QUARTA LEZIONE La proprietà ed i diritti reali e i diritti personale di
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QUARTA LEZIONE La proprietà ed i diritti reali e i diritti personale di
QUARTA LEZIONE La proprietà ed i diritti reali e i diritti personale di godimento alla luce della riforma. Comunione e condominio. I diritti reali; L’articolo 833 c.c. e le attribuzioni del proprietario; La funzione sociale della proprietà e gli atti emulativi; I modi di acquisto, possesso ed usucapione; Le limitazioni, il diritto di accedere al fondo altrui (art. 843 c.c.); Le limitazioni, la disciplina delle immissioni; Le limitazioni, le norme sulle distanze legali; I diritti reali minori; superficie, usufrutto uso ed abitazione; le servitù; Comunione e condominio. Eugenio Antonio Correale I diritti reali: La nozione di diritto reale costituisce la cornice giuridica della situazione di condominio e dei conflitti che interessano i condomini. Pur essendo lontana dal linguaggio comune, sarebbe improprio prescinderne, poiché da essa derivano molte delle singolarità che stupiscono il neofita del diritto condominiale. I “diritti reali” sono esercitati sulle cose (res, in latino); sono “tipici”, poiché si tratta delle sole figure espressamente previste dall’ordinamento, senza che sia consentito ipotizzarne di nuovi o di diversi e sono caratterizzati dal rapporto immediato e diretto tra il titolare e la cosa che forma oggetto delle facoltà di disposizione e di godimento. Il titolare del diritto reale soddisfa la sua pretesa direttamente e immediatamente sulla cosa, senza necessità di collaborazione da parte dei terzi, destinatari unicamente di un generico dovere di astenersi da turbative. La proprietà è il diritto reale per eccellenza; accanto ad essa si pongono i cosiddetti diritti reali minori di godimento: usufrutto, uso, abitazione, servitù, superficie, enfiteusi. Vengono quindi i cosiddetti diritti reali di garanzia: pegno e ipoteca. Il diritto del proprietario è imprescrittibile e si connota per la sua ampiezza, competendo al titolare del bene ogni ipotizzabile utilità e persino il diritto di alienarlo o di consumarlo. Radicalmente diversa è la disciplina dell’usufrutto, che si prescrive per non uso ventennale e che abilita l’usufruttuario a usare il bene ed a ritenerne i frutti, ma non a venderlo o a consumarlo, poiché la sostanza e la destinazione del bene devono essere salvaguardate. Benché così diversi, tanto la proprietà che l’usufrutto sono diritti reali, poiché in entrambi i casi la pretesa del titolare si dirige immediatamente sul bene, mentre i terzi non sono debitori di alcuna prestazione e devono soltanto astenersi dall’interferire nell’esercizio delle facoltà spettanti al titolare del diritto. Dalla determinazione della natura del rapporto, reale o obbligatorio, derivano notevoli differenze di disciplina. I diritti reali minori si prescrivono in venti anni e la proprietà non conosce affatto la prescrizione, mentre le obbligazioni sono sempre soggette a termine di prescrizione: dieci anni, in via generale (art. 2946 c.c.) o anche molto meno in numerosi casi particolari. I diritti reali sono tipicamente disciplinati dal codice e non è consentito approntarne di nuovi; l’obbligatorietà della forma scritta e della trascrizione è fondamentale per i diritti reali sugli immobili. Al contrario, nell’ambito dei rapporti obbligatori le parti sono abilitate a stipulare contratti non conformi ai tipi espressamente contemplati dal codice ( art. 1322 c.c.) e domina il principio della forma libera, talché possono essere stipulati verbalmente se una norma particolare non prescrive la forma scritta. Non sempre risulta agevole la determinazione della natura, di diritto reale o di obbligazione, di una particolare situazione giuridica. Si ponga mente alle clausole dei regolamenti contrattuali che limitino l’esercizio dei diritti dei condomini e fissino il divieto di destinare le unità immobiliari per particolari usi (laboratori medici, scuole di ballo, ecc.). Poiché tali limitazioni sono contenute in un contratto (tale è il regolamento di condominio), si sarebbe portati a ritenere che si tratti di meri rapporti obbligatori. Tuttavia la giurisprudenza ha posto l’accento sulle conseguenze di tali clausole, che finiscono per imporre limiti all’esercizio dei diritti dominicali e per dettarne la ampiezza. La giurisprudenza ha così affermato che i limiti all’utilizzazione delle parti comuni o all’utilizzazione delle stesse proprietà esclusive, posti dal regolamenti di condominio, hanno natura di veri e propri diritti reali e possono configurarsi come servitù od anche come “oneri reali” poiché incidono sulla sostanza e sulla consistenza dei diritti sui beni. L’affermazione è densa di conseguenze interessanti per l’amministratore. Se istituissero rapporti obbligatori, le clausole che impongono limiti all’uso delle parti comuni non sarebbero soggette a trascrizione e i diritti che ne scaturiscono si prescriverebbero in dieci anni; a conclusione opposta si perviene considerando che con esse si modifica un diritto reale. Molte sentenze assumono che la violazione delle clausole che limitano l’utilizzazione dei beni attengano all’essenza delle attribuzioni del proprietario e comportino modifica delle articolazioni del diritto di comproprietà che spetta ai condomini. Si è così affermato che le limitazioni risultanti dai regolamenti contrattuali non sono soggette a prescrizione e possono essere vinte soltanto dalla usucapione (Cass. n. 2106/2004) L’articolo 833 c.c. e le attribuzioni del proprietario: La proprietà concerne la titolarità dei beni, mobili o immobili, e si estende ai diritti su beni immateriali. Il concetto di proprietà non conosce precisa definizione, opportunamente evitata anche dal nostro ordinamento legislativo; l’articolo 832 c.c. si limita a dettare il contenuto del diritto di proprietà e le attribuzioni del proprietario, senza indulgere in definizioni1. 1 Art. 832. Contenuto del diritto. Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico I caratteri fondamentali della proprietà sono dati: a. dalla natura del diritto: diritto reale, poiché il titolare ha rapporto diretto con la cosa e il suo esercizio non esige prestazioni da parte dei terzi, tenuti solo a rispettarne la posizione e ad astenersi da turbative; b. dalle attribuzioni assegnate al proprietario che può utilizzare il bene, ne può godere e ne può disporre, persino per alterarne la sostanza o per alienarlo; c. dalla pienezza delle facoltà di godere e disporre, estese a tutte le utilità consentite dal bene; d. dal diritto di escludere chiunque dalla possibilità di entrare in contatto con il bene o di partecipare alla sua utilizzazione. e. dall’elasticità. I poteri del proprietario possono essere compressi dai diritti vantati da altri (es.: usufrutto o servitù) ma si espandono automaticamente con il venire meno delle dette limitazioni. Il nudo proprietario riacquista tutte le sue attribuzioni con la morte dell’usufruttuario, senza che occorra alcuna dichiarazione di volontà. Il suggestivo carattere della elasticità può dare luogo a conseguenze imbarazzanti, ad esempio perché i diritti dei condomini sul cortile comune si espandono automaticamente non appena cessi il diritto d’uso che la unica proprietaria si era riservato. Dal giorno della cessazione del diritto d’uso l’amministratore può agire a tutela dei condomini, ma inizia anche a decorrere il periodo valido per l’usucapione a favore di chi utilizzi il cortile in via esclusiva; f. dall’imprescrittibilità: la proprietà non si estingue per il mancato uso. Si deve distinguere la imprescrittibilità dagli effetti dell’usucapione. L’usucapione non comporta l’estinzione del diritto per mancato utilizzo del bene, ma istituisce una titolarità nuova ed originaria, più viva e vitale, alla quale l’ordinamento giuridico accorda la sua preferenza. L’aggettivo pieno, contenuto nell’articolo 832 c.c., scolpisce la caratteristica essenziale della proprietà che comprende ogni possibile tipo di godimento, preventivamente ipotizzabile o meno, con la sola eccezione delle limitazioni che siano espressamente affermate. Esso si accompagna all’aggettivo esclusivo, che indica ulteriore carattere della posizione del proprietario, che ha diritto di escludere gli altri dal godimento del suo bene od anche dalla semplice possibilità di entrarvi in fisico contatto. L’articolo 841 c.c. afferma che il proprietario può recingere in qualunque tempo il fondo e la sua previsione si applica anche nel condominio, consentendo persino al singolo condomino di procedere alla recinzione del fondo condominiale anche in difetto di speciale decisione della assemblea. Le facoltà di entrare in fisico contatto le parti comuni e di difenderle, con la recinzione o simili espedienti materiali od anche agendo in giudizio, costituiscono parte essenziale del contenuto dei diritti dei condomini sulle cose comuni. A facoltà così vaste si accompagnano altrettanto ampie responsabilità. La gestione dei condominii costituirà ottimo campo di riferimento per saggiare vantaggi e responsabilità. La funzione sociale della proprietà e gli atti emulativi: La Costituzione (art. 42) stabilisce che la proprietà può essere “pubblica o privata”, fissando il pieno riconoscimento della proprietà privata, della quale la legge ordinaria deve determinare “ i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. L’articolo 832 c.c. attribuisce al proprietario i più ampi poteri, ma aggiunge “entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico”. L’articolo 832 c.c. è preveggente, poiché pone l’accento sulla necessità di considerare tanto i poteri del proprietario, che la tradizione estende dal centro della terra fino alle stelle (ab infera e usque ad sidera, dicevano i latini), quanto i limiti dettati dall’ordinamento giuridico. Il successivo articolo 833 c.c. si inserisce perfettamente nelle previsioni appena richiamate. La norma, di antichissima origine, appare rivitalizzata dal vigente ordinamento giuridico poiché si collega al generale divieto di abusare del diritto ed all’obbligo di comportarsi correttamente tanto quando si adempie ad una obbligazione tanto quando se ne pretende l’esecuzione. Il dovere di correttezza, che nel campo delle obbligazioni è costantemente ribadito e che costituisce architrave della disciplina dei contratti, nella nostra materia si palesa anche come divieto degli atti emulativi. Il concetto di atto emulativo è espresso compiutamente nella seguente massima: “costituisce atto emulativo la collocazione di piante di alto fusto su un terrazzo, in modo tale da intercludere la visuale del proprietario dell'appartamento confinante, se da detto comportamento non derivi un'utilità concreta o una maggiore amenità per il proprietario da cui l'atto sia stato compiuto (Trib. Napoli, 20 febbraio 1997). I rapporti condominiali si intersecano talvolta con il divieto degli atti di emulazione. Si dà il caso dell’assemblea che neghi la sua autorizzazione al condomino che intenda eseguire una semplice opera di modifica interna, inidonea a determinare qualsivoglia effetto sulle altre parti dell’edificio; tale delibera impedisce il soddisfacimento di una aspirazione del singolo senza perseguire alcuna apprezzabile tutela per gli altri consociati certamente induce a sospetto di abuso. Celeste ( I rapporti di vicinato urbano ......in Archivio delle Locazioni, 2001) ha svolto ipotizzato la possibilità di applicare la norma sul divieto degli atti emulativi anche nei rapporti condominiali, ma ha anche evidenziato la difficoltà di dimostrare la condotta meramente emulativa. Il tema rimane affascinante, consentendo di rimarcare in via principale che il regolamento di condominio deve essere rispettato, ma di rammentare anche che il nostro ordinamento vieta l’abuso del diritto e pone argine all’egoismo nei rapporti condominiali. I modi di acquisto, possesso ed usucapione: Il possesso è lo strumento principe per acquistare la proprietà o i diritti reali. Il codice distingue i modi di acquisto della proprietà, che possono essere originari o a titolo derivativo. L’acquisto mediante atto di compravendita è a titolo derivativo ed espone l’acquirente a vedersi portar via quanto acquistato (evizione), se il suo venditore non era proprietario o se l’atto sia dichiarato invalido per ragioni anche a lui ignote. L’acquisto mediante usucapione è a titolo originario e richiede unicamente la prova del possesso e della sua durata. Per possesso si intende la situazione di fatto che veda un soggetto esercitare su una cosa la signoria o altra facoltà tipica di un diritto reale (art. 1140 c.c.); il possessore esercita le facoltà tipiche del titolare di un diritto reale, come se esercitasse un diritto che effettivamente gli spetti e senza che nella disciplina del possesso sia necessario esaminare se il diritto esista davvero o si assista a mero arbitrio. Il possesso non è quindi un diritto; interessa la sola situazione di fatto, senza che assuma rilievo se la stessa sia legittimata dalla sussistenza del corrispondente diritto. Si è ammessi alla tutela giudiziaria se da molto tempo si utilizza un appartamento come se ci appartenga, ad esempio disponendo delle chiavi della porta di ingresso e non consentendo che altri vi acceda senza il nostro permesso o la nostra autorizzazione. È fondamentale che il possessore sviluppi il proprio rapporto con il bene posseduto per propria iniziativa e non per concessione altrui. Il carattere dell’autonomia distingue il possesso dalla semplice detenzione, che è appunto l’utilizzazione della cosa altrui per concessione del proprietario. Rileva il momento in cui inizia il possesso, che non deve derivare dalla altrui tolleranza (art. 1144 c.c.) o da rapporti di collaborazione o di familiarità con il proprietario. L’inquilino, immesso nell’appartamento dal locatore, è semplice detentore qualificato e non diventa possessore, salvo che “inverta” il titolo del possesso. L’inquilino inverte il titolo del possesso allorché sia richiesto di rilasciare l’appartamento e risponda di non doverlo fare essendone proprietario. Il figlio inverte il suo rapporto con l’appartamento concessogli in uso dal padre quando viene invitato a liberarlo e risponde di esserne titolare, ad esempio per averlo ereditato dalla madre. L’inquilino o il figlio che abbiano “invertito” il titolo del possesso affermando di utilizzare il bene contro la volontà del titolare e non per concessione altrui smettono di essere semplici detentori e diventano possessori. Contestualmente inizia a decorrere il periodo valido per l’acquisto per usucapione. Gli elementi costituitivi del possesso sono: 1. il potere di fatto sul bene (elemento oggettivo); 2. la volontà di utilizzare e disporre della cosa come se essa ci appartenga (elemento soggettivo). Il possesso può essere esercitato direttamente o attraverso terzi, come accade per il locatore che esercita il possesso attraverso l’inquilino. Il possesso consente: a. l’acquisto per usucapione; b. la cosiddetta tutela possessoria, che consiste nella possibilità di agire in giudizio con strumenti decisamente rapidi ed incisivi, idonei a comportare al ripristino della situazione esistente prima della turbativa dello spoglio del possesso. Per effetto della usucapione e dopo venti anni, il possessore acquista la proprietà del bene. Esiste inoltre la “usucapione abbreviata decennale” (art. 1159 c.c.), che deriva da una fattispecie alquanto complessa: 1. il possesso per almeno dieci anni; 2. il titolo “astrattamente idoneo”, dato da un contratto o da altro atto dimostratosi invalido, ma che in astratto avrebbe potuto comportare il trasferimento del bene; 3. la buona fede di chi usucapisce. Si richiede che nel momento in cui ha iniziato ad utilizzare il bene il possessore non fosse consapevole della invalidità del titolo. La diffida stragiudiziale a riconsegnare la cosa al proprietario ovvero a fare cessare l’abuso non interrompe il periodo richiesto per l’usucapione e quindi non impedisce che il possessore completi il tempo necessario per la usucapione ( art. 1165 c.c.). L’amministratore, invitato dalla assemblea a limitarsi ad inviare una raccomandata deve segnalare a verbale che la diffida stragiudiziale non interrompe il possesso. L’ordinamento prevede soltanto due possibilità per impedire il compimento della usucapione: a. che l’avente diritto promuova la controversia giudiziale a tutela del suo bene; b. che il possessore cessi di utilizzare il bene. Il possessore spogliato del possesso o molestato nel pacifico esercizio dello stesso può proporre le azioni possessorie, che presentano il vantaggio di essere celebrate con procedimento urgente e di consentire la pronuncia di provvedimenti (tendenzialmente) immediati. Le azioni possessorie sono quella di spoglio ( si lamenta la perdita del possesso) e quella di manutenzione ( si lamenta la molestia del possesso, che evidentemente prosegue ma con ostacoli e riduzioni) e devono essere esercitate entro un anno dall’evento che si tende a rimuovere. Le limitazioni, il diritto di accedere al fondo altrui (art. 843 c.c.): Il proprietario deve consentire l’accesso e il passaggio necessari per costruire o riparare un muro o altra proprietà del vicino od anche comune (es.: se si deve consentire l’accesso da parte del condominio confinante e l’installazione dei ponteggi per la riparazione dei cosiddetti frontespizi, o muri ciechi), secondo quanto prevede l’articolo 843 c.c. È bene precisare che: 1. l’accesso al fondo non corrisponde ad una servitù e non è prescrittibile; 2. chi chiede l’accesso deve dimostrare la grande difficoltà di procedere diversamente. Il giudice deve accertare se la soluzione prescelta consente la riparazione con minor sacrificio per gli interessati: se che il richiedente può procurarsi "aliunde" il passaggio, con disagi e costi quanto meno pari a quelli che subirebbe il proprietario destinato a subirlo, deve escludersi la sussistenza del requisito della necessità. (Cass. n. 1801/2007); 3. il vicino non ha diritto a corrispettivo, ma solo ad essere risarcito per eventuali danneggiamenti: “L’indennità prevista dall’art. 843 c.c. esige la prova del danno, da collegare unicamente alla lesione effettiva, ad esempio per il mancato utilizzo. App. Napoli, 30 giugno 2009”; 4. l’immotivata opposizione al legittimo esercizio del diritto di accesso comporta il risarcimento dei danni. Si ponga mente al vicino esposto al pagamento di una penale per il ritardo nell’esecuzione dei lavori. Le limitazioni, la disciplina delle immissioni: L’art. 844 del codice civile stabilisce che il proprietario non può impedire “le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”. Formano oggetto dell’art. 844 c.c. le attività del proprietario che si ripercuotano sul fondo del vicino e che siano fisicamente e materialmente avvertibili. La legge detta un elenco di immissioni, ma espressamente prevede che la sua disciplina si estenda ad ogni genere di propagazioni. L’articolo prosegue con il secondo comma, ove si dispone che l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà e può tener conto della priorità di un determinato uso. Il legislatore ha dato seguito alle esigenze connesse con lo sviluppo economico, particolarmente considerate nella seconda parte dell’art. 844. La norma prende avvio sottolineando il dovere del proprietario di sopportare le immissioni provocate dal vicino: le immissioni non sono vietate in sé, ma solo se siano intollerabili. L’impostazione impressa dal legislatore comporta che chi lamenti l’immissione si trovi in posizione disagevole, dovendo dimostrare il superamento del parametro (alquanto generico) della normale tollerabilità. La scelta legislativa evita che le attività esercitate dal proprietario incontrino eccessiva compressione, ma le più moderne concezioni inducono anche a considerare la accentuata sensibilità per i valori della riservatezza e della tutela dell'ambiente. Se un tempo per determinare il danno conseguente alle immissioni si faceva leva sulla indisponibilità del fondo sottoposto ad esalazioni nauseabonde ed al conseguente pregiudizio per la rendita, oggi si guarda piuttosto al danno alla salute degli abitanti ed al cosiddetto danno biologico. Da molto tempo si tenta di estendere la sfera delle situazioni tutelabili anche ai temi modernamente compresi nei diritti alla riservatezza ed alla tranquillità, e non è mancato l’Autore che ne ha dato trattazione del tutto particolare e rilevantissima, sotto il segno della convivenza nei moderni edifici condominiali2. Su tale scia la giurisprudenza ha affermato: “In materia di immissioni eccedenti la normale tollerabilità, la cui disciplina si applica anche in ambito condominiale, la verifica del superamento della soglia relativa deve operare la valutazione comparativa delle esigenze in gioco, nell'ambito della quale quelle meramente economiche devono cedere a quelle personali connesse all'abitazione, quali il riposo, l'intimità familiare, la riservatezza, lo svago, le relazioni sociali ecc. Trib. Salerno, 26 luglio 2007” L’amministratore di condominio deve ricordare che a norma dell’articolo sette del codice di procedura civile sono di competenza esclusiva del Giudice di Pace le controversie che abbiano per oggetto i “rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità”. L’amministratore deve considerare la massiccia produzione di norme che fortemente innovano la tutela a fronte delle immissioni e che potranno provenire anche dalle Regioni, abilitate ad occuparsi dell’ambiente. L’amministratore dovrà anche banalmente rilevare che per loro natura talune immissioni sono difficilmente misurabili e altre invece possono essere precisamente determinate nella loro entità e nella loro qualità. Non si ponga mente soltanto ai moderni fonometri, che permettono di misurare l’onda sonora e di scomporla così da rendere certi del particolare disturbo dato dall’allievo che non riesce ad imparare a suonare il violino. Si consideri che solo taluni rumori vengono ripetuti con cadenze prevedibili: i rumori di una sala da ballo si registrano quando la sala viene aperta, quelli del condomino che organizza delle feste possono essere alquanto saltuari. 2 Corona, Proprietà e maggioranza nel condominio degli edifici ( Giappichelli, 2000). Si consideri anche “l’effetto attesa”, che per le lezioni di musica rende i silenzi e la aspettativa del nuovo tormento intollerabili tanto quanto l’effettivo strimpellare dell’inesperto allievo. I commenti sul concreto dispiegarsi dei problemi conseguenti alle immissioni nell’ambito delle nostre case devono cedere il passo a più puntuali riferimenti e si osserva: 1. l’art. 844 c.c. è applicabile sia nei rapporti tra condominio e condomini che in quelli tra i condomini; 2. in un edificio urbano nel quale le unità immobiliari sono destinate ad abitazione e ad attività produttive il criterio dell'utilità sociale, impone di considerare le esigenze di natura personale e quelle economiche. Alla luce dei principii costituzionali di tutela della salute, nei complessi edilizi urbani occorre privilegiare le esigenze personali di vita connesse all'abitazione rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all'esercizio di attività commerciali (Cass. n. 3090/1993, Cass. n. 8420/2006); 3. se il regolamento contrattuale stabilisce una severa disciplina, la liceità dell'immissione deve essere determinata alla stregua del criterio di valutazione dettato dagli interessati e fissato dal regolamento di condominio. (Appello di Napoli, 9 ottobre 2008); 4. la domanda relativa al rispetto della clausola regolamentare violata per effetto di immissioni sonore intollerabili deve essere proposta tanto nei confronti dell’inquilino che nei confronti del proprietario, tenuto a far rispettare la disciplina interna al proprio inquilino; 5. è senz'altro illecito il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, guardando alle attività produttive, fissano nell'interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità (legge n. 447/1995 sull'inquinamento acustico e D.C.P.M. 1° marzo1991). L'eventuale rispetto di tali limiti non consente però di considerare senz'altro lecite le immissioni, che devono sempre rispettare il canone della normale tollerabilità risultante dai principi di cui all’art. 844 c.c. La regola della normale tollerabilità deve essere modulata alla stregua del particolare contesto interessato dalla immissione e può risultare anche molto drastica: si pensi ad un edificio che per contratto sia in parte destinato a biblioteca; 6. il limite di tollerabilità delle immissioni deve essere valutato dal giudice con riguardo alla condizione dei luoghi e alle attività normalmente svolte in un determinato contesto. Il criterio comparativo da applicare assume come punto di riferimento il rumore di fondo e comporta la intollerabilità delle immissioni che lo superino di 3 decibel, determinando il raddoppio dell'intensità del rumore di fondo in ragione del crescendo logaritmico del parametro utilizzato. (Trib. Bologna, 3 gennaio 2005); 7. l’immissione che comporti rumori pari a trenta decibel non può dirsi eccessiva. Solo se si accertano un rumore di fondo di trenta decibel ed il suo superamento per almeno tre decibel rispetto potrà considerarsi intollerabile l’immissione proveniente da un immobile destinato a ristorante. (Trib. Mantova, 7 dicembre 2004); 8. l’azione di risarcimento del danno patito dai condomini a causa di immissioni non può essere proposta dall'amministratore del condominio di un edificio, spettando la legittimazione a proporla ai titolari dei patrimoni lesi, cioè ai proprietari delle singole unità immobiliari (Cass. n. 277/1964); 9. il condominio è tenuto a ridurre le immissioni causate dall'impianto di riscaldamento a danno della tranquillità di una camera da letto, stante la priorità dell'uso abitativo rispetto all'installazione della caldaia. Il condomino ha pieno diritto di godere della camera da letto in qualsiasi ora della giornata poco importando che, solitamente, questo utilizzo sia limitato al periodo notturno ( Trib. Genova, 10 maggio 2005); 10. se risulti violato il limite della normale tollerabilità posto dall'art. 844 c.c. a causa di schiamazzi e rumori provocati dall'attività di una sala giochi, ricorrono gli estremi per disporre la cessazione dell'attività (Trib. Milano 21 gennaio 1991). 11. il divieto di tenere comuni animali domestici non può essere fissato da regolamenti approvati a maggioranza (art. 1138 c.c.); 12. il diritto di usare e godere delle cose di proprietà comune trova limite nel pari diritto che compete agli altri condomini. Pertanto, fare circolare il proprio cane nelle parti comuni senza le opportune cautele costituisce turbativa non consentita se risulti che la mancata adozione delle cautele impedisce il libero uso degli spazi comuni. (Cass. n. 14353/2000); Le limitazioni, le norme sulle distanze legali: Il legislatore fissa le regole volte ad impedire l’insorgere di conflitti tra le proprietà confinanti (ne cives ad arma veniant) e stabilisce le distanze entro le quali le opere possono essere realizzate ovvero altre innovazioni possono essere apportate. La disciplina sulle distanze prescinde dalla concreta dimostrazione di un pregiudizio. Non è possibile opporsi alla costruzione di un muro eretto a distanza regolamentare, anche impedisce di godere del paesaggio. Viceversa, si può chiedere lo spostamento di un muro a distanza inferiore a quella legale, senza dover dimostrare l’esistenza di un danno concreto. Le regole sulle distanze legali sono state concepite per la proprietà dei fondi, nella quale i rapporti di vicinato sono evidentemente diversi da quelli che legano tra loro le unità immobiliari in un edificio che si sviluppa in altezza, quale è appunto il condominio. È quindi lecito interrogarsi sull’applicabilità di tali norme alla situazione condominiale; la giurisprudenza ha stabilito che le norme sulle distanze legali si applicano anche agli edifici in condominio, ma cum grano salis. Non se ne tiene conto se il loro rispetto risulti irragionevole poiché impedisce di soddisfare di esigenze primarie dei vicini (Cass. n. 22838/2005). Quando si tratti di soddisfare esigenze primarie connesse con gli standard ormai ritenuti minimi, l’applicazione delle regole sulle distanze legali cede il passo al principio sul bilanciamento degli interessi, tipico del condominio. Al di fuori delle esigenze di carattere primario, anche nei rapporti fra condomini si torna al rispetto delle distanze. Per aprire una nuova finestra o realizzare una nuova costruzione si devono rispettare gli artt. 905 e seguenti c.c. Il passaggio di tubazioni dell’acqua o di condutture fognarie o di simili impianti indispensabili non può essere inibito richiamando la distanza di almeno un metro dal confine, fissata dal'art. 889 comma secondo c.c., poiché tale distanza risulta pressoché incompatibile con il frazionamento verticale delle proprietà tipico della situazione di condominio. Si segnalano le seguenti disposizioni: 1. distanze fra le costruzioni (articoli 873 e seguenti c. c.): le costruzioni su fondi confinanti debbono essere tenute a distanza di tre metri ovvero a quella maggiore fissata dai regolamenti locali. Il limite deve essere calcolato rispetto alla costruzione del vicino, non rispetto al confine della sua proprietà, e si riferisce a costruzioni idonee a creare intercapedini troppo anguste e pertanto antigieniche. Non occorre rispettare la distanza quando si eseguono opere interrate (piscine, autorimesse sotterranee), piccoli pilastrini (es.: contenitori per contatori) ovvero altre minime opere. Per la costruzione di un muro di cinta alto non più di tre metri non occorre rispettare la distanza dalle altre costruzioni (art. 878 c.c.); 2. distanze tra taluni manufatti e il fondo del vicino (fossi e simili, condutture): le distanze in discorso debbono essere misurate partendo dal confine del vicino. È prevista la distanza di un metro dal confine per i tubi dell’acqua e del gas (art. 889, capoverso). È prevista la distanza di due metri per le fosse di latrina ed anche per le piscine (art. 889, primo comma); 3. distanze tra manufatti particolarmente pericolosi e il fondo del vicino: fondamentale è la norma dettata dall’articolo 890 c. c., per i manufatti idonei a determinare pregiudizio o anche solo pericolo alla salute ed alla sicurezza delle persone. Non è fissata una distanza precisa, ma dette opere devono essere tenute a distanza conveniente e cioè tale da scongiurare il pericolo. Le disposizioni contenute nell’articolo 890 c. c. sono dirette a tutelare interessi e valori di fondamentale portata e pertanto sono inderogabili e non possono essere superate né dall’usucapione né dalla stessa rinuncia dell’avente diritto; 4. distanze tra le costruzioni e le aperture sul fondo del vicino: le aperture sono distinte in due specie: a. luci, che consentono il passaggio dell’aria e della luce ma non consentono di affacciarsi sul fondo del vicino; b. vedute, che consentono anche l’affaccio ( inspicere in alienum). Le luci devono essere conformate in modo da non determinare interferenze e devono rispettare le caratteristiche elencate dall’articolo 901 c.c.: altezza minima rispetto al suolo del vicino e rispetto al suolo o al pavimento della costruzione sulla quale si apre; inferriata e grata fissa. Si ritiene che la grata possa essere sostituita da materiali che comunque garantiscano la riservatezza, come il vetrocemento o particolari aperture a vasistas. Interessa molto la disciplina della luce irregolare. L’articolo 902 c.c. prevede che se l’apertura risponde alle caratteristiche funzionali della luce (cioè non consente né agevole affaccio né la veduta) il vicino possa in ogni tempo pretendere che sia resa conforme alle anzidette prescrizioni; quindi che sia munita di inferriata e di grata e risponda alle altezze fissate e, comunque, che sia conformata in guisa tale da impedire di entrare in contatto con il suo fondo. Mentre le luci non comportano il rispetto di particolari distanze, per le vedute sono fissate distanze precise. Le vedute dirette non possono essere aperte a distanza inferiore di un metro e mezzo dal fondo del vicino (art. 905 c.c.). Se il muro ha balconi o altri manufatti, la misura deve considerare la linea esterna del balcone o del diverso manufatto da cui si esercita la veduta, trascurando fregi, cornicioni e quant’altro non serva all'affaccio. Se il muro è privo di tali elementi la misura deve essere presa dalla faccia esterna del muro. La distanza riguarda anche le aperture che si realizzino sopra il tetto del vicino. 5. 6. 7. La distanza non si applica se tra i due fondi vi è una via pubblica. Le vedute oblique debbono rispettare la distanza di settantacinque centimetri (art. 906 c.c.). Le nuove costruzioni debbono essere tenute a distanza di almeno tre metri dalle preesistenti vedute del vicino (art. 907 c.c.). Se si costruisce in appoggio, la sopraelevazione deve arrestarsi tre metri sotto le vedute esistenti; distanze disciplinate dal D.M. n. 1444 del 2 aprile 1968: molte leggi hanno pratica rilevanza di gran lunga inferiore rispetto a questo semplice decreto ministeriale, conosciuto ed applicato sopra tutto nella parte nella quale esige la distanza di almeno dieci metri tra pareti finestrate, laddove si tratti di nuove costruzioni o di ristrutturazioni. Sarebbe inopportuno un commento sintetico che vada oltre il richiamo all’importanza della speciale normativa, che interessa anche i rapporti tra privati e che la giurisprudenza più recente applica anche per i recuperi di sottotetto che comportino variazione della sagoma dell’edificio; distanze per gli alberi: l’art. 892 c.c. stabilisce che chi vuol piantare alberi presso il confine deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti, dagli usi locali o in mancanza osservando le seguenti distanze dal confine: 1) tre metri per gli alberi di alto fusto: quelli il cui fusto, semplice o diviso in rami, sorge ad altezza notevole, come sono i noci, i castagni, le querce, ecc.; 2) un metro e mezzo per gli alberi di non alto fusto: quelli il cui fusto, sorto ad altezza non superiore a tre metri, si diffonde in rami; 3) mezzo metro per le viti, gli arbusti, le siepi vive, le piante da frutto di altezza non maggiore di due metri e mezzo. La distanza si misura dalla linea del confine alla base esterna del tronco dell'albero nel tempo della piantagione, o dalla detta linea al luogo dove fu fatta la semina. Le distanze non si devono osservare se sul confine esiste un muro divisorio, proprio o comune, purché le piante siano tenute ad altezza che non ecceda la sommità del muro. distanze per le bocche dei camini: Per l’art. 6, comma 15°, D. P. R. 22 dicembre 1970, n. 1391 le bocche dei camini devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo o struttura distante meno di dieci metri. L’applicazione della distanza per le bocche di camini che smaltiscono fumi particolarmente intensi richiede la competenza dello specialista, al quale deve essere riservato l’esame della ricorrenza dei numerosi presupposti delle diverse normative; Osservazioni conclusive: 1. il diritto di mantenere una costruzione o altra opera a distanza inferiore a quella legale si può acquistare per contratto (accordo con il vicino) o anche per usucapione che si consolida ove siano trascorsi venti anni dalla nuova realizzazione. Tale diritto si configura come servitù sul fondo altrui. 2. L’art. 3 della legge 13/89 (abbattimento delle barriere architettoniche), stabilisce che le norme sulle distanze non si applicano a proposito degli ascensori se tra l’impianto e la costruzione del vicino si frappongano solo aree di proprietà o di uso comune. Il Tribunale di Milano con sentenza n. 10010/2004 ( sezione 4°, estensore Dottoressa Varani) ha precisato che l’obbligo del rispetto della distanza di cui all’art. 905 c.c. non si pone se fra l’impianto e la casa del vicino si frapponga un cortile gravato da servitù a favore di quest’ultimo. I diritti reali minori; superficie, usufrutto uso ed abitazione; le servitù: Si tratterà del diritto di superficie, dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione e delle servitù; dell’enfiteusi non mette conto parlare. 1. Il diritto di superficie: L’articolo 952 c.c. consente al proprietario di costituire a favore di altri il diritto di realizzare e mantenere al disopra del suolo una costruzione, che ovviamente apparterrà al titolare del diritto di superficie. Tale diritto può essere costituito anche per realizzare una costruzione interrata (art. 953 c.c.). Le previsioni di legge sono utilizzate dai costruttori, che possono riservarsi di utilizzare in futuro il sottosuolo per costruirvi autorimesse o posti auto. La clausola che autorizzi taluno a realizzare l’autorimessa sotto il cortile comune deve essere inserita in un atto opponibile a tutti i condomini: primo atto di vendita o altro contratto al quale partecipino tutti i comproprietari del suolo e che sia trascritto. È invalida la dichiarazione del singolo condomino che rinunci al sottosuolo del cortile; la vendita della quota millesimale del sottosuolo del cortile diventa efficace soltanto dal momento in cui tutti quanti i condomini trasferiscano la quota di loro pertinenza. 2. Usufrutto, uso e abitazione: L'usufrutto (artt. 978 e seguenti c.c.) consente di utilizzare il bene altrui e di ritenerne i frutti, nel rispetto della destinazione economica impressa dal proprietario. Il contenuto dell’usufrutto è vasto e comprende sia il godimento diretto ed indiretto del bene (l’usufruttuario può concedere in locazione il bene) che il diritto di incamerare le rendite. Sono invece vietati i veri e propri atti di disposizione. Il titolare del bene rimane “nudo proprietario” e può solo attendere che venga meno l’usufrutto per vedere riespandersi le sue facoltà dominicali. Si sottolineano le seguenti disposizioni: Art. 67, 6° comma: L'usufruttuario di un piano o porzione di piano dell'edificio esercita il diritto di voto negli affari che attengono all'ordinaria amministrazione e al semplice godimento delle cose e dei servizi comuni. Art. 67, 7° comma: Nelle altre deliberazioni, il diritto di voto spetta ai proprietari (salvo che l'usufruttuario intenda sostituirsi al proprietario nell’eseguire le opere). In tutti questi casi l'avviso di convocazione deve essere comunicato sia all'usufruttuario sia al nudo proprietario. Art. 67, 8° comma: Il nudo proprietario e l'usufruttuario rispondono solidalmente per il pagamento dei contributi dovuti all'amministrazione condominiale. Minori sono le facoltà consentite dai diritti di uso e di abitazione. Chi ha il diritto d'uso su una cosa ( art. 1021) può servirsi di essa e, se essa è fruttifera, può raccogliere i frutti limitatamente bisogni suoi e della sua famiglia. Chi ha il diritto di abitazione (art. 1022 c.c.) di una casa può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia. Né l’uso né l’abitazione possono essere trasferiti a terzi. Usufrutto e diritti di uso e di abitazione non possono durare in perpetuo; possono durare solo quanto la vita del loro titolare, o per non più di trenta anni, se costituiti a favore di una persona giuridica. La regola è affermata dall’articolo 979 del codice e corrisponde all’esigenza che non si determini scissione permanente tra il titolare del bene ed il titolare delle facoltà di utilizzarlo. Appaiono particolarmente interessanti le seguenti osservazioni: 1. le clausole dei regolamenti di condominio che costruiscano di diritti di uso, qualificati come esclusivi, trasferibili e perpetui, il più delle volte su porzioni di cortile destinate a parcheggio, risultano difficilmente compatibili con la disciplina propria dei diritti reali e comportano particolari difficoltà nella interpretazione. L’uso non è mai esclusivo, poiché per definizione è limitato alle esigenze dell’usuario e della sua famiglia. Inoltre, l’uso non è mai trasferibile ad alcuno. Né l’usufrutto né l’uso e l’abitazione possono essere perpetui. Tutte le caratteristiche appena accennate sono fissate da norme inderogabili e consentono di ipotizzare la nullità delle clausole cui si pone riferimento. Tuttavia la giurisprudenza ha talvolta conservato l’efficacia di tali clausole, che richiedono l’esame da parte di professionista particolarmente versato e che devono essere verificate nell’intero contesto dei diritti fissati sulle cose comuni in quel particolare condominio; 2. i lastrici solari possono essere di proprietà comune, di proprietà esclusiva, oppure d’uso esclusivo. Il diritto di sopraelevazione spetta soltanto al titolare dell’ultimo piano o del lastrico e non compete, invece, a chi abbia mero diritto d’uso (Trib. Milano n. 443/2003); 3. la delibera di approvazione del preventivo o del rendiconto deve distinguere analiticamente le spese occorrenti per l'uso da quelle occorrenti per la conservazione delle parti comuni (Cass. n. 15010/2000). 4. Le servitù prediali Le servitù sono diritti reali di godimento sulla cosa altrui e consistono in un peso imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario ( art. 1027 c.c.); sono diritti esercitati sul fondo altrui, che comportano compressione e limitazione delle facoltà dell’altro proprietario, il cui bene patisce un depauperamento e risulta meno appetibile e di minore pregio. Il legislatore adopera termini generici per designare l’aggravio patito dal fondo servente ed il beneficio per il fondo dominante, qualificati rispettivamente come “peso” e come “vantaggio” , e permette che il contenuto delle servitù volontarie possa essere il più disparato. Le servitù più comuni prevedono il diritto di passaggio sul fondo altrui, quello di far passare un elettrodotto o una conduttura idrica, oppure le facoltà di aprire una finestra o di costruire un muro a distanza inferiore a quella legale o altre situazioni del genere. Nulla vieta che la servitù abbia contenuto diverso o in linea con utilizzazioni nuove, conseguenti al progresso tecnologico. L’estrema varietà dei possibili oggetti della servitù riguarda soltanto quelle cosiddette volontarie, espressione che le comprende tutte meno quelle coattive, costituite mediante provvedimento del giudice. Le servitù coattive sono tipiche e quindi sono unicamente quelle previste dal codice o dalle leggi speciali. Affinché si tratti di servitù è sufficiente: 1) che vi siano più fondi appartenenti a diversi proprietari (fondo dominante e fondo servente) e fra loro vicini; 2) che il vantaggio apportato al titolare del fondo dominante sia permanente. Si deve avere riguardo alle modalità utilizzate per indicare i soggetti che sopportano il peso o traggono il beneficio che formano oggetto della servitù. Si rimane nel semplice campo delle obbligazioni se Tizio consente a Caio il diritto di utilizzare il proprio bene per un dato tempo e per un determinato corrispettivo, come accade ad esempio nel caso del contratto di locazione. Si passa nel campo delle servitù se il contratto prevede che alla proprietà di un certo immobile acceda anche la facoltà di utilizzare parzialmente il fondo del vicino. Nel primo esempio il diritto viene ceduto per un dato tempo ad un soggetto precisamente individuato. Nel secondo caso il soggetto che potrà esercitare la servitù è individuato per relazione, dicendo che chi è proprietario di quel fondo ha anche il diritto di esercitare la servitù. Le servitù sono variamente distinte. Si è già fatto cenno alla distinzione tra servitù volontarie e servitù coattive. Particolarmente importante è la distinzione tra servitù apparenti (per l’esercizio della quale è necessaria un’opera visibile) e non apparenti (che non abbisognano di siffatte opere). Le servitù apparenti richiedono l’esistenza di un “monumentum” (opera visibile: un sentiero, una conduttura, un elettrodotto ecc.) mentre quelle non apparenti richiedono l’esistenza di un “documentum”, talché la loro esistenza deriva soltanto dal contenuto di un contratto (es. servitù altius non tollendi: obbligo di non sopraelevare, la cui esistenza può essere riscontrata solo in un rogito) o di altro documento. Le servitù non apparenti non possono essere costituite per usucapione o per destinazione del padre di famiglia. Le servitù possono essere costituite: A) per contratto, necessariamente scritto e soggetto a trascrizione, trattandosi di diritto reale immobiliare; B) per usucapione, e cioè in esito al possesso ed all’esercizio delle relative facoltà per almeno venti anni (solo le servitù apparenti possono essere costituite per usucapione); C) per destinazione del padre di famiglia: si pone mente ad un fondo appartenuto ad un soggetto che lo ha frazionato lasciando in essere opere idonee a consentire l’esercizio di una servitù (es. il padre lascia al figlio Tizio la casa e al figlio Caio il fondo circostante, ma sul terreno agricolo corre la strada che congiunge la casa alla pubblica via). Il fenomeno è diffuso negli edifici condominiali, derivati da proprietà frazionate senza che nei contratti siano dettagliatamente elencate tutte le servitù che legheranno le unità immobiliari fra loro o alle parti comuni (es. contatori dell’acqua o dell’energia elettrica collocati nella cantina di un condomino, canna fumaria che passa attraverso uno scantinato di proprietà esclusiva, ovvero ancora finestra aperta a distanza inferiore a quella legale, ecc.). In questi casi, per dimostrare che la servitù è mantenuta legittimamente, occorre provare che le opere e gli impianti necessari per il loro esercizio siano esistiti al momento della costituzione del condominio; D) 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 3 per sentenza e cioè per provvedimento del giudice (servitù coattive), nei casi tassativamente previsti dalle norme di legge. Interessa riprendere i temi già trattati e ricordare che: titolare della servitù è il proprietario del fondo dominante, che trasferisce automaticamente all’eventuale acquirente le facoltà connesse con la servitù; soggetto passivo della servitù, è il proprietario del fondo servente, anche se persona diversa da chi era titolare al momento della costituzione della servitù; le servitù si prescrivono per non uso ventennale (art. 1074 c.c.); la servitù è diritto reale parziale e quindi non può avere oggetto che comporti la radicale e totale eliminazione di ogni forma di possibile utilizzazione del bene da parte del proprietario. La servitù non può esaurire ogni capacità di sfruttamento del bene; l’articolo 1075 del codice impone una regola particolare in tema di prescrizione delle servitù: l’esercizio anche limitato o anche ridottissimo di una della facoltà che spettano al fondo dominante conserva la servitù per intero. Un piccolo sportello, mantenuto per accedere una volta ogni cinque anni sul fondo altrui, comporta mantenimento per intero della servitù di accesso carraio, rimasta quiescente per tanto tempo ma divenuta oggi necessaria per realizzare la nuova autorimessa; le servitù non apparenti possono essere rilevate soltanto mediante il contratto con il quale sono state costituite e quindi sono opponibili ai terzi solo se tale contratto sia stato trascritto; la servitù altius non tollendi comporta l’obbligo di non sopraelevare la propria costruzione e si estingue ove ne sia stata tollerata la violazione per oltre venti anni: devo oppormi alla sopraelevazione realizzata dal vicino entro il termine di venti anni, poiché decorso tale periodo il mio diritto di servitù si estingue per prescrizione; la costituzione di servitù per provvedimento del giudice è riservata ai casi tassativamente previsti dalle norme di legge. Per la grande incidenza nel mondo condominiale, occorre ricordare la costituzione coattiva della servitù di passaggio. La possibilità di istituire ex novo detta servitù è disciplinata per due fattispecie distinte: per il fondo totalmente intercluso e per il fondo parzialmente intercluso. È difficile che l’amministratore di condominio debba fare i conti con situazioni di interclusione totale. Più ricorrente è il caso del fondo parzialmente intercluso, che già goda di un passaggio insufficiente a consentire particolari forme di utilizzazione. Si pensi alle corsie di accesso ad una autorimessa interrata, che talvolta devono avere ampiezza particolare. In questi casi il ricorso alla costituzione di servitù coattiva per migliorare il passaggio non risulta praticabile poiché l’art. 1052 limita la possibilità di costituire la servitù coattiva a favore del fondo parzialmente intercluso alle sole ipotesi in cui il passaggio serva per soddisfare esigenze generali dell’agricoltura e dell’industria. Nell’esempio si tratta di soddisfare esigenze di altra natura. Solo eventuali necessità dei portatori di handicap possono aprire un qualche varco nel rigido limite fissato dal codice civile3; l’articolo 1068 del codice civile consente al proprietario del fondo servente di offrire al proprietario del fondo dominante un luogo egualmente comodo per l'esercizio della servitù, se l'originario esercizio della stessa sia divenuto più gravoso per il fondo servente, o impedisca di fare lavori, riparazioni o altre migliorie. Tale facoltà consente di spostare il vaso di espansione dal centro di un sottotetto da recuperare e di collocarlo ai lati, meno Corte Costituzionale, sentenza n.167 del 1999. interessanti per chi dovrà abitarvi. Ciò deve essere tenuto distinto da situazioni che comportino la estinzione del diritto reale, come accade se il proprietario del sottotetto chieda di trasferire l’impianto condominiale esistente nel suo vano e di portarlo sulle parti comuni; 10. occorre distinguere la servitù dal diritto dei condomini di utilizzare le parti comuni. La facoltà di usare le parti comuni consegue alla posizione di condomino, secondo quanto prevede l’articolo 1102 del codice. Si passa attraverso l’androne comune non già perché si vanti una servitù di passaggio, ma perché si è comproprietari delle parti comuni ed anche del cortile e del portone. L’osservazione presenta risvolti importanti allorché si tratti di modificare il preesistente livello di utilizzazione delle cose comuni. Il titolare della servitù ne deve rispettare la disciplina e non può compiere innovazioni che aggravino la posizione del titolare del fondo servente. Il titolare di una servitù di passaggio sulle scale non può chiedere di installare un ascensore. Il condomino, contitolare delle parti comuni, può esercitare i propri diritti nel diverso ambito dettato dall’articolo 1102 c.c. e può modificare le cose comuni per migliorare l’utilizzazione delle stesse o della sua proprietà esclusiva. Il condomino incontra limitazioni in tema di concorrenza nell’uso e di disciplina che la assemblea imponga. Gli atti consentiti dalle due diverse situazioni (di servitù o di condominio) sono essenzialmente diversi e non può dirsi che i limiti che incontra il fondo dominante siano più ampi o più esigui di quelli che incontra il condomino poiché di volta in volta, in relazione alle esigenze specifiche, ci si troverà di fronte ad opportunità o ad inibizioni; 11. il condomino non può utilizzare le cose comuni a favore di altre porzioni immobiliari poste al di fuori del fondo condominiale. Tali forme di utilizzazione sono consentire unicamente se inserite in uno specifico rapporto di servitù. Solo il titolare di una specifica servitù può aprire un collegamento tra due appartamenti fra loro confinanti, ma siti in due condominii diversi4. Solo chi vanta una servitù può pretendere di utilizzare le parti comuni di un condominio per il beneficio di altro suo immobile, che insista su altro condominio5; La servitù deve essere esercitata civiliter, in modo da soddisfare l’esigenza del fondo dominante con il minor danno per il fondo servente e conformemente a quanto prevede il titolo con il quale è stata costituita. Se nulla è previsto nel titolo si deve fare riferimento al possesso della servitù e cioè alla situazione di fatto che si sia configurata negli ultimi dodici mesi. La nozione di possesso della servitù, alquanto disconosciuta dai pratici, è essenziale per fissare le modalità di esercizio consentite al titolare della servitù. Dalle innovazioni sul fondo dominante non può derivare un più pesante esercizio della servitù (es. nuova costruzione o realizzazione di un nuovo garage) con conseguente maggior transito di veicoli sul fondo servente. 4 Costituisce uso abnorme del muro perimetrale l'apertura, da parte di un condomino, di un varco che consenta la comunicazione tra il proprio appartamento ed altra unità immobiliare attigua, sempre di sua proprietà, ma ricompresa in un diverso edificio condominiale, poiché si determina la creazione di una servitù a carico di fondazioni, suolo, solai e strutture del fabbricato. Cass. n.1708( 1998. 5 Il condomino che pretenda di utilizzare le cose comuni, in modo tale da incidere in maniera sostanziale sulla destinazione e sulla fruibilità di esse e per migliorare la sistemazione della sua porzione immobiliare che si estenda anche sul fondo di altro condominio, non si mantiene nell’ambito delle facoltà consentite dall'art. 1102 c.c., ma pretende di costituire una vera e propria servitù, configurandosi una imposizione di un peso sopra un fondo per l'utilità esclusiva di un altro fondo ( il proprietario di un ristorante pretendeva di installare una canna fumaria sulla facciata di uno stabile per proseguire l’esercizio della sua attività, svolta anche in locali siti in altro edificio ) Tribunale di Milano, sentenza 3 luglio 2002, Giuliani e altri C. Cond. via Signorelli e altri È stato insegnato: In tema di esercizio delle servitù le innovazioni realizzate da colui che ha un diritto di servitù e che si rivelino particolarmente invasive (era stata realizzata una nuova costruzione) si risolvono in una abusiva imposizione sul fondo servente di peso diverso da quello in origine costituito violando il principio ex art. 1065 c.c. (App. Napoli, 6 aprile 2007) La regola deve essere precisata, ricordando che si deve trattare di vero e proprio aggravamento e non di semplice adeguamento al progresso tecnico. È stato insegnato: “In tema di servitù di passaggio, può ritenersi legittimo che, per le esigenze di coltivazione di un fondo, la servitù venga esercitata con mezzi di locomozione diversi da quelli originari, tenuto conto del mutamento delle colture agrarie o dei progressi della tecnica, poiché, in tali casi, rimane inalterata la funzione economico-giuridica della servitù, la quale subisce un normale processo di evoluzione circa le sue modalità di esercizio, senza che possa ritenersi configurato propriamente un suo aggravamento. (Cass. n. 3747/2007)” Il titolare del fondo servente può recingere il proprio fondo, purché il suo diritto non leda quello del titolare del fondo dominante. Il fondo servente può quindi essere munito di idonea chiusura, ma una chiave della stessa deve essere consegnata al proprietario del fondo dominante affinché il passaggio sia esercitato senza apprezzabile menomazione (Appello Genova, 7 febbraio 2007). Naturalmente, il principio deve essere applicato con prudenza ed in relazione alle effettive e concrete situazioni. Ad esempio, un’attività di vendita al minuto risentirebbe grave ed intollerabile pregiudizio per la chiusura del cancello nelle ore di apertura, con conseguente necessità per i clienti di dover suonare il campanello per entrare (Tribunale di Novara, 27 aprile 2009). Il proprietario del fondo dominante può eseguire a sue spese le opere necessarie per conservare la servitù (es.: asfaltatura di una strada). Analogamente, il proprietario del fondo servente provvede alla manutenzione dei beni sui quali esercita la servitù (es.: rifacimento di un lastrico sul quale si esercita una servitù di passaggio) ed esegue detti interventi a proprie spese. Se le opere per conservare la servitù o per la manutenzione dei beni sui quali essa si esercita comportano utilità per entrambe le parti, le spese sono sostenute in comune e ripartite in ragione dei rispettivi vantaggi (es.: rifacimento della asfaltatura di una strada utilizzata sia dal fondo servente che da quello dominante) come impone l’art. 1069 c.c. A tale principio deve ispirarsi l’amministratore la manutenzione di un cortile o di una strada che servano ad un tempo ai condomini ed a chi esercita il passaggio. Il codice non fissa alcun preciso criterio di ripartizione, ma statuisce che ciascuno degli interessati deve provvedere alle spese in proporzione del rispettivo vantaggio. Comunione e condominio. Il codice non si dilunga sulla nozione della comunione, definita come la situazione nella quale la proprietà o altro diritto reale (es. usufrutto) spettano in comune a più persone (art. 1100 c.c.). La comunione riguarda tutti i diritti reali, ma per il diritto reale per eccellenza (la proprietà, art.832 c.c.) emergono fatalmente elementi di possibile incoerenza che devono trovare adeguata composizione. La proprietà è signoria sulla cosa, diritto di goderne e di disporne in modo pieno ed esclusivo. Esclusività e comunione, ovviamente, non sono sempre coincidenti. Per superare le difficoltà si insegna che nella comunione a ciascuno dei comproprietari spetta una quota del bene e si sottolinea che la cosa comune, nella sua materialità, appartiene per intero a tutti i comproprietari, mentre le sue quote ideali sono suddivise fra più soggetti. Così ciascuno ha diritto di godere della cosa comune nella sua interezza, traendo da essa ogni possibile vantaggio, con l’ovvia limitazione di non compromettere il godimento degli altri comproprietari. L’osservazione si riflette sulle facoltà di godere del bene comune e di provvedere alla sua amministrazione, secondo quanto prevedono, rispettivamente, l’articolo 1102 (ciascun partecipante può servirsi della cosa comune) e l’articolo 1105 del codice civile (tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune). Poiché l’articolo 1102 c.c. è applicabile al condominio, si intende sin da ora per quale ragione il partecipante al condominio abbia diritto di godere delle parti comuni nella loro interessa: vi è un filo logico che lega la nostra irrinunciabile nozione di proprietà alla tutela del diritto di ciascun condomino di servirsi direttamente delle parti comuni. Quanto alla titolarità, si è già detto che compete a ciascun comunista unicamente una frazione ideale del bene. Tale frazione è denominata quota (1/2, 1/3 ecc.). La quota indica la misura della partecipazione alla titolarità del bene comune ed attribuisce diritti riferiti alla permanenza nella situazione della comunione (partecipazione alla formazione delle maggioranze in assemblea ) ed anche al momento del suo scioglimento, con la attribuzione di frazioni materiali del bene o con la distribuzione delle somme ricavate dalla sua vendita. In sostanza, la quota è rappresentativa della misura della partecipazione di ciascuno dei contitolari alle vicende che interessano il bene (godimento, amministrazione, scioglimento, ripartizione degli oneri e così via ). I principi salienti della disciplina sulla comunione sono: a. la presunzione di eguaglianza delle quote, che debbono reputarsi di uguale valore, salvo che il contrario non risulti dal titolo (art. 1101 c. c.); b. il concorso dei comproprietari nei pesi e nei vantaggi della comunione in proporzione delle rispettive quote (art. 1101 c. c.) ; c. il diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune e di apportarvi modifiche a proprie spese, purché non ne alteri la destinazione e non ne impedisca la utilizzazione da parte degli altri comproprietari (art. 1102 c. c.); d. il diritto di alienare la propria quota e di disporne, anche costituendo ipoteche (art. 1103 c.c.) senza che occorra il consenso degli altri partecipanti; e. il divieto di alienare l’intera cosa comune o di compiere altri atti di disposizione che incidano anche sulle altre quote, senza il consenso di tutti gli altri comproprietari; f. l’obbligo di contribuire nelle spese necessarie per la conservazione della cosa comune e in quelle deliberate dalla assemblea nei limiti delle sue attribuzioni (1104 c. c.), salva la facoltà di liberarsi di tale obbligo rinunciando al diritto sulla quota; g. il diritto di ciascun comunista di concorrere direttamente nell’amministrazione del bene comune, con interventi diretti, con l’esercizio dei poteri di rappresentanza e infine con il voto nelle assemblee. Per gli atti di ordinaria amministrazione il singolo comunista ha il potere di agire rappresentando, in via presuntiva, l’intera comunione. In virtù di tale principio la disdetta inviata da uno dei comproprietari è valida, anche in assenza delle sottoscrizioni degli altri proprietari delle quote (art. 1105 c. c.); h. la possibilità di riunire i comproprietari in assemblea. La maggioranza assembleare può deliberare in ordine alla gestione del bene comune, può approvare un regolamento della comunione, può nominare un amministratore, e può anche disporre le innovazioni della cosa comune, purché non pregiudichino i diritti di alcun proprietario e non importino spese eccessivamente gravose. Le deliberazioni approvate nel rispetto di particolari formalità e con le opportune maggioranze da computare in relazione alle sole quote sono obbligatorie per la minoranza dissenziente. A norma dell’articolo 1107 c.c. le deliberazioni dell’assemblea possono essere impugnate dai comunisti, per la violazione delle regole appena richiamate, ovvero per la violazione dei limiti consentiti alle attribuzioni dell’organo collegiale; i. il diritto di ciascun comproprietario di ottenere il rimborso delle spese sostenute per le opere di conservazione della cosa comune, in mancanza di intervento da parte dell’amministratore della comunione. Nel condominio vige l’opposta regola dell’impossibilità di richiedere il rimborso delle spese non urgenti e non autorizzate dall’amministratore o dalla assemblea (articoli 1110 e 1134 c. c.); j. il diritto di ciascun partecipante alla comunione di ottenerne lo scioglimento. La divisione costituisce per il nostro ordinamento punto di arrivo sostanzialmente obbligato per la situazione della comunione e “ciascuno dei partecipanti può domandare lo scioglimento della comunione”(art. 1111 c.c.). Il rapido confronto il confronto tra la disciplina della comunione e quella del condominio può giovare per la comprensione di entrambe: a. nel condominio le parti comuni non possono essere divise se non vi è unanimità di consenso o se si renda più incomodo l’uso della cosa per ciascun condomino (art. 1119 c.c.). Per la comunione vige invece il principio opposto; b. le quote ideali della titolarità dei beni comuni non sono soggette a separati atti di disposizione (es.: vendita) da parte dei condomini. L’argomento costituisce un corollario del concetto di “indivisibilità delle parti comuni”, appena commentato. I diritti sulle parti comuni si trasferiscono normalmente in una con la proprietà delle unità immobiliari. Il trasferimento delle parti comuni, separatamente dalle unità immobiliari, può avvenire unicamente mediante l’atto che coinvolga tutti quanti i partecipanti al condominio. (Cass. n. 11986/1998: “E' nulla la vendita o la permuta di una parte comune di un edificio in condominio senza il consenso di tutti i condomini, ciascuno dei qual è legittimato a far valere la nullità” ). Nella comunione vigono opposti principii. c. l’assemblea del condominio deve essere convocata almeno una volta all’anno. Nella comunione, invece, l’assemblea viene convocata quando se ne ravvisi l’opportunità, senza cadenza fissa; d. nel condominio la nomina dell’amministratore è obbligatoria se i condomini sono più di otto e i suoi poteri sono espressamente descritti dalla legge. Nella comunione, invece, l’amministratore non è obbligatorio e l’assemblea ne indica i compiti, in un rapporto pienamente conforme a quello del mandato; e. nel condominio l’approvazione del regolamento è obbligatoria se i condomini sono più di dieci. Nella comunione il regolamento non è mai obbligatorio; f. l’assemblea condominiale si costituisce e delibera con particolari maggioranze e soprattutto, con la doppia maggioranza del numero dei condomini (le teste) e delle quote millesimali. Chi è portatore di molti millesimi deve comunque fare i conti con gli altri condomini, i quali possono esprimere una maggioranza numerica ed inibire la approvazione delle delibere. Nel condominio anche il titolare del 90% degli appartamenti conta una sola testa e quindi non può costituire maggioranza nel computo delle intestazioni. Nella comunione, invece, la maggioranza calcolata secondo il valore delle quote è da sola sufficiente per vincolare la minoranza dissenziente. g. il condomino non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per la manutenzione dei beni comuni, salvo che sia intervenuto su autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea ovvero per eliminare un imminente pregiudizio. Nella comunione, l’articolo 1110 c. c. delinea l’opposto principio della normale rimborsabilità delle spese sostenute dal singolo. Le regole sulla divisione contribuiscono a chiarire l’intima essenza della nozione di condominio. La partecipazione alla comunione si risolve nella titolarità di quote ideali dello stesso bene e nei vantaggi che tale situazione comporta, senza finalità accessorie. La contitolarità delle parti comuni dell’edificio condominiale, al contrario, è funzionale al miglior godimento delle proprietà esclusive. Le parti comuni condominiali sono pertinenze delle unità immobiliari e la loro sistemazione consente di meglio utilizzare gli appartamenti. Per tale ragione, così interna alla nozione di condominio, l’ordinamento tende ad evitare che il venir meno della contitolarità delle parti comuni pregiudichi le possibilità di godimento degli appartamenti.