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L`assassinio del Mago di Tobruk e la misteriosa
Giuseppe D'Alessandro L'assassinio del Mago di Tobruk e la misteriosa scomparsa della figlia 1.Prefazione 2.Introduzione 3. Il contesto criminale 3.1 La situazione in provincia di Caltanissetta 3.2 La malavita niscemese 3.3 La famiglia Scifo e il contesto criminale 4. Scifo Vito Vittorio alias Il Mago di Trobuk 4.1 Cenni biografici 4.2 Il fascino della bella vita e i guai giudiziari 4.3 La latitanza 4.4 La dolce vita a Roma 5. Patrizia e la sua morte misteriosa 5.1 La breve vita di Patrizia 5.2 La scomparsa 5.3 Le ricerche dei familiari 5.4 Le (mancate) ricerche delle autorità 5.5 Il cimitero di Patrizia: la diga Disueri 5.6 Venerdì 17 giugno: cosa è realmente accaduto? 5.7 L'atto finale 1 6. Giuseppe Spatola: un amore assassino 6.1 La cronologia dei morti ammazzati 6.2 Biografia di un seduttore...criminale 6.3 Il carnefice di Patrizia 6.4 La lettera anonima e l'organigramma mafioso 7. Storia criminale di un killer 7.1 Una <inarrestabile> carriera criminale 7.2 Dai furti agli omicidi 7.3 Un vero killer professionista 7.4 Fine di una carriera 8. Le vicende giudiziarie 8.1 L'omicidio del Mago 8.2 Le prime indagini 8.3 La conclusione della prima inchiesta 8.4 Arrivano i pentiti 8.5 Il contributo di Ciro Vara 8.6 La svolta 8.7 <Affucala> 8.8 Gli sviluppi del processo 2 Prefazione La storia della nostra famiglia è quella che in paese tutti conoscono. Io ne percepisco, ancora, le paure, i silenzi, il dolori negli occhi lucidi ed i singhiozzi di mia nonna e comprenderò da grande perché tanto “speciale” gli altri mi facevano sentire. Fin da piccola, vivo e cresco con le uniche superstiti, mia nonna materna Angela e mia zia Amalia, sorella di mia madre, che all'epoca dei fatti aveva appena 16 anni. Solo ora, alla mia età, mi rendo conto dell’amore che hanno avuto per me e del coraggio che c’è voluto per andare avanti. Della dignitosa compostezza e del rispetto nei miei confronti a non sbattermi in prima pagina, proteggermi dalle contraddizioni e dai ritardi istituzionali. L'album della mia vita, non ha foto di famiglia . Quest'album è qui di fronte a me in questa mia stanza. Quello che per altri è un diario di nascita, per me è un grosso carpettone marrone fatto di ritagli di giornali e altri documenti, che non riesce più a chiudersi perché contiene un'altra parte della mia storia che qualcuno non vuole ascoltare. Sono le recenti e innumerevoli istanze e documenti inoltrati alle autorità competenti: Comune, Prefettura, Regione, Ministeri, Tribunali. L’amore con cui tutti mi hanno avvolta era speciale. Perché figlia di una mamma speciale, che si era fatta angelo. Ed anche mio nonno si era fatto angelo. Per questo da bambina mi sentivo protetta. Ogni bambino ha degli eroi. Mia madre e mio nonno lo erano. Altri sono rimasti solo assassini, e non posso chiamarli diversamente. Sensazioni, impressioni, presagi, da piccola, cresciute con me, poi diventate, tristemente, conferme. A quella condizione, che mi faceva sentire speciale, avrei rinunciato. E ad “angeli costretti” a proteggermi, avrei preferito ancora gli abbracci di mia madre ed i suoi baci, le passeggiate col nonno, i suoi occhi. Non ci sono sogni nella mia infanzia, in cui festeggio la mamma. Le sue braccia aperte a soccorrermi, Lei all’uscita da scuola. Darò quelle braccia ai miei figli per te, o madre. E nessuna terra sarà sufficiente a soffocarti, perché io respirerò per te, madre. Io parlerò per te. Ci sono domande nella mia vita che trovano difficoltà ad ottenere risposte. Non per i fatti che ci hanno visto per 30 anni testardi fiduciosi di giustizia, ma per gli atteggiamenti di uno Stato “ostruzionista”, incapace di vedere dove è la verità. E' triste scoprire che lo Stato non si è mai chiesto se c'ero e di cosa vivevo. Ora, mi chiedo se è possibile ottenere risposte alle nostre ripetute istanze, senza doversi legare, per protesta, in una pubblica piazza. Mi chiedo questo ed altro, senza perdere mai, comunque, il senso di dignità e di gratitudine per mia nonna e mia zia, e per quanti in paese, non mi hanno mai fatto sentire il disagio di esserci, anche io. Monica <Scifo> Introduzione Lunedì 24 aprile 1995: è il giorno dopo le elezioni regionali e i risultati sono ancora incerti; la sinistra appare in difficoltà, ma secondo gli ultimi exit-poll sembra in ripresa e i loro massimi vertici sperano alla fine in un quasi pareggio. Massimo D'Alema, allora presidente dei democratici di sinistra, rivolgendosi ai giornalisti, azzarda una previsione: se finisce otto a sette per loro dovete scrivere che D'Alema è il mago di Tobruk. Lunedì 31 dicembre 2007: Il Giornale intervista Massimo Bordin, direttore di Radio radicale, in ordine alla tenuta del governo Prodi. Questa la risposta: Non sono il mago di Tobruk, ma non è scontato che il governo cada. A distanza rispettivamente di dodici e ventiquattro anni dalla scomparsa di Vittorio Scifo, il Mago di Tobruk, il suo nome d'arte è ancora famoso, come si trattassi di un personaggio illustre! Quando venne platealmente ucciso nella piazza principale di Niscemi, il periodico ufficiale dei Maghi d'Italia (Cronache del 2000) gli dedicò un numero speciale con la sua foto in copertina e a tutta pagina la dicitura Un grande lutto per la magia italiana. Ai funerali parteciparono i maggiori esponenti di questa categoria e alcuni rimasero addirittura per tre giorni a Niscemi in compagnia dei familiari. Lasciava così questo mondo un personaggio discusso che fece parlare di sé l'Italia intera e che riuscì ad attorniasi di celebrità nazionali di primo piano, attratte da quegli occhi color acqua marina. Ai suoi funerali non c'erano Charles Aznavour, né Little Tony, né Claudia Mori, né Marcello Mastroianni, né Gina Lollobrigida, né Claudia Cardinale, per citare solo alcuni dei VIP di cui si circondava nel momento di massimo splendore; così come non c'erano molte persone al seguito, ma tantissime ai bordi delle strade attraversate dal feretro come da un lato a testimoniare la vicinanza alla famiglia e la umana pietà e dell'altro a prenderne le distanze per quella cappa di omertà che rendeva famosa Niscemi, pur inserita nel grave contesto criminale della Sicilia di allora. Ma la tragedia del Mago è solo l'epilogo di un'altra terribile tragedia: la scomparsa -un mese prima - della figlia appena diciannovenne, che non verrà mai più ritrovata. E se le cose non fossero abbastanza tragiche, sono gli attori di questo dramma a renderle tali: il carnefice di quella giovane donna che si affacciava alla vita è il padre di quella bambina che era venuta al mondo qualche mese prima e che sino all'adolescenza non comprenderà (e non poteva comprendere) perché non c'era suo nonno, perché non c'era sua madre e perché non c'era suo padre. Capirà poi che quel padre che le ha dato la vita le ha anche tolto la mamma. E man mano che cresceva riusciva a colmare i vuoti della storia, riempiendo le caselle mancanti, scoprendo verità sempre più terribili e trovando il coraggio di riempirle tutte, anche quelle più dolorose che i familiari pietosamente le nascondevano. Ora è grande, è una donna <normale> e forse le scelte della sua vita sono state determinate dal dramma che si porta dietro: si è laureata in psicologia, quasi a volere scrutare nelle menti umane perché un amore più trasformarsi in un omicidio ed ha sposato - quasi simbolicamente un poliziotto, come per manifestare a tutti da che parte sta. Eppure lo Stato italiano, in nome del quale il killer Passaro Giovanni è stato condannato a trent'anni e sempre in nome di questo popolo ha <decretato> la morte presunta di sua madre, ritiene che non possa considerarsi vittima di mafia perché figlia di un mafioso... Incomprensibili paradossi della burocrazia e figli di uno Stato che per tanti anni si è disinteressato in ordine a chi abbia commesso questi atroci delitti, nonostante diversi collaboratori di giustizia si fossero detti pronti a fornire informazioni. Di mia madre non ricordo l'odore, né lo sguardo, il volto o le mani dirà Monica in un'intervista. E se è vero, come è vero, che son tutte belle le mamme del mondo, per lei sono solo le foto e i racconti dei familiari a farglielo immaginare. Ma cosa pensa Monica di <suo> padre dopo avere saputo tutto quello che non avrebbe mai voluto sapere? Non ha alcuna esitazione: parla di lui in terza persona, come se si trattasse di uno sconosciuto o come se stesse scrivendo un rapporto di polizia. Giuseppe Spatola – afferma marcando la distanza – era un personaggio spietato, in ascesa nella scala gerarchica della mala locale, morto anche lui sotto i colpi d'arma da fuoco per un regolamento di conti. E coerente con sé stessa vuole cambiare cognome e chiamarsi Scifo, come i <veri> genitori (nonna e zia) che l'hanno sempre considerata una figlia, che ha colmato il vuoto lasciata dall'altra. La figlia di un altro mafioso in un'intervista a Panorama dirà invece di suo padre: da cosa dovrei dissociarmi? Dall’affetto e dall’amore che papà mi ha dato da quando sono nata? E come potrei, ancora, impedirmi di volergli bene? I ricordi che mi legano a lui sono tutti di una tenerezza struggente. La frase è di Maria Concetta Riina, figlia di Totò. Questa la storia che vi raccontiamo in questo libro: fatta di omicidi e vendette, con tanti protagonisti nel ruolo sia di carnefici che di vittime, in un contesto criminale che solo le persone avanti negli anni ricordano. Una storia che comunque esce fuori dal piccolo paese di Niscemi perché si inserisce in un contesto ancora più vasto e con una risonanza che ha varcato anche i confini dell'Italia. E' come si trattasse di un romanzo criminale, ma con protagonisti veri in carne e ossa, senza mai dimenticare il dolore e la tragedia che hanno vissuto i familiari. Che il tempo – sia pure galantuomo – non riuscirà mai a lenire. E' a Loro e alla Verità che questo autore dedica il libro. Brevi richiami storici Inquadrare i fatti nel periodo storico in cui accadono costituisce elemento imprescindibile per una loro migliore comprensione. E' per questo che sarà raccontata – sia pure in estrema sintesi l'evoluzione della storia criminale di Niscemi, teatro in cui si svolsero i fatti che stiamo raccontando, inserendola nel contesto geografico locale e dell'intero comprensorio (la provincia di Caltanissetta anzitutto). Niscemi è per popolazione il terzo paese della provincia, ha da sempre presentato problemi di ordine delinquenziale, sia per fatti legati alla criminalità organizzata, sia per delitti da essa svincolati, ma particolarmente efferati. La storia di Niscemi è costellata da episodi di inaudita violenza e non ha nulla da invidiare – in questo triste primato – a tanti altri paesi della Sicilia. Già nel 1860 una banda si era costituita con a capo tale Salvatore Di Benedetto, inteso <Parachiazza> e per diversi anni terrorizzò Niscemi e i paesi vicini, spingendosi fino al Ragusano. Fu proprio a Chiaramonte Gulfi che la banda - composta da una trentina di persone - sequestrò il barone Francesco Saverio Melfi, derubandolo di ogni cosa e ammazzandogli la figlia sotto i suoi occhi dopo averla violentata. Nel 1861 il figlio di <Parachiazza>, a nome Matteo Di Benedetto, uccise l'allora sindaco Salvatore Masaracchio per avergli fatto lo <sgarro> di non averlo esonerato dal servizio militare. Ci volle l'esercito e una sanguinosa battaglia per sterminare quella banda che tanti lutti aveva provocato. Un'ottantina di anni dopo, un'altra agguerrita banda si formerà nella cittadina nissena, rendendosi colpevole di altrettanti efferati delitti. Guidata da Rosario Avila detto <Canaluni>, avrà l'onore (si fa per dire) di essere seconda soltanto a quella del più noto Salvatore Giuliano di Montelepre. Difatti la testa dell'Avila varrà mezzo milione di lire di allora, mentre quella di <Turiddu> era stata quotata 800.000 lire. Come Giuliano, anche Avila (che aveva giurato eterna lotta ai Carabinieri) indosserà i panni del <separatista>, partecipando alla battaglia di monte San Mauro nei pressi di Caltagirone conclusasi con la disfatta dell'EVIS (Esercito Volontario per l'indipendenza della Sicilia). La mattina del 10 Gennaio 1946 il brigadiere Vincenzo Ammenduni, comandante della stazione di Feudo Nobile e quattro dei suoi militari, usciti di pattuglia alla ricerca di alcuni ladri di bestiame, si trovarono sulla strada della banda di Rizzo. Ci fu uno scontro a fuoco, ma quando i cinque carabinieri esaurirono le munizioni a loro disposizione furono costretti ad arrendersi. Poi fu la volta dei tre militari rimasti nella casermetta, costretti anche loro alla resa dopo che i banditi assaltarono l’edificio a raffiche di mitra e bombe a mano. Gli otto carabinieri vennero quindi legati e costretti a seguire i banditi nelle loro peregrinazioni nell’interno della Sicilia. Salvatore Rizzo avviò una trattativa con lo Stato, e fu sicuramente la mafia a fare da mediatrice. Le proposte erano chiare: la liberazione di alcuni capi indipendentisti e fra questi Concetto Gallo, arrestato il 29 dicembre del 1945, dopo la battaglia nei pressi di Caltagirone durata appena un'ora. In alternativa Avila chiedeva l’amnistia per sé ed i suoi o una comoda fuga all’estero. La trattativa andò avanti per quasi tre settimane. Si parlò di un’automobile che avrebbe dovuto prelevare gli otto militari e portarli sul luogo dello scambio. Ma la trattativa fallì e vennero massacrati il 28 gennaio 1946. Si parlò allora di una sorta di trattativa Stato-Mafia ante litteram raccontata da un sopravvissuto che riferì di un misterioso personaggio elegantemente vestito che in rappresentanza dello Stato comunicò ufficialmente ad Avila il fallimento della trattativa. Molti componenti della banda vennero poi uccisi dalla mafia perché detentori di segreti inconfessabili. Quando il 25 maggio del 1946 i miseri resti vennero trovati nudi in contrada Bubbonia, territorio di Mazzarino, il brigadiere Vincenzo Amenduni, stringeva ancora fra le dita rattrappite la foto dei figli. Il rinvenimento avvenne dopo la cattura a Catania del bandito Milazzo il quale, a seguito di un interrogatorio, confessò di aver partecipato all’eccidio e consentì il ritrovamento dei corpi. Gli uccisi non erano i primi carabinieri a finire sotto il fuoco di <Canaluni>: il 16 ottobre del 1945 aveva teso un agguato a una pattuglia di militi in contrada Vituso, sempre in territorio di Niscemi, uccidendone tre a colpi di mitra e bombe, mentre altri quattro erano scampati miracolosamente. Uno degli assassini riuscì a farla franca e a morire da uomo libero, nonostante la condanna a due ergastoli per 35 rapine, 9 sequestri di persona e 3 estorsioni, oltre agli omicidi. Si chiamava Vincenzo Buccheri, ma per tutti era invece il fratello <Rocco> del quale aveva assunto l'identità, riuscendo e gabbare i carabinieri che per decenni gli avevano dato la caccia. Solo il giorno dopo la morte la moglie di <Rocco> (che in realtà era morto nel 1973) rivelò la vera identità: il tranquillo pensionato deceduto in una clinica di Genova era stato un feroce bandito che tanto sangue aveva seminato in Sicilia. Il 16 marzo del 1946 il corpo del bandito Canaluni, privo di vita e con la testa spaccata in due venne trovato a sei chilometri da Niscemi. Qualcuno intascò la taglia, ma ancora oggi, a distanza di una settantina di anni, solo in pochi mormorano sottovoce il nome di chi (oramai morto da mezzo secolo) ebbe a riscuotere il lauto compenso. Quello che abbiamo raccontato potrà apparire al lettore un' inutile divagazione, ma ben presto si comprenderà come l'evolversi dei fatti inerenti all'omicidio del Mago e alla scomparsa di sua figlia si inseriscono in un contesto scellerato i cui embrioni sono stati seminati nell'ambito criminale del secondo dopoguerra che ha visto nascere e prosperare, col consenso tacito o espresso della politica, quella particolare consorteria delinquenziale che prende il nome di <Cosa Nostra>, dalla quale scaturiranno episodi luttuosi come quelli oggetto di questo libro. E' oramai storicamente provato come lo sbarco degli Alleati sia stato facilitato dall'aiuto di eminenti personaggi mafiosi isolani, oltre che americani. E quando la mafia dà una mano d'aiuto non lo fa certo per disinteressata benevolenza o cristiana magnanimità. Il prezzo che è stato pagato prende il nome di Don Calò Vizzini, di Vito Genovese, di Giuseppe Genco Russo e di tanti altri soggetti i cui nomi ben presto saranno ripresi da giornali e libri per descrivere quel complesso fenomeno criminale, sociologico e politico che va sotto il nome di Mafia. Vizzini Calogero, per tutti <don Calò>, inviato al confino durante il Fascismo dal prefetto Mori, dopo lo sbarco degli Americani venne da costoro nominato, il 18 luglio 1943 e cioè 18 giorni dopo lo sbarco, nientemeno che sindaco di Villalba, paesino in provincia di Caltanissetta. A consegne fatte da parte delle autorità militari, a don Calò e ai suoi <collaboratori> vennero pure concessi i relativi porto d'armi. Secondo fonti storiche, la gioia degli uomini di Vizzini si concretizzò sparando in aria in tono di giubilo e gridando <viva la mafia, via don Calò!> (A cavallo della tigre di M. Pantaleone, edito da Flaccovio). Non si sa quanto abbia influito su tale nomina l'avere un fratello vescovo e a capo della diocesi di Noto. Sarà ricordato come uno dei pochi capimafia spirati per vecchiaia nel proprio letto, all'età di 77 anni. Amava dire, riferendosi alla mafia e quindi a sé stesso: in ogni società ci deve essere una categoria di persone che aggiustano le situazioni quando si fanno complicate. E lui apparteneva a quella categoria! Alla sua morte – avvenuta il 12 luglio del 1954 – il suo posto fu preso da Giuseppe Genco Russo, conosciuto come "Zu Peppi Jencu", persona rozza, scaltra, semianalfabeta ma con eccellenti agganci politici. Si diceva che fosse un uomo volgare, abituato a sputare a terra noncurante delle persone presenti, ma stranamente ritratto in compagnia di vescovi, banchieri e uomini politici. Coabitava con un mulo e a casa non aveva i servizi igienici dirà di lui con disprezzo il pentito Masino Buscetta. Evidentemente queste credenziali non vennero ritenute da ostacolo perché divenisse capo dell'Amministrazione comunale di Mussomeli, paesone in provincia di Caltanissetta, del quale nel 1960 ricoprirà anche il ruolo di consigliere comunale fra le file della Democrazia Cristiana. Quando verrà processato chiamerà a testimoniare in suo favore eminenti personalità politiche, appartenenti al clero, banchieri, medici, avvocati e uomini d'affari. Lo difese pure pubblicamente il sottosegretario onorevole Calogero Volpe. Il passaggio di consegne Vizzini-Genco Russo avvenne, come spesso accade in ambito mafioso, con rituali tipici dell'onorata società: l'essersi posizionato a destra della bara di don Calò apparve più esplicito di una solenne incoronazione! Anch'egli – come don Calò – morirà di vecchiaia a casa sua all'età di 83 anni nel 1976. A Vizzini e a don Calò verrà conferito – nel 1946 – il titolo di Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia per «rimunerare le benemerenze più segnalate, tanto degli italiani che degli stranieri, e specialmente quelle che riguardano direttamente gli interessi della Nazione» (regio decreto 20 febbraio 1868, n.4251). Con la morte di Genco Russo finisce la mafia feudale e comincia quella imprenditoriale. Non più coppola storta, doppietta a tracolla, baffi e basettoni, non più il contadino rozzo e semianalfabeta dalle mani callose e dal viso solcato da profonde rughe: il boss mafioso diventa affarista, imprenditore, industriale, con interessi nelle banche e nell'economia; investe in borsa, veste alla moda, vive nel lusso, manda i figli nelle migliori Università, viaggia a bordo di auto di lusso e possiede ville con piscina. Alle elezioni – siano esse politiche che amministrative - manovra grossi pacchetti di voti, influisce sulle nomine e, come corrispettivo, ottiene finanziamenti pubblici inaccessibili alla gente <normale>. Il primo rappresentante in provincia di Caltanissetta di questo nuovo modello criminale fu Francesco Madonia, originario di Vallelunga Pratamento, minuscolo comune del Nisseno. Ben presto strinse rapporti con i Corleonesi, ma trovò la strada sbarrata dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina che lo fece fuori l'8 aprile 1978. Sulla sua tomba è scritto l'eloquente e stringato epitaffio l' 8 aprile del 1978 all' età di settanta anni è venuto a mancare Francesco Madonia: un uomo. <Peppe> Di Cristina era a sua volta figlio di Francesco, altro boss riesino, il cui scettro gli venne passato dal padre, di nome Giuseppe, con un rituale che rimase negli annali della mafia: durante la Festa di San Giuseppe, come consuetudine a dir poco discutibile, la processione si fermava sotto il suo balcone in attesa che il capomafia facesse un cenno per continuare. Quando il Patriarca (inteso non come San Giuseppe) decise che era il momento di abdicare, baciò ostentatamente il figlio, dopo di che fece un cenno di proseguire. Così tra un Paternostro e un'Avemaria tutti capirono da quel momento chi era il principe ereditario. I Corleonesi, con in testa Riina e Provenzano, non gliela fecero passare franca e il 30 maggio del 1978 Di Cristina rese l'anima a Dio con l'aiuto di un'arma da fuoco. Al Madonia intanto successe il figlio di nome Giuseppe, ma da tutti conosciuto come “Piddu”, impegnato in attività imprenditoriali di movimento terra e nella commercializzazione di calcestruzzo. I suoi interessi nel frattempo si spostarono da Vallelunga a Gela, dove ben presto gli abitanti capirono quanta ricchezza aveva portato il petrolchimico. Solo a distanza di decenni capiranno di quante malattie e di quanti decessi esso è stato responsabile. Egli strinse ben presto amicizia con Ciro Vara del quale diventerà compagno di delitti e dal quale riceverà gravissime accuse quando il Vara diventerà collaboratore di giustizia. Entrambi i personaggi avranno un ruolo nella vicenda del Mago e della sparizione di sua figlia Patrizia e li incontreremo nei prossimi capitoli. Intanto Giuseppe <Piddu> Madonia appare a tutti un uomo di rispetto, inteso non in senso mafioso: è imprenditore, si aggiudica appalti, costituisce società, ottiene il passaporto e persino il porto d'armi. La sua fedina penale non è proprio pulita, ma neanche <mascariata>: un' ammenda per eccesso di velocità a 30 mila lire inflittagli dal pretore di Lentini il 20 maggio del 1975. Per il Madonia tuttavia la strada per diventare capo di Cosa Nostra nissena è lunga a tortuosa. Una nuova entità delinquenziale si affacciava all' orizzonte, spesso in contrapposizione con Cosa Nostra, qualche volta alleata, altrettanto violenta, ma priva di quel radicamento sul territorio tipico della mafia classica che - difatti - è sopravvissuta, mentre la <Stidda> (è questa l'organizzazione di cui parliamo) è pressoché scomparsa. La partita in gioco è molto elevata: i soldi stanziati per la realizzazione della diga Disueri, tra Gela e Mazzarino, non sono briciole; si parla di 220 miliardi di lire: una cifra che giustifica anche una guerra. E infatti guerra fu: solo a Gela in meno di due anni si contarono 110 morti ammazzati! Il suo <esercito> è alleato con potenti generali: nella Sicilia orientale (Catania) vi sono le truppe del catanese Nitto Santapaola, in quella occidentale (Palermo) quelle del corleonese Totò Riina. Perché stupirsi se – catturato dopo lunga latitanza – verrà condannato all'ergastolo per la strage di Capaci ? La malavita niscemese In questo turbinio di eventi malavitosi, come si colloca la malavita niscemese? Costituiscono fonti storiche anzitutto le inchieste giudiziarie nate dai rapporti dei Carabinieri (all'epoca il commissariato di polizia non era ancora stato istituito e comincerà a funzionare nel 1990), seguono le cronache dei giornali dell'epoca e infine i racconti dei cosiddetti collaboratori di giustizia o <pentiti> che dir si voglia i quali, spinti (anche o sopratutto) dal miraggio di concreti benefici penitenziari, non hanno esitato a <tradire> il patto mafioso che contemplava anzitutto la segretezza, contribuendo a disvelare fatti che sino ad allora erano rimasti in incognito. Un quadro tanto sintetico quanto completo dell'associazione criminale niscemese ci proviene dalla relazione ispettiva di accesso redatta dalla commissione prefettizia che porterà poi allo scioglimento degli organi elettivi comunali. Questo il quadro che dipinge: fino alla prima metà degli anni ottanta, la locale consorteria criminale (il riferimento è a Niscemi – n.d.a.) era costituita da personaggi legati alla vecchia concezione della mafia agricola di <Cosa Nostra>: Arcerito Salvatore, ucciso nel 1984, Spatola Bartolo e Paternò Angelo, questi ultimi troppo avanti negli anni per potere svolgere un ruolo attivo all'interno della consorteria ma tuttavia coinvolti in recenti vicende giudiziarie scaturite dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Lo Spatola Bartolo del quale la commissione fa cenno, altri non è che il padre di Spatola Giuseppe, convivente prima e carnefice poi di Scifo Patrizia. Nel periodo in cui accadono i fatti oggetto di questo lavoro (tra il 1982 e il 1984), Niscemi è soffocata da una cappa delinquenziale opprimente: i vecchi padrini legati alla mafia rurale non intendono cedere lo scettro ai giovani, che a loro volta sono restii a sottostare agli ordini dei <vecchi>. La politica è inquinata non già dalla piccola criminalità, ma da Cosa Nostra, sia a livello nazionale che locale. Dirà Leonardo Messina: quando un politico arrivava in un paese c'erano tre carabinieri e venti uomini d'onore che guardavano quel politico che interessava a Cosa nostra. La Chiesa fa la sua parte, nel senso che appare tollerante se non contigua con la consorteria mafiosa, finanche distribuendo nelle sacrestie i <santini>, intesi non come rappresentazioni agiografiche, ma fac-simili elettorali proprio di soggetti conniventi con la mafia e candidati alle elezioni. D'altronde è risaputo che le autorità in un paese erano quattro: il sindaco, il maresciallo, il parroco e il...mafioso. In questo clima, il 30 aprile 1983, accade a Niscemi uno dei tanti episodi di sangue catalogati come <guerra di mafia>, ma che costituisce una sorta di guerra di successione tra i padrini di una volta, organici a un sistema criminale capillare e infiltrato in tutte le articolazioni statali (si dirà: uno Stato nello Stato) e i giovani ribelli che non tollerano più l'autorità imposta e vogliono gestire in prima persona il <business> (termine questo che i vecchi patriarchi neanche conoscono). All'angolo tra le vie Popolo e Bandiera, appena fatto buio, viene freddato da due killer Salvatore Arcerito, ufficialmente commerciante di bestiame, ma padrino unanimemente riconosciuto. L'auto dei killer verrà trovata in contrada Serbatoio con all'interno una Colt cal. 38 e un revolver cal. 44, due paia di guanti e alcuni litri di benzina. I componenti hanno avuto solo il tempo di scappare all'alt dei Carabinieri che si trovavano appostati. Accanto all'auto usata (una Mini Minor) un'altra auto <pulita>: si tratta di una Fiat 500 appartenente a un grosso personaggio malavitoso – Giuseppe Vacirca – che si dà subito alla macchia e trascorrerà buona parte della latitanza pernottando dentro al cimitero o andando in giro per il paese vestito da donna. E' il segno che sono saltate tutte le regole; nessuno è più al sicuro, inizia una sanguinosa faida che farà tante vittime: dal presunto autore dell'omicidio Arcerito, Pepé Vacirca, al figlio dello stesso Arcerito, Antonio. In questo clima di terrore, un paio di mesi dopo scomparirà Patrizia e trenta giorni dopo il Mago sarà ucciso. Scifo Vito Vittorio alias Il Mago di Trobuk Vittorio Scifo non era uno stinco di santo! Anzi a leggere in maniera superficiale il suo certificato penale, si direbbe che era proprio un delinquente. Ma se dallo sfoglio sommario si passa ad un'attenta analisi dei reati per i quali è stato condannato, ci si fa un'idea certamente diversa: espatrio clandestino, esercizio abusivo di professione, molestia alle persone, inosservanza di provvedimenti di autorità, violazione del foglio di via obbligatorio e poi una caterva di emissione di assegni a vuoto. Accanto a tutto questo, un paio di condanne per truffa, che per uno che fa il mago sono ben poca cosa e costituiscono una sorta di conseguenza quasi naturale per chi vende illusioni. Anche la misura di prevenzione della sorveglianza speciale (che normalmente colpisce i mafiosi) è esclusivamente legata all'attività di chiromante e alla sua vita disordinata e comunque fuori dal comune. In ogni caso si tratta di fatti illeciti niente affatto connessi a consorterie mafiose, non fu mai incolpato di gravi reati, quali estorsione o simili. E soprattutto è da escludere che la sua morte sia da mettere in relazione ai reati addebitatigli. Ma ciononostante nessuno può dire che fosse uno stinco di santo. Il Questore di Caltanissetta, nella proposta di applicazione della misura di prevenzione, parla di lui come di uno scapestrato che ama vivere alla giornata in maniera disordinata, che non si dà a stabile lavoro, ma preferisce girovagare per l'Italia, tanto da essere più volte rimpatriato, che ama frequentare ambienti immorali, alloggiando in alberghi di lusso e ostentando un tenore di vita al di sopra delle sue possibilità, esaltando le sue virtù miracolistiche di guaritore, viaggiando a bordo di una costosissima Jaguar e via dicendo. Vengono tratte le conclusioni che si tratta di un uomo pericoloso per l'ordine pubblico e perciò meritevole di essere spedito in qualche comune del nord e sottoposto a rigidi controlli da parte delle forze di polizia. Ma quest'uomo così malvisto dalle forze dell'ordine, cosa ci fa ritratto con Charles Aznavour, Little Tony, i Nomadi, i Dik Dik, Claudia Mori, Marcello Mastroianni, Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale e tanti altri divi dello spettacolo? Cosa spinse i quotidiani dell' epoca a parlare di lui con cadenza quasi settimanale? E perché mai la fama di quest'uomo così tanto vituperato oltrepassò i confini dell'Italia, al punto che il primo quotidiano di Parigi - Le Parisien - gli dedicò nel 1968 un'intera pagina dal titolo < Il papa dei maghi prevede per il 1969 il divorzio di Jacqueline Kennedy con Onassis, un figlio per la regina Fabiola del Belgio e un attentato a De Gaulle>? La vita del Mago di Tobruk è tutta contornata da contraddizioni e colpi di scena, dalle sue capacità di attirare l'attenzione dei mezzi di comunicazione e di apparire alle persone come dotato di un fluido magnetico capace di attrarle. Non riuscì neanche a prendere il diploma della scuola elementare, ma amava leggere e anche scrivere. E scriveva molto bene: a Niscemi c'è la mia villa. Là sorridenti mi vengono incontro Patrizia e Amalia, le mie due bambine. Mi saltano al collo festose, camminando al mio fianco e ponendo le loro piccole mani sulle mie. l suono delle loro voci fresche e gioiose mi si ripercuote dentro l'anima amplificandola. E provo la vera gioa di vivere, di sentirmi vivo per loro, che sono la ragione del mio avvenire. Mi diverte Patrizia, mi affascina Amalia. Anche se quando scrive queste poetiche parole non immagina quale terribile destino sconvolgerà la sua vita e quella della sua famiglia. All'apice della sua carriera guadagnava soldi a palate, eppure sua moglie era costretta a gestire un bar per sopravvivere. Su questo modus vivendi la previsione che egli fa di sé stesso è realistica. Quando non aveva ancora compiuto i trent'anni ebbe a scrivere di sé: Tra i tanti pregi e benefici che comporta questo mio segno zodiacale (Acquario) per reggere l'equilibrio che è sovrano in tutte le cose, risalta un grosso difetto di ordine pratico. Gli acquariani, per quanto capaci conquistatori di fortune, altrettanto e in breve tempo disperdono ciò che hanno accumulato. A volte era lui che tentava di avvicinare i grandi personaggi dello spettacolo, ma più spesso erano loro a cercarlo e farselo amico o magari interpellarlo solo per un consulto. Se non addirittura per farsi pubblicità gratuita. Ma chi era quest'uomo e perché divenne tanto famoso in Italia? La cronologia dei morti ammazzati Intanto i giornalisti tentano di stilare la triste cronologia dei morti ammazzati a Niscemi negli ultimi diciotto mesi: un tragico rosario che si apre con i fratelli Tinnirello (aprile-maggio 1982), cugini di quel Passaro che si scoprirà essere l'assassino di Scifo, prosegue con Fidone Calogero e quindi è la volta del <patriarca> Arcerito Salvatore (30 aprile 83). Poi cade il Mago e quindi Vincenzo Vacirca a tre o quattro metri dall'ormai tristemente famoso bar La Bussola. E siamo nel novembre dell'83. L'anno nuovo si apre con l'eliminazione di Francesco Vicari che per un tragica fatalità del destino viaggiava a bordo di un'auto condotta proprio dal nuovo titolare del Bar La Bussola, mentre il 30 agosto del 1984 è la volta di Vincenzo Spinello. E siamo arrivati all'omicidio Spatola. Ma egli non sarà l'ultimo, parecchi altri ne seguiranno: il duplice omicidio Russo-Puzzo di cui abbiamo parlato (24 novembre 1984) e poi arriverà il turno del fornaio Alfonso Spinello, freddato fra i tavoli di una pizzeria e subito dopo di Totò Crocetta, macellaio venticinquenne. Anche questo fatto di sangue è avvenuto nell'ormai consueto <teatro> dove va in scena la spettacolarizzazione della morte: in un bar affollatissimo di gente posto all'inizio di quella via Umberto che conduce alla famosa piazza Vittorio Emanuele. Con un'inquietante e mai verificata ipotesi: la vittima predestinata forse era il fratello di Totò a nome Gaetano. E assieme a loro una caterva di feriti innocenti. Interrompiamo il tragico conto con quest'ultimo fatto di sangue commesso alla fine di agosto 1985 e torniamo all'omicidio Spatola. I Carabinieri ebbero subito la sensazione che questo ennesimo fatto di sangue avrebbe scatenato una guerra fra bande. Riuscirono a individuare chi stava con lui al momento in cui sopraggiunsero i killer. Si trattava di Di Modica Luigi, ventiquattrenne del luogo, che dopo l'omicidio si eclissò. Gli inquirenti sospettarono fortemente che egli avesse attirato nella trappola la vittima: secondo la ricostruzione testimoniale, il Di Modica indossava stranamente un'appariscente tuta da ginnastica (bianca e azzurra) e delle scarpe da tennis, indumenti alquanti insoliti per una passeggiata in pieno centro alle sette di sera e che tale abbigliamento aveva lo scopo di segnalare ai killer l'obiettivo. Fra l'altro apparve subito evidente come a eseguire materialmente il delitto fosse stato un commando composto da persone sconosciute a Niscemi e probabilmente anche nei paesi limitrofi, considerando che la vittima era molto bene inserita negli ambienti criminali, per cui si rischiava che qualcuno potesse tradire e avvertire il destinatario. La fuga da Niscemi del Di Modica non fece che aggravare i sospetti. Intanto quella sera accadde un giallo che vale la pena raccontare. In caserma si trova una signora che alle 19,30 aveva visto un uomo dall'accento niscemese all'interno di un Fiat 500 celeste che gridava a un altro giovane con la pistola in pugno di sbrigarsi. Mentre gli inquirenti sono intenti a far ripetere la dichiarazione nella speranza di ottenere maggiori dettagli, una signore anziano – tale Barone Antonino - suona il campanello e dice al piantone di avere notato, in prossimità della concimaia comunale sita a un paio di chilometri dal centro abitato, una Fiat 128 con i fari spenti e con all'interno delle persone che se ne stavano con gli sportelli aperti; temendo trattarsi dell'ennesimo tentativo di furto in suo danno era venuto ad avvertire i militari. L'omicidio del Mago L'ondata di caldo che colpì la Sicilia nel luglio del 1983 fu veramente eccezionale. Molti Niscemesi si godevano la frescura della campagna e chi poteva si spostava nelle località balneari della costa gelese o del Ragusano. Lo scendere della sera poi mitigava la calura e perciò in molti uscivano per recarsi nella piazza principale di Niscemi dedicata a Vittorio Emanuele II°, ma chissà per quale recondito motivo la tabella reca la dicitura “terzo”. Soprannominata <il salotto di Niscemi>, ha dimensioni ragguardevoli, con due chiese che quasi si fronteggiano nel lato corto del rettangolo (la Chiesa Madre e quella dell'Addolorata) mentre il lato lungo è chiuso dal palazzo del municipio e da un obbrobrioso edificio in cemento armato, privo di intonaco e con pezzi sporgenti di ferro arrugginito che conferiscono uno squallore desolante. Un tempo molto lontano la piazza era divisa in due: metà veniva usata dai <viddani>, cioè i contadini che dedicavano la loro vita ai campi in cambio di un tozzo di pane per la famiglia, l'altra metà godeva del privilegio di essere calpestata dai <civili>. Le due porzioni erano fisicamente distinte e i civili mal tolleravano invasioni di campo. Oggi, ma anche all'epoca dei fatti narrati, non è più così: ognuno passeggia dove vuole e le distanze economiche e sociali si sono notevolmente ridotte. Come ogni piazza che si rispetti, i bar la fanno da padrone, primo fra tutti il Bar La Bussola, storico luogo d'incontro di giovani e meno giovani, gestito per molti anni proprio dalla famiglia Scifo e all'epoca dei fatti ceduto a terzi. Il Bar sorge difronte la Basilica dell'Addolorata, splendida costruzione barocca di metà Settecento, in un palazzo in passato appartenuto a una delle più nobili famiglie niscemesi – i Masaracchio – che si dice fossero discendenti di quel Giorgio Castriota Scanderbeg, vissuto nel 1400 e ritenuto l'eroe nazionale albanese. Il 18 luglio del 1983 una decina di persone intenta a chiacchierare sta seduta davanti all'ingresso del bar, mentre altre cinque o sei sostano in piedi ammazzando il tempo con discorsi più o meno futili. Si parla del caso Tortora, il noto presentatore televisivo arrestato assieme ad altri 855 camorristi di Raffaele Cutolo qualche settimana prima (verrà assolto dopo tre anni e una penosa detenzione) e della misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi avvenuta una ventina di giorni prima e mai più ritrovata. Proprio quel giorno i quotidiani pubblicano il terzo appello del papa perché venga liberata la ragazza, mentre gli ignoti rapitori fanno recapitare una cassetta registrata con la voce della rapita. Fra coloro che sono seduti ce n'è uno a cui la scomparsa di Emanuela fa più impressione degli altri perché sua figlia, quasi coetanea della figlia del dipendente vaticano, è pure scomparsa da quasi un mese, esattamente lo stesso giorno del blitz contro Tortora e teme il peggio. Proprio nel primo pomeriggio di quel 18 luglio si era recato a Vittoria nell'ennesimo tentativo di trovare se non la figlia quantomeno notizie utili, ma anche questo viaggio si era concluso con un nulla di fatto. Ansie, speranze perdute, timori, angosce, apprensioni, inquietudini: erano questi i sentimenti che pervadevano la mente del Mago di Tobruk. Arrivano i pentiti Il 31 luglio 1987 in un'aula della corte di appello di Aix-enProvence (Francia) viene sentito in rogatoria davanti al giudice istruttore di Marsiglia Debacq Michel, Antonino Calderone, uno dei più importanti collaboratori di giustizia catanesi dalle cui propalazioni scaturirono duecento arresti tra capimafia e gregari. Nel tentativo di elogiare il magistrato palermitano Giovanni Falcone, il pentito dirà di lui: ho collaborato con Falcone perché è uomo d'onore. Com'è ovvio a volte le parole assumono sfumature notevolmente diverse...Questa frase la riporta lo stesso magistrato ucciso poi a Capaci nel suo libro Cose di Cosa Nostra, edito da Rizzoli. Ed era tanto il rispetto che il Calderone portava a Falcone che quando scappò dall'Italia perché braccato volle salutare il giudice palermitano con queste parole: Signor giudice, non ho avuto il tempo di dirle addio. Desidero farlo ora. Spero che continuerà la sua lotta contro la mafia con lo spirito di sempre. Ho cercato di darle il mio modesto contributo, senza riserve e senza menzogne. Una volta ancora sono costretto a emigrare e non credo di tornare mai più in Italia. Penso di avere il diritto di rifarmi una vita e in Italia non è possibile. Con la massima stima, Antonino Calderone. La caratura del personaggio è notevolissima, tant'è che lo stesso Giovanni Falcone, accompagnato da magistrati che faranno la storia dell'antimafia (Gioacchino Natoli e Giusto Sciacchitano) assisterà all'interrogatorio di Calderone alla presenza di Antonio Manganelli che il 25 giugno 2007 diventerà capo della polizia. Cosa disse il Calderone al giudice Falcone di tanto interessante in riferimento ai fatti che stiamo narrando? Intanto svelò le generalità di uno dei due attentatori di Spatola indicato col poco elegante epiteto di Porco, rivelando trattarsi di un catanese di nome Mario Di Bella. Poi riferì che di seguito a una sanguinosa rapina nel quartiere Zia Lisa di Catania alcuni rapinatori erano rimasti feriti e il Di Bella aveva contattato un uomo d'onore di Niscemi (che la polizia individuò in Rosario Rizzo) per dare assistenza e alloggio ai latitanti. Quando il Di Bella accompagnò a Niscemi coloro che dovevano trovarvi rifugio, ottenne un inspiegabile rifiuto. Ne nacque una vivace discussione, seguita da un chiarimento a colpi di pistola che attinsero lo Spatola . Il fatto provocò le ire di Giuseppe Madonia il quale - da rappresentante della provincia di Caltanissetta – pretese dal suo <omologo> catanese Nitto Santapaola di fargli avere il Di Bella per eliminarlo. Su ordine dei capi, al Di Bella, alias <Mario u porcu>, venne teso il classico tranello: con la scusa di fargli vedere dei quadri rubati nascosti in campagna, venne condotto fuori Catania e lì strangolato. Dunque la storia di questo omicidio per vendetta è una storia vera: quel che invece è inventato è il movente e le ragioni sono state spiegate. Ma a disvelare i dettagli dell'omicidio Scifo non è solo il Trainito Liborio, perché il fenomeno del pentitismo ben presto provocherà una valanga, facendo saltare il fosso a parecchi gregari e uomini d'onore. Per come accennato prima, chi ha dato più di tutti la spallata alla mafia nissena è stato senza dubbio Leonardo Messina, se è vero che dalla sua collaborazione nacque la <Operazione Leopardo> che provocò oltre duecento arresti. <Narduzzu>, originario di San Cataldo, era uomo d'onore e persona fidatissima di Piddu Madonia. In un interrogatorio reso il 7 agosto del 1992 alla direzione centrale della polizia criminale raccontò le confidenza del Passaro in ordine alle sua responsabilità circa la scomparsa di Patrizia e il successivo omicidio del Mago. Liborio Trainito, La Perna Antonio e Leonardo Messina non sono che i primi collaboratori – in ordine di tempo – a cominciare a svelare i misteri di questa tragica storia. L'atto finale La sera del 17 giugno Patrizia lascia la bambina alla nonna dicendo che l'indomani deve alzarsi presto per andare dal medico. Subito dopo si incontra con Spatola al quale ovviamente gli riferisce che per quella sera la bambina non dormirà con loro. Lui fa il guardiano alla diga Disueri e qualche volta dorme pure là facendo il turno di notte. Si ritiene che in realtà si tratti di un'imposizione, come spesso accade da queste parti, per cui sembra più una tangente che una vera e propria attività di lavoro subordinato. Nei paraggi della diga vi sono delle costruzioni simili a delle baracche bene attrezzate e con dei letti per dormirvi e non è infrequente che – specie nel periodo estivo e primaverile – si banchetti all'esterno a base di grigliate di carne. Non era la prima volta che Spatola portava Patrizia in quei posti, ragion per cui non fu difficile convincerla ad andare <alla diga> o per cenare con amici o addirittura per pernottarvi. Quella sera Patrizia non dormì a casa e l'indomani mattina non comprò il panino di cui parla Spatola. Questo spiega la risposta piccata della titolare della salumeria che dice alla signora Lina: non so nulla e non mi venga più a cercare! Se veramente Patrizia fosse andata a comprare il panino, la risposta sarebbe stata diversa: è venuta, ha comprato il panino e se ne è andata. Evidentemente ha subodorato qualcosa...! Patrizia e Pino si recano quindi al Disueri, verosimilmente quando già fa buio, in modo da non essere notati. Quando arrivano sul posto è sera, la zona è inabitata e lui la conosce bene. Quel che accade nei dettagli è difficile immaginare, ma non ci vuole nulla a togliere la vita a quella ragazza: da solo o grazie a un complice. La zona è tutta un cantiere e ruspe di enormi dimensioni non ne mancano. A scavare una buca di qualche metro ci si impiega pochi minuti, a ricoprirla ancora meno. Nessuno potrà mai far caso a uno scavo recente o a una porzione di terreno da poco rimosso, vista la vastità del cantiere. Oppure è altrettanto facile buttare il corpo in uno scavo per poi ricoprirlo con una colata di cemento. Fatto il <lavoretto> Spatola se ne torna a Niscemi, magari la mattina successiva. A sostegno di questa ricostruzione vi sono diversi elementi che saranno da qui a poco analizzati. Quello di fare scomparire per sempre le persone seppellendone i corpi nelle campagne o comunque in luoghi poco frequentati per renderne difficile il ritrovamento, oppure di gettare il cadavere in un pilastro di edifici in costruzione, coprendolo con del calcestruzzo è un atroce metodo da sempre utilizzato dalla mafia. L'alternativa altrettanto terribile consiste nello scioglimento nell'acido. Prende il nome di <lupara bianca> ed ha la caratteristica di provocare ancora più dolore nei familiari che non avranno mai un posto dove piangere il congiunto. I pilastri delle autostrade siciliane <ospitano> tanti morti e fra questi forse anche il giornalista Mauro De Mauro, come hanno dichiarato diversi pentiti. Postfazione Trent'anni la condanna. E trenta, circa ne sono passati dalla sparizione e uccisione di Patrizia e dall'omicidio di Vittorio Scifo. Anche se nessuno ci darà più i nostri cari, noi a questo cammino estenuante, difficoltoso, testardo, ora finalmente ricompensato non avremmo mai rinunciato. La condanna di Passaro rafforza la nostra fiducia nella giustizia e rinnova un atto d'amore verso i nostri morti che non è mai venuto meno. Abbiamo chiesto insistentemente di avere un segnale che ci potesse indicare qual è stato il luogo di sepoltura della nostra Patrizia, ma inutilmente. Abbiamo atteso segnali di pentimento, ma invano. Abbiamo caparbiamente raccolto elementi, indizi, ricostruito circostanze e stanchi, esausti, a volte ignorati, mai arresi, abbiamo cercato dignità' e chiesto verità. Oggi tutto questo è stato ricompensato. Il nostro ringraziamento è doveroso a quanti in questi anni ci hanno espresso il loro conforto, al paese, ai collaboranti, alle forze dell'ordine e particolarmente alla stampa ed ai mezzi d'informazione che ripetutamente hanno dato voce ed ospitalità al nostro dolore. Grazie a tutti a nome dei nostri cari Patrizia e Vittorio Scifo. Erba Angela <Scifo> Monica Scifo Amalia Appello Oggi ci rimane una sola speranza, che è la più atroce: quella che ci diano il corpo o quello che è rimasto di questa donna, perché è giusto che abbia una degna sepoltura. Abbiamo fatto - superando la paura - diversi appelli a chi sa, ma ad oggi non abbiamo avuto nessuna risposta né da parte della mafia né da parte della giustizia. Siamo solo tre donne stanche di aspettare che non avranno pace sino a quando un <segnale> non ci indicherà dove potere recitare una preghiera e ricordare la sorella, la mamma, la figlia. Forse anche nel più tenebroso cuore c'è un posto per la pietà cristiana. Chi sa custodisce un tesoro che non ha prezzo e superando il più terribile dei paradossi potrà donare un po' di felicità a chi questa vita disgraziata le ha sottratto la sorella, la mamma e la figlia. Erba Angela <Scifo> Monica Scifo Amalia