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L`assassinio del Mago di Tobruk e la misteriosa

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L`assassinio del Mago di Tobruk e la misteriosa
Giuseppe D'Alessandro
L'assassinio del Mago di Tobruk e la misteriosa scomparsa della figlia
1.Prefazione
2.Introduzione
3. Il contesto criminale
3.1 La situazione in provincia di Caltanissetta
3.2 La malavita niscemese
3.3 La famiglia Scifo e il contesto criminale
4. Scifo Vito Vittorio alias Il Mago di Trobuk
4.1 Cenni biografici
4.2 Il fascino della bella vita e i guai giudiziari
4.3 La latitanza
4.4 La dolce vita a Roma
5. Patrizia e la sua morte misteriosa
5.1 La breve vita di Patrizia
5.2 La scomparsa
5.3 Le ricerche dei familiari
5.4 Le (mancate) ricerche delle autorità
5.5 Il cimitero di Patrizia: la diga Disueri
5.6 Venerdì 17 giugno: cosa è realmente accaduto?
5.7 L'atto finale
1
6. Giuseppe Spatola: un amore assassino
6.1 La cronologia dei morti ammazzati
6.2 Biografia di un seduttore...criminale
6.3 Il carnefice di Patrizia
6.4 La lettera anonima e l'organigramma mafioso
7. Storia criminale di un killer
7.1 Una <inarrestabile> carriera criminale
7.2 Dai furti agli omicidi
7.3 Un vero killer professionista
7.4 Fine di una carriera
8. Le vicende giudiziarie
8.1 L'omicidio del Mago
8.2 Le prime indagini
8.3 La conclusione della prima inchiesta
8.4 Arrivano i pentiti
8.5 Il contributo di Ciro Vara
8.6 La svolta
8.7 <Affucala>
8.8 Gli sviluppi del processo
2
Prefazione
La storia della nostra famiglia è quella che in paese tutti
conoscono. Io ne percepisco, ancora, le paure, i silenzi, il dolori negli
occhi lucidi ed i singhiozzi di mia nonna e comprenderò da grande
perché tanto “speciale” gli altri mi facevano sentire.
Fin da piccola, vivo e cresco con le uniche superstiti, mia nonna
materna Angela e mia zia Amalia, sorella di mia madre, che all'epoca dei
fatti aveva appena 16 anni.
Solo ora, alla mia età, mi rendo conto dell’amore che hanno
avuto per me e del coraggio che c’è voluto per andare avanti.
Della dignitosa compostezza e del rispetto nei miei confronti a
non sbattermi in prima pagina, proteggermi dalle contraddizioni e dai
ritardi istituzionali. L'album della mia vita, non ha foto di famiglia .
Quest'album è qui di fronte a me in questa mia stanza.
Quello che per altri è un diario di nascita, per me è un grosso
carpettone marrone fatto di ritagli di giornali e altri documenti, che non
riesce più a chiudersi perché contiene un'altra parte della mia storia che
qualcuno non vuole ascoltare.
Sono le recenti e innumerevoli istanze e documenti inoltrati alle
autorità competenti: Comune, Prefettura, Regione, Ministeri, Tribunali.
L’amore con cui tutti mi hanno avvolta era speciale. Perché figlia di una
mamma speciale, che si era fatta angelo. Ed anche mio nonno si era fatto
angelo.
Per questo da bambina mi sentivo protetta. Ogni bambino ha
degli eroi. Mia madre e mio nonno lo erano. Altri sono rimasti solo
assassini, e non posso chiamarli diversamente. Sensazioni, impressioni,
presagi, da piccola, cresciute con me, poi diventate, tristemente,
conferme.
A quella condizione, che mi faceva sentire speciale, avrei
rinunciato. E ad “angeli costretti” a proteggermi, avrei preferito ancora
gli abbracci di mia madre ed i suoi baci, le passeggiate col nonno, i suoi
occhi.
Non ci sono sogni nella mia infanzia, in cui festeggio la mamma.
Le sue braccia aperte a soccorrermi, Lei all’uscita da scuola.
Darò quelle braccia ai miei figli per te, o madre. E nessuna terra
sarà sufficiente a soffocarti, perché io respirerò per te, madre. Io parlerò
per te.
Ci sono domande nella mia vita che trovano difficoltà ad ottenere
risposte.
Non per i fatti che ci hanno visto per 30 anni testardi fiduciosi di
giustizia, ma per gli atteggiamenti di uno Stato “ostruzionista”, incapace
di vedere dove è la verità.
E' triste scoprire che lo Stato non si è mai chiesto se c'ero e di
cosa vivevo. Ora, mi chiedo se è possibile ottenere risposte alle nostre
ripetute istanze, senza doversi legare, per protesta, in una pubblica
piazza.
Mi chiedo questo ed altro, senza perdere mai, comunque, il senso
di dignità e di gratitudine per mia nonna e mia zia, e per quanti in paese,
non mi hanno mai fatto sentire il disagio di esserci, anche io.
Monica <Scifo>
Introduzione
Lunedì 24 aprile 1995: è il giorno dopo le elezioni regionali e i
risultati sono ancora incerti; la sinistra appare in difficoltà, ma secondo
gli ultimi exit-poll sembra in ripresa e i loro massimi vertici sperano alla
fine in un quasi pareggio.
Massimo D'Alema, allora presidente dei democratici di sinistra,
rivolgendosi ai giornalisti, azzarda una previsione: se finisce otto a sette
per loro dovete scrivere che D'Alema è il mago di Tobruk. Lunedì 31
dicembre 2007: Il Giornale intervista Massimo Bordin, direttore di
Radio radicale, in ordine alla tenuta del governo Prodi.
Questa la risposta: Non sono il mago di Tobruk, ma non è
scontato che il governo cada.
A distanza rispettivamente di dodici e ventiquattro anni dalla
scomparsa di Vittorio Scifo, il Mago di Tobruk, il suo nome d'arte è
ancora famoso, come si trattassi di un personaggio illustre!
Quando venne platealmente ucciso nella piazza principale di
Niscemi, il periodico ufficiale dei Maghi d'Italia (Cronache del 2000) gli
dedicò un numero speciale con la sua foto in copertina e a tutta pagina la
dicitura Un grande lutto per la magia italiana.
Ai funerali parteciparono i maggiori esponenti di questa categoria
e alcuni rimasero addirittura per tre giorni a Niscemi in compagnia dei
familiari.
Lasciava così questo mondo un personaggio discusso che fece
parlare di sé l'Italia intera e che riuscì ad attorniasi di celebrità nazionali
di primo piano, attratte da quegli occhi color acqua marina.
Ai suoi funerali non c'erano Charles Aznavour, né Little Tony, né
Claudia Mori, né Marcello Mastroianni, né Gina Lollobrigida, né
Claudia Cardinale, per citare solo alcuni dei VIP di cui si circondava nel
momento di massimo splendore; così come non c'erano molte persone al
seguito, ma tantissime ai bordi delle strade attraversate dal feretro come
da un lato a testimoniare la vicinanza alla famiglia e la umana pietà e
dell'altro a prenderne le distanze per quella cappa di omertà che rendeva
famosa Niscemi, pur inserita nel grave contesto criminale della Sicilia di
allora.
Ma la tragedia del Mago è solo l'epilogo di un'altra terribile
tragedia: la scomparsa -un mese prima -
della figlia appena
diciannovenne, che non verrà mai più ritrovata.
E se le cose non fossero abbastanza tragiche, sono gli attori di
questo dramma a renderle tali: il carnefice di quella giovane donna che si
affacciava alla vita è il padre di quella bambina che era venuta al mondo
qualche mese prima e che sino all'adolescenza non comprenderà (e non
poteva comprendere) perché non c'era suo nonno, perché non c'era sua
madre e perché non c'era suo padre.
Capirà poi che quel padre che le ha dato la vita le ha anche tolto
la mamma. E man mano che cresceva riusciva a colmare i vuoti della
storia, riempiendo le caselle mancanti, scoprendo verità sempre più
terribili e trovando il coraggio di riempirle tutte, anche quelle più
dolorose che i familiari pietosamente le nascondevano.
Ora è grande, è una donna <normale> e forse le scelte della sua
vita sono state determinate dal dramma che si porta dietro: si è laureata
in psicologia, quasi a volere scrutare nelle menti umane perché un amore
più trasformarsi in un omicidio ed ha sposato - quasi simbolicamente un poliziotto, come per manifestare a tutti da che parte sta.
Eppure lo Stato italiano, in nome del quale il killer Passaro
Giovanni è stato condannato a trent'anni e sempre in nome di questo
popolo ha <decretato> la morte presunta di sua madre, ritiene che non
possa considerarsi vittima di mafia perché figlia di un mafioso...
Incomprensibili paradossi della burocrazia e figli di uno Stato che per
tanti anni si è disinteressato in ordine a chi abbia commesso questi atroci
delitti, nonostante diversi collaboratori di giustizia si fossero detti pronti
a fornire informazioni. Di mia madre non ricordo l'odore, né lo sguardo,
il volto o le mani dirà Monica in un'intervista.
E se è vero, come è vero, che son tutte belle le mamme del
mondo, per lei sono solo le foto e i racconti dei familiari a farglielo
immaginare.
Ma cosa pensa Monica di <suo> padre dopo avere saputo tutto
quello che non avrebbe mai voluto sapere?
Non ha alcuna esitazione: parla di lui in terza persona, come se si
trattasse di uno sconosciuto o come se stesse scrivendo un rapporto di
polizia.
Giuseppe Spatola – afferma marcando la distanza – era un
personaggio spietato, in ascesa nella scala gerarchica della mala locale,
morto anche lui sotto i colpi d'arma da fuoco per un regolamento di
conti.
E coerente con sé stessa vuole cambiare cognome e chiamarsi
Scifo, come i <veri> genitori (nonna e zia) che l'hanno sempre
considerata una figlia, che ha colmato il vuoto lasciata dall'altra.
La figlia di un altro mafioso in un'intervista a Panorama dirà
invece di suo padre: da cosa dovrei dissociarmi? Dall’affetto e
dall’amore che papà mi ha dato da quando sono nata? E come potrei,
ancora, impedirmi di volergli bene? I ricordi che mi legano a lui sono
tutti di una tenerezza struggente.
La frase è di Maria Concetta Riina, figlia di Totò. Questa la storia
che vi raccontiamo in questo libro: fatta di omicidi e vendette, con tanti
protagonisti nel ruolo sia di carnefici che di vittime, in un contesto
criminale che solo le persone avanti negli anni ricordano.
Una storia che comunque esce fuori dal piccolo paese di
Niscemi perché si inserisce in un contesto ancora più vasto e con una
risonanza che ha varcato anche i confini dell'Italia.
E' come si trattasse di un romanzo criminale, ma con protagonisti
veri in carne e ossa, senza mai dimenticare il dolore e la tragedia che
hanno vissuto i familiari.
Che il tempo – sia pure galantuomo – non riuscirà mai a lenire.
E' a Loro e alla Verità che questo autore dedica il libro.
Brevi richiami storici
Inquadrare i fatti nel periodo storico in cui accadono costituisce
elemento imprescindibile per una loro migliore comprensione.
E' per questo che sarà raccontata – sia pure in estrema sintesi l'evoluzione della storia criminale di Niscemi, teatro in cui si svolsero i
fatti che stiamo raccontando, inserendola nel contesto geografico locale e
dell'intero comprensorio (la provincia di Caltanissetta anzitutto).
Niscemi è per popolazione il terzo paese della provincia, ha da
sempre presentato problemi di ordine delinquenziale, sia per fatti legati
alla criminalità organizzata, sia per delitti da essa svincolati, ma
particolarmente efferati.
La storia di Niscemi è costellata da episodi di inaudita violenza e
non ha nulla da invidiare – in questo triste primato – a tanti altri paesi
della Sicilia.
Già nel 1860 una banda si era costituita con a capo tale Salvatore
Di Benedetto, inteso <Parachiazza> e per diversi anni terrorizzò Niscemi
e i paesi vicini, spingendosi fino al Ragusano.
Fu proprio a Chiaramonte Gulfi che la banda - composta da una
trentina di persone - sequestrò il barone Francesco Saverio Melfi,
derubandolo di ogni cosa e ammazzandogli la figlia sotto i suoi occhi
dopo averla violentata. Nel 1861 il figlio di <Parachiazza>, a nome
Matteo Di Benedetto, uccise l'allora sindaco Salvatore Masaracchio per
avergli fatto lo <sgarro> di non averlo esonerato dal servizio militare.
Ci volle l'esercito e una sanguinosa battaglia per sterminare
quella banda che tanti lutti aveva provocato.
Un'ottantina di anni dopo, un'altra agguerrita banda si formerà
nella cittadina nissena, rendendosi colpevole di altrettanti efferati delitti.
Guidata da Rosario Avila detto <Canaluni>, avrà l'onore (si fa
per dire) di essere seconda soltanto a quella del più noto Salvatore
Giuliano di Montelepre.
Difatti la testa dell'Avila varrà mezzo milione di lire di allora,
mentre quella di <Turiddu> era stata quotata 800.000 lire. Come
Giuliano, anche Avila (che aveva giurato eterna lotta ai Carabinieri)
indosserà i panni del <separatista>, partecipando alla battaglia di monte
San Mauro nei pressi di Caltagirone conclusasi con la disfatta dell'EVIS
(Esercito Volontario per l'indipendenza della Sicilia).
La mattina del 10 Gennaio 1946 il brigadiere Vincenzo
Ammenduni, comandante della stazione di Feudo Nobile e quattro dei
suoi militari, usciti di pattuglia alla ricerca di alcuni ladri di bestiame, si
trovarono sulla strada della banda di Rizzo.
Ci fu uno scontro a fuoco, ma quando i cinque carabinieri
esaurirono le munizioni a loro disposizione furono costretti ad
arrendersi.
Poi fu la volta dei tre militari rimasti nella casermetta, costretti
anche loro alla resa dopo che i banditi assaltarono l’edificio a raffiche di
mitra e bombe a mano.
Gli otto carabinieri vennero quindi legati e costretti a seguire i
banditi nelle loro peregrinazioni nell’interno della Sicilia.
Salvatore Rizzo avviò una trattativa con lo Stato, e fu
sicuramente la mafia a fare da mediatrice.
Le proposte erano chiare: la liberazione di alcuni capi
indipendentisti e fra questi Concetto Gallo, arrestato il 29 dicembre del
1945, dopo la battaglia nei pressi di Caltagirone durata appena un'ora.
In alternativa Avila chiedeva l’amnistia per sé ed i suoi o
una comoda fuga all’estero.
La trattativa andò avanti per quasi tre settimane. Si parlò di
un’automobile che avrebbe dovuto prelevare gli otto militari e portarli
sul luogo dello scambio.
Ma la trattativa fallì e vennero massacrati il 28 gennaio 1946. Si
parlò allora di una sorta di trattativa Stato-Mafia ante litteram raccontata
da un sopravvissuto che riferì di un misterioso personaggio
elegantemente vestito che in
rappresentanza
dello Stato comunicò
ufficialmente ad Avila il fallimento della trattativa.
Molti componenti della banda vennero poi uccisi dalla mafia
perché detentori di segreti inconfessabili.
Quando il 25 maggio del 1946 i miseri resti vennero trovati nudi
in contrada Bubbonia, territorio di Mazzarino, il brigadiere Vincenzo
Amenduni, stringeva ancora fra le dita rattrappite la foto dei figli.
Il rinvenimento avvenne dopo la cattura a Catania del bandito
Milazzo il quale, a seguito di un interrogatorio, confessò di aver
partecipato all’eccidio e consentì il ritrovamento dei corpi.
Gli uccisi non erano i primi carabinieri a finire sotto il fuoco di
<Canaluni>: il 16 ottobre del 1945 aveva teso un agguato a una pattuglia
di militi in contrada Vituso, sempre in territorio di Niscemi, uccidendone
tre a colpi di mitra e bombe, mentre altri quattro erano scampati
miracolosamente.
Uno degli assassini riuscì a farla franca e a morire da uomo
libero, nonostante la condanna a due ergastoli per 35 rapine, 9 sequestri
di persona e 3 estorsioni, oltre agli omicidi.
Si chiamava Vincenzo Buccheri, ma per tutti era invece il
fratello <Rocco> del quale aveva assunto l'identità, riuscendo e gabbare i
carabinieri che per decenni gli avevano dato la caccia.
Solo il giorno dopo la morte la moglie di <Rocco> (che in realtà
era morto nel 1973) rivelò la vera identità: il tranquillo pensionato
deceduto in una clinica di Genova era stato un feroce bandito che tanto
sangue aveva seminato in Sicilia. Il 16 marzo del 1946 il corpo del
bandito Canaluni, privo di vita e con la testa spaccata in due venne
trovato a sei chilometri da Niscemi.
Qualcuno intascò la taglia, ma ancora oggi, a distanza di una
settantina di anni, solo in pochi mormorano sottovoce il nome di chi
(oramai morto da mezzo secolo) ebbe a riscuotere il lauto compenso.
Quello che abbiamo raccontato potrà apparire al lettore un'
inutile divagazione, ma ben presto si comprenderà come l'evolversi dei
fatti inerenti all'omicidio del Mago e alla scomparsa di sua figlia si
inseriscono in un contesto scellerato i cui embrioni sono stati seminati
nell'ambito criminale del secondo dopoguerra che ha visto nascere e
prosperare, col consenso tacito o espresso della politica, quella
particolare consorteria delinquenziale che prende il nome di <Cosa
Nostra>, dalla
quale scaturiranno episodi luttuosi come quelli oggetto di questo
libro.
E' oramai storicamente provato come lo sbarco degli Alleati sia
stato facilitato dall'aiuto di eminenti personaggi mafiosi isolani, oltre che
americani.
E quando la mafia dà una mano d'aiuto non lo fa certo per
disinteressata benevolenza o cristiana magnanimità. Il prezzo che è stato
pagato prende il nome di Don Calò Vizzini, di Vito Genovese, di
Giuseppe Genco Russo e di tanti altri soggetti i cui nomi ben presto
saranno ripresi da giornali e libri per descrivere quel complesso
fenomeno criminale, sociologico e politico che va sotto il nome di Mafia.
Vizzini Calogero, per tutti <don Calò>, inviato al confino durante il
Fascismo dal prefetto Mori, dopo lo sbarco degli Americani venne da
costoro nominato, il 18 luglio 1943 e cioè 18 giorni dopo lo sbarco,
nientemeno che sindaco di Villalba, paesino in provincia di Caltanissetta.
A consegne fatte da parte delle autorità militari, a don Calò e ai
suoi <collaboratori> vennero pure concessi i relativi porto d'armi.
Secondo fonti storiche, la gioia degli uomini di Vizzini si
concretizzò sparando in aria in tono di giubilo e gridando <viva la mafia,
via don Calò!> (A cavallo della tigre di M. Pantaleone, edito da
Flaccovio).
Non si sa quanto abbia influito su tale nomina l'avere un fratello
vescovo e a capo della diocesi di Noto.
Sarà ricordato come uno dei pochi capimafia spirati per vecchiaia
nel proprio letto, all'età di 77 anni.
Amava dire, riferendosi alla mafia e quindi a sé stesso: in ogni
società ci deve essere una categoria di persone che aggiustano le
situazioni quando si fanno complicate.
E lui apparteneva a quella categoria! Alla sua morte – avvenuta il
12 luglio del 1954 – il suo posto fu preso da Giuseppe Genco Russo,
conosciuto come "Zu Peppi Jencu", persona rozza, scaltra, semianalfabeta ma con eccellenti agganci politici.
Si diceva che fosse un uomo volgare, abituato a sputare a terra
noncurante delle persone presenti, ma stranamente ritratto in compagnia
di vescovi, banchieri e uomini politici.
Coabitava con un mulo e a casa non aveva i servizi igienici dirà
di lui con disprezzo il pentito Masino Buscetta.
Evidentemente queste credenziali non vennero ritenute da
ostacolo perché divenisse capo dell'Amministrazione comunale di
Mussomeli, paesone in provincia di Caltanissetta, del quale nel 1960
ricoprirà anche il ruolo di consigliere comunale fra le file della
Democrazia Cristiana.
Quando verrà processato chiamerà a testimoniare in suo favore
eminenti personalità politiche, appartenenti al clero, banchieri, medici,
avvocati e uomini d'affari.
Lo difese pure pubblicamente il sottosegretario onorevole
Calogero Volpe. Il passaggio di consegne Vizzini-Genco Russo avvenne,
come spesso accade in ambito mafioso, con rituali tipici dell'onorata
società: l'essersi posizionato a destra della bara di don Calò apparve più
esplicito di una solenne incoronazione! Anch'egli – come don Calò –
morirà di vecchiaia a casa sua all'età di 83 anni nel 1976.
A Vizzini e a don Calò verrà conferito – nel 1946 – il titolo di
Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia per «rimunerare le
benemerenze più segnalate, tanto degli italiani che degli stranieri, e
specialmente quelle che riguardano direttamente gli interessi della
Nazione» (regio decreto 20 febbraio 1868, n.4251).
Con la morte di Genco Russo finisce la mafia feudale e comincia
quella imprenditoriale.
Non più coppola storta, doppietta a tracolla, baffi e basettoni, non
più il contadino rozzo e semianalfabeta dalle mani callose e dal viso
solcato da profonde rughe: il boss mafioso diventa affarista,
imprenditore, industriale, con interessi nelle banche e nell'economia;
investe in borsa, veste alla moda, vive nel lusso, manda i figli nelle
migliori Università, viaggia a bordo di auto di lusso e possiede ville con
piscina.
Alle elezioni – siano esse politiche che amministrative - manovra
grossi pacchetti di voti, influisce sulle nomine e, come corrispettivo,
ottiene finanziamenti pubblici inaccessibili alla gente <normale>.
Il primo rappresentante in provincia di Caltanissetta di questo
nuovo modello criminale fu Francesco Madonia, originario di Vallelunga
Pratamento, minuscolo comune del Nisseno.
Ben presto strinse rapporti con i Corleonesi, ma trovò la strada
sbarrata dal boss di Riesi Giuseppe Di Cristina che lo fece fuori l'8 aprile
1978.
Sulla sua tomba è scritto l'eloquente e stringato epitaffio l' 8
aprile del 1978 all' età di settanta anni è venuto a mancare Francesco
Madonia: un uomo.
<Peppe> Di Cristina era a sua volta figlio di Francesco, altro
boss riesino, il cui scettro gli venne passato dal padre, di nome Giuseppe,
con un rituale che rimase negli annali della mafia: durante la Festa di San
Giuseppe, come consuetudine a dir poco discutibile, la processione si
fermava sotto il suo balcone in attesa che il capomafia facesse un cenno
per continuare.
Quando il Patriarca (inteso non come San Giuseppe) decise che
era il momento di abdicare, baciò ostentatamente il figlio, dopo di che
fece un cenno di proseguire.
Così tra un Paternostro e un'Avemaria tutti capirono da quel
momento chi era il principe ereditario.
I Corleonesi, con in testa Riina e Provenzano, non gliela fecero
passare franca e il 30 maggio del 1978 Di Cristina rese l'anima a Dio con
l'aiuto di un'arma da fuoco.
Al Madonia intanto successe il figlio di nome Giuseppe, ma da
tutti conosciuto come “Piddu”, impegnato in attività imprenditoriali di
movimento terra e nella commercializzazione di calcestruzzo.
I suoi interessi nel frattempo si spostarono da Vallelunga a Gela,
dove ben presto gli abitanti capirono quanta ricchezza aveva portato il
petrolchimico.
Solo a distanza di decenni capiranno di quante malattie e di
quanti decessi esso è stato responsabile.
Egli strinse ben presto amicizia con Ciro Vara del quale diventerà
compagno di delitti e dal quale riceverà gravissime accuse quando il
Vara diventerà collaboratore di giustizia.
Entrambi i personaggi avranno un ruolo nella vicenda del Mago e
della sparizione di sua figlia Patrizia e li incontreremo nei prossimi
capitoli.
Intanto Giuseppe <Piddu> Madonia appare a tutti un uomo di
rispetto, inteso non in senso mafioso: è imprenditore, si aggiudica
appalti, costituisce società, ottiene il passaporto e persino il porto d'armi.
La sua fedina penale non è proprio pulita, ma neanche
<mascariata>: un' ammenda per eccesso di velocità a 30 mila lire
inflittagli dal pretore di Lentini il 20 maggio del 1975.
Per il Madonia tuttavia la strada per diventare capo di Cosa
Nostra nissena è lunga a tortuosa. Una nuova entità delinquenziale si
affacciava all' orizzonte, spesso in contrapposizione con Cosa Nostra,
qualche volta alleata, altrettanto violenta, ma priva di quel radicamento
sul territorio tipico della mafia classica che - difatti - è sopravvissuta,
mentre la <Stidda> (è questa l'organizzazione di cui parliamo) è
pressoché scomparsa.
La partita in gioco è molto elevata: i soldi stanziati per la
realizzazione della diga Disueri, tra Gela e Mazzarino, non sono briciole;
si parla di 220 miliardi di lire: una cifra che giustifica anche una guerra.
E infatti guerra fu: solo a Gela in meno di due anni si contarono
110 morti ammazzati! Il suo <esercito> è alleato con potenti generali:
nella Sicilia orientale (Catania) vi sono le truppe del catanese Nitto
Santapaola, in quella occidentale (Palermo) quelle del corleonese Totò
Riina.
Perché stupirsi se – catturato dopo lunga latitanza – verrà
condannato all'ergastolo per la strage di Capaci ?
La malavita niscemese
In questo turbinio di eventi malavitosi, come si colloca la
malavita niscemese?
Costituiscono fonti storiche anzitutto le inchieste giudiziarie nate
dai rapporti dei Carabinieri (all'epoca il commissariato di polizia non era
ancora stato istituito e comincerà a funzionare nel 1990), seguono le
cronache dei giornali dell'epoca e infine i racconti dei cosiddetti
collaboratori di giustizia o <pentiti> che dir si voglia i quali, spinti
(anche o sopratutto) dal miraggio di concreti benefici penitenziari, non
hanno esitato a <tradire> il patto mafioso che contemplava anzitutto la
segretezza, contribuendo a disvelare fatti che sino ad allora erano rimasti
in incognito.
Un quadro tanto sintetico quanto completo dell'associazione
criminale niscemese ci proviene dalla relazione ispettiva di accesso
redatta dalla commissione prefettizia che porterà poi allo scioglimento
degli organi elettivi comunali.
Questo il quadro che dipinge: fino alla prima metà degli anni
ottanta, la locale consorteria criminale (il riferimento è a Niscemi –
n.d.a.) era costituita da personaggi legati alla vecchia concezione della
mafia agricola di <Cosa Nostra>: Arcerito Salvatore, ucciso nel 1984,
Spatola Bartolo e Paternò Angelo, questi ultimi troppo avanti negli anni
per potere svolgere un ruolo attivo all'interno della consorteria ma
tuttavia coinvolti in recenti vicende giudiziarie scaturite dalle
dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.
Lo Spatola Bartolo del quale la commissione fa cenno, altri non è
che il padre di Spatola Giuseppe, convivente prima e carnefice poi di
Scifo Patrizia.
Nel periodo in cui accadono i fatti oggetto di questo lavoro (tra il
1982 e il 1984), Niscemi è soffocata da una cappa delinquenziale
opprimente: i vecchi padrini legati alla mafia rurale non intendono
cedere lo scettro ai giovani, che a loro volta sono restii a sottostare agli
ordini dei <vecchi>.
La politica è inquinata non già dalla piccola criminalità, ma da
Cosa Nostra, sia a livello nazionale che locale. Dirà Leonardo Messina:
quando un politico arrivava in un paese c'erano tre carabinieri e venti
uomini d'onore che guardavano quel politico che interessava a Cosa
nostra.
La Chiesa fa la sua parte, nel senso che appare tollerante se non
contigua con la consorteria mafiosa, finanche distribuendo nelle sacrestie
i <santini>, intesi non come rappresentazioni agiografiche, ma fac-simili
elettorali proprio di soggetti conniventi con la mafia e candidati alle
elezioni.
D'altronde è risaputo che le autorità in un paese erano quattro: il
sindaco, il maresciallo, il parroco e il...mafioso.
In questo clima, il 30 aprile 1983, accade a Niscemi uno dei tanti
episodi di sangue catalogati come <guerra di mafia>, ma che costituisce
una sorta di guerra di successione tra i padrini di una volta, organici a un
sistema criminale capillare e infiltrato in tutte le articolazioni statali (si
dirà: uno Stato nello Stato) e i giovani ribelli che non tollerano più
l'autorità imposta e vogliono gestire in prima persona il <business>
(termine questo che i vecchi patriarchi neanche conoscono).
All'angolo tra le vie Popolo e Bandiera, appena fatto buio, viene
freddato da due killer Salvatore Arcerito, ufficialmente commerciante di
bestiame, ma padrino unanimemente riconosciuto.
L'auto dei killer verrà trovata in contrada Serbatoio con
all'interno una Colt cal. 38 e un revolver cal. 44, due paia di guanti e
alcuni litri di benzina.
I componenti hanno avuto solo il tempo di scappare all'alt dei
Carabinieri che si trovavano appostati. Accanto all'auto usata (una Mini
Minor) un'altra auto <pulita>: si tratta di una Fiat 500 appartenente a un
grosso personaggio malavitoso – Giuseppe Vacirca – che si dà subito alla
macchia e trascorrerà buona parte della latitanza pernottando dentro al
cimitero o andando in giro per il paese vestito da donna.
E' il segno che sono saltate tutte le regole; nessuno è più al
sicuro, inizia una sanguinosa faida che farà tante vittime: dal presunto
autore dell'omicidio Arcerito, Pepé Vacirca, al figlio dello stesso
Arcerito, Antonio.
In questo clima di terrore, un paio di mesi dopo scomparirà
Patrizia e trenta giorni dopo il Mago sarà ucciso.
Scifo Vito Vittorio alias Il Mago di Trobuk
Vittorio Scifo non era uno stinco di santo! Anzi a leggere in
maniera superficiale il suo certificato penale, si direbbe che era proprio
un delinquente.
Ma se dallo sfoglio sommario si passa ad un'attenta analisi dei
reati per i quali è stato condannato, ci si fa un'idea certamente diversa:
espatrio clandestino, esercizio abusivo di professione, molestia alle
persone, inosservanza di provvedimenti di autorità, violazione del foglio
di via obbligatorio e poi una caterva di emissione di assegni a vuoto.
Accanto a tutto questo, un paio di condanne per truffa, che per
uno che fa il mago sono ben poca cosa e costituiscono una sorta di
conseguenza quasi naturale per chi vende illusioni.
Anche la misura di prevenzione della sorveglianza speciale (che
normalmente colpisce i mafiosi) è esclusivamente legata all'attività di
chiromante e alla sua vita disordinata e comunque fuori dal comune.
In ogni caso si tratta di fatti illeciti niente affatto connessi a
consorterie mafiose, non fu mai incolpato di gravi reati, quali estorsione
o simili.
E soprattutto è da escludere che la sua morte sia da mettere in
relazione ai reati addebitatigli.
Ma ciononostante nessuno può dire che fosse uno stinco di santo.
Il Questore di Caltanissetta, nella proposta di applicazione della misura
di prevenzione, parla di lui come di uno scapestrato che ama vivere alla
giornata in maniera disordinata, che non si dà a stabile lavoro, ma
preferisce girovagare per l'Italia, tanto da essere più volte rimpatriato,
che ama frequentare ambienti immorali, alloggiando in alberghi di lusso
e ostentando un tenore di vita al di sopra delle sue possibilità, esaltando
le sue virtù miracolistiche di guaritore, viaggiando a bordo di una
costosissima Jaguar e via dicendo.
Vengono tratte le conclusioni che si tratta di un uomo pericoloso
per l'ordine pubblico e perciò meritevole di essere spedito in qualche
comune del nord e sottoposto a rigidi controlli da parte delle forze di
polizia.
Ma quest'uomo così malvisto dalle forze dell'ordine, cosa ci fa
ritratto con Charles Aznavour, Little Tony, i Nomadi, i Dik Dik, Claudia
Mori, Marcello Mastroianni, Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale e tanti
altri divi dello spettacolo?
Cosa spinse i quotidiani dell' epoca a parlare di lui con cadenza
quasi settimanale? E perché mai la fama di quest'uomo così tanto
vituperato oltrepassò i confini dell'Italia, al punto che il primo quotidiano
di Parigi - Le Parisien - gli dedicò nel 1968 un'intera pagina dal titolo <
Il papa dei maghi prevede per il 1969 il divorzio di Jacqueline Kennedy
con Onassis, un figlio per la regina Fabiola del Belgio e un attentato a De
Gaulle>?
La vita del Mago di Tobruk è tutta contornata da contraddizioni e
colpi di scena, dalle sue capacità di attirare l'attenzione dei mezzi di
comunicazione e di apparire alle persone come dotato di un fluido
magnetico capace di attrarle.
Non riuscì neanche a prendere il diploma della scuola
elementare, ma amava leggere e anche scrivere.
E scriveva molto bene: a Niscemi c'è la mia villa. Là sorridenti
mi vengono incontro Patrizia e Amalia, le mie due bambine. Mi saltano
al collo festose, camminando al mio fianco e ponendo le loro piccole
mani sulle mie. l suono delle loro voci fresche e gioiose mi si ripercuote
dentro l'anima amplificandola. E provo la vera gioa di vivere, di sentirmi
vivo per loro, che sono la ragione del mio avvenire. Mi diverte Patrizia,
mi affascina Amalia. Anche se quando scrive queste poetiche parole non
immagina quale terribile destino sconvolgerà la sua vita e quella della
sua famiglia. All'apice della sua carriera guadagnava soldi a palate,
eppure sua moglie era costretta a gestire un bar per sopravvivere. Su
questo modus vivendi la previsione che egli fa di sé stesso è realistica.
Quando non aveva ancora compiuto i trent'anni ebbe a scrivere di sé:
Tra i tanti pregi e benefici che comporta questo mio segno zodiacale
(Acquario) per reggere l'equilibrio che è sovrano in tutte le cose, risalta
un grosso difetto di ordine pratico. Gli acquariani, per quanto capaci
conquistatori di fortune, altrettanto e in breve tempo disperdono ciò che
hanno accumulato.
A volte era lui che tentava di avvicinare i grandi personaggi dello
spettacolo, ma più spesso erano loro a cercarlo e farselo amico o magari
interpellarlo solo per un consulto. Se non addirittura per farsi pubblicità
gratuita.
Ma chi era quest'uomo e perché divenne tanto famoso in Italia?
La cronologia dei morti ammazzati
Intanto i giornalisti tentano di stilare la triste cronologia dei morti
ammazzati a Niscemi negli ultimi diciotto mesi: un tragico rosario che si
apre con i fratelli Tinnirello (aprile-maggio 1982), cugini di quel Passaro
che si scoprirà essere l'assassino di Scifo, prosegue con Fidone Calogero
e quindi è la volta del <patriarca> Arcerito Salvatore (30 aprile 83).
Poi cade il Mago e quindi Vincenzo Vacirca a tre o quattro metri
dall'ormai tristemente famoso bar La Bussola.
E siamo nel
novembre dell'83. L'anno nuovo si apre con
l'eliminazione di Francesco Vicari che per un tragica fatalità del destino
viaggiava a bordo di un'auto condotta proprio dal nuovo titolare del Bar
La Bussola, mentre il 30 agosto del 1984 è la volta di Vincenzo Spinello.
E siamo arrivati all'omicidio Spatola. Ma egli non sarà l'ultimo,
parecchi altri ne seguiranno: il duplice omicidio Russo-Puzzo di cui
abbiamo parlato (24 novembre 1984) e poi arriverà il turno del fornaio
Alfonso Spinello, freddato fra i tavoli di una pizzeria e subito dopo di
Totò Crocetta, macellaio venticinquenne.
Anche questo fatto di sangue è avvenuto nell'ormai consueto
<teatro> dove va in scena la spettacolarizzazione della morte: in un bar
affollatissimo di gente posto all'inizio di quella via Umberto che conduce
alla famosa piazza Vittorio Emanuele.
Con un'inquietante e mai verificata ipotesi: la vittima
predestinata forse era il fratello di Totò a nome Gaetano.
E assieme a loro una caterva di feriti innocenti. Interrompiamo il
tragico conto
con quest'ultimo fatto di sangue commesso alla fine di agosto
1985 e torniamo all'omicidio Spatola.
I Carabinieri ebbero subito la sensazione che questo ennesimo
fatto di sangue avrebbe scatenato una guerra fra bande.
Riuscirono a individuare chi stava con lui al momento in cui
sopraggiunsero i killer.
Si trattava di Di Modica Luigi, ventiquattrenne del luogo, che
dopo l'omicidio si eclissò.
Gli inquirenti sospettarono fortemente che egli avesse attirato
nella trappola la vittima: secondo la ricostruzione testimoniale, il Di
Modica indossava stranamente un'appariscente tuta da ginnastica (bianca
e azzurra) e delle scarpe da tennis, indumenti alquanti insoliti per una
passeggiata in pieno centro alle sette di sera e che tale abbigliamento
aveva lo scopo di segnalare ai killer l'obiettivo.
Fra l'altro apparve subito evidente come a eseguire materialmente
il delitto fosse stato un commando composto da persone sconosciute a
Niscemi e probabilmente anche nei paesi limitrofi, considerando che la
vittima era molto bene inserita negli ambienti criminali, per cui si
rischiava che qualcuno potesse tradire e avvertire il destinatario.
La fuga da Niscemi del Di Modica non fece che aggravare i
sospetti.
Intanto quella sera accadde un giallo che vale la pena raccontare.
In caserma si trova una signora che alle 19,30 aveva visto un
uomo dall'accento niscemese all'interno di un Fiat 500 celeste che
gridava a un altro giovane con la pistola in pugno di sbrigarsi.
Mentre gli inquirenti sono intenti a far ripetere la dichiarazione
nella speranza di ottenere maggiori dettagli, una signore anziano – tale
Barone Antonino - suona il campanello e dice al piantone di avere
notato, in prossimità della concimaia comunale sita a un paio di
chilometri dal centro abitato, una Fiat 128 con i fari spenti e con
all'interno delle persone che se ne stavano con gli sportelli aperti;
temendo trattarsi dell'ennesimo tentativo di furto in suo danno era venuto
ad avvertire i militari.
L'omicidio del Mago
L'ondata di caldo che colpì la Sicilia nel luglio del 1983 fu
veramente eccezionale.
Molti Niscemesi si godevano la frescura della campagna e chi
poteva si spostava nelle località balneari della costa gelese o del
Ragusano.
Lo scendere della sera poi mitigava la calura e perciò in molti
uscivano per recarsi nella piazza principale di Niscemi dedicata a
Vittorio Emanuele II°, ma chissà per quale recondito motivo la tabella
reca la dicitura “terzo”.
Soprannominata <il salotto di Niscemi>, ha dimensioni
ragguardevoli, con due chiese che quasi si fronteggiano nel lato corto del
rettangolo (la Chiesa Madre e quella dell'Addolorata) mentre il lato
lungo è chiuso dal palazzo del municipio e da un obbrobrioso edificio in
cemento armato, privo di intonaco e con pezzi sporgenti di ferro
arrugginito che conferiscono uno squallore desolante.
Un tempo molto lontano la piazza era divisa in due: metà veniva
usata dai <viddani>, cioè i contadini che dedicavano la loro vita ai campi
in cambio di un tozzo di pane per la famiglia, l'altra metà godeva del
privilegio di essere calpestata dai <civili>.
Le due porzioni erano fisicamente distinte e i civili mal
tolleravano invasioni di campo.
Oggi, ma anche all'epoca dei fatti narrati, non è più così: ognuno
passeggia dove vuole e le distanze economiche e sociali si sono
notevolmente ridotte.
Come ogni piazza che si rispetti, i bar la fanno da padrone, primo
fra tutti il Bar La Bussola, storico luogo d'incontro di giovani e meno
giovani, gestito per molti anni proprio dalla famiglia Scifo e all'epoca dei
fatti ceduto a terzi.
Il Bar sorge difronte la Basilica dell'Addolorata, splendida
costruzione barocca di metà Settecento, in un palazzo in passato
appartenuto a una delle più nobili
famiglie niscemesi – i Masaracchio – che si dice fossero
discendenti di quel Giorgio Castriota Scanderbeg, vissuto nel 1400 e
ritenuto l'eroe nazionale albanese.
Il 18 luglio del 1983 una decina di persone intenta a
chiacchierare sta seduta davanti all'ingresso del bar, mentre altre cinque
o sei sostano in piedi ammazzando il tempo con discorsi più o meno
futili.
Si parla del caso Tortora, il noto presentatore televisivo arrestato
assieme ad altri 855 camorristi di Raffaele Cutolo qualche settimana
prima (verrà assolto dopo tre anni e una penosa detenzione) e della
misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi avvenuta una ventina di
giorni prima e mai più ritrovata.
Proprio quel giorno i quotidiani pubblicano il terzo appello del
papa perché venga liberata la ragazza, mentre gli ignoti rapitori fanno
recapitare una cassetta registrata con la voce della rapita.
Fra coloro che sono seduti ce n'è uno a cui la scomparsa di
Emanuela fa più impressione degli altri perché sua figlia, quasi coetanea
della figlia del dipendente vaticano, è pure scomparsa da quasi un mese,
esattamente lo stesso giorno del blitz contro Tortora e teme il peggio.
Proprio nel primo pomeriggio di quel 18 luglio si era recato a
Vittoria nell'ennesimo tentativo di trovare se non la figlia quantomeno
notizie utili, ma anche questo viaggio si era concluso con un nulla di
fatto.
Ansie,
speranze
perdute,
timori,
angosce,
apprensioni,
inquietudini: erano questi i sentimenti che pervadevano la mente del
Mago di Tobruk.
Arrivano i pentiti
Il 31 luglio 1987 in un'aula della corte di appello di Aix-enProvence (Francia) viene sentito in rogatoria davanti al giudice istruttore
di Marsiglia Debacq Michel, Antonino Calderone, uno dei più importanti
collaboratori di giustizia catanesi dalle cui propalazioni scaturirono
duecento arresti tra capimafia e gregari.
Nel
tentativo di elogiare il magistrato palermitano Giovanni Falcone, il
pentito
dirà di lui: ho collaborato con Falcone perché è uomo d'onore.
Com'è ovvio a volte le parole assumono sfumature notevolmente
diverse...Questa frase la riporta lo stesso magistrato ucciso poi a Capaci
nel suo libro Cose di Cosa Nostra, edito da Rizzoli.
Ed era tanto il rispetto che il Calderone portava a Falcone che
quando scappò dall'Italia perché braccato volle salutare il giudice
palermitano con queste parole: Signor giudice, non ho avuto il tempo di
dirle addio. Desidero farlo ora. Spero che continuerà la sua lotta contro
la mafia con lo spirito di sempre. Ho cercato di darle il mio modesto
contributo, senza riserve e senza menzogne. Una volta ancora sono
costretto a emigrare e non credo di tornare mai più in Italia. Penso di
avere il diritto di rifarmi una vita e in Italia non è possibile. Con la
massima stima, Antonino Calderone.
La caratura del personaggio è notevolissima, tant'è che lo stesso
Giovanni Falcone, accompagnato da magistrati che faranno la storia
dell'antimafia (Gioacchino Natoli e Giusto Sciacchitano) assisterà
all'interrogatorio di Calderone alla presenza di Antonio Manganelli che il
25 giugno 2007 diventerà capo della polizia.
Cosa disse il Calderone al giudice Falcone di tanto interessante in
riferimento ai fatti che stiamo narrando?
Intanto svelò le generalità di uno dei due attentatori di Spatola
indicato col poco elegante epiteto di Porco, rivelando trattarsi di un
catanese di nome Mario Di Bella.
Poi riferì che di seguito a una sanguinosa rapina nel quartiere Zia
Lisa di Catania alcuni rapinatori erano rimasti feriti e il Di Bella aveva
contattato un uomo d'onore di Niscemi (che la polizia individuò in
Rosario Rizzo) per dare assistenza e alloggio ai latitanti.
Quando il Di Bella accompagnò a Niscemi coloro che dovevano
trovarvi rifugio, ottenne un inspiegabile rifiuto.
Ne nacque una vivace discussione, seguita da un chiarimento a
colpi di pistola che attinsero lo Spatola .
Il fatto provocò le ire di Giuseppe Madonia il quale - da
rappresentante della provincia di Caltanissetta – pretese dal suo
<omologo> catanese Nitto Santapaola di fargli avere il Di Bella per
eliminarlo.
Su ordine dei capi, al Di Bella, alias <Mario u porcu>, venne teso
il classico tranello: con la scusa di fargli vedere dei quadri rubati nascosti
in campagna, venne condotto fuori Catania e lì strangolato.
Dunque la storia di questo omicidio per vendetta è una storia
vera: quel che invece è inventato è il movente e le ragioni sono state
spiegate.
Ma a disvelare i dettagli dell'omicidio Scifo non è solo il Trainito
Liborio, perché il fenomeno del pentitismo ben presto provocherà una
valanga, facendo saltare il fosso a parecchi gregari e uomini d'onore. Per
come accennato prima, chi ha dato più di tutti la spallata alla mafia
nissena è stato senza dubbio Leonardo Messina, se è vero che dalla sua
collaborazione nacque la <Operazione Leopardo> che provocò oltre
duecento arresti.
<Narduzzu>, originario di San Cataldo, era uomo d'onore e
persona fidatissima di Piddu Madonia.
In un interrogatorio reso il 7 agosto del 1992 alla direzione
centrale della polizia criminale raccontò le confidenza del Passaro in
ordine alle sua responsabilità circa la scomparsa di Patrizia e il
successivo omicidio del Mago.
Liborio Trainito, La Perna Antonio e Leonardo Messina non sono
che i primi collaboratori – in ordine di tempo – a cominciare a svelare i
misteri di questa tragica storia.
L'atto finale
La sera del 17 giugno Patrizia lascia la bambina alla nonna
dicendo che l'indomani deve alzarsi presto per andare dal medico.
Subito dopo si incontra con Spatola al quale ovviamente gli
riferisce che per quella sera la bambina non dormirà con loro.
Lui fa il guardiano alla diga Disueri e qualche volta dorme pure
là facendo il turno di notte. Si ritiene che in realtà si tratti di
un'imposizione, come spesso accade da queste parti, per cui sembra più
una tangente che una vera e propria attività di lavoro subordinato.
Nei paraggi della diga vi sono delle costruzioni simili a delle
baracche bene attrezzate e con dei letti per dormirvi e non è infrequente
che – specie nel periodo estivo e primaverile – si banchetti all'esterno a
base di grigliate di carne.
Non era la prima volta che Spatola portava Patrizia in quei posti,
ragion per cui non fu difficile convincerla ad andare <alla diga> o per
cenare con amici o addirittura per pernottarvi.
Quella sera Patrizia non dormì a casa e l'indomani mattina non
comprò il panino di cui parla Spatola.
Questo spiega la risposta piccata della titolare della salumeria che
dice alla signora Lina: non so nulla e non mi venga più a cercare!
Se veramente Patrizia fosse andata a comprare il panino, la
risposta sarebbe stata diversa: è venuta, ha comprato il panino e se ne è
andata.
Evidentemente ha subodorato qualcosa...! Patrizia e Pino si
recano quindi al Disueri, verosimilmente quando già fa buio, in modo da
non essere notati.
Quando arrivano sul posto è sera, la zona è inabitata e lui la
conosce bene. Quel che accade nei dettagli è difficile immaginare, ma
non ci vuole nulla a togliere la vita a quella ragazza: da solo o grazie a
un complice.
La zona è tutta un cantiere e ruspe di enormi dimensioni non ne
mancano.
A scavare una buca di qualche metro ci si impiega pochi minuti,
a ricoprirla ancora meno.
Nessuno potrà mai far caso a uno scavo recente o a una porzione
di terreno da poco rimosso, vista la vastità del cantiere.
Oppure è altrettanto facile buttare il corpo in uno scavo per poi
ricoprirlo con una colata di cemento.
Fatto il <lavoretto> Spatola se ne torna a Niscemi, magari la
mattina successiva.
A sostegno di questa ricostruzione vi sono diversi elementi che
saranno da qui a poco analizzati.
Quello di fare scomparire per sempre le persone seppellendone i
corpi nelle campagne o comunque in luoghi poco frequentati per
renderne difficile il ritrovamento, oppure di gettare il cadavere in un
pilastro di edifici in costruzione, coprendolo con del calcestruzzo è un
atroce metodo da sempre utilizzato dalla mafia. L'alternativa altrettanto
terribile consiste nello scioglimento nell'acido.
Prende il nome di <lupara bianca> ed ha la caratteristica di
provocare ancora più dolore nei familiari che non avranno mai un posto
dove piangere il congiunto.
I pilastri delle autostrade siciliane <ospitano> tanti morti e fra
questi forse anche il giornalista Mauro De Mauro, come hanno dichiarato
diversi pentiti.
Postfazione
Trent'anni la condanna. E trenta, circa ne sono passati dalla
sparizione e uccisione di Patrizia e dall'omicidio di Vittorio Scifo.
Anche se nessuno ci darà più i nostri cari, noi a questo cammino
estenuante, difficoltoso, testardo, ora finalmente ricompensato non
avremmo mai rinunciato.
La condanna di Passaro rafforza la nostra fiducia nella giustizia e
rinnova un atto d'amore verso i nostri morti che non è mai venuto meno.
Abbiamo chiesto insistentemente di avere un segnale che ci
potesse indicare qual è stato il luogo di sepoltura della nostra Patrizia,
ma inutilmente.
Abbiamo atteso segnali di pentimento, ma invano. Abbiamo
caparbiamente raccolto elementi, indizi, ricostruito circostanze e stanchi,
esausti, a volte ignorati, mai arresi, abbiamo cercato dignità' e chiesto
verità.
Oggi tutto questo è stato ricompensato. Il nostro ringraziamento è
doveroso a quanti in questi anni ci hanno espresso il loro conforto, al
paese, ai collaboranti, alle forze dell'ordine e particolarmente alla stampa
ed ai mezzi d'informazione che ripetutamente hanno dato voce ed
ospitalità al nostro dolore.
Grazie a tutti a nome dei nostri cari Patrizia e Vittorio Scifo.
Erba Angela
<Scifo> Monica
Scifo Amalia
Appello
Oggi ci rimane una sola speranza, che è la più atroce: quella che
ci diano il corpo o quello che è rimasto di questa donna, perché è giusto
che abbia una degna sepoltura.
Abbiamo fatto - superando la paura - diversi appelli a chi sa, ma
ad oggi non abbiamo avuto nessuna risposta né da parte della mafia né
da parte della giustizia.
Siamo solo tre donne stanche di aspettare che non avranno pace
sino a quando un <segnale> non ci indicherà dove potere recitare una
preghiera e ricordare la sorella, la mamma, la figlia.
Forse anche nel più tenebroso cuore c'è un posto per la pietà
cristiana. Chi sa custodisce un tesoro che non ha prezzo e superando il
più terribile dei paradossi potrà donare un po' di felicità a chi questa vita
disgraziata le ha sottratto la sorella, la mamma e la figlia.
Erba Angela
<Scifo> Monica
Scifo Amalia
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