IntroduzIone di Stephen J. Burn «Sono pessimo nelle interviste», mi
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IntroduzIone di Stephen J. Burn «Sono pessimo nelle interviste», mi
© minimum fax – tutti i diritti riservati Introduzione di Stephen J. Burn «Sono pessimo nelle interviste», mi disse David Foster Wallace in una lettera scritta verso la fine dell’estate del 2007, «e le faccio solo se costretto con la forza».1 Il disagio di Wallace rispetto alle interviste è comprensibile sotto molti punti di vista. La sua riluttanza a esporsi al pubblico è ragionevole se si considera l’arco complessivo della sua carriera, un continuo andirivieni fra quella che Wallace definì (in un’intervista con Lorin Stein) la «schizofrenia dell’attenzione» e la desolazione della sofferenza personale. Allo stesso tempo, i temi che più lo ossessionavano – la consapevolezza di sé, la difficile economia di scambio che esiste fra il paesaggio interiore dei personaggi e il mondo che li circonda – chiamano in causa le stesse energie che si impiegano nel corso di un’intervista. Infine, una delle tecniche che Wallace tipica1. David Foster Wallace, lettera all’autore, 30 agosto 2007. [5] © minimum fax – tutti i diritti riservati mente usava per mettere in luce il carattere dei personaggi attraverso il dialogo – cioè la conversazione a una sola voce, quella che potremmo chiamare «intervista via Bell», da un termine coniato per riferirsi alla critica di Nabokov delle conversazioni telefoniche in cui il lettore sente solo uno dei due interlocutori2 – trasformò la dinamica dell’intervista in un elemento fondamentale della narrativa di Wallace nel periodo centrale della sua carriera (Infinite Jest, 1996, e Brevi interviste, 1999). Per Wallace, questo conglomerato di attività immaginativa rendeva la convenzionale intervista qualcosa di più di una formalità educata: un atto che non si poteva freddamente separare dalla pratica creativa. Ma ovviamente c’erano altre ragioni, più personali, per cui Wallace era diventato restio alle interviste. Dopo essere stato avvolto dalla bufera mediatica che si sollevò intorno a Infinite Jest, Wallace parlò di quell’esperienza in una lettera a Don DeLillo: Se cerchi di essere modesto e sincero, il giornalista parla della maschera di modestia e sincerità che hai indossato durante l’intervista. Il tutto, in definitiva, ti fa sentire solo ed è profondamente deprimente. E strano. Ho fatto venire gente a casa (errore tattico) [...] Il tipo del Post [...] che è diventato mio amico perché era la mia prima intervista e sono stato enormemente indiscreto su cose tipo le mie esperienze con la droga [...] e lui mi ha bloccato a metà del discorso e mi ha spiegato 2. Peter Lubin ha creato il termine descrittivo «chiacchierata via Bell» commentando la scena di Pnin in cui Nabokov riflette sull’«arte di inserire nella narrazione le conversazioni telefoniche». Cfr Peter Lubin, «Kickshaws and Motley», TriQuarterly, n. 17 (1970), pp. 187-208. L’intervista di Chris Wright contenuta in questo volume gioca con la forma sviluppata da Wallace, e un antecedente della tecnica wallaciana potrebbero essere racconti basati su interviste come «La spiegazione» di Donald Barthelme. [6] © minimum fax – tutti i diritti riservati con grande pazienza una serie di regole su cosa dire e non dire ai giornalisti...3 Ma i buoni consigli potevano solo attenuare, non eliminare completamente, l’intrusione nella privacy. Quando Frank Bruni intervistò Wallace per il New York Times Magazine, si sentì in dovere di elencare il contenuto dell’armadietto delle medicine dello scrittore («il suo bagno contiene una speciale pasta smacchiante per i denti che combatte gli effetti del tabacco da masticare. C’è anche una pomata particolare contro l’acne, per mantenere la pelle perfetta»),4 gesto che lo lasciò scandalizzato. Mettendo insieme tutti questi motivi di preoccupazione, Wallace giunse alla conclusione complessiva che una serie di difetti strutturali minavano le aspirazioni epistemologiche del formato dell’intervista, e nel 1999 dichiarò alla rivista Amherst che il problema delle interviste era «che a nessuna domanda veramente interessante si può dare una risposta soddisfacente all’interno delle restrizioni formali (ad es. la lunghezza di un articolo, la durata di un programma radiofonico, il pubblico decoro) imposte da un’intervista».5 Perché, allora, curare una raccolta di interviste a Wallace? Sul piano più elementare, è degno di nota il fatto che negli anni successivi alla sua morte, Wallace come persona (distinto dallo spettro puramente stilistico o tematico di Wallace come 3. David Foster Wallace, lettera a Don DeLillo, 16 marzo 1996. Archivi di Don DeLillo, Harry Ransom Humanities Research Center presso l’Università del Texas di Austin. 4. Frank Bruni, «The Grunge American Novel», New York Times Magazine, 24 marzo 1996, sez. 6, p. 41. 5. David Foster Wallace, «Brief Interview with a Five Draft Man», intervista con Stacey Schmeidel, Amherst, primavera 1999. (Ripubblicata su web il 17 dicembre 2010.) [7] © minimum fax – tutti i diritti riservati scrittore) è diventato una presenza sempre più frequente nella letteratura contemporanea americana: nel racconto «Extreme Solitude» di Jeffrey Eugenides (2010), in Generosity di Richard Powers (2009) e più direttamente in Libertà di Jonathan Franzen (2010), la biografia di Wallace sembra rielaborata e sparsa qua e là nella storia. Mentre la sua influenza tecnica è senz’altro ancora ampiamente evidente – la narrazione a scatole cinesi di Wallace viene giocosamente parodiata da Jennifer Egan in Il tempo è un bastardo (2010) – dal momento che una bella intervista o un bel profilo gettano luce sia sullo scrittore che sulla sua opera, è più facile porsi domande oggettive sui parallelismi fra la biografia di Wallace e le opere di cui sopra – e dunque, misurare l’impatto personale di Wallace sulla letteratura americana – dopo aver letto queste interviste.6 Cosa significa, ad esempio, venire a sapere da David Lipsky che Wallace aveva dipinto la sua stanza di nero ed era affascinato da Margaret Thatcher, e poi accorgersi che questi dettagli coincidono con la biografia di Richard Katz in Libertà? Allo stesso tempo, anche se Wallace si faceva poche illusioni sui limiti formali dell’intervista come genere, questo non significa necessariamente che le interviste da lui rilasciate fossero fallimentari. La sua acuta sensibilità per le restrizioni insite nel mezzo stesso rendeva l’intervista una sede produttiva per la notevole eloquenza di Wallace. Come sostiene Jonathan Franzen, «la struttura delle interviste» offriva un luogo formalmente circoscritto in cui Wallace «poteva attingere senza pericolo alla sua innata riserva di gentilezza, saggezza 6. Anche per il fatto che la saggistica di Wallace (come lui stesso raccontò a Tom Scocca) prevedeva «qualche infiorettatura», i testi che fanno riferimento alla vita di Wallace contengono spesso degli errori. Charles B. Harris ha affrontato questo argomento in «David Foster Wallace’s Hometown. A Correction», Critique, vol. 51, n. 3 (2010), pp. 185-86. [8] © minimum fax – tutti i diritti riservati e competenza».7 Non sorprende, dunque, che una delle fonti più citate negli studi critici su Wallace sia un’intervista – la fondamentale conversazione con Larry McCaffery sulle pagine della Review of Contemporary Fiction – e che, al di là delle corrispondenze biografiche, le interviste di Wallace siano importanti per uno studio testuale più approfondito della sua opera. Anche se Wallace stava in guardia contro la tendenza degli intervistatori a richiedere spiegazioni a posteriori sulla genesi di un’opera finita,8 le sue osservazioni sui propri temi e le proprie tecniche sono spesso penetranti. Gli argomenti che hanno magneticamente attratto la riflessione critica di Wallace per quindici anni – l’ironia, il suo rapporto con altri scrittori – sono ampiamente rappresentati in questa antologia. Ci sono inoltre affermazioni rivelatorie sulla sua posizione rispetto ai master in scrittura creativa (specie nell’intervista di Hugh Kennedy e Geoffrey Polk), sui suoi tentativi di venire a patti con la fede religiosa (in particolare nei pezzi di Streitfeld e Arden), sul ruolo delle note a piè di pagina nella sua scrittura, e sulla sua complessa concezione dell’architettura dei suoi romanzi. Nella successione delle interviste, si nota anche che cominciano a emergere tendenze che indicano un mutamento negli interessi di Wallace. Mentre distoglie l’attenzione da Brevi interviste con uomini schifosi, descrivendo i suoi obiettivi come «aspetti di tecnica, di forma, [...] roba di cui non so se voglio parlare», nelle interviste che accompagnano Oblio si 7. Jonathan Franzen, omaggio a Wallace in Five Dials. Celebrating the Life and Work of David Foster Wallace 1962-2008, Hamish Hamilton, Londra 2008, p. 16. 8. «Fare l’analisi critica» di un testo dopo la pubblicazione, disse Wallace a Steve Paulson, è «molto diverso» dal processo «molto più terra terra e pratico» con cui l’opera viene effettivamente creata. [9] © minimum fax – tutti i diritti riservati preoccupa viceversa ripetutamente di dare un contesto alle citazioni tratte dai racconti puntando l’attenzione sulla molteplicità del punto di vista narrativo. Parlando di «Mister Squishy» con Michael Goldfarb, ad esempio, Wallace nota che il punto di vista «fa avanti e indietro tra un narratore onnisciente in terza persona e l’interno della coscienza di [...] Terry Schmidt». Analogamente, nel leggere un brano tratto da «L’anima non è una fucina», Wallace sottolinea un’altra prospettiva variegata quando dice a Steve Paulson che il suo narratore «racconta la storia in parte da bambino e in parte da adulto». Al di là di questi aspetti tecnici, è anche possibile riscontrare cambiamenti più ampi, più generali nella vita lavorativa di Wallace nel corso di vent’anni di incontri con gli intervistatori. All’inizio del 1987, ad esempio, quando Helen Dudar scrisse il suo profilo di Wallace per il Wall Street Journal, i commenti del giovane scrittore sulle proprie abitudini professionali suonano leggeri e disinvolti. Tredici anni dopo – conversando con John O’Brien e Richard Powers – Wallace si esprime sullo stesso argomento con tono notevolmente più solenne. La realizzazione di un libro di questo tipo dipende dalla disponibilità degli intervistatori e dei proprietari dei diritti a permettere la ripubblicazione dei testi. Muovendomi all’interno di questi limiti, ho cercato di selezionare le interviste in modo che il libro ripercorra l’intero arco della carriera di Wallace – dai primi pezzi di Katovsky e della Dudar a quella che ritengo essere la sua ultima intervista ufficiale, uscita sul Wall Street Journal 9 – testimoniando al tempo stesso lo spet9. Nel suo profilo di Wallace pubblicato sul New Yorker, D.T. Max lascia intendere che il pezzo di Didier Jacob sia stato «la sua ultima intervista importante, rilasciata al Nouvel Observateur nell’agosto del 2007». In realtà, [ 10 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati tro totale dell’onnivoro talento di Wallace come scrittore. Le interviste raccolte, quindi, si soffermano su ciascuna delle sue principali opere di narrativa, mentre i pezzi di Tom Scocca e Caleb Crain affrontano vari aspetti della non-fiction di Wallace. Alcune delle interviste sono disponibili online presso l’editore originario – gli eccellenti archivi del sito web della Dalkey Archive Press, per esempio, rappresentano una risorsa di particolare valore per i lettori non solo dell’opera di Wallace, ma della letteratura contemporanea nel complesso. Tuttavia, nel selezionare i materiali per la raccolta, non mi sono tanto preoccupato della relativa accessibilità quanto della qualità, e in particolare della qualità complessiva della riflessione. Nelle più di settanta interviste rilasciate da Wallace, è raro trovarne qualcuna che non abbia momenti di grande profondità, ma Wallace si sottoponeva raramente a lunghe interviste di tipo accademico, e dunque a molti articoli manca quell’intensità costante che ha fatto meritare ad altri l’inclusione nel volume. C’è una chiacchierata online con Word, ad esempio, troppo caotica per essere riportata nella sua interezza, ma che ha comunque dei momenti di valore in cui Wallace dichiara la sua antipatia nei confronti di un romanzo del 1987 di Joseph McElroy intitolato Women and Men («Quel libro secondo me era una vera ciofeca») ma segnala l’affinità fra Infinite Jest e il precedente romanzo di l’intervista è stata condotta nel 2005, e Jacob mi dice che il pezzo non è mai stato pubblicato. Appare dunque qui per la prima volta. Cfr D.T. Max, «The Unfinished», New Yorker, 9 marzo 2009, p. 48 e sgg. Wallace, ovviamente, non ha mai fatto interviste dedicate direttamente a Il re pallido, ma dato che «L’anima non è una fucina», contenuto in Oblio, era stato originariamente concepito come un capitolo del suo romanzo postumo, la discussione di Wallace con Steve Paulson serve al doppio scopo di affrontare i temi centrali di Oblio e del Re pallido. [ 11 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati McElroy, Lookout Cartridge (1974).10 Wallace era, nel senso meno superficiale del termine, uno scrittore americano – appassionato ai problemi culturali, sociali e politici che emergevano nel suo paese – e dal punto di vista artistico deve moltissimo alla tradizione culturale americana. Oltre a McElroy, parla di DeLillo, Pynchon, Gaddis e altri fenomeni artistici degli Stati Uniti. In un’intervista non contenuta in questo volume, ad esempio, l’evoluzione del blues lo porta a fare un illuminante resoconto dello sviluppo della propria tecnica: c’è un saggio [...] intitolato Within the Context of No Context, di George W.S. Trow [...] dove lui contrappone la sgangheratezza a una sorta di eleganza patinata, e sta parlando di un certo momento della storia del blues [...] Credo che per quelli della mia generazione [...] un certo tipo di sgangheratezza [...] viene associata non tanto all’ingenuità o alla goffaggine, quanto alla sincerità [...] essere genuino e fatto in casa, invece che essere [...] tale e quale a un prodotto industriale.11 Per Wallace, uno scrittore come Gaddis, la cui opera era strategicamente «molto incasinata» e ostica, sarebbe diventato un’importante «influenza stilistica». Il senso di «sgangheratezza» ereditato da Gaddis è evidente per molti aspetti nell’opera di Wallace, in particolare nella mancanza di un finale perfettamente risolto nei suoi primi due romanzi, ossia quella che nell’intervista con Michael Goldfarb definisce la sua scelta di far chiudere Infinite Jest «fuori dalla cornice del quadro». Eppure, col passare del tempo, le interviste a Wal10. David Foster Wallace, «Live Online with David Foster Wallace», Word, 17 maggio 1996. 11. Intervista radiofonica con Michael Silverblatt per Bookworm, kcrw, Santa Monica, 3 agosto 2000. [ 12 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati lace forniscono un indice delle coordinate sempre variabili del suo rapporto con la letteratura americana. Se da una parte Wallace prendeva le distanze da quel filone di realismo contemporaneo americano che definì (in un’intervista con Donn Fry) «alla “barbecue in cortile e tre martini”», il suo rapporto con «i figli di Nabokov» era palesemente più contraddittorio. Pur rivendicando l’influenza di Gaddis sulla sua tecnica di scrittura, ci sono momenti, durante la conversazione con la Donahue, in cui liquida sia Gaddis che Pynchon come «avanguardia commerciale». Allo stesso tempo riconosceva, come disse a Michael Goldfarb, che alcune opere realistiche erano «davvero [...] stimolanti». Tuttavia, per quanto sia utile notare la genealogia americana che emerge dalle interviste di Wallace, la sua immaginazione non era delimitata dai confini nazionali, e l’elenco delle influenze europee significative su cui la critica wallaciana non si è ancora soffermata comprende Albert Camus, l’opera critica di Craig Raine, nonché Georges Perec e altri autori dell’Oulipo. Anche se Wallace viaggiava pochissimo all’estero – visitò la Francia nel 2001, l’Italia e l’Inghilterra nel 2006 – venne intervistato da numerose testate europee, e alcune sue interviste sono apparse in Italia, sulla Repubblica e Il Sole 24 Ore, e in Germania, su Die Zeit e Die Welt. Non ho però inserito queste interviste nell’antologia perché le registrazioni originarie degli articoli europei che avevo selezionato non erano più disponibili, e l’attenzione con cui un autore come Wallace sceglieva le sfumature delle parole rendeva quanto mai indesiderabile l’effetto da film sottotitolato che si sarebbe raggiunto traducendo in inglese un italiano a sua volta già tradotto dall’inglese. A volte le interviste raccontano la storia della loro stessa realizzazione, ma evidentemente intervistare Wallace era [ 13 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati un’esperienza così memorabile da dar vita a un suo sottogenere-ombra: il negativo fotografico dell’intervista, in cui l’autore produce una sorta di meta-articolo sul suo tentativo di intervistare Wallace. L’esempio principale di questo genere è «In Search of David Foster Wallace» di Joe Woodward, che descrive una vana «odissea per intervistare dfw», ma è notevole anche il resoconto di Fritz Lanham del suo tentativo di intervistare Wallace nel 1996 pur avendo letto solo un centinaio di pagine di Infinite Jest (l’intervista non va affatto bene: «Wallace mi ha guardato come se avessi perso il lume della ragione», scrive Lanham della reazione a una delle sue domande). Il saggio più curioso su un’intervista a Wallace, però, è senz’altro quello di Joshua Ferris intitolato «The World According to Wallace», che descrive l’incontro fra i due scrittori quando Ferris – all’epoca laureando presso l’Università dell’Iowa – intervistò Wallace per il giornale studentesco.12 Le interviste raccolte in questo volume si sviluppano in maniere diverse. Alcune si sono svolte secondo la prassi giornalistica più canonica: l’intervista di Laura Miller per Salon, ad esempio, è stata condotta al Prescott Hotel di San Francisco nel 1996, durante il tour promozionale di Infi12. Cfr Joe Woodward, «In Search of David Foster Wallace», Poets & Writers, gennaio-febbraio 2006; Fritz Lanham, «My Brusque Encounter with David Foster Wallace», Houston Chronicle, 18 settembre 2008; Joshua Ferris, «The World According to Wallace», The Observer, 21 settembre 2008. L’articolo di Ferris dà un promettente indizio quando sostiene che la sua «intervista fu pubblicata dal Daily Iowan pochi giorni prima che Wallace facesse tappa a Iowa City durante il suo book tour». Ma la sorte del pezzo non è chiara: Wallace tenne un reading alla libreria Prairie Lights di Iowa City il 28 febbraio 1996, e l’archivista del Daily Iowan ha spulciato tutti i numeri del febbraio e marzo 1996 per trovare l’intervista, ma invano. In seguito ho contattato l’agente di Ferris, che mi ha riferito che in realtà Ferris non è sicuro che il suo pezzo sia stato effettivamente pubblicato. [ 14 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati nite Jest. Registrato, trascritto e editato dalla Miller, il pezzo è stato pubblicato senza altri contributi da parte di Wallace. Altri pezzi hanno avuto una genesi più collaborativa: hanno preso forma in seguito a un reciproco scambio di versioni successive, un processo simile a quello da cui nascono le interviste della Paris Review. L’intervista a Wallace di Larry McCaffery merita una discussione più ampia, in questo senso, sia per via della sua intrinseca importanza per gli studi wallaciani, sia perché la conversazione ha avuto una lunga gestazione cooperativa. Il dialogo fra McCaffery e Wallace si svolse in un momento pregnante sia per l’intervistatore che per l’intervistato. Wallace a quel punto non aveva ancora iniziato la vera e propria stesura di Infinite Jest, anche se era chiaro che stava ragionando sulla direzione in cui voleva andare con la sua scrittura. McCaffery ricorda che sembrava ansioso di parlare seriamente con un accademico dello stato attuale della letteratura, e che continuava a fare riferimento a due scrittori che secondo lui rappresentavano i poli opposti della produzione narrativa contemporanea di qualità: William T. Vollmann, che rappresentava l’arte letteraria più alta, e Mark Leyner, simbolo dello scrittore brillante le cui insolite e appariscenti doti tecniche si nutrivano di aspetti della cultura mediatica moderna. Wallace era palesemente preoccupato che la sua opera fosse più vicina all’esempio di Leyner. McCaffery, da parte sua, era interessato a parlare di cambiamenti generazionali. Stava lavorando su un’intervista a Leyner e una a Vollmann per una raccolta di interviste con gli autori americani più innovativi (Some Other Frequency, 1996) ed era immerso nella formulazione del suo concetto di «Avant-Pop», un movimento successore del postmodernismo che rispecchiava in maniera più accurata l’esplosione mediatica di fine [ 15 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati Novecento. McCaffery fa risalire l’intervista all’aprile del 1991, quando andò in Massachusetts a trovare Wallace in una casa malridotta dove lo scrittore viveva come uno studente appena laureato (a un certo punto Wallace richiama l’attenzione di McCaffery sull’«ambiente palaziale nel quale attualmente mi nascondo»13). Dopo essere andati a cena fuori, i due tornarono a casa di Wallace, dove parlarono fino a tarda notte, riempiendo tre cassette da novanta minuti che alla fine produssero una trascrizione di 140 pagine. La conversazione a ruota libera spazia da quello che Wallace definì «il lettore senza sbocco esterno, confinato in se stesso» a una lunga serie di scrittori («in Madame Bovary c’è un “clic”, e cazzo, se non lo senti hai proprio qualcosa che non va», dice Wallace), per concludere con una lunga discussione sul rapporto della letteratura americana con la libertà e il sogno americano. Fra le parti più interessanti ci sono quelle in cui Wallace racconta la sua altalenante relazione con Pynchon: L’unica volta che ho visto qualcuno [...] mostrare davvero dove potrebbe portarci una trascendenza è Pynchon nell’Arcobaleno della gravità [...] la paranoia è una reazione naturale al solipsismo, d’accordo, ma la trascendenza di Pynchon è... oddio, molto simile al Satana di Milton. Ti rendi conto del problema e cerchi di far tesoro di quello che resta a disposizione. Cazzo, se io sono solo e le strutture metafisiche sono soprattutto minacciose e mi rendono paranoico, allora la paranoia è una metafora fondamentale, e cazzo, voglio dare a questa cosa tutto l’ordine, la bellezza e la complessità possibile [...] ma 13. I passi qui citati sono estratti da una trascrizione del dialogo originale fra McCaffery e Wallace; li riporto qui, ma non li ho inclusi nell’intervista che il lettore troverà più avanti, perché pur essendo intrinsecamente interessanti, non si inserivano con sufficiente naturalezza nel fluido testo finale dell’intervista della Review of Contemporary Fiction. [ 16 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati comunque sia, ho perso molto interesse nei confronti di Pynchon perché mi sembra che ci sia un modo diverso di trascendere la realtà. Invece di un modo satanico, un modo angelico, e per me – di nuovo, non riesco a spiegarlo bene a parole – in qualche modo ha a che fare con quel «clic». La versione finale dell’intervista, apparsa sulla Review of Contemporary Fiction, fu il frutto di un lungo processo di editing, in cui Wallace e McCaffery si scambiarono varie stesure del testo fino a ridurre la discussione alla sua forma attuale, più compressa. La versione contenuta in questo volume è lunga circa duemila parole di più di quella pubblicata sulla Review of Contemporary Fiction, perché attinge al materiale della penultima stesura su cui avevano lavorato McCaffery e Wallace.14 Le regole stabilite dall’editore per la collana «Literary Conversations» prevedono che le interviste vengano riprodotte nella loro interezza, perciò in questa antologia c’è qualche inevitabile (e spesso rivelatoria) ripetizione. È degno di nota, per esempio, il fatto che Wallace sottolinei la differenza fra scrittura comunicativa ed espressiva sia parlando con Donn Fry che con John O’Brien, mentre la frequenza con cui 14. Il materiale «nuovo» nell’intervista di McCaffery è importante a diversi livelli: a parte il semplice fatto che estende la nostra comprensione di Wallace, ci sono anche paragoni significativi con la scrittura di Franzen che approfondiscono il senso di una parziale coincidenza fra la poetica dei due autori. Nella discussione su «Per sempre lassù», ad esempio, l’enfasi sul tentativo di nascondersi e la vergogna sembra trovare un parallelo nelle successive dichiarazioni di Franzen sulle maschere e la «vergogna di esporsi» nella sua intervista alla Paris Review. Cfr «The Art of Fiction 207: Jonathan Franzen», intervista con Stephen J. Burn, Paris Review n. 195 (2010), pp. 38-79. Anche la versione dell’intervista di Mark Shechner qui presentata è leggermente più lunga di quella apparsa sul Buffalo News. [ 17 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati ricorda la sua difesa giovanile degli elementi pop e mediatici nella sua scrittura indica la longevità della sua resistenza ad alcuni aspetti dell’insegnamento della scrittura creativa ricevuto presso l’Università dell’Arizona. Nei casi in cui un’intervista conteneva un evidente errore – la data di uscita di un libro, per dire, o il nome del committente di Wallace – l’ho corretto senza segnalarlo. A parte questo, le uniche modifiche consistono in piccoli tagli alle interviste radiofoniche (sono state accorciate le frasi troppo lunghe, eliminate battute standard tipo l’indicazione del numero telefonico della radio da parte dell’intervistatore, e così via) e nel cambiamento del titolo di due interviste.15 Oltre che ai detentori dei diritti dei singoli pezzi, sono riconoscente al David Foster Wallace Literary Trust per avermi dato il permesso di citare passi delle lettere di Wallace, e vorrei 15. Il titolo dell’intervista di McCaffery è stato cambiato per distinguerla dalla versione pubblicata, mentre il titolo della prima intervista del libro ha bisogno di qualche spiegazione in più. Quando Bill Katovsky intervistò Wallace per Arrival all’inizio del 1987, diversi elementi non erano ancora entrati in gioco: David non era ancora noto con le sue tre iniziali, e la pubblicazione di «Lyndon» su Arrival rappresentava la sua prima uscita su una testata a diffusione nazionale (Wallace ripudiò esplicitamente come esperimenti giovanili i testi pubblicati al college, eliminandoli dal suo curriculum già a partire dal 1993). Appassionato degli spaghetti western con Clint Eastwood, Katovsky se ne uscì con l’idea di un servizio fotografico in cui Wallace compariva accanto a un cactus, un saguaro, nei dintorni di Tucson. Katovsky intitolò il suo pezzo «Impiccalo più in alto», in omaggio all’omonimo film con Eastwood, alludendo alla fama e ai riconoscimenti che prevedeva sarebbero presto arrivati al giovane autore. Ma, come Katovsky dice oggi, certamente non poteva immaginare che un giorno David si sarebbe tolto la vita proprio impiccandosi. «Il titolo dell’articolo di Arrival, a posteriori, sembra una di quelle coincidenze che si incontrano in un racconto di Philip K. Dick». [ 18 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati anche ringraziare Julie e Chloe Burn, Caroline Dieterle, Charles B. Harris, Didier Jacob, Larry McCaffery, Steven Moore e le mie spie internazionali: Andreas Kubik, Roberto Natalini e Toon Staes. (Traduzione di Martina Testa.) [ 19 ] © minimum fax – tutti i diritti riservati indice Introduzione di Stephen J. Burn David Foster Wallace. Un profilo di William R. Katovsky (1987) Un ragazzo prodigio e il suo strambo romanzo d’esordio di Helen Dudar (1987) In cerca di una «guardia» a cui fare da «avanguardia». Un’intervista con David Foster Wallace di Hugh Kennedy e Geoffrey Polk (1993) Un’intervista estesa a David Foster Wallace di Larry McCaffery (1993) L’intervista a Salon: David Foster Wallace di Laura Miller (1996) p. 5 p. 23 p. 31 p. 36 p. 53 p.108 © minimum fax – tutti i diritti riservati La terra della desolazione di David Streitfeld (1996) David Foster Wallace si irrigidisce se butti lì che il suo libro è sciatto di Anne Marie Donahue (1996) I giovani scrittori e la realtà televisiva di Donn Fry (1997) L’autore di culto del «romanzo infinito» da mille pagine alle prese con il circo mediatico che ha fustigato di Matthew Gilbert (1997) David Foster Wallace di Tom Scocca (1998) David Foster Wallace: nella società degli uomini schifosi di Lorin Stein (1999) David Foster Wallace carbura di Patrick Arden (1999) Misfatto: breve intervista con David Foster Wallace di Chris Wright (1999) Dietro gli occhi attenti di David Foster Wallace, scrittore di Mark Shechner (2000) Una conversazione con David Foster Wallace e Richard Powers di John O’Brien (2000) Verso l’infinito di Caleb Crain (2003) To the Best of Our Knowledge. Intervista con David Foster Wallace di Steve Paulson (2004) p.120 p.127 p.131 p.135 p.145 p.156 p.164 p.175 p.179 p.188 p.203 p.211 © minimum fax – tutti i diritti riservati The Connection. Intervista con David Foster Wallace di Michael Goldfarb (2004) Intervista con David Foster Wallace di Didier Jacob (2005) Gli anni perduti e gli ultimi giorni di David Foster Wallace di David Lipsky (2008) p.224 p.248 p.257