Cosmologie violente - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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Cosmologie violente - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
UNIVERSI DELLA VIOLENZA A cura di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali © Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - 2012 ISBN 978-88-6835-000-0 Presentazione Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali Fin dalla comparsa delle forme più elementari di cultura l’uomo ha provato, sia a livello individuale sia collettivo, a rimuovere ogni forma di comprensione dell’aggressività distruttiva, relegandola a una dimensione estranea da sé. L’azione atroce e cruenta, infatti, svela ciò che dovrebbe rimanere sempre nascosto: il dominio violento dell’uomo su altri uomini. È anche per questa ragione di fondo che il tema della violenza, da sempre oggetto dell’attenzione di studiosi provenienti dalle più svariate discipline, rimane ancora oggi un vero e proprio enigma conoscitivo. In campo criminologico – ma non solo – gli approcci teorici e i metodi impiegati al fine di avvicinare e sondare il fenomeno della violenza sono stati – e continuano a essere – indubbiamente i più vari, ma è possibile affermare che spesso si è registrato un profondo limite osservativo. Infatti, tradizionalmente, l’inquadramento dell’agire violento si è ridotto a modelli esplicativi che individuano nella “malattia mentale” o, altre volte, nell’“ambiente sociale” la causa del gesto deviante. Purtroppo, però, questo genere di spiegazioni non aiuta ad avanzare nella comprensione delle dinamiche che animano tali condotte, di fronte alle quali ci ritraiamo, spesso incapaci di pronunciare parole capaci di conferire senso a ciò che appare come del tutto insensato e inspiegabile. È a partire da queste riflessioni e interrogativi che chi scrive ha ritenuto utile proporre ad alcuni noti e apprezzati studiosi – quali Alessandro Dal Lago, Gabrio Forti, Eligio Resta, Alfredo Verde – l’occasione di confrontarsi con noi sul tema della violenza, incontrandolo 5 attraverso la lettura del nostro volume Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali. Ciascuno, a partire dall’ambito del proprio universo disciplinare e conoscitivo – da qui il titolo di questo e-book, Universi della violenza –, ha contribuito a costruire un percorso cognitivo capace di sondare e illuminare quegli aspetti del fenomeno violento che fino a oggi sono rimasti ancora poco esplorati. Consapevoli che strumenti metodologici capaci di navigare in questa immensità sono certamente ancora molto da costruire, e che nessuna prospettiva teorica potrà mai porre la parola definitiva, riteniamo che un incontro come quello che abbiamo realizzato presso la Fondazione Feltrinelli il 15 aprile 2010 possa fornire utili mappe concettuali per accostare un tema ineludibile come quello della violenza. Vorremmo, pertanto, ringraziare di cuore Inge e Carlo Feltrinelli per aver reso possibile e aver sostenuto la realizzazione di questo incontro seminariale e dell’e-book che ne contiene gli atti. Un ringraziamento speciale a Chiara Daniele, per la disponibilità e la serietà con cui ha pensato e organizzato insieme a noi questa iniziativa. Grazie infine a Luisa Cortese, che ha curato la raccolta e la pubblicazione di questi scritti. Milano, giugno 2012 6 Verso le “cosmologie violente” Per una guida alla lettura degli atti violenti Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali 1. Una premessa Il tema della violenza, da sempre oggetto dell’attenzione di studiosi provenienti dalle più svariate discipline, rimane – anche nel campo delle scienze sociali – avvolto da un’aura di “incomprensibilità” che ostacola il riconoscimento e la comprensione delle dimensioni di senso alle quali accede l’attore sociale quando prepara, interpreta, decide e, infine, esegue un atto atroce. Ciò non stupisce. Difatti, è proprio quando il crimine si fa più efferato e la violenza più eclatante che la questione del “senso” che l’agire violento può avere per gli individui – siano essi attori, vittime o semplici spettatori – si fa particolarmente ardua, tale da richiedere il massimo impegno interpretativo. Per provare a rispondere a questa sfida, riteniamo utile introdurre alcuni aspetti dell’approccio teorico elaborato dal criminologo statunitense Lonnie Athens e da noi stessi in Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali,1 da intendersi come bussole per orientarsi nelle dinamiche degli atti atroci più efferati. 1 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. 7 2. Oltre la psicopatologia e il determinismo sociale La finalità di questa proposta teorica – che si colloca nel solco di quella tradizione filosofica nota con il nome di “interazionismo simbolico”2 – è quella di provare a c omprendere, appunto, quei processi che animano le “esperienze sociali violente”, al di là di una rigida distinzione fra normalità e psicopatologia, e tra individuo e società. Già verso la metà del secolo scorso Tamotsu Shibutani, uno dei più autorevoli interpreti della tradizione interazionista, svolgeva le seguenti riflessioni sul rapporto tra crimine efferato e malattia mentale: “[…] c’è un considerevole disaccordo tra gli psichiatri in riferimento a ciò che dovrebbe designare l’etichetta ‘psicopatico’. Ad ogni modo il termine viene usato sempre più per riferirsi a criminali depravati a cui sembra mancare una ‘coscienza’. Essi sarebbero in grado di commettere crimini brutali dai quali la maggior parte degli altri criminali si asterrebbero”. 3 In effetti, nonostante siano stati compiuti molti passi avanti nella conoscenza del rapporto tra comportamento violento “normale” e comportamento violento “psicopatico”, ancora oggi la sovrapposizione e la con-fusione di questi due fenomeni e delle relative categorie comporta – troppo spesso – una disinvolta “riduzione” della complessità dell’agire violento alla sola sfera psicopatologica. L’intero studio di Athens – e il nostro – cerca, invece, di comprendere l’attore violento incontrandolo a latere delle dimensioni psicopatologiche, evitando anche di cadere in quell’altrettanto imprudente semplificazione che vede l’essere umano, la sua “coscienza” e le sue azioni come il prodotto deterministico dell’ambiente in cui vive – e, nello specifico, l’atto violento quale prodotto necessario di un mondo sociale violento. Amartya Sen, in Identità e violenza, usa l’efficace espressione “miniaturizzazione dell’essere umano”4 per indicare quell’operazione di “riduzione” dell’uomo a un “microcosmo”, mero specchio del 2 L’interazionismo simbolico nasce, come è noto, sull’onda lunga delle lezioni tenute negli anni venti del secolo scorso da George Herbert Mead presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Chicago, e affonda le proprie radici addirittura nei primi anni di quel secolo. 3 Tamotsu Shibutani, Society and Personality. An Interactionist Approach to Social Psychology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1961, p. 317. 4 Amartya Sen, Identity and Violence, Norton & Co., New York-London 2006; tr. it. Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 188. 8 mondo sociale in cui vive. Anche in riferimento al rapporto tra individuo e ambiente “esterno” sono incisive le parole di Shibutani: “[…] normalmente pensiamo all’ambiente come qualcosa che si trova ‘là fuori’ e c he viene in urto con noi […] ma ciò che noi sperimentiamo non è una ‘copia carbone’ di ciò che effettivamente costituisce l’ambiente circostante. Quest’ultimo è qualcosa che viene costruito nella successione di interscambi che costituisce il processo della vita. […]. Gli uomini non sono creature passive alla mercé degli stimoli esterni; in gran parte essi creano il mondo nel quale vivono e agiscono”. 5 Sono queste alcune delle coordinate significative da cui prendere le mosse per muoversi all’interno della prospettiva teorica di Lonnie Athens, e nel senso delle “cosmologie violente”. 3. La prospettiva criminologica di Lonnie Athens Athens è u n criminologo statunitense che insegna attualmente alla Seton Hall University, nel New Jersey. Le sue opere principali sono The Creation of Dangerous Violent Criminals del 1989 e Violent Criminal Acts and Actors Revisited del 1997. Altrettanto importanti per la comprensione degli aspetti più innovativi del suo pensiero sono alcuni articoli che hanno scandito il suo percorso di ricerca, e che mettono a fuoco i passaggi-chiave del suo paradigma esplicativo, tra i quali il fondamentale scritto The Self as a Soliloquy, apparso nel 1994, al quale faremo riferimento nel corso di questo contributo. Come già accennato, Athens fornisce, senza contrapporsi frontalmente, una spiegazione alternativa alla tradizionale prospettiva che spiega il “comportamento criminale violento” prevalentemente assegnandolo all’universo della “malattia mentale”. Nella “logica comune”, ma anche in molte “logiche scientifiche”, infatti, non si ritiene possibile che una persona cosiddetta “normale” possa commettere certi tipi di azioni che per gravità e m ancanza di provocazione appaiono assolutamente “irrazionali”, “insensate”, “gratuite”, incomprensibili. 5 Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 65. 9 Athens, invece, a no stro avviso, riesce a rintracciare e a descrivere con successo quei percorsi psico-sociali che conducono un individuo a realizzare atti violenti, quali omicidi, lesioni gravi o violenze sessuali, 6 mostrando come tali percorsi non siano “segnati” da una natura “irrazionale” e “incontrollabile” – che si suppone spesso alla base dei cosiddetti “raptus” –, bensì costruiti e collocati dentro itinerari interpretativi che è possibile ricostruire a p artire dalla prospettiva di chi li ha vissuti, restituendo dei tracciati di “senso” in una certa misura “intelligibili” e “avvicinabili”. In tal modo, l’agire dei “criminali violenti” viene approcciato e riconosciuto come dotato di senso alla luce di un metodo – quello interazionista – che, smarcandosi da una spiegazione lineare di causa-effetto, consente di approfondire la conoscenza di mondi da sempre poco comprensibili e comunicabili. Athens si avvale, infatti, di un modello cosiddetto “processuale”, in base al quale i fenomeni sono intesi quali esiti di processi di sviluppo le cui fasi iniziali non determinano automaticamente le ultime: 7 l’evento finale – nel nostro caso l’azione violenta – rappresenta sempre il risultato mai scontato di un lungo e difficoltoso processo interpretativo e s imbolico sviluppato, e solo eventualmente portato a conclusione, dal suo attore. Ogni passaggio a fasi ulteriori e a snodi successivi della vicenda è, in quest’ottica, sempre svolto attivamente dalle scelte interpretative dell’attore, il quale non si limita mai a “reagire” a uno stimolo esterno senza opporre alcuna resistenza, ma, al contrario, interpone (e in alcuni casi oppone) quella particolare resistenza “riflessiva” costituita dal Self, inteso quale filtro simbolico della realtà. Seguendo queste direzioni teoriche, prima di rispondere all’interrogativo relativo al “perché” un individuo, in un momento preciso della sua vita, decida, “inaspettatamente” e “sorprendentemente”, di attaccarne fisicamente un altro, bisognerebbe considerare che ogni atto ha una storia e che occorrerebbe sapere 6 La definizione di “comportamento sostanzialmente violento” che Athens formula per “ritagliare” il proprio “oggetto” di ricerca comprende quelle situazioni nelle quali “(1) la vittima è st ata aggredita fisicamente in modo grave, ossia ferita non in modo accidentale o per caso con un colpo d’arma da fuoco, con una pugnalata, con una bastonata o con percosse, così da richiedere l’intervento di un medico; (2) violentata in modo grave con atti di penetrazione, sodomia, fellatio o cunnilingus, sotto la minaccia di ulteriori danni fisici gravi, o s ubendone altri più o meno gravi”. Cfr. Lonnie Athens, Violent Criminal Acts and Actors Revisited, University of Illinois, Urbana 1997, p. 31. 7 Lonnie Athens, Blumer’s Method of Naturalistic Inquiry. A Critical Examination, in “Studies in Symbolic Interaction”, 5, 1984, p. 244. 10 qualcosa di questa storia e di quella del suo autore prima di poterne comprendere il “senso”. Ed è proprio attraverso interviste qualitative semi-strutturate a detenuti condannati per i crimini più efferati, domandando loro “cosa pensavano” e “cosa provavano” nel momento in cui commettevano un omicidio o una violenza sessuale, che Athens – e noi – abbiamo potuto catturare progressivamente i significati degli atti violenti, giungendo a mettere in luce la fondamentale “ambiguità” che attraversa il “nostro” mondo e quello degli “altri”. Da un lato, infatti, il ruolo “attivo” e “riflessivo” dell’individuo nella costruzione dell’azione violenta è lo stesso che presiede e gui da qualsiasi altra nostra azione (anche quelle non-violente). Per altro verso, si registra un drammatico scarto fra “noi” e “loro” nel fatto che gli attori violenti scelgono un’azione violenta come mezzo di risoluzione di un conflitto in atto. Il riconoscimento di quest’ambiguità di significato fra mondi simili – ma non eguali – contribuisce a non esaurire il “problema della criminalità violenta” con la questione della “malattia mentale”, e motiva a guardare con occhi nuovi la profondità qualitativa del “perché violento” di molte azioni umane. Familiarizzare con le catene di ragionamenti che qualificano il lavoro degli interazionisti simbolici aiuta a sovvertire moltissime assunzioni date per scontate e a riorganizzare concettualmente questioni cruciali. Parlando, per esempio, di “volontà”, di “obiettivi”, di “motivi”, questi ultimi sono quasi sempre considerati, in termini di senso comune, come le “cause” della condotta. Gli interazionisti spiegano questi processi in modo affatto differente: “un obiettivo visualizzato aiuta a coordinare i movimenti, e rende possibile almeno in parte controllare in modo consapevole il proprio agire. In tali circostanze, il comportamento volontario è sperimentato come animato da un’intenzione; è pe rcepito come orientato, poiché si muove verso un obiettivo sostenuto da un progetto”.8 Il lemma “motivi” va qui sostituito con quello, più complesso, di “intenzioni”, che sono “immagini di un atto portato a compimento con successo”. Detto altrimenti, i “motivi” non vanno confusi, come avviene nel senso comune, con gli “impulsi”, con la “spinta” che sta dietro ai fatti, con i “disagi” che mettono in movimento l’organismo, ma vanno riferiti agli “obiettivi consapevolmente dichiarati che forniscono 8 Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 77. 11 direzione, unità e organizzazione a una successione di movimenti. […] I motivi non sono presenti all’inizio di un at to, bensì emergono solo dopo che si è verificata qualche interferenza”. 9 Si diventa, allora, consapevoli di sé, delle proprie “intenzioni” e dei “motivi” alla base di quel gesto, se vi è da operare uno sforzo, un’opposizione, una lotta. In un orizzonte culturale diverso da quello interazionista, Eugène Minkowski giunge paradossalmente ad affermare che l’uomo che compie un m ovimento “volontario” non sta dando in realtà alcuna prova di volontà, la quale interviene solo laddove si incontrano sulla propria strada ostacoli e r esistenze, quando “iniziamo a dirci” che un’impresa non è possibile, quando “diventa udibile il richiamo a uno sforzo supplementare”: è allora che parliamo di uno sforzo di volontà, cioè la facoltà di prolungare il nostro cammino, andare al di là dell’ostacolo che si erge di fronte a noi e che tende momentaneamente ad arrestarci. La volontà “si situa nella vita, formandone la trama e condizionandone il costante cammino in avanti”.10 Su questo aspetto concorda totalmente anche Alexander Lowen, padre della bioenergetica, laddove ricorda che “ogni atto di volontà è l’affermazione di una decisione. Per esempio l’affermazione ‘voglio farlo’ potrebbe anche essere resa con ‘io sono deciso a farlo’. Entrambe le affermazioni implicano un ostacolo contro cui la volontà è attiva. Dove non c’è nessun ostacolo a un impulso, la volontà non è necessaria. Non ho bisogno della mia volontà per fare qualcosa che desidero fare. […]. Il fare ciò che accade naturalmente, non richiede nessuno sforzo conscio né atto di volontà”. 11 4. Lo sguardo dello scienziato sociale: l’ottica interazionista Il metodo di ricerca adottato da Athens in campo sociale affonda le sue premesse epistemologiche nel pensiero di Herbert Blumer – lo studioso che maggiormente ha s viluppato gli aspetti metodologici dell’interazionismo simbolico. In breve, per entrambi gli studiosi, esso 9 Ivi, pp. 77-90. Eugène Minkowski, Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Aubier-Montaigne, Paris 1936; tr. it. Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, Einaudi, Torino 2005, pp. 19-22. 11 Alexander Lowen, Volontà di vivere e voglia di morire, Supplemento di “Anima e corpo”, rivista di psicologia somatica, Istituto di psicologia somatorelazionale, Milano 2004, pp. 4-5. 10 12 consiste nell’affermazione che il metodo delle scienze sociali non può essere importato acriticamente dal mondo tecnico-scientifico, ma debba trovare una forma autonoma e adeguata a quello specifico (s)oggetto di studio che è l’essere umano. 12 Da questa affermazione discendono due passaggi chiave, che è ne cessario tener presente per comprendere le potenzialità euristiche della teoria del criminologo statunitense. Innanzitutto, occorre soffermarsi sul peculiare rapporto di identità e di reciproco scambio che lega lo scienziato-osservatore al (s)oggetto-osservato. Per l’interazionismo simbolico l’uomo abita un mondo di “oggetti sociali”, nei confronti dei quali agisce sulla scorta dei significati che ha attribuito loro nel corso dell’interazione sociale, e in ragione delle sue esperienze passate. A questo mondo “significativo”, “dotato di senso”, partecipano sia il (s)oggetto studiato – nel nostro caso il “criminale violento” –, sia il ricercatore, il quale, per indagare adeguatamente il fenomeno sotto osservazione, dovrà adottare la prospettiva assunta dal soggetto “oggetto di studio”, che diventa così un (s)oggetto-attore, ossia un individuo che prima di essere osservato ha, a s ua volta, osservato. Questo atteggiamento dello scienziato risulta necessario per non ricadere in quella che gli interazionisti definiscono la “peggiore forma di soggettivismo”, ossia la sostituzione dei significati “così come interpretati dall’individuo osservato” con i significati “così come interpretati dallo scienziato sociale”.13 Si tratta, pertanto, di assumere il punto di vista di chi ha agito violentemente per salvare l’eccedenza di significato delle sue esperienze interiori, osservate nella loro dimensione “cosmologica” – quell’ampio e stratificato orizzonte all’interno del quale viene costruita ogni nostra azione, anche quelle più atroci. L’osservatore, comunque, nel suo impegno esplorativo dell’universo che intende indagare, compie sempre queste incursioni – anche quando non ne tiene conto – a partire dal suo cosmo simbolico di appartenenza: ed è solo in questa certa misura che egli può avvicinare e osservare l’altro. Per compiere queste operazioni si farà ricorso, come vedremo, a “concetti sensibilizzanti” che consentono di osservare un fenomeno 12 Cfr. Herbert Blumer, Symbolic Interactions, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1969; tr. it. La metodologia dell’interazionismo simbolico, Armando, Roma 2006. 13 Cfr. Lonnie Athens, Blumer’s Method of Naturalistic Inquiry, cit., pp. 241-257. 13 attraverso lenti inedite e di coglierne “elementi” “inaspettati” e “imprevisti”. 5. Dentro alcuni “concetti sensibilizzanti”: tra “soliloquio”, “comunità-fantasma” e “interpretazioni delle situazioni” I “concetti sensibilizzanti” cui accenneremo in questo breve contributo sono da intendere – seguendo la tradizione interazionista – come occhi tenuti continuamente e intenzionalmente “spalancati” sul mondo, come strumenti che dirigono lo sguardo aprendo prospettive ed evitando di definire una volta per sempre il proprio oggetto di osservazione, salvando la complessità e l’eccedenza che caratterizza ogni esperienza sociale (nel nostro caso la violenza esercitata dall’uomo sull’uomo). Alcuni dei concetti che Athens trae dalla matrice interazionista sono quelli di Self, di “riflessività”,14 di “immagine di sé”, di “interpretazione della situazione”, di “assunzione dell’atteggiamento altrui” e di “interazione sociale”, che avviene in forza di ripetuti processi di role-taking.15 Non è possibile approfondire nemmeno rapsodicamente il loro contenuto. Ci limitiamo a ricordare che secondo questa tradizione di pensiero l’individuo entra in relazione con il mondo sociale attraverso un’incessante “conversazione interiore”/“soliloquio” che consiste in un flusso costante tra due “sponde”: l’I e il Me – laddove l’I costituisce l’“impulso ad agire”, mentre il Me rappresenta quell’insieme generalissimo delle aspettative della società che l’individuo ha fatto proprie internalizzandole mediante ripetute “assunzioni di atteggiamenti altrui”. 16 Così come l’I 14 Per “riflessività” Mead intende la capacità del Self di essere soggetto e oggetto insieme, di osservare e osservarsi e, cosa più importante, di instaurare un dialogo fra sé e sé, durante il quale il soggetto si confronta con più punti di vista. Ed è proprio questo processo mediante il quale si “prende nota” delle variabili della situazione in cui ci si trova immersi che consente un agire “consapevole”, ossia un agire che è l ’esito di una “comunicazione interiore”. E comunicare o “conversare” con se stessi non significa solo selezionare le informazioni, ma renderle disponibili alla coscienza a partire da differenti punti di vista. 15 Il role-taking è per gli interazionisti simbolici il mezzo per rendere possibile l’“assunzione di un atteggiamento altrui”, mediante generalizzazioni che consentono di anticipare le risposte degli “altri” e di modulare su di esse i nostri atti, in vista dell’obiettivo desiderato. 16 Cfr. George H. Mead, Mind, Self, and Society. From the Standpoint of a Social Behaviorist, The University of Chicago Press, Chicago 1934; tr. it. Mente, sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, Giunti, Firenze 1966. 14 non predetermina l’esito dell’azione finale, anche il Me, ossia il polo “istituzionale” e di “(auto)controllo sociale” del Self, non determina l’agire dell’individuo senza “vie di scampo”. Il Self, in tal senso, non s i riduce né a uno solo di questi momenti, né a u na mera interazione tra le due componenti: esso consiste, piuttosto, in quel peculiare processo di comunicazione durante il quale la persona si rivolge a se stessa e si dà delle risposte 17 nelle forme della “conversazione interiore”/“soliloquio”. 18 Athens, al riguardo, scandisce tredici principi che guidano il soliloquio. Ne illustreremo solo alcuni. Innanzitutto (primo principio) “le persone conversano con se stesse come se stessero parlando con qualcun altro, con la differenza che parlano ellitticamente”. 19 Ciò significa che quando parliamo con noi stessi lo facciamo in modo molto più rapido e abbreviato, mediante “ellissi” appunto, rispetto a q uando parliamo con gli altri. Per questa ragione molto spesso risulta difficile tradurre in parole i nostri stessi pensieri. Inoltre (quarto principio) il soliloquio trasforma le quotidiane sensazioni corporee – indefinite, diffuse, amorfe, originate da f onti interne o es terne – in emozioni che noi poi identifichiamo nei sentimenti dell’orgoglio o d ella vergogna, della felicità o d ella tristezza, dell’amore o dell’odio, della tranquillità o della rabbia.20 Il terzo principio afferma che quando qualcuno si rivolge a no i dobbiamo simultaneamente raccontarci ciò che ci sta dicendo. “Assumere la prospettiva dell’altro” ed e ssere attivamente e “riflessivamente” coinvolti nella comunicazione con gli altri significa esattamente questo. 21 Il soliloquio consente così all’individuo di rendere e r endersi comprensibili le esperienze interiori e quelle sociali che vive, di 17 Cfr. Herbert Blumer, La metodologia dell’interazionismo simbolico, cit., p. 55. Il concetto di soliloquio, anche se p resentato sotto altri nomi, è g ià presente negli auctores di riferimento di Athens, e cioè in Mead e Blumer. Mead, infatti, parla del Self come di una conversazione fra I e Me. Blumer, invece, parla del cosiddetto processo di self-indication, mediante il quale una persona, indicando a se st essa una variabile di una situazione, la immette nel processo interpretativo. Ciò che sta alla base di queste spiegazioni è quello che Mead chiama il principio di “riflessività” del Self, ossia la capacità che il Self ha di essere soggetto e oggetto insieme, di osservare e osservarsi, e cosa più importante di instaurare un dialogo fra sé e sé, durante il quale il soggetto si confronta con più punti di vista. 19 Lonnie Athens, The Self as a Soliloquy, in “The Sociological Quarterly”, 35, 3, 1994, p. 524. 20 Ivi, p. 525. 21 Ivi, pp. 524-525. 18 15 carattere cognitivo e insieme emozionale, donando un ordine e un’organizzazione a un insieme di per sé indiscriminato e “amorfo” di impressioni. Infine (decimo principio), è ciò che Athens definisce come “comunità-fantasma” a r ivestire il ruolo di “interlocutore principale” dei nostri soliloqui: essa non è al tro che il distillato delle nostre esperienze passate “significative” così come da noi vissute, interpretate e rivisitate nel presente nel corso di un processo dialogico e dialogante con i nostri “altri significativi”. Possiamo immaginarla come un “parlamento interiore” costituito da tante opinioni quanti sono gli “altri significativi” che abbiamo internalizzato nel corso della nostra vita e che offrono suggerimenti o dettano ordini per le nostre azioni future. L’attributo “fantasma” è dovuto al fatto che questa comunità di opinioni esiste “solo” e “sempre” nella forma delle rappresentazioni mentali che il soggetto se ne fa; al tempo stesso, però, tale comunità è ben lontana dall’essere “fantasma” nelle nostre vite reali, in quanto attraverso il soliloquio agisce realmente nei mondi sociali e nel le azioni che gli individui decidono di intraprendere. Considerato poi che il passato di ognuno di noi è sempre qualcosa di “unico”, anche chi vive all’interno dei confini della stessa “comunità fisica” potrà formare “comunità-fantasma” differenti, non riducendosi mai al mero prodotto del proprio ambiente sociale. 22 Analizzando i “flussi di coscienza” ricavati dalle interviste realizzate sulla scorta di questi “concetti sensibilizzanti”, Athens identifica quattro tipi di “interpretazione della situazione” che rappresentano ulteriori “concetti sensibilizzanti” e (di)mostrano come le persone violente, prima di commettere atti criminali violenti, costruiscano attivamente e riflessivamente le rispettive linee di azione. 23 Il processo interpretativo si scompone in due fasi: “definizione” e “giudizio”. Durante la prima fase l’attore violento, assumendo l’atteggiamento della vittima, indica a se stesso il significato dei gesti che quest’ultima pone in essere. Nella seconda fase egli “assume 22 Lonnie Athens, Radical Interactionism. Going Beyond Mead, in “Journal for the Theory of Social Behaviour”, 37, 2, 2007, p. 139 23 Lonnie Athens, Violent Criminal Acts and Actors Revisited, cit., p. 32. 16 l’atteggiamento” della propria “comunità-fantasma” e decide che dovrà agire violentemente. Le “interpretazioni della situazione” messe a fuoco da Athens sono di quattro tipi: l’interpretazione “fisicamente difensiva”, l’interpretazione “frustrativa”, l’interpretazione “malefica” e l’interpretazione “frustrativo-malefica”.24 Il momento che caratterizza ciascun tipo di interpretazione è rappresentato dalla “definizione della situazione” mentre la seconda fase, quella del giudizio favorevole all’azione violenta, opera come elemento unificante rispetto alla varietà interpretativa. Ciascuna interpretazione coinvolge dimensioni sociali fondamentali quali l’interazione “faccia a f accia”, l’“assunzione di atteggiamento altrui”, la “conversazione con se stessi”, l’“immagine che si ha di sé” e qu ella che ci si costruisce dell’altro, i pensieri e le emozioni emergenti. 6. Un esito mai scontato Nel 1989 Athens pubblica The Creation of Dangerous Violent Criminals, lavoro che si propone di rintracciare l’origine delle “comunità-fantasma” violente, di quegli interlocutori interiori che sostengono l’utilizzo della violenza per la risoluzione dei conflitti e che distinguono i “criminali violenti” da tutte le altre persone. In altri termini, l’interrogativo che si pone è il seguente: da dove proviene una “comunità-fantasma” che riserva al suo interno un posto privilegiato per una risposta violenta al mondo? La spiegazione di Athens a que sti ordini di domande, ben lontana da o gni pretesa “eziologia”, si dirige verso un paradigma “processuale” che individua nel percorso di “violentizzazione” quel cammino che conduce una persona inizialmente non violenta a diventare un “pericoloso criminale”. Le sue fasi possono essere immaginate come una serie di stanze ognuna delle quali ha due porte, una di entrata e l’altra di uscita. Per arrivare all’ultima bisogna passare attraverso ciascuna delle precedenti, ma vi è anche la possibilità che 24 Per le specifiche formulazioni delle “interpretazioni della situazione” vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit. 17 non vi si giunga mai. 25 Il finale, ancora una volta, è aperto e problematico: il presupposto di questo approccio a “finale aperto”, infatti, è sempre la capacità, che ogni essere umano possiede, di “improvvisare” e di “stupirci” in qualsiasi momento. 7. Verso nuovi concetti sensibilizzanti: le “cosmologie violente” Ma in che modo gli uomini e le donne parlano a se stessi, che cosa si raccontano, quando decidono di comportarsi così come si comportano, manifestando per esempio atti violenti? E chi filtra gli ordini e tiene i comandi dentro quella cabina di regia che dirige un agire distruttivo? La prospettiva avanzata da Athens contiene innumerevoli appigli per convincersi che l’elaborazione interiore di questi atti è r esa consapevole da q uel processo simbolico con cui l’attore indica a se stesso (self-indication) e valuta, per quanto brevemente e in maniera sempre “fallibile”, “se e come certi elementi – credenze, idee, desideri o stati di cose – abbiano a che fare con lui” e cosa pensare, dire e fare in un determinato contesto”. 26 È questo dialogo interiore – che non ha una natura psicologica ma relazionale27 – a conferire senso ai propri atti. Quest’“attività riflessiva” che precede e affianca l’“interpretazione della situazione”, la definizione dell’“immagine di sé”, fornisce consigli invitando a prendere posizione, ad agire o a d astenersi dal farlo. Essa non discorre riferendosi solo all’immediatezza di un contesto, 28 ma rimanda a qualcosa di più radicato, a quell’ininterrotto 25 Lonnie Athens, The Creation of Dangerous Violent Criminals, University of Illinois, Urbana 1992, p. 21. 26 Margaret S. Archer, Structure, Agency and the Internal Conversation, Cambridge University Press, Cambridge 2003; tr. it. La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale, Erickson, Gardolo 2006, p. 86. 27 “La ‘conversazione interiore’ si può definire alla stregua di una ‘proprietà personale emergente’, più che di una ‘facoltà’ psicologica degli individui, che rimanderebbe a una loro disposizione intrinseca. In altri termini, la conversazione interiore è una proprietà relazionale e le relazioni in questione sono quelle che si danno tra la mente e il mondo.” Cfr. Margaret S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 178. 28 Condotte altamente distruttive possono però essere realizzate quando le persone si trovano a vivere “collettivamente” (cioè a dire insieme ad altri individui) drastici, radicali e globali “cambiamenti drammatici di sé”, all’interno di una situazione totale. Valgano quali esempi l’esperimento carcerario di Stanford ideato e guidato da Philip Zimbardo e le recenti e drammatiche vicende di Abu Ghraib. 18 senso di sé che opera all’interno di circuiti neurali ripetutamente utilizzati per aver assunto gli “atteggiamenti altrui” nel corso del tempo, e distillato i “ragionamenti morali”, le “massime morali” e le indicazioni per intraprendere azioni. Inoltre, nemmeno gli stati d’animo e le emozioni che anticipano e affiancano atti violenti brutali mutano, nella loro essenza, rispetto a quelli che sperimentiamo nel corso delle nostre “normali” vite quotidiane. La ridefinizione del paesaggio interiore che fa da sfondo allo scatenarsi delle dinamiche aggressive è data, piuttosto, dalle accelerazioni che i dialoghi interiori/i soliloqui degli attori violenti ricevono quando costoro interpretano drammaticamente la situazione in cui sono gettati, “ascoltando” e “rispondendo” alle proprie esperienze interiori che stanno per precipitare nel presente29 di quel gesto. Tenendo conto di questa complessità, se nel corso della vita il Self – quel “prisma”, quel centro di convergenza, rifrazione e orientamento alimentato dalla “comunità-fantasma” attraverso il quale leggiamo riflessivamente (ma mai in modo del tutto “trasparente”) noi stessi e il mondo esterno – non è fatto “slittare drammaticamente” verso una composizione valoriale e s imbolica di segno violento, l’attore, all’occorrenza, potrà continuare a rivolgersi in modo sufficientemente consonante frasi del tipo: “Lascia perdere gente come questa!”. Ma, dopo essersi inoltrato in un percorso di “violentizzazione”, aver internalizzato “altri-fantasma” brutali e/o aver interpretato drammaticamente una certa situazione, un individuo può, rimanendo sempre in ascolto della propria “comunità-fantasma”, offrirsi frasi del tipo: “Fallo a pezzi senza pietà!”. Prendiamo così le distanze dall’idea che vi siano “variabili” sociali e individuali che “condizionano” necessariamente a prendere “deliberazioni” che trascendono la “riflessività” di un individuo: “Ciò Cfr. Philip Zimbardo, The Lucifer Effect. Understanding How Good People Turn Evil, Random House, New York 2007; tr. it. L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008. 29 “Il presente è un atto particolare che riunisce la narrazione e l ’azione. E siccome nel presente c’è narrazione, ciò implica necessariamente fenomeni di memoria.” Cfr. Eugène Minkowski, Le temps vécu, J. L. L. L. D ’Artrey, Paris 1933; tr. it. Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, Torino 2004, p. 32. 19 che muove l’agente/attore sociale è l a sua riflessività interna”30 rispetto alla situazione che si trova a vivere, e ai sentimenti, alle visioni, ai progetti che nascono. È la “riflessività” che fa di noi degli “agenti attivi”, ossia persone che hanno una certa padronanza nel determinare la propria vita, nell’autovalutarsi e nell’assumere responsabilità personali. Seguendo gli insegnamenti dell’interazionismo simbolico e di tradizioni di pensiero a esso affini, concordiamo con Marco Inghilleri quando afferma che: “Il mondo, quale è noto a noi, è una realtà costruita socialmente che ci appare tale attraverso i nostri ‘negoziati’ con le altre persone. Infatti, noi formuliamo gradualmente un’intera cosmologia, contro lo sfondo della quale i nostri negoziati sociali hanno luogo e in accordo con la quale sono legittimati”. 31 È anche a partire da questa consapevolezza, e da queste premesse, che abbiamo messo a p unto – attraverso la conduzione di alcune interviste “narrative” con individui condannati per reati violenti 32 – il concetto di “cosmologia violenta”. Esso è diventato, per noi, un “concetto sensibilizzante” finalizzato a restituire senso alle condotte umane (violente) al di là di ogni rigida e formale distinzione fra normalità e sofferenza psichica, 33 capace di aiutare a comprendere e a raccontare le sfere simboliche costruite dagli attori sociali nel corso delle loro interazioni ed esperienze nei mondi che abitano. 30 Pierpaolo Donati, La conversazione interiore. Un nuovo paradigma (personalizzante) della socializzazione, introduzione all’edizione italiana di Margaret S. Archer, La conversazione interiore, cit., p. 16. 31 Il corsivo è nostro. Marco Inghilleri svolge considerazioni assai significative relative al ruolo della “narrazione” e del “dialogo” nel rapporto di ciascuno con la propria realtà: “Entrare in dialogo con una persona significa riconoscere e ricostruire il modo in cui essa costruisce il suo mondo e se stessa, come stanno le cose dal suo punto di vista, che esperienza fa di questo mondo, come lo valuta e lo giudica, anche attraverso le sue emozioni, come ne costruisce il senso di realtà, come agisce in esso e q uali effetti produce, come questo mondo risponde a ciò che essa fa e quali effetti ciò produce circolarmente sulla persona stessa”. Cfr. Marco Inghilleri, Il linguaggio come strumento del cambiamento nella psicoterapia interattivo-cognitiva (2005), in http://psicologiaclinica.splinder.com/post/19799159/illinguaggio-come-strumento-del-cambiamento-nella-psicoterapia-interattivo-cognitiva 32 Le interviste – per un totale di sette – hanno avuto una durata media di quattro ore ciascuna, sono state tutte condotte presso la Casa di Reclusione di Milano-Opera, e sono state interamente registrate, sbobinate e f edelmente trascritte. Alcuni passaggi dei racconti raccolti sono contenuti nel volume Cosmologie violente, cit. 33 Questi concetti poggiano sui percorsi teorici sviluppati da Minkowski nelle sue opere, e in particolare, nel volume Verso una cosmologia, cit. 20 Non esiste un gesto violento, un’“aggressione fisica”, un “attacco al corpo” 34 per quanto “folle” e cr uento che non i mplichi una “cosmologia”. Risalendo la traiettoria di Athens, tendiamo a figurarci gli “attori violenti” come orientati verso una “ciascunità” organizzata intorno a una “comunità-fantasma” che dispensa sostegno morale per risposte violente, e che noi denominiamo “cosmologia violenta”. Per noi essa riguarda la dimensione “individuale-universalizzante”, “sensibile-pensante”, “cosciente-riflessiva” e personale mediante la quale gli uomini si rappresentano il mondo e cercano di farsi strada in esso, costruendo attivamente il proprio agire. In tale prospettiva, l’uomo è un “cosmo”, da lui stesso creato, un cosmo che produce senso, e le “deliberazioni riflessive” sono “attività” di cui l’attore è i n larga parte consapevole 35 e alle quali partecipano i giudizi, le opinioni, le lodi, gli ammonimenti degli “altri significativi” internalizzati, i quali suggeriscono/ordinano come tradurre tutto ciò in atti (violenti). È questa incessante conversazione con se stessi che fornisce la trama per la costruzione e il continuo aggiornamento di una “cosmologia” personale, intesa come “insieme organizzato di prospettive” con cui guardiamo e interpretiamo il mondo. Quando dialoghiamo con noi stessi, infatti, proviamo a mettere ordine, in assetto, in quel pluriverso di voci, di immagini e di rappresentazioni – alcune depositate e archiviate da tempo – che chiedono di essere recepite, seguite e, talvolta, rigidamente obbedite. La “cosmologia” è, allora, anche la costruzione di una trama narrativa rivolta innanzitutto a noi stessi: l’agire che le fa da contrappunto è consonante e “preso” dentro le parole che narrano e da nno senso a questi “incontri”. Come scandisce con grande chiarezza Paolo Jedlowski, “[s]e possiamo rendere conto della vita nella forma di storie è […] perché la vita stessa ha in sé una dimensione storica: […] la vita si dispone nel tempo, e con ciò ci si offre come un m ateriale 34 Cfr. Francesco Viganò, La tutela penale della libertà individuale. L’offesa mediante violenza, Giuffrè, Milano 2002. 35 Archer puntualizza: “È una prospettiva ben diversa, quindi, da teorie come quella della scelta razionale [Rational Choice], che tende a contrapporre i diversi desideri e convincimenti dell’agente, sino a r icavarne – dati i rapporti di forza tra gli uni e gli altri – l’ordine delle sue preferenze individuali”. Cfr Margaret S. Archer, La conversazione interiore, cit., pp. 86-87. 21 narrabile”. 36 Queste “narrazioni” non sono solo “resoconti” e “razionalizzazioni” con cui gli attori sociali spiegano le ragioni delle proprie azioni, ma anche “pratiche riflessive […] profondamente incarnate nei corsi di azione degli individui”.37 8. Cosmologia e dimensioni psicopatologiche Se il nostro intento è comprendere da d ove vengono i comportamenti e l e “vite violente” “[…] cercando di coglierne e distinguerne i diversi movimenti, le diverse qualità dinamiche, per studiarne poi le particolari affinità e i molteplici legami”, 38 allora sarà proprio il riconoscimento di tali “dinamiche” e dei “legami” intessuti nei loro “mondi” di riferimento – che spesso si saldano in relazioni di “dominio” – ad allontanare la pretesa che i “violenti” siano per lo più individui “disorganizzati”, i cui atti “efferati” e “distonici” risulterebbero rivelatori di patologie. I principali studi sul tema convergono nell’affermare che pur esistendo una moderata ma significativa associazione tra violenza e disturbo mentale, essa non è “creata” dalla malattia ma in qualche modo è una caratteristica temperamentale o di personalità che preesiste alla malattia stessa e, in tale condizione, non è più controllata.39 Inoltre, le quote più significative della violenza osservata nelle persone mentalmente malate non riguardano i pazienti psicotici più di quanto riguardino quelli portatori di disturbi di personalità, o affetti da patologia affettiva, od organica cerebrale, e i n tutti questi casi a incidere pesantemente sul viraggio verso il comportamento violento sono fattori quali l’età, il genere (maschile), la scolarità, l’abuso di sostanze, le condizioni sociali. 36 Paolo Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano 2000, pp. 34-35. 37 Barbara Poggio, Mi racconti una storia? Il metodo narrativo nelle scienze sociali, Carocci, Roma 2004, p. 24. 38 Eugène Minkowski, Verso una cosmologia, cit., p. 150. 39 Vedi in particolare le conclusioni cui giunge Massimo Biondi: “[…] in molti disturbi schizofrenici e maniacali il comportamento aggressivo e violento non è ‘creato’ dalla malattia ma in qualche modo è una caratteristica temperamentale o di personalità che pre-esiste alla malattia e, in tale condizione, non è più controllato”. Cfr. Massimo Biondi, La dimensione aggressività-violenza (A-V), in AA.VV., Psicopatologia e terapia dei comportamenti aggressivi e violenti, a cura di Paolo Pancheri, Scientific Press, Firenze 2005, p. 118. 22 La “psicopatia”, per esempio, è oggi definita come un “ disordine affettivo” che comporta, per l’appunto, una riduzione della capacità di empatizzare e, quale ricaduta, un deficit nell’abilità a formare “ragionamenti morali”. Agli “psicopatici” viene generalmente attribuita la capacità di commettere crimini brutali senza che essi comportino “sensi di colpa”. Ciò che la nostra proposta consente di ipotizzare è che le persone affette da queste patologie non necessariamente sono incapaci di compiere attività di role-taking: l’esecuzione di crimini efferati richiede sempre, in qualche misura, un’abilità nell’anticipare le mosse della potenziale vittima e interpretarne i gesti. Rispetto ad altri “attori violenti” costoro osservano le loro vittime con profondo distacco, talvolta con spiccate capacità introspettive, ma sempre senza identificarsi emotivamente con esse. Non è dunque in gioco la grave anestesia emozionale, l’assoluta impossibilità a “sentire” ciò che “sente” una persona normale: queste caratteristiche connotano indubbiamente gli “psicopatici”. Ma anche dall’interno del recinto definito da questo “disturbo psichico” ciascuno di loro può rivolgere a se stesso, e agli altri, parole “significative” volte a “interpretare le situazioni”. 9. Cosmologia e “macrocosmi” sociali Il focus della nostra attenzione ricade, ancora una volta, sulla “riflessività” e sulla “conversazione interiore”/“soliloquio” che, pur intramate con stratificati livelli di “opacità”, fanno sì che l’attore si renda in buona parte consapevole del proprio “mondo interiore”, capace di esperire il proprio “corpo vivente”, di riconoscere le sue emozioni e dare forma al proprio agire. Per respingere dunque ogni seduzione riduzionista relativa al rapporto violenza e malattia mentale occorre accedere, sempre, alla “ciascunità” di ogni individuo, il cui filtro irriducibile rimane il “soliloquio”, quel “movimento riflessivo” che si compone anche attraverso il role-taking. Ma, come abbiamo anticipato, occorre evitare anche un altro pericoloso riduzionismo, quello che porterebbe a considerare ogni “mondo sociale”, ogni “comunità fisica” come il “macro-cosmo”, il 23 modello che informa direttamente e con trasparenza la “comunitàfantasma” di chi li abita. Già Shibutani avvertiva che “Il mondo personale di ogni individuo è centrato attorno a sé. Nel formulare giudizi e nel prendere decisioni, nel parlare dello spazio e del tempo, ognuno utilizza se stesso quale punto centrale di riferimento”. 40 La biografia di ciascuno, infatti, opera in un “presente vivente” – che include passato, presente e futuro, ricordi e aspettative –, e definisce come, con quale estensione e profondità i doveri, le norme, gli status e i ruoli sociali sono internalizzati dal singolo attore sociale. Ogni individuo è o rientato unicamente verso il suo “mondo” sociale, e la chiave per risolvere il problema del rapporto tra agency e struttura si rinviene in tale relazione “cosmologica”. È la “riflessività” a costituire il missing link che opera la mediazione fra le strutture di “dominio” e il modo in cui, con le nostre deliberazioni, ci collochiamo rispetto a es se. Lo ricorda magistralmente Pierpaolo Donati: “Le strutture socioculturali influenzano l’agire umano solo attraverso la riflessività interna della persona, la quale deve introdurre i dati del contesto esterno nelle sue strategie e f are i conti con esse […]. [N]on si tratta di un condizionamento dall’esterno che causa direttamente l’agire umano”.41 La “cosmologia” di ogni attore sociale rimane, anche per tali ragioni, potenzialmente aperta a ogni dialogo e a ogni decisione. Ovviamente nessuno può autodefinirsi, per via discorsiva, nelle forme che gli sono più congeniali e la conoscenza di sé che ne deriva è l’esito di un processo che vive delle negoziazioni riflessive con gli altri attori sociali, all’interno di contesti situazionali strutturati anche in chiave di “dominio”. In altre parole, siamo sì artefici di noi stessi e della nostra storia, ma in un flusso di eventi e di circostanze che ci trascendono, e che non possiamo scegliere e controllare del tutto. 42 40 Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 216. Pierpaolo Donati, La conversazione interiore, cit., p. 12. 42 Vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit. 41 24 10. Cosa intendiamo fare? Ci siamo domandati, all’inizio di queste riflessioni, come avvenga – e quali tappe percorra – quel “processo dinamico” attraverso il quale uomini e donne, in un determinato momento della loro vita, decidano, “inaspettatamente” e “sorprendentemente”, di seguire linee violente d’azione e aggredire fisicamente altri individui. Secondo la nostra proposta – come abbiamo provato a spiegare pur nell’economia di queste pagine – ogni movimento di quell’attività riflessiva che si esprime e si compenetra nel flusso del “soliloquio”/“conversazione interiore” di ciascuno media sempre l’interazione “io-mondo”,43 facendo convergere e concentrando quel pluriverso che costituisce ogni individuo nel punto attorno al quale prende forma la risposta all’impellente interrogativo: “Che cosa intendiamo fare?”. Una risposta che, in certi casi, attiverà linee d’azione brutalmente distruttive. È nel margine di questo “punto”, di questo istante – che ha sempre in sé una durata qualitativa e non solo quantitativa – che si dispiegano gli spazi di libertà per l’agire, ed è proprio la possibilità che si ha di “comunicare con se stessi” – ascoltandosi e dandosi risposte – che permette di (s)fondare l’immediato, sospendersi, immaginare possibili alternative e direzionare lo “slancio” verso una successione di immagini e di rappresentazioni simboliche – “sintoniche” con la propria “cosmologia” – che potranno, a loro volta, fare spazio e dare luogo a condotte violente. La nostra offerta teorica – assieme a quella di Athens – si propone pertanto come un linguaggio sul senso possibile degli atti violenti, in grado di aprire “orizzonti di visualizzazione” su un fenomeno che spesso rimane opaco e “incomprensibile” dal punto di vista di un osservatore “esterno”. Come ogni linguaggio, una volta messo a punto e appreso correttamente, potrà servire per leggere, interpretare e “comprendere” le parole e i mondi da cui provengono tali atti e che hanno accompagnato i percorsi biografici dei loro autori. La nostra interpretazione – e quella che ognuno di noi, in quanto lettore, 43 In particolare questa attività riflessiva media sempre, e i n modo selettivo, (a) l’“individuo biologico”, lo “slancio vitale” e l ’“I”, (b) le “percezioni” e gli “sfondi prospettici”, (c) le “interpretazioni della situazione”, (d) le “emozioni”, (e) i “desideri”, (f) i “mondi sociali” e ( g) il “tempo”. Vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit. 25 elaborerà “riflessivamente” – potrà appoggiarsi a questo linguaggio, a questa “nuova” grammatica, per “dire” dell’agire violento, ricordando che ciò sarà possibile solo in quella certa misura in cui decideremo di “avvicinare” e “comprendere” l’“altro violento”, non sempre e necessariamente “altro” rispetto a “noi”. Rimandiamo, per il lettore interessato e incuriosito da questi ardui interrogativi, al citato volume Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, nel quale proviamo a “spiegare” un “inaspettato”, un “insensato” – quello che i rrompe nella normalità delle interazioni sociali con la forza disarmante del delitto atroce – ancora così difficile da ascoltare, interpretare e comprendere in tutte le sue molteplici dimensioni di “senso”. 26 Il “dominio” penale come cosmogonia Critica della violenza e “bisogno interiore del diritto” Gabrio Forti 1. Narrare gli “attori violenti” Pochi mesi dopo la pubblicazione in Italia del libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, è a pparsa in Germania un’opera altrettanto cospicua, per dimensioni e contenuti che, sia pure dal punto di vista di un docente di ricerca sociale e l etteratura, non di un criminologo, affronta a s ua volta il tema della violenza e specificamente il rapporto tra “fiducia” e “violenza”. 1 Si tratta di un libro che sviluppa alcune prospettive di cui mi avvarrò proprio per indirizzare l’attenzione su almeno uno dei fili che costituiscono la preziosa e illuminante trama tessuta dal lavoro dei due criminologi italiani L’autore, Jan Philipp Reemtsma, occupa una posizione molto particolare nel panorama culturale tedesco, anche per le sue escursioni, pensate e sofferte, in aree penalistiche e cr iminologiche. Propriamente sofferte, si può dire, se consideriamo il destino di questo docente dell’Università di Amburgo, che alcuni anni or sono fu vittima di un s equestro e trascorse vario tempo in cattività: “in cantina”, come si intitola letteralmente l’edizione tedesca del libro (tradotto in Italia da Feltrinelli) che racconta quella dolente esperienza. 2 1 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, Pantheon, Hamburg 2008. Jan Philipp Reemtsma, Im Keller, Rowohlt, Hamburg 1997; tr. it. Chiuso dentro. Dalla cantina di un sequestro. 33 giorni di lucida angoscia, Feltrinelli, Milano 1998. 2 27 I temi cosiddetti vittimologici sono del resto ricorrenti nei suoi scritti, che annoverano anche un volume in argomento, composto a quattro mani con il noto penalista tedesco Winfried Hassemer. 3 Si tratta di un testo nel quale vengono presentate, con equilibrio ed efficacia, sia le luci, sia le molte ombre che accompagnano la “riscoperta” della vittima nelle scelte (ma sarebbe meglio dire: nella presentazione pubblica delle scelte) politico-criminali: da una parte, per esempio, il fecondo recupero di nuove prospettive di giustizia conciliativa-riparativa; dall’altra, però, il rischio sempre incombente che il richiamarsi ai diritti della vittima promuova una crescente privatizzazione della tutela penale, faccia da puntello a u na visione retributiva-vendicativa della pena e, con essa, all’adozione di misure repressive illusoriamente rassicuranti per collettività assillate dalla “paura del crimine”. Lungo questa china, le vittime, effettivamente o potenzialmente esposte alle offese criminali, si vedono colpite da un’offesa ulteriore e n on meno dolorosa: quella a esse portata dalle stesse politiche criminali contemporanee, intente soprattutto a farne un uso simbolico, propizio a esibirne nel modo più plateale possibile la capacità di “stabilizzazione della psiche sociale”. 4 In Vertrauen und Gewalt, l’ultima 5 e recente opera di Reemtsma dedicata alla violenza, gli elementi di affinità con il pregevole libro di cui intendo discutere, Cosmologie violente, non si arrestano certo alla scelta dell’argomento principale. C’è una comune cifra stilistica, innanzitutto. Entrambe le opere intercalano alla trattazione propriamente scientifica o comunque speculativa ampi testi narrativi, che in Reemtsma sono pressoché esclusivamente letterari, nell’opera di Ceretti e N atali, prevalentemente cinematografici o t ratti dalle deposizioni dei soggetti intervistati. Il libro di Reemtsma si chiude con un cammeo dedicato al personaggio dell’Amleto shakespeariano, Polonio, e al la sua particolare forma di “stupidità moderna”. In Cosmologie violente il capitolo propriamente conclusivo dell’opera 3 Winfried Hassemer e Jan Philipp Reemtsma, Verbrechensopfer. Gesetz und Gerechtigkeit, C.H. Beck, München 2002. 4 Per una ricapitolazione di alcuni motivi e implicazioni della cosiddetta “riscoperta” della vittima in criminologia e in politica criminale, rinviamo a Gabrio Forti, L’immane concretezza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 252 e sgg.; Karl-Ludwig Kunz, Kriminologie, Haupt, Bern-Stuttgart-Wien 20085, pp. 306 e sgg. 5 Si veda già, dello stesso autore, Die Gewalt spricht nicht. Drei Reden, Reclam, Stuttgart 2002. 28 (prima della Postilla epistemologica) sceglie come sue battute finali il Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij. Inutile dire che in entrambi i volumi questa scelta di annodare narrazione e co ncettualizzazione è tutt’altro che un vezzo ornamentale, ma si lega finemente all’ispirazione di fondo che, specie in Cosmologie violente, è di sottrarre una materia come quella del crimine violento alla massiccia stereotipizzazione cui essa è assoggettata non solo sul palcoscenico mediatico, ma nella stessa criminologia. Il risultato è di far ri-scoprire e ri-vedere le singolarità umane dell’autore violento e dei fatti che abbia perpetrato, solitamente sacrificate da quella standardizzazione funzionale a un certo “discorso politico-criminale” che, come detto, possiamo vedere all’opera con non minore zelo, anche se in veste più subdolamente rispettabile, nei confronti delle stesse vittime. La densa rete di fili narrativi che si intreccia alla trama saggistica sembra dunque recare alla materia scientifica l’apporto che Susan Sontag riconosce agli scrittori e alle narrazioni: quello di “combattere i cliché che amplificano la nostra separatezza, la nostra differenza, perché gli scrittori sono creatori, e non soltanto trasmettitori, di miti”. 6 7 Come osserva Adriana Cavarero, ogni racconto narra di quel destino “totalmente impadroneggiabile e unico per ogni essere umano, che Hannah Arendt chiama daimon”, ed è ciò cui allude Karen Blixen quando parla della convinzione che “alla fine, c’è probabilmente qualcosa per ogni individuo a cui egli non può rinunciare [...] la ‘vita’ ne è il prezzo”; “che lo si chiami daimon o destino, oppure semplicemente qualcosa, si tratta dunque di quel disegno irripetibile che ogni vita traccia col suo percorso: non un ruolo da interpretarsi e tantomeno una sostanza nascosta da incarnare, bensì la figura totalmente apparente – e posteriore agli eventi – di un’esistenza unica che suggerisce un’unità”. Susan Sontag, At the Same Time, Farrar, Straus, and Giroux, New York 2007; tr. it. Nello stesso tempo, Mondadori, Milano 2008, pp. 168; 186. 7 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 2007, p. 180. 6 29 2. La rimozione moderna del carattere comunicativo della violenza e il suo recupero “cosmologico” Nella sua analisi della fenomenologia della violenza, Reemtsma distingue una violenza “locativa” o, se vogliamo, “dislocativa” (lozierende Gewalt), “che non si indirizza al corpo in quanto tale, ma mira al corpo dell’Altro per determinarne la collocazione spaziale”,8 una “violenza raptiva” (raptive Gewalt), che mira al possesso del corpo, per lo più a f ini sessuali; 9 e, infine, quella che viene detta la “violenza autotelica” (autotelische Gewalt), diretta alla distruzione dell’integrità del corpo, che costituisce una componente essenziale, presente in ogni forma di violenza.10 In Cosmologie violente, è “il costante rimando alla corporeità a restituire una capacità selettiva al concetto di violenza, che grazie a esso guadagna una maggiore definizione”, ponendosi al riparo da sempre possibili 11 “manomissioni”. C’è uno snodo centrale del libro di Reemtsma da cui vorrei prendere spunto nella mia riflessione, soprattutto perché esso mi offre la guida iniziale per lo scorrere di un’analisi che intende riguardare il tema della violenza soprattutto dal punto di vista del diritto (in specie penale) e del la politica criminale. Reemtsma muove dall’idea che nessuna azione umana sia semplicemente strumentale, ma che in essa entri sempre in gioco un momento comunicativo: “c’è sempre qualcosa che attira il soggetto al fatto [Tat], non solo al fatto violento, e ciò che attira non è mai solo un’utilità. Ogni fatto è a nche un’informazione trasmessa sul soggetto, con la quale si dice chi egli è e chi vuole essere […]. Ogni azione umana ha un aspetto 12 comunicativo”. Con la sua azione, e dunque anche con la sua azione violenta, il soggetto chiama in causa un terzo, si rivolge a questo terzo, reale o immaginario. Qui si manifesta il carattere “sociale” della violenza, che “può dunque essere compresa come azione sociale, solo se intesa nell’ambito di una costruzione triadica, poiché essa diviene 8 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 108. Ivi, p. 113. 10 Ivi, pp. 116 e sgg. 9 11 12 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 51. Cfr. Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 107. 30 agire sociale solo come atto di comunicazione”.13 E “ciò che la violenza comunica è la sua dimensione autotelica”. 14 Al di là degli avvertibili echi provenienti da una vasta tradizione di pensiero (si potrebbero evocare, tra i tanti, Talcott Parsons, Niklas Luhmann, Jürgen Habermas), è interessante il rilievo della diffusa tendenza, non solo istituzionale, ma anche culturale e scientifica (per esempio sociologica) alla negazione di un tale carattere comunicativo della violenza e, quindi, della sua dimensione sociale. Una operazione “negazionistica” che nella modernità mirerebbe soprattutto a preservare e consolidare la fiducia sociale. Sarebbe infatti proprio dalla dimensione sociale della violenza a derivare una messa in discussione del monopolio statuale della violenza, che costituisce una delle basi fondamentali in cui si inserisce la fiducia individuale nella e della modernità, indispensabile a s ua volta per bilanciare la portata disgregante propria dell’altra caratteristica del moderno, che è la differenziazione dei ruoli sociali (come avrebbe detto Durkheim: la divisione del lavoro), e per ricomporre la coesione che tale differenziazione tende a spezzare. Questo meccanismo di rimozione o ne utralizzazione del carattere comunicativo della violenza si manifesterebbe in particolare attraverso il diritto penale, il cui senso principale è i dentificato da Reemtsma, appunto, nella “delimitazione della funzione comunicativa della violenza”: il processo penale moderno costituirebbe allora un momento essenziale di “esclusione del terzo”, ossia di isolamento dell’attore violento dal terzo cui sempre la sua azione è almeno in parte rivolta, con ciò realizzando appunto una deprivazione del carattere comunicativo del suo atto. 15 Con richiami luhmanniani, 16 si afferma così che, attraverso il processo, il delitto viene “depoliticizzato” e il conflitto che esso produce “neutralizzato politicamente”, impedendosi così che, attraverso “meccanismi di generalizzazione”, problemi specifici divengano “punti di cristallizzazione di fronti conflittuali, in grado di separare più larghi strati della popolazione”.17 Si afferma allora, per esempio, che i 13 Ivi, p. 467. Ivi, p. 476. 15 Ivi, p. 486. 16 Niklas Luhmann, Legitimation durch Verfahren, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, p. 122; tr. it. Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Giuffrè, Milano 1995. 17 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 487. 14 31 processi di Norimberga avrebbero impedito al genocidio di configurarsi come “un messaggio”, e i n ciò risiederebbe “la significatività dell’intervento civilizzatorio” che essi hanno realizzato 18 (senza peraltro che sia riuscito loro di cancellare la contraddizione tra i genocidi del Novecento e la promessa moderna di un futuro senza violenza). 19 Il senso stesso della cosiddetta prevenzione generale positiva per Reemtsma deriverebbe proprio da questa direzionalità a rimuovere “il terzo” (e dunque la dimensione comunicativa e s ociale) dall’atto criminale. 20 Si potrebbe aggiungere, con specifico riferimento alle teorie “espressive” della pena,21 che lo Stato si assuma, insieme al monopolio della violenza, il “monopolio espressivo”, togliendo significatività, attraverso il processo o comunque il rito penale, all’atto violento individuale, collettivizzando e reindirizzando, per così dire, una tale espressività nella direzione tendenzialmente unica del giudizio di riprovazione sociale rivolto nei confronti del fatto criminale e del suo autore. In un tale meccanismo di narrazione “ufficiale” della violenza, non è peraltro difficile vedere in atto – come si dirà più avanti – anche una rimozione e distrazione dall’orizzonte comunicativo della violenza originaria, ossia dalla violenza del diritto e, il che è lo stesso, di quella del Politico. Una violenza cui si vuole sovrapporre la violenza puramente individuale, avulsa dai mondi sociali e, ancor prima, dal terzo verso cui si rivolge la sua intrinseca componente comunicativa. 18 Ivi, p. 488. Come ricorda Reemtsma (ivi, p. 487), non s empre peraltro una tale operazione ha successo nei processi a carico di criminali politici: ciò avviene quando essi rinunciano al carattere comunicativo e sociale delle loro azioni, dichiarandosi “innocenti” davanti alle corti internazionali; non così invece quando tendono a rimarcare tale carattere pronunciando dichiarazioni politiche (o magari, come nella esperienza, ben nota in Italia, di processi ad autori di delitti politici, negano la legittimazione delle corti a giudicarli, fino talvolta a rinunciare a ogni difesa legale). 20 Ivi, p. 486. 21 Si rinvia, per ampi richiami e riferimenti bibliografici alle teorie cosiddette espressive, a: Arianna Visconti, Teorie della pena e shame sanctions: una nuova prospettiva di prevenzione o un caso di atavismo del diritto penale?, in Studi in onore di M. Romano, Jovene, Napoli 2011, I, pp. 63 e sgg., tra cui in particolare: Joel Feinberg, The Expressive Function of Punishment, in Antony R. Duff e David Garland (a cura di), A Reader on Punishment, Oxford University Press, Oxford 1994, pp. 73 e sgg.; Sanford H. Kadish, Blame and Punishment, Macmillan, New York 1987, p. 51; Henry M. Hart, The Aims of the Criminal Law, in “Law and Contemporary Problems”, 23, 1958, pp. 404 e sgg. 19 32 Il processo penale costituisce comunque solo lo sbocco finale di un’operazione culturale avviata ben prima del suo svolgimento e già pervasivamente diretta al medesimo scopo di “allontanamento” e “distrazione”. Tale operazione è agita dall’apparato tradizionale di inquadramento e gestione in termini patologici della questione criminale, di cui la criminologia positivista è stata una componente fondamentale, e che ora trova il suo luogo principale nella rappresentazione mediatica (tanto informativa quanto finzionale) del crimine 22 (nel “dominio” penal-mediatico, come si dirà più avanti) e in molta parte di quella “cultura popolare” che vi trova espressione e assecondamento. Nel libro di Ceretti e Natali, del resto, è proprio la mobilitazione dell’idea di “cosmologia” a configurarsi come “un concetto sensibilizzante finalizzato a r estituire senso alle condotte umane (violente) al di là di ogni rigida e formale distinzione fra normalità e sofferenza psichica. Non esiste un gesto violento, un’aggressione fisica, un attacco al corpo, per quanto ‘folle’ e cruento, che non implichi una cosmologia”. Anche la follia omicida atroce sarà spiegata più che come il frutto di un disturbo cerebrale, di una malattia morale, della perdita della ragione, di un invasamento divino, come “esserealtrimenti, come forma autonoma e idiosincratica, ma tutt’altro che priva di senso che aggredisce la congenita vulnerabilità della dimensione corporeo-esistenziale della persona sottoposta al potere 23 globale e totalizzante di un gesto di dominio violento”. Coerente con questo disegno è dunque, nel libro, l’analisi del rapporto tra violenza e malattia psichica. Vi viene respinta “la pretesa che i ‘violenti’ siano per lo più ‘disorganizzati’, i cui atti ‘efferati’ e ‘distonici’ risulterebbero rivelatori di patologie” e si ricorda che “i Per un’ampia trattazione di questi temi, rinviamo complessivamente ai saggi raccolti nel volume: La televisione del crimine, a cura di Gabrio Forti e Marta Bertolino, Vita e Pensiero, Milano 2005. Il tema ha trovato ampia emersione anche nel recente convegno, a cu ra del Centro Studi “Federico Stella”, sulla giustizia penale e la politica criminale dell’Università Cattolica di Milano, Narrazioni della giustizia, giustizia della narrazione, 12 maggio 2011, i cui Atti sono in corso di pubblicazione. Come osservano Ceretti e Nat ali (op. cit., p. 369) “se si guarda dunque ai mass media concependoli quali ‘mondi sociali’ che includono o escludono, uniscono o dividono le persone, risulta chiaro che l’emergere di un sistema di informazioni unico su scala globale, sempre accessibile a tutti, ha avuto profonde ricadute sui diversi gruppi sociali che fino alla sua comparsa erano stati fondamentalmente influenzati – in ogni angolo della terra – dalle loro culture di appartenenza a una classe, a un gruppo etnico e a un’area territoriale”. 23 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 320. 22 33 principali studi di ricercatori assai autorevoli convergono nell’affermare che, pur esistendo una moderata ma significativa associazione tra violenza e disturbo mentale, essa non è ‘creata’ dalla malattia, ma in qualche modo è un a caratteristica temperamentale o della personalità che pre-esiste alla malattia stessa e, in tale 24 condizione, non è più controllabile”. Si tratta del resto di immunizzarsi da “movimenti espulsivi”, di non “tornare a cadere in quella trappola che considera chi ha commesso delitti brutali come inevitabilmente ‘altro’. In costoro parla e ha il sopravvento qualcosa che esiste anche in noi e che possiamo riconoscere: il male, appunto. In ‘loro’ agisce ‘[...] quella stessa parte cattiva e malvagia’ che esiste in ogni persona e che drammaticamente li unisce a noi nello stesso momento in cui disperatamente li vogliamo allontanare, etichettandoli 25 come ‘diversi’, ‘malati’, ‘mostruosi’”. È anche all’interno di questa prospettiva che si svolge il filo narrativo comune ai due testi che sto qui accostando. La narrazione vuole restituire il discorso comunicativo originario della violenza, affrancato dalla rimozione penale-mediatica. La storia raccontata dalla letteratura è una storia singolare, che si deve a qualcuno – lo scrittore – “che presta attenzione al mondo”, 26 “e perciò cerca di capire, di assimilare la malvagità di cui sono capaci gli esseri umani, senza 24 Ivi, p. 324. Per una attenta analisi dell’opera di Ceretti e Natali alla luce delle categorie penalistiche del dolo e dell’imputabilità, cfr. Pierpaolo Astorina, Spunti per una lettura interazionistica del dolo e dell’imputabilità, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, n. 4, 2010, pp. 1849 e sgg. 25 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 379. Susan Sontag, Nello stesso tempo, cit., pp. 168, 186: “La letteratura si potrebbe descrivere come la storia del modo in cui gli uomini rispondono a ciò che è vivo e a ciò che è destinato a morire, man mano che le culture si evolvono e i nteragiscono l’una con l’altra. Gli scrittori possono fare qualcosa per combattere i cliché che amplificano la nostra separatezza, la nostra differenza, perché gli scrittori sono creatori, e non soltanto trasmettitori, di miti. La letteratura non offre soltanto miti, ma anche contro-miti, così come la vita offre controesperienze – esperienze che rimettono in gioco ciò che credevamo di pensare, di sentire, o di credere. Uno scrittore, a m io parere, è qualcuno che presta attenzione al mondo. E perciò cerca di capire, di assimilare la malvagità di cui sono capaci gli esseri umani, senza essere corrotto – reso cinico, o superficiale – da tale comprensione. La letteratura può dirci come è fatto il mondo. La letteratura può offrire i modelli e trasmetterci conoscenze profonde, incarnate nel linguaggio e nella narrazione. La letteratura può allenare e tenere in esercizio la nostra capacità di piangere per chi non è uno di noi, per chi non è simile a noi. Cosa saremmo se non potessimo provare simpatia per chi non è uno di noi, per chi non è simile a noi? Cosa saremmo se non riuscissimo a dimenticare noi stessi, almeno parte del tempo? Cosa saremmo se non fossimo capaci di imparare? Di perdonare? Di diventare diversi da quelli che siamo? Raccontare una storia vuol dire: è questa la storia importante. Vuol dire ridurre l’estensione e la simultaneità del tutto a qualcosa di lineare, a un tragitto. Essere un individuo morale significa prestare, essere obbligato a prestare, un certo tipo d’attenzione. Quando esprimiamo giudizi morali, non stiamo semplicemente affermando che una cosa è migliore di un’altra. Stiamo affermando, in modo ancor più fondamentale, che una cosa è più importante di un’altra. Ordiniamo la vertiginosa estensione e la simultaneità del tutto, a c osto di ignorare o voltare le spalle a g ran parte di ciò che accade nel mondo. La natura dei giudizi morali dipende dalla nostra capacità di prestare attenzione: una capacità inevitabilmente limitata, i cui limiti si possono, però, forzare”. 26 34 essere corrotto – reso cinico, o superficiale – da tale comprensione”: “raccontare una storia vuol dire: è questa la storia importante”. Richiamare la singolarità, attraverso il racconto, avvicina e non allontana l’Altro, perché è attraverso la percezione del senso unico di ogni destino che c i si sottrae alla “categorizzazione”, tanto clinica quanto giudiziaria, 27 e coglie una comune umanità, data appunto, paradossalmente, dalla diversità di ognuno, specchio della sua e della nostra libertà, della sua e della nostra possibilità di infinita metamorfosi. “Ognuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo, e il mondo è prezioso perché è pieno di tali centri. Questo è il senso della parola uomo: ognuno un centro a fianco di innumerevoli altri, i quali lo sono quanto lui.” 28 Tutto questo diviene allora il presupposto per il recupero, attraverso un’attenzione alle cosmologie individuali (e, dunque, anche alla dimensione comunicativa della violenza) di un’antropologia del male, proprio come nella sua Lettera a un Presidente (indirizzata al 29 presidente della Repubblica Ceca Václav Havel nel 1995), si sforzava di fare lo scrittore Iosif Brodskij. Nell’invitare il suo illustre Cfr. Adolfo Ceretti, Come pensa il Tribunale per i minorenni, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 33 e sgg.: “Se si segue il percorso tracciato da queste parole si può andare ben oltre, e pensare al giudice quale portavoce autorizzato a compiere, tra l’altro, anche un atto di comunicazione particolare: quello di intervenire in quella complessa operazione che conduce a significare a qualcuno la propria identità. Il giudice infatti impone sempre un nome (‘condannato’, ‘prosciolto’, ‘immaturo’, ‘maturo’, ‘capace’, ‘incapace’, ‘responsabile’, ‘non responsabile’, ‘imputabile’, ‘non imputabile’, ecc.), che è anche un’essenza sociale, dichiarandolo innanzi a tutti, e attribuisce così con autorità una qualità ad un determinato soggetto. Siamo di fronte a un atto di categorizzazione (in greco kategoresthai significava appunto accusare pubblicamente) che tende a p rodurre ciò che esso designa. Ma spesso l’atto di comunicazione-categorizzazione va ben oltre questi confini. Con il pretesto di ‘spiegare’ un fatto di reato si tende difatti a giudicare in modo sempre più ricorrente gli ‘istinti’, i ‘ complessi’, i ‘disadattamenti’, gli ‘effetti dell’ambiente’ riguardanti il reo. Il primo esito di tale operazione è quello di far sì che alcuni fatti biografici vengano ritagliati e tradotti in giudizi di valore travestiti da anamnesi psicologiche; il secondo effetto è che il magistrato, oltre che un giudizio sulla colpevolezza arriva a formulare un apprezzamento di normalità e una prescrizione tecnica per una possibile normalizzazione”. 28 Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 325 (che cita Elias Canetti, La coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1976, p. 84): “il senso delle ‘esperienze’ di ciascuno è sempre personale: È un’adesione alla vita, forma del desiderio e trama di risonanze che ‘significano qualcosa’ solo per me” (qui la citazione è d a Paolo Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Carocci, Roma 2008, p. 177 ed entrambe seguono a un brano tratto dal film Pulp Fiction). 29 La lettera, pubblicata sulla “New York Review of Books”, fu scritta in risposta a una conferenza di Václav Havel apparsa il 27 maggio 1993 sulla medesima rivista ed è ora pubblicata in traduzione in Iosip Brodskij, On Grief and Reason, Farrar, Straus, and Giroux, New York 1997; tr. it. Profilo di Clio, Adelphi, Milano 2003. 27 35 interlocutore a s ottrarsi alla “comoda” 30 identificazione, nel passato dell’Europa orientale, di un problema di comunismo o altri -ismi (che sempre suggeriscono “l’estraneità di un f enomeno”), e a vedervi piuttosto una caduta antropologica, 31 “un problema umano, un problema della nostra specie, e qui ndi di natura costante”, Brodskij faceva appello proprio alla sensibilità di scrittore di Havel. Lo scrittore dovrebbe infatti raccogliere la sollecitazione a non “usare una terminologia che oscura la realtà del male nell’uomo – una terminologia, vorrei aggiungere, inventata dal male per nascondere la sua vera identità”. La critica di questa “terminologia” coincide ampiamente con la critica della più generale tendenza del moderno a costruire in termini razionali la violenza. Una tendenza, come scrive Reemtsma, avallata Ivi, p. 209: “A tutt’oggi, la parola ‘comunismo’ risulta comoda, perché un -ismo suggerisce un fait accompli. Nelle lingue slave specialmente, un -ismo, come lei sa, suggerisce l’estraneità di un fenomeno, e quando la parola che contiene l’-ismo denota un sistema politico, il sistema è percepito come un’imposizione. È vero, il nostro -ismo particolare non è stato concepito sulle rive del Volga o della Vltava, e il f atto che lì s ia fiorito con straordinario vigore non rivela l’eccezionale fertilità del nostro suolo, perché è fiorito con uguale intensità a differenti latitudini e in zone culturali estremamente diverse. Il che suggerisce non tanto un’imposizione quanto le origini organiche, per non dire universali, del nostro -ismo”. [...] “Così come sarebbe davvero scomodo – specificamente per i cowboy delle democrazie industriali occidentali – riconoscere nella catastrofe che si è v erificata sul territorio degli indiani d’America il primo grido della società di massa: un grido, per così dire, dal futuro del mondo, e riconoscerla non solo come un -ismo ma come una voragine che si è spalancata improvvisamente nel cuore umano, a inghiottire onestà, compassione, civiltà, giustizia, e che, una volta saziata, ha presentato al pur sempre democratico esterno una superficie monotona, ragionevolmente perfetta”. [...] “I cowboy, però, odiano gli specchi, non fosse altro perché in essi potrebbero riconoscere gli indiani arretrati più prontamente di quanto farebbero guardandosi intorno. Per cui preferiscono montare i loro alti cavalli, scrutare gli orizzonti senza indiani, deridere l’arretratezza degli indiani, e d erivare un enorme conforto morale dall’essere considerati cowboy – anzitutto dagli indiani stessi”. 31 Ivi, pp. 209 e sgg.: “Perché non cominciamo semplicemente ad ammettere che nel nostro mondo, in questo secolo, si è verificata una spaventosa caduta antropologica, indipendentemente da chi o da che cosa l’abbia scatenata? Una caduta tale da coinvolgere masse che agivano per il proprio interesse e che, mentre lo facevano, riducevano il loro comun denominatore a una moralità infima? E che l’interesse personale delle masse – la stabilità della vita e i suoi standard, ugualmente ridotti – è stato ottenuto a sp ese di altre masse, benché numericamente inferiori? Da qui il numero dei morti. È comodo trattare queste cose come un errore, come un’orrenda aberrazione politica, magari imposta a esseri umani da un a nonimo altrove. È anche più comodo se quell’altrove porta un ve ro nome geografico o un nome che suona straniero, le cui lettere oscurano la sua natura assolutamente umana. È stato comodo costruire flotte e difese contro quell’aberrazione – come è comodo smantellare quelle difese e quelle flotte ora. È comodo, voglio aggiungere, riferirsi oggi a q uelle cose in modo civile, Signor Presidente, da un pulpito, anche se non metto in dubbio neppure per un istante la schiettezza della sua civiltà che, sono convinto, è la sua vera natura. È stato comodo avere a portata di mano un esempio vivente di come non far funzionare le cose a questo mondo, e dotare tale esempio di un -ismo, come è comodo dotarlo oggi di know-how e di un ‘post-’. (E si può facilmente immaginare il nostro ismo, impreziosito dal suo post-, entrare comodamente, sulle labbra dei cretini, nel porto del futuro)”. 30 36 anche dagli storici, che in tal modo cercano di preservare la fiducia in se stessa della modernità, ma allo stesso tempo impediscono di imparare dalle catastrofi del Novecento e di imparare in particolare quanto la violenza non sia semplicemente un mezzo sbagliato, ma sia una forma di comunicazione. 32 3. Il “dominio” penale-mediatico Dagli “incroci riflessivi” tra le due intense interpretazioni del tema della violenza qui considerate, vorrei trarre alcuni spunti di analisi del libro di Ceretti e Natali: certo solo una minuscola frazione di quelli che potrebbero snodarsi attraverso il ricchissimo, per molti versi inesauribile, repertorio di studio offerto da quest’opera. Mi soffermo innanzitutto su un aspetto, che mi pare assai significativo. Nel momento in cui l’attore violento parla con la “comunità fantasma”, non sta semplicemente sviluppando un discorso interiore con le sue figure di riferimento, ma adatta ai mondi sociali ciò che di violento fa, ha f atto o si accinge a fare. La comunità fantasma con cui dialoga è a nche un mezzo comunicativo con l’esterno, con l’ambiente umano di cui si serve l’agente o nel cui contesto la sua condotta si inserisce. È chiaro che qui non aggiungo niente a ciò che già si dice nel libro, quando ci si riferisce al “processo dinamico attraverso il quale uomini e donne, sotto quell’ampia volta delineata dall’interazione vivente fra sé e i mondi sociali abitati, si determinano fino a seguire linee violente d’azione”: un processo che è articolato nei movimenti di una attività riflessiva “che si inanella e s i compenetra nel flusso continuo del soliloquio/conversazione interiore”, che media “sempre, e in modo selettivo, (1) l’‘individuo biologico’, lo ‘slancio vitale’ e l’‘I’, 33 (2) le ‘percezioni’ e gli ‘sfondi prospettici’, (3) le ‘interpretazioni della situazione’, (4) le ‘emozioni’, (5) i ‘desideri’, (6) i ‘mondi sociali’ e (7) il ‘tempo’, facendo convergere e co ncentrando questo pluriverso 32 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 450. Nel lessico dell’interazionismo meadiano, l’“I” “rappresenta l’impulso ad agire dell’organismo, che non può essere conosciuto in anticipo in quanto si concreta solo nel momento della realizzazione dell’atto stesso. L’azione dell’‘I’ [...] è qualcosa la cui natura non possiamo definire in anticipo”. Tutta la nostra individualità proviene dall’I, “che è il serbatoio del nostro ‘senso di libertà e di iniziativa’” (Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 108) 33 37 nel punto in cui si attivano alcune condotte (incluse quelle distruttive)”. 34 In questo contesto, uno dei “movimenti”, dei “fotogrammi”, è costituito appunto dai “mondi sociali”. L’idea di “causalità processuale” 35 da cui è ispirata la costruzione teorica del libro non può peraltro che configurare un’attività riflessiva nella quale i soggetti non solo ascoltano e recepiscono tali mondi sociali, le culture in cui sono immersi, ma a qu esti mondi si rivolgono, parlano e da essi si attendono un ascolto. 36 Si ha cura infatti di precisare che “le strutture socioculturali influenzano l’agire umano solo attraverso la riflessività interna della persona, la quale deve introdurre i dati del contesto esterno nelle sue strategie e fare i conti con esse [...] Non si tratta di un 37 condizionamento dall’esterno che causi direttamente l’agire umano”. Il percorso di lettura qui proposto, spero non troppo arbitrario, intende raccordare queste considerazioni alla parte iniziale del libro, nella quale si esprime adesione per le pagine del famoso saggio di Walter Benjamin sulla violenza, 38 ritenute “capaci di cogliere proprio quella ‘ambiguità demoniaca’ che lega il diritto alla violenza” e di esprimere una “corrosiva critica del sistema giudiziario”.39 La 34 Cfr. ivi, pp. 342-343. Cfr. per esempio ivi, pp. 255 e sgg. 36 Ivi, p. 366. 37 Ivi, p. 366, con rif. a Pierpaolo Donati, La conversazione interiore. Un nuovo paradigma (personalizzante) della socializzazione, in Margaret S. Archer, La conversazione interiore, Erickson, Gardolo 2006, p. 12. “La riflessività interna è il missing link che opera la mediazione fra le strutture di dominio e il modo in cui, con le nostre deliberazioni, ci collochiamo rispetto a esse: ‘una volta che abbiamo stabilito riflessivamente il da farsi, ossia il tipo di attori che intendiamo diventare, dobbiamo anche farci carico del dato oggettivo rispetto a ci ò che possiamo e ch e non possiamo fare, data la società in cui ci troviamo’”. 38 Cfr. Walter Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II.1, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977, pp. 179-203. Citiamo questa battuta, con cui Benjamin introduce la sua riflessione sulla violenza, nella traduzione italiana: Walter Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1976, p. 9. Su questo saggio, cfr. da ultimo Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, pp. 61-68. In argomento, assai rilevanti sono le riflessioni di Jacques Derrida, Force de loi, Galilée, Paris 1994; tr. it. Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 86 e sgg., in particolare nel passo (ivi, p. 129), in cui si dice che per Benjamin “ciò che fa il valore dell’uomo, del suo Dasein e della sua vita, è il contenere la potenzialità, la possibilità della giustizia, l’avvenire della giustizia, l’avvenire del suo essere giusto, del suo dover-essere giusto. Ciò che è sacro nella sua vita, non è la vita ma la giustizia della sua vita”. 39 Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 34. Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 23 e sgg.: “creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità divina, potere il principio di ogni diritto mitico. Quest’ultimo principio ha un’applicazione estremamente grave di conseguenze nel diritto pubblico. Nell’ambito del quale la fissazione dei confini, come è attuata dalla ‘pace’ di tutte le guerre dell’età mitica, è l’archetipo della violenza creatrice di diritto. In essa appare nel modo più 35 38 riflessione benjaminiana trova infatti il suo “focus tematico” nella “relazione tra violenza, giustizia e diritto, questi ultimi intesi come gli ambiti in cui si definiscono quei rapporti morali all’interno dei quali una causa agente può essere detta violenta”.40 Particolarmente illuminante in proposito mi pare il passo del libro di Ceretti e Natali in cui si esprime l’esigenza di “osservare/registrare, senza rimanerne accecati, la ‘cosmogonia’ di quel percorso che trasforma la violenza originaria – in-fondata e in-giustificata – in forza legittima. È quando il singolo ‘rinuncia’ a vendicarsi spontaneamente e inizia a riconoscere l’autorità del sovrano che la ‘legge’ marca la perdita di un ‘prima’ spazio/temporale – contrassegnato dall’assenza dell’ordine della rappresentanza politica – e acquisisce la forza di regolamentare le relazioni umane – e finanche la morte, per mezzo della pena capitale. Nel viraggio dalla violenza ‘fondatrice’ a quella ‘conservatrice del diritto’,41 la prima viene sepolta, celata dietro le quinte dell’apparato giudiziario. La seconda può, a partire da u n momento preciso, opporsi a vi olenze individuali e/o collettive che minacciano lo stesso diritto”.42 Richiamandosi qui, come anche in chiaro che è il potere (più del guadagno anche più ingente di possesso) che deve essere garantito dalla violenza creatrice di diritto. Dove si stabiliscono confini, l’avversario non viene semplicemente distrutto; anzi, anche se il vincitore dispone della massima superiorità, gli vengono riconosciuti certi diritti. E c ioè, in modo demonicamente ambiguo, pari diritti: è la stessa linea che non deve essere superata dai due contraenti. Dove appare, nella sua forma più temibile e o riginaria, la stessa mitica ambiguità delle leggi che non possono essere ‘trasgredite’, e di cui Anatole France dice satiricamente che vietano del pari ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti” (ivi, pp. 25 e sgg.). 40 Fabrizio Desideri e M assimo Baldi, Benjamin, cit., pp. 61 e sgg. Cfr. anche Axel Honneth, Eine geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen. Zu Benjamins “Kritik der Gewalt”, in Axel Honneth, Pathologien der Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007, pp. 112 e sgg. 41 Per Benjamin nel tempo presente la violenza può essere tematizzata solo in due forme strettamente connesse all’istituzione giuridica, ossia quella della Rechtsseztung (la posizione, la creazione del diritto), e la Rechtserhaltung (la conservazione del diritto). E la sua idea è che il diritto non sia separato dalla violenza perché esso dipende dalla minaccia e dalla inflizione della violenza necessarie sia per la sua istituzionalizzazione, sia per la sua riproduzione. “La funzione della violenza nella creazione giuridica è […] duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue, ciò che viene instaurato come diritto, come scopo con la violenza come mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto, col nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e n ecessariamente legato ad essa. Creazione di diritto è creazione di potere, e i n tanto un atto di immediata manifestazione di violenza”; “la legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice indebolisce, a l ungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa” (Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 23, 27). 42 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 34. “Questi passaggi rivelano, però, un’opacità che è ben rappresentata dall’ambiguità del termine Gewalt, che, come avverte Renato Solmi in una nota della sua curatela del testo di Benjamin, sta a indicare, in tedesco, tanto ‘violenza’ quanto ‘autorità’, ‘potere’: il gesto violento che interrompe lo stato di natura fonda in un preciso 39 precedenza, a Derrida, gli autori concludono che “il diritto tende a rimuovere la violenza che lo precede”, visto che “essa ricompare come sintomo nella violenza conservatrice. Tutto ciò mostra che il concetto di violenza appartiene al diritto e che il diritto è inseparabile dalla violenza”. 43 La questione su cui vorrei (sia pure solo per accenni) soffermarmi non riguarda allora solo o tanto la “‘cosmogonia’ di quel percorso che trasforma la violenza originaria – in-fondata e in-giustificata – in forza legittima”, quanto il rapporto che potrebbe ricostruirsi tra il risultato di questa cosmogonia, ossia appunto “la forza divenuta legittima”, e un’altra cosmogonia: quella da cui deriva la generazione delle cosmologie violente (o non violente) nel singolo attore. C’è insomma da interrogarsi sul significato per cui nel tempo presente la violenza 44 può “essere tematizzata solo nella forma del diritto” (e quindi, della politica del diritto e d ella politica criminale, che è poi il cuore più espressivo della politica). Io credo che un primo passaggio per comprendere questa tematizzazione possa essere compiuto facendo ricorso alla categoria del “dominio”,45 secondo la lettura athensiana riferita nel libro, e alla sua applicazione in particolare al diritto, pensato in modo connesso alla violenza e alla assunzione del suo monopolio. La prospettiva processuale e circolare dei nessi causali e dei vettori di forza che possono legare diverse entità orienta gli autori del libro verso la considerazione secondo cui “esercitare il dominio comporta […] l’assunzione cosciente/consapevole del ruolo altrui, e per farlo occorre avere sviluppato (e utilizzare) il linguaggio”. 46 Ne consegue che il dominio “incorpora nel suo stesso funzionamento la socialità e l’assunzione di atteggiamenti altrui: questi ultimi operano, dunque, istante inaugurale l’‘autorità’, la quale potrà porre validamente la sua norma solo dopo aver trionfato e dopo avere sospeso, occultato la violenza fondatrice. È questo percorso che fa le leggi: ‘Creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza’”. 43 Ivi, p. 34. 44 Cfr. Axel Honneth, Eine geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen, cit., pp. 124 e sgg. 45 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 166: “Tradizionalmente, i s ociologi parlano di dominio riferendosi a un rapporto sociale di sovraordinazione o superiorità che un soggetto individuale o collettivo esercita su uno o più soggetti individuali o collettivi, nell’ambito di un sistema sociale che li comprende, avvalendosi di diverse forme e dosi di ‘potere’, di ‘autorità’: di ‘influenza’ e altri mezzi atti a condizionare 1’agire, 1’orientamento e la coscienza dei dominati”. 46 Ivi, p. 173: “‘Gli animali [...] e tutte le piante possono [così] praticare solo una forma non conscia di dominio’, mancando loro quel ‘linguaggio significativo’ che permette di accedere alla sfera simbolica”. 40 come parte del dominio, piuttosto che indipendentemente da esso. Forse, allora, è proprio perché gli esseri umani parlano e possono comunicare parole significative che superano gli animali nella capacità di dominare, anche con la violenza”. 47 In altri termini, il dominio non potrebbe esercitarsi sui propri oggetti se questi non contribuissero essi stessi a dare forma, anche narrativa, ai linguaggi e ai saperi di cui il dominio si serve “per assoggettarli” a sé.48 “Tutto ciò comporta che coloro che rivestono ruoli subordinati devono sempre assumere gli atteggiamenti di coloro che occupano quelli sovraordinati, e viceversa. Durante la costruzione di un atto sociale complesso, senza una reciproca assunzione di ruoli sovraordinati e subordinati nessuno, infatti, saprebbe cosa fare, e quando farlo.”49 Ci pare dunque, avendo presente la prospettiva benjaminiana del rapporto diritto-violenza, che questa nozione di dominio possa servire come chiave di lettura anche del “dominio giuridico” e, in particolare, del “dominio penale”. Già l’opera di David Garland, con le sue varie ascendenze culturali e scientifiche, ci ha (specialmente come giuristi, non sempre debitamente consapevoli di questa prospettiva “allargata”) resi avvertiti su un’idea – appunto “circolare”, “processuale” – di pena 50 come “istituzione sociale”, inserita “in una rete più ampia di azioni sociali e di significati culturali”, visto che “ogni istituzione è un luogo ben individuato in un più vasto terreno sociale, e s i relaziona costantemente con l’ambiente circostante, influenzandolo ed essendone costantemente influenzata, e mantenendo così un rapporto 47 Ivi, pp. 173-174 Ivi, p. 173: “Athens reputa […] che i rapporti sociali non siano espressione di un ‘ordine delle cose’ strutturato e strutturante che ci precede e ci persuade, ma che si diano sostanzialmente quale esito di un incessante processo interpretativo e di una continua creazione simbolica a opera degli attori sociali. Quest’atteggiamento si riversa totalmente nella definizione che egli elabora di domination: ‘La costruzione di un’azione sociale complessa nel corso della quale alcuni partecipanti […] svolgono ruoli sovraordinati, altri ruoli subordinati, e ciascuno assume gli atteggiamenti altrui’”. 49 Ivi, p. 174: “In tal senso, le regole di condotta riguardanti i ruoli di dominio e di subordinazione, che vengono normalmente apprese in famiglia, a scuola e, più tardi, dai ‘capi’, quando si inizia a lavorare, sono le regole più importanti e incisive nella costituzione delle comunità-fantasma. L’insieme di queste regole identifica ‘chi’ sono i subordinati e ‘chi’ i sovraordinati, e quando e dove ci si deve adeguare ai desiderata dei dominanti”. 50 David Garland, Punishment and Modern Society, University of Chicago Press, Chicago 1993; tr. it. Pena e società moderna, il Saggiatore, Milano 1999, pp. 326 e sgg., che definisce l’“istituzione sociale” i “significati stabiliti collettivamente, con i quali una società tratta i bisogni, le relazioni, i conflitti e i problemi che si presentano quotidianamente e che devono essere gestiti in modo ordinato e normato per consolidare e differenziare, con criteri ragionevoli, i rapporti interpersonali”. 48 41 con il ‘mondo esterno’”, sicché “si dovrebbe imparare a inquadrare il fenomeno tanto nella sua integrità, ossia quale istituzione, quanto nel 51 suo rapportarsi all’esterno, ossia quale istituzione sociale”. Il giuridico in generale, e il giuridico-penale in particolare, non si limitano dunque a imporsi a chi vi è soggetto, ma svolgono il ruolo di formante dell’io, di forza che ricompone il dissolto io moderno e tardo-moderno, imprimendogli la sua forma in modo che sia questa a esigere il diritto, a esprimere un bisogno interiore di diritto. E un tale bisogno, il quale scaturisce dalle dinamiche interazionistiche del dominio penale, si traduce in un bisogno di riduzione dell’io, in una spinta alla ricomposizione dell’io dissolto dentro lo schema, per esempio, della motivabilità all’osservanza, della conformità e della connessa configurazione dei rapporti sociali in termini di torti e ragioni, di obblighi e d iritti, di conformità e devianza. Una configurazione a quel punto pretesa, ambita, come linguaggio e “atteggiamento” operante quale “parte del dominio”. Potremmo dire dunque che il “dominio” del diritto (e, quindi, della penalità), si affermi alimentando il bisogno del diritto, che è un bisogno di sacrificio del corpo, dunque di violenza, quanto meno “autotelica”. Ma l’inscindibilità della violenza dal diritto comporta allora che l’assunzione del linguaggio del diritto si correli a una forma di legittimazione della violenza e, correlativamente, a un bisogno di diritto per comunicare la violenza; una comunicazione, a sua volta e circolarmente, legittimata dal suo rivestirsi di forme giuridiche o paragiuridiche. Questo mi pare allora debba comportare – e qui torniamo a B enjamin e all’ineludibilità di una tematizzazione della violenza nell’epoca moderna – che una critica della violenza debba passare attraverso una critica del diritto o, meglio ancora, di una critica del bisogno interiore del diritto che è indotto dalle forme stesse del diritto. Proprio il censimento e la critica di un crescente “bisogno popolare di diritto” si può dire sia emersa recentemente in modo esemplare (ossia con “la forza dell’esempio” portato grazie all’immaginazione) 52 nelle parole dello scrittore spagnolo Xavier Marías, che ha identificato (prendendo spunto dagli psicologismi 51 52 Ivi, p. 328. Cfr. Alessandro Ferrara, La forza dell’esempio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 71 e sgg. 42 presenti in un recente progetto di riforma spagnolo relativo alle molestie sul lavoro) la tendenza corrente a rivestire di una coltre legalistica i r apporti e i conflitti sociali (tendenza non a caso ricondotta alla deleteria importazione in Europa di modelli culturali statunitensi).53 E una critica a questa crescente e di ffusa operazione “gius-riduzionistica” della complessità delle situazioni e delle relazioni socio-culturali aveva già trovato anni fa una sua magistrale espressione nella lettera già citata di Iosif Brodskij, e in particolare nel passo (non a caso contiguo a quello dedicato alla critica degli “ismi”) in cui lo scrittore russo invitava Václav Havel a governare il suo paese sottraendosi all’“imitazione dei cow-boy”, perché “i cowboy credono alla legge, e riducono la democrazia all’uguaglianza del popolo di fronte alla legge: vale a dire, a una prateria ben pattugliata”. Il suggerimento avanzato dal premio Nobel russo al suo (insolitamente) colto interlocutore politico era di prendere le distanze da una visione legalistica dei rapporti sociali e culturali di impronta americaneggiante e di badare piuttosto alla “uguaglianza di fronte alla cultura”, attingendo gli “imperativi morali” dalla sua biblioteca piuttosto che dai suoi studi giuridici.54 La fulminante contrapposizione brodskijana tra i due modi di intendere la (e tendere alla) uguaglianza, del resto, potrebbe essere Javier Marías, Umiliazione, ostilità e dignità offesa. Se il codice penale diventa psicologo, in “Corriere della Sera”, 28 marzo 2010, p. 32. “Le leggi sembrano spingersi sempre più verso terreni paludosi e materie al di fuori della loro portata. In parte è per colpa dei cittadini di oggi che, seguendo come pecore l’esempio degli Stati Uniti, vogliono che ogni cosa sia regolamentata – mentre non tutto ha motivo di esserlo – e avere la possibilità di fare ricorso ogni volta che sono alle prese con un conflitto, per quanto minimo possa essere. Di fronte a un qua lsiasi inconveniente o di saccordo le persone hanno sempre più la tendenza a ricorrere a una immediata denuncia, senza quasi mai cercare di risolvere le cose da sole, o di dialogare con l’altro sull’oggetto della controversia, per raggiungere un accordo ragionevole. Verbi come ‘cedere’ o ‘accordare’ stanno cadendo in disuso. Le querele contro nuovi reati sono continue, e questo non è che un modo per limitare le libertà e penalizzare quasi tutto, e o vviamente mettere a t acere ogni minima spontaneità della vita. Si rischia una querela in qualunque momento, per ragioni realmente inimmaginabili. Non è raro ritrovarsi coinvolti in un guaio: ‘Accidenti, sembra che abbia infranto la legge, commesso un crimine o un’infrazione’, si dicono molti, perplessi, quando si vedono recapitare una denuncia o una citazione inverosimile. Non si sa mai quando si è oltrepassata la linea rossa. È m olto difficile restare a tutti gli effetti dentro la legalità. Sicuramente avremo violato tutti la legge, sia voi che io”. 54 Corsivi miei. Il brano immediatamente precedente a quello riportato nel testo mostrava una chiara allusione ironica all’allora presidente Ronald Reagan: “Perché non ci sono altri antidoti alla volgarità del cuore umano se non il dubbio e il buongusto, fusi nelle opere della grande letteratura così come nelle sue. Se il p otenziale negativo dell’uomo si manifesta perfettamente nel delitto, il p otenziale positivo si manifesta perfettamente nell’arte. Perché, lei potrebbe chiedere, non avanzo un simile eccentrico suggerimento al presidente del Paese di cui sono un cittadino? Perché non è uno scrittore; e, come lettore, spesso legge porcherie”. 53 43 posta in correlazione con le odierne tendenze politico-criminali, spesso rivelatrici di quello che è stato detto “lo spirito letale” di una visione puramente legalistica e rivendicativa dei rapporti sociali, della 55 fiducia riposta “in una falsa sicurezza”. Riprendendo una formulazione di Élémire Zolla, in Marías e Brodskij si potrebbe leggere una critica del diritto “dotata di senso”, visto che tale è quella che non si rivolga “al diritto stesso, che esprime semplicemente la continuità in se stessa d’una vita sociale, bensì al bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo”. 56 Un bisogno che non è Cfr. Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, a cura di Piergiorgio Donatelli, Carocci, Roma 2006, p. 104, che osserva come nello scrittore Charles Dickens “il senso risvegliato della nostra umanità” sia presente soprattutto nel senso della propria mortalità. “Per Dickens, ciò ha delle connessioni profonde con il vivere bene e con la nostra capacità di creare un mondo sociale decente, connessioni che emergono in molte delle sue storie. In Casa desolata (che riecheggia Amleto) 1’assenza di un senso vivo della propria mortalità è connesso con lo spirito letale del mondo degli avvocati e co n la fiducia in una falsa sicurezza. In Il nostro comune amico il senso della propria mortalità si mostra nello spirito in cui coloro che non provano amore per un uomo, uno s pregevole furfante, possono tuttavia adoperarsi per salvare la sua vita e ar rivare alle lacrime nello sforzo. In Canto di Natale (quarta strofa) c’è questo, detto dell’apparizione di Scrooge morto: ‘Giaceva nella sua casa vuota senza che né uomo né donna né bimbo potessero dire: «è stato buono con me in questa o in quella occasione, e in ricordo di una parola gentile io sarò gentile con lui»’”. Sulle origini del “comportamento stigmatizzante” in particolare nell’“angoscia per la propria debolezza”, nell’incapacità di fare i conti con le proprie paure e i n genere con l’idea che “la perfezione, l’invulnerabilità e il controllo sono aspetti basilari del successo in età adulta”, cfr. il recente libro di Marta Nussbaum, Not for Profit, Princeton University Press, Princeton 2010; tr. it. Non per profitto, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 45 e sgg. 56 Élémire Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, pp. 141 e sgg. “Il Cristo non c ritica il diritto come forza sociale, ma come impulso psichico e q uale regime magico inferiore ed errato dell’interiorità. Si eviti di provare il bisogno di sacrificare l’homo sacer, quale era diventata l’adultera evangelica, pur mantenendo la premessa mistica della monogamia più intransigente. Si c onsideri il bisogno di rivendicare il debito come un legamento magico da cui sciogliersi per essere pienamente liberi e g odere della propria gloria. Si accetti semmai la gara di donativi che si accende con un incontro per emergerne il più ilare donatore, aumentando la propria gloria. Così si perdonino le offese. Ma sussiste il bisogno di sacrificio, questo modo di comunicare col sacro non è el iminabile. Se si ricusa il sacrificio dell’homo sacer e i sacrifici del diritto (i risarcimenti, le pene), come comunicare col divino? Il sacrificio dello stesso Maestro come sostituto e vicario d’ogni vittima e c ondannato fornisce la risposta: la massima sacralità accetta la pena – l’onore (timé) della croce. Questa rivelazione tragica della natura intollerabile del sacro, della profondità abissale celata nella richiesta di giustizia, questa immolazione del più perfetto perché massimamente intollerabile, libera dalla bilancia delle pene e dei diritti. Il sangue di una tale vittima, voluta dalla sentenza massimamente ingiusta e massimamente necessaria, è il lavacro psichico e magico per eccellenza e scioglie dalla sudditanza al diritto. Una pagina di Cécile Bruyère, l’ultima mistica benedettina, illustra questa impresa interiore che può portare all’autonomia magica: ‘Avrete proprio ben progredito quando avrete dimostrato a voi stessi, fino all’evidenza, che c’è stata della durezza, dell’ingiustizia, dell’inquietudine [...]. Che consolazione ve ne può ve nire? A me non farebbe che del male, impedendomi di trarre dalla prova tutto ciò che ha di santificante. Ma, voi direte, questi pensieri mi vengono da soli, invadendomi e soverchiandomi. È vero; ma non credete che ci voglia una certa pulizia in casa propria? Codesti pensieri provengono d’altronde da una radice segreta che è questa: pur accettando la prova, vi attaccate a un apprezzamento umano di essa e serbate un fondo d’amarezza che a tratti rigermoglia. Se 55 44 “dato” una volta per tutte, ma soggetto alla mutevolezza delle contingenze storico-sociali e che, nella forma normativa di riconoscimento57 dell’autonomia individuale, si presta a una manipolazione “ideologica” tanto più pervasiva, in quanto più subdola e incontrollabile. La riflessione sulla violenza di Walter Benjamin sembra poter trovare in particolare un suo attualizzato richiamo per esempio in rapporto alla crescente domanda di autodifesa (armata) da parte del singolo.58 Anche in ambito sociologico 59 la constatazione di una generale debolezza degli apparati statali, specificamente nel contrasto dei crimini commessi con atti di autotutela (per esempio di quelli che vi vengono chiamati “omicidi moralistici”), ossia finalizzati all’esercizio di qualche forma di controllo sociale, ha condotto a conclusioni che, pur senza richiamare testualmente il saggio benjaminiano (“uno dei più significativi documenti” del suo pensiero politico), 60 di questo possono offrire qualche aggiornata lettura. Ci si è così interrogati sulle ragioni di un r icorso tanto vasto a un risentimento espresso in forme così violente proprio in una società come quella americana, nella quale “il diritto è giunto a un tale elevato livello di sviluppo”. 61 Ciò anche in base alla constatazione di come la maggior parte degli omicidi moderni, al pari che nelle “società tribali e tradizionali” (dove spesso l’autotutela in forma violenta non è vietata, ma prescritta come metodo di controllo sociale),62 implichi invece d’essere così divisi soffocaste completamente ciò che non sia fede pura, i pensieri non vi germoglierebbero così a frotte’. Non si saprebbe indicare un metodo più accurato per condurre a termine l’operazione magica di liberazione dal bisogno del diritto”. 57 Tra i differenti modelli di riconoscimento, a ciascuno dei quali “sono correlati specifici potenziali di sviluppo morale e differenti modalità di autorelazione individuale”, v’è quello del diritto: attraverso l’esperienza del riconoscimento giuridico il soggetto “consegue la possibilità di intendere il proprio agire come manifestazione, rispettata da tutti gli altri, della propria autonomia” (Axel Honneth, Kampf um Anerkennung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992; tr. it. Lotta per il riconoscimento, il Saggiatore, Milano 2002, pp. 114 e sgg.). 58 Per una più ampia riflessione sul significato della crescente “domanda di autodifesa”, anche con riferimento alla nuova disciplina italiana della legittima difesa, rinviamo a Gabrio Forti, No Duty to Retreat? Legittima difesa e politiche criminali di “riconoscimento ideologico”, in Studi in onore di Mario Romano, Jovene Editore, Napoli 2011, pp. 297 e sgg. 59 Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, Academic Press, San Diego 1993. Se ne legga anche l’istruttiva recensione di Roberta Senechal de la Roche, Beyond the Behavior of Law, in “Law & Social Inquiry”, vol. 20, n. 3, Summer 1995, pp. 777-785. 60 Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, cit., p. 61. 61 Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, cit., p. 39. 62 Cfr. ivi, p. 28, con vari riferimenti alla letteratura antropologica. 45 “una risposta a una condotta che l’omicida considera deviante”, “una punizione o un’espressione di disapprovazione”.63 Se ne è tratta la conclusione che “nelle società moderne lo Stato ha conseguito solo teoricamente il monopolio dell’uso legittimo della violenza” e c he in realtà la violenza è in piena espansione (specialmente nell’America moderna) e per lo più riguarda cittadini comuni, “che apparentemente considerano la propria condotta un esercizio perfettamente legittimo del controllo sociale”:64 “molte persone ancor oggi ‘prendono la legge nelle proprie mani’ e sembrano ritenere i propri risentimenti come una faccenda privata, che non riguarda la polizia o altre autorità e an zi è ostile all’intervento della legge”. 65 L’attenzione a una prospettiva di causalità circolare e all’idea di un “dominio penale” suggerisce peraltro anche qui di non accontentarsi, per la spiegazione di queste dinamiche, del consueto richiamo di una crescente insofferenza per la regolazione statuale e, in generale, per il diritto. Tutt’al contrario, proprio nella pretesa dei cittadini comuni di prendere la giustizia nelle proprie mani, potrebbe ravvisarsi piuttosto il segno di accresciuto bisogno popolare di diritto, nella forma addirittura di un’aspirazione del singolo ad appropriarsi del “pensare giuridico” e, in ispecie, punitivo, 66 ciò nel tentativo di rimediare a 63 Ivi, p. 31: “Molte delle condotte qualificate e trattate come crimini nelle società moderne presentano somiglianze con le modalità di gestione dei conflitti [...] rinvenibili nelle società tradizionali in tutto o in parte prive di un diritto (nel senso di un controllo sociale pubblico)”. L’affermazione viene corredata da dati statistici sugli omicidi, dai quali risulta che, per esempio, a Houston nel 1969 oltre la metà degli omicidi si è verificata durante un alterco e un altro quarto, asseritamente, per autodifesa o a seguito di una provocazione. Analoghe caratteristiche sono state riscontrate nell’arco di un quinquennio negli omicidi perpetrati a Filadelfia (cfr. Marvin E. Wolfgang, Patterns in Criminal Homicide, Wiley, New York 1966, p. 191). In esito a t ale studio si sono propriamente collocati i crimini violenti “nella stessa famiglia del diritto”, considerato che questi delitti esprimono spesso un “risentimento (grievance)”. Il che comporterebbe “che in un gr ado significativo noi abbiamo la possibilità di predire e spiegare il crimine con una teoria sociologica del controllo sociale, e più specificamente con una teoria dell’autotutela (self-help)” (Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, cit., p. 41). 64 Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, cit., p. 36. 65 Ivi, p. 37. 66 Cfr. Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., pp. 37 e sgg., che sintetizzano la molteplicità di spiegazioni sociologiche del “moltiplicarsi vertiginoso della domanda di diritto”, da mettere in relazione “con la moltiplicazione delle opportunità di conflitto dovute alle profonde trasformazioni sul piano socioeconomico, all’aumento delle comunicazioni, agli scambi sociali, alla crescita del numero di beni in circolazione che hanno favorito il passaggio da un modello universalista ‘geocentrico’, che impone le medesime regole a tutti i cittadini di una data nazione, a un modello giuridico ‘egocentrico’, particolarista, dove ogni soggetto vede regolamentate le relazioni giuridiche che lo riguardano sulla base di un c odice giuridico distinto. Ciascuna professione, ciascun tipo di 46 un’anomia che si presenta come disgregazione delle forme più stabili, durature e profonde di riconoscimento interpersonale. Può essere interessante richiamare a questo proposito uno studio di qualche anno fa67 nel quale si è i nsistito soprattutto, ai fini della spiegazione degli alti tassi di omicidio americani, sul clima culturale orientato a offrire una legittimazione morale all’omicidio, concepito dalla società come risposta moralmente accettabile anche rispetto a lievi provocazioni o “alterchi banali”. “È in particolare nella creazione di un’atmosfera tollerante verso il confronto che la cultura americana incoraggia inconsapevolmente chi appartiene agli strati inferiori a varcare la linea e a r icorrere all’omicidio. È proprio qui che l’ethos dominante desensibilizza la popolazione nei confronti dell’omicidio.” Nella cultura contemporanea delle classi lavoratrici (peraltro ancora legata a “sensibilità pre-moderne”), si è identificata “una attrazione morale e sensuale a fare il male”, a concepire l’omicidio come una “esecuzione ‘giusta’ (ossia morale)”, dalla quale “il rimorso e il rammarico sono largamente rimossi”. 68 Nello studio citato, si è av anzata l’ipotesi che l’enorme differenziale nei tassi di omicidio, in particolare tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, possa derivare da un diverso grado di socializzazione nei due paesi a pr ovare rimorso e vergogna per aver causato la morte di una persona. E che questo dato possa essere desunto dalla frequenza di “autentiche espressioni di rimorso tra gli autori di omicidio”. Si afferma così che in America gli autori di omicidi tendono con maggiore frequenza a descrivere i propri atti “in termini di soddisfazione e g iustificazione, quasi rappresentassero il successo principale, non il fallimento fondamentale delle loro esistenze”. Si rinverrebbe nelle loro parole una “ mistica eroica e maschilista”, contrapposta al persistente rimorso da cui sarebbero perseguitati anche a distanza di anni gli omicidi inglesi. Sarebbero dunque le differenze attività produce ‘suoi’ codici, la ‘sua’ etica, la ‘sua’ deontologia, che funzionano in relativa autonomia nei confronti delle norme generali. Visualizzando questo pluralismo giuridico lo si può intendere composto da una molteplicità di recinti giuridici, il che fuor di metafora significa dei veri e propri schermi protettori per i loro membri, i quali fìniscono però col porre in una posizione molto vulnerabile, senza scudi protettivi, tutti coloro che non ha nno un’appartenenza corporativa e non possono beneficiare di norme particolari volte a proteggere i loro interessi”. 67 Cfr. Elliot Leyton, Men of Blood. Murder in Modern England, Penguin, London 1997, passim e spec. pp. 207 e sgg. 68 Ivi, p. 212, che qui riprende Jack Katz, Seductions of Crime: Moral and Sensual Attractions in Doing Evil, Basic Books, New York 1988, pp. 44, 19, 22, 31, 39. 47 culturali a “regolare” le modalità di legittimazione dei propri misfatti e alla cultura inglese sarebbe riuscito infinitamente meglio rispetto a quella americana di “socializzare le classi inferiori”. Come “prova finale” di una minore soglia della vergogna tra gli autori di omicidi americani, Leyton assume la inferiore percentuale di suicidi tra tali soggetti rispetto agli “omologhi” inglesi. “È quando l’assassino, lungi dall’esultare per il proprio trionfo, o dall’esprimere dolore (finto o genuino), prova di sentire un profondo rimorso suicidandosi” che dimostra di avere interiorizzato pienamente una cultura che ripudia l’omicidio. 69 70 Ceretti e Natali ricordano del resto le interviste fatte a t renta ragazzi della Catalina Mountain School, di Tucson, in Arizona, rivelatrici dell’“attrazione seduttiva esercitata dalle pistole, che per i giovani assume anche dimensioni morali e politico-economiche”:71 “pur percepite come strumenti di morte, esse divengono oggetti di desiderio, attraenti ed erotizzati, per il potere che conferiscono al loro possessore di controllare e dominare l’ambiente di appartenenza”. Se gli omicidi in America restano largamente una prerogativa di uomini appartenenti alle classi socio-economiche inferiori (mentre, secondo uno studio di qualche anno fa, non se ne registrava più del 2,5% nei ceti superiori),72 la questione di fondo resta però in effetti come sia possibile che “le classi medio-alte abbiano così clamorosamente fallito nella capacità di trasmettere segnali di inibizione della violenza verso gli strati inferiori dell’ordine sociale”. 73 Innumerevoli sono gli indicatori del deterioramento delle relazioni sociali e della diffidenza reciproca nella società americana, ma anche 69 Elliot Leyton, Men of Blood, cit., p. 218. A sostegno della propria tesi, Leyton adduce dunque i dati di una ricerca (Donald James West, Murder Followed By Suicide, Heinemann, London 1965) in base alla quale in Inghilterra e Galles metà degli autori di omicidio ha tentato il suicidio (e il 33% con successo), e l’85% delle donne e il 58% degli uomini lo hanno fatto quando hanno commesso un figlicidio) mentre soltanto il 3 -4% degli assassini americani lo hanno fatto (in Canada il 10% e i n Danimarca addirittura il 42%). 70 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 366, con riferimento al lavoro dello statunitense Bernard Harcourt (Language of the Gun, The University of Chicago Press, ChicagoLondon 2006, pp. 7-12). 71 Corsivo mio. 72 Cfr. Edward Green e Russell P. Wakefield, Patterns of Middle and Upper Class Homicide, in “Journal of Criminal Law and Criminology”, 70, 1979, pp. 177-178, citato da Elliot Leyton, Men of Blood, cit., p. 222. 73 Elliot Leyton, Men of Blod , cit., pp. 219 e sgg. 48 in ogni società nella quale in questi anni si sia importato disinvoltamente il credo americano del libero mercato deregolamentato e la cultura dell’irresponsabilità nella gestione delle imprese. Un’ideologia che rappresenta uno dei principali motori dell’accresciuto bisogno di diritto da parte dei singoli e, dunque, di una crescente tendenza alla giuridicizzazione dei rapporti sociali, connessa alla necessità di compensare la mancanza delle gratificazioni provenienti “dalle maggiori fonti di identità, significato e status”74 tradizionalmente sofferta dalle classi lavoratrici (negli ultimi anni particolarmente bombardate, del resto, dalle “armi di distrazione di massa” gestite per conservare il consenso a classi dirigenti intente a smantellare le reti di sicurezza sociale) 75 ma ormai estesasi in misura crescente alle classi medie. Si è richiamata in proposito, come sintomo non banale di un più generalizzato deterioramento delle relazioni sociali, per esempio la popolarità acquisita da quelle vetture (concepite “per la giungla urbana”, non per quella “vera”), che sono i cosiddetti Sports Utility Vehicle (Suv), i cui nomi “evocano le immagini di cacciatori e di persone che vivono all’aria aperta” o “richiamano l’immagine ancora più dura di soldati e guerrieri”. 76 “La popolarità dei Suv nasce non soltanto dal desiderio di darsi un’aria da duri, ma anche da una crescente diffidenza verso il prossimo e dalla necessità di proteggersi dagli altri. Nel saggio Driven to extremes, Josh Lauer si è ch iesto come mai la durezza militare sia oggi più apprezzata della velocità o dell’eleganza delle linee, e si è domandato anche quali inferenze sulla società americana si possano fare dall’ascesa dei Suv. La sua 74 Eric Dunning, Patrick Murphy e John Williams, The Roots of Football Hooliganism: An Historical and Sociological Study, Routledge & Kegan Paul, London 1988, pp. 208-221, citato da Elliot Leyton, Men of Blood, cit., pp. 220 e sgg. 75 Cfr. Paul Krugman, The Conscience of a Liberal, W.W. Norton & Co., New York 2007; tr. it. La coscienza di un liberal, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 170 sgg.: “Un movimento che punta a tagliare le tasse e smantellare lo Stato sociale ha inevitabilmente qualche problema a conquistarsi un consenso di massa. I tagli delle tasse, specialmente del tipo che vogliono gli ultraconservatori, vanno in larga parte a beneficio di una ristretta minoranza della popolazione, mentre un a ssottigliamento della rete di sicurezza sociale colpisce fasce ben più ampie. I finanziamenti e l ’organizzazione possono compensare, in una certa misura, l’impopolarità intrinseca delle politiche di destra, ma per vincere le elezioni gli ultra conservatori devono necessariamente, in linea di massima, trovare il modo per spostare 1’attenzione su altri argomenti. Nel suo celebre libro del 2004, What’s the Matter with Kansas? (Che cosa c’è che non va in Kansas?) Thomas Frank traccia la desolata immagine di un elettorato proletario raggirato senza sforzo e ripetutamente con eventi di secondaria importanza”. 76 Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, The Spirit Level, Bloomsbury Press, London 2009; tr. it. La misura dell’anima, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 69 e sgg. 49 conclusione è che questa tendenza “rispecchia l’atteggiamento degli americani verso il crimine e la violenza, un’ammirazione per il ruvido individualismo e l’importanza di isolarsi dal contatto con gli altri, cioè la diffidenza. […] Come ha osservato un antropologo, ‘guidando un Suv dall’aspetto corazzato e cer cando di intimidire il più possibile i potenziali assalitori’, gli individui cercano di proteggersi dalle minacce di una società dura e diffidente.” 77 4. Al di là della cultura della violenza e del “bisogno interiore di diritto”, lungo la “linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito” La tematizzazione della violenza in rapporto al diritto offre dunque lo spunto per pensare anche giuridicamente la genesi delle “cosmologie violente” e delle “cosmologie” in genere. L’ipotesi qui avanzata è che nella modernità e, ancor più, nella tarda modernità, una società in cui è presente un alto tasso di comportamenti violenti (così come facilmente desumibili dalle statistiche di criminalità) esprima un correlativo forte bisogno di diritto (di diritto penale in particolare), e viceversa. Ciò dunque con una inversione della normale e scontata relazione lineare tra paura del crimine e domanda di protezione giuridica da parte dei cittadini, e suggerendo invece, quanto meno in forma di ipotesi, l’idea che sia proprio l’affidarsi sempre più e sempre più primariamente a questo tipo di protezione all’origine della paura del crimine e, in larga misura, della diffusione dello stesso crimine nelle sue forme violente. Il “bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo” non appare infatti una costante indifferenziata nelle diverse società, ma una variabile che può forse manifestare qualche correlazione con la diffusione e frequenza della “violenza autotelica” (per riprendere la categoria di Come ancora ricordano Wilkinson e Pickett (ivi, p. 70) “in Canada le vendite di monovolumi superano di due volte le vendite di Suv, esattamente l’opposto di quanto accade negli Usa ( e naturalmente in Canada vi sono minori disparità economiche che negli Stati Uniti). L’ascesa dei Suv è stata accompagnata da altri segnali del crescente disagio e della paura dell’altro che caratterizzano la società statunitense: la rapida diffusione delle gated communities e il boom delle vendite di sistemi di sicurezza per la casa. In anni più recenti, a cau sa del brusco aumento del costo della benzina, le vendite di Suv sono diminuite; ma l’immagine da duro va ancora per la maggiore, per cui le vendite di ‘crossover’ più piccole, dall’aspetto resistente, continuano ad aumentare”. 77 50 Reemtsma). Un tale “bisogno” si presenta pertanto come una caratteristica meritevole di autonoma considerazione all’interno della dinamica descritta nel libro e al cosiddetto “sesto fotogramma”, ossia quella del rapporto tra mondi sociali e riflessività. Certamente, come si è osservato, “è la biografia di ciascuno, operante in un ‘presente vivente’ – che include passato, presente e futuro, ricordi e aspettative –, a definire come, con quale estensione e profondità i doveri, le norme, gli status e i ruoli sociali sono internalizzati dal singolo attore sociale”.78 E infatti “ogni mondo sociale, ogni comunità fisica, non è m ai il modello che informa direttamente e con trasparenza la comunità-fantasma di chi li abita. Ed essere ‘autentici’, trovare la chiave della propria ‘autenticità’, non vuol dire seguire pedissequamente 1’orizzonte creato dai modelli imposti dai tipi individuali predominanti che connotano una determinata comunità fisica: non si è ‘se stessi’ semplicemente perché si è abbracciata un’assurda comunità-fantasma prevalente in alcuni ‘mondi sociali’, ma perché si giudicano riflessivamente ‘consistenti’ 79 questi ultimi rispetto alla totalità della propria cosmologia”. Nondimeno ci pare che esista una “forma” giuridica che ogni società conferisce ai mondi sociali di riferimento, da cui è particolarmente influenzato il giudizio riflessivo e l e narrazioni che ognuno individualmente conduce circa la “consistenza” dei mondi sociali “rispetto alla totalità della propria cosmologia”. È anche su questa valutazione di consistenza che si esercita il “dominio penale” e, con esso, il contributo con il quale ognuno dà “forma, anche narrativa, ai linguaggi e ai saperi di cui il dominio si serve ‘per assoggettarli’ a sé”, 80 ossia l’assunzione, da parte di “coloro che rivestono ruoli 78 Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 366: “Ogni individuo è orientato unicamente verso il suo mondo sociale, e la chiave per risolvere il problema del rapporto tra agency e struttura si rinviene in tale relazione cosmologica”. 79 Ivi, p. 367. Cfr. anche p. 333 e nota: “Le narrazioni possono [...] essere considerate come resoconti in cui gli attori sociali rendono le proprie azioni ‘evidenti, razionali e riferibili’, ma al contempo si tratta di pratiche riflessive in quanto profondamente incarnate nei corsi di azione degli individui”; “La narrazione di sé e del proprio mondo è sempre una pratica conoscitiva che consente di fare ordine nella realtà simbolica in cui siamo immersi, dentro a quella infinita rete di relazioni sociali in cui siamo gettati e in cui ci muoviamo in modo unico e non del tutto prevedibile”. 80 Ivi, p. 173: “Athens reputa […] che i rapporti sociali non siano espressione di un ‘ordine delle cose’ strutturato e strutturante che ci precede e ci persuade, ma che si diano sostanzialmente quale esito di un incessante processo interpretativo e di una continua creazione simbolica a opera degli attori sociali. Quest’atteggiamento si riversa totalmente nella definizione che egli elabora di domination: ‘La costruzione di un’azione sociale complessa nel corso della quale alcuni partecipanti […] svolgono 51 subordinati” rispetto a tale dominio, degli “atteggiamenti di coloro che occupano quelli sovraordinati, e viceversa”, visto appunto che, come già ricordato, “durante la costruzione di un atto sociale complesso, senza una reciproca assunzione di ruoli sovraordinati e s ubordinati nessuno, infatti, saprebbe cosa fare, e quando farlo”.81 Naturale del resto sottolineare di nuovo, in relazione a tali dinamiche (ben più di quanto avesse la possibilità di farlo alla sua epoca Walter Benjamin), il ruolo rilevante svolto dai mass media.82 Un ruolo ben rimarcato del resto da Ceretti e Natali, dove si ricorda che “le più importanti trasformazioni sociali, economiche, culturali, politiche e t ecnologiche avvenute nella seconda metà del XX secolo contemplano la ‘rivoluzione’ prodotta nelle relazioni sociali e nel le sensibilità culturali dall’invenzione dei mass media elettronici, e in particolare dalla televisione”.83 Infatti “i media elettronici contribuiscono a ridefinire alcuni processi di socializzazione e di violentizzazione. In riferimento alle comunità-fantasma violente, infatti, le immagini, i mondi, i personaggi reali o quelli immaginari ruoli sovraordinati, altri ruoli subordinati, e ciascuno assume gli atteggiamenti altrui’”. 81 Ivi, p. 174: “In tal senso, le regole di condotta riguardanti i ruoli di dominio e di subordinazione, che vengono normalmente apprese in famiglia, a scuola e, più tardi, dai ‘capi’, quando si inizia a lavorare, sono le regole più importanti e incisive nella costituzione delle comunità-fantasma. L’insieme di queste regole identifica ‘chi’ sono i subordinati e ‘chi’ i sovraordinati, e quando e dove ci si deve adeguare ai desiderata dei dominanti”. 82 Ivi compresi, negli ultimi anni e specialmente per la popolazione giovanile, i videogiochi. Sulla questione relativa agli effetti della fruizione di videogiochi a contenuti violenti, si veda la recente, discutibile, sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (Brown V. Entertainment Merchants Assn., No. 08-1448. Argued November 2, 2010, Decided June 27, 2011), pronunciatasi in merito alla costituzionalità di una legge californiana (Cal. Civ. Code Ann. §§1746.1[a], 1746) che vietava la vendita o il noleggio di videogiochi violenti ai minori. I giudici americani hanno ritenuto tale legge in contrasto con il principio costituzionale della libertà di espressione (freedom of speech). Come osserva invece nella sua dissenting opinion il giudice Breyer (p. 12) “extremely violent games can harm children by rewarding them for being violently aggressive in play, and thereby often teaching them to be violently aggressive in life. And video games can cause more harm in this respect than can typically passive media, such as books or films or television programs”. 83 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 369: “Essendo in grado di proporre gli ‘eventi reali’ (e di fiction) in modo visivo, la televisione offre la possibilità di mostrare ‘come il mondo appare’ e ‘cosa il mondo sente’ in altri luoghi, in altri spazi geografici e da altre prospettive di ruolo, ‘rimuovendo’ cioè gli spettatori dalle loro ‘collocazioni fisiche’ e offrendo loro una visione più ampia rispetto a quella espressa tradizionalmente dai gruppi di riferimento. La televisione – in buona sostanza – consente ‘una visione da nessun luogo’, proponendo a tutti i suoi fruitori un orizzonte più vasto di quello usuale, e modificando ciò che Mead definiva altro generalizzato – ossia quel gruppo di riferimento astratto (inclusi i suoi parametri, i suoi valori, le sue convinzioni) che l’attore ha scolpito nel corso delle sue interazioni sociali, e del quale assume il ruolo per orientare la propria azione. Con la comparsa della televisione diviene invece possibile parlare di ‘altri mediatici generalizzati’, condivisi o almeno condivisibili da centinaia di migliaia di individui, che usufruiscono ora di un nuovo punto di vista per osservare le loro azioni e le situazioni in cui sono collocati”. 52 delle fiction violente che occupano la scena televisiva” (e cinematografica) possono essere internalizzati – riflessivamente – quali altri-fantasma e iniziare ad animare i nostri soliloqui in concorrenza con quelli incorporati nelle interazioni sociali “faccia a faccia”. 84 Rilevante però è appunto la veste “giuridica”, e più precisamente penale, conferita dai media alla violenza, tale spesso da oscurare le più complesse realtà conflittuali e s ituazionali in grado di spiegare l’esercizio della violenza individuale. Come nella scena del film hollywoodiano Il fuggitivo analizzata da Slavoj Žižek, nella quale la colluttazione tra i due protagonisti, uno dei quali chiaramente “nel giusto”, risolve semplicisticamente la questione in gioco, nella forma appunto di una riaffermazione del diritto nei confronti della manifesta 85 “depravazione psicologica del cattivo” di turno. Assai istruttiva in tale contesto di riflessione anche la vicenda, altamente mediatica, dell’uragano Katrina, abbattutosi nell’agosto 2005 sulla costa del Golfo del Messico nel Sud degli Stati Uniti. Come ricordano Wilkinson e Pickett, 86 “all’indomani della bufera, l’attenzione dei media di tutto il mondo si concentrò, oltre che sui danni fisici provocati dall’uragano (le case distrutte, le strade allagate, le autostrade crollate e gli impianti petroliferi fuori uso), anche su quella che pareva una totale disintegrazione della vita civile nella città. Nella settimana successiva all’uragano si registrarono numerosi arresti e sparatorie. I notiziari televisivi mostravano i residenti 84 Ivi, p. 370. Slavoj Žižek, Violence, Picador, New York 2008; tr. it. La violenza invisibile, RCS, Milano 2007, pp. 205-206. “Seconda lezione: è d ifficile essere realmente violenti, compiere un atto che turbi violentemente i parametri basilari della vita sociale. Quando Bertolt Brecht vide la maschera giapponese di uno spirito maligno, scrisse come le sue vene gonfie e il suo orrendo ghigno indicassero ‘quale faticoso sforzo richiede / l’essere malvagio’. Lo stesso vale per la violenza. A questo riguardo, un qualsiasi film d’azione hollywoodiano è sempre una lezione. Verso la fine de Il fuggitivo di Andrew Davis, il chirurgo innocente impersonato da Harrison Ford affronta il suo collega (Jeroen Krabbé) a un convegno medico e l o accusa di aver falsificato dei dati per conto di una grande casa farmaceutica. A q uesto punto, quando ci si aspetterebbe uno spostamento dell’attenzione sulla ‘Big Pharma’ – il capitale – in quanto vero colpevole, Krabbé interrompe Ford e lo invita a uscire fuori dalla sala, dopodiché lo impegna in una violenta colluttazione: i due si picchiano finché non hanno le facce rosse di sangue. La scena, nella sua palese assurdità, è r ivelatrice, quasi che, per evitare la confusione ideologica di giocare con l’anticapitalismo, sia necessaria una mossa che renda immediatamente tangibili le crepe nella narrazione. Il cattivo viene trasformato in un personaggio perverso, beffardo, patologico, come se la depravazione psicologica (che accompagna l’impressionante spettacolo della lotta) in qualche modo rimuovesse e soppiantasse l’anonima e assolutamente non psicologica pulsione del capitale.” 86 Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, La misura dell’anima, cit., pp. 61 e sgg. 85 53 disperati che imploravano aiuto e chiedevano alimenti per bambini e medicine; poi trasmettevano le immagini dei soldati che percorrevano in barca le strade allagate, non per evacuare gli abitanti, non per portare loro il necessario per sopravvivere, ma armati di tutto punto con mitragliatrici, pronti a da re la caccia agli sciacalli. Questa reazione al caos di New Orleans suscitò numerose critiche e condanne all’interno degli Stati Uniti. Molti insinuarono che la mancanza di fiducia tra le forze di polizia e militari, da un lato, e la popolazione prevalentemente povera e di colore di New Orleans, dall’altro, rispecchiassero profonde divisioni etniche e di classe. Durante un concerto di beneficenza per le vittime dell’uragano trasmesso da molte reti televisive, il m usicista Kanye West esclamò: ‘Odio l’immagine che i media diffondono di noi. Quando mostrano una famiglia bianca, dicono che va alla ricerca di cibo; quando fanno vedere una famiglia di colore, affermano che sta saccheggiando le case!’. Nell’inviare le truppe nella città, la governatrice della Louisiana Kathleen Bianco dichiarò: ‘[I soldati] hanno M16 carichi e pronti all’uso. Questi uomini sanno sparare e uccidere e mi aspetto che lo facciano’”. Quella qui descritta può considerarsi una modalità sbagliata di gestione di un conflitto, un fallimento di risposta, reso ancora più manifesto dall’immagine caricata che si è voluta conferirvi, con una presentazione impostata secondo le classiche logiche mediatiche, che tendono a es sere sempre più anche le logiche della politica e specialmente della politica criminale, con un ben noto influenzamento e rinforzo reciproci. Logiche che amano, direi concupiscono le contrapposizioni nette, le dicotomie facili e semplici (e tipicamente legalistiche) tra coloro che hanno (sempre e tutto il) torto e quanti hanno (sempre e tutta la) ragione. Si è trattato di una modalità ispirata a una fondamentale diffidenza nei confronti dell’ambiente in cui si stava intervenendo (visto che la priorità conclamata risultava quella di controllare la popolazione) e, a sua volta,87 tale da generare diffidenza, 87 Sulla “dinamica in base alla quale un c omportamento fiducioso può s uscitare una risposta affidabile” e, dunque, sulla simmetria per cui “se d a una parte […] la fiducia suscita l’affidabilità, simmetricamente la diffidenza può favorire l’insorgere di comportamenti opportunistici”, cfr. Vittorio Pelligra, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, il Mulino, Bologna 2007, pp. 238 e sgg. Si ricorda in particolare il cosiddetto feeling of freedom effect, esemplificato dal campo delle donazioni volontarie, dove il livello di tali donazioni aumenta sensibilmente “quando le richieste vengono formulate attraverso frasi che contengono espressioni quali: ‘è una sua libera scelta’, ‘sia lei a d ecidere quanto’, ‘noi contiamo su di lei ma si senta libero’ e al tre simili. La principale 54 come dimostrato anche dalle condanne sul piano internazionale espresse nei confronti delle azioni compiute a New Orleans, specie a paragone di altri interventi nei quali la finalità di assistenza umanitaria era stata messa in primo piano.88 Un eccessivo “bisogno” interiore di diritto (e particolarmente di diritto penale) e, dunque, di controllo, sembra un indicatore di segno opposto rispetto alla condizione di una collettività coesa e basata sulla fiducia. E infatti quando “la fiducia condiziona il benessere tanto degli individui quanto della società civile”, “quando la collettività è permeata da un alto grado di fiducia, prevalgono un senso di sicurezza, l’assenza di paure e l’idea che l’altro sia qualcuno con cui cooperare piuttosto che competere”. 89 Questo modello di convivenza (esemplificata, con una certa dose di idealizzazione, dal “caso Svizzera”) è s tato ravvisato in una “cultura politica che incoraggia i cittadini non soltanto a ‘ sentirsi i padroni del proprio destino’, ma anche a sviluppare quella speciale combinazione di potenti inibizioni rispetto alla violenza, accompagnata da un’ostilità verso l’autorità e da una brama di ordine sociale, che sembra prerogativa della maggior 90 parte delle democrazie in cui si registrano bassi tassi di omicidio”, ma, potremmo dire, della maggior parte delle società che abbiano spiegazione di questi risultati collega le risposte alle caratteristiche semantiche delle formule utilizzate nelle richieste. Le formule che abbiamo visto suscitano nel potenziale donatore un s enso di non costrizione, di libertà, suggeriscono un forte senso di fiducia nei suoi confronti da parte dei richiedenti e allo stesso tempo sottolineano l’importanza del contributo individuale per la riuscita dell’attività che la donazione andrebbe a finanziare”. 88 Cfr. Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, La misura dell’anima, cit., p. 62, che ricordano quanto accaduto all’indomani del devastante terremoto che colpì la Cina nel 2008, quando le autorità cinesi inviarono rapidamente soldati disarmati in missioni di soccorso e assistenza, guadagnandosi il plauso della comunità internazionale. 89 Ivi, p. 69. “Del resto, la fiducia, o la sua mancanza, determinarono la salvezza o la morte di alcune persone rimaste intrappolate a New Orleans nel caos che seguì all’uragano Katrina. La fiducia ebbe un ruolo decisivo per la sopravvivenza anche durante l’ondata di calore che colpì Chicago nel 1995. Il sociologo Eric Klinenberg, in un libro sull’argomento, ha illustrato come gli afroamericani poveri, che abitavano in quartieri con bassi livelli di fiducia e alti tassi di criminalità, avessero troppa paura di aprire le porte e le finestre o di uscire di casa per recarsi nei centri di refrigerazione designati dalle autorità cittadine. Nessuno andò a co ntrollare che stessero bene, e cen tinaia di anziani e di persone vulnerabili morirono per il caldo. Nei quartieri ispanici, altrettanto poveri ma caratterizzati da alti livelli di fiducia e da una vita comunitaria più attiva, il rischio di morte fu molto più basso.” 90 Cfr. Marshall B. Clinard, Cities with Little Crime: The Case of Switzerland, Cambridge University Press, Cambridge 1978, pp. 1, 37, 110-111, 114, citato da Elliot Leyton, Men of Blood, cit., pp. 230 e sgg.; 236. 55 preso sul serio, in senso etico e non puramente aritmetico, l’idea di uguaglianza e di partecipazione paritaria alla vita politica e sociale. 91 Nella cornice concettuale della teoria del riconoscimento, ossia dell’idea secondo cui “la riproduzione della vita sociale avviene sotto l’imperativo di un reciproco riconoscimento, poiché i soggetti possono giungere a una relazione pratica con sé solo se imparano a concepirsi dalla prospettiva normativa dei loro partner nell’interazione, come i si potrebbe forse, molto loro interlocutori sociali”, 92 approssimativamente, ipotizzare che il crescente “bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo” segnali una sorta di dislocazione fra i tre “modelli di riconoscimento intersoggettivo”: amore, diritto, solidarietà. 93 Ciò nel senso che la forma del riconoscimento giuridico sia oggi chiamata a compensare una carenza innanzitutto nel rapporto di amore, ossia di quel “nucleo di ogni eticità”, di quel “legame alimentato simbioticamente” che “dà la misura di fiducia in se stessi” ed “è la base irrinunciabile della partecipazione autonoma alla vita 91 John Dewey, The Ethics of Democracy (1888); tr. it. Etica della democrazia, in Scritti politici, Donzelli, Roma 2003, pp. 18, 20. “La democrazia non differisce dall’aristocrazia nel fine da raggiungere. Il fine non è la mera affermazione della volontà individuale; non è la mancata considerazione della legge, dell’universale; è l a completa realizzazione della legge, vale a dire dello spirito unitario della comunità. La democrazia si differenzia per quanto riguarda i mezzi. Questo universale, questa legge, questa unità di scopi, questo adempimento del proprio ruolo nell’interesse dell’organismo sociale, non devono essere indotti nell’uomo dall’esterno. Debbono nascere nell’uomo stesso, per quanto possa essere d’aiuto ciò che di buono e di saggio esiste nella società. Responsabilità personale, iniziativa individuale, queste sono le caratteristiche della democrazia. Aristocrazia e democrazia implicano entrambe che la vera condizione della società sia quella di realizzare una finalità etica, ma l’aristocrazia ritiene che tale finalità venga realizzata, principalmente, attraverso speciali istituzioni e organizzazioni all’interno della società, mentre la democrazia la considera già operante in ogni personalità dotata di autonomia. C’è un individualismo democratico che non esiste nell’aristocrazia; ma si tratta di un individualismo etico e non numerico; un i ndividualismo di libertà, di responsabilità, di iniziativa, per raggiungere e mettere in pratica un ideale etico, non un individualismo sinonimo di ignoranza della legge. In breve, la democrazia significa che la personalità è la realtà prima e u ltima. La democrazia ammette che il significato della personalità possa essere compreso solo quando si presenta in forma oggettiva nella società; la democrazia riconosce che i principali stimoli e incoraggiamenti per lo sviluppo della personalità vengono dalla società; ma nessuno può acquisire una personalità, sia pure degradata e debole, quando sono gli altri ad offrirgliela, per quanto saggi e forti questi siano. La democrazia crede che l’essenza della personalità sia propria di ciascun individuo e che la scelta di svilupparla o m eno debba provenire da ciascun individuo.”[...] “L’uguaglianza non è un concetto aritmetico, ma etico. La persona è universale quanto l’umanità; è indifferente a tutte le distinzioni che dividono gli uomini. Ovunque ci sia un uomo, ci sarà una persona e non ci sono segni che consentano di distinguere una persona da un’altra, per collocarla al di sopra o al di sotto. Ogni individuo vive una possibilità infinita e universale: quella di essere re e pastore di anime. L’ideale aristocratico è blasfemo nei riguardi della persona. La dottrina dei pochi eletti viene applicata non alla vita futura, ma a tutti i rapporti umani. La venerazione dell’eroe corrisponde al disprezzo per l’uomo. Il vero significato dell’uguaglianza è desumibile dalla definizione di democrazia data da J.R. Lowell: una società in cui ogni individuo ha una possibilità e sa di averla e, potremmo aggiungere, una possibilità a cui non si può porre un limite, una possibilità che è davvero infinita, la possibilità di diventare una persona. L’uguaglianza, in breve, è l’ideale dell’umanità; nella consapevolezza di questo ideale la democrazia vive e cresce.” 92 93 Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 114. Se ne veda una prima illustrazione in ivi, pp. 117-157. 56 pubblica”. 94 Dal rapporto di amore il rapporto giuridico “si distingue sotto pressoché tutti gli aspetti decisivi”, pur avendo una funzione assai simile. “Come nel caso dell’amore il bambino attraverso l’esperienza consolidata della dedizione materna acquista la fiducia di poter manifestare liberamente i propri bisogni, allo stesso modo il soggetto adulto attraverso l’esperienza del riconoscimento giuridico consegue la possibilità di intendere il proprio agire come manifestazione, rispettata da tutti gli altri, della propria autonomia.” 95 È pur vero, come ricordava Joel Feinberg, che “l’avere diritti ci permette di ‘presentarci come uomini’, di guardare gli altri negli occhi e di sentire in una forma elementare 1’essere uguale di ciascuno”,96 e dunque che assieme al riconoscimento negato vanno “perdute le opportunità del rispetto individuale di sé”, visto che il riconoscimento giuridico ha “un significato psichico per il rispetto di sé” e “l’esperienza della discriminazione giuridica produce un sentimento paralizzante di umiliazione sociale”. 97 E tuttavia l’instaurarsi di un rapporto sempre più stretto e tendenzialmente esclusivo tra riconoscimento giuridico e rispetto di sé segnala un impoverimento della “fiducia affettiva nella continuità della comune dedizione”, che lascia il passo all’esercizio potenziale della violenza, sia pure “legittima”. Del resto “ciò che rende totalitaria una democrazia è il veder sfumare, come accade nel Processo di Kafka, i confini tra l’aula del tribunale e l a camera da letto. La contiguità tra questi due spazi segnala una divaricazione che si sta aprendo tra la giustizia e la norma. Lo spazio privato viene invaso da una legge che ha perso il suo rapporto con la giustizia, giacché prevale la necessità di riportare alla norma il funzionamento della vita familiare. La giustizia, invece, richiede ogni volta una decisione che nessuna norma può assicurare. Deve provare a conciliare la legge, che ha necessariamente una forma universale, con delle individualità che sono irrimediabilmente singolari. Si tratta di comparare l’incomparabile. Come Lévinas ci ha 94 Ivi, p. 131. Ivi, p. 144. 96 Cfr. Joel Feinberg, The Nature and Value of Rights, in Rights, Justice and the Bounds of Liberty. Essays in Social Philosophy, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 143 e sgg., spec. p. 151. Il passo è ripreso da Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 145 e sgg. 97 Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 146 e sgg. 95 57 ricordato, la giustizia è innanzitutto la relazione con l’Altro, con la sua irriducibile singolarità”.98 Si torna dunque alla questione impostata inizialmente e che può essere a sua volta inquadrata secondo una dinamica di causalità circolare o processuale. “Nella modernità la fiducia non è concepibile al di fuori del monopolio statale della violenza” 99 (il quale si pone all’origine del diritto). Una violenza che peraltro, come osserva Benjamin, ha il potere di conservare il diritto soprattutto nel momento della minaccia. 100 Il che sembra legarsi alla osservazione di Reemtsma, già ricordata, circa il senso della pena, e specificamente della cosiddetta prevenzione generale positiva, di rimuovere “il terzo” (e dunque la dimensione comunicativa e s ociale) dall’atto criminale. 101 Si potrebbe dire del resto che la stessa residualità, il carattere di extrema ratio dell’esercizio effettivo della violenza, valga a rafforzare il carattere minaccioso “come il destino” proprio del diritto, che è poi la sua forza regolativa propriamente “extragiuridica”, sociale e morale. Ma ciò a c ui assistiamo da qualche tempo (in quella che può apparirci una fase di estrema acutizzazione delle contraddizioni del moderno), è fondamentalmente un venire allo scoperto della “violenza originaria” (dello Stato e del diritto) attraverso non solo la forma di un crescente esercizio effettivo della violenza “guerresca” da parte dello 98 Giovanni Mierolo, Il totalitarismo delle istituzioni moderne, in Forme contemporanee del totalitarismo, a cura di Massimo Recalcati, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 250-251. 99 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 96. 100 Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 13 e sgg. “Poiché il p otere che conserva il diritto è quello che minaccia. E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come la interpretano teorici liberali sprovveduti. Dell’intimidazione in senso proprio farebbe parte una precisione, una determinatezza che contraddice all’essenza della minaccia, e che nessuna legge può raggiungere, poiché sussiste sempre la speranza di sfuggire al suo braccio. Tanto più essa ap pare minacciosa come il d estino, da cui, infatti, dipende se il d elinquente incorre nei suoi rigori. Il significato più profondo dell’indeterminazione della minaccia giuridica apparirà solo nella successiva analisi della sfera del destino, da cui essa deriva. Un prezioso rimando a q uesta sfera si trova nel campo delle pene. Fra le quali, da quando è stata messa in questione la validità del diritto positivo, la pena di morte è quella che ha richiamato più di ogni altra la critica. Anche se i suoi argomenti sono stati, nella maggior parte dei casi, tutt’altro che decisivi, decisivi furono e restano i s uoi motivi. I critici della pena di morte sentivano, forse senza saperlo spiegare, e, probabilmente, senza nemmeno volerlo sentire, che la sua contestazione non i mpugna un de terminato grado di pena, non a ssale determinate leggi, ma il diritto stesso nella sua origine. Poiché se la sua origine è l a violenza, la violenza coronata dal destino, è logico supporre che nel potere supremo, quello di vita e di morte, dove esso appare nell’ordinamento giuridico, le origini di questo ordinamento affiorino rappresentativamente nella realtà attuale, e si rivelino paurosamente.” 101 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 486. 58 Stato e degli Stati (per esempio con le politiche di controllo, i “diritti penali del nemico”, le “guerre” al terrorismo, ecc.), ma altresì di una subdola e per vasiva giuridicizzazione dei rapporti e dei conflitti sociali; e ciò nel tentativo di mantenere o di ripristinare la fiducia sociale a onta di una crescente diseguaglianza delle persone. Se però nell’epoca moderna “l’astensione dalla violenza è il momento decisivo della coesione sociale”, 102 il fatto che il monopolio statale della violenza agìta (e non più solo prevalentemente “minacciata”) venga così allo scoperto finendo per assumersi in misura crescente anche il monopolio della fiducia sociale, con un allargamento degli spazi del dominio penale, ben oltre, giuridicamente o anche solo culturalmente, il canone regolativo (che è tale, oltre che per il diritto penale, per i mondi sociali e per le loro narrazioni) della extrema ratio, segnalerà un r ischio accresciuto di restituzione alla violenza di tutta quella forza comunicativa e sociale che la modernità ha sempre tentato di rimuovere, insieme al “terzo”, reale o immaginario, cui la violenza si rivolge. Un conclusivo sviluppo del legame qui impostato tra il rapporto diritto-violenza e il formarsi delle cosmologie (direttamente o indirettamente “violente”) non può trascurare la considerazione che chiude il saggio benjaminiano. Come ricordato recentemente anche da Honneth, 103 nel porsi la questione di quali forme di accordo sociale, di mediazioni degli interessi, possano prospettarsi nelle quali non intervenga la violenza del diritto, Benjamin104 fa riferimento alle virtù emozionali, che permettono di porsi empaticamente nella prospettiva dell’altro: “l’accordo non violento,” scrive, “ha luogo ovunque la cultura dei sentimenti ha messo a di sposizione degli uomini mezzi puri di intesa. Ai mezzi legali e illegali di ogni genere, che sono pur sempre tutti insieme violenza, è lecito quindi opporre, come puri, i mezzi non violenti. Gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace, fiducia e tutto quanto si potrebbe aggiungere ancora, sono la loro premessa soggettiva”. Ricorda, questo invito, la “grande opera cristiana” di cui parla Zolla (“la riscossione del dovuto, la punizione 102 Ivi, p. 99. Axel Honneth, Eine geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen, cit., pp. 143 e sgg. 104 Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 17. 103 59 del torto cessino di apparirci una medicina del nostro turbamento”),105 simile al particolare allenamento dell’arte marziale giapponese detta la via del respiro armonioso, aikido.106 Assecondando e s viluppando quella metafora, si potrebbe dire che una minore dipendenza dalle categorie del diritto e del torto, possa propiziarsi attraverso una loro progressiva o al meno tendenziale sostituzione “con la nuda fede nel significato” del nostro e dell’altrui destino. Per riprendere le parole di Adriana Cavarero – ma è questo 107 anche il senso della chiusa del libro di Reemtsma – la giustizia e il diritto possono riscattarsi dalla loro “violenza originaria” tenendo sempre presente che “il mondo […] è pieno di storie, circostanze e situazioni curiose che aspettano solo di essere raccontate”; “più precisamente […] il mondo è pieno di storie perché è pieno di vite: essere ligi alla storia ‘significa essere ligi alla vita’. Non si tratta solo di una metafora. […] L’unicità dell’esistente non ha infatti alcun bisogno di una forma che la progetti e la contenga. Radicata nel flusso impadroneggiabile di una costitutiva esposizione, le è risparmiato tanto il vezzo di prefigurarsi quanto il vizio di prefigurare la vita degli altri. La figura, l’unità del disegno, il profilo della cicogna, se proprio Élémire Zolla, Uscite dal mondo, cit., pp. 143 sgg.: “Estirpare in noi la radice del diritto è il compito: la riscossione del dovuto, la punizione del torto cessino di apparirci una medicina del nostro turbamento e, se l ’ingiustizia chiama la magica riparazione e ci porta a g iudicare con magiche mormorazioni, si contempli la croce, somma ingiustizia e magia. Si guardino in faccia i bisogni e istinti giuridici: sono lacci che avvincono, uncini infilati nella nostra carne. Non è questa una crociata contro i tribunali. E non è detto che una volta liberati dal bisogno psichico di farlo non si riscuotano i debiti. Tanto meno si è consigliati di condannare coloro che non possono non giudicare, rivendicare, disputare del diritto e del torto, anzi li si compassiona e il loro misero spettacolo ci aiuta a preservarci dal ricadere noi stessi in quella prigione e volgare corte di supplizi”. 106 Ivi, p. 144. “L’alunno dell’aikido picchierà un ceppo con un bastone. Quindi col bastone colpirà un ceppo immaginario, fino a farlo come se il ceppo ci fosse. Quindi calerà i fendenti con un bastone immaginario. Imparerà infine a sen tirsi, a proiettarsi sulla punta del bastone, e d el bastone immaginario. Il suo equilibrio saprà reggersi nel farlo a sostegni immaginari e sempre poggerà sul baricentro del corpo. L’alunno si sarà utilmente ipnotizzato; come diceva Platone, avrà fatto l’incantamento alla propria anima. Buona parte delle mosse che si compiono per aiutarsi a eseguire certi atti possono poggiare sulla fantasia, come quando per levarsi in piedi ci si afferri a un sostegno. Imparando a sostituire il sostegno con la sua immagine mentale, si può imparare, ulteriormente, quanta forza nascosta si abbia e da quanti bisogni immaginari ci si lasci incantare. Ebbene, come dei bastoni di legno, si può fare a meno delle categorie del diritto e del torto, sostituendole con la nuda fede nel significato del nostro destino ovvero nella provvidenza. Non è da tutti, come non da tutti è trascendere la comune scherma e l a comune lotta per forme basate sull’arte dell’equilibrio e su l dominio della fantasia, più puramente magiche. Certamente non è co sa accessibile alla mente che, invece di star ferma all’assunto, corra a d omandarsi se possa sussistere una società senza diritto (non è questa la questione) o se debba comportarsi in uno o altro modo per meritare il plauso o un’onorevole menzione”. 107 Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., pp. 538 e sgg. 105 60 viene, viene solo dopo”. 108 È questo anche il senso del pensiero già ricordato secondo cui “essere un individuo morale significa prestare, essere obbligato a prestare, un certo tipo d’attenzione”;109 il che ha anche il significato di riscoprire il carattere di sentimento morale dell’amore,110 quella forma primordiale di riconoscimento, che nell’odierna temperie socio-culturale sembra erosa dall’invadenza delle pretese di riconoscimento giuridico. Credo che l’importantissimo libro di Ceretti e Natali, tra i suoi molti meriti, abbia appunto quello di aiutare il giurista in genere, e in particolare il penalista e il politico-criminale ad aprirsi a un mondo “pieno di storie […] che aspettano solo di essere raccontate”, ossia ad accostarsi a quelle “trame di ‘identità’” individuali e sociali tessute attraverso il confluire della “conversazione interiore verso un punto di riferimento narrativo attorno al quale si affollano gli altri-fantasmi 111 internalizzati”. Recentemente Jeremy Rifkin ha sollecitato a una comprensione della natura empatica dell’uomo e, non a caso, ha indicato come esempio di questo nuovo approccio in campo giuridico quello del ripristino della relazione fra chi ha commesso il crimine e le vittime: la giustizia riparativa. 112 Sono gli stessi Ceretti e Natali, del resto, a riprendere il suggerimento di Niklas Luhmann 113 a che il sistema non si immunizzi contro il “no”, bensì con l’aiuto del “no”, non si tuteli dai cambiamenti, ma grazie ai cambiamenti, evitando così “un irrigidimento entro schemi di comportamento consolidati, ma non più 108 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, cit., pp. 186-187. Susan Sontag, Nello stesso tempo, cit., pp. 168, 186. 110 Cfr. J. David Velleman, Liebe als ein moralisches Gefühl, in Von Person zu Person, a cura di Axel Honneth e Beate Rössler, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2008, pp. 60 e sgg. 111 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 341. 112 Cfr. il libro recente di Jeremy Rifkin, The Empathic Civilization, Polity Press, Cambridge 2009; tr. it., La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010, p. 17, che sollecita a una comprensione della natura empatica dell’uomo e non a caso indica come esempio di un nu ovo approccio empatico in campo giuridico quello del ripristino della relazione fra chi ha commesso il crimine e le vittime, la giustizia riparativa. 113 Niklas Luhmann, Soziale Systeme, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984; tr. it. Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, il Mulino, Bologna 1990, p. 576. L’osservazione luhmaniana evoca una nota battuta di Gregory Bateson (Steps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing, San Francisco 1972; tr. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000, p. 548): “Viviamo in una società che sembra preferire i divieti alle esigenze positive e quindi tentiamo di legiferare (ad esempio con leggi antitrust) contro le variabili usurpatrici; e tentiamo di difendere le ‘libertà civili’ bacchettando legalmente le forze usurpatrici. Tentiamo di proibire certe usurpazioni, ma forse sarebbe meglio incoraggiare le persone ad avere conoscenza delle loro libertà e f lessibilità e a u sarle più spesso”. 109 61 consoni all’ambiente”. Il sistema immunitario protegge dall’annientamento mediante negazione.114 Essi auspicano dunque un atteggiamento non proteso a “espellere il male” ma a “trattarlo, mettendo a disposizione della società una sufficiente complessità interna per il trattamento dei conflitti” e at tingendo a esperienze già rintracciabili nell’universo della giustizia: “esperienze che sfuggono alla logica dell’immunità e che si preoccupano di (ri)attivare canali di comunicazione e forme di relazioni orientate alla convivenza: le pratiche riconducibili al movimento della Giustizia Riparativa introducono, sia pure in forma embrionale, istanze di ‘diritto fraterno’: un diritto giurato insieme da fratelli, uomini e donne, con un patto in cui si ‘decide di condividere’ regole minime di convivenza. È [un diritto] convenzionale, con lo sguardo rivolto al futuro”.115 Forse come lo sguardo del padre nell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, La strada, 116 che perfino nel contesto estremo di una pura anomia, ossia di una forzata rinuncia totale al diritto, sa rendere testimonianza di come sia possibile, comunque, resistere ed esistere, facendosi, insieme al figlio, “portatore del fuoco”, ossia “della Legge della convivenza e del patto sociale”, della “vita come possibile”, della “Legge della cultura, che è gi à anche la Legge del desiderio”,117 come avrebbe potuto scrivere anche Iosif Brodskij. “Ciò che colpisce di questo padre è il suo prendersi cura, la sua resistenza nel continuare a prendersi cura di suo figlio. ‘Eccomi’, scrive Levinas, è la forma più diretta che può assumere la responsabilità come risposta etica all’invocazione dell’Altro”.118 E forse, perché questo possa avvenire nei mondi sociali e nelle cosmogonie individuali, è necessario che anche nell’atteggiamento verso il diritto, il diritto penale e la politica criminale (di cui è certo “desolante […] constatare 1’assenza di un progetto politico che costruisca tali pratiche come ipotesi di un modello di società auspicabile”, la mancanza di “un vettore di senso in grado di 114 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384. Ibid., che qui citano Eligio Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 132. 116 Cormack McCarthy, The Road, Vintage Books, New York 2006; tr. it. La strada, Einaudi, Torino 2007. 117 Riprendiamo qui in più punti l’analisi di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, pp. 155 e sgg. 118 Ivi, p. 159. 115 62 proiettarle nel campo culturale e politico”)119 ci si distenda lungo la “linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito”, che segna l’“accettare il debito non pagato, accettare di essere e rimanere debitore insolvente, accettare che ci sia una perdita” 120 o, quanto meno, accettare che il mondo non si ripartisca tra chi ha t orto e chi ha ragione, tra chi rivendica diritti e chi è assoggettato a doveri. Ciò nella consapevolezza che “la pretesa – tentazione ricorrente nelle più svariate forme – di estirpare il male, di superare 1’‘ambiguità’ propria dell’uomo è – dunque – un ‘incalcolabile male’”. 121 119 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384. Questo pensiero di Paul Ricoeur, citato in un’opera recente di Cesare De Michelis (Moderno Antimoderno, Aragno, Torino 2010), è richiamato da Carlo Ossola nella sua recensione al libro (cfr. Carlo Ossola, Elogio degli antimoderni, in “Il Sole-24 Ore”, 11 aprile 2010, p. 32). Osserva Ossola come siano “gli Antimoderni: Pound, Eliot, Borges, Ungaretti, ma anche Beckett, Thomas Bernhard” a tendersi “verso questo ‘sbilanciamento’ invocato da Ricoeur, visto che ‘il Moderno […] secerne la Decadenza, la ferrea dimora nella Temporalità (foss’anche tutta da bruciare nell’istante del Gesto)’, mentre occorre riferirsi agli Antimoderni per trovare vie d’uscita dalla prigionia della ‘datità’”. 121 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384. 120 63 Il problema delle narrative del reo Alfredo Verde E se il reo parla? Come valutare quanto dice? Quale valore attribuire al suo discorso? Recentemente, nella criminologia statunitense, il problema di quello che il reo dice, di come considerarlo, di come classificarlo, ha destato un certo interesse, a tutti i livelli della ricerca criminologica, anche a quelli più tradizionalisti e macrosociologici. Ne costituisce un esempio l’interesse di un autore come Agnew,1 celebre esponente della strain theory, che conia il concetto di storylines per connettere le variabili strutturali a quelle situazionali che conducono al delitto: non basta avere un autore motivato dalle variabili strutturali come quelle legate alle sue condizioni socioeconomiche, ma è necessario anche verificare come tali variabili rientrino nella narrativa da lui costruita allo scopo di spiegare perché è ar rivato al delitto. Significativamente, Agnew impatta immediatamente con il problema del rapporto fra le storylines e le tecniche di neutralizzazione: cioè, per dirla con le nostre parole più cliniche, con le specifiche difese volte alla minimizzazione della responsabilità dell’autore di reato.2 Presser ha dedicato un importante lavoro alle narrative criminologiche,3 rilevando che le narrazioni degli autori di reato, storicamente poco valutate dai criminologi per il connesso problema della verità e della menzogna dell’autore, sono state considerate in criminologia in tre modi: il primo, legato alla sociologia tradizionale, connesso alla descrizione di fatti 1 Robert Agnew, Storylines as a Neglected Cause of Crime, in “Journal of Research in Crime and Delinquency”, 43, 119, 2006. 2 Gresham Sykes e Dav id Matza, Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency, in “American Sociological Review”, 22, 664, 1957. 3 Lois Presser, The Narratives of Offenders, in “Theoretical Criminology”, 13, 177, 2009. 64 obiettivi, il secondo, più vicino alle teorie interazionistiche, che postula che le narrative costituiscano un’interpretazione dei fatti da parte degli autori, e il terzo, maggiormente legato alle teorie postmoderne, che pone le narrative come indispensabili non solo e non tanto per l’interpretazione dei dati della realtà, quanto per la costruzione stessa della realtà da parte degli autori, realtà che appare inestricabilmente connessa alla sua descrizione da parte di chi commette il reato. L’opera di Lonnie Athens, 4 alla quale il libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali è de dicato, si colloca fra la seconda e la terza delle visioni citate, aderendo all’impostazione dell’interazionismo radicale. Sotto il segno di Athens, il libro di Ceretti e Natali5 ha riportato la visione del mondo del reo, la sua comunità fantasma, la sua cosmologia, per utilizzare il suggestivo termine del sociologo americano fatto proprio dagli autori, al centro dell’attenzione del criminologo. Ma comunità fantasma e cosmologia costituiscono al contempo la visione del mondo del reo che traspare dalle sue narrative. Recentemente, nel nostro paese, per effetto di una serie di contributi cui il sottoscritto non è estraneo, il problema delle narrative del reo è andato assumendo una rilevanza centrale all’interno della ricerca criminologica. Secondo Francia, Binik e G uidali,6 addirittura, il reato nella sua brutalità reale “sarebbe” già naturalmente “come” un testo, da leggere e da interpretare, così come sarebbero da ricostruire, leggere e interpretare le spiegazioni che del proprio delinquere fornisce lo stesso reo, 7 cui la criminologia (clinica) dovrebbe “ridare voce sociale”. A nostro parere, quest’ipotesi considera solo il caso (tipico dei delitti impulsivi) in cui il delinquente sia dotato di “poche” parole, o i casi invece in cui socialmente non abbia abbastanza potere da pretendere che le sue parole vengano ascoltate (viene in mente la cultura dei Rom, di cui sempre si parla ma che mai viene lasciata parlare): il reato, dunque, sarebbe “azione” portatrice di un significato nascosto, vero e pr oprio testo narrativo, che sarebbe 4 Lonnie Athens, The Creation of Dangerous Violent Criminals, Routledge, London-New York 1989; Id., Violent Criminal Acts and Actors Revisited, University of Illinois Press, Urbana (Ill.) 1977. 5 Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009. 6 Adolfo Francia, Oriana Binik e Livia Guidali, La narratologia e il pensiero criminologico fra sociologia e psicoanalisi, in Oronzo Greco e Giovanni Scarafile (a cura di), Sotto il segno di Babele. Prospettive di comunicazione e dialogo fra saperi, Pensa Multimedia, Lecce 2008. 7 Quelli che il recente contributo dei citati Francia, Binik e Guidali definisce gli account del reo, con riferimento alla tradizione della sociologia fenomenologica. 65 necessario “ricostruire” (“scrivere”, in senso barthesiano) con l’aiuto eventuale della parola del reo, allo scopo di illustrare i suoi account, il modo in cui questo vede il mondo. Siamo molto vicini ad Athens. Subito, però, e quasi come contraltare, si pone il problema esattamente speculare: talora infatti il reo ha troppi account, e sulla base di quegli account tende a fregarci e a mentire consapevolmente: è necessario, quindi, valutare anche i motivi che portano alla possibilità di resoconti menzogneri, connessi alla loro possibile utilizzazione strumentale nel contesto giudiziario o in quello mediatico. Va tenuta presente anche la possibilità che il racconto dei fatti sia stravolto e piegato alle esigenze dei media, quando il dramma del reato arriva a vertici di “significazione” collettiva8 che spesso non hanno a che fare per nulla con il significato attribuito all’azione da parte di chi l’ha compiuta. 9 Le narrative (monche) dei delitti impulsivi, quindi, da un lato, e dall’altro le (troppe) narrative di chi consapevolmente vuole dissimulare, o quelle distorte dei mass media, rappresentano perciò, da un punto di vista concreto, clinico verrebbe da dire, i due estremi opposti del problema: un minus e un plus di mentalizzazione.10 Come si nota, l’estremo del plus di mentalizzazione pone il problema della menzogna: questa dipende per la sua concettualizzazione dal livello interpretativo scelto, fermo restando che le narrative, se costruite in modo adeguato (e cioè non contraddittorio, nel senso che non debbono sovvertire i criteri di verosimiglianza) sono autoreferenziali, cioè “sembrano” vere (qui si apre, in campo giudiziario, il problema della convalida esterna, che non è altro che il problema della prova in penale).11 In un’ottica postmoderna, invece, esistono diverse “versioni” costitutive di un fatto, ma non esiste la sua “verità” al di fuori delle narrazioni degli autori. La criminologia clinica si colloca da qualche parte in questo continuum, e investiga la presenza o l’assenza della deliberata volontà di mentire, per farne un oggetto del suo esame, posto che, come vedremo, anche in 8 David Matza, Becoming Deviant, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1969. Cfr. la nostra analisi di Lo straniero di Camus in Alfredo Verde, L’assassino innocente: delitto, processo e pena ne Lo straniero di Albert Camus, parte I: Il delitto, in “Marginalità e so cietà”, 17, 107, 1991; Id., L’assassino innocente: delitto, processo e pena ne Lo straniero di Albert Camus, parte II: Il processo e la pena, in “Marginalità e società”, 18, 101, 1991. 10 Romolo Rossi e Al fredo Verde, Quattro fratelli, quattro modi per delinquere. Su alcuni rapporti fra criminologia e psicoanalisi, in “ Giornale Italiano di Psicopatologia”, 13, 4, 1997. 11 Franco Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Laterza, Bari 1986. 9 66 assenza di tale volontà il reo può fornire, a nostro avviso, resoconti confabulati. Ogni delitto, infatti, materializza un quid di indicibile, di intollerabile: raccontarlo, a qualsiasi livello, come ben mostrano gli studiosi che affrontano la narratologia dal vertice psicoanalitico, 12 significa tentare di dare parole a un grumo primordiale distruttivo, un quid di morte, di separatezza, di finitudine che ci attraversa, che ci circonda, dal quale siamo fatti, che i più immaturi (patologici? a questo livello, non è ancora necessaria una psicopatologia dell’azione delinquente) di noi mettono in atto, perché privi della possibilità di intessere un discorso che possa spiegare il loro dolore, ed essere alla base di “azioni” meno lesive della vita e della proprietà altrui. Certo è che è a questo livello che i l criminologo clinico dovrebbe indirizzarsi, se il suo scopo vuole essere quello di “comprendere” la personalità dell’autore, sia che debba attribuire a tale soggetto parole (e cioè costruire lui stesso una narrativa relativa a un discorso che all’autore manca, come nel caso dei delitti impulsivi), sia che debba invece smascherare, smitizzare le sue parole come “false” – e cioè negatorie di un altro livello narrativo, di un discorso “implicito” proprio dell’autore, più o m eno al di là della sua coscienza, della sua consapevolezza e quindi della sua volontà mistificatoria – un discorso, quindi, al di là della menzogna cosciente, o a ttinente al livello dell’inconscio, decifrando il quale il criminologo potrà scoprire le narrative implicite del reo, 13 ovviamente con l’alea, sempre presente in questi casi, del rispecchiamento di aspetti di sé intollerabili, proiettati nell’altro. Questo ci sembra il punto “debole” della teoria di Athens, che permette sì di cogliere, nelle narrazioni del reo, il multiforme avvicendarsi delle identificazioni che costituiscono la sua “comunità fantasma”, ma che non riconosce affatto il ruolo dell’interprete, nel gioco della relazione, nello “scrivere” la “sua propria” versione della narrazione dell’autore (ogni leggere è uno scrivere, secondo Barthes; 14 e lo è ancora di più se raccontiamo le storie dell’autore nel suo contatto con noi!). In altre parole, il reo non è “dato”, lì, estraneo, ma è implicato in un campo relazionale 12 Peter Brooks, Reading for the Plot: Design and Intention in Narrative, Knopf, New York 1984; tr. it. Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino 1995. 13 Per comodità, potremmo citare il nietzscheano “ha rubato perché voleva sangue”, e n on perché volesse “cose”: cfr. Alfredo Verde, Editoriale: Il delinquente pallido, il giudice rosso, la società punitiva e i media, in “Rassegna Italiana di Criminologia”, 14, 2, 2003. 14 Roland Barthes, S/Z, Seuil, Paris 1970, tr. it. S/Z, Einaudi, Torino 1973. 67 con noi. Il riferimento, ovviamente, è alla psicoanalisi, in particolare alle recenti correnti intersoggettive, e proprio alla psicoanalisi Ceretti e Natali fanno riferimento. Potremmo dire, quindi, accogliendo le modifiche degli autori italiani al pensiero di Athens, che l’autore fornisce di sé al ricercatore una narrativa, che viene dal ricercatore modificata, quando la scrive, proprio perché la narra e la fa sua; e poi magari ancora ulteriormente modificata, quando ci teorizza su; e così via, in un processo continuo di rielaborazione. Hollway e Jefferson hanno riconosciuto questo problema, partendo dall’altro corno della questione del delitto, quello delle interviste alle vittime di reato.15 Secondo gli autori, anche se, dopo la crisi dovuta alla natura prevalentemente quantitativa della ricerca, con indagini basate su questionari che obiettivizzavano e generalizzavano il problema della paura del crimine, trasformandolo in generica questione relativa alla “sicurezza”,16 le inchieste sulla vittimizzazione sono diventate sempre più qualitative, basate su questionari a r isposta aperta, nondimeno hanno trascurato un aspetto molto importante: che cosa, e come, veniva chiesto al soggetto, che si qualifica, per definizione, come soggetto “difeso” (cioè come soggetto che utilizza i meccanismi di difesa, come evidenziati dalla clinica e dalla teorizzazione psicoanalitica). Le difese vengono costruite però, in quest’ottica, non in una situazione unipersonale e intrapsichica, ma in una situazione interpersonale, la situazione dell’intervista. Emerge, cioè, il problema della dinamica dell’intervista, con le sue implicazioni transferali e controtransferali. Se questo discorso è ragionevole per le vittime, lo potrebbe essere ancor di più per quanto riguarda il reo: si tratta di soggetti difesi, consapevolmente o meno, quando non mentitori, e qu esto rende la situazione certamente ancor più delicata: sembra necessario, quindi, aumentare le cautele, anche perché dalle interviste con gli autori di reato realizzate nella pratica possono discendere effetti anche sulla vita degli stessi (cfr. le interviste effettuate nell’ambito delle perizie psichiatriche). Una rilettura del contributo di Athens, già letto da Ceretti e Natali, ci porta quindi ad affermare che è necessario comprendere quale sia la struttura del discorso del reo, sostenuta dalle sue difese, e alla base dei suoi resoconti narrativi, dal momento che “il discorso del narratore orienta 15 Wendy Hollway e T ony Jefferson, Doing Qualitative Research Differently: Free Association, Narrative and the Interview Method, Sage, London 2000. 16 Su questo ampiamente cfr. Roberto Cornelli, Paura e ordine nella modernità, Giuffrè, Milano 2008. 68 inevitabilmente il racconto, talché non esiste racconto senza discorso, e nemmeno viceversa…”.17 Il soggetto può mentire consapevolmente, si diceva, o meno (può raccontare agli altri delle storie, o r accontarsele: da rilevare quanto questa espressione “dica” a livello di multisignificazione): la grande scoperta della psicoanalisi è appunto questa, e passa attraverso lo studio delle narrazioni verbali (e anche non-verbali e preverbali) del paziente, per fargli “dire” cose che non sa di dire: “il dispositivo della parola consente all’analista di individuare il discorso della persona in analisi: la posizione che costui assume nel suo dire, il posto che prende nella storia che racconta”. 18 Ma la narrazione prodotta dal discorso ha natura immaginaria: o meglio, è un intreccio fra aspetti reali e aspetti immaginari, tanto che “un analista di generazione successiva a F reud, Jacques Lacan, arriverà a teorizzare la funzione della narrazione in psicoanalisi recuperandone interamente l’aspetto immaginario e assegnandogli una dignità euristica: la verità ha la struttura della finzione, dirà”:19 così la psicoanalisi si pone come “clinica del discorso”, attraverso la quale emerge un di scorso inconscio, “frutto di un s apere sul quale nessuno dei protagonisti dell’incontro clinico ha padronanza”.20 Hollway e Jefferson affermano che “the idea of a de fended subject shows how subjects invest in discourses when these offer positions which provide protections against anxiety and therefore supports to identity”.21 Il soggetto, quindi, è i n parte inconsapevole di quanto dice, e co mpito dell’interlocutore è quello di ristabilire l’“altra” narrazione che emerge dall’incontro, e ch e deriva dall’applicazione di una serie di regole trasformativo/interpretative: il problema è squisitamente clinico. E, clinicamente, il problema della menzogna può essere affrontato verificando il liv ello di psicopatia dei soggetti (esistono strumenti volti a tale scopo), posto che spesso i delinquenti impulsivi non hanno memoria, o hanno memorie distorte, degli atti commessi; quando si tratta di riportare alla coscienza gli eventi del delitto, è la possibilità di accedere al ricordo dell’atto compiuto che spesso appare estremamente tormentoso recuperare, sia per la natura stessa del delitto commesso, sia per l’emotività presente al 17 Valeria La Via, Psicoanalisi, criminologia e narrativa: per una nuova clinica criminologica, in Adolfo Francia, Alfredo Verde e Jutta Maria Birkhoff (a cura di), Raccontare delitti. Il ruolo della narrativa nella formazione del pensiero criminologico, Franco Angeli, Milano 1999, p. 31. 18 Ivi, p. 34. 19 Ivi, p. 35. 20 Ibid. 21 Wendy Holloway e Tony Jefferson, op. cit., p. 23. 69 momento dell’agito: si potrebbe parlare, addirittura, di un possibile aspetto amnesico, da paragonare all’amnesia traumatica, nonostante il paradosso, perché la traumatizzazione… può colpire anche chi infligge il trauma.22 Molti studi hanno trattato il problema dell’amnesia negli autori di reato, con l’obiettivo (ambizioso!) di sceverare le allegazioni di non ricordare vere da quelle false,23 ma anche le scale relative alla simulazione prodotte dagli psichiatri forensi statunitensi non si sono mostrate risolutive al proposito. Certo è che molte delle dichiarazioni di non ricordare da parte degli autori di reati violenti, come afferma nuovamente Moskowitz24 dopo un’esauriente meta-analisi, sono sincere: in base all’esame da lui condotto, questo autore rileva che l’amnesia dissociativa è piuttosto frequente dopo avere commesso un delitto violento, in particolare dopo un omicidio (va, nei campioni studiati, dal 20 al 47 per cento dei casi, con una media del 31 per cento sull’insieme dei soggetti delle diverse ricerche); Porter, Woodworth e Doucette 25 riferiscono addirittura che, in base alla loro metaanalisi, l’amnesia sarebbe presente, negli autori di omicidio, in percentuali che vanno dal 10 al 70 per cento dei casi. Il discorso diviene ancora più complesso quando si passa ad analizzare non solo e non tanto la amnesic claim, la dichiarazione di non ricordare da parte dell’autore, ma la natura e i l tipo dei ricordi prodotti, veri, confabulati o deliberatamente menzogneri. I contributi della ricerca permettono di differenziare, in primo luogo, gli autori psicopatici dagli autori impulsivi: un’indagine effettuata da Porter e Woodworth 26 ha rilevato che gli psicopatici, che pure commettono un numero di omicidi di natura strumentale maggiore dei non psicopatici, nelle loro narrazioni degli atti commessi tendono a presentare anche i propri atti strumentali come impulsivi e c ome dipendenti dal comportamento della vittima, evidentemente allo scopo di minimizzare la propria responsabilità; e inoltre tendono anche a no n raccontare alcune caratteristiche essenziali Andrew Moskowitz, Dissociation and Violence: A Review of the Literature, in “Trauma, Violence, & Abuse”, 5, 21, 2004. 23 Cfr. A mero titolo di esempio Dominique Bourget e Laurie Whitehurst, Amnesia and Crime, in “ Journal of the American Academy of Psychiatry and Law”, 35, 469, 2007. 24 Andrew Moskowitz, op. cit. 25 Stephen Porter, Michael Woodworth e Naomi L. Doucette, Memory for Murder: The Qualities and Credibility of Homicide Narratives by Perpetrators, in Sven A. Christianson (a cura di): Offenders’ Memories of Violent Crimes, John Wiley & Sons, Chichester (England) 2007. 26 Stephen Porter e Michael Woodworth, “I’m Sorry I Did It … but He Started It”: A Comparison of the Official and Self-reported Homicide Descriptions of Psychopaths and Non-psychopaths, in “Law and Human Behavior”, 31, 91, 2007. 22 70 dell’atto commesso (per esempio le caratteristiche del luogo del delitto, l’uso di armi, la presenza in loro di impulsi di natura sessuale, l’ammontare della violenza inferta, ecc.). In altre parole, gli psicopatici mentono più dei non psicopatici. Ma tutti questi studi, ancorché suggestivi, evitano di fare un passo ulteriore, e cioè di esaminare qualitativamente il contenuto delle narrative degli autori di reato, che, a nostro parere, può essere utile anche quando sia menzognero, in quanto anche la menzogna, intesa come prodotto della fantasia, può illuminare sulle caratteristiche profonde di chi la conia: tutto ciò, allo scopo di comprendere in generale, e soprattutto non con fini strettamente giudiziari, che cosa sia passato nella mente del reo, anche dal punto di vista della possibile iscrizione del fatto-reato nella sua storia. La ricostruzione dello stato mentale del reo potrebbe permettere di evidenziare anche la capacità/possibilità di quest’ultimo di elaborare il trauma del delitto commesso, delitto che molto spesso costituisce l’unico sbocco di una situazione interpersonale e relazionale senza uscita in cui il soggetto si è trovato invischiato, appunto quella che dalla scuola lionese è stata definita la “situazione della delinquenza”. 27 Le diverse versioni di una storia permettono infatti di precisarla, di sistemarla, di scegliere in via definitiva la strada della falsità (ma, si diceva, la menzogna può trasmettere un “altro” livello della verità), o per converso permettono agli aspetti più genuini e soggettivi di emergere, al di là delle manipolazioni, in un continuum che va, psicopatologicamente, dal tentativo deliberato di raccontare una storia non vera, alla possibilità di confabulare, perché non si ricorda, in entrambi i casi parlando di aspetti importanti di sé. È opinione di chi scrive che l’atto delittuoso compiuto, oltre a rappresentare la scarica di un contenuto pulsionale aggressivo o predatorio, costituisca anche l’occasione per risistemare e “riscrivere” successivamente la propria storia, 28 dal momento che produce in primo luogo nella collettività la coazione a narrare, in particolare quando si tratti di azioni aggressive, sia attraverso le pratiche istituzionali (il processo), sia Marcel Colin e Jacques Hochmann, Diagnostic et traitement de l’état dangereux, in Marcel Colin (a cura di), Études de criminologie clinique, Masson, Paris 1963. 28 Per tutti, pur appartenenti a tradizioni differenti, cfr. da un lato Arnaldo Novelletto, Psichiatria psicoanalitica dell’adolescenza, Borla, Roma 1986; Arnaldo Novelletto, Daniele Biondo e Gianluigi Monniello, L’adolescente violento. Riconoscere e prevenire l’evoluzione criminale, Franco Angeli, Milano 2000, e, dall’altro, Gaetano De Leo e Patrizia Patrizi, Psicologia della devianza, Carocci, Roma 2002. 27 71 attraverso le pratiche informali della criminologia popolare. Ma proprio per l’effetto sismico che la sua azione ha nei confronti delle reti sociali cui appartiene, e della più ampia comunità, anche il reo (e talora controvoglia, per esorcizzare i sentimenti di colpa che emergono dalle sue profondità interiori, o le allegazioni di colpa da parte dell’esterno) spesso si sente pressato a narrare la propria versione degli eventi. Così, possiamo leggere nelle varie confessioni e nelle varie versioni fornite dal soggetto la storia che si dipana via via dei suoi rapporti affettivi più significativi, sia passati che presenti. Diventa anche possibile verificare, con un esame attento delle produzioni narrative del reo, se nelle successive versioni la manipolazione dei ricordi si faccia più evidente, e le difese si strutturino maggiormente, o se, al contrario, il parlare più volte, a distanza di tempo, dello stesso evento permetta di meglio recuperare i ricordi dal deposito della memoria a lungo termine: diremo allora che la ricostruzione delle narrative del reo può essere paragonata al lavoro dello storico, che narra del passato, ma immerso in una situazione attuale, e t enendo inevitabilmente conto dell’atmosfera del presente. Questa valutazione appare di rilevante importanza al fine dell’analisi delle dinamiche psicologiche profonde e delle caratteristiche della personalità del soggetto che ricorda, che non appaiono legate alla disponibilità della memoria, ma emergono nel racconto allo stesso modo di come in una roccia sedimentaria sono presenti inclusioni di altre rocce, poi conglobate nel reperto esaminato, ma riconoscibili e valutabili nella loro natura. In una parola, possiamo dire che la memoria può distorcere (anche volontariamente) gli eventi concreti, ma che spesso le successive versioni di una storia fanno emergere gli aspetti meno consapevoli e m eno controllati della personalità, che permettono allo studioso che si immerga in tale materiale di meglio inquadrare le caratteristiche del soggetto; e, alla fin fine, raccontare successive versioni di un delitto può anche, in casi fortunati, costituire un modo per il reo di elaborare quanto ha commesso. Non crediamo che sia possibile spiegare tutto questo con la teoria di Athens. In altre parole, ci sembra che Athens non abbia sufficientemente sviluppato l’idea di una verità “narrata” dal soggetto, e per ciò stesso inevitabilmente sottoposta a “ distorsioni”: pure, i suoi contributi sul concetto di “conversione”, in base alla quale la “comunità fantasma” di un soggetto può modificarsi, avrebbero potuto portarlo su questa strada. Forse, azzardiamo, è proprio l’appartenenza alla corrente interazionista dello studioso, diffidente verso qualsiasi spiegazione del tipo “narrativa 72 latente” (e cioè topograficamente inconscia), magari ritenuta troppo simile alle aborrite narrative funzionaliste, e v erosimilmente più legato a una sorta di apprezzamento “fenomenologico” degli eventi così come appaiono a ogni singolo attore sociale, che gli ha impedito di fare il passo cruciale: nella nostra opinione, la narrazione del soggetto contiene sempre più di quanto egli dica in modo esplicito. Ma qui è evidente (anche se Ceretti e Natali sembrano volerlo occultare) l’aspetto innovativo del loro contributo rispetto a quello di Athens. Gli autori italiani, infatti, non rifuggono dal confrontarsi con l’inconscio dell’autore di reato, e a esso fanno riferimento esplicito perlomeno in due occasioni: in un punto del volume sembrano volere adottare una versione di inconscio ispirata alla psicoanalisi (citano addirittura uno studioso lacaniano), mentre in altro momento sembrano aderire a una versione dell’inconscio più vicina a quella, molto meno interessante, propria dei recenti approcci cognitivisti. È proprio questo, si diceva, che va considerato l’apporto “innovativo” degli studiosi milanesi: nei casi narrati si riconosce, sì, l’influenza della comunità fantasma, ma si evidenzia anche quanto ogni lettura di tipo fenomenologico, cioè basata sull’empatia, sia insufficiente. Al Verstehen, proprio di ogni narrativa basata sull’empatia, va infatti aggiunto l’Erklären, proprio di ogni visione scientifica di un narratore “non ingenuo” (il suo “orizzonte artificiale”, per dirlo con le belle parole di Adolfo Ceretti): e al lora la “cosmologia” di ogni reo risulta costituita, ancora una volta, attraverso un incontro, che permette di giungere abduttivamente a una narrazione, che contiene sempre qualcosa di più della semplice narrativa del reo. Altro, ulteriore problema, a questo connesso, è quello legato “a c hi” e “a quale scopo” si narri: narratario e scopo dipendono infatti dai contesti e dalle pratiche di fondo (discorsive e non) in cui deve essere sistemato il discorso del narratore (per chi narrano i narratori giudiziari? Per chi narra il criminologo? Per chi narrano i narratori della cosiddetta “criminologia mediatica”?). Qui va un a ltro riconoscimento ad Adolfo Ceretti, e di qui partirebbe un’altra digressione se non fosse necessario concludere, affermando però fortemente che il libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali costituisce un fondamentale contributo alla criminologia clinica, sola capace di portare a u na più approfondita comprensione degli autori di reato. 73 Appendice Cosmologie, media e violenza Alessandro Dal Lago 1. Sono molto lieto di essere stato invitato da Adolfo Ceretti e L orenzo Natali a questa giornata di studi. Desidero premettere che mi ritrovo molto sia rispetto ai contenuti del libro sia rispetto agli interventi che mi hanno preceduto. Ho letto e ascoltato parole molto familiari, con le quali decisamente simpatizzo. Ho apprezzato, in particolare, i continui riferimenti, anche quelli critici – giustamente critici, aggiungerei –, alla tradizione dell’interazionismo simbolico, e quelli alla dimensione “narratologica” nelle scienze dell’uomo. Quest’ultima è divenuta oggi, dopo un lungo cammino, un approccio accettato all’interno delle scienze umane, accolto trasversalmente, tra l’altro, da tanti saperi. Ricordo che ancora nel 1991, discorrendo del più e del meno, a New York, con un celebre psicologo sociale, gli dissi: “Ho letto il suo articolo, molto bello, sulla narrativa dell’azione sociale… Sono molto interessato a q uesti temi”. Lui rispose, semplicemente: “Ah sì? ma lei che razza di accademico è? Full Professor, Associate oppure Assistant?” E io: “Ma… a dire il vero sono Ricercatore, in Italia. Qui si direbbe Assistant, ma lasciamo perdere…”. Questo, semplicemente per dire che ancora oggi il mondo accademico funziona così: se si è Assistant tendenzialmente si è empiristi e quantitativi, se si è Associate si è più votati al cognitivismo, e quando si diventa “ordinari” si può essere testualisti… Detto questo, ribadisco che mi riconosco moltissimo in quello che ho letto. Ho davvero apprezzato il libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali innanzitutto perché è una miniera di materiale. È certamente costruito in modo assai complesso, con un’apertura verso le “cosmologie” e le strutture narrative auto-poietiche. Si percepisce che gli autori sono entrati a fondo in queste dimensioni. Il libro insegna anche molte cose. Tra l’altro, 77 molti riferimenti bibliografici li ignoravo e, non ho difficoltà a confessarlo, li utilizzerò. Ritornerò più avanti, brevemente, sul libro. 2. Io sono stato invitato a p arlare di “media e violenza”, e quindi immagino che tutti si aspettino alcune riflessioni sulla televisione. Ma io vi parlerò di un argomento diverso, ovvero de “La violenza come mezzo”. Da un po’ di anni non mi occupo di questioni criminali, se si fa eccezione per il libro che gentilmente Adolfo ha citato prima, ovvero quello pubblicato nel 2003 da Feltrinelli e intitolato La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini. Il volume è il risultato di una ricerca che ho condotto insieme a un criminale “redento”, che ha poi vinto un dottorato di ricerca e scritto numerosi saggi. È solo grazie a l ui che sono riuscito a portare a termine con successo la ricerca. Senza la mediazione di un gatekeeper non sarei mai stato in grado di intervistare ex mafiosi o rapinatori di banche. In questo itinerario ho testato un “metodo” che può essere definito una “narratologia piatta” – e c’è un motivo per cui lo designo così – che cerca il più possibile, anche se forse non riesce nel suo intento, di rifuggire da interpretazioni profonde. Mi spiego. Tendenzialmente, la finalità di chi opera nel campo delle scienze umane – sociologi, psicoanalisti, psicologi, criminologi, ecc. – è quella di costruire dei meta-testi sui testi – esattamente come ha f atto Giampaolo Lai quando ha interpretato un testo che, a sua volta, era l’interpretazione di un testo. Naturalmente, alla base di questo processo troviamo un individuo che non coincide con il suo testo. Difatti, a mio giudizio il testo, fin dall’inizio, è una falsificazione di ciò che una persona pensa di poter dire. Messa in questi termini la questione, come capirete, diventa immediatamente assai complicata. Tendenzialmente, quello che come etnografo – che se volete è una via di mezzo tra un antropologo, che non sono, e un sociologo, che non sono più – cerco di far emergere è una sorta di “verità nascosta alla luce del sole” all’interno delle relazioni umane. Nella nostra indagine sul crimine a Genova, dopo aver intervistato quattrocento persone “etichettate” come criminali, che comprendevano giocatori d’azzardo, rapinatori di banche, autori di omicidi, ecc. quello che è emerso è ch e tendenzialmente i crimini li può commettere chiunque, senza distinzioni, e che chi li commette finisce in carcere. 78 Mi rendo conto che non è una scoperta poi così originale… però è questa la principale indicazione che emerge dalla ricerca. Stando così le cose, e nutrendo una simpatia ontologica per i “ladri”, mi astengo da qualunque considerazione legata alla cura e al trattamento penitenziario perché, come potrete intuire, è chi aro che nella visione scientifica dei clinici ha senso che esistano perizie e a nalisi psicologiche dei delinquenti. Ma se i crimini sono potenzialmente commessi da chiunque, che cosa facciamo – anche in termini di definizione sociale – di chi commette azioni violente e r eati gravi senza essere giudicato incapace di intendere e volere? Consideriamo tutti colpevoli e, di conseguenza, operiamo una pericolosissima estensione della terapia all’intera società? Oppure mettiamo in discussione la distinzione tra responsabilità e irresponsabilità? E qui arrivo al punto, perché penso che la cosa migliore per onorare un’occasione come questa sia di non nascondere un piccolo dissenso rispetto a quanto Ceretti e Natali scrivono rispetto al “male”. Lo dico apertamente. Occorrerebbe stare qui alcune settimane a discutere sulle ascendenze teologiche, bibliche, filosofiche e psicoanalitiche, ma il problema è che, se queste ultime non vengono chiarite, la parola “male” rischia, come spesso accade, di diventare un “f atticcio” – come lo definisce Bruno Latour giocando sulla stessa pronuncia, in francese, della parola “fatto” e “feticcio”, e cioè un concetto che finisce per assumere una dimensione mitica. Personalmente, sono molto sensibile a letture di tipo teologico, e tutto sommato ho molta più simpatia per i Catari che per san Paolo. Ne discende che il “male” mi interessa, eccome. Ma il problema è il seguente: questo concetto funziona nelle analisi dei fatti sociali in cui, più o meno, ci riconosciamo? È questa la domanda. Per rispondere – e anticipo che ho qualche dubbio che quanto dirò “funzioni” – faccio riferimento, appunto, alla questione della “violenza come mezzo” e a una ricerca empirica che sto svolgendo sui militari, in particolare su un tipo di killer contemporaneo, che altri non è ch e il mercenario. 3. Un ragionamento sul mercenario è perfettamente coerente, a mio giudizio, rispetto ai temi di cui stiamo parlando, perché è uno che uccide, è 79 un omicida, esattamente come lo sono i soldati, anche se i mercenari sono molto meno numerosi dei soldati – e poi vedremo perché. Permettetemi di aprire una piccola parentesi: in quel meraviglioso libro scritto da Georges Dumézil e i ntitolato Ventura e sventura del guerriero si analizza l’ambiguità del ruolo simbolico del militare e del guerriero nella cultura indo-europea. In breve, una delle tesi contenute nel volume è che la società affida al guerriero il compito di uccidere in suo nome. Ciò produce un bel “clash simbolico”, poiché da un certo punto di vista il guerriero incarna la funzione cardine dell’attività militare – la difesa della società –, ma dall’altro è il colpevole delle uccisioni. Di conseguenza, il militare è al contempo il nostro eroe – ricorderete tutti la scena del ritorno dei carabinieri da Nassiriya, i carabinieri sui quali l’allora presidente della Repubblica Ciampi protendeva le mani con un gesto altamente simbolico – e uno del quale non sappiamo e no n vogliamo sapere nulla proprio perché… ammazza… e lo fa con modalità che noi perlopiù ignoriamo, a meno che non si desideri ardentemente di provare a conoscerle. Rispetto a qu esta figura ambigua, ambi-valente, qui fugacemente ripresa, si può l eggere in controfigura quella del mercenario. Fino a u na trentina di anni addietro il mercenario era identificato prevalentemente con l’avventuriero che andava a commettere gesta orribili, in genere nel centro dell’Africa, pagato per lo più dalle società che estraevano diamanti – e da qualche parte nel mondo esistono ancora alcuni di questi personaggi. Il mercenario contemporaneo, invece, è una figura totalmente diversa. È un killer, diretto o indiretto, la cui professione, nel corso di questi anni, ha subito una interessantissima ri-legittimazione. 4. Genova, città nella quale vivo insieme al mio collega Alfredo Verde, è davvero un luogo interessante per svolgere indagini etnografiche. Nei suoi carrugi sono riuscito a conoscere molti ex paracadutisti, poliziotti, con i quali chiacchiero spesso e che mi forniscono numerose informazioni, molti contatti… È attraverso di loro che ho co nosciuto alcuni di questi mercenari, di questi contractors, tra cui anche uno di quelli che ha subito un processo molto celebrato dai media. Il fatto è che nei processi che li riguardano non si vuole propriamente sostenere l’accusa, così come avviene per qualsiasi altro processo nei confronti di combattenti civili 80 all’estero: quando c’è di mezzo un contractor le accuse sono fatte letteralmente cadere. In estrema sintesi, che cosa fa un contractor? Ufficialmente si occupa di una quantità industriale di cose, che vanno dal lavoro nelle basi alla logistica, dal guidare i camion… all’uso delle armi, come avviene, ovviamente, sia in Iraq che in Afghanistan. Se il rischio che si corre è quello di subire attacchi armati, è naturale che il mercenario faccia anch’egli ricorso all’uso delle armi. Per esempio, quando nel 2004 ci fu la famosa “battaglia dei ponti”, a Nassiriya, con il coinvolgimento di alcuni nostri soldati, nessuno ha detto, ma tutti sapevano (in primis la televisione), che i nostri soldati erano protetti da contractors filippini. 5. Uno degli aspetti più affascinanti dell’organizzazione militare contemporanea è l’organizzazione “a cascata”. Per esempio, i funzionari americani nel Golfo, o in Iraq o in Afghanistan, sono protetti da contractors che possono essere prelevati dalle truppe, i quali, a loro volta, sono protetti da altri soggetti, fino a che si arriva… per citare Bertold Brecht, ai cani, ai polli e ai mendicanti, cioè ai disgraziati che vendono la loro vita per poche centinaia di dollari al mese. I contractors italiani appartengono al “ceto medio” di questa piramide. Per fornire dei dati aggiungo che siamo in una fase di espansione del mercato, al punto che dopo le guerre post-fine del bipolarismo si calcola che per proteggere i circa 200.000 soldati americani e i circa 90.000 europei che stazionano tra Iraq e Afghanistan siano presenti quasi 300.000 contractors. Allora, qual è il punto? Perché racconto queste storielle e perché do questi dati? Il punto è essenzialmente che si tratta di persone che sono uscite dall’ombra di un mestiere “ignobile”, cioè considerato vergognoso – quello del killer – per acquistare, invece, il rango di difensore di alcuni nostri interessi collettivi. Fatte queste premesse, concedetemi qualche breve citazione tratta da una ricerca sulla quale sto lavorando, in cui sono riportati brani “piatti” di interviste: “piatti” nel senso che non opero alcun tentativo di interpretazione “profonda”, per un motivo che risulterà abbastanza evidente. Tanto per iniziare, descrivo rapidamente l’atteggiamento di un militare, un ex ufficiale dei paracadutisti che ha fatto il contractor e oggi 81 ha abbandonato completamente questa attività. Per la precisione, egli è ora un mio collaboratore in campo scientifico, e sta per prendere una laurea specialistica… Questo testo si riferisce al primo episodio di combattimento diretto in cui sono stati coinvolti ufficialmente alcuni soldati italiani dopo la seconda guerra mondiale, vale a dire il famoso scontro al check-point “Pasta”. A un certo punto il mercenario narra quello che vedeva dalla sua postazione, dall’autoblindo sul quale era appostato: “Ombre che si muovono e danzano davanti al mirino, trattengo il respiro, premo lentamente il grilletto e parte la raffica controllata. I ragazzi sparano a raffica e continuano, non serve a niente, eppure disintegrano qualunque cosa ci sia all’interno, ma chi c’era dentro? Guardo nella penombra… nessuno, le ombre, o qualunque cosa fossero, erano andate via. A terra delle macchie di sangue, tanto sangue. Usciamo e di etro l’edificio troviamo i miei ragazzi rannicchiati in un angolo con gli sguardi vitrei dalla paura”. Quella descritta è un’esperienza qualsiasi che qualunque militare può aver vissuto. Ciò che emerge da questa intervista è, in buona sostanza, il carattere assolutamente procedurale dell’attività. Quasi tutti gli intervistati della mia ricerca sono persone che non avevano mai sparato a un essere umano, persone che in genere avevano una scarsissima professionalità, oppure militari anche bravi da un punto di vista strategico ma che non si erano mai trovati in un conflitto a fuoco. Le mie domande erano mirate esattamente a ricostruire il momento della verità, cioè quel momento in cui ti esponi, esponi la tua vita e/o la prendi a qualcun altro. Va aggiunto, per ben comprendere quanto stiamo dicendo, che nei conflitti e nei combattimenti contemporanei il nemico non lo si vede mai. C’è un bellissimo romanzo che si intitola Jarhead, scritto da Anthony Swofford, alla fine del quale l’autore, un ex marine che aveva combattuto nella guerra del Golfo, afferma: “Chiedo perdono a tutte le madri irachene per aver ucciso i loro figli senza averli mai visti”. Non si vedono, dunque, i nemici nei conflitti contemporanei: in un episodio che abbiamo ricostruito, avvenuto Iraq, c’è un gruppo di marines su un elicottero che scambia degli oggetti per delle armi, e procede a un “azzeramento”. In questi casi l’attore non ha alcuna consapevolezza del genere di violenza descritta nel libro di Ceretti e Natali, oppure in un altro scritto bellissimo di Jack Katz, dove sono descritte analiticamente tutte le interazioni che, confluendo, conducono all’atto conclusivo; qui, al 82 contrario, stiamo parlando di persone che schiacciano un grilletto e polverizzano decine di persone. Quasi tutti i resoconti che ho r accolto nel corso di questa ricerca, che non è ancora terminata – per ora ho iniziato a l avorare su questioni solo apparentemente poco significative, come per esempio la formazione professionale, riservandomi di affrontare in un secondo momento l’analisi in profondità –, sono resoconti che comportano l’assoluta rimozione dell’aspetto sacrificale e soggettivo della violenza. L’uso che faccio della parola “rimozione” è lontano dal significato psicoanalitico. La curvatura che conferisco a questo termine rimanda all’idea che quello che noi facciamo agli altri spesso è come se non fosse visto dai nostri occhi: è s emplicemente una stringa in una procedura. Letteralmente, è una pratica che recupera senso solo all’interno di altre pratiche. Per dirla in termini assai semplici, stiamo parlando di quelle attività di aggressione mortale in cui sembra, a un certo punto, che la morte non esista… I film contemporanei sulla guerra in Iraq iniziano lentamente a mostrare che cosa significa trovarsi da quelle parti, soprattutto in relazione al fatto di combattere un nemico che non c’è, perché come sapete la “War on Terror” non ha senso, perché il terrorismo non è pr opriamente un nemico, ma una tattica. Ne consegue, semplicemente, che il nemico sparisce, così come la violenza e l’atto di uccidere. Rimane solo un’attività procedurale. 6. È questo, in sintesi, il punto che desideravo toccare e approfondire. Dato che il tema che mi è s tato assegnato all’interno di questo seminario è “violenza e media”, alla luce di questi ragionamenti si evince che, letteralmente, la violenza è un mezzo. In ogni caso, le analisi che riguardano il modo in cui i media trattano questo tipo di violenza mostrano una logica assolutamente analoga, vale a dire la produzione di una realtà de-semantizzata. Un ulteriore quesito riguarda quei comportamenti in cui la violenza non è individuale, ma non è neppure una violenza collettiva. Questo passaggio è decisamente interessante, perché la violenza qui è Gestalt, ovvero qualcosa che ci sovrasta. È una specie di produzione di contesti di violenza e di morte, all’interno dei quali noi di fatto siamo gettati, in modo più o meno tragico, ma senza vedere... 83 E allora, tornando ancora al libro di Adolfo e L orenzo, ripeto per l’ennesima volta che ho molto apprezzato la critica che Lonnie Athens fa al modello interazionista classico, e soprattutto il tentativo da parte dei due autori di ricostruire un m odello genetico-dinamico di produzione delle logiche che portano poi a commettere atti violenti. Reputo che tutto quello che è s tato detto negli interventi che ho avuto la possibilità di seguire confermi – con integrazioni, variazioni, distinguo e rimandi giustificati da altri ambiti culturali – la significatività di questo approccio. Condivido pienamente, inoltre, che in questi ambiti di riferimento l’elemento giudicante della legge conti relativamente, e intervenga solo come fatto operativo. Detto altrimenti, c’è e… dobbiamo tenerne conto. Tutto questo, naturalmente, riguarda la ricostruzione dei percorsi attraverso i quali l’individuo, in situazioni interattive, cioè in situazioni di scambio di informazioni interpersonali, produce azioni sociali. Ma questi modelli interazionisti hanno senso, sono utili quando parliamo di azioni compiute dai militari contemporanei? La struttura dei ragionamenti contenuta nella ricerca di Ceretti e Natali mi servirà moltissimo quando riusciremo a intervistare i militari, mettendoli nella condizione di andare al di là delle banalità difensive che raccontano. Ma le scienze umane e le scienze sociali in senso stretto sono o non sono attrezzate per indagare la dimensione in cui gli individui sono gettati in moduli di violenza organizzata globale? Per concludere, sottolineando che la questione che ho sollevato non è solo un vezzo di un sociologo del tutto anomalo, cito una frase, che reputo ripugnante: è la dichiarazione di uno dei capi delle società di contracting più potente, e ch e vi leggo invitando a meditarci sopra: “Quando noi andiamo in qualche luogo, in qualche paese, avviene o perché siamo stati ingaggiati dal governo degli Stati Uniti, o perché siamo stati ingaggiati da qualche altro governo. Non mi vergogno di dire che lo facciamo per soldi, ma lo facciamo secondo le regole”. 84 Note su Cosmologie violente Eligio Resta Si tratta di poche e veloci considerazioni che avrei fatto a voce. Avrei dovuto, ma soprattutto voluto esserci per discutere di questo straordinario libro che ritengo indispensabile per chi voglia avvicinarsi a un tema così delicato e, nonostante le conoscenze diffuse, sfuggente, come quello della violenza. Adolfo Ceretti non è nuovo a saggi di questo tipo, ma stavolta vi è qualcosa in più, come una condensazione di cose intorno a cui da anni andava riflettendo. Per questo lo ringrazio di avermi suggerito ancora una volta, insieme a Lorenzo Natali, nuove strade e nuove prospettive. Del resto si sa, ma non è una conclusione cinica, il mistero della violenza sta tutto nella sua “osservazione”. 1. Chi è competente a parlare della violenza? Chi ne ha studiato anche marginalmente i percorsi sa che questa domanda appare, prima o p oi, ineludibile. Non c’è un sapere esclusivo, monopolistico della violenza eppure ogni sapere è competente a dire la sua su questo fenomeno. Anzi, da sempre, essa si presenta come un grande “campo” semantico (Bourdieu) che mette insieme spazi di esperienze e orizzonti di aspettative. Per-vade forme, attraversa comportamenti, disegna uni-versi sempre uguali e sempre differenti; a partire dall’epico e dal tragico. Non è un caso che Simone Weil definiva l’Iliade come il grande poema della violenza e non è un caso che in Eschilo essa si presentava sotto forma di somiglianza e differenza rispetto al suo complice e rivale che era la “forza”. Nel Prometeo incatenato Kratos (forza) e Bia (violenza) tengono in catene Prometeo e, a E festo che domanda “ragioni”, Kratos accenna qualche risposta mentre Bia rimane muta continuando nel suo compito (destino?). Kratos trova giustificazioni, mentre la giustificazione della violenza è quella di non averne alcuna. Sulla interpretazione seguente ha pesato troppo il paradigma politologico, fino a ridurne la portata. 85 Dunque una delle domande ricorrenti nei discorsi sulla violenza è, non a caso, quella epistemologica. In maniera spesso non esplicitata, è stata questa una delle preoccupazioni, e u no dei problemi, del discorso scientifico. Per questo si è di ventati esigenti nei confronti del sapere scientifico: si è p rogressivamente richiesto di non avvilire la complessità del campo semantico e di conservare le connessioni, tante, non rigide, della dimensione della violenza. Qui tocco uno dei motivi di interesse vero per il libro, interessantissimo, di Adolfo Ceretti e L orenzo Natali. Il paradigma criminologico, puntuale, rigoroso, non si esaurisce mai dentro se stesso, non si auto-perpetua, ma si apre pagina dopo pagina alla “antropologia” della violenza (da non confondere con la sua riduzione disciplinare). Non ci sono guardie confinarie delle discipline che tengano, quando i temi sono veri. Ora, a p arte i f requenti e utilissimi excursus metodologici che accompagnano puntualmente ogni approccio al tema (soprattutto quello interazionista con le sue numerose varianti), merito indiscusso del testo è quello di ridare continuamente spessore alle tante osservazioni, ai tanti linguaggi con cui è s tata letta la violenza. Persino le narrazioni (story telling) segnano una continua riapertura del campo che nessun linguaggio formalizzato riesce inevitabilmente a chiudere. 2. Ogni cosmologia, in quanto tale, è sempre potenzialmente aperta a qualsiasi dialogo tra bene e male… in presenza di uno scambio significativo tra perpetratore e vittima. In tal senso “fare il male assume […] una dimensione relazionale” (p. 381). La categoria concettuale usata mi pare rilevante: gli autori parlano di cosmologie, al plurale, lasciando intravedere il carattere multiforme, plurale degli universi “vissuti” della violenza; anzi, quanto più si ripresenta una spiegazione causale definente e definitiva, tanto più il gioco della “genealogia” si allarga (a proposito, la narrazione cinematografica e quella degli attori anonimi, individuali, coincide in un gioco dotato di impressionante regolarità). Sarà forse da prendere sul serio quello che diceva Antonin Artaud sull’impossibilità del teatro? Dunque, le cosmologie! Termine mediato da Eugène Minkowski, Lonnie Athens e altri, ma fortemente valorizzato da A dolfo Ceretti e Lorenzo Natali: del resto uno dei primi saggi di Adolfo, che mi avevano appassionato, era dedicato all’idea de L’orizzonte artificiale (1992). Le tante cosmologie sono tutte costruite intorno al modello di un orizzonte di senso, più o meno vero, più o meno sostitutivo, più o meno immaginario 86 dentro cui l’esperienza violenta si va a collocare (anche se qui la differenziazione tra vittima e violento va forse accentuata di più). Ma le cosmologie – è questa una mia domanda, un problema che voglio porre ad Adolfo – rischiano di depotenziare una sonda estremamente efficace dell’orizzonte della violenza, peraltro presente in tutto il li bro: voglio dire che al plurale delle cosmologie, tante, tutte diverse, corrisponde un singolare, del tutto privo di vizio metafisico. Questo singolare è la cosmologia della violenza. Tornando ai greci, kosmos è un universo dentro il quale si realizzano ordine e armonia; naturalmente! Il suo oppositivo è taxis come ordine imposto. Spesso i concetti greci lavorano mantenendo giochi oscillatori: accade così per l’archè che è insieme principio, origine, cominciamento, ma anche, ordine imposto, comando, governo. Kosmos indicava esclusivamente equilibrio di un m ondo che naturalmente si reggeva “abbracciando” (l’Ungreifende di Karl Jaspers) ogni suo contenuto: ogni altro intervento manipolatorio era taxis. La sua semantica indicava il luogo che si vive e s i condivide: è a mbiente, ecologia, luogo e senso comuni. Penso che tale semantica non vada trascurata, soprattutto a proposito della violenza. Questo significa che la violenza abita questo cosmo, ne è ricompresa, è presente, insieme alla forza (sua metamorfosi) e al suo contrario (a proposito, quale è il contrario della violenza?). 3. Ridare dimensione ecologica alla violenza è passo indispensabile per evitare misconoscimenti e per prenderla sul serio: non è di altri, non appartiene ad altri mondi, è nostra. Qui il pensiero antico ancora ci parla. Aristotele nel definire la giustizia diceva che essa consiste nell’essere in amicizia con se stessi, indicando così il vero orizzonte ecologico: “se stessi” può essere l’individuo, ma può essere, appunto, il pianeta, il cosmo. La violenza non abita gli altri, ma abita il noi. Qui il passo ulteriore del ri-conoscimento è l a negazione del misconoscimento, ma è anche la consapevolezza dell’auto-inganno. Nel senso che bisogna sapere che ingannare la violenza è un gioco serio, che non bisogna raggirare l’inganno della violenza, che non si può declamare, ma che bisogna esperire per sé (l’obiezione dello stolto in Hobbes è vana). La teoria finora ci ha r accontato che non sono molte le vie d’uscita. A mostrarlo è i l singolare dialogo degli anni trenta del secolo scorso tra Albert Einstein e Sigmund Freud sulla guerra. Nel gioco delle tante 87 “guerre con altri mezzi”, ci dice la teoria, si scopre una sincera dimensione virtuosa. Il diritto, i parlamenti, dove – e se – si coltivano meccanismi dialoganti, possono sancire la neutralizzazione della violenza. Ma bisogna prenderli sul serio, “non ingannarli”. Ovviamente la pace è un’altra cosa! Essa non può essere letta come semplice “interruzione della guerra”. E questo è il problema di ogni “pacifismo” e riguarda le relazioni tra gli Stati, ma anche le pratiche istituzionali e i rapporti della vita quotidiana: il globale e il locale. Intanto, in attesa dell’etica, non ci rimane molto altro; ma non è poca cosa. Nell’idea di cosmologia sono in gioco perlomeno due processi, diversi ma convergenti: il primo attiene a soggetti e s tatuto dell’osservazione, il secondo al gioco dei rimedi (il pharmakon). Per esempio, la retorica dei “crimini contro l’umanità”! Come se il crimine contro l’umanità non fosse umano, troppo umano, come se venisse da altri mondi, come se l’umanità (il suo cosmo), non producesse il crimine e nello stesso tempo il suo rimedio. Il cosmo dimidiato (i violenti e i miti) accomuna e lega allo stesso mondo e questo ci pone di fronte alle nostre responsabilità in maniera più aperta. Non c’è rimozione che tenga, non c’è skandalon che regga. Del resto, quando Walter Benjamin definiva la violenza (Tesi di filosofia della storia), parlava di una relazione che lega un prepotente e un oppresso, che assumono di volta in volta vesti e aspetti diversi, relazione di fronte alla quale andava sancito un divieto di stupirsi. Cosmologia allora è consapevolezza ecologica della presenza della nostra violenza, con la quale si convive e ch e non giustifica alcuna meraviglia. Ma è anche ri-conoscimento della possibilità del suo contrario. Finora la semantica “vincente” ha legato tutto a meccanismi immunitari (il diritto, la politica), ben noti nella loro doppiezza. Per anni, e continuo a farlo, ho insistito sulla categoria platonica della legge come pharmakon, insieme veleno e antidoto che ammala curando e c ura ammalando (dimensione condivisa dalla violenza e dalla tecnica). Vi è un’altra semantica, non vincente, esclusa ma non eliminata, che sfugge a ogni precettività e che, per questo, aggira la paranoia dei ta pharmaka. Essa è consegnata a modelli “debolmente” forti, paradigmatici senza averne la prepotenza: sono fondati sulla “scommessa”, sul mettersi in gioco personalmente, trasformando la paranoia della violenza (la coazione a vendicarsi), la sua “fissazione” in metanoia, trasformazione dall’interno. 88 A ben vedere è questo il problema che il libro indaga attraverso i “racconti” e c he in maniera esemplare pone come il senso di una ricerca sulla violenza. Lo fa lavorando su vari versanti, non ultimo quello dell’etica laica, ma non trascurando di mettere a fuoco il tema del “male”. Mi ha colpito perché, laicamente, il problema va posto e non misconosciuto; del resto è stato quello il tema tardo di Norberto Bobbio nella sua autobiografia e la domanda che si poneva era perché Stalin muore nel suo letto e Anna Frank muore in un forno crematorio. In attesa del tribunale della storia, ricordarlo è già un porre il problema. 89 Indice Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali Presentazione Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali Verso le “cosmologie violente”. Per una guida alla lettura degli atti violenti 1. Una premessa 2. Oltre la psicopatologia e il determinismo sociale 3. La prospettiva criminologica di Lonnie Athens 4. Lo sguardo dello scienziato sociale: l’ottica interazionista 5. Dentro alcuni “concetti sensibilizzanti”: tra “soliloquio”, “comunità-fantasma” e “interpretazioni delle situazioni” 6. Un esito mai scontato 7. Verso nuovi concetti sensibilizzanti: le “cosmologie violente” 8. Cosmologia e dimensioni psicopatologiche 9. Cosmologia e “macrocosmi” sociali 10. Cosa intendiamo fare? Gabrio Forti Il “dominio” penale come cosmogonia. Critica della violenza e “bisogno interiore del diritto” 1. Narrare gli attori violenti 2. La rimozione moderna del carattere comunicativo della violenza e il suo recupero “cosmologico” 3. Il “dominio” penale-mediatico 4. Al di là della cultura della violenza e del “bisogno interiore di diritto”, lungo la “linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito” 5 7 7 8 9 12 14 17 18 22 23 25 27 27 30 37 50 Alfredo Verde Il problema delle narrative del reo 64 Appendice 75 Alessandro Dal Lago Cosmologie, media e violenza 75 Eligio Resta Note su Cosmologie violente 83