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PENA DI MORTE? NO, GRAZIE! “L`ASSASSINIO
PENA DI MORTE? NO, GRAZIE! “L'ASSASSINIO LEGALE È INCOMPARABILMENTE PIÙ ORRENDO DELL'ASSASSINIO BRIGANTESCO” “Ne bis in idem”. Non si può essere condannati due volte alla stessa pena. E poiché alla morte siamo condannati tutti d’ufficio, fin dal primo gemito, non è il caso che vi si aggiunga una condanna ulteriore. Di questa perla di saggezza gli Stati non fanno tesoro. Per lo meno, non tutti. La pena di morte è stata una lunghissima consuetudine in tutte le società, ancor prima che si potesse parlare di Stato. Il 18 dicembre del 2007 l’Assemblea Generale dell’ONU ha votato la risoluzione per la Moratoria Universale della pena di morte. Voti favorevoli: 104. Contrari: 54. Astenuti: 29. Moratoria non vuol dire abolizione: significa soltanto sospensione. Ma è comunque un passo importantissimo in questa direzione. Un passo che non è il punto di partenza, ma il punto d’arrivo di una lavoro lunghissimo e faticosissimo che ha visto l’Italia in prima fila. A dimostrazione che di positivo nel nostro paese non ci sono solo la Ferrari e la nazionale di calcio (…e neppure). Quando ci giunge notizia di un delitto disumano, l'uccisione di un bambino, una strage di civili indifesi o comunque l'omicidio volontario di una vittima innocente, la nostra prima reazione è emotiva: avvertiamo un impulso alla vendetta, un odio profondo verso l'assassino, che sfocia ben presto nell'intenso desiderio di vedere al più presto l'omicida morto. Si tratta di una propulsione istintiva, iscritta probabilmente nel codice genetico della nostra specie. Non a caso, società più antiche della nostra avevano concepito la legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Ma non sono soltanto l'odio e il rancore a guidarci verso questa prima reazione istintiva; si tratta anche di una sete di giustizia, che soltanto la morte dell'assassino sembra placare. Sentiamo che non c'è pena commisurata alla morte di un innocente che la morte del colpevole. Se esaminiamo tuttavia la questione non alla luce dell'istinto, bensì a freddo, razionalmente, le nostre convinzioni vacillano. Non siamo più così sicuri che spetti a noi, intesi come collettività o stato, decretare la morte di chicchessia, fosse pure il criminale più refrattario. Il dibattito sulla pena di morte è, quindi, ben lontano dall'essersi esaurito. Persino all'interno delle società contemporanee, anche in quelle più ricche e avanzate, tale dibattito è di estrema attualità. E non sono finora emersi argomenti definitivi, tanto meno dimostrazioni fondate scientificamente, né a favore dei fautori né a favore degli abolizionisti. Al contrario di quanto si crede comunemente, stando almeno a quanto si legge sulla stampa nazionale, la tradizione del pensiero occidentale è stata, per secoli, favorevole alla pena di morte. Non solo era favorevole alla pena capitale il Platone delle Leggi, ma lo erano, in epoche a noi molto vicine, giganti del pensiero del calibro di Kant, Hegel e Schopenhauer. Nella tradizione occidentale, l'avversione alla pena di morte comincia a farsi consistente con l'avvento dell'Illuminismo ed è italiano il paladino più agguerrito della causa abolizionista, quel Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, tenuto in grande considerazione nientemeno che da Voltaire. Egli sosteneva che “La pena di morte, rendendo meno sacro e intoccabile il valore della vita, incoraggerebbe, più che inibire, gli istinti omicidi”. Ma oltre a quanto detto, acconsentire alla pena di morte, significherebbe mettere in conto molteplici elementi: accettare l’inumanità della procedura; la possibilità dell’errore (cioè l'impossibilità di ridare la vita nel caso in cui un uomo, condannato alla morte, fosse ritenuto innocente in seguito ad un successivo processo); la non possibilità che bisognerebbe dare al reo di redimersi e di rendersi in qualche modo utile alla comunità cui ha arrecato danno. I fautori della condanna capitale sostengono che il sangue si lava col sangue, che la morte è il castigo adeguato per i criminali più sanguinari e che la pena di morte aiuta la prevenzione del crimine, rendendo più sicura la vita dei cittadini virtuosi. Personalmente ritengo che la coscienza raziocinante dell'uomo contemporaneo ormai ripugni il ricorso all'uccisione legalizzata di un suo simile. La concezione che sia lo stato ad eliminare fisicamente gli individui urta fortemente con la mia sensibilità e soggettività di cittadino. Il comandamento "non uccidere" è impresso nella mia coscienza e si oppone alla naturale aspirazione alla vendetta. La reclusione prolungata, la privazione della libertà, mi sembrano misure sufficienti per far espiare al colpevole il suo delitto. Inoltre, come fa notare il filosofo Norberto Bobbio, la violenza chiama violenza, rischiando di alimentare una pericolosa spirale. Condivido dunque la riflessione dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij, uno che scampò miracolosamente in extremis alla pena di morte che gli era stata comminata dal tribunale che lo aveva giudicato. Nel suo romanzo più ispirato, L'idiota, il protagonista dice: "Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L'assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell'assassinio brigantesco". Ilenia Rosa Nesci Presidente Nazionale INFAP