. La trenodia della «capanna tutta di salici» vibra di questa forza innata, cantando le proprie canzoni d’amore non ricambiato «a distesa nel cuore della notte». A questo punto del dramma siamo ormai abituati al fascino di Viola, ma la sua personalità, apparentemente sottomessa, dimostra ora la propria resistenza e la propria notevole e tenace vivacità. «Voi potreste far molto» risponde Olivia al canto, togliendo le parole di bocca al pubblico. In questa abile opera, simile a una camera a eco, Viola racconta della sorella immaginaria in un successivo dialogo con Orsino: Estratto della pubblicazione Viola. Mio padre aveva una figlia; ella amava un uomo come, foss’io donna, avrei potuto amare Vostra Signoria. Duca. E la sua storia? Viola. Pagine bianche, monsignore! Non si svelò mai, e il verme del segreto le consunse le rose del bel viso. Illanguidì, malinconicamente rassegnata, come la statua a guardia di una tomba, sorridendo al dolore. Che cos’era questo, se non vero amore? [II.iv.108-116] La parola inglese blank (qui tradotta con «pagine bianche») è una metafora shakespeariana che ossessiona la poesia inglese partendo da Milton, passando attraverso Coleridge e Wordsworth, per poi arrivare a Emily Dickinson e Wallace Stevens. Qui indica soprattutto un foglio bianco, una storia mai documentata; in altre opere shakespeariane si riferisce al segno bianco posto al centro del bersaglio. Poiché questa melanconica sorella è un surrogato immaginario di Viola, può darsi che vi sia un accenno a un bersaglio mancato, un obiettivo non raggiunto. Il discorso contiene i semi di alcune delle liriche più strazianti di William Blake, tra cui «La rosa ammalata» e «Non cercare mai di dire al tuo amore», oscure visioni della repressione e delle sue conseguenze erotiche. Entrambi gli sfoghi elegiaci, pronunciati da Viola in presenza di Olivia e di Orsino, hanno una forte componente apotropaica: mirano ad allontanare un fato che l’eroina insegue con la propria passività, da cui non sembra capace di guarire. Quel fato è incombente nella scena più bizzarra della Dodicesima notte, scena del tutto fuori luogo in una commedia, quando il frustrato Orsino giura che truciderà Viola-Cesario e la vittima non oppone alcuna resistenza. Duca. Sempre così crudele? Olivia. Sempre così costante, monsignore. Duca. Fino a essere perversa? donna scortese, davanti ai vostri ingrati e infausti altari Estratto della pubblicazione l’anima mia ha sciolto i più fervidi voti d’una devozione tenera e piena. Che devo fare ancora? Olivia. Tutto quello che piace al mio signore, purché sia degno di lui. Duca. Ah perché non mi basta l’animo di uccidere l’oggetto dei miei desideri, come l’egiziano ladro della leggenda, condannato a morte? Spesso ha un sapore di grandezza la gelosia selvaggia. Ma sappiatelo: poiché voi con tanta noncuranza rifiutate la mia fede, e io ho capito anche troppo bene chi usurpa nel vostro cuore il posto che dovrebbe essere mio, continuate pure a vivere, voi tiranna cuordisasso. Ma questo efebo, che, vedo bene, voi amate, e che anche a me, lo giuro, è teneramente caro, io ve lo strapperò dalla vista di codesti occhi crudeli dove troneggia incoronato al posto del suo padrone. Ragazzo, andiamo; nel mio pensiero, ormai, il misfatto è maturo. Sacrifico l’agnello che mi è caro, per colpire a morte questo cuor d’avvoltoio dentro un petto di colomba. Viola. Felice di servirvi, mio signore; e se è per vostra pace, prontissimo e lietissimo e dispostissimo a morire mille volte. [V.i.109-131] Orsino, per cui già prima il pubblico non nutriva grande ammirazione, è un pazzo criminale se parla sul serio, e Viola è una sciocca masochista se pensa davvero quello che dice. Perché Shakespeare insinua in noi questo dubbio? La stupidità oltrepasserebbe il confine che la separa dalla patologia se Sebastiano non comparisse all’improvviso affrettando la scena del riconoscimento? Non ho trovato molte osservazioni utili su questo problematico momento. La furia omicida di Orsino è già abbastanza sconvolgente di per sé; la delirante rassegnazione a una morte per amore getta sul ruolo di Viola l’ombra di tristi conseguenze. Pur facendoci sbellicare dalle risa, la Dodicesima notte è quasi sempre sull’orlo della violenza. L’Illiria non è la più salubre tra le regioni remote, Estratto della pubblicazione trovandosi, nel cosmo shakespeariano, a metà strada tra la miasmatica Elsinore di Amleto e le feroci guerre e gli amori infedeli di Troilo e Cressida. 3 Se il suo ruolo viene recitato correttamente, Olivia riesce ad abbagliarci con la sua autorità e la sua arbitrarietà erotica, ma per lei il pubblico non nutre mai l’affetto che concede a Viola, per quanto quest’ultima si riveli sconcertante. Le due eroine formano una strana coppia, e Shakespeare deve essersi divertito a immaginare che ci saremmo scervellati per capire come mai Olivia si innamori del presunto Cesario. Non vi è molta congruenza tra l’amore di Viola per il crudele Orsino e l’amore di Olivia per l’arguto ma schivo paggio del Duca. La passione di Olivia è una manifestazione farsesca dell’arbitrarietà dell’identità sessuale più che una rivelazione del carattere essenzialmente lesbico della passione femminile matura. Ho sentito parlare di una produzione in cui Sebastiano fa coppia con Orsino e Olivia con Viola. Non intendo assistervi, e Shakespeare non ha scritto la storia in questo modo. Qui, come in altri testi precedenti e successivi, il drammaturgo fa tuttavia vacillare le nostre semplicistiche certezze sull’identità sessuale. Nel gioco delle coppie che conclude la commedia, Malvolio non è l’unico aspirante insoddisfatto. Antonio non parla più dopo aver urlato: «Siete Sebastiano, voi?». Come l’Antonio del Mercante di Venezia, questo secondo Antonio ama invano. Quando la incontriamo per la prima volta, Olivia piange il fratello morto; senza dubbio il suo dolore è sincero, ma funge anche da difesa contro le insistenze di Orsino. La sua tristezza svanisce infatti quando conosce Cesario e si innamora di lui a prima vista. Poiché Olivia è folle quanto il Duca, forse qualsiasi giovane dall’indole dolce avrebbe suscitato in lei i mede- Estratto della pubblicazione simi sentimenti. Al centro della Dodicesima notte vi è l’acuta percezione di Shakespeare secondo cui l’amore carnale è arbitrario nelle origini ma condizionato nella teleologia. Freud riteneva che la scelta oggettuale (l’innamoramento) fosse sempre narcisistica o anaclitica. La concezione di Shakespeare è più simile a una teoria della scatola nera; l’unica differenza consiste nel fatto che, al contrario di quanto avviene dopo gli schianti aerei, dopo gli schianti erotici non è possibile recuperare la scatola. «Questo male s’apprende al cuore, dunque, così rapidamente?» è la domanda retorica di Olivia dopo la prima uscita di Cesario, e la risposta è la seguente: «O sorte, mostra adesso il tuo potere. E poiché di noi stessi non disponiamo quello che è scritto si compia», dove «disponiamo» significa «abbiamo il controllo». Il secondo dialogo di Olivia con il presunto Cesario ci regala la più ampia visione di una natura che desta il nostro interesse e la nostra attenzione solo quando la sua indulgenza verso se stessa sfiora il sublime. Possedere l’autorità di Olivia e lasciarsi comunque andare a un’arrendevolezza tanto vulnerabile equivale a risvegliare il calore, se non addirittura l’amore momentaneo, del pubblico. Olivia. Fermati, e dimmi, ti prego, che cosa pensi di me!… Viola. Che voi pensate di non essere quella che siete. Olivia. Se lo penso, penso lo stesso di voi. Viola. E con ragione. Io non sono quello che sono. Olivia. Oh, così foste quello che io vorrei Viola. Sarei allora meglio di quello che sono? Vorrei che così fosse perché adesso non sono che il vostro passatempo… Olivia. (a parte) Ah, che è pur bello lo sdegno sulle sue labbra superbe e scontrose! Non così presto si svela un delitto di sangue quanto un amore che si vuole nascondere: l’oscurità dell’amore è luminosa come un meriggio! Cesario, per le rose della primavera, per la verginità, l’onore, la fede, e ogni altra cosa bella, Estratto della pubblicazione io, nonostante tutto il tuo orgoglio, e tutto il tuo ritegno, ti amo tanto che né criterio né ragione possono più nascondere il mio amore. Non rispondermi col pretesto che anche se io imploro il tuo amore tu non hai motivo di corrispondermi. Ma intendi la più giusta ragione, e pensa che, se l’amore implorato è bello, anche più bello è l’amore spontaneamente offerto. Viola. Per l’innocenza e la mia giovinezza giuro che ho un cuore anch’io, e un’anima e una fede; e che nessuna donna né è né potrà esserne mai padrona. E ora addio, buona signora, io non verrò più da voi a rimproverarvi le lacrime del mio padrone. Olivia. No, torna ancora, ché solo tu puoi forse persuadere il mio cuore che ora lo respinge, ad amarlo. [III.i.139-166] Si tratta di una scena che richiede due grandi attrici abili nella commedia romantica, e soprattutto nella recitazione dei quattro versi 141-144, che sono interpretabili in vari modi. È probabile che in questo caso il pubblico apprezzi allo stesso modo entrambi i ruoli: quello di Viola per la sua destrezza in una situazione assurda, e quello di Olivia per la sua sfacciataggine. In questo passo, lo stesso Shakespeare è davvero irriverente, come accade in altri punti della Dodicesima notte. L’autoparodia prolettica risuona soprattutto nell’«Io non sono quello che sono» di Viola, da cui trarrà spunto Iago, il personaggio che le somiglia di meno. Sia Viola che Iago fanno il verso alla frase di san Paolo: «Per la grazia di Dio, io sono quel che sono». Nell’abile e folle intreccio shakespeariano, Olivia è sulla strada giusta, poiché il gemello di Viola cederà alla contessa con una prontezza stupefacente persino per questo dramma. I versi 141-144 si incentrano sui temi del rango e della dissimulazione. Viola ricorda a Olivia la sua elevata posizione sociale, e Olivia insinua che Viola voglia nascondere le sue nobili origini. «Io non sono quello che sono» sottintende Estratto della pubblicazione quest’idea e allude anche all’identità sessuale di Viola, che carica di ironia la frase di Olivia «Oh, così foste quello che io vorrei ». Queste parole rendono del tutto ambigua la risposta di Viola, l’esasperazione dello spirito dovuta alla necessità di sostenere una menzogna per l’intero dramma. Questo superbo dialogo culmina nell’a parte di Olivia: «L’oscurità dell’amore è luminosa come un meriggio», che afferma l’impossibilità di celare l’amore, ma ci spinge a chiederci quale sia, allora, «la luce dell’amore». 4 I festaioli e i burloni (Maria, Sir Tobia Derutti, Sir Andrea Malagota) sono i personaggi meno gradevoli della Dodicesima notte, perché il modo in cui si prendono gioco di Malvolio oltrepassa il limite del sadismo. Maria, cameriera di Olivia e unica persona assennata del gruppo, è un’intraprendente arrampicatrice sociale. È tenace, un po’ petulante, piena di risorse e molto energica. Sir Tobia è insulso; solo un idiota (ce ne sono stati molti) paragonerebbe questa canaglia di infimo livello al grande genio di Shakespeare, Sir John Falstaff. L’ancora più ambiguo Sir Andrea è stato letteralmente prelevato dalle Allegre comari di Windsor, dove recita la parte di Slender. Derutti e Malagota sono caricature, ma Maria, comica per natura, possiede un’interiorità pericolosa ed è l’unico personaggio davvero maligno della Dodicesima notte. Si domanda con freddezza se i suoi stratagemmi faranno davvero impazzire Malvolio e conclude: «Tanto di guadagnato per la quiete della casa». Insieme con Feste, Malvolio è la grande creazione shakespeariana della Dodicesima notte; l’opera diventa il dramma di Malvolio, proprio come avviene nel Mercante di Venezia, dove Shylock usurpa a poco a poco il ruolo dominante. Con molta perspicacia, Charles Lamb definisce il maggiordomo una figu- Estratto della pubblicazione ra tragicomica, un Don Chisciotte dell’erotomania, affermazione che rivela una grande verità sul personaggio. Malvolio risente del fatto di non trovarsi nel dramma più adatto a lui. Sarebbe stato perfetto in Volpone o nell’Alchimista di Ben Jonson, dove sarebbe diventato però uno dei tanti ideogrammi jonsoniani, una caricatura e non un personaggio. Il Malvolio di Shakespeare è più la vittima delle sue stesse inclinazioni psichiche che lo zimbello di Maria. Il suo sogno di grandezza socio-erotica («Il conte Malvolio») è una delle più brillanti invenzioni di Shakespeare, sempre fastidiosa in quanto studio dell’autoinganno e della malattia dello spirito. Essendo una parodia di Ben Jonson, Malvolio trae dal grande commediografo e poeta satirico soltanto una belligeranza morale. In lui la depravazione della volontà è un difetto dell’immaginazione, o del principio «quel che volete». La critica marxista interpreta Malvolio come uno studio dell’ideologia di classe, ma questa visione è riduttiva sia per il personaggio sia per il dramma. Quel che conta in Malvolio non è il fatto che sia il maggiordomo di Olivia ma che sogni con tanta intensità da deformare il proprio senso della realtà e cadere vittima delle astute intuizioni di Maria sulla sua natura. L’ipercritico Malvolio, un falso puritano, è solo un paravento che maschera la propria sete di grandezza. In sostanza, Malvolio subisce le conseguenze della pericolosa preminenza della propria immaginazione, e non delle rigide strutture sociali del mondo di Shakespeare. Lui e Maria si odiano, ma in realtà sarebbero una combinazione perfetta di energie negative. Invece, Maria conquisterà l’ubriaco Sir Tobia, e Malvolio conoscerà solo alienazione e amarezza. È difficile sopravvalutare l’originalità di Malvolio in quanto personaggio comico; nelle opere di Shakespeare o di altri autori c’è qualcuno che gli assomigli? Nei drammi shakespeariani compaiono altri personaggi grotteschi, ma nessuno di loro viene presentato come individuo rispettabile per poi subire una radicale trasformazione. Estratto della pubblicazione