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Cosmologie violente - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

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Cosmologie violente - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
UNIVERSI DELLA VIOLENZA
A cura di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali
© Fondazione Giangiacomo Feltrinelli - 2012
ISBN 978-88-6835-000-0
Presentazione
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali
Fin dalla comparsa delle forme più elementari di cultura l’uomo
ha provato, sia a livello individuale sia collettivo, a rimuovere ogni forma
di comprensione dell’aggressività distruttiva, relegandola a una
dimensione estranea da sé. L’azione atroce e cruenta, infatti, svela ciò che
dovrebbe rimanere sempre nascosto: il dominio violento dell’uomo su
altri uomini. È anche per questa ragione di fondo che il tema della
violenza, da sempre oggetto dell’attenzione di studiosi provenienti dalle
più svariate discipline, rimane ancora oggi un vero e proprio enigma
conoscitivo.
In campo criminologico – ma non solo – gli approcci teorici e i
metodi impiegati al fine di avvicinare e sondare il fenomeno della
violenza sono stati – e continuano a essere – indubbiamente i più vari, ma
è possibile affermare che spesso si è registrato un profondo limite
osservativo. Infatti, tradizionalmente, l’inquadramento dell’agire violento
si è ridotto a modelli esplicativi che individuano nella “malattia mentale”
o, altre volte, nell’“ambiente sociale” la causa del gesto deviante.
Purtroppo, però, questo genere di spiegazioni non aiuta ad avanzare nella
comprensione delle dinamiche che animano tali condotte, di fronte alle
quali ci ritraiamo, spesso incapaci di pronunciare parole capaci di
conferire senso a ciò che appare come del tutto insensato e inspiegabile.
È a partire da queste riflessioni e interrogativi che chi scrive ha
ritenuto utile proporre ad alcuni noti e apprezzati studiosi – quali
Alessandro Dal Lago, Gabrio Forti, Eligio Resta, Alfredo Verde –
l’occasione di confrontarsi con noi sul tema della violenza, incontrandolo
5
attraverso la lettura del nostro volume Cosmologie violente. Percorsi di
vite criminali. Ciascuno, a partire dall’ambito del proprio universo
disciplinare e conoscitivo – da qui il titolo di questo e-book, Universi
della violenza –, ha contribuito a costruire un percorso cognitivo capace
di sondare e illuminare quegli aspetti del fenomeno violento che fino a
oggi sono rimasti ancora poco esplorati. Consapevoli che strumenti
metodologici capaci di navigare in questa immensità sono certamente
ancora molto da costruire, e che nessuna prospettiva teorica potrà mai
porre la parola definitiva, riteniamo che un incontro come quello che
abbiamo realizzato presso la Fondazione Feltrinelli il 15 aprile 2010
possa fornire utili mappe concettuali per accostare un tema ineludibile
come quello della violenza.
Vorremmo, pertanto, ringraziare di cuore Inge e Carlo Feltrinelli per
aver reso possibile e aver sostenuto la realizzazione di questo incontro
seminariale e dell’e-book che ne contiene gli atti.
Un ringraziamento speciale a Chiara Daniele, per la disponibilità e
la serietà con cui ha pensato e organizzato insieme a noi questa iniziativa.
Grazie infine a Luisa Cortese, che ha curato la raccolta e la
pubblicazione di questi scritti.
Milano, giugno 2012
6
Verso le “cosmologie violente”
Per una guida alla lettura degli atti violenti
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali
1. Una premessa
Il tema della violenza, da sempre oggetto dell’attenzione di
studiosi provenienti dalle più svariate discipline, rimane – anche nel
campo delle scienze sociali – avvolto da un’aura di
“incomprensibilità” che ostacola il riconoscimento e la comprensione
delle dimensioni di senso alle quali accede l’attore sociale quando
prepara, interpreta, decide e, infine, esegue un atto atroce.
Ciò non stupisce. Difatti, è proprio quando il crimine si fa più
efferato e la violenza più eclatante che la questione del “senso” che
l’agire violento può avere per gli individui – siano essi attori, vittime o
semplici spettatori – si fa particolarmente ardua, tale da richiedere il
massimo impegno interpretativo.
Per provare a rispondere a questa sfida, riteniamo utile introdurre
alcuni aspetti dell’approccio teorico elaborato dal criminologo
statunitense Lonnie Athens e da noi stessi in Cosmologie violente.
Percorsi di vite criminali,1 da intendersi come bussole per orientarsi
nelle dinamiche degli atti atroci più efferati.
1
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2009.
7
2. Oltre la psicopatologia e il determinismo sociale
La finalità di questa proposta teorica – che si colloca nel solco di
quella tradizione filosofica nota con il nome di “interazionismo
simbolico”2 – è quella di provare a c omprendere, appunto, quei
processi che animano le “esperienze sociali violente”, al di là di una
rigida distinzione fra normalità e psicopatologia, e tra individuo e
società.
Già verso la metà del secolo scorso Tamotsu Shibutani, uno dei
più autorevoli interpreti della tradizione interazionista, svolgeva le
seguenti riflessioni sul rapporto tra crimine efferato e malattia
mentale: “[…] c’è un considerevole disaccordo tra gli psichiatri in
riferimento a ciò che dovrebbe designare l’etichetta ‘psicopatico’. Ad
ogni modo il termine viene usato sempre più per riferirsi a criminali
depravati a cui sembra mancare una ‘coscienza’. Essi sarebbero in
grado di commettere crimini brutali dai quali la maggior parte degli
altri criminali si asterrebbero”. 3 In effetti, nonostante siano stati
compiuti molti passi avanti nella conoscenza del rapporto tra
comportamento violento “normale” e comportamento violento
“psicopatico”, ancora oggi la sovrapposizione e la con-fusione di
questi due fenomeni e delle relative categorie comporta – troppo
spesso – una disinvolta “riduzione” della complessità dell’agire
violento alla sola sfera psicopatologica. L’intero studio di Athens – e
il nostro – cerca, invece, di comprendere l’attore violento
incontrandolo a latere delle dimensioni psicopatologiche, evitando
anche di cadere in quell’altrettanto imprudente semplificazione che
vede l’essere umano, la sua “coscienza” e le sue azioni come il
prodotto deterministico dell’ambiente in cui vive – e, nello specifico,
l’atto violento quale prodotto necessario di un mondo sociale violento.
Amartya Sen, in Identità e violenza, usa l’efficace espressione
“miniaturizzazione dell’essere umano”4 per indicare quell’operazione
di “riduzione” dell’uomo a un “microcosmo”, mero specchio del
2
L’interazionismo simbolico nasce, come è noto, sull’onda lunga delle lezioni tenute negli anni venti
del secolo scorso da George Herbert Mead presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di
Chicago, e affonda le proprie radici addirittura nei primi anni di quel secolo.
3
Tamotsu Shibutani, Society and Personality. An Interactionist Approach to Social Psychology,
Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1961, p. 317.
4
Amartya Sen, Identity and Violence, Norton & Co., New York-London 2006; tr. it. Identità e
violenza, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 188.
8
mondo sociale in cui vive. Anche in riferimento al rapporto tra
individuo e ambiente “esterno” sono incisive le parole di Shibutani:
“[…] normalmente pensiamo all’ambiente come qualcosa che si trova
‘là fuori’ e c he viene in urto con noi […] ma ciò che noi
sperimentiamo non è una ‘copia carbone’ di ciò che effettivamente
costituisce l’ambiente circostante. Quest’ultimo è qualcosa che viene
costruito nella successione di interscambi che costituisce il processo
della vita. […]. Gli uomini non sono creature passive alla mercé degli
stimoli esterni; in gran parte essi creano il mondo nel quale vivono e
agiscono”. 5
Sono queste alcune delle coordinate significative da cui prendere
le mosse per muoversi all’interno della prospettiva teorica di Lonnie
Athens, e nel senso delle “cosmologie violente”.
3. La prospettiva criminologica di Lonnie Athens
Athens è u n criminologo statunitense che insegna attualmente
alla Seton Hall University, nel New Jersey. Le sue opere principali
sono The Creation of Dangerous Violent Criminals del 1989 e Violent
Criminal Acts and Actors Revisited del 1997. Altrettanto importanti
per la comprensione degli aspetti più innovativi del suo pensiero sono
alcuni articoli che hanno scandito il suo percorso di ricerca, e che
mettono a fuoco i passaggi-chiave del suo paradigma esplicativo, tra i
quali il fondamentale scritto The Self as a Soliloquy, apparso nel 1994,
al quale faremo riferimento nel corso di questo contributo.
Come già accennato, Athens fornisce, senza contrapporsi
frontalmente, una spiegazione alternativa alla tradizionale prospettiva
che spiega il “comportamento criminale violento” prevalentemente
assegnandolo all’universo della “malattia mentale”. Nella “logica
comune”, ma anche in molte “logiche scientifiche”, infatti, non si
ritiene possibile che una persona cosiddetta “normale” possa
commettere certi tipi di azioni che per gravità e m ancanza di
provocazione appaiono assolutamente “irrazionali”, “insensate”,
“gratuite”, incomprensibili.
5
Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 65.
9
Athens, invece, a no stro avviso, riesce a rintracciare e a
descrivere con successo quei percorsi psico-sociali che conducono un
individuo a realizzare atti violenti, quali omicidi, lesioni gravi o
violenze sessuali, 6 mostrando come tali percorsi non siano “segnati”
da una natura “irrazionale” e “incontrollabile” – che si suppone spesso
alla base dei cosiddetti “raptus” –, bensì costruiti e collocati dentro
itinerari interpretativi che è possibile ricostruire a p artire dalla
prospettiva di chi li ha vissuti, restituendo dei tracciati di “senso” in
una certa misura “intelligibili” e “avvicinabili”. In tal modo, l’agire
dei “criminali violenti” viene approcciato e riconosciuto come dotato
di senso alla luce di un metodo – quello interazionista – che,
smarcandosi da una spiegazione lineare di causa-effetto, consente di
approfondire la conoscenza di mondi da sempre poco comprensibili e
comunicabili. Athens si avvale, infatti, di un modello cosiddetto
“processuale”, in base al quale i fenomeni sono intesi quali esiti di
processi di sviluppo le cui fasi iniziali non determinano
automaticamente le ultime: 7 l’evento finale – nel nostro caso l’azione
violenta – rappresenta sempre il risultato mai scontato di un lungo e
difficoltoso processo interpretativo e s imbolico sviluppato, e solo
eventualmente portato a conclusione, dal suo attore. Ogni passaggio a
fasi ulteriori e a snodi successivi della vicenda è, in quest’ottica,
sempre svolto attivamente dalle scelte interpretative dell’attore, il
quale non si limita mai a “reagire” a uno stimolo esterno senza
opporre alcuna resistenza, ma, al contrario, interpone (e in alcuni casi
oppone) quella particolare resistenza “riflessiva” costituita dal Self,
inteso quale filtro simbolico della realtà.
Seguendo queste direzioni teoriche, prima di rispondere
all’interrogativo relativo al “perché” un individuo, in un momento
preciso
della
sua
vita,
decida,
“inaspettatamente”
e
“sorprendentemente”, di attaccarne fisicamente un altro, bisognerebbe
considerare che ogni atto ha una storia e che occorrerebbe sapere
6
La definizione di “comportamento sostanzialmente violento” che Athens formula per “ritagliare” il
proprio “oggetto” di ricerca comprende quelle situazioni nelle quali “(1) la vittima è st ata aggredita
fisicamente in modo grave, ossia ferita non in modo accidentale o per caso con un colpo d’arma da
fuoco, con una pugnalata, con una bastonata o con percosse, così da richiedere l’intervento di un
medico; (2) violentata in modo grave con atti di penetrazione, sodomia, fellatio o cunnilingus, sotto la
minaccia di ulteriori danni fisici gravi, o s ubendone altri più o meno gravi”. Cfr. Lonnie Athens,
Violent Criminal Acts and Actors Revisited, University of Illinois, Urbana 1997, p. 31.
7
Lonnie Athens, Blumer’s Method of Naturalistic Inquiry. A Critical Examination, in “Studies in
Symbolic Interaction”, 5, 1984, p. 244.
10
qualcosa di questa storia e di quella del suo autore prima di poterne
comprendere il “senso”. Ed è proprio attraverso interviste qualitative
semi-strutturate a detenuti condannati per i crimini più efferati,
domandando loro “cosa pensavano” e “cosa provavano” nel momento
in cui commettevano un omicidio o una violenza sessuale, che Athens
– e noi – abbiamo potuto catturare progressivamente i significati degli
atti violenti, giungendo a mettere in luce la fondamentale “ambiguità”
che attraversa il “nostro” mondo e quello degli “altri”. Da un lato,
infatti, il ruolo “attivo” e “riflessivo” dell’individuo nella costruzione
dell’azione violenta è lo stesso che presiede e gui da qualsiasi altra
nostra azione (anche quelle non-violente). Per altro verso, si registra
un drammatico scarto fra “noi” e “loro” nel fatto che gli attori violenti
scelgono un’azione violenta come mezzo di risoluzione di un conflitto
in atto. Il riconoscimento di quest’ambiguità di significato fra mondi
simili – ma non eguali – contribuisce a non esaurire il “problema della
criminalità violenta” con la questione della “malattia mentale”, e
motiva a guardare con occhi nuovi la profondità qualitativa del
“perché violento” di molte azioni umane.
Familiarizzare con le catene di ragionamenti che qualificano il
lavoro degli interazionisti simbolici aiuta a sovvertire moltissime
assunzioni date per scontate e a riorganizzare concettualmente
questioni cruciali. Parlando, per esempio, di “volontà”, di “obiettivi”,
di “motivi”, questi ultimi sono quasi sempre considerati, in termini di
senso comune, come le “cause” della condotta. Gli interazionisti
spiegano questi processi in modo affatto differente: “un obiettivo
visualizzato aiuta a coordinare i movimenti, e rende possibile almeno
in parte controllare in modo consapevole il proprio agire. In tali
circostanze, il comportamento volontario è sperimentato come
animato da un’intenzione; è pe rcepito come orientato, poiché si
muove verso un obiettivo sostenuto da un progetto”.8 Il lemma
“motivi” va qui sostituito con quello, più complesso, di “intenzioni”,
che sono “immagini di un atto portato a compimento con successo”.
Detto altrimenti, i “motivi” non vanno confusi, come avviene nel
senso comune, con gli “impulsi”, con la “spinta” che sta dietro ai fatti,
con i “disagi” che mettono in movimento l’organismo, ma vanno
riferiti agli “obiettivi consapevolmente dichiarati che forniscono
8
Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 77.
11
direzione, unità e organizzazione a una successione di movimenti.
[…] I motivi non sono presenti all’inizio di un at to, bensì emergono
solo dopo che si è verificata qualche interferenza”. 9 Si diventa, allora,
consapevoli di sé, delle proprie “intenzioni” e dei “motivi” alla base di
quel gesto, se vi è da operare uno sforzo, un’opposizione, una lotta.
In un orizzonte culturale diverso da quello interazionista, Eugène
Minkowski giunge paradossalmente ad affermare che l’uomo che
compie un m ovimento “volontario” non sta dando in realtà alcuna
prova di volontà, la quale interviene solo laddove si incontrano sulla
propria strada ostacoli e r esistenze, quando “iniziamo a dirci” che
un’impresa non è possibile, quando “diventa udibile il richiamo a uno
sforzo supplementare”: è allora che parliamo di uno sforzo di volontà,
cioè la facoltà di prolungare il nostro cammino, andare al di là
dell’ostacolo che si erge di fronte a noi e che tende momentaneamente
ad arrestarci. La volontà “si situa nella vita, formandone la trama e
condizionandone il costante cammino in avanti”.10 Su questo aspetto
concorda totalmente anche Alexander Lowen, padre della
bioenergetica, laddove ricorda che “ogni atto di volontà è
l’affermazione di una decisione. Per esempio l’affermazione ‘voglio
farlo’ potrebbe anche essere resa con ‘io sono deciso a farlo’.
Entrambe le affermazioni implicano un ostacolo contro cui la volontà
è attiva. Dove non c’è nessun ostacolo a un impulso, la volontà non è
necessaria. Non ho bisogno della mia volontà per fare qualcosa che
desidero fare. […]. Il fare ciò che accade naturalmente, non richiede
nessuno sforzo conscio né atto di volontà”. 11
4. Lo sguardo dello scienziato sociale: l’ottica interazionista
Il metodo di ricerca adottato da Athens in campo sociale affonda
le sue premesse epistemologiche nel pensiero di Herbert Blumer – lo
studioso che maggiormente ha s viluppato gli aspetti metodologici
dell’interazionismo simbolico. In breve, per entrambi gli studiosi, esso
9
Ivi, pp. 77-90.
Eugène Minkowski, Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Aubier-Montaigne, Paris
1936; tr. it. Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, Einaudi, Torino 2005, pp. 19-22.
11
Alexander Lowen, Volontà di vivere e voglia di morire, Supplemento di “Anima e corpo”, rivista di
psicologia somatica, Istituto di psicologia somatorelazionale, Milano 2004, pp. 4-5.
10
12
consiste nell’affermazione che il metodo delle scienze sociali non può
essere importato acriticamente dal mondo tecnico-scientifico, ma
debba trovare una forma autonoma e adeguata a quello specifico
(s)oggetto di studio che è l’essere umano. 12 Da questa affermazione
discendono due passaggi chiave, che è ne cessario tener presente per
comprendere le potenzialità euristiche della teoria del criminologo
statunitense.
Innanzitutto, occorre soffermarsi sul peculiare rapporto di identità
e di reciproco scambio che lega lo scienziato-osservatore al
(s)oggetto-osservato. Per l’interazionismo simbolico l’uomo abita un
mondo di “oggetti sociali”, nei confronti dei quali agisce sulla scorta
dei significati che ha attribuito loro nel corso dell’interazione sociale,
e in ragione delle sue esperienze passate.
A questo mondo “significativo”, “dotato di senso”, partecipano
sia il (s)oggetto studiato – nel nostro caso il “criminale violento” –, sia
il ricercatore, il quale, per indagare adeguatamente il fenomeno sotto
osservazione, dovrà adottare la prospettiva assunta dal soggetto
“oggetto di studio”, che diventa così un (s)oggetto-attore, ossia un
individuo che prima di essere osservato ha, a s ua volta, osservato.
Questo atteggiamento dello scienziato risulta necessario per non
ricadere in quella che gli interazionisti definiscono la “peggiore forma
di soggettivismo”, ossia la sostituzione dei significati “così come
interpretati dall’individuo osservato” con i significati “così come
interpretati dallo scienziato sociale”.13 Si tratta, pertanto, di assumere
il punto di vista di chi ha agito violentemente per salvare l’eccedenza
di significato delle sue esperienze interiori, osservate nella loro
dimensione “cosmologica” – quell’ampio e stratificato orizzonte
all’interno del quale viene costruita ogni nostra azione, anche quelle
più atroci. L’osservatore, comunque, nel suo impegno esplorativo
dell’universo che intende indagare, compie sempre queste incursioni –
anche quando non ne tiene conto – a partire dal suo cosmo simbolico
di appartenenza: ed è solo in questa certa misura che egli può
avvicinare e osservare l’altro.
Per compiere queste operazioni si farà ricorso, come vedremo, a
“concetti sensibilizzanti” che consentono di osservare un fenomeno
12
Cfr. Herbert Blumer, Symbolic Interactions, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1969; tr. it. La
metodologia dell’interazionismo simbolico, Armando, Roma 2006.
13
Cfr. Lonnie Athens, Blumer’s Method of Naturalistic Inquiry, cit., pp. 241-257.
13
attraverso lenti inedite e di coglierne “elementi” “inaspettati” e
“imprevisti”.
5. Dentro alcuni “concetti sensibilizzanti”: tra “soliloquio”,
“comunità-fantasma” e “interpretazioni delle situazioni”
I “concetti sensibilizzanti” cui accenneremo in questo breve
contributo sono da intendere – seguendo la tradizione interazionista –
come occhi tenuti continuamente e intenzionalmente “spalancati” sul
mondo, come strumenti che dirigono lo sguardo aprendo prospettive
ed evitando di definire una volta per sempre il proprio oggetto di
osservazione, salvando la complessità e l’eccedenza che caratterizza
ogni esperienza sociale (nel nostro caso la violenza esercitata
dall’uomo sull’uomo).
Alcuni dei concetti che Athens trae dalla matrice interazionista
sono quelli di Self, di “riflessività”,14 di “immagine di sé”, di
“interpretazione della situazione”, di “assunzione dell’atteggiamento
altrui” e di “interazione sociale”, che avviene in forza di ripetuti
processi di role-taking.15 Non è possibile approfondire nemmeno
rapsodicamente il loro contenuto. Ci limitiamo a ricordare che
secondo questa tradizione di pensiero l’individuo entra in relazione
con il mondo sociale attraverso un’incessante “conversazione
interiore”/“soliloquio” che consiste in un flusso costante tra due
“sponde”: l’I e il Me – laddove l’I costituisce l’“impulso ad agire”,
mentre il Me rappresenta quell’insieme generalissimo delle aspettative
della società che l’individuo ha fatto proprie internalizzandole
mediante ripetute “assunzioni di atteggiamenti altrui”. 16 Così come l’I
14
Per “riflessività” Mead intende la capacità del Self di essere soggetto e oggetto insieme, di osservare
e osservarsi e, cosa più importante, di instaurare un dialogo fra sé e sé, durante il quale il soggetto si
confronta con più punti di vista. Ed è proprio questo processo mediante il quale si “prende nota” delle
variabili della situazione in cui ci si trova immersi che consente un agire “consapevole”, ossia un agire
che è l ’esito di una “comunicazione interiore”. E comunicare o “conversare” con se stessi non
significa solo selezionare le informazioni, ma renderle disponibili alla coscienza a partire da differenti
punti di vista.
15
Il role-taking è per gli interazionisti simbolici il mezzo per rendere possibile l’“assunzione di un
atteggiamento altrui”, mediante generalizzazioni che consentono di anticipare le risposte degli “altri” e
di modulare su di esse i nostri atti, in vista dell’obiettivo desiderato.
16
Cfr. George H. Mead, Mind, Self, and Society. From the Standpoint of a Social Behaviorist,
The University of Chicago Press, Chicago 1934; tr. it. Mente, sé e società. Dal punto di vista di
uno psicologo comportamentista, Giunti, Firenze 1966.
14
non predetermina l’esito dell’azione finale, anche il Me, ossia il polo
“istituzionale” e di “(auto)controllo sociale” del Self, non determina
l’agire dell’individuo senza “vie di scampo”.
Il Self, in tal senso, non s i riduce né a uno solo di questi
momenti, né a u na mera interazione tra le due componenti: esso
consiste, piuttosto, in quel peculiare processo di comunicazione
durante il quale la persona si rivolge a se stessa e si dà delle risposte 17
nelle forme della “conversazione interiore”/“soliloquio”. 18 Athens, al
riguardo, scandisce tredici principi che guidano il soliloquio. Ne
illustreremo solo alcuni.
Innanzitutto (primo principio) “le persone conversano con se
stesse come se stessero parlando con qualcun altro, con la differenza
che parlano ellitticamente”. 19 Ciò significa che quando parliamo con
noi stessi lo facciamo in modo molto più rapido e abbreviato,
mediante “ellissi” appunto, rispetto a q uando parliamo con gli altri.
Per questa ragione molto spesso risulta difficile tradurre in parole i
nostri stessi pensieri.
Inoltre (quarto principio) il soliloquio trasforma le quotidiane
sensazioni corporee – indefinite, diffuse, amorfe, originate da f onti
interne o es terne – in emozioni che noi poi identifichiamo nei
sentimenti dell’orgoglio o d ella vergogna, della felicità o d ella
tristezza, dell’amore o dell’odio, della tranquillità o della rabbia.20
Il terzo principio afferma che quando qualcuno si rivolge a no i
dobbiamo simultaneamente raccontarci ciò che ci sta dicendo.
“Assumere la prospettiva dell’altro” ed e ssere attivamente e
“riflessivamente” coinvolti nella comunicazione con gli altri significa
esattamente questo. 21
Il soliloquio consente così all’individuo di rendere e r endersi
comprensibili le esperienze interiori e quelle sociali che vive, di
17
Cfr. Herbert Blumer, La metodologia dell’interazionismo simbolico, cit., p. 55.
Il concetto di soliloquio, anche se p resentato sotto altri nomi, è g ià presente negli auctores di
riferimento di Athens, e cioè in Mead e Blumer. Mead, infatti, parla del Self come di una
conversazione fra I e Me. Blumer, invece, parla del cosiddetto processo di self-indication, mediante il
quale una persona, indicando a se st essa una variabile di una situazione, la immette nel processo
interpretativo. Ciò che sta alla base di queste spiegazioni è quello che Mead chiama il principio di
“riflessività” del Self, ossia la capacità che il Self ha di essere soggetto e oggetto insieme, di osservare
e osservarsi, e cosa più importante di instaurare un dialogo fra sé e sé, durante il quale il soggetto si
confronta con più punti di vista.
19
Lonnie Athens, The Self as a Soliloquy, in “The Sociological Quarterly”, 35, 3, 1994, p. 524.
20
Ivi, p. 525.
21
Ivi, pp. 524-525.
18
15
carattere cognitivo e insieme emozionale, donando un ordine e
un’organizzazione a un insieme di per sé indiscriminato e “amorfo” di
impressioni.
Infine (decimo principio), è ciò che Athens definisce come
“comunità-fantasma” a r ivestire il ruolo di “interlocutore principale”
dei nostri soliloqui: essa non è al tro che il distillato delle nostre
esperienze passate “significative” così come da noi vissute,
interpretate e rivisitate nel presente nel corso di un processo dialogico
e dialogante con i nostri “altri significativi”. Possiamo immaginarla
come un “parlamento interiore” costituito da tante opinioni quanti
sono gli “altri significativi” che abbiamo internalizzato nel corso della
nostra vita e che offrono suggerimenti o dettano ordini per le nostre
azioni future.
L’attributo “fantasma” è dovuto al fatto che questa comunità di
opinioni esiste “solo” e “sempre” nella forma delle rappresentazioni
mentali che il soggetto se ne fa; al tempo stesso, però, tale comunità è
ben lontana dall’essere “fantasma” nelle nostre vite reali, in quanto
attraverso il soliloquio agisce realmente nei mondi sociali e nel le
azioni che gli individui decidono di intraprendere. Considerato poi che
il passato di ognuno di noi è sempre qualcosa di “unico”, anche chi
vive all’interno dei confini della stessa “comunità fisica” potrà
formare “comunità-fantasma” differenti, non riducendosi mai al mero
prodotto del proprio ambiente sociale. 22
Analizzando i “flussi di coscienza” ricavati dalle interviste
realizzate sulla scorta di questi “concetti sensibilizzanti”, Athens
identifica quattro tipi di “interpretazione della situazione” che
rappresentano ulteriori “concetti sensibilizzanti” e (di)mostrano come
le persone violente, prima di commettere atti criminali violenti,
costruiscano attivamente e riflessivamente le rispettive linee di
azione. 23
Il processo interpretativo si scompone in due fasi: “definizione”
e “giudizio”. Durante la prima fase l’attore violento, assumendo
l’atteggiamento della vittima, indica a se stesso il significato dei gesti
che quest’ultima pone in essere. Nella seconda fase egli “assume
22
Lonnie Athens, Radical Interactionism. Going Beyond Mead, in “Journal for the Theory of Social
Behaviour”, 37, 2, 2007, p. 139
23
Lonnie Athens, Violent Criminal Acts and Actors Revisited, cit., p. 32.
16
l’atteggiamento” della propria “comunità-fantasma” e decide che
dovrà agire violentemente.
Le “interpretazioni della situazione” messe a fuoco da Athens sono
di quattro tipi: l’interpretazione “fisicamente difensiva”,
l’interpretazione “frustrativa”, l’interpretazione “malefica” e
l’interpretazione “frustrativo-malefica”.24 Il momento che caratterizza
ciascun tipo di interpretazione è rappresentato dalla “definizione della
situazione” mentre la seconda fase, quella del giudizio favorevole
all’azione violenta, opera come elemento unificante rispetto alla
varietà interpretativa. Ciascuna interpretazione coinvolge dimensioni
sociali fondamentali quali l’interazione “faccia a f accia”,
l’“assunzione di atteggiamento altrui”, la “conversazione con se
stessi”, l’“immagine che si ha di sé” e qu ella che ci si costruisce
dell’altro, i pensieri e le emozioni emergenti.
6. Un esito mai scontato
Nel 1989 Athens pubblica The Creation of Dangerous Violent
Criminals, lavoro che si propone di rintracciare l’origine delle
“comunità-fantasma” violente, di quegli interlocutori interiori che
sostengono l’utilizzo della violenza per la risoluzione dei conflitti e
che distinguono i “criminali violenti” da tutte le altre persone. In altri
termini, l’interrogativo che si pone è il seguente: da dove proviene una
“comunità-fantasma” che riserva al suo interno un posto privilegiato
per una risposta violenta al mondo?
La spiegazione di Athens a que sti ordini di domande, ben
lontana da o gni pretesa “eziologia”, si dirige verso un paradigma
“processuale” che individua nel percorso di “violentizzazione” quel
cammino che conduce una persona inizialmente non violenta a
diventare un “pericoloso criminale”. Le sue fasi possono essere
immaginate come una serie di stanze ognuna delle quali ha due porte,
una di entrata e l’altra di uscita. Per arrivare all’ultima bisogna passare
attraverso ciascuna delle precedenti, ma vi è anche la possibilità che
24
Per le specifiche formulazioni delle “interpretazioni della situazione” vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo
Natali, Cosmologie violente, cit.
17
non vi si giunga mai. 25 Il finale, ancora una volta, è aperto e
problematico: il presupposto di questo approccio a “finale aperto”,
infatti, è sempre la capacità, che ogni essere umano possiede, di
“improvvisare” e di “stupirci” in qualsiasi momento.
7. Verso nuovi concetti sensibilizzanti: le “cosmologie violente”
Ma in che modo gli uomini e le donne parlano a se stessi, che cosa
si raccontano, quando decidono di comportarsi così come si
comportano, manifestando per esempio atti violenti?
E chi filtra gli ordini e tiene i comandi dentro quella cabina di regia
che dirige un agire distruttivo?
La prospettiva avanzata da Athens contiene innumerevoli appigli
per convincersi che l’elaborazione interiore di questi atti è r esa
consapevole da q uel processo simbolico con cui l’attore indica a se
stesso (self-indication) e valuta, per quanto brevemente e in maniera
sempre “fallibile”, “se e come certi elementi – credenze, idee, desideri
o stati di cose – abbiano a che fare con lui” e cosa pensare, dire e fare
in un determinato contesto”. 26 È questo dialogo interiore – che non ha
una natura psicologica ma relazionale27 – a conferire senso ai propri
atti.
Quest’“attività riflessiva” che precede e affianca l’“interpretazione
della situazione”, la definizione dell’“immagine di sé”, fornisce
consigli invitando a prendere posizione, ad agire o a d astenersi dal
farlo. Essa non discorre riferendosi solo all’immediatezza di un
contesto, 28 ma rimanda a qualcosa di più radicato, a quell’ininterrotto
25
Lonnie Athens, The Creation of Dangerous Violent Criminals, University of Illinois, Urbana 1992,
p. 21.
26
Margaret S. Archer, Structure, Agency and the Internal Conversation, Cambridge University Press,
Cambridge 2003; tr. it. La conversazione interiore. Come nasce l’agire sociale, Erickson, Gardolo
2006, p. 86.
27
“La ‘conversazione interiore’ si può definire alla stregua di una ‘proprietà personale emergente’, più
che di una ‘facoltà’ psicologica degli individui, che rimanderebbe a una loro disposizione intrinseca.
In altri termini, la conversazione interiore è una proprietà relazionale e le relazioni in questione sono
quelle che si danno tra la mente e il mondo.” Cfr. Margaret S. Archer, La conversazione interiore, cit.,
p. 178.
28
Condotte altamente distruttive possono però essere realizzate quando le persone si trovano a vivere
“collettivamente” (cioè a dire insieme ad altri individui) drastici, radicali e globali “cambiamenti
drammatici di sé”, all’interno di una situazione totale. Valgano quali esempi l’esperimento carcerario
di Stanford ideato e guidato da Philip Zimbardo e le recenti e drammatiche vicende di Abu Ghraib.
18
senso di sé che opera all’interno di circuiti neurali ripetutamente
utilizzati per aver assunto gli “atteggiamenti altrui” nel corso del
tempo, e distillato i “ragionamenti morali”, le “massime morali” e le
indicazioni per intraprendere azioni.
Inoltre, nemmeno gli stati d’animo e le emozioni che anticipano e
affiancano atti violenti brutali mutano, nella loro essenza, rispetto a
quelli che sperimentiamo nel corso delle nostre “normali” vite
quotidiane. La ridefinizione del paesaggio interiore che fa da sfondo
allo scatenarsi delle dinamiche aggressive è data, piuttosto, dalle
accelerazioni che i dialoghi interiori/i soliloqui degli attori violenti
ricevono quando costoro interpretano drammaticamente la situazione
in cui sono gettati, “ascoltando” e “rispondendo” alle proprie
esperienze interiori che stanno per precipitare nel presente29 di quel
gesto.
Tenendo conto di questa complessità, se nel corso della vita il
Self – quel “prisma”, quel centro di convergenza, rifrazione e
orientamento alimentato dalla “comunità-fantasma” attraverso il quale
leggiamo riflessivamente (ma mai in modo del tutto “trasparente”) noi
stessi e il mondo esterno – non è fatto “slittare drammaticamente”
verso una composizione valoriale e s imbolica di segno violento,
l’attore, all’occorrenza, potrà continuare a rivolgersi in modo
sufficientemente consonante frasi del tipo: “Lascia perdere gente
come questa!”. Ma, dopo essersi inoltrato in un percorso di
“violentizzazione”, aver internalizzato “altri-fantasma” brutali e/o
aver interpretato drammaticamente una certa situazione, un individuo
può, rimanendo sempre in ascolto della propria “comunità-fantasma”,
offrirsi frasi del tipo: “Fallo a pezzi senza pietà!”.
Prendiamo così le distanze dall’idea che vi siano “variabili”
sociali e individuali che “condizionano” necessariamente a prendere
“deliberazioni” che trascendono la “riflessività” di un individuo: “Ciò
Cfr. Philip Zimbardo, The Lucifer Effect. Understanding How Good People Turn Evil, Random
House, New York 2007; tr. it. L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano
2008.
29
“Il presente è un atto particolare che riunisce la narrazione e l ’azione. E siccome nel presente c’è
narrazione, ciò implica necessariamente fenomeni di memoria.” Cfr. Eugène Minkowski, Le temps
vécu, J. L. L. L. D ’Artrey, Paris 1933; tr. it. Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia,
Einaudi, Torino 2004, p. 32.
19
che muove l’agente/attore sociale è l a sua riflessività interna”30
rispetto alla situazione che si trova a vivere, e ai sentimenti, alle
visioni, ai progetti che nascono. È la “riflessività” che fa di noi degli
“agenti attivi”, ossia persone che hanno una certa padronanza nel
determinare la propria vita, nell’autovalutarsi e nell’assumere
responsabilità personali.
Seguendo gli insegnamenti dell’interazionismo simbolico e di
tradizioni di pensiero a esso affini, concordiamo con Marco Inghilleri
quando afferma che: “Il mondo, quale è noto a noi, è una realtà
costruita socialmente che ci appare tale attraverso i nostri ‘negoziati’
con le altre persone. Infatti, noi formuliamo gradualmente un’intera
cosmologia, contro lo sfondo della quale i nostri negoziati sociali
hanno luogo e in accordo con la quale sono legittimati”. 31
È anche a partire da questa consapevolezza, e da queste premesse,
che abbiamo messo a p unto – attraverso la conduzione di alcune
interviste “narrative” con individui condannati per reati violenti 32 – il
concetto di “cosmologia violenta”. Esso è diventato, per noi, un
“concetto sensibilizzante” finalizzato a restituire senso alle condotte
umane (violente) al di là di ogni rigida e formale distinzione fra
normalità e sofferenza psichica, 33 capace di aiutare a comprendere e a
raccontare le sfere simboliche costruite dagli attori sociali nel corso
delle loro interazioni ed esperienze nei mondi che abitano.
30
Pierpaolo Donati, La conversazione interiore. Un nuovo paradigma (personalizzante) della
socializzazione, introduzione all’edizione italiana di Margaret S. Archer, La conversazione interiore,
cit., p. 16.
31
Il corsivo è nostro. Marco Inghilleri svolge considerazioni assai significative relative al ruolo della
“narrazione” e del “dialogo” nel rapporto di ciascuno con la propria realtà: “Entrare in dialogo con una
persona significa riconoscere e ricostruire il modo in cui essa costruisce il suo mondo e se stessa, come
stanno le cose dal suo punto di vista, che esperienza fa di questo mondo, come lo valuta e lo giudica,
anche attraverso le sue emozioni, come ne costruisce il senso di realtà, come agisce in esso e q uali
effetti produce, come questo mondo risponde a ciò che essa fa e quali effetti ciò produce circolarmente
sulla persona stessa”. Cfr. Marco Inghilleri, Il linguaggio come strumento del cambiamento nella
psicoterapia interattivo-cognitiva (2005), in http://psicologiaclinica.splinder.com/post/19799159/illinguaggio-come-strumento-del-cambiamento-nella-psicoterapia-interattivo-cognitiva
32
Le interviste – per un totale di sette – hanno avuto una durata media di quattro ore ciascuna, sono
state tutte condotte presso la Casa di Reclusione di Milano-Opera, e sono state interamente registrate,
sbobinate e f edelmente trascritte. Alcuni passaggi dei racconti raccolti sono contenuti nel volume
Cosmologie violente, cit.
33
Questi concetti poggiano sui percorsi teorici sviluppati da Minkowski nelle sue opere, e in
particolare, nel volume Verso una cosmologia, cit.
20
Non esiste un gesto violento, un’“aggressione fisica”, un “attacco al
corpo” 34 per quanto “folle” e cr uento che non i mplichi una
“cosmologia”. Risalendo la traiettoria di Athens, tendiamo a figurarci
gli “attori violenti” come orientati verso una “ciascunità” organizzata
intorno a una “comunità-fantasma” che dispensa sostegno morale per
risposte violente, e che noi denominiamo “cosmologia violenta”. Per
noi essa riguarda la dimensione “individuale-universalizzante”,
“sensibile-pensante”, “cosciente-riflessiva” e personale mediante la
quale gli uomini si rappresentano il mondo e cercano di farsi strada in
esso, costruendo attivamente il proprio agire.
In tale prospettiva, l’uomo è un “cosmo”, da lui stesso creato, un
cosmo che produce senso, e le “deliberazioni riflessive” sono
“attività” di cui l’attore è i n larga parte consapevole 35 e alle quali
partecipano i giudizi, le opinioni, le lodi, gli ammonimenti degli “altri
significativi” internalizzati, i quali suggeriscono/ordinano come
tradurre tutto ciò in atti (violenti). È questa incessante conversazione
con se stessi che fornisce la trama per la costruzione e il continuo
aggiornamento di una “cosmologia” personale, intesa come “insieme
organizzato di prospettive” con cui guardiamo e interpretiamo il
mondo.
Quando dialoghiamo con noi stessi, infatti, proviamo a mettere
ordine, in assetto, in quel pluriverso di voci, di immagini e di
rappresentazioni – alcune depositate e archiviate da tempo – che
chiedono di essere recepite, seguite e, talvolta, rigidamente obbedite.
La “cosmologia” è, allora, anche la costruzione di una trama narrativa
rivolta innanzitutto a noi stessi: l’agire che le fa da contrappunto è
consonante e “preso” dentro le parole che narrano e da nno senso a
questi “incontri”. Come scandisce con grande chiarezza Paolo
Jedlowski, “[s]e possiamo rendere conto della vita nella forma di
storie è […] perché la vita stessa ha in sé una dimensione storica: […]
la vita si dispone nel tempo, e con ciò ci si offre come un m ateriale
34
Cfr. Francesco Viganò, La tutela penale della libertà individuale. L’offesa mediante violenza,
Giuffrè, Milano 2002.
35
Archer puntualizza: “È una prospettiva ben diversa, quindi, da teorie come quella della scelta
razionale [Rational Choice], che tende a contrapporre i diversi desideri e convincimenti dell’agente,
sino a r icavarne – dati i rapporti di forza tra gli uni e gli altri – l’ordine delle sue preferenze
individuali”. Cfr Margaret S. Archer, La conversazione interiore, cit., pp. 86-87.
21
narrabile”. 36 Queste “narrazioni” non sono solo “resoconti” e
“razionalizzazioni” con cui gli attori sociali spiegano le ragioni delle
proprie azioni, ma anche “pratiche riflessive […] profondamente
incarnate nei corsi di azione degli individui”.37
8. Cosmologia e dimensioni psicopatologiche
Se il nostro intento è comprendere da d ove vengono i
comportamenti e l e “vite violente” “[…] cercando di coglierne e
distinguerne i diversi movimenti, le diverse qualità dinamiche, per
studiarne poi le particolari affinità e i molteplici legami”, 38 allora sarà
proprio il riconoscimento di tali “dinamiche” e dei “legami” intessuti
nei loro “mondi” di riferimento – che spesso si saldano in relazioni di
“dominio” – ad allontanare la pretesa che i “violenti” siano per lo più
individui “disorganizzati”, i cui atti “efferati” e “distonici”
risulterebbero rivelatori di patologie.
I principali studi sul tema convergono nell’affermare che pur
esistendo una moderata ma significativa associazione tra violenza e
disturbo mentale, essa non è “creata” dalla malattia ma in qualche
modo è una caratteristica temperamentale o di personalità che preesiste alla malattia stessa e, in tale condizione, non è più controllata.39
Inoltre, le quote più significative della violenza osservata nelle
persone mentalmente malate non riguardano i pazienti psicotici più di
quanto riguardino quelli portatori di disturbi di personalità, o affetti da
patologia affettiva, od organica cerebrale, e i n tutti questi casi a
incidere pesantemente sul viraggio verso il comportamento violento
sono fattori quali l’età, il genere (maschile), la scolarità, l’abuso di
sostanze, le condizioni sociali.
36
Paolo Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano
2000, pp. 34-35.
37
Barbara Poggio, Mi racconti una storia? Il metodo narrativo nelle scienze sociali, Carocci, Roma
2004, p. 24.
38
Eugène Minkowski, Verso una cosmologia, cit., p. 150.
39
Vedi in particolare le conclusioni cui giunge Massimo Biondi: “[…] in molti disturbi schizofrenici e
maniacali il comportamento aggressivo e violento non è ‘creato’ dalla malattia ma in qualche modo è
una caratteristica temperamentale o di personalità che pre-esiste alla malattia e, in tale condizione, non
è più controllato”. Cfr. Massimo Biondi, La dimensione aggressività-violenza (A-V), in AA.VV.,
Psicopatologia e terapia dei comportamenti aggressivi e violenti, a cura di Paolo Pancheri, Scientific
Press, Firenze 2005, p. 118.
22
La “psicopatia”, per esempio, è oggi definita come un “ disordine
affettivo” che comporta, per l’appunto, una riduzione della capacità di
empatizzare e, quale ricaduta, un deficit nell’abilità a formare
“ragionamenti morali”. Agli “psicopatici” viene generalmente
attribuita la capacità di commettere crimini brutali senza che essi
comportino “sensi di colpa”.
Ciò che la nostra proposta consente di ipotizzare è che le persone
affette da queste patologie non necessariamente sono incapaci di
compiere attività di role-taking: l’esecuzione di crimini efferati
richiede sempre, in qualche misura, un’abilità nell’anticipare le mosse
della potenziale vittima e interpretarne i gesti. Rispetto ad altri “attori
violenti” costoro osservano le loro vittime con profondo distacco,
talvolta con spiccate capacità introspettive, ma sempre senza
identificarsi emotivamente con esse. Non è dunque in gioco la grave
anestesia emozionale, l’assoluta impossibilità a “sentire” ciò che
“sente” una persona normale: queste caratteristiche connotano
indubbiamente gli “psicopatici”. Ma anche dall’interno del recinto
definito da questo “disturbo psichico” ciascuno di loro può rivolgere a
se stesso, e agli altri, parole “significative” volte a “interpretare le
situazioni”.
9. Cosmologia e “macrocosmi” sociali
Il focus della nostra attenzione ricade, ancora una volta, sulla
“riflessività” e sulla “conversazione interiore”/“soliloquio” che, pur
intramate con stratificati livelli di “opacità”, fanno sì che l’attore si
renda in buona parte consapevole del proprio “mondo interiore”,
capace di esperire il proprio “corpo vivente”, di riconoscere le sue
emozioni e dare forma al proprio agire.
Per respingere dunque ogni seduzione riduzionista relativa al
rapporto violenza e malattia mentale occorre accedere, sempre, alla
“ciascunità” di ogni individuo, il cui filtro irriducibile rimane il
“soliloquio”, quel “movimento riflessivo” che si compone anche
attraverso il role-taking.
Ma, come abbiamo anticipato, occorre evitare anche un altro
pericoloso riduzionismo, quello che porterebbe a considerare ogni
“mondo sociale”, ogni “comunità fisica” come il “macro-cosmo”, il
23
modello che informa direttamente e con trasparenza la “comunitàfantasma” di chi li abita.
Già Shibutani avvertiva che “Il mondo personale di ogni individuo
è centrato attorno a sé. Nel formulare giudizi e nel prendere decisioni,
nel parlare dello spazio e del tempo, ognuno utilizza se stesso quale
punto centrale di riferimento”. 40 La biografia di ciascuno, infatti,
opera in un “presente vivente” – che include passato, presente e
futuro, ricordi e aspettative –, e definisce come, con quale estensione e
profondità i doveri, le norme, gli status e i ruoli sociali sono
internalizzati dal singolo attore sociale. Ogni individuo è o rientato
unicamente verso il suo “mondo” sociale, e la chiave per risolvere il
problema del rapporto tra agency e struttura si rinviene in tale
relazione “cosmologica”.
È la “riflessività” a costituire il missing link che opera la
mediazione fra le strutture di “dominio” e il modo in cui, con le nostre
deliberazioni, ci collochiamo rispetto a es se. Lo ricorda
magistralmente Pierpaolo Donati: “Le strutture socioculturali
influenzano l’agire umano solo attraverso la riflessività interna della
persona, la quale deve introdurre i dati del contesto esterno nelle sue
strategie e f are i conti con esse […]. [N]on si tratta di un
condizionamento dall’esterno che causa direttamente l’agire
umano”.41
La “cosmologia” di ogni attore sociale rimane, anche per tali
ragioni, potenzialmente aperta a ogni dialogo e a ogni decisione.
Ovviamente nessuno può autodefinirsi, per via discorsiva, nelle
forme che gli sono più congeniali e la conoscenza di sé che ne deriva è
l’esito di un processo che vive delle negoziazioni riflessive con gli
altri attori sociali, all’interno di contesti situazionali strutturati anche
in chiave di “dominio”. In altre parole, siamo sì artefici di noi stessi e
della nostra storia, ma in un flusso di eventi e di circostanze che ci
trascendono, e che non possiamo scegliere e controllare del tutto. 42
40
Tamotsu Shibutani, Society and Personality, cit., p. 216.
Pierpaolo Donati, La conversazione interiore, cit., p. 12.
42
Vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit.
41
24
10. Cosa intendiamo fare?
Ci siamo domandati, all’inizio di queste riflessioni, come avvenga
– e quali tappe percorra – quel “processo dinamico” attraverso il quale
uomini e donne, in un determinato momento della loro vita, decidano,
“inaspettatamente” e “sorprendentemente”, di seguire linee violente
d’azione e aggredire fisicamente altri individui.
Secondo la nostra proposta – come abbiamo provato a spiegare pur
nell’economia di queste pagine – ogni movimento di quell’attività
riflessiva che si esprime e si compenetra nel flusso del
“soliloquio”/“conversazione interiore” di ciascuno media sempre
l’interazione “io-mondo”,43 facendo convergere e concentrando quel
pluriverso che costituisce ogni individuo nel punto attorno al quale
prende forma la risposta all’impellente interrogativo: “Che cosa
intendiamo fare?”. Una risposta che, in certi casi, attiverà linee
d’azione brutalmente distruttive.
È nel margine di questo “punto”, di questo istante – che ha sempre
in sé una durata qualitativa e non solo quantitativa – che si dispiegano
gli spazi di libertà per l’agire, ed è proprio la possibilità che si ha di
“comunicare con se stessi” – ascoltandosi e dandosi risposte – che
permette di (s)fondare l’immediato, sospendersi, immaginare possibili
alternative e direzionare lo “slancio” verso una successione di
immagini e di rappresentazioni simboliche – “sintoniche” con la
propria “cosmologia” – che potranno, a loro volta, fare spazio e dare
luogo a condotte violente.
La nostra offerta teorica – assieme a quella di Athens – si propone
pertanto come un linguaggio sul senso possibile degli atti violenti, in
grado di aprire “orizzonti di visualizzazione” su un fenomeno che
spesso rimane opaco e “incomprensibile” dal punto di vista di un
osservatore “esterno”. Come ogni linguaggio, una volta messo a punto
e appreso correttamente, potrà servire per leggere, interpretare e
“comprendere” le parole e i mondi da cui provengono tali atti e che
hanno accompagnato i percorsi biografici dei loro autori. La nostra
interpretazione – e quella che ognuno di noi, in quanto lettore,
43
In particolare questa attività riflessiva media sempre, e i n modo selettivo, (a) l’“individuo
biologico”, lo “slancio vitale” e l ’“I”, (b) le “percezioni” e gli “sfondi prospettici”, (c) le
“interpretazioni della situazione”, (d) le “emozioni”, (e) i “desideri”, (f) i “mondi sociali” e ( g) il
“tempo”. Vedi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit.
25
elaborerà “riflessivamente” – potrà appoggiarsi a questo linguaggio, a
questa “nuova” grammatica, per “dire” dell’agire violento, ricordando
che ciò sarà possibile solo in quella certa misura in cui decideremo di
“avvicinare” e “comprendere” l’“altro violento”, non sempre e
necessariamente “altro” rispetto a “noi”.
Rimandiamo, per il lettore interessato e incuriosito da questi ardui
interrogativi, al citato volume Cosmologie violente. Percorsi di vite
criminali, nel quale proviamo a “spiegare” un “inaspettato”, un
“insensato” – quello che i rrompe nella normalità delle interazioni
sociali con la forza disarmante del delitto atroce – ancora così difficile
da ascoltare, interpretare e comprendere in tutte le sue molteplici
dimensioni di “senso”.
26
Il “dominio” penale come cosmogonia
Critica della violenza e “bisogno interiore del diritto”
Gabrio Forti
1. Narrare gli “attori violenti”
Pochi mesi dopo la pubblicazione in Italia del libro di Adolfo
Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite
criminali, è a pparsa in Germania un’opera altrettanto cospicua, per
dimensioni e contenuti che, sia pure dal punto di vista di un docente di
ricerca sociale e l etteratura, non di un criminologo, affronta a s ua
volta il tema della violenza e specificamente il rapporto tra “fiducia” e
“violenza”. 1 Si tratta di un libro che sviluppa alcune prospettive di cui
mi avvarrò proprio per indirizzare l’attenzione su almeno uno dei fili
che costituiscono la preziosa e illuminante trama tessuta dal lavoro dei
due criminologi italiani
L’autore, Jan Philipp Reemtsma, occupa una posizione molto
particolare nel panorama culturale tedesco, anche per le sue
escursioni, pensate e sofferte, in aree penalistiche e cr iminologiche.
Propriamente sofferte, si può dire, se consideriamo il destino di questo
docente dell’Università di Amburgo, che alcuni anni or sono fu
vittima di un s equestro e trascorse vario tempo in cattività: “in
cantina”, come si intitola letteralmente l’edizione tedesca del libro
(tradotto in Italia da Feltrinelli) che racconta quella dolente
esperienza. 2
1
Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, Pantheon, Hamburg 2008.
Jan Philipp Reemtsma, Im Keller, Rowohlt, Hamburg 1997; tr. it. Chiuso dentro. Dalla cantina di un
sequestro. 33 giorni di lucida angoscia, Feltrinelli, Milano 1998.
2
27
I temi cosiddetti vittimologici sono del resto ricorrenti nei suoi
scritti, che annoverano anche un volume in argomento, composto a
quattro mani con il noto penalista tedesco Winfried Hassemer. 3 Si
tratta di un testo nel quale vengono presentate, con equilibrio ed
efficacia, sia le luci, sia le molte ombre che accompagnano la
“riscoperta” della vittima nelle scelte (ma sarebbe meglio dire: nella
presentazione pubblica delle scelte) politico-criminali: da una parte,
per esempio, il fecondo recupero di nuove prospettive di giustizia
conciliativa-riparativa; dall’altra, però, il rischio sempre incombente
che il richiamarsi ai diritti della vittima promuova una crescente
privatizzazione della tutela penale, faccia da puntello a u na visione
retributiva-vendicativa della pena e, con essa, all’adozione di misure
repressive illusoriamente rassicuranti per collettività assillate dalla
“paura del crimine”. Lungo questa china, le vittime, effettivamente o
potenzialmente esposte alle offese criminali, si vedono colpite da
un’offesa ulteriore e n on meno dolorosa: quella a esse portata dalle
stesse politiche criminali contemporanee, intente soprattutto a farne un
uso simbolico, propizio a esibirne nel modo più plateale possibile la
capacità di “stabilizzazione della psiche sociale”. 4
In Vertrauen und Gewalt, l’ultima 5 e recente opera di Reemtsma
dedicata alla violenza, gli elementi di affinità con il pregevole libro di
cui intendo discutere, Cosmologie violente, non si arrestano certo alla
scelta dell’argomento principale. C’è una comune cifra stilistica,
innanzitutto. Entrambe le opere intercalano alla trattazione
propriamente scientifica o comunque speculativa ampi testi narrativi,
che in Reemtsma sono pressoché esclusivamente letterari, nell’opera
di Ceretti e N atali, prevalentemente cinematografici o t ratti dalle
deposizioni dei soggetti intervistati. Il libro di Reemtsma si chiude con
un cammeo dedicato al personaggio dell’Amleto shakespeariano,
Polonio, e al la sua particolare forma di “stupidità moderna”. In
Cosmologie violente il capitolo propriamente conclusivo dell’opera
3
Winfried Hassemer e Jan Philipp Reemtsma, Verbrechensopfer. Gesetz und Gerechtigkeit, C.H.
Beck, München 2002.
4
Per una ricapitolazione di alcuni motivi e implicazioni della cosiddetta “riscoperta” della vittima in
criminologia e in politica criminale, rinviamo a Gabrio Forti, L’immane concretezza, Raffaello Cortina
Editore, Milano 2000, pp. 252 e sgg.; Karl-Ludwig Kunz, Kriminologie, Haupt, Bern-Stuttgart-Wien
20085, pp. 306 e sgg.
5
Si veda già, dello stesso autore, Die Gewalt spricht nicht. Drei Reden, Reclam, Stuttgart 2002.
28
(prima della Postilla epistemologica) sceglie come sue battute finali il
Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij.
Inutile dire che in entrambi i volumi questa scelta di annodare
narrazione e co ncettualizzazione è tutt’altro che un vezzo
ornamentale, ma si lega finemente all’ispirazione di fondo che, specie
in Cosmologie violente, è di sottrarre una materia come quella del
crimine violento alla massiccia stereotipizzazione cui essa è
assoggettata non solo sul palcoscenico mediatico, ma nella stessa
criminologia. Il risultato è di far ri-scoprire e ri-vedere le singolarità
umane dell’autore violento e dei fatti che abbia perpetrato, solitamente
sacrificate da quella standardizzazione funzionale a un certo “discorso
politico-criminale” che, come detto, possiamo vedere all’opera con
non minore zelo, anche se in veste più subdolamente rispettabile, nei
confronti delle stesse vittime.
La densa rete di fili narrativi che si intreccia alla trama saggistica
sembra dunque recare alla materia scientifica l’apporto che Susan
Sontag riconosce agli scrittori e alle narrazioni: quello di “combattere
i cliché che amplificano la nostra separatezza, la nostra differenza,
perché gli scrittori sono creatori, e non soltanto trasmettitori, di miti”. 6
7
Come osserva Adriana Cavarero, ogni racconto narra di quel destino
“totalmente impadroneggiabile e unico per ogni essere umano, che
Hannah Arendt chiama daimon”, ed è ciò cui allude Karen Blixen
quando parla della convinzione che “alla fine, c’è probabilmente
qualcosa per ogni individuo a cui egli non può rinunciare [...] la ‘vita’
ne è il prezzo”; “che lo si chiami daimon o destino, oppure
semplicemente qualcosa, si tratta dunque di quel disegno irripetibile
che ogni vita traccia col suo percorso: non un ruolo da interpretarsi e
tantomeno una sostanza nascosta da incarnare, bensì la figura
totalmente apparente – e posteriore agli eventi – di un’esistenza unica
che suggerisce un’unità”.
Susan Sontag, At the Same Time, Farrar, Straus, and Giroux, New York 2007; tr. it. Nello stesso
tempo, Mondadori, Milano 2008, pp. 168; 186.
7
Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 2007, p. 180.
6
29
2. La rimozione moderna del carattere comunicativo della
violenza e il suo recupero “cosmologico”
Nella sua analisi della fenomenologia della violenza, Reemtsma
distingue una violenza “locativa” o, se vogliamo, “dislocativa”
(lozierende Gewalt), “che non si indirizza al corpo in quanto tale, ma
mira al corpo dell’Altro per determinarne la collocazione spaziale”,8
una “violenza raptiva” (raptive Gewalt), che mira al possesso del
corpo, per lo più a f ini sessuali; 9 e, infine, quella che viene detta la
“violenza autotelica” (autotelische Gewalt), diretta alla distruzione
dell’integrità del corpo, che costituisce una componente essenziale,
presente in ogni forma di violenza.10 In Cosmologie violente, è “il
costante rimando alla corporeità a restituire una capacità selettiva al
concetto di violenza, che grazie a esso guadagna una maggiore
definizione”, ponendosi al riparo da sempre possibili
11
“manomissioni”.
C’è uno snodo centrale del libro di Reemtsma da cui vorrei prendere
spunto nella mia riflessione, soprattutto perché esso mi offre la guida
iniziale per lo scorrere di un’analisi che intende riguardare il tema
della violenza soprattutto dal punto di vista del diritto (in specie
penale) e del la politica criminale. Reemtsma muove dall’idea che
nessuna azione umana sia semplicemente strumentale, ma che in essa
entri sempre in gioco un momento comunicativo: “c’è sempre
qualcosa che attira il soggetto al fatto [Tat], non solo al fatto violento,
e ciò che attira non è mai solo un’utilità. Ogni fatto è a nche
un’informazione trasmessa sul soggetto, con la quale si dice chi egli è
e chi vuole essere […]. Ogni azione umana ha un aspetto
12
comunicativo”. Con la sua azione, e dunque anche con la sua azione
violenta, il soggetto chiama in causa un terzo, si rivolge a questo
terzo, reale o immaginario. Qui si manifesta il carattere “sociale” della
violenza, che “può dunque essere compresa come azione sociale, solo
se intesa nell’ambito di una costruzione triadica, poiché essa diviene
8
Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 108.
Ivi, p. 113.
10
Ivi, pp. 116 e sgg.
9
11
12
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 51.
Cfr. Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 107.
30
agire sociale solo come atto di comunicazione”.13 E “ciò che la
violenza comunica è la sua dimensione autotelica”. 14
Al di là degli avvertibili echi provenienti da una vasta tradizione di
pensiero (si potrebbero evocare, tra i tanti, Talcott Parsons, Niklas
Luhmann, Jürgen Habermas), è interessante il rilievo della diffusa
tendenza, non solo istituzionale, ma anche culturale e scientifica (per
esempio sociologica) alla negazione di un tale carattere comunicativo
della violenza e, quindi, della sua dimensione sociale. Una operazione
“negazionistica” che nella modernità mirerebbe soprattutto a
preservare e consolidare la fiducia sociale. Sarebbe infatti proprio
dalla dimensione sociale della violenza a derivare una messa in
discussione del monopolio statuale della violenza, che costituisce una
delle basi fondamentali in cui si inserisce la fiducia individuale nella e
della modernità, indispensabile a s ua volta per bilanciare la portata
disgregante propria dell’altra caratteristica del moderno, che è la
differenziazione dei ruoli sociali (come avrebbe detto Durkheim: la
divisione del lavoro), e per ricomporre la coesione che tale
differenziazione tende a spezzare.
Questo meccanismo di rimozione o ne utralizzazione del carattere
comunicativo della violenza si manifesterebbe in particolare attraverso
il diritto penale, il cui senso principale è i dentificato da Reemtsma,
appunto, nella “delimitazione della funzione comunicativa della
violenza”: il processo penale moderno costituirebbe allora un
momento essenziale di “esclusione del terzo”, ossia di isolamento
dell’attore violento dal terzo cui sempre la sua azione è almeno in
parte rivolta, con ciò realizzando appunto una deprivazione del
carattere comunicativo del suo atto. 15 Con richiami luhmanniani, 16 si
afferma così che, attraverso il processo, il delitto viene
“depoliticizzato” e il conflitto che esso produce “neutralizzato
politicamente”, impedendosi così che, attraverso “meccanismi di
generalizzazione”, problemi specifici divengano “punti di
cristallizzazione di fronti conflittuali, in grado di separare più larghi
strati della popolazione”.17 Si afferma allora, per esempio, che i
13
Ivi, p. 467.
Ivi, p. 476.
15
Ivi, p. 486.
16
Niklas Luhmann, Legitimation durch Verfahren, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983, p. 122; tr. it.
Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Giuffrè, Milano 1995.
17
Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 487.
14
31
processi di Norimberga avrebbero impedito al genocidio di
configurarsi come “un messaggio”, e i n ciò risiederebbe “la
significatività dell’intervento civilizzatorio” che essi hanno
realizzato 18 (senza peraltro che sia riuscito loro di cancellare la
contraddizione tra i genocidi del Novecento e la promessa moderna di
un futuro senza violenza). 19
Il senso stesso della cosiddetta prevenzione generale positiva per
Reemtsma deriverebbe proprio da questa direzionalità a rimuovere “il
terzo” (e dunque la dimensione comunicativa e s ociale) dall’atto
criminale. 20 Si potrebbe aggiungere, con specifico riferimento alle
teorie “espressive” della pena,21 che lo Stato si assuma, insieme al
monopolio della violenza, il “monopolio espressivo”, togliendo
significatività, attraverso il processo o comunque il rito penale, all’atto
violento individuale, collettivizzando e reindirizzando, per così dire,
una tale espressività nella direzione tendenzialmente unica del
giudizio di riprovazione sociale rivolto nei confronti del fatto
criminale e del suo autore.
In un tale meccanismo di narrazione “ufficiale” della violenza,
non è peraltro difficile vedere in atto – come si dirà più avanti – anche
una rimozione e distrazione dall’orizzonte comunicativo della
violenza originaria, ossia dalla violenza del diritto e, il che è lo stesso,
di quella del Politico. Una violenza cui si vuole sovrapporre la
violenza puramente individuale, avulsa dai mondi sociali e, ancor
prima, dal terzo verso cui si rivolge la sua intrinseca componente
comunicativa.
18
Ivi, p. 488.
Come ricorda Reemtsma (ivi, p. 487), non s empre peraltro una tale operazione ha successo nei
processi a carico di criminali politici: ciò avviene quando essi rinunciano al carattere comunicativo e
sociale delle loro azioni, dichiarandosi “innocenti” davanti alle corti internazionali; non così invece
quando tendono a rimarcare tale carattere pronunciando dichiarazioni politiche (o magari, come nella
esperienza, ben nota in Italia, di processi ad autori di delitti politici, negano la legittimazione delle
corti a giudicarli, fino talvolta a rinunciare a ogni difesa legale).
20
Ivi, p. 486.
21
Si rinvia, per ampi richiami e riferimenti bibliografici alle teorie cosiddette espressive, a: Arianna
Visconti, Teorie della pena e shame sanctions: una nuova prospettiva di prevenzione o un caso di
atavismo del diritto penale?, in Studi in onore di M. Romano, Jovene, Napoli 2011, I, pp. 63 e sgg., tra
cui in particolare: Joel Feinberg, The Expressive Function of Punishment, in Antony R. Duff e David
Garland (a cura di), A Reader on Punishment, Oxford University Press, Oxford 1994, pp. 73 e sgg.;
Sanford H. Kadish, Blame and Punishment, Macmillan, New York 1987, p. 51; Henry M. Hart, The
Aims of the Criminal Law, in “Law and Contemporary Problems”, 23, 1958, pp. 404 e sgg.
19
32
Il processo penale costituisce comunque solo lo sbocco finale di
un’operazione culturale avviata ben prima del suo svolgimento e già
pervasivamente diretta al medesimo scopo di “allontanamento” e
“distrazione”. Tale operazione è agita dall’apparato tradizionale di
inquadramento e gestione in termini patologici della questione
criminale, di cui la criminologia positivista è stata una componente
fondamentale, e che ora trova il suo luogo principale nella
rappresentazione mediatica (tanto informativa quanto finzionale) del
crimine 22 (nel “dominio” penal-mediatico, come si dirà più avanti) e
in molta parte di quella “cultura popolare” che vi trova espressione e
assecondamento.
Nel libro di Ceretti e Natali, del resto, è proprio la mobilitazione
dell’idea di “cosmologia” a configurarsi come “un concetto
sensibilizzante finalizzato a r estituire senso alle condotte umane
(violente) al di là di ogni rigida e formale distinzione fra normalità e
sofferenza psichica. Non esiste un gesto violento, un’aggressione
fisica, un attacco al corpo, per quanto ‘folle’ e cruento, che non
implichi una cosmologia”. Anche la follia omicida atroce sarà spiegata
più che come il frutto di un disturbo cerebrale, di una malattia morale,
della perdita della ragione, di un invasamento divino, come “esserealtrimenti, come forma autonoma e idiosincratica, ma tutt’altro che
priva di senso che aggredisce la congenita vulnerabilità della
dimensione corporeo-esistenziale della persona sottoposta al potere
23
globale e totalizzante di un gesto di dominio violento”.
Coerente con questo disegno è dunque, nel libro, l’analisi del
rapporto tra violenza e malattia psichica. Vi viene respinta “la pretesa
che i ‘violenti’ siano per lo più ‘disorganizzati’, i cui atti ‘efferati’ e
‘distonici’ risulterebbero rivelatori di patologie” e si ricorda che “i
Per un’ampia trattazione di questi temi, rinviamo complessivamente ai saggi raccolti nel volume: La
televisione del crimine, a cura di Gabrio Forti e Marta Bertolino, Vita e Pensiero, Milano 2005. Il tema
ha trovato ampia emersione anche nel recente convegno, a cu ra del Centro Studi “Federico Stella”,
sulla giustizia penale e la politica criminale dell’Università Cattolica di Milano, Narrazioni della
giustizia, giustizia della narrazione, 12 maggio 2011, i cui Atti sono in corso di pubblicazione. Come
osservano Ceretti e Nat ali (op. cit., p. 369) “se si guarda dunque ai mass media concependoli quali
‘mondi sociali’ che includono o escludono, uniscono o dividono le persone, risulta chiaro che
l’emergere di un sistema di informazioni unico su scala globale, sempre accessibile a tutti, ha avuto
profonde ricadute sui diversi gruppi sociali che fino alla sua comparsa erano stati fondamentalmente
influenzati – in ogni angolo della terra – dalle loro culture di appartenenza a una classe, a un gruppo
etnico e a un’area territoriale”.
23
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 320.
22
33
principali studi di ricercatori assai autorevoli convergono
nell’affermare che, pur esistendo una moderata ma significativa
associazione tra violenza e disturbo mentale, essa non è ‘creata’ dalla
malattia, ma in qualche modo è un a caratteristica temperamentale o
della personalità che pre-esiste alla malattia stessa e, in tale
24
condizione, non è più controllabile”. Si tratta del resto di
immunizzarsi da “movimenti espulsivi”, di non “tornare a cadere in
quella trappola che considera chi ha commesso delitti brutali come
inevitabilmente ‘altro’. In costoro parla e ha il sopravvento qualcosa
che esiste anche in noi e che possiamo riconoscere: il male, appunto.
In ‘loro’ agisce ‘[...] quella stessa parte cattiva e malvagia’ che esiste
in ogni persona e che drammaticamente li unisce a noi nello stesso
momento in cui disperatamente li vogliamo allontanare, etichettandoli
25
come ‘diversi’, ‘malati’, ‘mostruosi’”.
È anche all’interno di questa prospettiva che si svolge il filo
narrativo comune ai due testi che sto qui accostando. La narrazione
vuole restituire il discorso comunicativo originario della violenza,
affrancato dalla rimozione penale-mediatica. La storia raccontata dalla
letteratura è una storia singolare, che si deve a qualcuno – lo scrittore
– “che presta attenzione al mondo”, 26 “e perciò cerca di capire, di
assimilare la malvagità di cui sono capaci gli esseri umani, senza
24
Ivi, p. 324. Per una attenta analisi dell’opera di Ceretti e Natali alla luce delle categorie penalistiche
del dolo e dell’imputabilità, cfr. Pierpaolo Astorina, Spunti per una lettura interazionistica del dolo e
dell’imputabilità, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, n. 4, 2010, pp. 1849 e sgg.
25
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 379.
Susan Sontag, Nello stesso tempo, cit., pp. 168, 186: “La letteratura si potrebbe descrivere come la storia del
modo in cui gli uomini rispondono a ciò che è vivo e a ciò che è destinato a morire, man mano che le culture si
evolvono e i nteragiscono l’una con l’altra. Gli scrittori possono fare qualcosa per combattere i cliché che
amplificano la nostra separatezza, la nostra differenza, perché gli scrittori sono creatori, e non soltanto
trasmettitori, di miti. La letteratura non offre soltanto miti, ma anche contro-miti, così come la vita offre controesperienze – esperienze che rimettono in gioco ciò che credevamo di pensare, di sentire, o di credere. Uno
scrittore, a m io parere, è qualcuno che presta attenzione al mondo. E perciò cerca di capire, di assimilare la
malvagità di cui sono capaci gli esseri umani, senza essere corrotto – reso cinico, o superficiale – da tale
comprensione. La letteratura può dirci come è fatto il mondo. La letteratura può offrire i modelli e trasmetterci
conoscenze profonde, incarnate nel linguaggio e nella narrazione. La letteratura può allenare e tenere in esercizio
la nostra capacità di piangere per chi non è uno di noi, per chi non è simile a noi. Cosa saremmo se non
potessimo provare simpatia per chi non è uno di noi, per chi non è simile a noi? Cosa saremmo se non
riuscissimo a dimenticare noi stessi, almeno parte del tempo? Cosa saremmo se non fossimo capaci di imparare?
Di perdonare? Di diventare diversi da quelli che siamo? Raccontare una storia vuol dire: è questa la storia
importante. Vuol dire ridurre l’estensione e la simultaneità del tutto a qualcosa di lineare, a un tragitto. Essere un
individuo morale significa prestare, essere obbligato a prestare, un certo tipo d’attenzione. Quando esprimiamo
giudizi morali, non stiamo semplicemente affermando che una cosa è migliore di un’altra. Stiamo affermando, in
modo ancor più fondamentale, che una cosa è più importante di un’altra. Ordiniamo la vertiginosa estensione e
la simultaneità del tutto, a c osto di ignorare o voltare le spalle a g ran parte di ciò che accade nel mondo. La
natura dei giudizi morali dipende dalla nostra capacità di prestare attenzione: una capacità inevitabilmente
limitata, i cui limiti si possono, però, forzare”.
26
34
essere corrotto – reso cinico, o superficiale – da tale comprensione”:
“raccontare una storia vuol dire: è questa la storia importante”.
Richiamare la singolarità, attraverso il racconto, avvicina e non
allontana l’Altro, perché è attraverso la percezione del senso unico di
ogni destino che c i si sottrae alla “categorizzazione”, tanto clinica
quanto giudiziaria, 27 e coglie una comune umanità, data appunto,
paradossalmente, dalla diversità di ognuno, specchio della sua e della
nostra libertà, della sua e della nostra possibilità di infinita
metamorfosi. “Ognuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo, e il
mondo è prezioso perché è pieno di tali centri. Questo è il senso della
parola uomo: ognuno un centro a fianco di innumerevoli altri, i quali
lo sono quanto lui.” 28
Tutto questo diviene allora il presupposto per il recupero, attraverso
un’attenzione alle cosmologie individuali (e, dunque, anche alla
dimensione comunicativa della violenza) di un’antropologia del male,
proprio come nella sua Lettera a un Presidente (indirizzata al
29
presidente della Repubblica Ceca Václav Havel nel 1995), si
sforzava di fare lo scrittore Iosif Brodskij. Nell’invitare il suo illustre
Cfr. Adolfo Ceretti, Come pensa il Tribunale per i minorenni, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 33 e
sgg.: “Se si segue il percorso tracciato da queste parole si può andare ben oltre, e pensare al giudice
quale portavoce autorizzato a compiere, tra l’altro, anche un atto di comunicazione particolare: quello
di intervenire in quella complessa operazione che conduce a significare a qualcuno la propria identità.
Il giudice infatti impone sempre un nome (‘condannato’, ‘prosciolto’, ‘immaturo’, ‘maturo’, ‘capace’,
‘incapace’, ‘responsabile’, ‘non responsabile’, ‘imputabile’, ‘non imputabile’, ecc.), che è anche
un’essenza sociale, dichiarandolo innanzi a tutti, e attribuisce così con autorità una qualità ad un
determinato soggetto. Siamo di fronte a un atto di categorizzazione (in greco kategoresthai significava
appunto accusare pubblicamente) che tende a p rodurre ciò che esso designa. Ma spesso l’atto di
comunicazione-categorizzazione va ben oltre questi confini. Con il pretesto di ‘spiegare’ un fatto di
reato si tende difatti a giudicare in modo sempre più ricorrente gli ‘istinti’, i ‘ complessi’, i
‘disadattamenti’, gli ‘effetti dell’ambiente’ riguardanti il reo. Il primo esito di tale operazione è quello
di far sì che alcuni fatti biografici vengano ritagliati e tradotti in giudizi di valore travestiti da
anamnesi psicologiche; il secondo effetto è che il magistrato, oltre che un giudizio sulla colpevolezza
arriva a formulare un apprezzamento di normalità e una prescrizione tecnica per una possibile
normalizzazione”.
28
Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 325 (che cita Elias Canetti, La
coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1976, p. 84): “il senso delle ‘esperienze’ di ciascuno è sempre
personale: È un’adesione alla vita, forma del desiderio e trama di risonanze che ‘significano
qualcosa’ solo per me” (qui la citazione è d a Paolo Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Carocci,
Roma 2008, p. 177 ed entrambe seguono a un brano tratto dal film Pulp Fiction).
29
La lettera, pubblicata sulla “New York Review of Books”, fu scritta in risposta a una conferenza di
Václav Havel apparsa il 27 maggio 1993 sulla medesima rivista ed è ora pubblicata in traduzione in
Iosip Brodskij, On Grief and Reason, Farrar, Straus, and Giroux, New York 1997; tr. it. Profilo di
Clio, Adelphi, Milano 2003.
27
35
interlocutore a s ottrarsi alla “comoda” 30 identificazione, nel passato
dell’Europa orientale, di un problema di comunismo o altri -ismi (che
sempre suggeriscono “l’estraneità di un f enomeno”), e a vedervi
piuttosto una caduta antropologica, 31 “un problema umano, un
problema della nostra specie, e qui ndi di natura costante”, Brodskij
faceva appello proprio alla sensibilità di scrittore di Havel. Lo
scrittore dovrebbe infatti raccogliere la sollecitazione a non “usare una
terminologia che oscura la realtà del male nell’uomo – una
terminologia, vorrei aggiungere, inventata dal male per nascondere la
sua vera identità”.
La critica di questa “terminologia” coincide ampiamente con la
critica della più generale tendenza del moderno a costruire in termini
razionali la violenza. Una tendenza, come scrive Reemtsma, avallata
Ivi, p. 209: “A tutt’oggi, la parola ‘comunismo’ risulta comoda, perché un -ismo suggerisce un fait
accompli. Nelle lingue slave specialmente, un -ismo, come lei sa, suggerisce l’estraneità di un
fenomeno, e quando la parola che contiene l’-ismo denota un sistema politico, il sistema è percepito
come un’imposizione. È vero, il nostro -ismo particolare non è stato concepito sulle rive del Volga o
della Vltava, e il f atto che lì s ia fiorito con straordinario vigore non rivela l’eccezionale fertilità del
nostro suolo, perché è fiorito con uguale intensità a differenti latitudini e in zone culturali
estremamente diverse. Il che suggerisce non tanto un’imposizione quanto le origini organiche, per non
dire universali, del nostro -ismo”. [...] “Così come sarebbe davvero scomodo – specificamente per i
cowboy delle democrazie industriali occidentali – riconoscere nella catastrofe che si è v erificata sul
territorio degli indiani d’America il primo grido della società di massa: un grido, per così dire, dal
futuro del mondo, e riconoscerla non solo come un -ismo ma come una voragine che si è spalancata
improvvisamente nel cuore umano, a inghiottire onestà, compassione, civiltà, giustizia, e che, una
volta saziata, ha presentato al pur sempre democratico esterno una superficie monotona,
ragionevolmente perfetta”. [...] “I cowboy, però, odiano gli specchi, non fosse altro perché in essi
potrebbero riconoscere gli indiani arretrati più prontamente di quanto farebbero guardandosi intorno.
Per cui preferiscono montare i loro alti cavalli, scrutare gli orizzonti senza indiani, deridere
l’arretratezza degli indiani, e d erivare un enorme conforto morale dall’essere considerati cowboy –
anzitutto dagli indiani stessi”.
31
Ivi, pp. 209 e sgg.: “Perché non cominciamo semplicemente ad ammettere che nel nostro mondo, in
questo secolo, si è verificata una spaventosa caduta antropologica, indipendentemente da chi o da che
cosa l’abbia scatenata? Una caduta tale da coinvolgere masse che agivano per il proprio interesse e
che, mentre lo facevano, riducevano il loro comun denominatore a una moralità infima? E che
l’interesse personale delle masse – la stabilità della vita e i suoi standard, ugualmente ridotti – è stato
ottenuto a sp ese di altre masse, benché numericamente inferiori? Da qui il numero dei morti. È
comodo trattare queste cose come un errore, come un’orrenda aberrazione politica, magari imposta a
esseri umani da un a nonimo altrove. È anche più comodo se quell’altrove porta un ve ro nome
geografico o un nome che suona straniero, le cui lettere oscurano la sua natura assolutamente umana.
È stato comodo costruire flotte e difese contro quell’aberrazione – come è comodo smantellare quelle
difese e quelle flotte ora. È comodo, voglio aggiungere, riferirsi oggi a q uelle cose in modo civile,
Signor Presidente, da un pulpito, anche se non metto in dubbio neppure per un istante la schiettezza
della sua civiltà che, sono convinto, è la sua vera natura. È stato comodo avere a portata di mano un
esempio vivente di come non far funzionare le cose a questo mondo, e dotare tale esempio di un -ismo,
come è comodo dotarlo oggi di know-how e di un ‘post-’. (E si può facilmente immaginare il nostro ismo, impreziosito dal suo post-, entrare comodamente, sulle labbra dei cretini, nel porto del futuro)”.
30
36
anche dagli storici, che in tal modo cercano di preservare la fiducia in
se stessa della modernità, ma allo stesso tempo impediscono di
imparare dalle catastrofi del Novecento e di imparare in particolare
quanto la violenza non sia semplicemente un mezzo sbagliato, ma sia
una forma di comunicazione. 32
3. Il “dominio” penale-mediatico
Dagli “incroci riflessivi” tra le due intense interpretazioni del tema
della violenza qui considerate, vorrei trarre alcuni spunti di analisi del
libro di Ceretti e Natali: certo solo una minuscola frazione di quelli
che potrebbero snodarsi attraverso il ricchissimo, per molti versi
inesauribile, repertorio di studio offerto da quest’opera.
Mi soffermo innanzitutto su un aspetto, che mi pare assai
significativo. Nel momento in cui l’attore violento parla con la
“comunità fantasma”, non sta semplicemente sviluppando un discorso
interiore con le sue figure di riferimento, ma adatta ai mondi sociali
ciò che di violento fa, ha f atto o si accinge a fare. La comunità
fantasma con cui dialoga è a nche un mezzo comunicativo con
l’esterno, con l’ambiente umano di cui si serve l’agente o nel cui
contesto la sua condotta si inserisce.
È chiaro che qui non aggiungo niente a ciò che già si dice nel libro,
quando ci si riferisce al “processo dinamico attraverso il quale uomini
e donne, sotto quell’ampia volta delineata dall’interazione vivente fra
sé e i mondi sociali abitati, si determinano fino a seguire linee violente
d’azione”: un processo che è articolato nei movimenti di una attività
riflessiva “che si inanella e s i compenetra nel flusso continuo del
soliloquio/conversazione interiore”, che media “sempre, e in modo
selettivo, (1) l’‘individuo biologico’, lo ‘slancio vitale’ e l’‘I’, 33 (2) le
‘percezioni’ e gli ‘sfondi prospettici’, (3) le ‘interpretazioni della
situazione’, (4) le ‘emozioni’, (5) i ‘desideri’, (6) i ‘mondi sociali’ e
(7) il ‘tempo’, facendo convergere e co ncentrando questo pluriverso
32
Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 450.
Nel lessico dell’interazionismo meadiano, l’“I” “rappresenta l’impulso ad agire dell’organismo, che
non può essere conosciuto in anticipo in quanto si concreta solo nel momento della realizzazione
dell’atto stesso. L’azione dell’‘I’ [...] è qualcosa la cui natura non possiamo definire in anticipo”. Tutta
la nostra individualità proviene dall’I, “che è il serbatoio del nostro ‘senso di libertà e di iniziativa’”
(Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 108)
33
37
nel punto in cui si attivano alcune condotte (incluse quelle
distruttive)”. 34
In questo contesto, uno dei “movimenti”, dei “fotogrammi”, è
costituito appunto dai “mondi sociali”. L’idea di “causalità
processuale” 35 da cui è ispirata la costruzione teorica del libro non può
peraltro che configurare un’attività riflessiva nella quale i soggetti non
solo ascoltano e recepiscono tali mondi sociali, le culture in cui sono
immersi, ma a qu esti mondi si rivolgono, parlano e da essi si
attendono un ascolto. 36 Si ha cura infatti di precisare che “le strutture
socioculturali influenzano l’agire umano solo attraverso la riflessività
interna della persona, la quale deve introdurre i dati del contesto
esterno nelle sue strategie e fare i conti con esse [...] Non si tratta di un
37
condizionamento dall’esterno che causi direttamente l’agire umano”.
Il percorso di lettura qui proposto, spero non troppo arbitrario,
intende raccordare queste considerazioni alla parte iniziale del libro,
nella quale si esprime adesione per le pagine del famoso saggio di
Walter Benjamin sulla violenza, 38 ritenute “capaci di cogliere proprio
quella ‘ambiguità demoniaca’ che lega il diritto alla violenza” e di
esprimere una “corrosiva critica del sistema giudiziario”.39 La
34
Cfr. ivi, pp. 342-343.
Cfr. per esempio ivi, pp. 255 e sgg.
36
Ivi, p. 366.
37
Ivi, p. 366, con rif. a Pierpaolo Donati, La conversazione interiore. Un nuovo paradigma
(personalizzante) della socializzazione, in Margaret S. Archer, La conversazione interiore, Erickson,
Gardolo 2006, p. 12. “La riflessività interna è il missing link che opera la mediazione fra le strutture di
dominio e il modo in cui, con le nostre deliberazioni, ci collochiamo rispetto a esse: ‘una volta che
abbiamo stabilito riflessivamente il da farsi, ossia il tipo di attori che intendiamo diventare, dobbiamo
anche farci carico del dato oggettivo rispetto a ci ò che possiamo e ch e non possiamo fare, data la
società in cui ci troviamo’”.
38
Cfr. Walter Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, Bd. II.1,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977, pp. 179-203. Citiamo questa battuta, con cui Benjamin introduce
la sua riflessione sulla violenza, nella traduzione italiana: Walter Benjamin, Per la critica della
violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1976, p. 9. Su questo saggio, cfr. da
ultimo Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, Carocci, Roma 2010, pp. 61-68. In argomento,
assai rilevanti sono le riflessioni di Jacques Derrida, Force de loi, Galilée, Paris 1994; tr. it. Forza di
legge, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 86 e sgg., in particolare nel passo (ivi, p. 129), in cui si
dice che per Benjamin “ciò che fa il valore dell’uomo, del suo Dasein e della sua vita, è il contenere la
potenzialità, la possibilità della giustizia, l’avvenire della giustizia, l’avvenire del suo essere giusto, del
suo dover-essere giusto. Ciò che è sacro nella sua vita, non è la vita ma la giustizia della sua vita”.
39
Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 34. Cfr. Walter Benjamin, Per la
critica della violenza, cit., pp. 23 e sgg.: “creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di
immediata manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità divina, potere il principio
di ogni diritto mitico. Quest’ultimo principio ha un’applicazione estremamente grave di conseguenze
nel diritto pubblico. Nell’ambito del quale la fissazione dei confini, come è attuata dalla ‘pace’ di tutte
le guerre dell’età mitica, è l’archetipo della violenza creatrice di diritto. In essa appare nel modo più
35
38
riflessione benjaminiana trova infatti il suo “focus tematico” nella
“relazione tra violenza, giustizia e diritto, questi ultimi intesi come gli
ambiti in cui si definiscono quei rapporti morali all’interno dei quali
una causa agente può essere detta violenta”.40
Particolarmente illuminante in proposito mi pare il passo del libro di
Ceretti e Natali in cui si esprime l’esigenza di “osservare/registrare,
senza rimanerne accecati, la ‘cosmogonia’ di quel percorso che
trasforma la violenza originaria – in-fondata e in-giustificata – in forza
legittima. È quando il singolo ‘rinuncia’ a vendicarsi spontaneamente
e inizia a riconoscere l’autorità del sovrano che la ‘legge’ marca la
perdita di un ‘prima’ spazio/temporale – contrassegnato dall’assenza
dell’ordine della rappresentanza politica – e acquisisce la forza di
regolamentare le relazioni umane – e finanche la morte, per mezzo
della pena capitale. Nel viraggio dalla violenza ‘fondatrice’ a quella
‘conservatrice del diritto’,41 la prima viene sepolta, celata dietro le
quinte dell’apparato giudiziario. La seconda può, a partire da u n
momento preciso, opporsi a vi olenze individuali e/o collettive che
minacciano lo stesso diritto”.42 Richiamandosi qui, come anche in
chiaro che è il potere (più del guadagno anche più ingente di possesso) che deve essere garantito dalla
violenza creatrice di diritto. Dove si stabiliscono confini, l’avversario non viene semplicemente
distrutto; anzi, anche se il vincitore dispone della massima superiorità, gli vengono riconosciuti certi
diritti. E c ioè, in modo demonicamente ambiguo, pari diritti: è la stessa linea che non deve essere
superata dai due contraenti. Dove appare, nella sua forma più temibile e o riginaria, la stessa mitica
ambiguità delle leggi che non possono essere ‘trasgredite’, e di cui Anatole France dice satiricamente
che vietano del pari ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti” (ivi, pp. 25 e sgg.).
40
Fabrizio Desideri e M assimo Baldi, Benjamin, cit., pp. 61 e sgg. Cfr. anche Axel Honneth, Eine
geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen. Zu Benjamins “Kritik der Gewalt”, in Axel Honneth,
Pathologien der Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2007, pp. 112 e sgg.
41
Per Benjamin nel tempo presente la violenza può essere tematizzata solo in due forme strettamente
connesse all’istituzione giuridica, ossia quella della Rechtsseztung (la posizione, la creazione del
diritto), e la Rechtserhaltung (la conservazione del diritto). E la sua idea è che il diritto non sia
separato dalla violenza perché esso dipende dalla minaccia e dalla inflizione della violenza necessarie
sia per la sua istituzionalizzazione, sia per la sua riproduzione. “La funzione della violenza nella
creazione giuridica è […] duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue, ciò che viene
instaurato come diritto, come scopo con la violenza come mezzo, pure – nell’atto di insediare come
diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè
immediatamente, violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto, col nome di potere, non
già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e n ecessariamente legato ad
essa. Creazione di diritto è creazione di potere, e i n tanto un atto di immediata manifestazione di
violenza”; “la legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice
indebolisce, a l ungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza
creatrice che è rappresentata in essa” (Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 23, 27).
42
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 34. “Questi passaggi rivelano, però,
un’opacità che è ben rappresentata dall’ambiguità del termine Gewalt, che, come avverte Renato
Solmi in una nota della sua curatela del testo di Benjamin, sta a indicare, in tedesco, tanto ‘violenza’
quanto ‘autorità’, ‘potere’: il gesto violento che interrompe lo stato di natura fonda in un preciso
39
precedenza, a Derrida, gli autori concludono che “il diritto tende a
rimuovere la violenza che lo precede”, visto che “essa ricompare
come sintomo nella violenza conservatrice. Tutto ciò mostra che il
concetto di violenza appartiene al diritto e che il diritto è inseparabile
dalla violenza”. 43
La questione su cui vorrei (sia pure solo per accenni) soffermarmi
non riguarda allora solo o tanto la “‘cosmogonia’ di quel percorso che
trasforma la violenza originaria – in-fondata e in-giustificata – in forza
legittima”, quanto il rapporto che potrebbe ricostruirsi tra il risultato di
questa cosmogonia, ossia appunto “la forza divenuta legittima”, e
un’altra cosmogonia: quella da cui deriva la generazione delle
cosmologie violente (o non violente) nel singolo attore. C’è insomma
da interrogarsi sul significato per cui nel tempo presente la violenza
44
può “essere tematizzata solo nella forma del diritto” (e quindi, della
politica del diritto e d ella politica criminale, che è poi il cuore più
espressivo della politica).
Io credo che un primo passaggio per comprendere questa
tematizzazione possa essere compiuto facendo ricorso alla categoria
del “dominio”,45 secondo la lettura athensiana riferita nel libro, e alla
sua applicazione in particolare al diritto, pensato in modo connesso
alla violenza e alla assunzione del suo monopolio.
La prospettiva processuale e circolare dei nessi causali e dei vettori
di forza che possono legare diverse entità orienta gli autori del libro
verso la considerazione secondo cui “esercitare il dominio comporta
[…] l’assunzione cosciente/consapevole del ruolo altrui, e per farlo
occorre avere sviluppato (e utilizzare) il linguaggio”. 46 Ne consegue
che il dominio “incorpora nel suo stesso funzionamento la socialità e
l’assunzione di atteggiamenti altrui: questi ultimi operano, dunque,
istante inaugurale l’‘autorità’, la quale potrà porre validamente la sua norma solo dopo aver trionfato e
dopo avere sospeso, occultato la violenza fondatrice. È questo percorso che fa le leggi: ‘Creazione di
diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza’”.
43
Ivi, p. 34.
44
Cfr. Axel Honneth, Eine geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen, cit., pp. 124 e sgg.
45
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 166: “Tradizionalmente, i s ociologi
parlano di dominio riferendosi a un rapporto sociale di sovraordinazione o superiorità che un soggetto
individuale o collettivo esercita su uno o più soggetti individuali o collettivi, nell’ambito di un sistema
sociale che li comprende, avvalendosi di diverse forme e dosi di ‘potere’, di ‘autorità’: di ‘influenza’ e
altri mezzi atti a condizionare 1’agire, 1’orientamento e la coscienza dei dominati”.
46
Ivi, p. 173: “‘Gli animali [...] e tutte le piante possono [così] praticare solo una forma non conscia di
dominio’, mancando loro quel ‘linguaggio significativo’ che permette di accedere alla sfera
simbolica”.
40
come parte del dominio, piuttosto che indipendentemente da esso.
Forse, allora, è proprio perché gli esseri umani parlano e possono
comunicare parole significative che superano gli animali nella
capacità di dominare, anche con la violenza”. 47
In altri termini, il dominio non potrebbe esercitarsi sui propri oggetti
se questi non contribuissero essi stessi a dare forma, anche narrativa,
ai linguaggi e ai saperi di cui il dominio si serve “per assoggettarli” a
sé.48 “Tutto ciò comporta che coloro che rivestono ruoli subordinati
devono sempre assumere gli atteggiamenti di coloro che occupano
quelli sovraordinati, e viceversa. Durante la costruzione di un atto
sociale complesso, senza una reciproca assunzione di ruoli
sovraordinati e subordinati nessuno, infatti, saprebbe cosa fare, e
quando farlo.”49
Ci pare dunque, avendo presente la prospettiva benjaminiana del
rapporto diritto-violenza, che questa nozione di dominio possa servire
come chiave di lettura anche del “dominio giuridico” e, in particolare,
del “dominio penale”. Già l’opera di David Garland, con le sue varie
ascendenze culturali e scientifiche, ci ha (specialmente come giuristi,
non sempre debitamente consapevoli di questa prospettiva “allargata”)
resi avvertiti su un’idea – appunto “circolare”, “processuale” – di pena
50
come “istituzione sociale”, inserita “in una rete più ampia di azioni
sociali e di significati culturali”, visto che “ogni istituzione è un luogo
ben individuato in un più vasto terreno sociale, e s i relaziona
costantemente con l’ambiente circostante, influenzandolo ed
essendone costantemente influenzata, e mantenendo così un rapporto
47
Ivi, pp. 173-174
Ivi, p. 173: “Athens reputa […] che i rapporti sociali non siano espressione di un ‘ordine delle cose’
strutturato e strutturante che ci precede e ci persuade, ma che si diano sostanzialmente quale esito di
un incessante processo interpretativo e di una continua creazione simbolica a opera degli attori sociali.
Quest’atteggiamento si riversa totalmente nella definizione che egli elabora di domination: ‘La
costruzione di un’azione sociale complessa nel corso della quale alcuni partecipanti […] svolgono
ruoli sovraordinati, altri ruoli subordinati, e ciascuno assume gli atteggiamenti altrui’”.
49
Ivi, p. 174: “In tal senso, le regole di condotta riguardanti i ruoli di dominio e di subordinazione, che
vengono normalmente apprese in famiglia, a scuola e, più tardi, dai ‘capi’, quando si inizia a lavorare,
sono le regole più importanti e incisive nella costituzione delle comunità-fantasma. L’insieme di
queste regole identifica ‘chi’ sono i subordinati e ‘chi’ i sovraordinati, e quando e dove ci si deve
adeguare ai desiderata dei dominanti”.
50
David Garland, Punishment and Modern Society, University of Chicago Press, Chicago 1993; tr. it.
Pena e società moderna, il Saggiatore, Milano 1999, pp. 326 e sgg., che definisce l’“istituzione
sociale” i “significati stabiliti collettivamente, con i quali una società tratta i bisogni, le relazioni, i
conflitti e i problemi che si presentano quotidianamente e che devono essere gestiti in modo ordinato e
normato per consolidare e differenziare, con criteri ragionevoli, i rapporti interpersonali”.
48
41
con il ‘mondo esterno’”, sicché “si dovrebbe imparare a inquadrare il
fenomeno tanto nella sua integrità, ossia quale istituzione, quanto nel
51
suo rapportarsi all’esterno, ossia quale istituzione sociale”.
Il giuridico in generale, e il giuridico-penale in particolare, non
si limitano dunque a imporsi a chi vi è soggetto, ma svolgono il ruolo
di formante dell’io, di forza che ricompone il dissolto io moderno e
tardo-moderno, imprimendogli la sua forma in modo che sia questa a
esigere il diritto, a esprimere un bisogno interiore di diritto. E un tale
bisogno, il quale scaturisce dalle dinamiche interazionistiche del
dominio penale, si traduce in un bisogno di riduzione dell’io, in una
spinta alla ricomposizione dell’io dissolto dentro lo schema, per
esempio, della motivabilità all’osservanza, della conformità e della
connessa configurazione dei rapporti sociali in termini di torti e
ragioni, di obblighi e d iritti, di conformità e devianza. Una
configurazione a quel punto pretesa, ambita, come linguaggio e
“atteggiamento” operante quale “parte del dominio”.
Potremmo dire dunque che il “dominio” del diritto (e, quindi,
della penalità), si affermi alimentando il bisogno del diritto, che è un
bisogno di sacrificio del corpo, dunque di violenza, quanto meno
“autotelica”. Ma l’inscindibilità della violenza dal diritto comporta
allora che l’assunzione del linguaggio del diritto si correli a una forma
di legittimazione della violenza e, correlativamente, a un bisogno di
diritto per comunicare la violenza; una comunicazione, a sua volta e
circolarmente, legittimata dal suo rivestirsi di forme giuridiche o
paragiuridiche. Questo mi pare allora debba comportare – e qui
torniamo a B enjamin e all’ineludibilità di una tematizzazione della
violenza nell’epoca moderna – che una critica della violenza debba
passare attraverso una critica del diritto o, meglio ancora, di una
critica del bisogno interiore del diritto che è indotto dalle forme stesse
del diritto.
Proprio il censimento e la critica di un crescente “bisogno
popolare di diritto” si può dire sia emersa recentemente in modo
esemplare (ossia con “la forza dell’esempio” portato grazie
all’immaginazione) 52 nelle parole dello scrittore spagnolo Xavier
Marías, che ha identificato (prendendo spunto dagli psicologismi
51
52
Ivi, p. 328.
Cfr. Alessandro Ferrara, La forza dell’esempio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 71 e sgg.
42
presenti in un recente progetto di riforma spagnolo relativo alle
molestie sul lavoro) la tendenza corrente a rivestire di una coltre
legalistica i r apporti e i conflitti sociali (tendenza non a caso
ricondotta alla deleteria importazione in Europa di modelli culturali
statunitensi).53 E una critica a questa crescente e di ffusa operazione
“gius-riduzionistica” della complessità delle situazioni e delle
relazioni socio-culturali aveva già trovato anni fa una sua magistrale
espressione nella lettera già citata di Iosif Brodskij, e in particolare nel
passo (non a caso contiguo a quello dedicato alla critica degli “ismi”)
in cui lo scrittore russo invitava Václav Havel a governare il suo paese
sottraendosi all’“imitazione dei cow-boy”, perché “i cowboy credono
alla legge, e riducono la democrazia all’uguaglianza del popolo di
fronte alla legge: vale a dire, a una prateria ben pattugliata”. Il
suggerimento avanzato dal premio Nobel russo al suo (insolitamente)
colto interlocutore politico era di prendere le distanze da una visione
legalistica dei rapporti sociali e culturali di impronta americaneggiante
e di badare piuttosto alla “uguaglianza di fronte alla cultura”,
attingendo gli “imperativi morali” dalla sua biblioteca piuttosto che
dai suoi studi giuridici.54
La fulminante contrapposizione brodskijana tra i due modi di
intendere la (e tendere alla) uguaglianza, del resto, potrebbe essere
Javier Marías, Umiliazione, ostilità e dignità offesa. Se il codice penale diventa psicologo, in
“Corriere della Sera”, 28 marzo 2010, p. 32. “Le leggi sembrano spingersi sempre più verso terreni
paludosi e materie al di fuori della loro portata. In parte è per colpa dei cittadini di oggi che, seguendo
come pecore l’esempio degli Stati Uniti, vogliono che ogni cosa sia regolamentata – mentre non tutto
ha motivo di esserlo – e avere la possibilità di fare ricorso ogni volta che sono alle prese con un
conflitto, per quanto minimo possa essere. Di fronte a un qua lsiasi inconveniente o di saccordo le
persone hanno sempre più la tendenza a ricorrere a una immediata denuncia, senza quasi mai cercare
di risolvere le cose da sole, o di dialogare con l’altro sull’oggetto della controversia, per raggiungere
un accordo ragionevole. Verbi come ‘cedere’ o ‘accordare’ stanno cadendo in disuso. Le querele
contro nuovi reati sono continue, e questo non è che un modo per limitare le libertà e penalizzare quasi
tutto, e o vviamente mettere a t acere ogni minima spontaneità della vita. Si rischia una querela in
qualunque momento, per ragioni realmente inimmaginabili. Non è raro ritrovarsi coinvolti in un guaio:
‘Accidenti, sembra che abbia infranto la legge, commesso un crimine o un’infrazione’, si dicono molti,
perplessi, quando si vedono recapitare una denuncia o una citazione inverosimile. Non si sa mai
quando si è oltrepassata la linea rossa. È m olto difficile restare a tutti gli effetti dentro la legalità.
Sicuramente avremo violato tutti la legge, sia voi che io”.
54
Corsivi miei. Il brano immediatamente precedente a quello riportato nel testo mostrava una chiara
allusione ironica all’allora presidente Ronald Reagan: “Perché non ci sono altri antidoti alla volgarità
del cuore umano se non il dubbio e il buongusto, fusi nelle opere della grande letteratura così come
nelle sue. Se il p otenziale negativo dell’uomo si manifesta perfettamente nel delitto, il p otenziale
positivo si manifesta perfettamente nell’arte. Perché, lei potrebbe chiedere, non avanzo un simile
eccentrico suggerimento al presidente del Paese di cui sono un cittadino? Perché non è uno scrittore; e,
come lettore, spesso legge porcherie”.
53
43
posta in correlazione con le odierne tendenze politico-criminali,
spesso rivelatrici di quello che è stato detto “lo spirito letale” di una
visione puramente legalistica e rivendicativa dei rapporti sociali, della
55
fiducia riposta “in una falsa sicurezza”.
Riprendendo una formulazione di Élémire Zolla, in Marías e
Brodskij si potrebbe leggere una critica del diritto “dotata di senso”,
visto che tale è quella che non si rivolga “al diritto stesso, che esprime
semplicemente la continuità in se stessa d’una vita sociale, bensì al
bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo”. 56 Un bisogno che non è
Cfr. Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, a cura di Piergiorgio Donatelli, Carocci,
Roma 2006, p. 104, che osserva come nello scrittore Charles Dickens “il senso risvegliato della nostra
umanità” sia presente soprattutto nel senso della propria mortalità. “Per Dickens, ciò ha delle
connessioni profonde con il vivere bene e con la nostra capacità di creare un mondo sociale decente,
connessioni che emergono in molte delle sue storie. In Casa desolata (che riecheggia Amleto)
1’assenza di un senso vivo della propria mortalità è connesso con lo spirito letale del mondo degli
avvocati e co n la fiducia in una falsa sicurezza. In Il nostro comune amico il senso della propria
mortalità si mostra nello spirito in cui coloro che non provano amore per un uomo, uno s pregevole
furfante, possono tuttavia adoperarsi per salvare la sua vita e ar rivare alle lacrime nello sforzo. In
Canto di Natale (quarta strofa) c’è questo, detto dell’apparizione di Scrooge morto: ‘Giaceva nella sua
casa vuota senza che né uomo né donna né bimbo potessero dire: «è stato buono con me in questa o in
quella occasione, e in ricordo di una parola gentile io sarò gentile con lui»’”. Sulle origini del
“comportamento stigmatizzante” in particolare nell’“angoscia per la propria debolezza”,
nell’incapacità di fare i conti con le proprie paure e i n genere con l’idea che “la perfezione,
l’invulnerabilità e il controllo sono aspetti basilari del successo in età adulta”, cfr. il recente libro di
Marta Nussbaum, Not for Profit, Princeton University Press, Princeton 2010; tr. it. Non per profitto,
Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 45 e sgg.
56
Élémire Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, pp. 141 e sgg. “Il Cristo non c ritica il
diritto come forza sociale, ma come impulso psichico e q uale regime magico inferiore ed errato
dell’interiorità. Si eviti di provare il bisogno di sacrificare l’homo sacer, quale era diventata l’adultera
evangelica, pur mantenendo la premessa mistica della monogamia più intransigente. Si c onsideri il
bisogno di rivendicare il debito come un legamento magico da cui sciogliersi per essere pienamente
liberi e g odere della propria gloria. Si accetti semmai la gara di donativi che si accende con un
incontro per emergerne il più ilare donatore, aumentando la propria gloria. Così si perdonino le offese.
Ma sussiste il bisogno di sacrificio, questo modo di comunicare col sacro non è el iminabile. Se si
ricusa il sacrificio dell’homo sacer e i sacrifici del diritto (i risarcimenti, le pene), come comunicare
col divino? Il sacrificio dello stesso Maestro come sostituto e vicario d’ogni vittima e c ondannato
fornisce la risposta: la massima sacralità accetta la pena – l’onore (timé) della croce. Questa
rivelazione tragica della natura intollerabile del sacro, della profondità abissale celata nella richiesta di
giustizia, questa immolazione del più perfetto perché massimamente intollerabile, libera dalla bilancia
delle pene e dei diritti. Il sangue di una tale vittima, voluta dalla sentenza massimamente ingiusta e
massimamente necessaria, è il lavacro psichico e magico per eccellenza e scioglie dalla sudditanza al
diritto. Una pagina di Cécile Bruyère, l’ultima mistica benedettina, illustra questa impresa interiore
che può portare all’autonomia magica: ‘Avrete proprio ben progredito quando avrete dimostrato a voi
stessi, fino all’evidenza, che c’è stata della durezza, dell’ingiustizia, dell’inquietudine [...]. Che
consolazione ve ne può ve nire? A me non farebbe che del male, impedendomi di trarre dalla prova
tutto ciò che ha di santificante. Ma, voi direte, questi pensieri mi vengono da soli, invadendomi e
soverchiandomi. È vero; ma non credete che ci voglia una certa pulizia in casa propria? Codesti
pensieri provengono d’altronde da una radice segreta che è questa: pur accettando la prova, vi
attaccate a un apprezzamento umano di essa e serbate un fondo d’amarezza che a tratti rigermoglia. Se
55
44
“dato” una volta per tutte, ma soggetto alla mutevolezza delle
contingenze storico-sociali e che, nella forma normativa di
riconoscimento57 dell’autonomia individuale, si presta a una
manipolazione “ideologica” tanto più pervasiva, in quanto più subdola
e incontrollabile.
La riflessione sulla violenza di Walter Benjamin sembra poter
trovare in particolare un suo attualizzato richiamo per esempio in
rapporto alla crescente domanda di autodifesa (armata) da parte del
singolo.58 Anche in ambito sociologico 59 la constatazione di una
generale debolezza degli apparati statali, specificamente nel contrasto
dei crimini commessi con atti di autotutela (per esempio di quelli che
vi vengono chiamati “omicidi moralistici”), ossia finalizzati
all’esercizio di qualche forma di controllo sociale, ha condotto a
conclusioni che, pur senza richiamare testualmente il saggio
benjaminiano (“uno dei più significativi documenti” del suo pensiero
politico), 60 di questo possono offrire qualche aggiornata lettura. Ci si è
così interrogati sulle ragioni di un r icorso tanto vasto a un
risentimento espresso in forme così violente proprio in una società
come quella americana, nella quale “il diritto è giunto a un tale elevato
livello di sviluppo”. 61 Ciò anche in base alla constatazione di come la
maggior parte degli omicidi moderni, al pari che nelle “società tribali
e tradizionali” (dove spesso l’autotutela in forma violenta non è
vietata, ma prescritta come metodo di controllo sociale),62 implichi
invece d’essere così divisi soffocaste completamente ciò che non sia fede pura, i pensieri non vi
germoglierebbero così a frotte’. Non si saprebbe indicare un metodo più accurato per condurre a
termine l’operazione magica di liberazione dal bisogno del diritto”.
57
Tra i differenti modelli di riconoscimento, a ciascuno dei quali “sono correlati specifici potenziali di
sviluppo morale e differenti modalità di autorelazione individuale”, v’è quello del diritto: attraverso
l’esperienza del riconoscimento giuridico il soggetto “consegue la possibilità di intendere il proprio
agire come manifestazione, rispettata da tutti gli altri, della propria autonomia” (Axel Honneth, Kampf
um Anerkennung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1992; tr. it. Lotta per il riconoscimento, il Saggiatore,
Milano 2002, pp. 114 e sgg.).
58
Per una più ampia riflessione sul significato della crescente “domanda di autodifesa”, anche con
riferimento alla nuova disciplina italiana della legittima difesa, rinviamo a Gabrio Forti, No Duty to
Retreat? Legittima difesa e politiche criminali di “riconoscimento ideologico”, in Studi in onore di
Mario Romano, Jovene Editore, Napoli 2011, pp. 297 e sgg.
59
Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, Academic Press, San Diego 1993. Se ne
legga anche l’istruttiva recensione di Roberta Senechal de la Roche, Beyond the Behavior of Law, in
“Law & Social Inquiry”, vol. 20, n. 3, Summer 1995, pp. 777-785.
60
Fabrizio Desideri e Massimo Baldi, Benjamin, cit., p. 61.
61
Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, cit., p. 39.
62
Cfr. ivi, p. 28, con vari riferimenti alla letteratura antropologica.
45
“una risposta a una condotta che l’omicida considera deviante”, “una
punizione o un’espressione di disapprovazione”.63
Se ne è tratta la conclusione che “nelle società moderne lo Stato ha
conseguito solo teoricamente il monopolio dell’uso legittimo della
violenza” e c he in realtà la violenza è in piena espansione
(specialmente nell’America moderna) e per lo più riguarda cittadini
comuni, “che apparentemente considerano la propria condotta un
esercizio perfettamente legittimo del controllo sociale”:64 “molte
persone ancor oggi ‘prendono la legge nelle proprie mani’ e sembrano
ritenere i propri risentimenti come una faccenda privata, che non
riguarda la polizia o altre autorità e an zi è ostile all’intervento della
legge”. 65
L’attenzione a una prospettiva di causalità circolare e all’idea di un
“dominio penale” suggerisce peraltro anche qui di non accontentarsi,
per la spiegazione di queste dinamiche, del consueto richiamo di una
crescente insofferenza per la regolazione statuale e, in generale, per il
diritto. Tutt’al contrario, proprio nella pretesa dei cittadini comuni di
prendere la giustizia nelle proprie mani, potrebbe ravvisarsi piuttosto
il segno di accresciuto bisogno popolare di diritto, nella forma
addirittura di un’aspirazione del singolo ad appropriarsi del “pensare
giuridico” e, in ispecie, punitivo, 66 ciò nel tentativo di rimediare a
63
Ivi, p. 31: “Molte delle condotte qualificate e trattate come crimini nelle società moderne presentano
somiglianze con le modalità di gestione dei conflitti [...] rinvenibili nelle società tradizionali in tutto o
in parte prive di un diritto (nel senso di un controllo sociale pubblico)”. L’affermazione viene
corredata da dati statistici sugli omicidi, dai quali risulta che, per esempio, a Houston nel 1969 oltre la
metà degli omicidi si è verificata durante un alterco e un altro quarto, asseritamente, per autodifesa o a
seguito di una provocazione. Analoghe caratteristiche sono state riscontrate nell’arco di un
quinquennio negli omicidi perpetrati a Filadelfia (cfr. Marvin E. Wolfgang, Patterns in Criminal
Homicide, Wiley, New York 1966, p. 191). In esito a t ale studio si sono propriamente collocati i
crimini violenti “nella stessa famiglia del diritto”, considerato che questi delitti esprimono spesso un
“risentimento (grievance)”. Il che comporterebbe “che in un gr ado significativo noi abbiamo la
possibilità di predire e spiegare il crimine con una teoria sociologica del controllo sociale, e più
specificamente con una teoria dell’autotutela (self-help)” (Donald J. Black, The Social Structure of
Right and Wrong, cit., p. 41).
64
Donald J. Black, The Social Structure of Right and Wrong, cit., p. 36.
65
Ivi, p. 37.
66
Cfr. Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., pp. 37 e sgg., che sintetizzano la
molteplicità di spiegazioni sociologiche del “moltiplicarsi vertiginoso della domanda di diritto”, da
mettere in relazione “con la moltiplicazione delle opportunità di conflitto dovute alle profonde
trasformazioni sul piano socioeconomico, all’aumento delle comunicazioni, agli scambi sociali, alla
crescita del numero di beni in circolazione che hanno favorito il passaggio da un modello universalista
‘geocentrico’, che impone le medesime regole a tutti i cittadini di una data nazione, a un modello
giuridico ‘egocentrico’, particolarista, dove ogni soggetto vede regolamentate le relazioni giuridiche
che lo riguardano sulla base di un c odice giuridico distinto. Ciascuna professione, ciascun tipo di
46
un’anomia che si presenta come disgregazione delle forme più stabili,
durature e profonde di riconoscimento interpersonale.
Può essere interessante richiamare a questo proposito uno studio di
qualche anno fa67 nel quale si è i nsistito soprattutto, ai fini della
spiegazione degli alti tassi di omicidio americani, sul clima culturale
orientato a offrire una legittimazione morale all’omicidio, concepito
dalla società come risposta moralmente accettabile anche rispetto a
lievi provocazioni o “alterchi banali”. “È in particolare nella creazione
di un’atmosfera tollerante verso il confronto che la cultura americana
incoraggia inconsapevolmente chi appartiene agli strati inferiori a
varcare la linea e a r icorrere all’omicidio. È proprio qui che l’ethos
dominante desensibilizza la popolazione nei confronti dell’omicidio.”
Nella cultura contemporanea delle classi lavoratrici (peraltro ancora
legata a “sensibilità pre-moderne”), si è identificata “una attrazione
morale e sensuale a fare il male”, a concepire l’omicidio come una
“esecuzione ‘giusta’ (ossia morale)”, dalla quale “il rimorso e il
rammarico sono largamente rimossi”. 68
Nello studio citato, si è av anzata l’ipotesi che l’enorme
differenziale nei tassi di omicidio, in particolare tra gli Stati Uniti e
l’Inghilterra, possa derivare da un diverso grado di socializzazione nei
due paesi a pr ovare rimorso e vergogna per aver causato la morte di
una persona. E che questo dato possa essere desunto dalla frequenza di
“autentiche espressioni di rimorso tra gli autori di omicidio”. Si
afferma così che in America gli autori di omicidi tendono con
maggiore frequenza a descrivere i propri atti “in termini di
soddisfazione e g iustificazione, quasi rappresentassero il successo
principale, non il fallimento fondamentale delle loro esistenze”. Si
rinverrebbe nelle loro parole una “ mistica eroica e maschilista”,
contrapposta al persistente rimorso da cui sarebbero perseguitati anche
a distanza di anni gli omicidi inglesi. Sarebbero dunque le differenze
attività produce ‘suoi’ codici, la ‘sua’ etica, la ‘sua’ deontologia, che funzionano in relativa autonomia
nei confronti delle norme generali. Visualizzando questo pluralismo giuridico lo si può intendere
composto da una molteplicità di recinti giuridici, il che fuor di metafora significa dei veri e propri
schermi protettori per i loro membri, i quali fìniscono però col porre in una posizione molto
vulnerabile, senza scudi protettivi, tutti coloro che non ha nno un’appartenenza corporativa e non
possono beneficiare di norme particolari volte a proteggere i loro interessi”.
67
Cfr. Elliot Leyton, Men of Blood. Murder in Modern England, Penguin, London 1997, passim e
spec. pp. 207 e sgg.
68
Ivi, p. 212, che qui riprende Jack Katz, Seductions of Crime: Moral and Sensual Attractions in
Doing Evil, Basic Books, New York 1988, pp. 44, 19, 22, 31, 39.
47
culturali a “regolare” le modalità di legittimazione dei propri misfatti e
alla cultura inglese sarebbe riuscito infinitamente meglio rispetto a
quella americana di “socializzare le classi inferiori”. Come “prova
finale” di una minore soglia della vergogna tra gli autori di omicidi
americani, Leyton assume la inferiore percentuale di suicidi tra tali
soggetti rispetto agli “omologhi” inglesi. “È quando l’assassino, lungi
dall’esultare per il proprio trionfo, o dall’esprimere dolore (finto o
genuino), prova di sentire un profondo rimorso suicidandosi” che
dimostra di avere interiorizzato pienamente una cultura che ripudia
l’omicidio. 69
70
Ceretti e Natali ricordano del resto le interviste fatte a t renta
ragazzi della Catalina Mountain School, di Tucson, in Arizona,
rivelatrici dell’“attrazione seduttiva esercitata dalle pistole, che per i
giovani assume anche dimensioni morali e politico-economiche”:71
“pur percepite come strumenti di morte, esse divengono oggetti di
desiderio, attraenti ed erotizzati, per il potere che conferiscono al loro
possessore di controllare e dominare l’ambiente di appartenenza”.
Se gli omicidi in America restano largamente una prerogativa di
uomini appartenenti alle classi socio-economiche inferiori (mentre,
secondo uno studio di qualche anno fa, non se ne registrava più del
2,5% nei ceti superiori),72 la questione di fondo resta però in effetti
come sia possibile che “le classi medio-alte abbiano così
clamorosamente fallito nella capacità di trasmettere segnali di
inibizione della violenza verso gli strati inferiori dell’ordine
sociale”. 73
Innumerevoli sono gli indicatori del deterioramento delle relazioni
sociali e della diffidenza reciproca nella società americana, ma anche
69
Elliot Leyton, Men of Blood, cit., p. 218. A sostegno della propria tesi, Leyton adduce dunque i dati
di una ricerca (Donald James West, Murder Followed By Suicide, Heinemann, London 1965) in base
alla quale in Inghilterra e Galles metà degli autori di omicidio ha tentato il suicidio (e il 33% con
successo), e l’85% delle donne e il 58% degli uomini lo hanno fatto quando hanno commesso un
figlicidio) mentre soltanto il 3 -4% degli assassini americani lo hanno fatto (in Canada il 10% e i n
Danimarca addirittura il 42%).
70
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 366, con riferimento al lavoro dello
statunitense Bernard Harcourt (Language of the Gun, The University of Chicago Press, ChicagoLondon 2006, pp. 7-12).
71
Corsivo mio.
72
Cfr. Edward Green e Russell P. Wakefield, Patterns of Middle and Upper Class Homicide, in
“Journal of Criminal Law and Criminology”, 70, 1979, pp. 177-178, citato da Elliot Leyton, Men of
Blood, cit., p. 222.
73
Elliot Leyton, Men of Blod , cit., pp. 219 e sgg.
48
in ogni società nella quale in questi anni si sia importato
disinvoltamente il credo americano del libero mercato
deregolamentato e la cultura dell’irresponsabilità nella gestione delle
imprese. Un’ideologia che rappresenta uno dei principali motori
dell’accresciuto bisogno di diritto da parte dei singoli e, dunque, di
una crescente tendenza alla giuridicizzazione dei rapporti sociali,
connessa alla necessità di compensare la mancanza delle gratificazioni
provenienti “dalle maggiori fonti di identità, significato e status”74
tradizionalmente sofferta dalle classi lavoratrici (negli ultimi anni
particolarmente bombardate, del resto, dalle “armi di distrazione di
massa” gestite per conservare il consenso a classi dirigenti intente a
smantellare le reti di sicurezza sociale) 75 ma ormai estesasi in misura
crescente alle classi medie.
Si è richiamata in proposito, come sintomo non banale di un più
generalizzato deterioramento delle relazioni sociali, per esempio la
popolarità acquisita da quelle vetture (concepite “per la giungla
urbana”, non per quella “vera”), che sono i cosiddetti Sports Utility
Vehicle (Suv), i cui nomi “evocano le immagini di cacciatori e di
persone che vivono all’aria aperta” o “richiamano l’immagine ancora
più dura di soldati e guerrieri”. 76 “La popolarità dei Suv nasce non
soltanto dal desiderio di darsi un’aria da duri, ma anche da una
crescente diffidenza verso il prossimo e dalla necessità di proteggersi
dagli altri. Nel saggio Driven to extremes, Josh Lauer si è ch iesto
come mai la durezza militare sia oggi più apprezzata della velocità o
dell’eleganza delle linee, e si è domandato anche quali inferenze sulla
società americana si possano fare dall’ascesa dei Suv. La sua
74
Eric Dunning, Patrick Murphy e John Williams, The Roots of Football Hooliganism: An Historical
and Sociological Study, Routledge & Kegan Paul, London 1988, pp. 208-221, citato da Elliot Leyton,
Men of Blood, cit., pp. 220 e sgg.
75
Cfr. Paul Krugman, The Conscience of a Liberal, W.W. Norton & Co., New York 2007; tr. it. La
coscienza di un liberal, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 170 sgg.: “Un movimento che punta a tagliare le
tasse e smantellare lo Stato sociale ha inevitabilmente qualche problema a conquistarsi un consenso di
massa. I tagli delle tasse, specialmente del tipo che vogliono gli ultraconservatori, vanno in larga parte
a beneficio di una ristretta minoranza della popolazione, mentre un a ssottigliamento della rete di
sicurezza sociale colpisce fasce ben più ampie. I finanziamenti e l ’organizzazione possono
compensare, in una certa misura, l’impopolarità intrinseca delle politiche di destra, ma per vincere le
elezioni gli ultra conservatori devono necessariamente, in linea di massima, trovare il modo per
spostare 1’attenzione su altri argomenti. Nel suo celebre libro del 2004, What’s the Matter with
Kansas? (Che cosa c’è che non va in Kansas?) Thomas Frank traccia la desolata immagine di un
elettorato proletario raggirato senza sforzo e ripetutamente con eventi di secondaria importanza”.
76
Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, The Spirit Level, Bloomsbury Press, London 2009; tr. it. La
misura dell’anima, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 69 e sgg.
49
conclusione è che questa tendenza “rispecchia l’atteggiamento degli
americani verso il crimine e la violenza, un’ammirazione per il ruvido
individualismo e l’importanza di isolarsi dal contatto con gli altri, cioè
la diffidenza. […] Come ha osservato un antropologo, ‘guidando un
Suv dall’aspetto corazzato e cer cando di intimidire il più possibile i
potenziali assalitori’, gli individui cercano di proteggersi dalle
minacce di una società dura e diffidente.” 77
4. Al di là della cultura della violenza e del “bisogno interiore di
diritto”, lungo la “linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito”
La tematizzazione della violenza in rapporto al diritto offre dunque
lo spunto per pensare anche giuridicamente la genesi delle
“cosmologie violente” e delle “cosmologie” in genere. L’ipotesi qui
avanzata è che nella modernità e, ancor più, nella tarda modernità, una
società in cui è presente un alto tasso di comportamenti violenti (così
come facilmente desumibili dalle statistiche di criminalità) esprima un
correlativo forte bisogno di diritto (di diritto penale in particolare), e
viceversa. Ciò dunque con una inversione della normale e scontata
relazione lineare tra paura del crimine e domanda di protezione
giuridica da parte dei cittadini, e suggerendo invece, quanto meno in
forma di ipotesi, l’idea che sia proprio l’affidarsi sempre più e sempre
più primariamente a questo tipo di protezione all’origine della paura
del crimine e, in larga misura, della diffusione dello stesso crimine
nelle sue forme violente.
Il “bisogno di diritto nell’interiorità dell’uomo” non appare infatti
una costante indifferenziata nelle diverse società, ma una variabile che
può forse manifestare qualche correlazione con la diffusione e
frequenza della “violenza autotelica” (per riprendere la categoria di
Come ancora ricordano Wilkinson e Pickett (ivi, p. 70) “in Canada le vendite di monovolumi
superano di due volte le vendite di Suv, esattamente l’opposto di quanto accade negli Usa ( e
naturalmente in Canada vi sono minori disparità economiche che negli Stati Uniti). L’ascesa dei Suv è
stata accompagnata da altri segnali del crescente disagio e della paura dell’altro che caratterizzano la
società statunitense: la rapida diffusione delle gated communities e il boom delle vendite di sistemi di
sicurezza per la casa. In anni più recenti, a cau sa del brusco aumento del costo della benzina, le
vendite di Suv sono diminuite; ma l’immagine da duro va ancora per la maggiore, per cui le vendite di
‘crossover’ più piccole, dall’aspetto resistente, continuano ad aumentare”.
77
50
Reemtsma). Un tale “bisogno” si presenta pertanto come una
caratteristica meritevole di autonoma considerazione all’interno della
dinamica descritta nel libro e al cosiddetto “sesto fotogramma”, ossia
quella del rapporto tra mondi sociali e riflessività.
Certamente, come si è osservato, “è la biografia di ciascuno,
operante in un ‘presente vivente’ – che include passato, presente e
futuro, ricordi e aspettative –, a definire come, con quale estensione e
profondità i doveri, le norme, gli status e i ruoli sociali sono
internalizzati dal singolo attore sociale”.78 E infatti “ogni mondo
sociale, ogni comunità fisica, non è m ai il modello che informa
direttamente e con trasparenza la comunità-fantasma di chi li abita. Ed
essere ‘autentici’, trovare la chiave della propria ‘autenticità’, non
vuol dire seguire pedissequamente 1’orizzonte creato dai modelli
imposti dai tipi individuali predominanti che connotano una
determinata comunità fisica: non si è ‘se stessi’ semplicemente perché
si è abbracciata un’assurda comunità-fantasma prevalente in alcuni
‘mondi sociali’, ma perché si giudicano riflessivamente ‘consistenti’
79
questi ultimi rispetto alla totalità della propria cosmologia”.
Nondimeno ci pare che esista una “forma” giuridica che ogni
società conferisce ai mondi sociali di riferimento, da cui è
particolarmente influenzato il giudizio riflessivo e l e narrazioni che
ognuno individualmente conduce circa la “consistenza” dei mondi
sociali “rispetto alla totalità della propria cosmologia”. È anche su
questa valutazione di consistenza che si esercita il “dominio penale” e,
con esso, il contributo con il quale ognuno dà “forma, anche narrativa,
ai linguaggi e ai saperi di cui il dominio si serve ‘per assoggettarli’ a
sé”, 80 ossia l’assunzione, da parte di “coloro che rivestono ruoli
78
Adolfo Ceretti e L orenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 366: “Ogni individuo è orientato
unicamente verso il suo mondo sociale, e la chiave per risolvere il problema del rapporto tra agency e
struttura si rinviene in tale relazione cosmologica”.
79
Ivi, p. 367. Cfr. anche p. 333 e nota: “Le narrazioni possono [...] essere considerate come resoconti
in cui gli attori sociali rendono le proprie azioni ‘evidenti, razionali e riferibili’, ma al contempo si
tratta di pratiche riflessive in quanto profondamente incarnate nei corsi di azione degli individui”; “La
narrazione di sé e del proprio mondo è sempre una pratica conoscitiva che consente di fare ordine
nella realtà simbolica in cui siamo immersi, dentro a quella infinita rete di relazioni sociali in cui
siamo gettati e in cui ci muoviamo in modo unico e non del tutto prevedibile”.
80
Ivi, p. 173: “Athens reputa […] che i rapporti sociali non siano espressione di un ‘ordine delle cose’
strutturato e strutturante che ci precede e ci persuade, ma che si diano sostanzialmente quale esito di
un incessante processo interpretativo e di una continua creazione simbolica a opera degli attori sociali.
Quest’atteggiamento si riversa totalmente nella definizione che egli elabora di domination: ‘La
costruzione di un’azione sociale complessa nel corso della quale alcuni partecipanti […] svolgono
51
subordinati” rispetto a tale dominio, degli “atteggiamenti di coloro che
occupano quelli sovraordinati, e viceversa”, visto appunto che, come
già ricordato, “durante la costruzione di un atto sociale complesso,
senza una reciproca assunzione di ruoli sovraordinati e s ubordinati
nessuno, infatti, saprebbe cosa fare, e quando farlo”.81
Naturale del resto sottolineare di nuovo, in relazione a tali
dinamiche (ben più di quanto avesse la possibilità di farlo alla sua
epoca Walter Benjamin), il ruolo rilevante svolto dai mass media.82
Un ruolo ben rimarcato del resto da Ceretti e Natali, dove si ricorda
che “le più importanti trasformazioni sociali, economiche, culturali,
politiche e t ecnologiche avvenute nella seconda metà del XX secolo
contemplano la ‘rivoluzione’ prodotta nelle relazioni sociali e nel le
sensibilità culturali dall’invenzione dei mass media elettronici, e in
particolare dalla televisione”.83 Infatti “i media elettronici
contribuiscono a ridefinire alcuni processi di socializzazione e di
violentizzazione. In riferimento alle comunità-fantasma violente,
infatti, le immagini, i mondi, i personaggi reali o quelli immaginari
ruoli sovraordinati, altri ruoli subordinati, e ciascuno assume gli atteggiamenti altrui’”.
81
Ivi, p. 174: “In tal senso, le regole di condotta riguardanti i ruoli di dominio e di subordinazione, che
vengono normalmente apprese in famiglia, a scuola e, più tardi, dai ‘capi’, quando si inizia a lavorare,
sono le regole più importanti e incisive nella costituzione delle comunità-fantasma. L’insieme di
queste regole identifica ‘chi’ sono i subordinati e ‘chi’ i sovraordinati, e quando e dove ci si deve
adeguare ai desiderata dei dominanti”.
82
Ivi compresi, negli ultimi anni e specialmente per la popolazione giovanile, i videogiochi. Sulla
questione relativa agli effetti della fruizione di videogiochi a contenuti violenti, si veda la recente,
discutibile, sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (Brown V. Entertainment Merchants Assn.,
No. 08-1448. Argued November 2, 2010, Decided June 27, 2011), pronunciatasi in merito alla
costituzionalità di una legge californiana (Cal. Civ. Code Ann. §§1746.1[a], 1746) che vietava la
vendita o il noleggio di videogiochi violenti ai minori. I giudici americani hanno ritenuto tale legge in
contrasto con il principio costituzionale della libertà di espressione (freedom of speech). Come osserva
invece nella sua dissenting opinion il giudice Breyer (p. 12) “extremely violent games can harm
children by rewarding them for being violently aggressive in play, and thereby often teaching them to
be violently aggressive in life. And video games can cause more harm in this respect than can typically
passive media, such as books or films or television programs”.
83
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 369: “Essendo in grado di proporre gli
‘eventi reali’ (e di fiction) in modo visivo, la televisione offre la possibilità di mostrare ‘come il
mondo appare’ e ‘cosa il mondo sente’ in altri luoghi, in altri spazi geografici e da altre prospettive di
ruolo, ‘rimuovendo’ cioè gli spettatori dalle loro ‘collocazioni fisiche’ e offrendo loro una visione più
ampia rispetto a quella espressa tradizionalmente dai gruppi di riferimento. La televisione – in buona
sostanza – consente ‘una visione da nessun luogo’, proponendo a tutti i suoi fruitori un orizzonte più
vasto di quello usuale, e modificando ciò che Mead definiva altro generalizzato – ossia quel gruppo di
riferimento astratto (inclusi i suoi parametri, i suoi valori, le sue convinzioni) che l’attore ha scolpito
nel corso delle sue interazioni sociali, e del quale assume il ruolo per orientare la propria azione. Con
la comparsa della televisione diviene invece possibile parlare di ‘altri mediatici generalizzati’,
condivisi o almeno condivisibili da centinaia di migliaia di individui, che usufruiscono ora di un nuovo
punto di vista per osservare le loro azioni e le situazioni in cui sono collocati”.
52
delle fiction violente che occupano la scena televisiva” (e
cinematografica) possono essere internalizzati – riflessivamente –
quali altri-fantasma e iniziare ad animare i nostri soliloqui in
concorrenza con quelli incorporati nelle interazioni sociali “faccia a
faccia”. 84
Rilevante però è appunto la veste “giuridica”, e più precisamente
penale, conferita dai media alla violenza, tale spesso da oscurare le più
complesse realtà conflittuali e s ituazionali in grado di spiegare
l’esercizio della violenza individuale. Come nella scena del film
hollywoodiano Il fuggitivo analizzata da Slavoj Žižek, nella quale la
colluttazione tra i due protagonisti, uno dei quali chiaramente “nel
giusto”, risolve semplicisticamente la questione in gioco, nella forma
appunto di una riaffermazione del diritto nei confronti della manifesta
85
“depravazione psicologica del cattivo” di turno.
Assai istruttiva in tale contesto di riflessione anche la vicenda,
altamente mediatica, dell’uragano Katrina, abbattutosi nell’agosto
2005 sulla costa del Golfo del Messico nel Sud degli Stati Uniti.
Come ricordano Wilkinson e Pickett, 86 “all’indomani della bufera,
l’attenzione dei media di tutto il mondo si concentrò, oltre che sui
danni fisici provocati dall’uragano (le case distrutte, le strade allagate,
le autostrade crollate e gli impianti petroliferi fuori uso), anche su
quella che pareva una totale disintegrazione della vita civile nella
città. Nella settimana successiva all’uragano si registrarono numerosi
arresti e sparatorie. I notiziari televisivi mostravano i residenti
84
Ivi, p. 370.
Slavoj Žižek, Violence, Picador, New York 2008; tr. it. La violenza invisibile, RCS, Milano 2007,
pp. 205-206. “Seconda lezione: è d ifficile essere realmente violenti, compiere un atto che turbi
violentemente i parametri basilari della vita sociale. Quando Bertolt Brecht vide la maschera
giapponese di uno spirito maligno, scrisse come le sue vene gonfie e il suo orrendo ghigno indicassero
‘quale faticoso sforzo richiede / l’essere malvagio’. Lo stesso vale per la violenza. A questo riguardo,
un qualsiasi film d’azione hollywoodiano è sempre una lezione. Verso la fine de Il fuggitivo di
Andrew Davis, il chirurgo innocente impersonato da Harrison Ford affronta il suo collega (Jeroen
Krabbé) a un convegno medico e l o accusa di aver falsificato dei dati per conto di una grande casa
farmaceutica. A q uesto punto, quando ci si aspetterebbe uno spostamento dell’attenzione sulla ‘Big
Pharma’ – il capitale – in quanto vero colpevole, Krabbé interrompe Ford e lo invita a uscire fuori
dalla sala, dopodiché lo impegna in una violenta colluttazione: i due si picchiano finché non hanno le
facce rosse di sangue. La scena, nella sua palese assurdità, è r ivelatrice, quasi che, per evitare la
confusione ideologica di giocare con l’anticapitalismo, sia necessaria una mossa che renda
immediatamente tangibili le crepe nella narrazione. Il cattivo viene trasformato in un personaggio
perverso, beffardo, patologico, come se la depravazione psicologica (che accompagna
l’impressionante spettacolo della lotta) in qualche modo rimuovesse e soppiantasse l’anonima e
assolutamente non psicologica pulsione del capitale.”
86
Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, La misura dell’anima, cit., pp. 61 e sgg.
85
53
disperati che imploravano aiuto e chiedevano alimenti per bambini e
medicine; poi trasmettevano le immagini dei soldati che percorrevano
in barca le strade allagate, non per evacuare gli abitanti, non per
portare loro il necessario per sopravvivere, ma armati di tutto punto
con mitragliatrici, pronti a da re la caccia agli sciacalli. Questa
reazione al caos di New Orleans suscitò numerose critiche e condanne
all’interno degli Stati Uniti. Molti insinuarono che la mancanza di
fiducia tra le forze di polizia e militari, da un lato, e la popolazione
prevalentemente povera e di colore di New Orleans, dall’altro,
rispecchiassero profonde divisioni etniche e di classe. Durante un
concerto di beneficenza per le vittime dell’uragano trasmesso da molte
reti televisive, il m usicista Kanye West esclamò: ‘Odio l’immagine
che i media diffondono di noi. Quando mostrano una famiglia bianca,
dicono che va alla ricerca di cibo; quando fanno vedere una famiglia
di colore, affermano che sta saccheggiando le case!’. Nell’inviare le
truppe nella città, la governatrice della Louisiana Kathleen Bianco
dichiarò: ‘[I soldati] hanno M16 carichi e pronti all’uso. Questi
uomini sanno sparare e uccidere e mi aspetto che lo facciano’”.
Quella qui descritta può considerarsi una modalità sbagliata di
gestione di un conflitto, un fallimento di risposta, reso ancora più
manifesto dall’immagine caricata che si è voluta conferirvi, con una
presentazione impostata secondo le classiche logiche mediatiche, che
tendono a es sere sempre più anche le logiche della politica e
specialmente della politica criminale, con un ben noto influenzamento
e rinforzo reciproci. Logiche che amano, direi concupiscono le
contrapposizioni nette, le dicotomie facili e semplici (e tipicamente
legalistiche) tra coloro che hanno (sempre e tutto il) torto e quanti
hanno (sempre e tutta la) ragione. Si è trattato di una modalità ispirata
a una fondamentale diffidenza nei confronti dell’ambiente in cui si
stava intervenendo (visto che la priorità conclamata risultava quella di
controllare la popolazione) e, a sua volta,87 tale da generare diffidenza,
87
Sulla “dinamica in base alla quale un c omportamento fiducioso può s uscitare una risposta
affidabile” e, dunque, sulla simmetria per cui “se d a una parte […] la fiducia suscita l’affidabilità,
simmetricamente la diffidenza può favorire l’insorgere di comportamenti opportunistici”, cfr. Vittorio
Pelligra, I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali, il Mulino, Bologna
2007, pp. 238 e sgg. Si ricorda in particolare il cosiddetto feeling of freedom effect, esemplificato dal
campo delle donazioni volontarie, dove il livello di tali donazioni aumenta sensibilmente “quando le
richieste vengono formulate attraverso frasi che contengono espressioni quali: ‘è una sua libera scelta’,
‘sia lei a d ecidere quanto’, ‘noi contiamo su di lei ma si senta libero’ e al tre simili. La principale
54
come dimostrato anche dalle condanne sul piano internazionale
espresse nei confronti delle azioni compiute a New Orleans, specie a
paragone di altri interventi nei quali la finalità di assistenza umanitaria
era stata messa in primo piano.88
Un eccessivo “bisogno” interiore di diritto (e particolarmente di
diritto penale) e, dunque, di controllo, sembra un indicatore di segno
opposto rispetto alla condizione di una collettività coesa e basata sulla
fiducia. E infatti quando “la fiducia condiziona il benessere tanto degli
individui quanto della società civile”, “quando la collettività è
permeata da un alto grado di fiducia, prevalgono un senso di
sicurezza, l’assenza di paure e l’idea che l’altro sia qualcuno con cui
cooperare piuttosto che competere”. 89 Questo modello di convivenza
(esemplificata, con una certa dose di idealizzazione, dal “caso
Svizzera”) è s tato ravvisato in una “cultura politica che incoraggia i
cittadini non soltanto a ‘ sentirsi i padroni del proprio destino’, ma
anche a sviluppare quella speciale combinazione di potenti inibizioni
rispetto alla violenza, accompagnata da un’ostilità verso l’autorità e da
una brama di ordine sociale, che sembra prerogativa della maggior
90
parte delle democrazie in cui si registrano bassi tassi di omicidio”,
ma, potremmo dire, della maggior parte delle società che abbiano
spiegazione di questi risultati collega le risposte alle caratteristiche semantiche delle formule utilizzate
nelle richieste. Le formule che abbiamo visto suscitano nel potenziale donatore un s enso di non
costrizione, di libertà, suggeriscono un forte senso di fiducia nei suoi confronti da parte dei richiedenti
e allo stesso tempo sottolineano l’importanza del contributo individuale per la riuscita dell’attività che
la donazione andrebbe a finanziare”.
88
Cfr. Richard G. Wilkinson e Kate Pickett, La misura dell’anima, cit., p. 62, che ricordano quanto
accaduto all’indomani del devastante terremoto che colpì la Cina nel 2008, quando le autorità cinesi
inviarono rapidamente soldati disarmati in missioni di soccorso e assistenza, guadagnandosi il plauso
della comunità internazionale.
89
Ivi, p. 69. “Del resto, la fiducia, o la sua mancanza, determinarono la salvezza o la morte di alcune
persone rimaste intrappolate a New Orleans nel caos che seguì all’uragano Katrina. La fiducia ebbe un
ruolo decisivo per la sopravvivenza anche durante l’ondata di calore che colpì Chicago nel 1995. Il
sociologo Eric Klinenberg, in un libro sull’argomento, ha illustrato come gli afroamericani poveri, che
abitavano in quartieri con bassi livelli di fiducia e alti tassi di criminalità, avessero troppa paura di
aprire le porte e le finestre o di uscire di casa per recarsi nei centri di refrigerazione designati dalle
autorità cittadine. Nessuno andò a co ntrollare che stessero bene, e cen tinaia di anziani e di persone
vulnerabili morirono per il caldo. Nei quartieri ispanici, altrettanto poveri ma caratterizzati da alti
livelli di fiducia e da una vita comunitaria più attiva, il rischio di morte fu molto più basso.”
90
Cfr. Marshall B. Clinard, Cities with Little Crime: The Case of Switzerland, Cambridge University
Press, Cambridge 1978, pp. 1, 37, 110-111, 114, citato da Elliot Leyton, Men of Blood, cit., pp. 230 e
sgg.; 236.
55
preso sul serio, in senso etico e non puramente aritmetico, l’idea di
uguaglianza e di partecipazione paritaria alla vita politica e sociale. 91
Nella cornice concettuale della teoria del riconoscimento, ossia
dell’idea secondo cui “la riproduzione della vita sociale avviene sotto
l’imperativo di un reciproco riconoscimento, poiché i soggetti possono
giungere a una relazione pratica con sé solo se imparano a concepirsi
dalla prospettiva normativa dei loro partner nell’interazione, come i
si
potrebbe
forse,
molto
loro
interlocutori
sociali”, 92
approssimativamente, ipotizzare che il crescente “bisogno di diritto
nell’interiorità dell’uomo” segnali una sorta di dislocazione fra i tre
“modelli di riconoscimento intersoggettivo”: amore, diritto,
solidarietà. 93 Ciò nel senso che la forma del riconoscimento giuridico
sia oggi chiamata a compensare una carenza innanzitutto nel rapporto
di amore, ossia di quel “nucleo di ogni eticità”, di quel “legame
alimentato simbioticamente” che “dà la misura di fiducia in se stessi”
ed “è la base irrinunciabile della partecipazione autonoma alla vita
91
John Dewey, The Ethics of Democracy (1888); tr. it. Etica della democrazia, in Scritti politici, Donzelli, Roma
2003, pp. 18, 20. “La democrazia non differisce dall’aristocrazia nel fine da raggiungere. Il fine non è la mera
affermazione della volontà individuale; non è la mancata considerazione della legge, dell’universale; è l a
completa realizzazione della legge, vale a dire dello spirito unitario della comunità. La democrazia si differenzia
per quanto riguarda i mezzi. Questo universale, questa legge, questa unità di scopi, questo adempimento del
proprio ruolo nell’interesse dell’organismo sociale, non devono essere indotti nell’uomo dall’esterno. Debbono
nascere nell’uomo stesso, per quanto possa essere d’aiuto ciò che di buono e di saggio esiste nella società.
Responsabilità personale, iniziativa individuale, queste sono le caratteristiche della democrazia. Aristocrazia e
democrazia implicano entrambe che la vera condizione della società sia quella di realizzare una finalità etica, ma
l’aristocrazia ritiene che tale finalità venga realizzata, principalmente, attraverso speciali istituzioni e
organizzazioni all’interno della società, mentre la democrazia la considera già operante in ogni personalità dotata
di autonomia. C’è un individualismo democratico che non esiste nell’aristocrazia; ma si tratta di un
individualismo etico e non numerico; un i ndividualismo di libertà, di responsabilità, di iniziativa, per
raggiungere e mettere in pratica un ideale etico, non un individualismo sinonimo di ignoranza della legge. In
breve, la democrazia significa che la personalità è la realtà prima e u ltima. La democrazia ammette che il
significato della personalità possa essere compreso solo quando si presenta in forma oggettiva nella società; la
democrazia riconosce che i principali stimoli e incoraggiamenti per lo sviluppo della personalità vengono dalla
società; ma nessuno può acquisire una personalità, sia pure degradata e debole, quando sono gli altri ad
offrirgliela, per quanto saggi e forti questi siano. La democrazia crede che l’essenza della personalità sia propria
di ciascun individuo e che la scelta di svilupparla o m eno debba provenire da ciascun individuo.”[...]
“L’uguaglianza non è un concetto aritmetico, ma etico. La persona è universale quanto l’umanità; è indifferente
a tutte le distinzioni che dividono gli uomini. Ovunque ci sia un uomo, ci sarà una persona e non ci sono segni
che consentano di distinguere una persona da un’altra, per collocarla al di sopra o al di sotto. Ogni individuo vive
una possibilità infinita e universale: quella di essere re e pastore di anime. L’ideale aristocratico è blasfemo nei
riguardi della persona. La dottrina dei pochi eletti viene applicata non alla vita futura, ma a tutti i rapporti umani.
La venerazione dell’eroe corrisponde al disprezzo per l’uomo. Il vero significato dell’uguaglianza è desumibile
dalla definizione di democrazia data da J.R. Lowell: una società in cui ogni individuo ha una possibilità e sa di
averla e, potremmo aggiungere, una possibilità a cui non si può porre un limite, una possibilità che è davvero
infinita, la possibilità di diventare una persona. L’uguaglianza, in breve, è l’ideale dell’umanità; nella
consapevolezza di questo ideale la democrazia vive e cresce.”
92
93
Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 114.
Se ne veda una prima illustrazione in ivi, pp. 117-157.
56
pubblica”. 94 Dal rapporto di amore il rapporto giuridico “si distingue
sotto pressoché tutti gli aspetti decisivi”, pur avendo una funzione
assai simile. “Come nel caso dell’amore il bambino attraverso
l’esperienza consolidata della dedizione materna acquista la fiducia di
poter manifestare liberamente i propri bisogni, allo stesso modo il
soggetto adulto attraverso l’esperienza del riconoscimento giuridico
consegue la possibilità di intendere il proprio agire come
manifestazione, rispettata da tutti gli altri, della propria autonomia.” 95
È pur vero, come ricordava Joel Feinberg, che “l’avere diritti ci
permette di ‘presentarci come uomini’, di guardare gli altri negli occhi
e di sentire in una forma elementare 1’essere uguale di ciascuno”,96 e
dunque che assieme al riconoscimento negato vanno “perdute le
opportunità del rispetto individuale di sé”, visto che il riconoscimento
giuridico ha “un significato psichico per il rispetto di sé” e
“l’esperienza della discriminazione giuridica produce un sentimento
paralizzante di umiliazione sociale”. 97 E tuttavia l’instaurarsi di un
rapporto sempre più stretto e tendenzialmente esclusivo tra
riconoscimento giuridico e rispetto di sé segnala un impoverimento
della “fiducia affettiva nella continuità della comune dedizione”, che
lascia il passo all’esercizio potenziale della violenza, sia pure
“legittima”.
Del resto “ciò che rende totalitaria una democrazia è il veder
sfumare, come accade nel Processo di Kafka, i confini tra l’aula del
tribunale e l a camera da letto. La contiguità tra questi due spazi
segnala una divaricazione che si sta aprendo tra la giustizia e la
norma. Lo spazio privato viene invaso da una legge che ha perso il suo
rapporto con la giustizia, giacché prevale la necessità di riportare alla
norma il funzionamento della vita familiare. La giustizia, invece,
richiede ogni volta una decisione che nessuna norma può assicurare.
Deve provare a conciliare la legge, che ha necessariamente una forma
universale, con delle individualità che sono irrimediabilmente
singolari. Si tratta di comparare l’incomparabile. Come Lévinas ci ha
94
Ivi, p. 131.
Ivi, p. 144.
96
Cfr. Joel Feinberg, The Nature and Value of Rights, in Rights, Justice and the Bounds of Liberty.
Essays in Social Philosophy, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 143 e sgg., spec. p. 151.
Il passo è ripreso da Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 145 e sgg.
97
Axel Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., pp. 146 e sgg.
95
57
ricordato, la giustizia è innanzitutto la relazione con l’Altro, con la sua
irriducibile singolarità”.98
Si torna dunque alla questione impostata inizialmente e che può
essere a sua volta inquadrata secondo una dinamica di causalità
circolare o processuale. “Nella modernità la fiducia non è concepibile
al di fuori del monopolio statale della violenza” 99 (il quale si pone
all’origine del diritto). Una violenza che peraltro, come osserva
Benjamin, ha il potere di conservare il diritto soprattutto nel momento
della minaccia. 100 Il che sembra legarsi alla osservazione di
Reemtsma, già ricordata, circa il senso della pena, e specificamente
della cosiddetta prevenzione generale positiva, di rimuovere “il terzo”
(e dunque la dimensione comunicativa e s ociale) dall’atto
criminale. 101 Si potrebbe dire del resto che la stessa residualità, il
carattere di extrema ratio dell’esercizio effettivo della violenza, valga
a rafforzare il carattere minaccioso “come il destino” proprio del
diritto, che è poi la sua forza regolativa propriamente “extragiuridica”,
sociale e morale.
Ma ciò a c ui assistiamo da qualche tempo (in quella che può
apparirci una fase di estrema acutizzazione delle contraddizioni del
moderno), è fondamentalmente un venire allo scoperto della “violenza
originaria” (dello Stato e del diritto) attraverso non solo la forma di un
crescente esercizio effettivo della violenza “guerresca” da parte dello
98
Giovanni Mierolo, Il totalitarismo delle istituzioni moderne, in Forme contemporanee del
totalitarismo, a cura di Massimo Recalcati, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 250-251.
99
Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 96.
100
Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., pp. 13 e sgg. “Poiché il p otere che
conserva il diritto è quello che minaccia. E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come la
interpretano teorici liberali sprovveduti. Dell’intimidazione in senso proprio farebbe parte una
precisione, una determinatezza che contraddice all’essenza della minaccia, e che nessuna legge può
raggiungere, poiché sussiste sempre la speranza di sfuggire al suo braccio. Tanto più essa ap pare
minacciosa come il d estino, da cui, infatti, dipende se il d elinquente incorre nei suoi rigori. Il
significato più profondo dell’indeterminazione della minaccia giuridica apparirà solo nella successiva
analisi della sfera del destino, da cui essa deriva. Un prezioso rimando a q uesta sfera si trova nel
campo delle pene. Fra le quali, da quando è stata messa in questione la validità del diritto positivo, la
pena di morte è quella che ha richiamato più di ogni altra la critica. Anche se i suoi argomenti sono
stati, nella maggior parte dei casi, tutt’altro che decisivi, decisivi furono e restano i s uoi motivi. I
critici della pena di morte sentivano, forse senza saperlo spiegare, e, probabilmente, senza nemmeno
volerlo sentire, che la sua contestazione non i mpugna un de terminato grado di pena, non a ssale
determinate leggi, ma il diritto stesso nella sua origine. Poiché se la sua origine è l a violenza, la
violenza coronata dal destino, è logico supporre che nel potere supremo, quello di vita e di morte, dove
esso appare nell’ordinamento giuridico, le origini di questo ordinamento affiorino
rappresentativamente nella realtà attuale, e si rivelino paurosamente.”
101
Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., p. 486.
58
Stato e degli Stati (per esempio con le politiche di controllo, i “diritti
penali del nemico”, le “guerre” al terrorismo, ecc.), ma altresì di una
subdola e per vasiva giuridicizzazione dei rapporti e dei conflitti
sociali; e ciò nel tentativo di mantenere o di ripristinare la fiducia
sociale a onta di una crescente diseguaglianza delle persone.
Se però nell’epoca moderna “l’astensione dalla violenza è il
momento decisivo della coesione sociale”, 102 il fatto che il monopolio
statale della violenza agìta (e non più solo prevalentemente
“minacciata”) venga così allo scoperto finendo per assumersi in
misura crescente anche il monopolio della fiducia sociale, con un
allargamento degli spazi del dominio penale, ben oltre, giuridicamente
o anche solo culturalmente, il canone regolativo (che è tale, oltre che
per il diritto penale, per i mondi sociali e per le loro narrazioni) della
extrema ratio, segnalerà un r ischio accresciuto di restituzione alla
violenza di tutta quella forza comunicativa e sociale che la modernità
ha sempre tentato di rimuovere, insieme al “terzo”, reale o
immaginario, cui la violenza si rivolge.
Un conclusivo sviluppo del legame qui impostato tra il rapporto
diritto-violenza e il formarsi delle cosmologie (direttamente o
indirettamente “violente”) non può trascurare la considerazione che
chiude il saggio benjaminiano. Come ricordato recentemente anche da
Honneth, 103 nel porsi la questione di quali forme di accordo sociale, di
mediazioni degli interessi, possano prospettarsi nelle quali non
intervenga la violenza del diritto, Benjamin104 fa riferimento alle virtù
emozionali, che permettono di porsi empaticamente nella prospettiva
dell’altro: “l’accordo non violento,” scrive, “ha luogo ovunque la
cultura dei sentimenti ha messo a di sposizione degli uomini mezzi
puri di intesa. Ai mezzi legali e illegali di ogni genere, che sono pur
sempre tutti insieme violenza, è lecito quindi opporre, come puri, i
mezzi non violenti. Gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace,
fiducia e tutto quanto si potrebbe aggiungere ancora, sono la loro
premessa soggettiva”. Ricorda, questo invito, la “grande opera
cristiana” di cui parla Zolla (“la riscossione del dovuto, la punizione
102
Ivi, p. 99.
Axel Honneth, Eine geschichtsphilosophische Rettung des Sakralen, cit., pp. 143 e sgg.
104
Cfr. Walter Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 17.
103
59
del torto cessino di apparirci una medicina del nostro turbamento”),105
simile al particolare allenamento dell’arte marziale giapponese detta la
via del respiro armonioso, aikido.106
Assecondando e s viluppando quella metafora, si potrebbe dire che
una minore dipendenza dalle categorie del diritto e del torto, possa
propiziarsi attraverso una loro progressiva o al meno tendenziale
sostituzione “con la nuda fede nel significato” del nostro e dell’altrui
destino. Per riprendere le parole di Adriana Cavarero – ma è questo
107
anche il senso della chiusa del libro di Reemtsma – la giustizia e il
diritto possono riscattarsi dalla loro “violenza originaria” tenendo
sempre presente che “il mondo […] è pieno di storie, circostanze e
situazioni curiose che aspettano solo di essere raccontate”; “più
precisamente […] il mondo è pieno di storie perché è pieno di vite:
essere ligi alla storia ‘significa essere ligi alla vita’. Non si tratta solo
di una metafora. […] L’unicità dell’esistente non ha infatti alcun
bisogno di una forma che la progetti e la contenga. Radicata nel flusso
impadroneggiabile di una costitutiva esposizione, le è risparmiato
tanto il vezzo di prefigurarsi quanto il vizio di prefigurare la vita degli
altri. La figura, l’unità del disegno, il profilo della cicogna, se proprio
Élémire Zolla, Uscite dal mondo, cit., pp. 143 sgg.: “Estirpare in noi la radice del diritto è il
compito: la riscossione del dovuto, la punizione del torto cessino di apparirci una medicina del nostro
turbamento e, se l ’ingiustizia chiama la magica riparazione e ci porta a g iudicare con magiche
mormorazioni, si contempli la croce, somma ingiustizia e magia. Si guardino in faccia i bisogni e
istinti giuridici: sono lacci che avvincono, uncini infilati nella nostra carne. Non è questa una crociata
contro i tribunali. E non è detto che una volta liberati dal bisogno psichico di farlo non si riscuotano i
debiti. Tanto meno si è consigliati di condannare coloro che non possono non giudicare, rivendicare,
disputare del diritto e del torto, anzi li si compassiona e il loro misero spettacolo ci aiuta a preservarci
dal ricadere noi stessi in quella prigione e volgare corte di supplizi”.
106
Ivi, p. 144. “L’alunno dell’aikido picchierà un ceppo con un bastone. Quindi col bastone colpirà un
ceppo immaginario, fino a farlo come se il ceppo ci fosse. Quindi calerà i fendenti con un bastone
immaginario. Imparerà infine a sen tirsi, a proiettarsi sulla punta del bastone, e d el bastone
immaginario. Il suo equilibrio saprà reggersi nel farlo a sostegni immaginari e sempre poggerà sul
baricentro del corpo. L’alunno si sarà utilmente ipnotizzato; come diceva Platone, avrà fatto
l’incantamento alla propria anima. Buona parte delle mosse che si compiono per aiutarsi a eseguire
certi atti possono poggiare sulla fantasia, come quando per levarsi in piedi ci si afferri a un sostegno.
Imparando a sostituire il sostegno con la sua immagine mentale, si può imparare, ulteriormente, quanta
forza nascosta si abbia e da quanti bisogni immaginari ci si lasci incantare. Ebbene, come dei bastoni
di legno, si può fare a meno delle categorie del diritto e del torto, sostituendole con la nuda fede nel
significato del nostro destino ovvero nella provvidenza. Non è da tutti, come non da tutti è trascendere
la comune scherma e l a comune lotta per forme basate sull’arte dell’equilibrio e su l dominio della
fantasia, più puramente magiche. Certamente non è co sa accessibile alla mente che, invece di star
ferma all’assunto, corra a d omandarsi se possa sussistere una società senza diritto (non è questa la
questione) o se debba comportarsi in uno o altro modo per meritare il plauso o un’onorevole
menzione”.
107
Jan Philipp Reemtsma, Vertrauen und Gewalt, cit., pp. 538 e sgg.
105
60
viene, viene solo dopo”. 108 È questo anche il senso del pensiero già
ricordato secondo cui “essere un individuo morale significa prestare,
essere obbligato a prestare, un certo tipo d’attenzione”;109 il che ha
anche il significato di riscoprire il carattere di sentimento morale
dell’amore,110 quella forma primordiale di riconoscimento, che
nell’odierna temperie socio-culturale sembra erosa dall’invadenza
delle pretese di riconoscimento giuridico.
Credo che l’importantissimo libro di Ceretti e Natali, tra i suoi molti
meriti, abbia appunto quello di aiutare il giurista in genere, e in
particolare il penalista e il politico-criminale ad aprirsi a un mondo
“pieno di storie […] che aspettano solo di essere raccontate”, ossia ad
accostarsi a quelle “trame di ‘identità’” individuali e sociali tessute
attraverso il confluire della “conversazione interiore verso un punto di
riferimento narrativo attorno al quale si affollano gli altri-fantasmi
111
internalizzati”.
Recentemente Jeremy Rifkin ha sollecitato a una comprensione
della natura empatica dell’uomo e, non a caso, ha indicato come
esempio di questo nuovo approccio in campo giuridico quello del
ripristino della relazione fra chi ha commesso il crimine e le vittime:
la giustizia riparativa. 112 Sono gli stessi Ceretti e Natali, del resto, a
riprendere il suggerimento di Niklas Luhmann 113 a che il sistema non
si immunizzi contro il “no”, bensì con l’aiuto del “no”, non si tuteli
dai cambiamenti, ma grazie ai cambiamenti, evitando così “un
irrigidimento entro schemi di comportamento consolidati, ma non più
108
Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, cit., pp. 186-187.
Susan Sontag, Nello stesso tempo, cit., pp. 168, 186.
110
Cfr. J. David Velleman, Liebe als ein moralisches Gefühl, in Von Person zu Person, a cura di Axel
Honneth e Beate Rössler, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2008, pp. 60 e sgg.
111
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 341.
112
Cfr. il libro recente di Jeremy Rifkin, The Empathic Civilization, Polity Press, Cambridge 2009; tr.
it., La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010, p. 17, che sollecita a una comprensione della
natura empatica dell’uomo e non a caso indica come esempio di un nu ovo approccio empatico in
campo giuridico quello del ripristino della relazione fra chi ha commesso il crimine e le vittime, la
giustizia riparativa.
113
Niklas Luhmann, Soziale Systeme, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984; tr. it. Sistemi sociali.
Fondamenti di una teoria generale, il Mulino, Bologna 1990, p. 576. L’osservazione luhmaniana
evoca una nota battuta di Gregory Bateson (Steps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing, San
Francisco 1972; tr. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000, p. 548): “Viviamo in una
società che sembra preferire i divieti alle esigenze positive e quindi tentiamo di legiferare (ad esempio
con leggi antitrust) contro le variabili usurpatrici; e tentiamo di difendere le ‘libertà civili’
bacchettando legalmente le forze usurpatrici. Tentiamo di proibire certe usurpazioni, ma forse sarebbe
meglio incoraggiare le persone ad avere conoscenza delle loro libertà e f lessibilità e a u sarle più
spesso”.
109
61
consoni all’ambiente”. Il sistema immunitario protegge
dall’annientamento mediante negazione.114 Essi auspicano dunque un
atteggiamento non proteso a “espellere il male” ma a “trattarlo,
mettendo a disposizione della società una sufficiente complessità
interna per il trattamento dei conflitti” e at tingendo a esperienze già
rintracciabili nell’universo della giustizia: “esperienze che sfuggono
alla logica dell’immunità e che si preoccupano di (ri)attivare canali di
comunicazione e forme di relazioni orientate alla convivenza: le
pratiche riconducibili al movimento della Giustizia Riparativa
introducono, sia pure in forma embrionale, istanze di ‘diritto fraterno’:
un diritto giurato insieme da fratelli, uomini e donne, con un patto in
cui si ‘decide di condividere’ regole minime di convivenza. È [un
diritto] convenzionale, con lo sguardo rivolto al futuro”.115 Forse come
lo sguardo del padre nell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, La
strada, 116 che perfino nel contesto estremo di una pura anomia, ossia
di una forzata rinuncia totale al diritto, sa rendere testimonianza di
come sia possibile, comunque, resistere ed esistere, facendosi, insieme
al figlio, “portatore del fuoco”, ossia “della Legge della convivenza e
del patto sociale”, della “vita come possibile”, della “Legge della
cultura, che è gi à anche la Legge del desiderio”,117 come avrebbe
potuto scrivere anche Iosif Brodskij. “Ciò che colpisce di questo padre
è il suo prendersi cura, la sua resistenza nel continuare a prendersi
cura di suo figlio. ‘Eccomi’, scrive Levinas, è la forma più diretta che
può assumere la responsabilità come risposta etica all’invocazione
dell’Altro”.118
E forse, perché questo possa avvenire nei mondi sociali e nelle
cosmogonie individuali, è necessario che anche nell’atteggiamento
verso il diritto, il diritto penale e la politica criminale (di cui è certo
“desolante […] constatare 1’assenza di un progetto politico che
costruisca tali pratiche come ipotesi di un modello di società
auspicabile”, la mancanza di “un vettore di senso in grado di
114
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384.
Ibid., che qui citano Eligio Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 132.
116
Cormack McCarthy, The Road, Vintage Books, New York 2006; tr. it. La strada, Einaudi, Torino
2007.
117
Riprendiamo qui in più punti l’analisi di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2011, pp. 155 e sgg.
118
Ivi, p. 159.
115
62
proiettarle nel campo culturale e politico”)119 ci si distenda lungo la
“linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito”, che segna l’“accettare
il debito non pagato, accettare di essere e rimanere debitore
insolvente, accettare che ci sia una perdita” 120 o, quanto meno,
accettare che il mondo non si ripartisca tra chi ha t orto e chi ha
ragione, tra chi rivendica diritti e chi è assoggettato a doveri. Ciò nella
consapevolezza che “la pretesa – tentazione ricorrente nelle più
svariate forme – di estirpare il male, di superare 1’‘ambiguità’ propria
dell’uomo è – dunque – un ‘incalcolabile male’”. 121
119
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384.
Questo pensiero di Paul Ricoeur, citato in un’opera recente di Cesare De Michelis (Moderno
Antimoderno, Aragno, Torino 2010), è richiamato da Carlo Ossola nella sua recensione al libro (cfr.
Carlo Ossola, Elogio degli antimoderni, in “Il Sole-24 Ore”, 11 aprile 2010, p. 32). Osserva Ossola
come siano “gli Antimoderni: Pound, Eliot, Borges, Ungaretti, ma anche Beckett, Thomas Bernhard” a
tendersi “verso questo ‘sbilanciamento’ invocato da Ricoeur, visto che ‘il Moderno […] secerne la
Decadenza, la ferrea dimora nella Temporalità (foss’anche tutta da bruciare nell’istante del Gesto)’,
mentre occorre riferirsi agli Antimoderni per trovare vie d’uscita dalla prigionia della ‘datità’”.
121
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente, cit., p. 384.
120
63
Il problema delle narrative del reo
Alfredo Verde
E se il reo parla? Come valutare quanto dice? Quale valore attribuire al
suo discorso? Recentemente, nella criminologia statunitense, il problema
di quello che il reo dice, di come considerarlo, di come classificarlo, ha
destato un certo interesse, a tutti i livelli della ricerca criminologica, anche
a quelli più tradizionalisti e macrosociologici. Ne costituisce un esempio
l’interesse di un autore come Agnew,1 celebre esponente della strain
theory, che conia il concetto di storylines per connettere le variabili
strutturali a quelle situazionali che conducono al delitto: non basta avere
un autore motivato dalle variabili strutturali come quelle legate alle sue
condizioni socioeconomiche, ma è necessario anche verificare come tali
variabili rientrino nella narrativa da lui costruita allo scopo di spiegare
perché è ar rivato al delitto. Significativamente, Agnew impatta
immediatamente con il problema del rapporto fra le storylines e le tecniche
di neutralizzazione: cioè, per dirla con le nostre parole più cliniche, con le
specifiche difese volte alla minimizzazione della responsabilità dell’autore
di reato.2
Presser ha dedicato un importante lavoro alle narrative criminologiche,3
rilevando che le narrazioni degli autori di reato, storicamente poco valutate
dai criminologi per il connesso problema della verità e della menzogna
dell’autore, sono state considerate in criminologia in tre modi: il primo,
legato alla sociologia tradizionale, connesso alla descrizione di fatti
1
Robert Agnew, Storylines as a Neglected Cause of Crime, in “Journal of Research in Crime and
Delinquency”, 43, 119, 2006.
2
Gresham Sykes e Dav id Matza, Techniques of Neutralization: A Theory of Delinquency, in “American
Sociological Review”, 22, 664, 1957.
3
Lois Presser, The Narratives of Offenders, in “Theoretical Criminology”, 13, 177, 2009.
64
obiettivi, il secondo, più vicino alle teorie interazionistiche, che postula
che le narrative costituiscano un’interpretazione dei fatti da parte degli
autori, e il terzo, maggiormente legato alle teorie postmoderne, che pone le
narrative come indispensabili non solo e non tanto per l’interpretazione dei
dati della realtà, quanto per la costruzione stessa della realtà da parte degli
autori, realtà che appare inestricabilmente connessa alla sua descrizione da
parte di chi commette il reato.
L’opera di Lonnie Athens, 4 alla quale il libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo
Natali è de dicato, si colloca fra la seconda e la terza delle visioni citate,
aderendo all’impostazione dell’interazionismo radicale. Sotto il segno di
Athens, il libro di Ceretti e Natali5 ha riportato la visione del mondo del
reo, la sua comunità fantasma, la sua cosmologia, per utilizzare il
suggestivo termine del sociologo americano fatto proprio dagli autori, al
centro dell’attenzione del criminologo. Ma comunità fantasma e
cosmologia costituiscono al contempo la visione del mondo del reo che
traspare dalle sue narrative.
Recentemente, nel nostro paese, per effetto di una serie di contributi cui
il sottoscritto non è estraneo, il problema delle narrative del reo è andato
assumendo una rilevanza centrale all’interno della ricerca criminologica.
Secondo Francia, Binik e G uidali,6 addirittura, il reato nella sua brutalità
reale “sarebbe” già naturalmente “come” un testo, da leggere e da
interpretare, così come sarebbero da ricostruire, leggere e interpretare le
spiegazioni che del proprio delinquere fornisce lo stesso reo, 7 cui la
criminologia (clinica) dovrebbe “ridare voce sociale”. A nostro parere,
quest’ipotesi considera solo il caso (tipico dei delitti impulsivi) in cui il
delinquente sia dotato di “poche” parole, o i casi invece in cui socialmente
non abbia abbastanza potere da pretendere che le sue parole vengano
ascoltate (viene in mente la cultura dei Rom, di cui sempre si parla ma che
mai viene lasciata parlare): il reato, dunque, sarebbe “azione” portatrice di
un significato nascosto, vero e pr oprio testo narrativo, che sarebbe
4
Lonnie Athens, The Creation of Dangerous Violent Criminals, Routledge, London-New York 1989; Id.,
Violent Criminal Acts and Actors Revisited, University of Illinois Press, Urbana (Ill.) 1977.
5
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2009.
6
Adolfo Francia, Oriana Binik e Livia Guidali, La narratologia e il pensiero criminologico fra sociologia e
psicoanalisi, in Oronzo Greco e Giovanni Scarafile (a cura di), Sotto il segno di Babele. Prospettive di
comunicazione e dialogo fra saperi, Pensa Multimedia, Lecce 2008.
7
Quelli che il recente contributo dei citati Francia, Binik e Guidali definisce gli account del reo, con
riferimento alla tradizione della sociologia fenomenologica.
65
necessario “ricostruire” (“scrivere”, in senso barthesiano) con l’aiuto
eventuale della parola del reo, allo scopo di illustrare i suoi account, il
modo in cui questo vede il mondo. Siamo molto vicini ad Athens. Subito,
però, e quasi come contraltare, si pone il problema esattamente speculare:
talora infatti il reo ha troppi account, e sulla base di quegli account tende a
fregarci e a mentire consapevolmente: è necessario, quindi, valutare anche
i motivi che portano alla possibilità di resoconti menzogneri, connessi alla
loro possibile utilizzazione strumentale nel contesto giudiziario o in quello
mediatico. Va tenuta presente anche la possibilità che il racconto dei fatti
sia stravolto e piegato alle esigenze dei media, quando il dramma del reato
arriva a vertici di “significazione” collettiva8 che spesso non hanno a che
fare per nulla con il significato attribuito all’azione da parte di chi l’ha
compiuta. 9
Le narrative (monche) dei delitti impulsivi, quindi, da un lato, e
dall’altro le (troppe) narrative di chi consapevolmente vuole dissimulare, o
quelle distorte dei mass media, rappresentano perciò, da un punto di vista
concreto, clinico verrebbe da dire, i due estremi opposti del problema: un
minus e un plus di mentalizzazione.10
Come si nota, l’estremo del plus di mentalizzazione pone il problema
della menzogna: questa dipende per la sua concettualizzazione dal livello
interpretativo scelto, fermo restando che le narrative, se costruite in modo
adeguato (e cioè non contraddittorio, nel senso che non debbono sovvertire
i criteri di verosimiglianza) sono autoreferenziali, cioè “sembrano” vere
(qui si apre, in campo giudiziario, il problema della convalida esterna, che
non è altro che il problema della prova in penale).11 In un’ottica
postmoderna, invece, esistono diverse “versioni” costitutive di un fatto, ma
non esiste la sua “verità” al di fuori delle narrazioni degli autori. La
criminologia clinica si colloca da qualche parte in questo continuum, e
investiga la presenza o l’assenza della deliberata volontà di mentire, per
farne un oggetto del suo esame, posto che, come vedremo, anche in
8
David Matza, Becoming Deviant, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1969.
Cfr. la nostra analisi di Lo straniero di Camus in Alfredo Verde, L’assassino innocente: delitto, processo e
pena ne Lo straniero di Albert Camus, parte I: Il delitto, in “Marginalità e so cietà”, 17, 107, 1991; Id.,
L’assassino innocente: delitto, processo e pena ne Lo straniero di Albert Camus, parte II: Il processo e la
pena, in “Marginalità e società”, 18, 101, 1991.
10
Romolo Rossi e Al fredo Verde, Quattro fratelli, quattro modi per delinquere. Su alcuni rapporti fra
criminologia e psicoanalisi, in “ Giornale Italiano di Psicopatologia”, 13, 4, 1997.
11
Franco Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Laterza, Bari 1986.
9
66
assenza di tale volontà il reo può fornire, a nostro avviso, resoconti
confabulati.
Ogni delitto, infatti, materializza un quid di indicibile, di intollerabile:
raccontarlo, a qualsiasi livello, come ben mostrano gli studiosi che
affrontano la narratologia dal vertice psicoanalitico, 12 significa tentare di
dare parole a un grumo primordiale distruttivo, un quid di morte, di
separatezza, di finitudine che ci attraversa, che ci circonda, dal quale siamo
fatti, che i più immaturi (patologici? a questo livello, non è ancora
necessaria una psicopatologia dell’azione delinquente) di noi mettono in
atto, perché privi della possibilità di intessere un discorso che possa
spiegare il loro dolore, ed essere alla base di “azioni” meno lesive della
vita e della proprietà altrui. Certo è che è a questo livello che i l
criminologo clinico dovrebbe indirizzarsi, se il suo scopo vuole essere
quello di “comprendere” la personalità dell’autore, sia che debba attribuire
a tale soggetto parole (e cioè costruire lui stesso una narrativa relativa a un
discorso che all’autore manca, come nel caso dei delitti impulsivi), sia che
debba invece smascherare, smitizzare le sue parole come “false” – e cioè
negatorie di un altro livello narrativo, di un discorso “implicito” proprio
dell’autore, più o m eno al di là della sua coscienza, della sua
consapevolezza e quindi della sua volontà mistificatoria – un discorso,
quindi, al di là della menzogna cosciente, o a ttinente al livello
dell’inconscio, decifrando il quale il criminologo potrà scoprire le
narrative implicite del reo, 13 ovviamente con l’alea, sempre presente in
questi casi, del rispecchiamento di aspetti di sé intollerabili, proiettati
nell’altro.
Questo ci sembra il punto “debole” della teoria di Athens, che permette
sì di cogliere, nelle narrazioni del reo, il multiforme avvicendarsi delle
identificazioni che costituiscono la sua “comunità fantasma”, ma che non
riconosce affatto il ruolo dell’interprete, nel gioco della relazione, nello
“scrivere” la “sua propria” versione della narrazione dell’autore (ogni
leggere è uno scrivere, secondo Barthes; 14 e lo è ancora di più se
raccontiamo le storie dell’autore nel suo contatto con noi!). In altre parole,
il reo non è “dato”, lì, estraneo, ma è implicato in un campo relazionale
12
Peter Brooks, Reading for the Plot: Design and Intention in Narrative, Knopf, New York 1984; tr. it.
Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino 1995.
13
Per comodità, potremmo citare il nietzscheano “ha rubato perché voleva sangue”, e n on perché volesse
“cose”: cfr. Alfredo Verde, Editoriale: Il delinquente pallido, il giudice rosso, la società punitiva e i media,
in “Rassegna Italiana di Criminologia”, 14, 2, 2003.
14
Roland Barthes, S/Z, Seuil, Paris 1970, tr. it. S/Z, Einaudi, Torino 1973.
67
con noi. Il riferimento, ovviamente, è alla psicoanalisi, in particolare alle
recenti correnti intersoggettive, e proprio alla psicoanalisi Ceretti e Natali
fanno riferimento. Potremmo dire, quindi, accogliendo le modifiche degli
autori italiani al pensiero di Athens, che l’autore fornisce di sé al
ricercatore una narrativa, che viene dal ricercatore modificata, quando la
scrive, proprio perché la narra e la fa sua; e poi magari ancora
ulteriormente modificata, quando ci teorizza su; e così via, in un processo
continuo di rielaborazione.
Hollway e Jefferson hanno riconosciuto questo problema, partendo
dall’altro corno della questione del delitto, quello delle interviste alle
vittime di reato.15 Secondo gli autori, anche se, dopo la crisi dovuta alla
natura prevalentemente quantitativa della ricerca, con indagini basate su
questionari che obiettivizzavano e generalizzavano il problema della paura
del crimine, trasformandolo in generica questione relativa alla
“sicurezza”,16 le inchieste sulla vittimizzazione sono diventate sempre più
qualitative, basate su questionari a r isposta aperta, nondimeno hanno
trascurato un aspetto molto importante: che cosa, e come, veniva chiesto al
soggetto, che si qualifica, per definizione, come soggetto “difeso” (cioè
come soggetto che utilizza i meccanismi di difesa, come evidenziati dalla
clinica e dalla teorizzazione psicoanalitica). Le difese vengono costruite
però, in quest’ottica, non in una situazione unipersonale e intrapsichica,
ma in una situazione interpersonale, la situazione dell’intervista. Emerge,
cioè, il problema della dinamica dell’intervista, con le sue implicazioni
transferali e controtransferali.
Se questo discorso è ragionevole per le vittime, lo potrebbe essere ancor di
più per quanto riguarda il reo: si tratta di soggetti difesi, consapevolmente
o meno, quando non mentitori, e qu esto rende la situazione certamente
ancor più delicata: sembra necessario, quindi, aumentare le cautele, anche
perché dalle interviste con gli autori di reato realizzate nella pratica
possono discendere effetti anche sulla vita degli stessi (cfr. le interviste
effettuate nell’ambito delle perizie psichiatriche).
Una rilettura del contributo di Athens, già letto da Ceretti e Natali, ci porta
quindi ad affermare che è necessario comprendere quale sia la struttura del
discorso del reo, sostenuta dalle sue difese, e alla base dei suoi resoconti
narrativi, dal momento che “il discorso del narratore orienta
15
Wendy Hollway e T ony Jefferson, Doing Qualitative Research Differently: Free Association, Narrative
and the Interview Method, Sage, London 2000.
16
Su questo ampiamente cfr. Roberto Cornelli, Paura e ordine nella modernità, Giuffrè, Milano 2008.
68
inevitabilmente il racconto, talché non esiste racconto senza discorso, e
nemmeno viceversa…”.17 Il soggetto può mentire consapevolmente, si
diceva, o meno (può raccontare agli altri delle storie, o r accontarsele: da
rilevare quanto questa espressione “dica” a livello di multisignificazione):
la grande scoperta della psicoanalisi è appunto questa, e passa attraverso lo
studio delle narrazioni verbali (e anche non-verbali e preverbali) del
paziente, per fargli “dire” cose che non sa di dire: “il dispositivo della
parola consente all’analista di individuare il discorso della persona in
analisi: la posizione che costui assume nel suo dire, il posto che prende
nella storia che racconta”. 18 Ma la narrazione prodotta dal discorso ha
natura immaginaria: o meglio, è un intreccio fra aspetti reali e aspetti
immaginari, tanto che “un analista di generazione successiva a F reud,
Jacques Lacan, arriverà a teorizzare la funzione della narrazione in
psicoanalisi recuperandone interamente l’aspetto immaginario e
assegnandogli una dignità euristica: la verità ha la struttura della finzione,
dirà”:19 così la psicoanalisi si pone come “clinica del discorso”, attraverso
la quale emerge un di scorso inconscio, “frutto di un s apere sul quale
nessuno dei protagonisti dell’incontro clinico ha padronanza”.20 Hollway e
Jefferson affermano che “the idea of a de fended subject shows how
subjects invest in discourses when these offer positions which provide
protections against anxiety and therefore supports to identity”.21 Il
soggetto, quindi, è i n parte inconsapevole di quanto dice, e co mpito
dell’interlocutore è quello di ristabilire l’“altra” narrazione che emerge
dall’incontro, e ch e deriva dall’applicazione di una serie di regole
trasformativo/interpretative: il problema è squisitamente clinico. E,
clinicamente, il problema della menzogna può essere affrontato
verificando il liv ello di psicopatia dei soggetti (esistono strumenti volti a
tale scopo), posto che spesso i delinquenti impulsivi non hanno memoria, o
hanno memorie distorte, degli atti commessi; quando si tratta di riportare
alla coscienza gli eventi del delitto, è la possibilità di accedere al ricordo
dell’atto compiuto che spesso appare estremamente tormentoso recuperare,
sia per la natura stessa del delitto commesso, sia per l’emotività presente al
17
Valeria La Via, Psicoanalisi, criminologia e narrativa: per una nuova clinica criminologica, in Adolfo
Francia, Alfredo Verde e Jutta Maria Birkhoff (a cura di), Raccontare delitti. Il ruolo della narrativa nella
formazione del pensiero criminologico, Franco Angeli, Milano 1999, p. 31.
18
Ivi, p. 34.
19
Ivi, p. 35.
20
Ibid.
21
Wendy Holloway e Tony Jefferson, op. cit., p. 23.
69
momento dell’agito: si potrebbe parlare, addirittura, di un possibile aspetto
amnesico, da paragonare all’amnesia traumatica, nonostante il paradosso,
perché la traumatizzazione… può colpire anche chi infligge il trauma.22
Molti studi hanno trattato il problema dell’amnesia negli autori di reato,
con l’obiettivo (ambizioso!) di sceverare le allegazioni di non ricordare
vere da quelle false,23 ma anche le scale relative alla simulazione prodotte
dagli psichiatri forensi statunitensi non si sono mostrate risolutive al
proposito. Certo è che molte delle dichiarazioni di non ricordare da parte
degli autori di reati violenti, come afferma nuovamente Moskowitz24 dopo
un’esauriente meta-analisi, sono sincere: in base all’esame da lui condotto,
questo autore rileva che l’amnesia dissociativa è piuttosto frequente dopo
avere commesso un delitto violento, in particolare dopo un omicidio (va,
nei campioni studiati, dal 20 al 47 per cento dei casi, con una media del 31
per cento sull’insieme dei soggetti delle diverse ricerche); Porter,
Woodworth e Doucette 25 riferiscono addirittura che, in base alla loro metaanalisi, l’amnesia sarebbe presente, negli autori di omicidio, in percentuali
che vanno dal 10 al 70 per cento dei casi.
Il discorso diviene ancora più complesso quando si passa ad analizzare
non solo e non tanto la amnesic claim, la dichiarazione di non ricordare da
parte dell’autore, ma la natura e i l tipo dei ricordi prodotti, veri,
confabulati o deliberatamente menzogneri. I contributi della ricerca
permettono di differenziare, in primo luogo, gli autori psicopatici dagli
autori impulsivi: un’indagine effettuata da Porter e Woodworth 26 ha
rilevato che gli psicopatici, che pure commettono un numero di omicidi di
natura strumentale maggiore dei non psicopatici, nelle loro narrazioni degli
atti commessi tendono a presentare anche i propri atti strumentali come
impulsivi e c ome dipendenti dal comportamento della vittima,
evidentemente allo scopo di minimizzare la propria responsabilità; e
inoltre tendono anche a no n raccontare alcune caratteristiche essenziali
Andrew Moskowitz, Dissociation and Violence: A Review of the Literature, in “Trauma, Violence, &
Abuse”, 5, 21, 2004.
23
Cfr. A mero titolo di esempio Dominique Bourget e Laurie Whitehurst, Amnesia and Crime, in “ Journal
of the American Academy of Psychiatry and Law”, 35, 469, 2007.
24
Andrew Moskowitz, op. cit.
25
Stephen Porter, Michael Woodworth e Naomi L. Doucette, Memory for Murder: The Qualities and
Credibility of Homicide Narratives by Perpetrators, in Sven A. Christianson (a cura di): Offenders’
Memories of Violent Crimes, John Wiley & Sons, Chichester (England) 2007.
26
Stephen Porter e Michael Woodworth, “I’m Sorry I Did It … but He Started It”: A Comparison of the
Official and Self-reported Homicide Descriptions of Psychopaths and Non-psychopaths, in “Law and Human
Behavior”, 31, 91, 2007.
22
70
dell’atto commesso (per esempio le caratteristiche del luogo del delitto,
l’uso di armi, la presenza in loro di impulsi di natura sessuale,
l’ammontare della violenza inferta, ecc.). In altre parole, gli psicopatici
mentono più dei non psicopatici.
Ma tutti questi studi, ancorché suggestivi, evitano di fare un passo
ulteriore, e cioè di esaminare qualitativamente il contenuto delle narrative
degli autori di reato, che, a nostro parere, può essere utile anche quando sia
menzognero, in quanto anche la menzogna, intesa come prodotto della
fantasia, può illuminare sulle caratteristiche profonde di chi la conia: tutto
ciò, allo scopo di comprendere in generale, e soprattutto non con fini
strettamente giudiziari, che cosa sia passato nella mente del reo, anche dal
punto di vista della possibile iscrizione del fatto-reato nella sua storia. La
ricostruzione dello stato mentale del reo potrebbe permettere di
evidenziare anche la capacità/possibilità di quest’ultimo di elaborare il
trauma del delitto commesso, delitto che molto spesso costituisce l’unico
sbocco di una situazione interpersonale e relazionale senza uscita in cui il
soggetto si è trovato invischiato, appunto quella che dalla scuola lionese è
stata definita la “situazione della delinquenza”. 27
Le diverse versioni di una storia permettono infatti di precisarla, di
sistemarla, di scegliere in via definitiva la strada della falsità (ma, si
diceva, la menzogna può trasmettere un “altro” livello della verità), o per
converso permettono agli aspetti più genuini e soggettivi di emergere, al di
là delle manipolazioni, in un continuum che va, psicopatologicamente, dal
tentativo deliberato di raccontare una storia non vera, alla possibilità di
confabulare, perché non si ricorda, in entrambi i casi parlando di aspetti
importanti di sé.
È opinione di chi scrive che l’atto delittuoso compiuto, oltre a
rappresentare la scarica di un contenuto pulsionale aggressivo o predatorio,
costituisca anche l’occasione per risistemare e “riscrivere”
successivamente la propria storia, 28 dal momento che produce in primo
luogo nella collettività la coazione a narrare, in particolare quando si tratti
di azioni aggressive, sia attraverso le pratiche istituzionali (il processo), sia
Marcel Colin e Jacques Hochmann, Diagnostic et traitement de l’état dangereux, in Marcel Colin (a cura
di), Études de criminologie clinique, Masson, Paris 1963.
28
Per tutti, pur appartenenti a tradizioni differenti, cfr. da un lato Arnaldo Novelletto, Psichiatria
psicoanalitica dell’adolescenza, Borla, Roma 1986; Arnaldo Novelletto, Daniele Biondo e Gianluigi
Monniello, L’adolescente violento. Riconoscere e prevenire l’evoluzione criminale, Franco Angeli, Milano
2000, e, dall’altro, Gaetano De Leo e Patrizia Patrizi, Psicologia della devianza, Carocci, Roma 2002.
27
71
attraverso le pratiche informali della criminologia popolare. Ma proprio
per l’effetto sismico che la sua azione ha nei confronti delle reti sociali cui
appartiene, e della più ampia comunità, anche il reo (e talora controvoglia,
per esorcizzare i sentimenti di colpa che emergono dalle sue profondità
interiori, o le allegazioni di colpa da parte dell’esterno) spesso si sente
pressato a narrare la propria versione degli eventi. Così, possiamo leggere
nelle varie confessioni e nelle varie versioni fornite dal soggetto la storia
che si dipana via via dei suoi rapporti affettivi più significativi, sia passati
che presenti. Diventa anche possibile verificare, con un esame attento delle
produzioni narrative del reo, se nelle successive versioni la manipolazione
dei ricordi si faccia più evidente, e le difese si strutturino maggiormente, o
se, al contrario, il parlare più volte, a distanza di tempo, dello stesso evento
permetta di meglio recuperare i ricordi dal deposito della memoria a lungo
termine: diremo allora che la ricostruzione delle narrative del reo può
essere paragonata al lavoro dello storico, che narra del passato, ma
immerso in una situazione attuale, e t enendo inevitabilmente conto
dell’atmosfera del presente. Questa valutazione appare di rilevante
importanza al fine dell’analisi delle dinamiche psicologiche profonde e
delle caratteristiche della personalità del soggetto che ricorda, che non
appaiono legate alla disponibilità della memoria, ma emergono nel
racconto allo stesso modo di come in una roccia sedimentaria sono
presenti inclusioni di altre rocce, poi conglobate nel reperto esaminato, ma
riconoscibili e valutabili nella loro natura.
In una parola, possiamo dire che la memoria può distorcere (anche
volontariamente) gli eventi concreti, ma che spesso le successive versioni
di una storia fanno emergere gli aspetti meno consapevoli e m eno
controllati della personalità, che permettono allo studioso che si immerga
in tale materiale di meglio inquadrare le caratteristiche del soggetto; e, alla
fin fine, raccontare successive versioni di un delitto può anche, in casi
fortunati, costituire un modo per il reo di elaborare quanto ha commesso.
Non crediamo che sia possibile spiegare tutto questo con la teoria di
Athens. In altre parole, ci sembra che Athens non abbia sufficientemente
sviluppato l’idea di una verità “narrata” dal soggetto, e per ciò stesso
inevitabilmente sottoposta a “ distorsioni”: pure, i suoi contributi sul
concetto di “conversione”, in base alla quale la “comunità fantasma” di un
soggetto può modificarsi, avrebbero potuto portarlo su questa strada.
Forse, azzardiamo, è proprio l’appartenenza alla corrente interazionista
dello studioso, diffidente verso qualsiasi spiegazione del tipo “narrativa
72
latente” (e cioè topograficamente inconscia), magari ritenuta troppo simile
alle aborrite narrative funzionaliste, e v erosimilmente più legato a una
sorta di apprezzamento “fenomenologico” degli eventi così come appaiono
a ogni singolo attore sociale, che gli ha impedito di fare il passo cruciale:
nella nostra opinione, la narrazione del soggetto contiene sempre più di
quanto egli dica in modo esplicito. Ma qui è evidente (anche se Ceretti e
Natali sembrano volerlo occultare) l’aspetto innovativo del loro contributo
rispetto a quello di Athens. Gli autori italiani, infatti, non rifuggono dal
confrontarsi con l’inconscio dell’autore di reato, e a esso fanno riferimento
esplicito perlomeno in due occasioni: in un punto del volume sembrano
volere adottare una versione di inconscio ispirata alla psicoanalisi (citano
addirittura uno studioso lacaniano), mentre in altro momento sembrano
aderire a una versione dell’inconscio più vicina a quella, molto meno
interessante, propria dei recenti approcci cognitivisti.
È proprio questo, si diceva, che va considerato l’apporto “innovativo”
degli studiosi milanesi: nei casi narrati si riconosce, sì, l’influenza della
comunità fantasma, ma si evidenzia anche quanto ogni lettura di tipo
fenomenologico, cioè basata sull’empatia, sia insufficiente. Al Verstehen,
proprio di ogni narrativa basata sull’empatia, va infatti aggiunto
l’Erklären, proprio di ogni visione scientifica di un narratore “non
ingenuo” (il suo “orizzonte artificiale”, per dirlo con le belle parole di
Adolfo Ceretti): e al lora la “cosmologia” di ogni reo risulta costituita,
ancora una volta, attraverso un incontro, che permette di giungere
abduttivamente a una narrazione, che contiene sempre qualcosa di più
della semplice narrativa del reo. Altro, ulteriore problema, a questo
connesso, è quello legato “a c hi” e “a quale scopo” si narri: narratario e
scopo dipendono infatti dai contesti e dalle pratiche di fondo (discorsive e
non) in cui deve essere sistemato il discorso del narratore (per chi narrano i
narratori giudiziari? Per chi narra il criminologo? Per chi narrano i
narratori della cosiddetta “criminologia mediatica”?). Qui va un a ltro
riconoscimento ad Adolfo Ceretti, e di qui partirebbe un’altra digressione
se non fosse necessario concludere, affermando però fortemente che il
libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali costituisce un fondamentale
contributo alla criminologia clinica, sola capace di portare a u na più
approfondita comprensione degli autori di reato.
73
Appendice
Cosmologie, media e violenza
Alessandro Dal Lago
1. Sono molto lieto di essere stato invitato da Adolfo Ceretti e L orenzo
Natali a questa giornata di studi.
Desidero premettere che mi ritrovo molto sia rispetto ai contenuti
del libro sia rispetto agli interventi che mi hanno preceduto. Ho letto e
ascoltato parole molto familiari, con le quali decisamente simpatizzo.
Ho apprezzato, in particolare, i continui riferimenti, anche quelli
critici – giustamente critici, aggiungerei –, alla tradizione
dell’interazionismo simbolico, e quelli alla dimensione “narratologica”
nelle scienze dell’uomo. Quest’ultima è divenuta oggi, dopo un lungo
cammino, un approccio accettato all’interno delle scienze umane, accolto
trasversalmente, tra l’altro, da tanti saperi. Ricordo che ancora nel 1991,
discorrendo del più e del meno, a New York, con un celebre psicologo
sociale, gli dissi: “Ho letto il suo articolo, molto bello, sulla narrativa
dell’azione sociale… Sono molto interessato a q uesti temi”. Lui rispose,
semplicemente: “Ah sì? ma lei che razza di accademico è? Full Professor,
Associate oppure Assistant?” E io: “Ma… a dire il vero sono Ricercatore,
in Italia. Qui si direbbe Assistant, ma lasciamo perdere…”. Questo,
semplicemente per dire che ancora oggi il mondo accademico funziona
così: se si è Assistant tendenzialmente si è empiristi e quantitativi, se si è
Associate si è più votati al cognitivismo, e quando si diventa “ordinari” si
può essere testualisti…
Detto questo, ribadisco che mi riconosco moltissimo in quello che
ho letto. Ho davvero apprezzato il libro di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali
innanzitutto perché è una miniera di materiale. È certamente costruito in
modo assai complesso, con un’apertura verso le “cosmologie” e le
strutture narrative auto-poietiche. Si percepisce che gli autori sono entrati a
fondo in queste dimensioni. Il libro insegna anche molte cose. Tra l’altro,
77
molti riferimenti bibliografici li ignoravo e, non ho difficoltà a confessarlo,
li utilizzerò.
Ritornerò più avanti, brevemente, sul libro.
2. Io sono stato invitato a p arlare di “media e violenza”, e quindi
immagino che tutti si aspettino alcune riflessioni sulla televisione. Ma io vi
parlerò di un argomento diverso, ovvero de “La violenza come mezzo”.
Da un po’ di anni non mi occupo di questioni criminali, se si fa
eccezione per il libro che gentilmente Adolfo ha citato prima, ovvero
quello pubblicato nel 2003 da Feltrinelli e intitolato La città e le ombre.
Crimini, criminali, cittadini. Il volume è il risultato di una ricerca che ho
condotto insieme a un criminale “redento”, che ha poi vinto un dottorato di
ricerca e scritto numerosi saggi. È solo grazie a l ui che sono riuscito a
portare a termine con successo la ricerca. Senza la mediazione di un gatekeeper non sarei mai stato in grado di intervistare ex mafiosi o rapinatori
di banche.
In questo itinerario ho testato un “metodo” che può essere definito
una “narratologia piatta” – e c’è un motivo per cui lo designo così – che
cerca il più possibile, anche se forse non riesce nel suo intento, di rifuggire
da interpretazioni profonde.
Mi spiego.
Tendenzialmente, la finalità di chi opera nel campo delle scienze
umane – sociologi, psicoanalisti, psicologi, criminologi, ecc. – è quella di
costruire dei meta-testi sui testi – esattamente come ha f atto Giampaolo
Lai quando ha interpretato un testo che, a sua volta, era l’interpretazione di
un testo. Naturalmente, alla base di questo processo troviamo un individuo
che non coincide con il suo testo. Difatti, a mio giudizio il testo, fin
dall’inizio, è una falsificazione di ciò che una persona pensa di poter dire.
Messa in questi termini la questione, come capirete, diventa
immediatamente assai complicata. Tendenzialmente, quello che come
etnografo – che se volete è una via di mezzo tra un antropologo, che non
sono, e un sociologo, che non sono più – cerco di far emergere è una sorta
di “verità nascosta alla luce del sole” all’interno delle relazioni umane.
Nella nostra indagine sul crimine a Genova, dopo aver intervistato
quattrocento persone “etichettate” come criminali, che comprendevano
giocatori d’azzardo, rapinatori di banche, autori di omicidi, ecc. quello che
è emerso è ch e tendenzialmente i crimini li può commettere chiunque,
senza distinzioni, e che chi li commette finisce in carcere.
78
Mi rendo conto che non è una scoperta poi così originale… però è
questa la principale indicazione che emerge dalla ricerca.
Stando così le cose, e nutrendo una simpatia ontologica per i
“ladri”, mi astengo da qualunque considerazione legata alla cura e al
trattamento penitenziario perché, come potrete intuire, è chi aro che nella
visione scientifica dei clinici ha senso che esistano perizie e a nalisi
psicologiche dei delinquenti. Ma se i crimini sono potenzialmente
commessi da chiunque, che cosa facciamo – anche in termini di
definizione sociale – di chi commette azioni violente e r eati gravi senza
essere giudicato incapace di intendere e volere? Consideriamo tutti
colpevoli e, di conseguenza, operiamo una pericolosissima estensione della
terapia all’intera società? Oppure mettiamo in discussione la distinzione
tra responsabilità e irresponsabilità?
E qui arrivo al punto, perché penso che la cosa migliore per onorare
un’occasione come questa sia di non nascondere un piccolo dissenso
rispetto a quanto Ceretti e Natali scrivono rispetto al “male”. Lo dico
apertamente. Occorrerebbe stare qui alcune settimane a discutere sulle
ascendenze teologiche, bibliche, filosofiche e psicoanalitiche, ma il
problema è che, se queste ultime non vengono chiarite, la parola “male”
rischia, come spesso accade, di diventare un “f atticcio” – come lo
definisce Bruno Latour giocando sulla stessa pronuncia, in francese, della
parola “fatto” e “feticcio”, e cioè un concetto che finisce per assumere una
dimensione mitica.
Personalmente, sono molto sensibile a letture di tipo teologico, e
tutto sommato ho molta più simpatia per i Catari che per san Paolo. Ne
discende che il “male” mi interessa, eccome. Ma il problema è il seguente:
questo concetto funziona nelle analisi dei fatti sociali in cui, più o meno, ci
riconosciamo?
È questa la domanda.
Per rispondere – e anticipo che ho qualche dubbio che quanto dirò
“funzioni” – faccio riferimento, appunto, alla questione della “violenza
come mezzo” e a una ricerca empirica che sto svolgendo sui militari, in
particolare su un tipo di killer contemporaneo, che altri non è ch e il
mercenario.
3. Un ragionamento sul mercenario è perfettamente coerente, a mio
giudizio, rispetto ai temi di cui stiamo parlando, perché è uno che uccide, è
79
un omicida, esattamente come lo sono i soldati, anche se i mercenari sono
molto meno numerosi dei soldati – e poi vedremo perché.
Permettetemi di aprire una piccola parentesi: in quel meraviglioso
libro scritto da Georges Dumézil e i ntitolato Ventura e sventura del
guerriero si analizza l’ambiguità del ruolo simbolico del militare e del
guerriero nella cultura indo-europea. In breve, una delle tesi contenute nel
volume è che la società affida al guerriero il compito di uccidere in suo
nome. Ciò produce un bel “clash simbolico”, poiché da un certo punto di
vista il guerriero incarna la funzione cardine dell’attività militare – la
difesa della società –, ma dall’altro è il colpevole delle uccisioni. Di
conseguenza, il militare è al contempo il nostro eroe – ricorderete tutti la
scena del ritorno dei carabinieri da Nassiriya, i carabinieri sui quali l’allora
presidente della Repubblica Ciampi protendeva le mani con un gesto
altamente simbolico – e uno del quale non sappiamo e no n vogliamo
sapere nulla proprio perché… ammazza… e lo fa con modalità che noi
perlopiù ignoriamo, a meno che non si desideri ardentemente di provare a
conoscerle.
Rispetto a qu esta figura ambigua, ambi-valente, qui fugacemente
ripresa, si può l eggere in controfigura quella del mercenario. Fino a u na
trentina di anni addietro il mercenario era identificato prevalentemente con
l’avventuriero che andava a commettere gesta orribili, in genere nel centro
dell’Africa, pagato per lo più dalle società che estraevano diamanti – e da
qualche parte nel mondo esistono ancora alcuni di questi personaggi.
Il mercenario contemporaneo, invece, è una figura totalmente
diversa.
È un killer, diretto o indiretto, la cui professione, nel corso di questi
anni, ha subito una interessantissima ri-legittimazione.
4. Genova, città nella quale vivo insieme al mio collega Alfredo Verde, è
davvero un luogo interessante per svolgere indagini etnografiche. Nei suoi
carrugi sono riuscito a conoscere molti ex paracadutisti, poliziotti, con i
quali chiacchiero spesso e che mi forniscono numerose informazioni, molti
contatti… È attraverso di loro che ho co nosciuto alcuni di questi
mercenari, di questi contractors, tra cui anche uno di quelli che ha subito
un processo molto celebrato dai media. Il fatto è che nei processi che li
riguardano non si vuole propriamente sostenere l’accusa, così come
avviene per qualsiasi altro processo nei confronti di combattenti civili
80
all’estero: quando c’è di mezzo un contractor le accuse sono fatte
letteralmente cadere.
In estrema sintesi, che cosa fa un contractor? Ufficialmente si
occupa di una quantità industriale di cose, che vanno dal lavoro nelle basi
alla logistica, dal guidare i camion… all’uso delle armi, come avviene,
ovviamente, sia in Iraq che in Afghanistan. Se il rischio che si corre è
quello di subire attacchi armati, è naturale che il mercenario faccia
anch’egli ricorso all’uso delle armi. Per esempio, quando nel 2004 ci fu la
famosa “battaglia dei ponti”, a Nassiriya, con il coinvolgimento di alcuni
nostri soldati, nessuno ha detto, ma tutti sapevano (in primis la
televisione), che i nostri soldati erano protetti da contractors filippini.
5. Uno degli aspetti più affascinanti dell’organizzazione militare
contemporanea è l’organizzazione “a cascata”. Per esempio, i funzionari
americani nel Golfo, o in Iraq o in Afghanistan, sono protetti da
contractors che possono essere prelevati dalle truppe, i quali, a loro volta,
sono protetti da altri soggetti, fino a che si arriva… per citare Bertold
Brecht, ai cani, ai polli e ai mendicanti, cioè ai disgraziati che vendono la
loro vita per poche centinaia di dollari al mese.
I contractors italiani appartengono al “ceto medio” di questa
piramide.
Per fornire dei dati aggiungo che siamo in una fase di espansione
del mercato, al punto che dopo le guerre post-fine del bipolarismo si
calcola che per proteggere i circa 200.000 soldati americani e i circa
90.000 europei che stazionano tra Iraq e Afghanistan siano presenti quasi
300.000 contractors.
Allora, qual è il punto? Perché racconto queste storielle e perché do
questi dati?
Il punto è essenzialmente che si tratta di persone che sono uscite
dall’ombra di un mestiere “ignobile”, cioè considerato vergognoso –
quello del killer – per acquistare, invece, il rango di difensore di alcuni
nostri interessi collettivi.
Fatte queste premesse, concedetemi qualche breve citazione tratta
da una ricerca sulla quale sto lavorando, in cui sono riportati brani “piatti”
di interviste: “piatti” nel senso che non opero alcun tentativo di
interpretazione “profonda”, per un motivo che risulterà abbastanza
evidente. Tanto per iniziare, descrivo rapidamente l’atteggiamento di un
militare, un ex ufficiale dei paracadutisti che ha fatto il contractor e oggi
81
ha abbandonato completamente questa attività. Per la precisione, egli è ora
un mio collaboratore in campo scientifico, e sta per prendere una laurea
specialistica… Questo testo si riferisce al primo episodio di combattimento
diretto in cui sono stati coinvolti ufficialmente alcuni soldati italiani dopo
la seconda guerra mondiale, vale a dire il famoso scontro al check-point
“Pasta”. A un certo punto il mercenario narra quello che vedeva dalla sua
postazione, dall’autoblindo sul quale era appostato: “Ombre che si
muovono e danzano davanti al mirino, trattengo il respiro, premo
lentamente il grilletto e parte la raffica controllata. I ragazzi sparano a
raffica e continuano, non serve a niente, eppure disintegrano qualunque
cosa ci sia all’interno, ma chi c’era dentro? Guardo nella penombra…
nessuno, le ombre, o qualunque cosa fossero, erano andate via. A terra
delle macchie di sangue, tanto sangue. Usciamo e di etro l’edificio
troviamo i miei ragazzi rannicchiati in un angolo con gli sguardi vitrei
dalla paura”.
Quella descritta è un’esperienza qualsiasi che qualunque militare
può aver vissuto. Ciò che emerge da questa intervista è, in buona sostanza,
il carattere assolutamente procedurale dell’attività. Quasi tutti gli
intervistati della mia ricerca sono persone che non avevano mai sparato a
un essere umano, persone che in genere avevano una scarsissima
professionalità, oppure militari anche bravi da un punto di vista strategico
ma che non si erano mai trovati in un conflitto a fuoco. Le mie domande
erano mirate esattamente a ricostruire il momento della verità, cioè quel
momento in cui ti esponi, esponi la tua vita e/o la prendi a qualcun altro.
Va aggiunto, per ben comprendere quanto stiamo dicendo, che nei
conflitti e nei combattimenti contemporanei il nemico non lo si vede mai.
C’è un bellissimo romanzo che si intitola Jarhead, scritto da Anthony
Swofford, alla fine del quale l’autore, un ex marine che aveva combattuto
nella guerra del Golfo, afferma: “Chiedo perdono a tutte le madri irachene
per aver ucciso i loro figli senza averli mai visti”. Non si vedono, dunque, i
nemici nei conflitti contemporanei: in un episodio che abbiamo ricostruito,
avvenuto Iraq, c’è un gruppo di marines su un elicottero che scambia degli
oggetti per delle armi, e procede a un “azzeramento”.
In questi casi l’attore non ha alcuna consapevolezza del genere di
violenza descritta nel libro di Ceretti e Natali, oppure in un altro scritto
bellissimo di Jack Katz, dove sono descritte analiticamente tutte le
interazioni che, confluendo, conducono all’atto conclusivo; qui, al
82
contrario, stiamo parlando di persone che schiacciano un grilletto e
polverizzano decine di persone.
Quasi tutti i resoconti che ho r accolto nel corso di questa ricerca,
che non è ancora terminata – per ora ho iniziato a l avorare su questioni
solo apparentemente poco significative, come per esempio la formazione
professionale, riservandomi di affrontare in un secondo momento l’analisi
in profondità –, sono resoconti che comportano l’assoluta rimozione
dell’aspetto sacrificale e soggettivo della violenza.
L’uso che faccio della parola “rimozione” è lontano dal significato
psicoanalitico. La curvatura che conferisco a questo termine rimanda
all’idea che quello che noi facciamo agli altri spesso è come se non fosse
visto dai nostri occhi: è s emplicemente una stringa in una procedura.
Letteralmente, è una pratica che recupera senso solo all’interno di altre
pratiche.
Per dirla in termini assai semplici, stiamo parlando di quelle attività
di aggressione mortale in cui sembra, a un certo punto, che la morte non
esista… I film contemporanei sulla guerra in Iraq iniziano lentamente a
mostrare che cosa significa trovarsi da quelle parti, soprattutto in relazione
al fatto di combattere un nemico che non c’è, perché come sapete la “War
on Terror” non ha senso, perché il terrorismo non è pr opriamente un
nemico, ma una tattica. Ne consegue, semplicemente, che il nemico
sparisce, così come la violenza e l’atto di uccidere. Rimane solo un’attività
procedurale.
6. È questo, in sintesi, il punto che desideravo toccare e approfondire.
Dato che il tema che mi è s tato assegnato all’interno di questo
seminario è “violenza e media”, alla luce di questi ragionamenti si evince
che, letteralmente, la violenza è un mezzo. In ogni caso, le analisi che
riguardano il modo in cui i media trattano questo tipo di violenza mostrano
una logica assolutamente analoga, vale a dire la produzione di una realtà
de-semantizzata.
Un ulteriore quesito riguarda quei comportamenti in cui la violenza
non è individuale, ma non è neppure una violenza collettiva. Questo
passaggio è decisamente interessante, perché la violenza qui è Gestalt,
ovvero qualcosa che ci sovrasta. È una specie di produzione di contesti di
violenza e di morte, all’interno dei quali noi di fatto siamo gettati, in modo
più o meno tragico, ma senza vedere...
83
E allora, tornando ancora al libro di Adolfo e L orenzo, ripeto per
l’ennesima volta che ho molto apprezzato la critica che Lonnie Athens fa
al modello interazionista classico, e soprattutto il tentativo da parte dei due
autori di ricostruire un m odello genetico-dinamico di produzione delle
logiche che portano poi a commettere atti violenti. Reputo che tutto quello
che è s tato detto negli interventi che ho avuto la possibilità di seguire
confermi – con integrazioni, variazioni, distinguo e rimandi giustificati da
altri ambiti culturali – la significatività di questo approccio. Condivido
pienamente, inoltre, che in questi ambiti di riferimento l’elemento
giudicante della legge conti relativamente, e intervenga solo come fatto
operativo. Detto altrimenti, c’è e… dobbiamo tenerne conto. Tutto questo,
naturalmente, riguarda la ricostruzione dei percorsi attraverso i quali
l’individuo, in situazioni interattive, cioè in situazioni di scambio di
informazioni interpersonali, produce azioni sociali.
Ma questi modelli interazionisti hanno senso, sono utili quando
parliamo di azioni compiute dai militari contemporanei?
La struttura dei ragionamenti contenuta nella ricerca di Ceretti e
Natali mi servirà moltissimo quando riusciremo a intervistare i militari,
mettendoli nella condizione di andare al di là delle banalità difensive che
raccontano. Ma le scienze umane e le scienze sociali in senso stretto sono
o non sono attrezzate per indagare la dimensione in cui gli individui sono
gettati in moduli di violenza organizzata globale?
Per concludere, sottolineando che la questione che ho sollevato non
è solo un vezzo di un sociologo del tutto anomalo, cito una frase, che
reputo ripugnante: è la dichiarazione di uno dei capi delle società di
contracting più potente, e ch e vi leggo invitando a meditarci sopra:
“Quando noi andiamo in qualche luogo, in qualche paese, avviene o
perché siamo stati ingaggiati dal governo degli Stati Uniti, o perché siamo
stati ingaggiati da qualche altro governo. Non mi vergogno di dire che lo
facciamo per soldi, ma lo facciamo secondo le regole”.
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Note su Cosmologie violente
Eligio Resta
Si tratta di poche e veloci considerazioni che avrei fatto a voce. Avrei
dovuto, ma soprattutto voluto esserci per discutere di questo straordinario
libro che ritengo indispensabile per chi voglia avvicinarsi a un tema così
delicato e, nonostante le conoscenze diffuse, sfuggente, come quello della
violenza. Adolfo Ceretti non è nuovo a saggi di questo tipo, ma stavolta vi
è qualcosa in più, come una condensazione di cose intorno a cui da anni
andava riflettendo. Per questo lo ringrazio di avermi suggerito ancora una
volta, insieme a Lorenzo Natali, nuove strade e nuove prospettive. Del
resto si sa, ma non è una conclusione cinica, il mistero della violenza sta
tutto nella sua “osservazione”.
1. Chi è competente a parlare della violenza? Chi ne ha studiato anche
marginalmente i percorsi sa che questa domanda appare, prima o p oi,
ineludibile. Non c’è un sapere esclusivo, monopolistico della violenza
eppure ogni sapere è competente a dire la sua su questo fenomeno. Anzi,
da sempre, essa si presenta come un grande “campo” semantico
(Bourdieu) che mette insieme spazi di esperienze e orizzonti di aspettative.
Per-vade forme, attraversa comportamenti, disegna uni-versi sempre
uguali e sempre differenti; a partire dall’epico e dal tragico. Non è un caso
che Simone Weil definiva l’Iliade come il grande poema della violenza e
non è un caso che in Eschilo essa si presentava sotto forma di somiglianza
e differenza rispetto al suo complice e rivale che era la “forza”. Nel
Prometeo incatenato Kratos (forza) e Bia (violenza) tengono in catene
Prometeo e, a E festo che domanda “ragioni”, Kratos accenna qualche
risposta mentre Bia rimane muta continuando nel suo compito (destino?).
Kratos trova giustificazioni, mentre la giustificazione della violenza è
quella di non averne alcuna. Sulla interpretazione seguente ha pesato
troppo il paradigma politologico, fino a ridurne la portata.
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Dunque una delle domande ricorrenti nei discorsi sulla violenza è,
non a caso, quella epistemologica. In maniera spesso non esplicitata, è
stata questa una delle preoccupazioni, e u no dei problemi, del discorso
scientifico. Per questo si è di ventati esigenti nei confronti del sapere
scientifico: si è p rogressivamente richiesto di non avvilire la complessità
del campo semantico e di conservare le connessioni, tante, non rigide,
della dimensione della violenza.
Qui tocco uno dei motivi di interesse vero per il libro,
interessantissimo, di Adolfo Ceretti e L orenzo Natali. Il paradigma
criminologico, puntuale, rigoroso, non si esaurisce mai dentro se stesso,
non si auto-perpetua, ma si apre pagina dopo pagina alla “antropologia”
della violenza (da non confondere con la sua riduzione disciplinare). Non
ci sono guardie confinarie delle discipline che tengano, quando i temi sono
veri. Ora, a p arte i f requenti e utilissimi excursus metodologici che
accompagnano puntualmente ogni approccio al tema (soprattutto quello
interazionista con le sue numerose varianti), merito indiscusso del testo è
quello di ridare continuamente spessore alle tante osservazioni, ai tanti
linguaggi con cui è s tata letta la violenza. Persino le narrazioni (story
telling) segnano una continua riapertura del campo che nessun linguaggio
formalizzato riesce inevitabilmente a chiudere.
2. Ogni cosmologia, in quanto tale, è sempre potenzialmente aperta a
qualsiasi dialogo tra bene e male… in presenza di uno scambio
significativo tra perpetratore e vittima. In tal senso “fare il male assume
[…] una dimensione relazionale” (p. 381). La categoria concettuale usata
mi pare rilevante: gli autori parlano di cosmologie, al plurale, lasciando
intravedere il carattere multiforme, plurale degli universi “vissuti” della
violenza; anzi, quanto più si ripresenta una spiegazione causale definente e
definitiva, tanto più il gioco della “genealogia” si allarga (a proposito, la
narrazione cinematografica e quella degli attori anonimi, individuali,
coincide in un gioco dotato di impressionante regolarità). Sarà forse da
prendere sul serio quello che diceva Antonin Artaud sull’impossibilità del
teatro? Dunque, le cosmologie! Termine mediato da Eugène Minkowski,
Lonnie Athens e altri, ma fortemente valorizzato da A dolfo Ceretti e
Lorenzo Natali: del resto uno dei primi saggi di Adolfo, che mi avevano
appassionato, era dedicato all’idea de L’orizzonte artificiale (1992). Le
tante cosmologie sono tutte costruite intorno al modello di un orizzonte di
senso, più o meno vero, più o meno sostitutivo, più o meno immaginario
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dentro cui l’esperienza violenta si va a collocare (anche se qui la
differenziazione tra vittima e violento va forse accentuata di più).
Ma le cosmologie – è questa una mia domanda, un problema che
voglio porre ad Adolfo – rischiano di depotenziare una sonda
estremamente efficace dell’orizzonte della violenza, peraltro presente in
tutto il li bro: voglio dire che al plurale delle cosmologie, tante, tutte
diverse, corrisponde un singolare, del tutto privo di vizio metafisico.
Questo singolare è la cosmologia della violenza. Tornando ai greci,
kosmos è un universo dentro il quale si realizzano ordine e armonia;
naturalmente! Il suo oppositivo è taxis come ordine imposto. Spesso i
concetti greci lavorano mantenendo giochi oscillatori: accade così per
l’archè che è insieme principio, origine, cominciamento, ma anche, ordine
imposto, comando, governo.
Kosmos indicava esclusivamente equilibrio di un m ondo che
naturalmente si reggeva “abbracciando” (l’Ungreifende di Karl Jaspers)
ogni suo contenuto: ogni altro intervento manipolatorio era taxis. La sua
semantica indicava il luogo che si vive e s i condivide: è a mbiente,
ecologia, luogo e senso comuni. Penso che tale semantica non vada
trascurata, soprattutto a proposito della violenza. Questo significa che la
violenza abita questo cosmo, ne è ricompresa, è presente, insieme alla
forza (sua metamorfosi) e al suo contrario (a proposito, quale è il contrario
della violenza?).
3. Ridare dimensione ecologica alla violenza è passo indispensabile per
evitare misconoscimenti e per prenderla sul serio: non è di altri, non
appartiene ad altri mondi, è nostra. Qui il pensiero antico ancora ci parla.
Aristotele nel definire la giustizia diceva che essa consiste nell’essere in
amicizia con se stessi, indicando così il vero orizzonte ecologico: “se
stessi” può essere l’individuo, ma può essere, appunto, il pianeta, il cosmo.
La violenza non abita gli altri, ma abita il noi.
Qui il passo ulteriore del ri-conoscimento è l a negazione del
misconoscimento, ma è anche la consapevolezza dell’auto-inganno. Nel
senso che bisogna sapere che ingannare la violenza è un gioco serio, che
non bisogna raggirare l’inganno della violenza, che non si può declamare,
ma che bisogna esperire per sé (l’obiezione dello stolto in Hobbes è vana).
La teoria finora ci ha r accontato che non sono molte le vie d’uscita. A
mostrarlo è i l singolare dialogo degli anni trenta del secolo scorso tra
Albert Einstein e Sigmund Freud sulla guerra. Nel gioco delle tante
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“guerre con altri mezzi”, ci dice la teoria, si scopre una sincera dimensione
virtuosa. Il diritto, i parlamenti, dove – e se – si coltivano meccanismi
dialoganti, possono sancire la neutralizzazione della violenza. Ma bisogna
prenderli sul serio, “non ingannarli”. Ovviamente la pace è un’altra cosa!
Essa non può essere letta come semplice “interruzione della guerra”. E
questo è il problema di ogni “pacifismo” e riguarda le relazioni tra gli
Stati, ma anche le pratiche istituzionali e i rapporti della vita quotidiana: il
globale e il locale. Intanto, in attesa dell’etica, non ci rimane molto altro;
ma non è poca cosa.
Nell’idea di cosmologia sono in gioco perlomeno due processi,
diversi ma convergenti: il primo attiene a soggetti e s tatuto
dell’osservazione, il secondo al gioco dei rimedi (il pharmakon). Per
esempio, la retorica dei “crimini contro l’umanità”! Come se il crimine
contro l’umanità non fosse umano, troppo umano, come se venisse da altri
mondi, come se l’umanità (il suo cosmo), non producesse il crimine e nello
stesso tempo il suo rimedio.
Il cosmo dimidiato (i violenti e i miti) accomuna e lega allo stesso
mondo e questo ci pone di fronte alle nostre responsabilità in maniera più
aperta. Non c’è rimozione che tenga, non c’è skandalon che regga. Del
resto, quando Walter Benjamin definiva la violenza (Tesi di filosofia della
storia), parlava di una relazione che lega un prepotente e un oppresso, che
assumono di volta in volta vesti e aspetti diversi, relazione di fronte alla
quale andava sancito un divieto di stupirsi.
Cosmologia allora è consapevolezza ecologica della presenza della
nostra violenza, con la quale si convive e ch e non giustifica alcuna
meraviglia. Ma è anche ri-conoscimento della possibilità del suo contrario.
Finora la semantica “vincente” ha legato tutto a meccanismi immunitari (il
diritto, la politica), ben noti nella loro doppiezza. Per anni, e continuo a
farlo, ho insistito sulla categoria platonica della legge come pharmakon,
insieme veleno e antidoto che ammala curando e c ura ammalando
(dimensione condivisa dalla violenza e dalla tecnica). Vi è un’altra
semantica, non vincente, esclusa ma non eliminata, che sfugge a ogni
precettività e che, per questo, aggira la paranoia dei ta pharmaka.
Essa è consegnata a modelli “debolmente” forti, paradigmatici senza
averne la prepotenza: sono fondati sulla “scommessa”, sul mettersi in
gioco personalmente, trasformando la paranoia della violenza (la coazione
a vendicarsi), la sua “fissazione” in metanoia, trasformazione dall’interno.
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A ben vedere è questo il problema che il libro indaga attraverso i
“racconti” e c he in maniera esemplare pone come il senso di una ricerca
sulla violenza. Lo fa lavorando su vari versanti, non ultimo quello
dell’etica laica, ma non trascurando di mettere a fuoco il tema del “male”.
Mi ha colpito perché, laicamente, il problema va posto e non
misconosciuto; del resto è stato quello il tema tardo di Norberto Bobbio
nella sua autobiografia e la domanda che si poneva era perché Stalin
muore nel suo letto e Anna Frank muore in un forno crematorio. In attesa
del tribunale della storia, ricordarlo è già un porre il problema.
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Indice
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali
Presentazione
Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali
Verso le “cosmologie violente”. Per una guida alla lettura degli atti
violenti
1. Una premessa
2. Oltre la psicopatologia e il determinismo sociale
3. La prospettiva criminologica di Lonnie Athens
4. Lo sguardo dello scienziato sociale: l’ottica interazionista
5. Dentro alcuni “concetti sensibilizzanti”: tra “soliloquio”,
“comunità-fantasma” e “interpretazioni delle situazioni”
6. Un esito mai scontato
7. Verso nuovi concetti sensibilizzanti: le “cosmologie violente”
8. Cosmologia e dimensioni psicopatologiche
9. Cosmologia e “macrocosmi” sociali
10. Cosa intendiamo fare?
Gabrio Forti
Il “dominio” penale come cosmogonia. Critica della violenza e
“bisogno interiore del diritto”
1. Narrare gli attori violenti
2. La rimozione moderna del carattere comunicativo della violenza
e il suo recupero “cosmologico”
3. Il “dominio” penale-mediatico
4. Al di là della cultura della violenza e del “bisogno interiore di
diritto”, lungo la “linea sottile tra l’amnesia e il debito infinito”
5
7
7
8
9
12
14
17
18
22
23
25
27
27
30
37
50
Alfredo Verde
Il problema delle narrative del reo
64
Appendice
75
Alessandro Dal Lago
Cosmologie, media e violenza
75
Eligio Resta
Note su Cosmologie violente
83
Fly UP