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panoramiques n° 55
PANO RAMI QUES Periodico semestrale – Sped. in a.p. – art. comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Aosta – Tassa riscossa / Taxe perçue VALLE d’AOSTA – VALLée d’AOSTE Leonardo Brzezicki • Jeremy Saulnier Basil da Cunha • Matthew Porterfield Hany Abu-Assad • Andrea Pallaoro Alessandro Rossetto • Wa n g B i n g 55 II semestre 2013 E éDITORIAL Un cambiamento nella continuità Come fondere cultura e mercato: da qualche anno la rivista Panoramiques, espressione della «cinephilie» valdostana e al contempo importante strumento di riflessione per tutti gli spettatori della Saison Culturelle, ha saputo unire a tali obiettivi quello di far conoscere il territorio regionale, mettendo in evidenza l’attività della Film Commission Valle d’Aosta. Le potenzialità della Valle d’Aosta come sfondo di vicende di portata internazionale, ma anche la sua storia e la sua cultura tradizionale, ricevono oggi un nuovo impulso, nel momento in cui Panoramiques diventa, insieme al suo sito internet, il principale strumento di comunicazione della Film Commission, la pubblicazione che si potrà leggere in formato cartaceo o in pdf sul nostro sito. La missione che ci siamo dati – promuovere la nostra regione in ambito nazionale e internazionale, inducendo società di produzione, televisioni o singoli cineasti a sceglierla per girarvi i loro film – passa attraverso una precisa strategia, che comprende sia la nostra presenza nei principali festival/mercati di cinema, quali quelli di Venezia, Berlino, Cannes, Locarno, Roma, Toronto, Amsterdam e Nyon, sia una comunicazione puntuale delle attività cinematografiche che hanno luogo in Valle d’Aosta. Ogni lettore potrà dunque vedere come questo numero includa, oltre alle schede critiche concernenti i film della Saison Culturelle e alle conversazioni con i più interessanti cineasti dell’anno, un dettagliato panorama delle produzioni, regionali, nazionali o internazionali, che hanno scelto la Valle d’Aosta come teatro delle loro storie. In tale ambito ci preme segnalare la sempre più vivace presenza delle produzioni documentarie locali, che, siano esse il frutto di un laboratorio come Figure con paesaggi (curato da Bruno Oliviero e Luca Mosso), oppure singole iniziative, s’impongono sempre più spesso all’attenzione nazionale e internazionale. In tal senso ci sembra che il ruolo di una rivista come Panoramiques – trasmettere delle esperienze attraverso la scrittura, fra diverse culture e generazioni - sia ormai innegabile e irrinunciabile. Mentre il botteghino italiano sta vivendo una delle stagioni più fiacche e le sale cinematografiche ancora debbono registrare il passaggio al digitale, magari sfruttandolo per quello che può offrire, il presente numero di «Panoramiques» cerca di cogliere nel presente quei segnali di rinnovamento che il cinema comunque offre. Il numero è diviso in due sezioni pensate come il fronte e il retro di uno stesso universo. “Film” raggruppa il meglio della distribuzione italiana, dove tra nomi riconosciuti e graditi ritorni, si delinea un quadro a forti tinte – con il vituperato cinema italiano a ritagliarsi uno spazio di primo piano. Ali ha gli occhi azzurri, L’intervallo, Padroni di casa, Su Re, Gli equilibristi, Bellas Mariposas – fatte salve le debite differenze – rappresentano esiti interessanti, capaci di varcare i confini nazionali. Ugualmente significativi sono i ritorni di Amelio e Bertolucci, con due film che al contempo segnano una cesura e li riallacciano allo spirito dei loro esordi. Il resto della sezione cerca di portare avanti il racconto ininterrotto di autori cari alla rivista (Tarantino, Cronenberg, Bigelow, Assayas, Nuri Bilge Ceylan), ma anche di cogliere quelle pellicole che appaiono come fortunate eccezioni culturali nell’ancora troppo omologato panorama italiano (E qui tra tutte citiamo due titoli provenienti da cinematografie poco note, La bicicletta verde, primo film di una regista donna dell’Arabia Saudita e Come pietra paziente, toccante ritratto al femminile diretto da un regista afgano). “Festival” compone invece il consueto ritratto delle proposte che le maggiori manifestazioni hanno avuto il merito di promuovere. Questo numero è segnato dalla volontà di dare voce a registi esordienti o comunque poco noti anche al pubblico dei cinefili. Una particolare attenzione è riservata alla scena indie americana. Al duo Porterfeld – Saulnier (i due registi sono legati da un rapporto di collaborazione, oltre che di fiducia) abbiamo accostato l’incontro con un regista italiano “emigrato” negli US. Andrea Pallaoro - dopo Minervini (incontrato nel numero precedente), è un altro caso di un filmmaker italiano che ha trovato negli spazi americani una terra d’elezione. Completa il numero una conversazione con Wang Bing, cineasta tra i più originali e coerenti. Con Ai Feng, il filmmaker cinese torna a confrontarsi con un luogo che è al contempo un preciso spazio fisico e simbolo di uno stato d’animo. Il suo è un ritratto corale che supera i confini del genere documentario, li scardina e li mette in crisi. Questa volontà di scavalcare le barriere per un’urgenza di racconto o di rappresentazione è probabilmente il filo che collega anche il lavoro dello svizzero Basil da Cunha e del regista palestinese Hany Abu-Assad; già notati dagli addetti ai lavori, entrambi sono ritornati al festival di Cannes (alla “quinzaine” il primo al “certain regard” il secondo) con proposte coraggiose e originali. Luciano Barisone Presidente Film Commission Vallée d'Aoste Carlo Chatrian Editoriali 2 Film Commission Vallée d’Aoste Progetti sostenuti 4 FILM 50 e 50, di Leonardo Gandini 7 Alì ha gli occhi azzurri, di Daniela Persico 8 Amanti passeggeri, di Lorenzo Rossi 9 Amour, par Thierry Méranger 10 Argo, di Mauro Gervasini 11 Bella addormentata, di Simone Emiliani 12 Bellas Mariposas, di Alessandro Stellino 13 Bicicletta verde, di Cristina Piccino 14 Buon anno Sarajevo, di Roberto Manassero 15 C'era una volta in Anatolia, di Giona A. Nazzaro 16 Ciliegine, di Alexine Dayné 17 Come pietra paziente, di Silvia Colombo 18 Cosmopolis, di Giona A. Nazzaro 19 Dark shadows, di Mauro Gervasini 20 De rouille et d'os, par Charlotte Garson 21 Detachment, di Leonardo Gandini 22 Django unchained, di Marco Gianni 23 È stato il figlio, di Giuseppe Gariazzo 24 Elles, par Charlotte Garson 25 Gli equilibristi, di Roberto Manassero 26 Et si on vivait tous ensemble? par Charlotte Garson 27 La Faida, di Nora Demarchi 28 Un giorno devi andare, di Umberto Mosca 29 La guerre est déclarée, par Alexine Dayné 30 Hunger, di Simone Emiliani 31 L'Intervallo, di Alessandro Stellino 32 Io e te, di Daniele Dottorini 33 Il lato positivo, di Alexine Dayné 34 The Master, di Leonardo Gandini 35 La mia vita è uno zoo, di Silvia Colombo 36 Monsieur Lazhar, di Roberto Manassero 37 Moonrise Kingdom, di Silvia Colombo 38 Noi siamo infinito, di Federico Pedroni 39 On the road, di Alessandro Stellino 40 Padroni di casa, di Umberto Mosca 41 Paris-Manhattan, par Alexine Dayné 42 La Parte degli angeli, di Grazia Paganelli 43 Les Petits mouchoirs, par Charlotte Garson 44 Pietà, di Massimo Causo 45 Le Prénom, par Thierry Méranger 46 panoramiques Année XXIV, n°55 Revue de cinéma Fondateur Luciano Barisone Directeur Carlo Chatrian Rédacteur en Chef Roberto Manassero Rédaction Andrea Carcavallo, Elisa Collé, Isabelle Godecharles, Alessandra Miletto Il Primo uomo, di Giuseppe Gariazzo 47 Promised Land, di Giuseppe Gariazzo 48 Qualcosa nell’aria, di Alessandro Stellino 49 Quartet, di Giuseppe Gariazzo 50 Re della terra selvaggia, di Leonardo Gandini 51 Il Rosso e il blu, di Umberto Mosca 52 Ruby Sparks, di Massimo Causo 53 Silent souls, di Grazia Paganelli 54 Sister, di Giuseppe Gariazzo 55 Il Sospetto, di Leonardo Gandini 56 La Sposa promessa, di Simone Emiliani 57 Su Re, di Federico Pedroni 58 To Rome with love, di Marco Gianni 59 Tutti i nostri desideri, di Marco Gianni 60 Tutto parla di te, di Andrea Bergese 61 Venuto al mondo, di Alexine Dayné 62 Vita di Pi, di Daniele Dottorini 63 Zero Dark Thirty, di Federico Gironi 64 FESTIVAL International Film Festival Rotterdam, 2013 Tra la vita e la morte, conversazione con Leonardo Brzezicki, a cura di Roberto Manassero 65 Berlinale 2013 Il silenzio attraverso la musica, conversazione con Matthew Porterfield, a cura di Roberto Manassero 69 Festival international du film, Cannes 2013 La distruzione della classe media, conversazione con Jeremy Saulnier, a cura di Roberto Manassero 74 Les fous, les outsiders, les héros maudits, entretien avec Basil da Cunha, par Carlo Chatrian 78 La città divisa, conversazione con Hany Abu-Assad, a cura di Giuseppe Gariazzo e Grazia Paganelli 81 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Venezia 2013 Terra d'origine, conversazione con Alessandro Rossetto, a cura di Nora Demarchi 84 Wasted land, conversazione con Andrea Pallaoro, a cura di Roberto Manassero 88 Errante, ossessivo, impudico. Ritratto di Wang Bing, di Carlo Chatrian 91 Follia e amore, Conversazione con Wang Bing, a cura di Daniela Persico 92 Collaborateurs Propriété Andrea Bergese Massimo Causo Silvia Colombo Alexine Dayné Nora Demarchi Daniele Dottorini Simone Emiliani Leonardo Gandini Giuseppe Gariazzo Charlotte Garson Mauro Gervasini Marco Gianni Federico Gironi Roberto Manassero Thierry Méranger Umberto Mosca Giona A. Nazzaro Grazia Paganelli Federico Pedroni Daniela Persico Cristina Piccino Lorenzo Rossi Alessandro Stellino Film Commission Vallée d'Aoste Direction et rédaction 33, rue de Paris – 11100 Aoste – Italie Tél. : +39 0165 26 17 90 [email protected] Graphisme et mise en page Pier Francesco Grizi Charvensod (AO) – Italie Enregistrement au tribunal d’Aoste n°8/90 Expédition par abonnement postal Art. 2, alinéa 20/c de la loi n°662/96 Aoste La version PDF de la revue est disponible en ligne sur le site www.filmcommission.vda.it Impression ITLA - Aoste En couverture : Medeas Progetti Sostenuti A WAY WE GO (2013) MARE E CARBONE (2013) TROFEO MEZZALAMA (2013) Genere: SportDoc Regia: Alex Schiller. Produzione: IsenSeven. Periodo di riprese: Aprile 2013. Location in VdA: Courmayeur. Genere: Documentario Regia: Gianluca Rossi. Produzione: Korova. Periodo di riprese: Ottobre/Dicembre 2013. Location: Melito Porto Salvo (RC). Genere: Documentario Regia: Angelo Poli. Produzione: GiUMa Produzioni S.r.l. Periodo di riprese: Maggio 2013. Location in VdA: Alpi Graie e Pennine. La produzione tedesca IsenSeven, una fra le più importanti nel panorama europeo ed internazionale per la realizzazione di snowboard film, ha realizzato a Courmayeur buona parte delle immagini del nuovo skimovie A Way We Go. Come abitudine della casa di produzione bavarese, la regia è stata curata da Alex Schiller e Vincent Urban, due professionisti di comprovata esperienza che hanno alle spalle diverse produzioni di questo genere negli ultimi dieci anni. Grazie ad una diffusione a livello internazionale, che prevede un tour di 20 date nelle più importanti città europee (Monaco, Mosca, Berlino e Praga per citarne solo alcune), la diffusione massiccia sul web (RedBull TV, iTunes, YouTube, Vimeo) e una distribuzione in DVD a livello mondiale (USA/CAN, Europa, Giappone, Australia e Nuova Zelanda) questa nuova produzione rappresenta una vetrina d’eccezione per la Valle d’Aosta. Film Commission Valle d’Aoste, in collaborazione con Chambre valdôtaine, ha appoggiato l’iniziativa coprendo parte delle spese sostenute dalla produzione sul territorio valdostano e fornendo vari servizi di consulenza legati all’organizzazione generale e alla logistica. Margherita, 30 anni, è nata e cresciuta ad Aosta, ma la sua famiglia paterna è meridionale, originaria di Melito di Porto Salvo in provincia di Reggio Calabria. Margherita si sente profondamente legata a quei luoghi, per lei carichi di ricordi, dove affondano le sue radici e dove torna ogni anno per le vacanze estive. Ogni angolo, ogni dettaglio le è caro: le strade sono sentieri conosciuti, le piazze sono finestre sul passato, i volti delle persone raccontano storie conosciute. Accanto ad immagini piacevoli e ricorrenti ve ne sono però alcune scomode ed impegnative, per certi versi più interessanti da mettere a fuoco attraverso la speciale lente della macchina da presa. Lo spettrale stabilimento e la storia surreale della Liquichimica, l’ecomostro costato negli anni ‘70 ben 1300 miliardi delle vecchie lire e chiuso dopo appena due giorni perché “altamente inquinante”, ha sempre affascinato Margherita. “Il trofeo Mezzalama è sempre stata una gara-evento essendo la prova di scialpinismo più alta delle Alpi poiché supera la vetta del Castore (m 4226) e il Passo del Naso dei Lyskamm (m 4150). È anche la gara più classica perché è nata nel 1933, nell’epoca in cui sorgevano le prime stazioni sciistiche e i primi impianti di risalita, ma il Trofeo Mezzalama è rimasto fedele all’autentico sci-avventura dei pionieri che allora come oggi affronta l’alta montagna senza alcun aiuto meccanico, il vero fuoripista sia in salita, sia in discesa. ” La casa di produzione trentina “GiuMa”, specializzata nella creazione di film, video e spot legati principalmente al mondo della montagna, ha realizzato un documentario sulla più famosa classica delle Alpi. Il progetto ha impegnato in Valle il regista Angelo Poli ed il suo staff fra il mese di marzo e quello di aprile. Il film racconta l’edizione 2013 della “Maratona delle Alpi”, seguendo i protagonisti della gara durante gli allenamenti, la competizione e le fasi successive al termine della manifestazione. Un avvincente spaccato agonistico-sportivo che si arricchisce lungo la salita di elementi umani e paesaggistici unici. Alex Schiller – Artista e regista di origine olandese (Leiden) ed appassionato di musica e sport estremi, si trasferisce molto presto a Monaco di Baviera dove stabilisce la sua base operativa. Insieme ad alcuni amici fonda la casa di produzione IsenSeven, specializzata nella concezione e nella realizzazione di Skimovie di alta qualità. Curatore della serie Madventures, esordisce dietro la macchina da presa nel 2009 con Let’s Go Get Lost. Impegnato a tutti i livelli nell’attività di IsenSeven, Alex non rinuncia al suo appuntamento annuale con la regia: nel 2010 esce Don’t Panic seguito l’anno successivo dal bellissimo Kaleidoscope. Negli ultimi due anni vedono infine la luce Fool’s Gold e A Way We Go. Gianluca Rossi – Diplomato in regia cinematografica all’ESEC di Parigi ed in regia teatrale al CIC di Roma, ha studiato regia e recitazione con Nikolaj Karpov, Alan Woodhouse, Irina Promptova, Giovanni Lombardo Radice, Michel Chion, Luc Pagès e Ugo Chiti. Ha diretto spettacoli teatrali (Perversioni sessuali a Chicago di Mamet, Le serve di Genet, Il sogno di una notte d’estate di Shakespeare, Camere da Letto di Ayckburn), cortometraggi, documentari e trasmissioni televisive. Nel 2008 ha esordito nelle sale cinematografiche italiane con il lungometraggio Ho ammazzato Berlusconi. Da oltre dieci anni è titolare della casa di produzione Korova, attraverso la quale ha prodotto, ideato e realizzato numerose opere audiovisive a carattere sia autoriale che promozionale, pubblicitario ed istituzionale. Parallelamente svolge attività didattiche, insegnando recitazione, movimento scenico e tecniche del cinema e dell’audiovisivo. GiUMa Produzioni S.r.l. – É una costituenda Srl pluripersonale che intende operare sui mercati televisivi e multimediali nazionali e internazionali per la produzione di contenuti (Media Content Production) e per la produzione esecutiva di audiovisivi, film e programmi televisivi. Tutti i membri sono residenti in provincia di Trento e vantano un'esperienza ventennale. Obiettivo principale è raccogliere intorno al progetto GiUMa giovani filmmaker, videomaker e produttori innovativi di contenuti, attrarre capitali in Trentino per la produzione di contenuti e proporre nuovi format a broadcaster e grandi distributori. 5 NINÍ (2013) Genere: Documentario Regia: Gian Luigi Giustiniani. Soggetto: Gian Luigi Giustiniani Produzione: La Fournaise. Periodo di riprese: autunno/inverno 2013. Location in VdA: Massiccio del Monte Bianco. Lorenzo Boccalatte riscopre, tramite i filmati, le fotografie e i diari lasciatigli dalla madre, Ninì Pietrasanta, una delle poche donne scalatrici che negli anni trenta ha documentato per anni le sue imprese con una cinepresa 16mm. Il centro della sua attività alpinistica era la Valle d’Aosta e il gruppo del Monte Bianco in particolare. Le immagini della montagna negli anni ‘30, le vette imbiancate, Ninì che scia con i compagni, Ninì che scala su una parete di roccia. Fra quei fotogrammi in bianco e nero appare anche Gabriele, padre di Lorenzo, morto poi a causa di una frana quando il figlio aveva solo un anno. Lorenzo, che conosceva il padre solo come un bravo pianista, ora ha finalmente la possibilità di vedere lui e la madre mentre arrampicano insieme, uniti in cordata. Poi ancora scalate, Gabriele filmato da Ninì, sino a che su una morena un gruppo di persone intorno ad una croce ne piange la morte. Lorenzo, oggi settantenne, guarda nei filmati della madre, suo padre, poco più che trentenne, che lo tiene in braccio, lo osserva mentre piange nella culla, gli insegna a muovere i primi passi. Gian Luigi Giustiniani – Studia a Milano Scienze dei Beni Culturali all’Università Statale e successivamente segue il corso di documentario presso le Scuole Civiche di Cinema, Televisione e Nuovi Media. A fine corso realizza il suo primo documentario La casa del Drago. Dal 2005 inizia a lavorare come videomaker, direttore della fotografia, operatore e montatore per altri registi o in video commerciali, molto spesso in ambito musicale. Nel 2013 termina il documentario Montagna Dei Vivi, realizzato all’interno del workshop di formazione al documentario organizzato da Film Commission denominato “Figure con paesaggi”. Il film è stato selezionato al festival Visons du reel di Nyon. PERICOLO VERTICALE (2013) Genere: Action Reality Regia: Simone Gandolfo. Interpreti: Luca Argentero. Produzione: Inside Productions di Luca Argentero e Myriam Catania. Periodo di riprese: Febbraio/Giugno 2013. Location in VdA: Aosta, Cervinia, Courmayeur e in generale tutto il territorio valdostano. POLAROID (2013) Genere: Fiction Regia: Roberto Cuzzillo. Interpreti: Salvatore Li Cusi, Peter Connelly, Pierre Lucat. Produzione: SAP11. Periodo di riprese: Maggio 2013. Location in VdA: Aosta. Serie televisiva che racconta in modo spettacolare e coinvolgente l’attività quotidiana e straordinaria al tempo stesso del Soccorso Alpino Valdostano, impegnato con il suo staff (guide alpine, medici, verricellisti e piloti di elicotteri) ad intervenire prontamente sui terreni più insidiosi del territorio regionale. Immagini girate nella zona di Cervinia, che hanno visto protagonista anche Luca Argentero nella duplice veste di produttore e narratore, hanno completato il lavoro di una troupe che da febbraio ad aprile 2013 ha vissuto a stretto contatto con l’équipe del SAV per seguire giorno dopo giorno gli interventi ed i soccorsi effettuati in tutte le loro fasi. La messa in onda della serie è prevista per gennaio 2014; le 8 puntate (di circa 30 minuti) saranno trasmesse in prima serata sul canale più importante della piattaforma satellitare Sky. La pellicola, prodotta dalla casa di produzione torinese SAP11, è inserita all’interno di un progetto più ampio, il lungometraggio intitolato Remember me Berlin composto da altri sette video di registi internazionali selezionati al “Berlinale Talent Campus 2012” e che hanno come tema guida generale “l’identità nel mondo di oggi”. Polaroid racconta il percorso emotivo di un ragazzo omosessuale che, attraverso un incontro casuale e rivelatore, giungerà a comprendere la vera natura dell’amore, forza motrice rivoluzionaria per decodificare ed affermare la propria identità. In questo contesto vengono sviluppati i temi paralleli della provincia, dei rapporti giovanili, della crisi economica, della difficoltà generale di relazione con se stessi e con gli altri. La sensibilità di Cuzzillo, già dimostrata nei precedenti lavori, mette in luce, attraverso una recitazione asciutta ma efficace, le contraddizioni dei nostri tempi. Simone Gandolfo - Partecipa in qualità di attore a numerose fiction televisive (Ferrari, Gino Bartali – L’intramontabile, Distretto di Polizia, La leggenda del bandito e del campione e R.I.S. Roma). Firma la regia del film horror Evil Things. Luca Argentero - Debutta come attore nel 2005 nella serie televisiva Carabinieri. Esordisce nel 2007 sul grande schermo nella pellicola Saturno contro di Ferzan Ozpetek. A partire da quell’anno è protagonista di molti lungometraggi fra cui Lezioni di cioccolato, Solo un padre, Diverso da chi?, Il grande sogno, Oggi Sposi, La donna della mia vita, C’è chi dice no, Mangia prega ama. Fra i suoi ultimi lavori si segnalano Bianca come il latte, rossa come il sangue e Cha Cha Cha. Roberto Cuzzillo - Nasce a Torino nel 1983. Il suo percorso di studi lo avvicina a piccoli passi al mondo del cinema e della fiction nel quale entra senza più esitazione nell’ultimo decennio. Nel 2005 è fondatore della casa di produzione Enzimistudio con cui produce alcuni lavori tra cui il cortometraggio Lygofobia presentato alla 64° Edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Nel 2008 produce e dirige il suo primo lungometraggio Senza Fine presentato in numerosi festival internazionali e distribuito in vari paesi europei fra i quali Germania, Francia, Olanda e Spagna. Camminando Verso è il suo secondo lungometraggio prodotto dalla stessa Enzimistudio e dalla Sap11 di Fabrizio Sapino. 6 ProgettiSostenuti RICHARD THE LIONHEART: REBELLION (2013) Genere: Fiction Regia: Stefano Milla. Interpreti: Malcolm McDowell, Gregory Chandler, Debbie Rochon. Produzione: Claang Entertainment (Italia), Wonderphil Productions (Usa) e Doma Entertainment (Russia). Periodo di riprese: Agosto '13/Febbraio '14. Location in VdA: Castello d’Introd e Castello di Fénis. Dopo essere miracolosamente scampato alla prigionia in una nascosta fortezza e dopo aver dimostrato il suo valore conquistandosi l’appellativo di “Cuor di Leone”, Richard si unisce ai fratelli Henry the Young e Geoffrey nella ribellione in atto contro loro padre il re Henry II. Siamo alla fine del XII secolo e l’epoca medievale è continuamente scossa dai turbolenti rapporti tra Inghilterra e Francia in un incessabile gioco di alleanze, tradimenti e complotti. Per quanto “contro natura”, la ribellione dei tre fratelli reali contro il padre è appoggiata da re Louis di Francia che accoglie i ribelli a Parigi per siglare gli accordi. Stefano Milla – Collabora a diverse produzioni indipendenti in qualità di attore e aiuto regista. Negli anni successivi concorre presso numerosi Festival cinematografici europei con lavori autoprodotti. Nel 1992 il suo lungometraggio video Armaghedon ottiene la distribuzione in Home Video. Nel 1993 realizza il suo primo cortometraggio in pellicola vincendo il Primo Premio Spazio Italia presso il Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino. Nel 1997 e 1998 realizza due cortometraggi di ambientazione medievale che gli consentono, nel 1999, di ottenere finanziamenti pubblici per la produzione del suo primo lungometraggio in pellicola: La via della gloria. Il film esce nelle sale nel luglio del 2002 e partecipa ai premi David di Donatello e Ciak d’Oro. Nel 2005 conclude il cortometraggio Claang: l’origine preludio di un nuovo lungometraggio di genere fantasy. Il cortometraggio viene accettato dal Dragoncon Film Festival di Atlanta, presso il quale riscuote ampio successo e consente a Stefano Milla di iniziare collaborazioni con produzioni americane. Melhores resorts de inverno (2013) Genere: TV Show Interpreti: Raquel Iendrick. Produzione: KN Video (Tele Globo). Periodo di riprese: Febbraio 2013. Location in VdA: La Thuile. Importante produzione televisiva brasiliana presente sul territorio valdostano nel mese di febbraio in quel di La Thuile per girare alcune significative immagini della stazione sciistica e del suo comprensorio. Si tratta della troupe itinerante del TV Show denominato Melhores Resorts de Inverno, prodotto da KN Video e trasmesso in Sudamerica da uno dei canali satellitari di maggior successo di Tele Globo. È in sintesi una trasmissione dedicata agli amanti degli sport invernali che ha come scopo quello di presentare agli spettatori i comprensori sciistici più esclusivi ed attrezzati del pianeta, illustrandone nel dettaglio piste, impianti, servizi, personaggi e tradizioni in maniera simpatica e competente. Star indiscussa della trasmissione è la giovane e bella snowbordista brasiliana Raquel Iendrick a cui sono affidati i commenti e parte delle riprese in soggettiva sulle piste. Dopo le tappe americane (fra cui Aspen, Lake Louise, Copper Mountain e Ushuaia) ed i principali comprensori sciistici francesi e tedeschi, La Thuile è stata la sola tappa italiana della “colorata” produzione brasiliana. KN Video - A partire dal 1990 KN Video ha creato una vera e propria industria del divertimento con produzioni per la televisione e per la rete. La società sudamericana ha accompagnato la crescita di internet in Brasile e ha investito molto in produzioni esclusive per la web-TV. La possibilità di accedere a contenuti on-demand si è sviluppata con la crescita della banda larga in quel paese. Uno dei più grandi successi del network è stato il lancio della TV on-line, riservata ai giovani, Jam nel 2007. Il canale ha raggiunto un traguardo di 44.000 accessi simultanei. Oggi il network vanta un’altra partnership di successo con l’importante Globo-Sat. Oltre alla produzione con contenuti on-line, KN è entrato anche nel mercato delle trasmissioni dal vivo via internet, con vari prodotti. IL TRAFORO DEL MONTE BIANCO (2013) Genere: Documentario Regia: Riccardo Piaggio, Marco Serrechia, Luca Bich, Daniele Di Gennaro. Produzione: Associazione Pourparler. Periodo di riprese: Luglio 2013/Luglio 2014. Location in VdA: Monte Bianco. Il film racconta, ispirandosi al volume Un varco a Nord-Ovest, le visioni, i protagonisti, la storia e le cronache del Traforo del Monte Bianco, dalla nascita fino ai giorni nostri. Le vicende vengono narrate con un’attenzione particolare ai temi attuali dei rapporti socio-economici tra Italia e Francia e a quelli culturali delle idee di frontiera e di sviluppo sostenibile. É la storia di un viaggio ideale, dalle intuizioni dei primi pionieri a fine ‘800, alla caduta dell’ultimo diaframma di roccia il 14 agosto 1962 (ricordato lo stesso giorno del 2012 con un convegno a Courmayeur, le cui immagini entreranno nel film), al periodo 1962-1965, fino agli anni del boom della mobilità e al tragico incidente del 24 marzo 1999. Fanno parte di questo viaggio nella storia, nella cronaca e nell’attualità, i protagonisti di ieri e di oggi, oltre a testimoni dei rapporti italo-francesi e a intellettuali autori di riflessioni sui temi della frontiera e dello sviluppo sostenibile. Hanno infine uno spazio fondamentale le immagini d’archivio che costituiscono la mappa visiva e concettuale del documentario. Riccardo Piaggio – Giornalista culturale, ricercatore e curatore di eventi. Ha collaborato con «La Stampa» ed è curatore e coeditore della guida My Local Guide Valle d’Aosta (Lightbox 2011). Ha ideato e diretto Festival ed eventi (Babel, Festival della parola), curato produzioni musicali e culturali. Ricercatore presso il centro CSS-Ebla (Torino), ha insegnato all’Università (Torino e Aosta) Giornale in Ateneo e Progettazione culturale. È consulente Autogrill SpA per i progetti innovativi e consulente per la progettazione e ricerca delle nuove Officine Grandi Riparazioni di Torino (Fondazione CRT-OGR). Ha ideato, scritto e prodotto il cortometraggio “Viva la Musica popolare” (2006) con il regista Joseph Péaquin, Sta realizzando per Minimum Fax Media e France3, il film per i 50 anni del Traforo del Monte Bianco. il giro del mondo in 60 film saison culturelle 50 e 50 50/50 Regia: Jonathan Levine. Sceneggiatura: Will Reiser. Fotografia: Terry Stacey. Montaggio: Zene Baker. Musiche: Michael Giacchino Scenografia: Annie Spitz. Costumi: Carla Hetland. Interpreti: Joseph Gordon-Levitt, Seth Rogen, Anna Kendrick, Bryce Dallas Howard, Anjelica Huston, Serge Houde, Andrew Airlie, Matt Frewer, Philip Baker Hall. Produzione: Mandate Pictures, Relativity Media. Distribuzione: Eagle Pictures. Paese: Usa. Anno: 2011. Durata: 99 minuti. Secondo un vecchio adagio, un attimo prima di morire ti passa tutta la vita davanti. Ma cosa succede se la morte, anziché essere imminente e sicura, è «solo» incombente e probabile? Il film di Jonathan Levine parte da qui: a un ragazzo nel fiore degli anni viene diagnosticato un tumore che ha discrete possibilità (da qui il titolo) di rivelarsi incurabile. In casi come questi, a sfilarti davanti non è il passato, ma il presente. Che per il protagonista si rivela pieno di buchi e di zone d’ombra: una madre ansiogena, un padre incapace di intendere, una fidanzata non irreprensibile, un amico che tende a strafare. Da quando negli Stati Uniti sono esplosi i corsi universitari di scrittura creativa, il cinema indipendente americano abbonda di sceneggiatori di talento, con quel che ne consegue in termini di copioni originali, dialoghi brillanti e personaggi estrosi. Cui si aggiunge un certo gusto nel piazzare in alto l’asticella della sfida narrativa: come appunto in questo caso, dove viene costruita una commedia a partire da una premessa – un cancro in giovane età – che proprio ilare non è. Difficile trovare in film del genere punti d’attrito; difficile, però, non rimpiangerli. Il film si gioca nella prima parte tutte le carte sgradevoli, poi imbocca la strada dell’ottimismo e non la abbandona più. Famiglia, amicizia, amore: i sacri valori della cultura americana ne escono rinvigoriti, rinsaldati dalla comparsa di una disgrazia che, per come andranno le cose, finisce per somigliare più a un colpo di fortuna, un’occasione d’oro per setacciare nella propria vita ciò (e chi) vale veramente la pena di trattenere. Connessa all’alta qualità della scrittura è la questione della messa in scena, particolarmente significativa se considera il cinema indipendente americano di questi ultimi anni. In film come 50 e 50 lo stile visivo è infatti funzionale al processo, in questo caso ben più importante, di ottimizzazione dei dialoghi e delle interpretazioni. In sintesi, la tradizione cormaniana di un cinema povero di mezzi ma ricco di invenzioni, implausibile nelle trame ma pirotecnico sul piano formale, nel giro di qualche decennio si è rovesciata nel suo contrario: un cinema stilisticamente normalizzato, spesso verboso e retorico, per quanto non sempre nell’accezione negativa di questi due termini. Con le invenzioni visive ormai appannaggio esclusivo dei film a grande budget prodotti dalle Major, opere indipendenti come 50 e 50 pongono l’asticella della sfida visiva a un livello medio: le immagini corredano i dialoghi, con l’eccezione di qualche sequenza dove la musica prende il comando delle operazioni, allo scopo di enfatizzare gli attimi di scoramento del protagonista e segnalare l’imminenza del momento fatidico. Insomma, 50 e 50 appartiene alla categoria dei film che non si prendono rischi, anche se in principio sembrerebbe voler fare il contrario. In realtà, l’improvvisa e inattesa prossimità al decesso del protagonista non ne scatena pulsioni negative, rabbie irrefrenabili, atteggiamenti corrosivi verso il mondo. La sua reazione non ne fa un personaggio oscuro, in rotta con l’universo. Più che un malato, un martire, che porta su di sé, con stoica sopportazione, sventure che farebbero perdere la bussola a molti. La conclusione finisce così per apparire come una sorta di remunerazione etica per il comportamento adottato in precedenza. E anche quando prova a essere scorretto, il film sceglie di assecondare un destino non cieco ma in grado di scorgere e percorrere i sentieri della morale. Se Gus Van Sant nello splendido L’amore che resta, prodotto da Bryce Dallas Howard (qui fra gli interpreti principali), raccontava la morte come punto d’innesco di una filosofia dell’esistenza improntata alla quotidianità, 50 e 50, in modo brillante e a tratti anche divertente, si accontenta di vedere nella malattia un’occasione per diventare, se non più belli, almeno più buoni. Leonardo Gandini 7 8 il giro del mondo in 60 film ALÌ HA GLI OCCHI AZZURRI saison culturelle Regia: Claudio Giovannesi. Soggetto: Claudio Giovannesi, Filippo Gravino, Francesco Apice. Sceneggiatura: Claudio Giovannesi, Filippo Gravino. Fotografia: Daniele Ciprì. Musica: Claudio Giovannesi, Andrea Moscianese. Montaggio: Giuseppe Trepiccione. Scenografia: Daniele Frabetti. Costumi: Medile Siaulytyte. Interpreti: Nader Sarhan, Stefano Rabatti, Brigitte Apruzzesi, Marian Valenti Adrian, Cesare Hosny Sarhan, Fatima Mouhaseb, Yamina Racemi, Salah Ramadan, Marco Conidi. Produzione: Acaba Produzioni, Rai Cinema. Distribuzione: BIM Distribuzione. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 94 minuti. Non è solo un titolo preso in prestito, il filo che collega l’opera seconda del giovane regista romano Claudio Giovannesi allo scandaglio poetico di Pier Paolo Pasolini: in entrambi vi è la stessa tensione etica, capace di trasfigurare la quotidianità lasciando spazio a una narrazione mitica. Al contrario del cinema «sporco» del poeta friulano, unico cineasta a saper utilizzare il filtro della composizione pittorica senza sottrarre nulla alla materia dell’immagine cinematografica impastata di polvere e dinamismo, Alì ha gli occhi azzurri si colloca sulla scia del cinema realista contemporaneo, in cui la fotografia conserva una certa plasticità: come se l’occhio della macchina da presa sapesse quando seguire da vicino i corpi dei protagonisti e quando fermarli in totali mai scontati, suggeriti sicuramente dalla direzione magistrale di Daniele Ciprì. Proprio questo doppio binario tra un realismo «educato» e un lirismo «trattenuto» diventa la chiave espressiva dell’urgenza di un progetto che più di altri sa raccontare l’oggi, la contingenza storica di un’Italia nuova, che non ha ancora trovato un’espressione al cinema se non in maniera bozzettistica. L’incontro tra il giovane regista e i ragazzi della cosiddetta seconda generazione, adolescenti nati cioè in Italia ma cresciuti in famiglie radicate in altre culture, è alla base della sceneggiatura, che proprio grazie all’immersione nell’orizzonte dei giovanissimi riesce ad andare oltre al mimetismo per accostarsi a un esperimento di auto- racconto (certo, molto coordinato) in grado di costruire la trama epica di una nuova società. E non stupisce che solo grazie a questi interventi di cineasti nelle aule scolastiche italiane (lo stesso Giovannesi, nel precedente documentario Fratelli d’Italia, 2011, grazie al quale ha preso vita l’odissea di Nader, oppure Salvatore Mereu, nella finzione improvvisata di Tajabone, 2010, interpretato dai ragazzi delle scuole medie della Cagliari multietnica) si stiano ricominciando a mettere in crisi le formule tradizionali e stereotipate della narrazione per trovare nuove forme di racconto, più sfumate e sfuggenti. Nader e Stefano sono veri adolescenti di Ostia, amici che si sono trovati a dover superare grandi conflitti tra loro, in una comunità disgregata che sembra sempre più divisa in aree di appartenenza capaci di creare barriere o scontati sodalizi. E Giovannesi, dopo un lungo lavoro sul territorio (in parte, come si diceva, confluito nel documentario Fratelli d’Italia), accompagna questi due adolescenti in una messa in scena, pedinatrice e discreta, che assume l’andamento mitico di una genesi: una settimana per andare al fondo della propria coscienza, per passare dall’atto al pensiero, da un istinto alla meditazione, per accorgersi che dietro una scelta c’è una cultura. Nader ha entrambi i genitori egiziani ma vive con fierezza il suo stato di italiano di seconda generazione, pronto a rinnegare tutto – compresa la sua religione – per seguire il compagno fidato, Stefano, e la fidanzatina, Brigitte. Seguendo la Profezia di Pasolini: "… deponendo l’onestà / delle religioni contadine, dimenticando l’onore della malavita, / tradendo il candore / dei popoli barbari, / dietro ai loro Alì / dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere – / usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno / dall’alto del cielo per derubare…". Evitando molti luoghi comuni dei film sul multiculturalismo, Giovannesi si àncora ai giovani corpi dei ragazzi e allo sguardo magnetico di Nader per andare al cuore di un conflitto di cui è incapace di immaginare soluzioni rassicuranti e neppure semplici vie d’uscita. Perché nella mutevolezza del fisico e nella precarietà (ma anche nell’assolutezza) delle idee, gli adolescenti si offrono come rappresentazione emblematica della possibilità che è offerta alla società, ormai ridotta a una terra deserta battuta soltanto dall’omologazione delle merci. A questa riflessione, così pasoliniana, sembrano essere tornati tanti giovani registi italiani negli ultimi anni: da Francesco Munzi ad Alice Rohrwacher, per arrivare a Matteo Garrone che con Reality (2012) tratteggia una nuova classe proletaria già preconizzata nelle lettere corsare. Quasi che le parole dell’intellettuale friulano restino le uniche chiavi interpretative di un presente sempre più complesso da rappresentare. Daniela Persico saison culturelle il giro del mondo in 60 film GLI AMANTI PASSEGGERI Los amantes pasajeros Regia, sceneggiatura: Pedro Almodóvar. Fotografia: José Luis Alcaine. Montaggio: José Salcedo. Musica: Alberto Iglesias. Scenografia: María Clara Notari. Costumi: Tatiana Hernández. Interpreti: Javier Cámara, Raúl Arévalo, Carlos Areces, Lola Dueñas, Cecilia Roth, Hugo Silva, Antonio de la Torre, José Luis Torrijo, José María Yazpik, Guillermo Toledo, Penélope Cruz, Antonio Banderas. Produzione: Agustín Almodóvar, Esther García per El Deseo. Distribuzione: Warner Bros. Italia. Paese: Spagna. Anno: 2013. Durata: 90 minuti. Che Gli amanti passeggeri sia un film girato con la mano sinistra, che sia un divertissement del tutto personale – perfino autoreferenziale – del suo autore e un momento di divagazione è fuori dubbio. Che sia, per questi motivi, un’opera trascurabile, anodina e superficiale come è stato scritto, è tutt’altra questione. Con quest’opera Almodóvar realizza un lavoro che pur mettendo a nudo alcune pecche del suo cinema, e pur lasciandosi andare a indugi narcisistici, coglie il momento storico attuale con incredibile lucidità e pertinenza. Il film racconta di un Airbus-340 della compagnia Península in viaggio fra Madrid e Città del Messico che, a causa di un’avaria al carrello, è costretto a restare in volo attendendo di ricevere l’autorizzazione a compiere un atterraggio di emergenza. Sull’aereo, mentre tutti i passeggeri di seconda classe sono narcotizzati per evitare scene di panico, il personale di volo, insieme ai due piloti, si prende cura del ristretto gruppo di viaggiatori della prima classe. All’interno di questa trama insolitamente snella ed essenziale, il regista iberico dà vita in maniera molto libera a un universo mistificante nel quale la rappresentazione, che procede per episodi, interludi e ripetizioni, rischia di far sì che la trivialità del linguaggio e i tratti grotteschi assegnati ai personaggi possano essere scambiati per sfacciate provocazioni o divertiti indugi in salsa queer. Mentre non fanno altro che incarnare i caratteri parossistici, eccentrici e archetipici del genere comico. Già, la commedia. Forse s’è dimenticato che la rappresentazione della società tramite bozzetti, maschere e mondi o microcosmi dal carattere universale raffigura spesso l’agire più tipico della commedia al cinema. Perché il genere non ha nulla a che vedere con i pastiche piccolo-borghesi fatti di tradimenti coniugali, manuali d’amore, ex e natali al mare in montagna o in crociera ai quali la farsa nostrana si affida con grande fedeltà da più di un ventennio. A proposito di crociere, pare davvero lampante la similitudine, e l’altrettanto evidente contiguità con il presente, fra il volo della Península, azzoppato e costretto a girare in tondo sperando di toccare terra al più presto, e una certa nave da crociera abbandonata ai flutti del mar Tirreno e alle cure di un capitano sciagurato. Al di là della tragedia della Concordia, ci pare che (as)trarre le peculiarità comiche della «maschera» Schettino per applicarla ai personaggi e alle situazioni di un film non sia un’intuizione così geniale da non venire in mente a qualche sceneggiatore di casa nostra… Eppure la rappresentazione tutt’altro che edificante che Almodóvar propone di una nazione (la «península» cui si riferisce potrebbe non essere solo quella iberica) e, forse, di un continente sempre più instradato verso la catastrofe, pare di enorme pertinenza e di assoluta sagacia. Il sospetto che quindi viene è che il regista stia dipingendo un quadro sconsolante sull’involuzione, ormai del tutto compiuta, della «classe pa- drona». Ritratto cui la Spagna si presta perfettamente del resto, essendo la nazione che più di ogni altra in Europa ha visto la propria ascesa e il proprio declino consumarsi tanto in fretta da confondersi quasi l’una nell’altro. E andrebbe letto in questo senso l’accentuato côté anni ’80 di cui la pellicola è rivestita: gli arredi dell’aereo, gli abiti degli steward e, ovviamente, l’intermezzo danzato sulle note di I’m So Excited delle Pointer Sisters. Non si tratta soltanto, per Almodóvar, di tornare, anche visivamente, a fare il cinema che faceva quasi trent’anni fa, quanto di voler mostrare, attraverso modalità enunciative consone, un ribaltamento di prospettiva enorme. Gli amanti passeggeri mostra infatti come del vitalismo di quegli anni, dell’edonismo camp postfranchista (allora agli antipodi di quello reaganiano e thatcheriano), della rivoluzione sessuale e dei costumi e dell’esplosione della queer culture, sia rimasto ben poco, nonostante l’Europa, nonostante il miracolo economico e nonostante Zapatero. No, oggi il popolino in seconda classe dorme, mentre una casta senza qualità si stordisce di droga, alcol e sesso interpretando in maniera reazionaria l’eredità anni ’80 dell’emancipazione e della speranza. Una situazione, sembra dire Almodóvar, in cui non solo la Spagna, ma l’Europa tutta, rischia di vedersi riflessa. Lorenzo Rossi 9 10 il giro del mondo in 60 film saison culturelle AMOUR Réalisation, scénario : Michael Haneke. Photographie : Darius Khondji. Montage : Monika Willi, Nadine Muse. Musique: Ludwig Van Beethoven, Johann Sebastian Bach. Décors : Jean-Vincent Puzos. Costumes : Catherine Laterrier. Interprètes : Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert. Production : Alfama Films, Prospero Pictures. Distribution : Teodora Film. Pays : France/Allemagne/ Autriche. Année : 2012. Durée : 127 minutes. Récompensé par la Palme d’or au festival de Cannes 2012 et applaudi à deux mains par la quasi totalité de la presse, le dernier opus de Michael Haneke est un objet beaucoup plus complexe que son succès public et critique le laisse entendre. Amour fait sans conteste partie des films dont la première vision terrasse le spectateur. C’est d’abord le sujet traité qui témoigne résolument d’une audace scénaristique peu coutumière. Aborder par sa fin l’histoire d’un couple, amoureux de longue date, en insistant sur ce qui fait habituellement partie du non-dit et de l’impensé cinématographiques, témoigne d’une volonté de pousser le 7e Art dans ses retranchements les plus intimes. De fait, le film, qui fait litière de toutes les représentations romantiques, est d’abord un tableau inédit et sans fard, car ancré dans le réel le plus prosaïque, du quotidien d’un vieux couple mis à l’épreuve de la maladie, de la souffrance et de la dégénérescence physique. Affranchi de la plupart des tabous liés à nos conceptions occidentales, Haneke filme avec brio et sans concessions la dépendance, la déchéance des corps et le repli sur soi. Mais aussi, logiquement, le délitement des relations sociales et familiales, mises à mal par l’écoulement du temps et les progrès de la maladie. Ce cinéma du dévoilement, qui n’hésite pas à dénuder les corps et les âmes sans pour autant verser dans le voyeurisme, fait choc. Et sa saisissante réussite formelle repose, au delà de la précision du scénario, de la science des cadres du chef opérateur Darius Khondji et de l’acuité des dialogues, sur deux performances exceptionnelles. C’est à juste titre qu’ont été saluées les interprétations d’Emmanuelle Riva et de Jean-Louis Trintignant, parfaits dans les rôles d’Anne et Georges, les bourgeois mélomanes dont l’existence s’achève dans le huis-clos de leur appartement parisien. Le retour à l’écran de ces monstres sacrés du cinéma d’auteur – comment ne pas se souvenir de Hiroshima mon amour ou de Ma nuit chez Maud ? – échappe d’emblée à l’habituel « syndrome de La Maison du lac » et au cabotinage attendu d’un couple de stars vieillissantes. Il convient également de ne pas oublier Isabelle Huppert, dans le rôle ingrat mais essentiel de la fille du vieux couple, dont les interventions témoignent du fossé qui se creuse progressivement entre la maison et le monde. Pourtant, si le talent de cinéaste de Michael Haneke y éclate une nouvelle fois, il nous faut constater que son film repose sur une ambiguïté fondamentale, qui tient de toute évidence à son titre. Faut-il forcément déduire de l’affichage tapageur d’un mot qui flotte en étendard que le film doit être analysé comme la profession de foi d’un humanisme ultime et absolu? Ou, pour être plus précis, que les réactions de Georges, le vieil époux en plein désarroi, constituent dans leur radicalité et leur violence les plus extrêmes, l’expression quintessencielle du sentiment amoureux ? Ne serait-il pas légitime, au contraire, de s’interroger sur la nature et la sanctification d’un tel « amour » ? Ne serait-il pas loisible, à l’opposé, de lire le film comme un film sur l’amour (et non un film d’amour), une tragédie sentimentale qui ne dirait rien d’autre que la précarité et la désespérante mortalité d’un sentiment que des siècles de littérature n’ont cessé de valoriser ? Difficile, d’ailleurs, de ne pas penser que le titre initialement envisagé, quand la musique s’arrête, aurait constitué un choix moins équivoque. Il aurait en tout cas permis de souligner ce qui crève les yeux de tous ceux qui suivent attentivement la carrière du cinéaste autrichien : Amour, au titre probablement plus antiphrastique qu’on le croit, est bel et bien le digne successeur de ce Ruban blanc de 2009 qui ne révélait rien d’autre que la présence d’un ver en tout fruit. Le film forme par ailleurs, jusque dans l’obsession de la claustration, de l’immobilisation et de la suffocation, un saisissant diptyque avec Le Septième Continent, ce premier long métrage de cinéma du réalisateur qui, en 1989, racontait le lent suicide d’une famille recluse dans son pavillon. Il n’est, somme toute, guère surprenant de retrouver aujourd’hui ce pessimisme foncier chez Haneke. L’injustice serait, après la dénonciation du trompe-l’œil initial, de reprocher au cinéaste une forme de misanthropie ou, plus exactement, de réflexion sur les fondements de la morale qui a toujours sous-tendu une œuvre plus passionnante que jamais. Thierry Méranger il giro del mondo in 60 film saison culturelle ARGO Regia: Ben Affleck. Soggetto: basato sul libro The Master of Disguise: My Secret Life in the CIA di Antonio J. Mendez e sull’articolo The Great Escape di Joshuah Bearman, «Wired», 2007. Sceneggiatura: Chris Terrio. Fotografia: Rodrigo Prieto. Musica: Alexandre Desplat. Montaggio: William Goldenberg. Scenografia: Sharon Seymour. Costumi: Jacqueline West. Interpreti: Ben Affleck, Bryan Cranston, Alan Arkin, John Goodman, Victor Garber, Tate Donovan, Clea DuVall, Scoot McNairy, Rory Cochrane, Christopher Denham, Rafi Pitts. Produzione: Gk Films, Smoke House, Warner Bros. Distribuzione: Warner Bros. Italia. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 120 minuti. Il 4 novembre 1979, mentre la rivoluzione islamica dell’ayatollah Khomeini stravolge i connotati dell’Iran, l’ambasciata degli Stati Uniti di Teheran viene assediata da una folla inferocita e invasa da studenti armati. Cinquantadue addetti americani restano prigionieri, ma sei di loro riescono a scappare e a trovare rifugio nella residenza privata dell’ambasciatore canadese. Braccati dai pasdaran guardiani della rivoluzione, i fuggiaschi vengono salvati da un agente della Cia, Tony Mendez, che con l’aiuto di due cineasti di Hollywood li spaccia per tecnici cinematografici volati in Iran per cercare location di un film di fantascienza. Storia vera, con nomi, situazioni e somiglianze (non Mendez, interpretato da Ben Affleck) rispettate e con una testimonianza vocale inedita sui titoli di coda di Jimmy Carter, che visse proprio allora il momento più drammatico della sua presidenza. Gli storici sono concordi nel sostenere che, a causa del disastro dell’ambasciata iraniana, Carter si giocò il secondo mandato e il film, per l’area liberal cui Ben Affleck e i produttori George Clooney e Grant Heslov appartengono, serve anche a risarcire la figura di uno statista maltrattato dalla Storia. Fino alla presidenza Clinton tutta la vicenda restò infatti coperta dal più rigoroso segreto, tanto che i meriti della strabiliante operazione di intelligence furono presi dal Canada. Fin qui i fatti. Argo, terza prova da regista di Affleck dopo i rocciosi Gone Baby Gone (2007) e The Town (2010), tracima nella fiction raccontando l’impresa dal punto di vista di Mendez, ma privilegiando soprattutto il dispositivo della simulazione, quindi la macchina del cinema, per costruire la suspense, vero motore del coinvolgimento nel racconto. L’illusione di realtà della messa in scena è doppia: da una parte quella del racconto, con la sua retorica «di genere» (gli agenti Cia rallentati dalla burocrazia, i tempi da thriller delle coincidenze mancate o dei rischi di svelamento, come nell’ottima sequenza nel bazar…); dall’altra, il finto film di fantascienza presentato come progetto più vero del vero, con tanto di perfetto storyboard, sorta di cavallo di Troia attraverso il quale distrarre il rigido controllo della milizia iraniana all’aeroporto e permettere agli americani di fuggire con falsi documenti canadesi. Tutto sommato stereotipati gli agenti segreti, in particolare Mendez/Affleck con la sua storia familiare banale, mentre è eccellente la performance del suo superiore e complice Jack O’Donnel, interpretato da Bryan Cranston. Strepitosi Alan Arkin e John Goodman, i produttori che mettono in piedi l’inganno, con il secondo che rimanda in modo piuttosto esplicito al suo personaggio di Matinée di Joe Dante (1993), ispirato al regista e maestro dei trucchi William Castle. Cinefilia a parte, è però di Arkin la battuta del film. Di fronte al fallimento delle forze di sicurezza americane all’ambasciata, esclama guardando la tv: "John Wayne è morto da soli sei mesi e questo paese non sa già più che cazzo fare", sottolineando quanto non solo a livello di immaginario gli Stati Uniti abbiano bisogno di eroi. Anche per l’attenzione agli aspetti storici e ai riflessi sulla mitologia nazionale, Argo viene definito un «film politico», con riferimenti alla stagione principale del cinema americano militante degli anni ’70 e a maestri come Pollack o Pakula. In realtà, il successo di pubblico e critica e l’interminabile raccolta di premi si devono soprattutto a un altro aspetto, non secondario e merito in particolare del Ben Affleck regista. Argo recupera infatti il cinema hollywoodiano classico dallo spessore narrativo solido, dove le motivazioni storiche o politiche, se ci sono, risultano secondarie rispetto all’affabulazione e allo spettacolo, alla capacità di sentire a pelle l’emozione del pubblico. Sostenere che Affleck sia più bravo come regista che come attore è forse un’ovvietà, ma segnala la percezione di una messa in scena personale estremamente efficace, capace di valorizzare al massimo l’apporto di tecnici e maestranze d’eccezione, dal montatore William Goldenberg al direttore della fotografia Rodrigo Prieto al compositore Alexandre Desplat, secondo un’ottica corale e un metodo di lavoro propri della Hollywood classica. È la forza del racconto cinematografico, insomma, con i suoi caratteristi azzeccati, i dialoghi brillanti, la narrazione fluida, il coinvolgimento assicurato. Mauro Gervasini 11 12 il giro del mondo in 60 film Bella Addormentata saison culturelle Regia: Marco Bellocchio. Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Veronica Raimo, Stefano Rulli. Fotografia: Daniele Ciprì. Montaggio: Francesca Calvelli. Musica: Carlo Crivelli. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Sergio Ballo. Interpreti: Toni Servillo, Maya Sansa, Isabelle Huppert, Alba Rohrwacher, Michele Riondino, Pier Giorgio Bellocchio, Brenno Placido, Gian Marco Tognazzi, Roberto Herlitzka. Produzione: Cattleya, Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: Italia/ Francia. Anno: 2012. Durata: 110 minuti. Il lungo sonno. Come se non ci fosse interruzione al grigio e al buio con i quali la fotografia di Daniele Ciprì riprende i fasci cromatici del cinema di Bellocchio da Il principe di Homburg (1997) in poi. Bella addormentata oltrepassa le polemiche che hanno accompagnato soprattutto la fase progettuale e trascina lo spettatore in una condizione sospesa tra la vita e la morte. I suoi numerosi personaggi appaiono come le figure di un teatro che quasi duplica la realtà e al tempo stesso come sagome danzanti, ripossedute da una voce che si fa motore del corpo. "Aiutami", chiede il senatore alla moglie in coma; "Più forte", grida l’attrice interpretata da Isabelle Huppert in una preghiera che ripete all’infinito la sua ritualità. Ed "Eluana svegliati" è quasi il ritornello della colonna sonora. Il titolo del film, che riprende quello della «favola» togliendole però l’articolo, è in realtà un’altra imponente discesa nelle zone d’ombra dell’essere umano, dove l’impulso prevale sulla ragione e il gesto diventano fortemente cinematografici, movimenti in cui è racchiusa un’energia che da sola potrebbe sfondare lo schermo e trasformarsi nella rabbia imprevedibile del Sergio Castellitto di L’ora di religione o nella straordinaria leggerezza del finale di Buongiorno, notte, con Aldo Moro riemerso dalla prigione e libero e sorridente per le strade di Roma. Eluana Englaro, però, a differenza di Moro, non c’è. Lì sullo schermo si dissolve, o forse si duplica nei corpi in coma vegetativo, nella figlia dell’attrice, nella moglie del senatore, nella tossicodipendente che vuole morire e viene salvata da un medico. Quest’ultima storia è mantenuta da Bellocchio su una tensione nascosta, che a un certo punto però diventa luce abbagliante, rivelazione improvvisa capace, come tutto il recente cinema del regista emiliano, di esaltare la «bellezza della notte», di frantumare le barriere di uno sguardo che cambia continuamente prospettiva nel rapporto tra personaggio e spazio. E le stesse figure, come per ipnosi, diventano giganti oppure si dissolvono, come succedeva a Mussolini e Ida Dalser in Vivere, facendo di quel lavoro un’altra, decisiva tappa nel percorso verso Bella addormentata. Eluana Englaro non c’è, si diceva. Ma è sempre presente. Nei telegiornali, sui quotidiani, negli incroci sentimentali tra la figlia del senatore, attivista per il movimento della vita, e Roberto, che invece rappresenta la posizione laica. Eluana è uno spettro che non si vede ma potrebbe diventare proiezione, un’immagine da mostrare sulle pareti di una stanza chiusa, un’immagine forse intravista in una condizione di sonno persistente. In Bella addormentata c’è ancora una Storia «trasfigurata», ma siamo fortunatamente lontani dalla ricostruzione cronachistica del caso politico. Tutt’altro: Bellocchio lascia ancora una volta sospese le domande senza risposte del suo cinema, trovando un respiro interna- zionale che pochissimi altri autori hanno nel nostro Paese. Al di là di quello che viene mostrato, il suo sguardo ha un potere «ricreativo» assoluto, non deforma i personaggi ma gli spazi, i quali appaiono claustrofobici e soffocanti anche negli esterni. Ed è proprio in questo universo che attori come la Huppert o Servillo si trasformano con sorprendente efficacia, mentre Maya Sansa appare una figura plasmata e poi rianimata da un furore incontrollato, proseguendo un percorso iniziato con La balia e proseguita con Buongiorno, notte. Bellocchio lavora in modo sublime il tempo, rallentato e materializzato come percezione soggettiva. E la celebre scena della sauna o le prove del discorso del senatore sono in questo senso casi esemplari, perché in entrambi i momenti la velocità individuale scorre parallela a quella della realtà circostante: Bella addormentata inghiotte la prima e affida la seconda al divampare della musica o della letteratura, a cominciare dal Pianto della Madonna di Jacopone da Todi. In definitiva, l’ultimo film di Bellocchio è una storia vera che diventa melodramma e al tempo stesso film d’opera. Il tutto concepito con un rigore assoluto che non coincide mai con la freddezza compositiva, ma trova una fisicità che permette ai personaggi di uscire da se stessi e duplicarsi, in un’illusione puramente cinematografica. Simone Emiliani saison culturelle il giro del mondo in 60 film BELLAS MARIPOSAS Regia, sceneggiatura: Salvatore Mereu. Soggetto: dall’omonimo romanzo breve di Sergio Atzeni. Fotografia: Massimo Foletti. Montaggio: Paola Freddi. Musiche: Balentes, Cesare Cremonini, NoemiScenografia: Pietro Rais, Marianna Sciveres. Interpreti: Sara Podda, Maya Mulas, Micaela Ramazzotti, Luciano Curreli, Maria Loi, Rosalba Piras, Lulli Lostia, Davis Tagliaferro, Mirko Ariu, Susanna Mantega, Carlo Molinari, Noemi Medas, Anna Karina Dyatlyk. Produzione: Viacolvento srl. Distribuzione: Salvatore Mereu. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 100 minuti. Con il suo romanzo Sergio Atzeni ha attirato l’attenzione di pubblico e critica, ma anche quella dei registi isolani. Tutti gli riconoscevano un’originalità assoluta nell’uso della lingua, una forte qualità narrativa nel racchiudere l’intreccio di tanti destini nell’arco di una sola giornata, e un carattere visionario che sembrava fatto apposta per il cinema. Potenzialmente, in quelle poche decine di pagine, giacevano i semi di una sceneggiatura già scritta, di una storia che, nonostante l’uso di un italiano spurio e frammisto al dialetto, parlava a tutti. Ma c’era un problema, a lungo dimostratosi insormontabile: a raccontare una giornata come tante in un quartiere popolare cagliaritano, era la voce di una bambina in grado di restituire uno sguardo nel quale microeventi e piccole tragedie (e piccole commedie) della quotidianità venivano frullati nel flusso di parole e frasi spesso prive di punteggiatura, fatto di smaliziata ironia e irrefrenabile vitalità. Qualcosa da cui un eventuale adattamento non poteva in alcun modo prescindere, ma che non si capiva come rendere dal punto di vista visivo. Superato l’entusiasmo iniziale, Bellas mariposas era diventato il romanzo impossibile da portare al cinema. Salvatore Mereu ha lavorato a lungo sul testo di partenza, scomponendolo e ricomponendolo più volte, portando allo scoperto tracce sommerse ed elaborando percorsi narrativi, in cerca di una chiave che potesse spalancare le porte di un’adeguata resa filmica. E quella chiave era davanti agli occhi di tutti: la più evidente ma anche quella da scartare per prima, perché decisa a mettere in discussione il dispositivo «classico» della messa in scena, così come la scrittura di Atzeni stravolgeva il dispositivo della narrazione. Bisognava osare, insomma, così come l’autore del libro aveva osato; e Mereu ha capito che l’unico modo per riproporre sullo schermo l’intensità dell’originale era servirsi dello stesso grimaldello, ovvero lasciare che a guidare l’interlocutore all’interno del variegato universo raccontato fosse quella stessa bambina: come nel libro si rivolgeva direttamente al lettore, nel film avrebbe chiamato in causa lo spettatore, parlandogli e soprattutto guardandolo in faccia. I pericoli dello sguardo in macchina, spesso banalizzato da un abuso incondizionato sono noti, e il regista di Ballo a tre passi (2003) e Sonetaula (2008) li aveva certamente ben presenti. L’unico modo per «farla franca», dunque, era trasformare l’elemento di rottura in elemento costitutivo, fondante l’identità stessa del film: instaurare un dialogo tra la piccola protagonista e lo spettatore, in grado di dare vita a un’intimità insolita (e potenzialmente a rischio di disagio) in cui la bambina ricevesse la fiducia dell’interlocutore, condotto all’interno di ambienti e famiglie malamente disfunzionali. E qui sta la seconda mossa vincente del film: il miracolo compiuto da Atzeni, e bissato da Mereu, è infatti riuscire a raccontare una realtà di pro- fondo degrado, tra adolescenti allo sbando e padri assenti, con il sorriso sulle labbra. Raramente come in Bellas mariposas lo sguardo di un autore si è posato con tanta delicatezza e compassione sulle sorti di personaggi che condividono lo stesso destino e, oltre una certa soglia anagrafica, partecipano di una medesima perdita di purezza. Come nei migliori esempi della commedia all’italiana, lo sguardo non è cinico, né tantomeno volgare, ma in grado di abbracciare debolezze e fragilità umane, di ironizzare su piccole e grandi malefatte senza per questo nasconderle sotto il tappeto, e talvolta di segnalare una via di fuga dall’abbruttimento circostante. Partita vinta, dunque, e se in Bellas mariposas un piccolo difetto va riscontrato, riguarda piuttosto un calo di intensità nel finale, in quell’irrompere del surreale che nelle pagine di Atzeni costituiva l’apice fulgente di una scrittura vivida e inventiva (l’indimenticabile arrivo della zingara con gatti danzanti al seguito) e che qui viene riproposto sottotono. Il momento in cui tutti i nodi vengono al pettine e il destino di ogni personaggio finalmente sciolto meritava un trattamento più audace, in grado di risuonare negli occhi dello spettatore allo stesso modo del bacio subacqueo che si scambiano le due piccole protagoniste a metà film. Uno squarcio inatteso di lirismo che avrebbe giovato anche in coda. Alessandro Stellino 13 14 il giro del mondo in 60 film LA BICICLETTA VERDE saison culturelle Wadjda Regia: Haifaa Al-Mansour. Sceneggiatura: Haifaa Al-Mansour. Fotografia: Lutz Reitemeier. Montaggio: Andreas Wodraschke. Musica: Max Richter. Scenografia: Thomas Molt. Costumi: Peter Pohl. Intepreti: Waad Mohammed, Reem Abdullah, Abdullrahman Al Gohani, Ahd Kamel, Sultan Al Assaf. Produzione: Razor Film. Distribuzione: Academy 2. Paese: Arabia Saudita/Germania. Anno: 2012. Durata: 97 minuti. Wadjda è una ragazzina di dieci anni, vive con la mamma bella e triste in un sobborgo di Riyad, in Arabia Saudita. Il suo sogno è comprarsi una bella bicicletta per gareggiare col ragazzino figlio dei vicini che già ne possiede una e la prende in giro per questo (con la goffaggine tipica di un corteggiamento a quell’età). Lei la «cura», la bici dei suoi desideri, e passa a salutarla nel negozio ogni giorno all’uscita di scuola: solo che tra le tante cose proibite alle donne nel suo paese c’è anche la bicicletta, considerata un attentato alla virtù. Ma la bimba è ostinata, tenace, ha una sua strategia, e pur di avere la «sua» bicicletta è disposta a piegarsi alle regole che mal sopporta. Wadjda, in Italia uscito come La bicicletta verde, era arrivato alla scorsa Mostra del cinema con un’eco già enorme per essere non solo il primo film girato in Arabia Saudita, un paese in cui le sale cinematografiche sono vietate, ma addirittura diretto da una regista donna, laddove le donne non hanno il diritto di uscire da sole per strada, di mescolarsi agli uomini nei luoghi pubblici, dove non possono votare (forse avverrà nel 2015) e devono lottare per riuscire a ottenere il permesso di guidare l’automobile. Che cosa aspettarsi dunque da questo esordio? Una visione a distanza? Un’opera di propaganda governativa? Un film di denuncia della condizione femminile nel paese? La bicicletta verde non è nulla di tutto questo. "Ci sono migliaia di piccole Wadjda in Arabia Saudita pronte a battersi per i loro sogni" dice Haifaa Al-Mansour, la regista che rifiuta anche solo l’idea di presentarsi come una ribelle. Cresciuta a visioni «clandestine» e casalinghe (l’unica forma possibile di consumo cinematografico) in vhs e in dvd di Bruce Lee, delle produzioni di Bollywood e dei blockbuster americani, respinge con fermezza anche l’atteggiamento vittimista. Nessuno credeva possibile la realizzazione del suo film, eppure ce l’ha fatta, grazie anche al sostegno da parte saudita del principe Ali Walid bin Talal, membro progressista della famiglia reale che possiede gli studios Rotana. È solo una delle molte sfaccettature di una realtà assai più complessa di come le semplificazioni dell’immaginario a uso occidentale ci mostrano. La scommessa di La bicicletta verde va all’opposto. La figura della protagonista, la piccola Wadjda, grazie anche all’intrepretazione dell’esordiente Waad Mohammed, rivela il segreto di un’opera lontana dalla pesantezza del film a tesi e capace invece di sorprendere per spigliatezza e disincanto. L’universo femminile che affiora è anche la lente attraverso la quale la regista racconta la società saudita, rovesciando una icnonografia ufficiale che mette gli uomini al centro. Qui gli uomini sono pallide ombre, figure remote, rinchiuse senza dubbi (a parte il piccolo amico di Wadjda, speranza di un futuro diverso), nei loro ruoli, a cominciare dal padre della ragazzina, che appare e scompare nella casa ripudiando la mamma (la star televisiva saudita Reem Abdullah) perché incapace di dargli il figlio maschio. Ed è invece commovente e vitale lo scambio tra mamma e figlia, una relazione complice, a volte litigiosa, piena di amore e reciproco sostegno. Questo mondo di donne è un universo segreto di chiacchiere, confidenze, pettegolezzi, ma anche cattiverie e inganni. La preside feroce, che ostenta la perfezione e punisce l’allieva «maschiaccio», con le Converse verdi e il suo parlare diretto, di notte lascia entrare l’amante di nascosto; la studentessa più grande è costretta a mentire per vedere il suo ragazzo (le donne non possono uscire se non accompagnate dal padre, da un fratello o dal marito) e per questo sarà duramente punita. La mamma di Wadjda si dispera mentre il marito la umilia, cosa che alla ragazzina risulta incomprensibile perché è meravigliosamente sensuale e piena di dolcezza. L’intera vita delle donne è dunque un continuo esercizio di equilibrismo sul filo di pubblico e privato, tra ciò che si deve fare e le invenzioni di una vita meno soffocante che la regista mette a fuoco con uno sguardo rispettoso ma capace di far emergere le contraddizioni. L’umorismo delicato e sbarazzino con cui Wadjda affronta le difficoltà lascia intravedere l’ironia più aguzza verso questo sistema, resa ancora più forte dall’amore verso i personaggi femminili, mai giudicati (compresa l’inflessibile preside) e narrati invece in un modo così semplice e diretto da renderli ancora più veri. Cristina Piccino saison culturelle il giro del mondo in 60 film BUON ANNO SARAJEVO Djeca Regia, sceneggiatura: Aida Begic. Fotografia: Erol Zubcevic. Montaggio: Miralem Zubcevic. Scenografia: Sanda Popovac. Costumi: Sanja Dzeba. Suono: Igor Camo. Interpreti: Marija Pikic, Ismir Gagula, Nikola Đuricko, Staša Dukic, Velibor Topic. Produzione: Film House Sarajevo, Rohfilm, Les Films de l'Après-Midi. Distribuzione: Kitchen Film. Paese: BosniaErzegovina, Germania, Francia, Turchia. Anno: 2012. Durata: 90 minuti. La Bosnia-Herzegovina porta ancora oggi le ferite di una guerra finita da quasi vent’anni. Come un male che si propaga con il tempo. Come un’erba gramigna che cresce su qualsiasi terreno, l’onda malevola della guerra, dopo aver investito gli uomini e le donne che l’hanno combattuta, ha colpito anche i loro figli, la generazione nata tra la metà degli anni ’80 e il 1995, anno della fine del conflitto. Le bombe e l’assedio, i cecchini e i razionamenti, essi li videro e li sentirono con l’incoscienza dell’adolescenza o addirittura con l’inconsapevolezza dell’infanzia. Rahima e Nedim, la sorella e il fratello protagonisti di Buon anno Sarajevo, sono due di quei figli senza padri e senza madri, orfani reali e simbolici della guerra; sono due anime perdute eppure vive in un Paese che nel frattempo si è ripreso ed è andato avanti. La loro parabola esistenziale, comune a quella di molti giovani di oggi, suona quasi (e fin troppo) esemplare: lei, più grande e più seria, costretta a diventare adulta senza essere mai stata giovane, ha trovato stabilità emotiva nella religione islamica e sopravvivenza economica nel lavoro in un ristorante; lui, invece, appena adolescente e pericolosamente tentato dalla criminalità, è una mina vagante: non ha nemmeno l’appiglio della memoria e dell’appartenenza a un mondo che non può ricordare. Rahima mantiene il fratello grazie a un accordo con i servizi sociali, ma il pericolo di vederselo portare via è sempre dietro l’angolo. Entrambi rappresentano le debolezze di milioni di giovani di oggi, tanto in Bosnia quanto nell’Europa occidentale, lasciati soli dalla Storia e costretti a trovare da sé una strada nella vita. Buon anno Sarajevo, che ha nell’austera Rahima, poco più giovane della regista Aida Begic, classe 1976, anche lei figlia della guerra e musulmana osservante, il suo punto di vista dominante, è interamente fondato sull’idea di ricerca e spostamento. Rahima cammina per le strade di Sarajevo, insegue, indaga, prova a capire, cerca il lato umano della sua città sperando in una giustizia che non le impedisca di scivolare verso la rabbia e l’autodistruzione. Rahima vigila su Nedim tenendolo fuori dal pericolo e costruisce per lui un rifugio sicuro, un luogo dove tornare e sentirsi protetto: la casa che manda avanti e dove il ragazzo mostra la fragilità della sua età, rivelando un lato dolce e indifeso, è infatti rappresentata con toni ammantati di calore e conforto. L’invasione degli operatori sociali segna l’incursione del mondo esterno, di quella realtà che non lascia speranza e che la stessa Rahima vive come una nuova forma di violenza: se un tempo c’erano il rumore e la distruzione, ora ci sono il silenzio e l’indifferenza. Ma Rahima, ed è questa la sua forza, prova a lasciarsi il passato alle spalle e a vivere nel presente, accettandolo e magari cambiandolo: da qui la reazione orgogliosa e fiera all’ingiustizia verso il fratello; da qui la camminata nella notte di capodanno che chiude il film, un momento facilmen- te metaforico, ma capace di aprire a un giorno nuovo: un giorno in cui le pistole non sparino e in cui non rischiare di impattare nella pallottola di un cecchino. La bravura di Aida Begic, una delle giovani registi da tenere d’occhio (è al suo secondo film e nel precedente Snow aveva già raccontato gli strascichi della guerra su una giovane vedova), sta in uno sguardo distante per volontà di osservazione, ma vicino per empatia verso i personaggi. Il suo tentativo è quello di scovare grazie ai due fratelli protagonisti un sentimento autentico, un legame che vada oltre il sangue e sfoci nell’amore, e così facendo mutare l’immagine di Sarajevo stessa, città che sta là fuori, fredda e desolata, e che rischia di diventare una nuova Russia, oligarca, violenta e selvaggiamente capitalista. Se, come dice la stessa Begic, tutto nasce dalla paradossale, e forse fasulla, nostalgia per i tempi della guerra, quando ogni cosa sembrava bella e umana perché tutti erano uguali, perché sotto le bombe ciascuno era una vittima innocente, la scommessa di Buon anno Sarajevo è proprio quella di raccontare un mondo nuovo e vero, senza legami ingombranti col passato. Un mondo forse solitario e spietato come quello vecchio, ma straordinariamente libero: si tratta solamente di scegliere tra l’ingiustizia del potere e la speranza racchiusa da giovani come Rahima e Nedim. Roberto Manassero 15 16 il giro del mondo in 60 film C’ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA saison culturelle Bir zamanlar Anadolu’da Regia: Nuri Bilge Ceylan. Sceneggiatura: Ercan Kesal, Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan. Fotografia: Gökhan Tiryaki. Montaggio: Bora Göksingöl, Nuri Bilge Ceylan. Scenografia: Dilek Yapkuöz Ayaztuna, Çadri Erdogan. Interpreti: Muhammet Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel, Ahmet Mümtaz Taylan, Firat Tanis, Ercan Kesal, Cansu Demirci. Produzione: Zeyno Film, Prod2006, 1000 Volt, Turkish Radio Tv Corporation (Trt), Imaj, Fida Film, NBC Film. Distribuzione: Parthénos. Paese: Turchia/Bosnia-Erezegovina Anno: 2011. Durata: 157 minuti. Da enfant prodige dei festival (Cannes, in questo caso) a involontario portabandiera della presunta involuzione del cosiddetto cinema d’autore, il passo è brevissimo. A suonare la carica in questo attacco frontale ai neo-vezzi autoriali sono i rinati Cahiers du cinèma, in una sorta di agile e utile vademecum nel quale individuano una serie di cineasti e pratiche registiche e/o produttive da evitare con la massima cura. E se su Reygadas e Von Trier non si può essere che d’accordo, e se ci si rallegra che il bluff Haneke sia finalmente considerato per quel che vale, infastidisce, o meglio dispiace, che nell’ansia di un repulisti comunque ormai improcrastinabile siano passati per le armi (figurativamente) anche Bela Tarr e il suo splendido The Turin Horse e Nuri Bilge Ceylan e il suo notevolissimo C’era una volta in Anatolia. E con questo si torna all’inizio: da autore corteggiato a totem del neo-accademismo, il passo è brevissimo. Cosa che dovrebbe spingere a porsi qualche interrogativo – non è mai troppo tardi – sui meccanismi del consenso sui quali si reggono le macchine festivaliere. E il ruolo della critica, ovviamente. Bilge Ceylan, nonostante la cura formale dei suoi lavori, non è mai stato, a nostro opinabilissimo giudizio, autore convincente sino in fondo. I suoi film, per quanto ricercati e a tratti affascinanti, sembravano ricadere sempre nella categoria dell’esotismo festivaliero, quello che a Youssef Chahine permetteva di dire, con ferocia ironia, che c’è sempre bisogno di una nuova scimmia (riferito in una conversazione privata in occasione della presentazione capitolina di Il destino). Insomma Bilge Ceylan è stato sempre un buon regista costantemente in odore di fare sempre e solo ciò che si aspetta da un… regista turco. Paradossalmente, ora che lo stesso Bilge Ceylan rompe gli argini della sua comfort zone e forza i limiti del suo stile e della sua poetica, ossia quando finalmente il suo cinema diventa compiutamente interessante, ecco che scatta l’interdizione critica. La severità con la quale la censura colpisce è pari solo all’entusiasmo che accoglie le prime discutibili prove dell’autore esotico di turno (e questo la dice lunghissima su un certo eurocentrismo critico che invece si vorrebbe illuminato e «glocal»). Si pensi per esempio all’inesistente «Iñarritu»: dove sono finiti gli apologeti dell’altro ieri? Però guai a dissentire… ieri! Tornando invece a C’era una volta in Anatolia, c’è da segnalare che Bilge Ceylan compie in realtà un’operazione fortemente coraggiosa: si riallaccia alla lezione del primo cinema di Theo Anghelopoulos, riprendendo l’anti-epica brechtiana del regista greco per mettere in piedi un poliziesco da incubo totalitario che si potrebbe collocare agevolmente tra Costa-Gavras, Elio Petri, Alexander Kluge e qualcun altro. E prima che si levino i soloni armati di bilancino delle citazioni, s’intende con questi riferimenti segnalare una certa attitudine alla verifica politica piuttosto che un’adesione puntuale a modelli formali preesistenti. In questo senso C’era una volta in Anatolia rappresenta sì una scelta di campo molto ambiziosa, ma di certo non un giocare al sicuro del proprio credito autoriale e festivaliero. Nel film, infatti, c’è una messa a rischio del proprio cinema che francamente è superficiale ridurre a una sorta di esaltazione di mere coordinate autoriali. Il film è una vera e propria autopsia del corpo di una nazione, che brancola al buio, senza che l’alba accenni a giungere, è il segno di un cinema che decide di interrogare in prima persona, attraverso la forma, la politica di un paese. Da noi a lavorare lungo queste coordinate, senza volere insinuare alcuna similitudine, tanto vale specificarlo, sono rimasti solamente Bellocchio e Martone. Curioso che un coraggioso abbandonare le proprie posizioni di comodo come questo C’era una volta in Anatolia sia stato frainteso per un’involuzione. Ci si augura che Nuri Bilge Ceylan continui a rischiare. Giona A. Nazzaro saison culturelle il giro del mondo in 60 film CILIEGINE La cerise sur le gâteau Regia: Laura Morante. Sceneggiatura: Laura Morante, Daniele Costantini. Fotografia: Maurizio Calvesi. Montaggio: Esmeralda Calabria. Musiche: Nicola Piovani. Interpreti: Laura Morante, Pascal Elbé, Isabelle Carré, Frédéric Pierrot, Patrice Thibaud, Samir Guesmi, Ennio Fantastichini, Georges Claisse. Produzione: Nuts and Bolts, Maison de Cinema, Soudaine Compagnie. Distribuzione: Bolero Film. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 100 minuti. Ciliegine segna l’esordio alla regia di Laura Morante: un progetto lungamente voluto e desiderato, di cui l’attrice italiana è anche coproduttrice e sceneggiatrice. Un lavoro interamente concepito e realizzato a Parigi, insieme con una troupe italiana, un cast d’attori francesi e i tre uomini più importanti della sua vita. Morante interpreta Amanda, una donna bella e intelligente ma così piena di frustrazioni e paure rispetto agli uomini da essere convinta che siano tutti inaffidabili e bugiardi: un ruolo che senza dubbio le si addice e che ripete di volta in volta, tra la nevrosi e l’autodistruzione tipiche di un’isteria un po’ comica e i vezzi di una personalità modellata sull’amabile e terribile Lucy dei Peanuts, la ragazzina che ribalta i maschi con le sue urla. Tutto è chiaro fin dalla prima scena: vigilia di Natale, Amanda e il compagno Bertrand sono al ristorante, festeggiano il loro anniversario ma rovinano tutto con un litigio sconsolato: colpa di una ciliegina rossa su una torta, che innesca una discussione senza via d’uscita, un segno di egoismo inaccettabile a racchiudere tutte le insoddisfazioni del loro rapporto. Da questa scena prende avvio il film, e dunque anche il titolo al plurale Ciliegine, in cui gli errori degli uomini che Amanda elencherà sono molti... La neo-regista penetra nell’universo e nelle emozioni femminili dimostrando un’ottima sensibilità nel descrivere le piccole e grandi incomprensioni quotidiane tra i sessi, ostacoli spesso insormontabili che solo le parole riescono a valicare. Il titolo del film, però, conferma che il tono generale è leggero, semplice, delizioso: e in effetti Morante realizza una commedia sobria, senza grandi pretese ma ben scritta, scandita dalle musiche di Nicola Piovani che immergono in un clima tipicamente parigino, e colorata dalle tonalità calde e contrastate dell’operatore Maurizio Calvesi. Al tempo stesso, Ciliegine non è una classica commedia sofisticata, ma la possibile parodia di un genere, un film chiacchierone che non ha l’obiettivo di essere ironico, cinico e distante, ma vuole partecipare in maniera affettuosa ai drammi parossistici e ridicoli dei suoi personaggi. In qualche modo si rifà alla screwball comedy degli anni ’30 e ammicca al Woody Allen più sentimentale e pessimista sui rapporti umani. Morante è brava a rendere la nostalgia dell’illusione romantica, il cambiamento delle stagioni, le passeggiate nei parchi, le cene romantiche, e al tempo stesso a contrapporre a questo versante malinconico un umorismo giocoso, infantile, quasi buffonesco. La prima parte di Ciliegine è attraversata in maniera armoniosa da un ritmo serrato e brioso, grazie soprattutto al confronto-scontro tra le due amiche protagoniste: Amanda, ovviamente, e Florence, la spalla frizzante e irrefrenabile dove Isabelle Carré riprende diversi tratti del personaggio già proposto in un altro «gâteau» francese come (Emotivi anonimi) la seconda parte, invece, con l’ingresso in scena dei personaggi secondari, che formano un vero e proprio coro greco rispetto alla tragedia della protagonista, il tono abbandona l’iniziale umorismo e abbraccia la farsa, con il marito di Isabelle che ordisce il complotto dal proprio letto matrimoniale dispensando teorie psicanalitiche in campo amoroso. Richiamando esplicitamente il saggio di Freud sull’interpretazione del romanzo Gradiva di Wilhelm Jensen, Morante utilizza così il tema dell’autoinganno per consentire alla sua Amanda di superare la fobia degli uomini: la scelta fa perdere al film la spensieratezza iniziale e costringe i personaggi alla rivelazione dei sentimenti tramite una menzogna. Per una serie di equivoci, infatti, Amanda crede che l’uomo perfetto incontrato a capodanno sia estraneo alla sua guerra contro il genere perché omosessuale, e proprio per questo riesce a instaurare con lui un rapporto franco e onesto. Al di là di ogni incomprensione o esigenza narrativa da teatro degli equivoci, sarà l’incontro giusto: l’incontro che porterà Amanda a non rinchiudersi in se stessa come la Nicole di Cuori di Resnais (interpretata, guarda caso, proprio dalla stessa Morante) e la spingerà ad aprirsi all’altro sesso per cercare la felicità nell’equilibrio tra bisogni e desideri. Alexine Dayné 17 18 il giro del mondo in 60 film COME PIETRA PAZIENTE saison culturelle Syngué Sabour Regia: Atiq Rahimi. Sceneggiatura: Atiq Rahimi, Jean-Claude Carrière. Fotografia: Thierry Abrogast. Scenografia: Erwin Prib. Musica: Max Richter. Interpreti: Golshifteh Farahani, Hamid Djavadan, Massi Mrowat, Hassina Burgan. Produzione: Arte France Cinéma, Razor Film Produktion, Studio 37, The Film, Agora Films, Corniche Pictures. Distribuzione: Parthenos. Paese: Francia, Germania, Afghanistan. Anno: 2012. Durata: 103 minuti. Due corpi. Uno morto e uno vivo. Un corpo muto e immobile, un altro che si muove e parla. Un uomo e una donna. Il secondo lungometraggio del regista afghano Atiq Rahimi si impone di ridiscutere i rapporti di potere che sussistono tra uomo e donna nell’Afghanistan della guerra, e per farlo decide di mettere in scena il paradosso della comunicazione. Una comunicazione a senso unico, con un solo emittente che rovescia nel corpo dell’altro informazioni a cui non c’è possibilità di risposta; informazioni che probabilmente non sono nemmeno recepite. Come pietra paziente racconta infatti di una donna che si prende cura del marito ridotto in stato di completa incoscienza. L’uomo, un combattente mujaheddin ferito al collo da una pallottola durante una rissa, riesce solo a respirare e il suo respiro è l’unico indizio del fatto che sia ancora vivo. Al centro della narrazione c’è dunque il corpo di un uomo in totale balia di una donna, situazione che rovescia i rapporti di forza tra i sessi in un paese dove sono le donne a essere corpi a disposizione di un sistema di potere basato sul dominio (vendute, sposate, ripudiate, usate, violentate, scambiate). La protagonista (l’attrice iraniana Golshifteh Farahani, bravissima nel recitare un monologo che la vuole quasi sempre da sola davanti alla macchina da presa) dà avvio a un flusso di parole liberato e incontrollato; un fiume che cerca di riempire lo spazio lasciato dall’abbandono, dalla solitudine, dall’incomprensione, dalla rabbia e dal desiderio frustrato. La parola diventa il luogo di una terapia che crea il proprio spazio e il proprio tempo, che si sceglie il proprio oggetto e il proprio percorso. Nessuno ad ascoltarla, accoglierla, rispondere. Di fronte alla donna c’è il corpo di un uomo che è "come pietra paziente", espressione che richiama la tradizione orientale per cui bisogna appoggiare una pietra davanti ai piedi e raccontarle ogni nostro segreto: quando la pietra, piena del nostro dolore, si spezzerà, si sarà finalmente liberi dalla sofferenza. E nel film la parola pazienza si riempie dei significati che la lingua le assegna: nella realtà del set, nella recitazione della Farahani, nella gestione degli spazi, nei pochi oggetti che arredano lo spazio scenico, nei colori stinti dei muri e in quelli accesi degli abiti, prende corpo una «pazienza» che è prima di tutto sentimento, dolore, sopportare e tollerare ciò che ci offende, ma anche, o soprattutto, un semplice sentire. Sentire con le orecchie, cioè ascoltare, e poi con tutti i sensi e gli organi del corpo, primo fra tutti il cuore. La sequenza iniziale – un lento movimento di macchina sulle tende, la luce che arriva dalla finestra, una tazza piena d’acqua – viene improvvisamente scossa da un’esplosione che fa tremare i vetri delle finestre e vibrare il riflesso nell’acqua. Una vibrazione che si allargherà al film intero, coinvolgendo lo spettatore nella pre- sa di coscienza della protagonista. Nato a Kabul, Atiq Rahimi è fuggito dall’Afghanistan dopo l’occupazione sovietica e ha trovato asilo politico in Francia. Divisosi nel frattempo tra Parigi e la terra d’origine, è diventato regista e scrittore e con Pietra di pazienza, romanzo vincitore del Goncourt (e in origine anch’esso dedicato al Nadia Anjuman, poetessa afghana assassinata dal marito), ha per la prima volta usato la lingua francese e deciso poi di trasportare in immagini le proprie parole. Forse proprio per questo, per aver abbandonato cioè la lingua madre, con il Rahimi ha trovato la giusta distanza cinematografica con cui servirsi in modo libero e spregiudicato della cultura d’origine. La parte finale del film, infatti, mette in scena con violenta determinazione un paradigma blasfemo: solo per il fatto di aver parlato, una donna è diventata Profeta; non solo ha proferito la sua verità, ma nel momento in cui l’ha pronunciata è diventata scrigno di una verità futura e di una rivelazione nascosta al resto degli uomini. In una stanza dove ci sono pochissimi oggetti (qualche materasso, una flebo, delle macerie) spicca la presenza del Corano, appoggiato su una mensola e avvolto in un panno. E ciò che il film racconta è la storia di un’incarnazione: la parola del profeta custodita in un libro che a un certo punto discende sulla Terra per incarnarsi nel corpo vivo di una donna. Silvia Colombo saison culturelle il giro del mondo in 60 film COSMOPOLIS Regia, sceneggiatura: David Cronenberg. Soggetto: dall’omonimo romanzo di Don DeLillo. Fotografia: Peter Suschitzky. Montaggio: Ronald Sanders. Musica: Howard Shore. Scenografia: Arvinder Grewal. Costumi: Denise Cronenberg. Interpreti: Robert Pattinson, Sarah Gadon, Paul Giamatti, Kevin Durand, Abdul Ayoola, Juliette Binoche, Mathieu Amalric. Produzione: Alfama Films, Prospero Pictures. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: Francia/Canada/Portogallo/Italia. Anno: 2012. Durata: 109 minuti. L’incontro fra Paulo Branco, produttore, e David Cronenberg, regista, provoca delle curiose associazioni di idee. Al di là dell’evidente riuscita della trasposizione del romanzo di Don DeLillo, fa un certo effetto leggere Paulo Branco paragonare il modo di lavorare sul set del canadese a quello del venerando Manoel de Oliveira o sapere che la visionarietà cronenberghiana evoca nel navigato produttore portoghese similitudini con l’approccio di Raúl Ruiz. Questo per dire che tutte le riserve espresse nei confronti di Cosmopolis, che secondo la fazione avversa sarebbe un film statico, immobile, parlato, teatrale e così via, a uno sguardo più aperto in realtà si rivelano in realtà punti di contatto fecondi con la tradizione della modernità più avventurosa. Non c’è bisogno di scomodare André Bazin per comprendere che l’adattamento di un testo al cinema si attua per differenze progressive, manifestando l’alterità sia della pagina scritta sia dell’immagine. Cronenberg, genialmente, mette in scena in Cosmopolis proprio questa irriducibile differenza. Pur restando fedelissimo alle sue ossessioni, come tutti i cineasti che orbitano il loro gesto filmico intorno a un nucleo fondante, Cosmopolis estremizza la poetica del contagio virale del regista. La crisi finanziaria, o meglio il mito massmediale della crisi, è messo in scena come una pandemia che ag- gredisce la percezione della realtà e il principio di individuazione. Cosa che di conseguenza si estende alle strutture del linguaggio e agli strumenti attraverso i quali rappresentiamo la nostra posizione e il nostro agire nel mondo. Cosmopolis secondo Cronenberg «racconta», dopo l’11 settembre, l’unico attentato ancora possibile: lo spegnimento del mondo attraverso la fantasmizzazione del denaro, che altro non sarebbe, secondo William S. Burroughs, che un’accettazione d’identità. Quindi se «qualcuno» cessa di accettare l’identità del denaro ne consegue che il mondo, che si autorappresenta attraverso le possibilità offerte dal denaro, cessa di esistere. La paura di questo spegnimento in Cronenberg è un virus che altera la realtà. E la realtà stessa è un costrutto da rielaborare e decostruire attraverso le strutture del linguaggio, le quali a loro volta, come insegna ancora Burroughs, possono agire come un virus. In questo senso è interessante osservare il lavoro di messinscena di Cronenberg: l’interno della stretch-limo funziona come una camera isolazionista (la memoria corre alle capsule di La mosca) che progressivamente si apre al contagio dell’esterno, anche se in apparenza non vi è comunicazione fra i due ambienti. Cronenberg, come suo solito, offre attraverso gli ambienti una rappresentazione fisica dei processi di adattamento cere- brale dei corpi: ed è dalla frizione di questi due campi che scaturisce la tensione drammatica di Cosmopolis. Il testo di De Lillo, a sua volta, enunciato con glaciale partecipazione dal sorprendente Pattinson, si presenta come luogo di verifica del film. Nucleo dove il film di Cronenberg inizia a esistere come progetto filmico. Il che significa che il testo è la verifica negativa del film: il film non è il libro. In questo senso Cronenberg costruisce un ambiente filmico nel quale mettere in scena il libro come corpo altro. Il processo del farsi del film è esattamente il luogo in cui il libro cessa di esistere per diventare altro. Come dire che Cronenberg applica la sua strategia virale anche all’annosa questione della fedeltà nei confronti della pagina scritta. Il «virus cinema» rende altro la pagina scritta, fa suo l’«origine libro». Ciò che affascina di questo processo è la trasparenza del lavoro. Con una chiarezza documentaria che a Branco evidentemente ha ricordato de Oliveira e Ruiz, Cronenberg rivela la sua irriducibile matrice modernista. Ed è probabilmente questa sua radicalità ad avere creato sconforto nei cuori di coloro che ancora ritengono Cronenberg solo una specie di «regista horror». Giona A. Nazzaro 19 20 il giro del mondo in 60 film DARK SHADOWS saison culturelle Regia: Tim Burton. Soggetto: John August, Seth Grahame-Smith, dall’omonima serie tv americana di Dan Curtis (1966-1971). Fotografia: Bruno Delbonnel. Sceneggiatura: Seth Grahame-Smith. Montaggio: Chris Lebenzon. Musica: Danny Elfman. Scenografia: Rick Heinrichs. Costumi: Colleen Atwood. Interpreti: Johnny Depp, Michelle Pfeiffer, Bella Heathcote, Helena Bonham Carter, Eva Green, Jackie Earle, Jonny Lee Miller, Christopher Lee, Alice Cooper. Produzione: Infinitum Nihil, Gk Films, Zanuck Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures italia. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 113 minuti. Dark Shadows prende ispirazione da una serie televisiva omonima poco conosciuta in Italia, ma assai popolare nel mondo anglosassone. L’autore è Dan Curtis, nome noto agli appassionati di horror, regista originario del New England e sceneggiatore di un classico del genere, Ballata macabra con Karen Black e Oliver Reed (1976), che è uno dei migliori film dedicati al tema delle case infestate. Filtrando le suggestioni gotiche di quella zona degli Stati Uniti dove nacquero tra ’600 e ’700 le leggende delle streghe di Salem, suggestioni poi rese in forma di prosa delirante dal conterraneo H.P. Lovecraft, Curtis rese omaggio a un immaginario horror piuttosto estremo rendendolo per la prima volta seriale. L’ispirazione gli venne dal sogno ricorrente di una donna in treno. Proprio quella giovane donna diventa nella finzione Victoria, una ragazza orfana che raggiunge la cittadina di Collinsport per lavorare al servizio di Elizabeth Collins, ereditiera che da diciotto anni non lascia la sua magione, condivisa insieme a mostri e fantasmi, alcuni fantastici, altri decisamente più reali. La prima stagione del telefilm si concentra soprattutto sulle due donne, tanto che il personaggio poi considerato centrale, il vampiro Barnabas Collins, subentra solo dal secondo anno. La versione cinematografica del 2012, diretta da Tim Burton e scritta da Seth Grahame-Smith, autore del controverso romanzo Orgoglio e pregiudizio e zombie, libera interpretazione «romeriana» di Jane Austen, spariglia in parte la premessa. Nel senso che sceglie di concentrarsi subito su Barnabas (Johnny Depp), trasformato in vampiro dall’amante Angelique Bouchard (Eva Green) perché tradita per l’eterea bellezza di Josette (Bella Heathcote), di cui Victoria (sempre la Heathcote) si rivelerà in seguito una sorta di incarnazione. Burton ambienta il film all’inizio degli anni ’70, la contemporaneità della serie, mantenendo però i rimandi al «trapassato», il XVIII secolo, quando la famiglia di Barnabas partì dall’Inghilterra verso il Nuovo Mondo. Dark Shadows gioca quindi su un doppio piano vintage attingendo all’iconografia di entrambi, quella gotica del New England ai tempi delle streghe di Salem e quella più «contestataria» di inizio anni ’70, con tanto di figli dei fiori strafatti e musiche dell’epoca. Basta un istante perché la materia dell’articolato racconto televisivo di Dan Curtis diventi totalmente burtoniana. L’amore per la diversità simboleggiata dal «mostro» qui si ribalta significativamente. La famiglia Collins, la cui matriarca è interpretata dall’ottima Michelle Pfeiffer (che occhieggia alla sua licantropesca partecipazione a Wolf di Nichols, ma è lecito pensare anche a Morticia Addams), ha con la mostruosità una frequentazione diffusa. Un bambino che parla con la madre morta, fenomenologie lupesche disseminate tra i geni di qualche giovane parente, un vampiro, una governante testimone impassibile di eventi sovrannaturali e la strega Eva Green che condivide con Barnabas l’immortalità. Il vero mostro risulta essere l’unico «normale», vale a dire Roger Collins (Jonny Lee Miller), padre assente del bambino, essere viscido che pensa solo al proprio tornaconto monetario e cerca di depredare i beni di famiglia nascosti da Barnabas. Dopo lo sfarzo senz’anima di Alice in Wonderland che nonostante l’enorme successo commerciale (anche in Italia, dove è stato premiato al box office in modo spropositato), risultava soffocato da effetti speciali digitali restando molto in superficie rispetto ai caratteri poetici di Lewis Carroll, Dark Shadows recupera la squisita poesia del macabro di Burton, lo sguardo fiabesco sulle differenze capaci di sprigionare vitalità e sensibilità umana. Il tutto in una dimensione quanto mai ludica, dove il gioco, organizzato con ironia e intelligenza, è quello del cinema. Il regista di Edward mani di forbice premia prima di tutto il suo immaginario favorito, quello dell’horror classico rappresentato, qui come in altri suoi titoli recenti, da Christopher Lee (il comandante dei pescherecci), indimenticabile Dracula della Hammer. Le stesse posture di Johnny Depp, con relative angolazioni della macchina da presa, sono un chiaro omaggio a un’arte, la settima, nata forse non casualmente lo stesso anno in cui venne pubblicato il capolavoro di Bram Stoker (1895). Dal Nosferatu di Murnau a Bela Lugosi, icona già narrata dal regista in Ed Wood, è tutto un susseguirsi di sollecitazioni cinefile. Mauro Gervasini saison culturelle il giro del mondo in 60 film DE ROUILLE ET D’OS Réalisation : Jacques Audiard. Scénario : Thomas Bidegain, Jacques Audiard, d’après les nouvelles Rust and Bone de Craig Davidson. Photographie : Stéphane Fontaine. Montage : Juliette Welfling. Musique : Alexandre Desplat. Décors : Michel Barthélémy. Costumes : Virginie Montel. Interprètes : Matthias Schoenaerts, Marion Cotillard, Bouli Lanners, Corinne Masiero, Céline Sallette. Production: Why Not Productions. Distribution : BIM. Pays : France/ Belgique. Année : 2012. Durée : 115 minutes. Faire tenir debout une femme privée de jambes, recoller les morceaux de la vie d’un homme brisé : ce sont plusieurs handicaps, pas seulement le handicap physique, qui sont au cœur – dans la chair – du film de Jacques Audiard. Ali, géant du Nord de la France à la carrure et au parcours professionnel qui ne lui réservent que des emplois de videur de boîte de nuit ou de vigile, atterrit sur la Côte d’Azur avec son petit garçon de cinq ans. Son histoire personnelle semble compliquée, mais jamais le film ne livrera le passé de cet homme à la force opaque, entêtée, presque bornée. Stéphanie ne vient pas du même monde, elle mène une vie de couple rangée ; seule sa profession – dresseuse d’orques au Marineland d’Antibes – sort de l’ordinaire. La rencontre improbable de la carpe et du lapin, de la rouille et de l’os, a lieu un peu par hasard, mais Jacques Audiard la filme comme si elle avait été programmée par le destin : les belles jambes de Stéphanie en minijupe qui, attirant l’œil d’Ali lorsqu’il la raccompagne en voiture, seront les premières livres de chair sacrifiées sur l’autel d’un scénario qui oppose, non sans fougue, l’épaisseur terrienne des corps à l’imperceptible finesse d’un amour naissant. Aussitôt les jambes de la belle montrée, aussitôt elle va les perdre tragiquement dans un accident qui interrompt sa carrière et bouleverse sa vie, menaçant son intégrité sociale et psychique. Le corps, Ali connaît car il est son fonds de commerce : non seulement ses muscles lui servent professionnellement, mais il participe à des combats de boxe clandestins, sanglants et lucra- tifs. Le choix de Matthias Schoenaerts pour interpréter Ali renforce cette univocité : ce rôle-ci prolonge son personnage d’éleveur de bétail dépendant des stéroïdes dans Bullhead de Mikael Roskam. Rien d’étonnant, dès lors, que l’amitié qu’Ali noue avec la jeune femme passe par une offre décomplexée de ses services sexuels. « J’suis opé ! », son expression pour dire à Stéphanie qu’il est « opérationnel », donc prêt à coucher avec elle si elle le désire à un moment donné, situe son rapport au corps à l’opposé de celui de la jeune femme : rompue de par son métier aux chorégraphies aquatiques et aux mouvements de bras qui lui permettaient de communiquer avec les orques, Stéphanie, avant son accident, habitait un corps abstrait, presque un pur système de signes. Elle se trouve soudain confrontée à l’expérience charnelle de ce corps au moment où il devient un poids mort, ou du moins, où il se modifie au point d’entraver ses déplacements. En utilisant des trucages numériques pour gommer la partie des membres disparus du corps réel de l’actrice, Jacques Audiard enfreint un tabou implicite du cinéma, qui a souvent recours à des trucages délibérément évidents (le trou dans un lit où se glisse le mollet de l’acteur valide) ou à des acteurs handicapés (l’inoubliable casting de Freaks de Tod Browning). Priver de ses jambes Marion Cotillard, star internationale, c’est en effet faire incarner puissamment la modification du schéma corporel de tout spectateur. Porté par une grande virtuosité visuelle, De rouille et d’os évite ainsi, par son obsession même du corporel, l’écueil de la psychologie ou du "mes- sage" sur la nécessité de surmonter le handicap. Audiard sait bien que seule la mise en scène peut souder de manière crédible et émouvante les deux blessés de la vie. En ce sens, son film Sur mes lèvres (2001) constituait l’esquisse de De rouille et d’os. Ce n’est pas un hasard si les deux séquences les plus chargées du point de vue dramaturgique, dans ce film-ci entrent en écho avec la profession aquatique de Stéphanie : l’élément aqueux se fait ici épreuve régénératrice, de même que dans Un prophète, le précédent film d’Audiard, l’univers carcéral se révélait fabrique de l’héroïsme pour un sombre petit trafiquant qui en ressortait « prophète ». La possibilité d’un amour passe par un troc mystérieux entre capacités physiques et capacités émotionnelles : la « délicatesse » – un mot que Stéphanie finit par prononcer mais qu’à l’évidence, Ali n’a pas dû beaucoup entendre dans sa vie – s’échange contre une surpuissance corporelle presque monstrueuse. Les combats clandestins, dans l’excès du risque physique qu’ils impliquent, fonctionnent ici non comme une marque d’amoralisme d’Ali mais comme une démonstration d’une force dont il ne sait que faire. Une force qui ne demande qu’à se donner. Ce débordement, Audiard le prend en charge avec panache : sa réalisation, qui ne craint ni les effets voyants ni les dialogues coup de poing, est perpétuellement « opé », déminant par des tours de force successifs le mélodrame dont elle emprunte les ingrédients de départ. Charlotte Garson 21 22 il giro del mondo in 60 film DETACHMENT - IL DISTACCO saison culturelle Detachment Regia: Tony Kaye. Sceneggiatura: Carl Lund. Fotografia: Tony Caye. Montaggio: Barry Alexander Brown, Geoffrey Richman, Michelle Botticelli. Scenografia: Jade Healy. Costumi: Wendy Schecter. Interpreti: Adrien Brody, Marcia Gay Harden, James Caan, Christina Hendricks, Lucy Liu, Blythe Danner, Tim Blake Nelson, William Petersen, Bryan Cranston, Sami Gayle. Produzione: Paper Street Films, Kingsgate Films. Distribuzione: Officine Ubu. Paese: Usa. Anno: 2011. Durata: 100 minuti. Difficile trovare un film più distante dal suo titolo, a meno che non si voglia considerare il «distacco» come un punto d’arrivo al quale il narratore non riesce ad approdare, impegnato com’è nel compito di prendersi sulle spalle il dolore del mondo e raccontarlo con toni accorati. Infatti, quella che Detachment traccia è né più né meno una mappa della sofferenza umana. Questa però, a differenza di ciò che avviene in altri film improntati a una visione pessimista del mondo, non viene ricondotta a motivi di ordine sociale o politico. L’umanità non sta andando alla deriva perché non ricicla a sufficienza i rifiuti, inquina troppo o costruisce armi devastanti, ma perché, più semplicemente e tragicamente, gli individui hanno smesso di ascoltarsi e di capirsi. Sul piano della simbologia spaziale, il luogo dove si annuncia la catastrofe è la scuola, ovvero l’istituzione preposta alla trasmissione di quei valori di base che dovrebbero garantire il futuro dell’umanità. Ma questa trasmissione è frustrata in partenza dalla mancanza di un terreno comune fra docenti e allievi, che fra loro si parlano da distanze siderali, colmate di tanto in tanto da improvvise esplosioni di collera. La scuola diventa così un campo di battaglia dove si misurano e si scontrano le frustrazioni di almeno tre generazioni, distrutte, a seconda dell’età, dal fatto di non avere un futuro, o di esserselo giocato nel modo peggiore. Se la scuola, come voleva la pedagogia ottimista di qualche tempo fa, è la palestra del futuro, il film profetizza che l’avvenire sarà un girone infernale fatto di incomunicabilità, rabbia, riluttanza ad ascoltare il prossimo. In questa terra devastata si aggira il protagonista, insegnante precario che ha i tratti gentili e vagamente martirizzati di Adrien Brody. Un po’ per necessità (un nonno che sta morendo in ospedale) e un po’ per scelta, egli si sforza di aprire canali di comunicazione verso chi lo circonda; ma i suoi tentativi sono votati al fallimento, ora per eccesso ora per difetto, quasi che il problema non stia tanto nella mancanza di attenzione verso il prossimo, quanto nello squilibrio generato in persone abituate al respiro della solitudine. I suoi sentimenti, come peraltro quelli degli altri personaggi, corrono lungo direttrici impazzite, simili a schegge di solidarietà improvvisa momentaneamente affiorata alla superficie di un mondo dominato dall’indifferenza (quando non dalla diffidenza) reciproca. La stessa professione del protagonista – un insegnante supplente destinato a svolgere mansioni didattiche sempre e solo provvisorie, prima di essere trasferito a un altro incarico, precario quanto il precedente – è la metafora di una condizione esistenziale nella quale la comprensione degli altri è intermittente, di breve durata, comunque destinata a venire sommersa dal mare di incomunicabilità che la circonda. Detachment è tutt’altro che un film perfetto. Ma per qualche strano motivo, sui suoi difetti si è disposti a sorvolare. Forse perché sono figli di un’incoscienza narrativa che in un’epoca di cinema misurato al millimetro (effetti speciali compresi) spiazza e sorprende. Dal principio alla fine, Kaye suona una nota sola, un canto dolente e malinconico sulla decadenza del mondo: difficile pensare, nel cinema contemporaneo, a un compito più impervio. Eppure, nonostante le ridondanze e l’uso poco accorto della colonna sonora, dal film emerge la volontà di costruire qualcosa di follemente ambizioso, una specie di melodramma dove a mancarsi, perdersi e tradirsi non sono due amanti, ma l’umanità intera. Una sorta di elegia funebre sulla perdita di comunicazione fra gli esseri umani, dove la scuola e l’ospedale – quali spazi nati per celebrare, in modo materiale e simbolico, il mutuo soccorso e la comunione fra gli individui – fungono da sismografi della catastrofe. Quando l’aggressività soppianta la solidarietà anche in luoghi simili, questa la tesi di fondo del film, allora siamo davvero a un passo dal baratro. Come epitaffio conclusivo, il regista sceglie un classico gotico e decadente come La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe, a ribadire che il film non vuole essere un atto di denuncia, semmai il ritratto rassegnato e doloroso di una condizione, quella umana, ineluttabilmente votata a una fine ingloriosa e tragica. Leonardo Gandini saison culturelle il giro del mondo in 60 film DJANGO UNCHAINED Regia, soggetto, sceneggiatura: Quentin Tarantino. Fotografia: Robert Richardson. Musica: Mary Ramos, Ennio Morricone. Montaggio: Fred Raskin. Scenografia: J. Michael Riva. Costumi: Sharen Davis. Interpreti: Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington, Laura Cayouette, James Remar, Don Johnson. Produzione: Columbia Pictures, The Weinstein Company, Super Cool Man Shoe Too, Double Feature Films. Distribuzione: Warner Bros Italia. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 165 minuti. Chi è Django? Un eroe, un mito, una leggenda? Oppure un nome curioso, passato attraverso il tempo e lo spazio dal volto di Franco Nero a quello di Jamie Foxx per effetto dell’ipervitaminica capacità associativa della mente di Quentin Tarantino? Dopo due decenni di consuetudine con lo stile del regista di Pulp Fiction (1994) e Bastardi senza gloria (2009), si può dire che – più che un personaggio o un tema – Django sia una storia, un racconto che si rinnova nel suo svolgersi, nel suo non voler finire, nel suo iniziare sempre da capo. In origine infatti c’è Franco Nero, interprete nel 1966 per Sergio Corbucci di un misterioso pistolero bianco che si presenta trascinando una bara. Dopo ce ne furono altri: altri volti che rispondevano allo stesso nome senza condividerne le caratteristiche e le qualità, da Django spara per primo (1967) a Preparati la bara! (1968). Nel 1987, poi, Franco Nero si riappropria del suo ruolo in un Django 2 che però si colloca, stilisticamente e cronologicamente, tra il secondo e il terzo episodio della serie Rambo. E alla fine arriva Tarantino, che approfitta di un archetipo cinematografico per regalarci uno dei suoi intrecci più piani e lineari. Il suo Django è una storia di vendetta desiderata, pianificata e consumata, la storia di un viaggio verso una destinazione che da lontana si fa, scena dopo scena e quasi senza salti temporali, sempre più vicina. Al contrario di tante altre vicende di vendetta immaginate da Tarantino, qui non ci sono segreti da scoprire. Fin dall’inizio, sappiamo da dove viene e dove vuole arrivare lo schiavo liberato, Django Freeman. E il suo viaggio si compirà – quasi – senza incidenti. La sorpresa però svanisce se ci si rende conto che il protagonista del film non è tanto l’uomo che ne porta il nome, ma il suo compagno di strada, quel dottor King Schultz che affabula personaggi e spettatori in un crescendo di reversal narratives – storie che si ribaltano rivelando un senso inizialmente conosciuto solo a chi le racconta – nel succedersi delle quali inventa e perfeziona il personaggio di Django. Di Django, il dottor Schultz è creatore e guida. Liberandolo dalle catene, ne fa un uomo libero. Lasciandogli la facoltà di sperimentare il gusto della vendetta come cacciatore di taglie, ne fa un freddo pistolero. Accettando di accompagnarlo nella tana del lupo, a Candyland, la tenuta dove è schiava sua moglie Broomhilda, lo sospinge sul davanti della scena. E infine, cedendogliela del tutto, lo rende forza attiva del racconto, a sua volta narratore dell’ultima parte del film, non a caso la più pulp, quella più in armonia con il mondo degli spaghetti western. Quello di Schultz è uno dei personaggi migliori di Tarantino, da sempre capace di nutrirsi dell’esperienza di spettatore per creare figure mitologiche: con questa figura di dentista/cacciatore di taglie/affabulatore sembra per la prima volta voler portare sullo schermo un’istanza di se stesso, un doppio che – come Schultz nella scena iniziale – si muove nel buio alla ricerca di nuovi personaggi. C’è un punto, nella carriera di molti autori, in cui la loro voce, la loro maniera e il loro stile vengono incorporati nel repertorio delle opere citate. È sempre un momento cruciale, rischioso. Ci sono voci che si spengono, perché perdono di necessità. Oppure prendono la misura di una nuova profondità. Ed è quello che succede a Tarantino: per uno Schultz che si fa sempre più piccolo fino a scomparire, c’è un Django che da corpo senza nome diventa parola magica che plasma la realtà a proprio piacimento. Ma è solo un gioco nel quale il grande e il piccolo non si misurano in proporzione tra loro, bensì rispetto alle dimensioni dello schermo sul quale lo vediamo. Si può dire che nei film di Tarantino ci sono sempre stati, fianco a fianco, personaggi-narratori e personaggi acceleratori dell’azione. Django Unchained spicca però per la chiarezza di tale approccio e per la nettezza della separazione: da un lato il narratore e dall’altro il personaggio, senza possibilità di convivenza. Il valore del film sta così nella purezza e nella radicalità di questa conclusione. Non a caso, quando Django ritorna a Candyland prima del massacro finale e ritrova il corpo del suo liberatore riverso di spalle, non può fare altro che salutarlo con un bacio: il suo destino è correre alla fine della storia che qualcun altro ha iniziato a raccontare. Marco Gianni 23 24 il giro del mondo in 60 film È STATO IL FIGLIO saison culturelle Regia, fotografia: Daniele Ciprì. Sceneggiatura: Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso, Miriam Rizzo. Montaggio: Francesca Calvelli. Musica: Carlo Crivelli. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Grazia Colombini. Interpreti: Toni Servillo, Giselda Volodi, Giuseppe Vitale, Alfredo Castro, Aurora Quattrocchi, Mauro Spitaleri, Alessia Zammitti, Fabrizio Falco, Benedetto Raneli, Pier Giorgio Bellocchio. Produzione: Passione, Babe Film, in collaborazione con Palomar, Rai Cinema, FaroFilm, Aleteia Communication. Distribuzione: Fandango. Paese: Francia, Canada, Portogallo, Italia. Anno: 2012. Durata: 90 minuti. Lo sguardo visionario di Daniele Ciprì non avrebbe potuto aderire all’ambientazione realistica descritta da Roberto Alajmo nel suo romanzo È stato il figlio. Il realismo non appartiene alla poetica del regista e direttore della fotografia siciliano. Per anni Ciprì ha inventato con Franco Maresco il mondo grottesco e periferico abitato dai personaggi di Cinico tv, mentre in tempi più recenti ha dato luce a film lontani da toni realistici come Vincere e Bella addormentata di Marco Bellocchio e La pecora nera di Ascanio Celestini. Così, di fronte al romanzo dello scrittore palermitano ambientato nel quartiere della Kalsa di Palermo, Ciprì, inizialmente riluttante a tradurlo in immagini, ha cercato e magnificamente trovato soluzioni alternative per portare al cinema il disfacimento di una famiglia sottoproletaria colpita da un lutto e accecata dal miraggio di un’improvvisa ricchezza. Per realizzare È stato il figlio Ciprì si è dunque avventurato nelle atmosfere visive e narrative che da sempre contraddistinguono e rendono ben riconoscibile la sua opera: un tempo sospeso, uno spazio astratto, personaggi e luoghi filmati come simbolo di un espanso degrado sociale. E ha attinto, facendola coesistere con i segni caratteristici del suo cinema, a una fondamentale tradizione culturale siciliana, quella dei cantastorie e delle loro affabulazioni, vale a dire un modo fiabesco, e altrettanto non realistico, di raccontare episodi con toni epici e leggendari. La famiglia Ciraulo di È stato il figlio è allo stesso modo composta da personaggi trasformati nelle figure tragiche e ironiche di un «cuntu» popolare e l’intero film è gestito da un narratore che racconta volti e gesta di un gruppo di persone molto simili ai caratteri «brutti sporchi e cattivi» della commedia italiana. Il narratore è un personaggio – si scoprirà poi – solo apparentemente estraneo ai fatti, un uomo trasandato di nome Busu (l’attore cileno Alfredo Castro, protagonista della trilogia di Pablo Larraín composta da Tony Manero, Post Mortem e No). In attesa in un ufficio postale, attorniato da persone che aspettano il loro turno e che diventano involontariamente spettatori e ascoltatori, il narratore/cantastorie Busu introduce alcune micro-storie, ma si sofferma soprattutto su ciò che accadde alla famiglia Ciraulo, scendendo nei dettagli come se il racconto gli appartenesse. Le sue parole aprono finestre, si trasformano in immagini. La Palermo di Alajmo assume i tratti di una città senza nome, di un Sud non meglio definito (il film è girato a Brindisi e Taranto e in colonna sonora ci sono anche canzoni di Nino D’Angelo). È stato il figlio diventa così una favola dark, un musical (si pensi alla scena in cui il capofamiglia Nicola Ciraulo, interpretato da Servillo, canta con gli operai della barca abbandonata sulla riva), il ritratto di una periferia immobile con edifici popolari e cortili dove i giochi dei bambini si disintegrano di fronte alla morte (così assurda a essere espressa senza sonoro); con spiagge erbose segnate da costruzioni industriali dove si fanno surreali gite al mare; con vecchi cinema porno dove vivere un furtivo incontro sessuale (e dove Ciprì sembra omaggiare un periodo ormai lontano di «vivere» la sala cinematografica); con treni che passano e con il loro rumore occultano i dialoghi fra Nicola e l’usuraio al quale ha chiesto aiuto; con un cavalcavia ciclicamente inquadrato e attraversato che unisce il quartiere a un altrove, da raggiungere nel vano tentativo di lasciarsi alle spalle una quotidianità di miseria e sogni infranti. Con la sua costruzione a incastri quasi perfetta, È stato il figlio emerge soprattutto per la funzione drammatica che affida agli spazi. In tal senso è notevole la scena del ritorno a casa di Busu, dopo la visita all’ufficio postale: l’uomo percorre ambienti che sembrano venire da Cinico tv, entra nel palazzo abitato dai Ciraulo, sale le scale e raggiunge un appartamento vuoto che sembra il set abbandonato di un film finito. Un set che però si rianima e torna a popolarsi, perché Busu ha ancora fatti ed eventi da raccontare, ancora uomini e donne da riportare in vita e incidere negli occhi dello spettatore, grazie anche a grandi interpreti che offrono prove superbe sia nei ruoli principali sia in quelli secondari. Giuseppe Gariazzo il giro del mondo in 60 film saison culturelle ELLES Réalisation : Malgorzata Szumowska. Scénario : Małgorzata Szumowska, Tine Byrckel. Photographie : Michal Englert. Montage : Françoise Tourmen, Jacek Drosio. Musique : Pawel Mykietyn. Décors : Pauline Bourdon. Costumes : Katarzyna Lewinska. Interprètes : Juliette Binoche , Anaïs Demoustier, Joanna Kulig, LouisDo de Lencquesaing, Krystyna Janda, Andrzej Chyra, Ali Marhyar, Jean-Marie Binoche. Production : Slot Machine. Distribution : Officine Ubu. Pays : AllemagneFrance-Pologne. Année : 2011. Durée : 96 minutes. Le titre pluriel du deuxième longmétrage de Malgorzata Szumowska contient à lui seul un principe d’écriture : non pas le catalogue romancé des diverses formes de prostitution étudiante, mais les vies tantôt croisées, tantôt parallèles, de la journaliste (du magazine Elle, bien sûr ! ) qui écrit un reportage sur ce sujet en se fondant sur des rencontres. Est-ce parce que, avant de se documenter, la scénariste danoise Tyne Byrckel a mené des entretiens en Pologne avec la réalisatrice en s’interdisant les lectures, pour se projeter elle-même dans des vies qui n’étaient pas la sienne ? En tout cas le film s’éloigne d’emblée, dans son écriture, du « dossier », pourtant de plus en plus épais en Europe, de la prostitution des étudiante(e)s pour confronter sans fard deux générations, deux modes de vie dont l’un ne vaut peut-être pas mieux que l’autre. Un peu à la manière de la photographe en reportage dans Polisse, la journaliste qu’interprète Juliette Binoche offre au film une morale formelle : pas question que la caméra épouse l’œil du voyeur, il lui faut cet écran, ce visage réfléchi, songeur, rieur parfois, troublé souvent, que Juliette Binoche est l’une des rares à pouvoir lui donner. Les paroles et les récits mis en images des jeunes filles sont non seulement retranscrits par Anne mais véritablement entendus. Mais la protagoniste, Anne, fonctionne aussi comme un relais du spectateur au sein même de l’histoire : là encore, la finesse de jeu de Binoche la rend absolument crédible en mère active au bord de l’épuisement, au teint parfois blafard. Anne fait l’expérience au quotidien du parallélisme entre les vies des étudiantes et la trivialité de ses propres tâches domestiques : réfrigérateur qui refuse obstinément de rester fermé, fils lycéen absentéiste, petit dernier collé devant sa console de jeux vidéo... Elles relate l’histoire de son étonnement : Lola et Alicja, les étudiantes, n’ont pas un profil de victimes mais de travailleuses que seule l’obligation de mentir à leur entourage semble gêner. Le scénario esquive les explications économico-sociologiques, réduites à quelques indices : valise volée d’Alicja qui se voit refuser une place au foyer étudiant, intérieur modeste des parents de Charlotte alias Lola, air bonhomme du propriétaire lubrique qui, pour une chambre parisienne à prix d’ami, demande à Alicja de lui montrer sa poitrine. Plus le film avance, plus son découpage en séquences parallèles entre la vie de la Parisienne qui mange bio et celle de ces prostituées les fait communiquer; des brèches s’ouvrent, au risque du gouffre existentiel pour Anne. " De toute façon on est toujours seul ", lâchait en entretien Lola ; et les journées de la journaliste-housewife viennent le constater à bas bruit, entre découverte des sites pornos fréquentés par son mari et lourd chariot de courses qui perd sa roue. Sa vie contre la leur? L’écueil scénaristique sera sans cesse évité, qui initierait complaisamment la bourgeoise au plus vieux métier du monde. Anne aurait pourtant bien des raisons de faire payer les hommes – écrit, produit et tourné par des femmes, Elles ne leur fait guère la part belle : si les clients des étudiantes, précise Lola, ne sont pas de « pauvres types », on finit par sou- haiter qu’ils le fussent. Vieux bellâtres qui à l’occasion poussent la chansonnette (« Les feuilles mortes » semble commenter leur jeunesse perdue, qu’ils rachètent à l’heure auprès de Lola), ces hommes mariés sont « normaux », précise encore Lola. Aussi normaux que le mari d’Anne. Tellement normaux que parmi les invités, on reconnaît le propriétaire lubrique d’Alicja. Seule incursion dans une subjectivité à la lisière du fantastique, la séquence du dîner chez Anne et son mari érige un mur de verre entre les sexes : tous clients potentiels, les hommes sont aussi tous des maris affables. Pessimiste sur un statu quo social hypocrite qui feint de séparer les pratiques sexuelles, Elles montre combien les études doivent parfois coexister avec la sexualité tarifée, et combien le mariage, même heureux, repose parfois sur une fausse monogamie. Le scénario n’offre pas même l’échappatoire d’une protagoniste édifiée par ce qu’elle découvre au point de changer de vie, de quitter ses trois hommes” insensibles. « De toute façon, on est toujours seul »... : d’une scène de masturbation sur le sol de sa salle de bains au refus de rapport sexuel de son mari, le pluriel du titre achève de se dissoudre pour laisser Anne entièrement seule. Le plan final de petit-déjeuner familial est aussi anodin (le pot de confiture difficile à ouvrir) que glaçant (l’horizontalité de la grande table design). A bas bruit, et via le corps conducteur de l’actrice Binoche, la froideur dévastatrice de Michael Haneke semble l’avoir contaminé. Charlotte Garson 25 26 il giro del mondo in 60 film GLI EQUILIBRISTI saison culturelle Regia: Ivano De Matteo. Soggetto: Valentina Ferlan. Sceneggiatura: Valentina Ferlan, Ivano De Matteo. Fotografia: Vittorio Omodei Zorini. Musica: Francesco Cerasi. Montaggio: Marco Spoletini. Scenografia: Massimiliano Sturiale. Costumi: Valentina Taviani. Interpreti: Valerio Mastandrea, Barbora Bobulova, Rosabell Laurenti Sellers, Grazia Schiavo, Antonio Gerardi, Antonella Attili, Stefano Masciolini. Produzione: Rodeo Drive, Babe Films, Rai Cinema. Distribuzione: Medusa. Paese: Italia, Francia. Anno: 2012. Durata: 100 minuti. Come mostrare e raccontare il famigerato Paese reale, l’Italia che ogni cittadino incontra ogni giorno per la strada e nessun immaginario contemporaneo, sia esso televisivo, cinematografico o social, è ancora riuscito a rendere nella sua complessità? Come andare oltre la superficialità di uno sguardo che è sì partecipe, sì commosso, ma inevitabilmente carico di buone intenzioni tradotte in soluzioni narrative inefficaci? A questa domanda, fondamentale per un cinema medio e d’autore in perenne crisi espressiva e produttiva, Gli equilibristi trova una risposta elementare ed efficace, individuando nel corpo di Valerio Mastandrea l’elemento narrativo e simbolico su cui convogliare la riflessione sui «nuovi poveri», la classe media passata in poco tempo dall’agiatezza alla minaccia della perdita del lavoro, del denaro e della dignità. Se nel Comandante e la cicogna, uscito un mese dopo Gli equilibristi, lo stesso Mastandrea volge in farsa la figura del padre in difficoltà che cerca di mantenere i figli adolescenti nella metropoli italiana, in questo caso, partendo da coordinate simili (non più un vedovo ma un padre separato, una grande città, Roma, dove ogni azione comporta soldi e fatica), la figura del maschio contemporaneo, afflitto da responsabilità che non sa sostenere, si tinge di toni drammatici, trovando nel corpo dell’attore romano un efficace elemento cinematografico. Mastandrea è l’equilibrista del tito- lo, ma attraverso la vicenda del suo personaggio, che nel momento della separazione, nonostante il posto fisso, dovendo mantenere se stesso, la casa, la moglie e i figli, scivola in una disperata povertà, trasforma la parola da singolare a plurale: e diventa egli stesso, unico nella sua bravura ma comune nel suo aspetto, il paradigma del padre separato e rifiutato dalla società. Mastandrea è solo, ma è anche tutti. E da solo tiene pure il film sulle spalle, aiutandolo con la sua presenza a superare la secche di una narrazione prevedibile e di uno stile indeciso tra l’impassibilità oggettiva e l’eccesso. Di Matteo non fa sconti al personaggio, lo condanna fin dalla prima scena a una responsabilità coniugale disattesa, dalla quale discenderanno la deriva economica e sociale. Se il meccanismo può sembrare determinista, o peggio ancora moralista, è innegabilmente un procedimento cinematografico efficace: il film sarà una discesa nella colpa di un uomo. Il segno dei tempi, e della natura del cinema medio italiano, sta nella declinazione di tale discesa; non cioè in una parabola esistenziale e sociale, ma viceversa, con il protagonista che di fronte all’erosione dello stipendio perde anche la consapevolezza della propria dignità, arrivando a urtare la sensibilità dei figli pur di nascondere la vergogna della sua condizione. Di fronte alla sconfitta progressiva del personaggio, emblematica ed esplicita ma resa umana dal suo interprete, Di Matteo resta a guardare: si affida alle movenze di Mastandrea, lo filma mentre cammina per le strade grigie e invernali di Roma, lo lascia solo sulla scena con il suo carico di non detti, ne mette a nudo il rimorso nei tentativi di riconciliarsi con la moglie, ne coglie il volto impaurito e smarrito di fronte a un mondo fino a quel momento sconosciuto (quello violento e disperato dei senzatetto, degli ubriaconi, dei lavoratori notturni per quattro soldi e nessuna garanzia), e infine lo immerge, di spalle, nella folla indistinta di una mensa per poveri, come uno dei tanti, un reietto che la società non protegge, non accoglie, non perdona. Il paese reale è quello lì, quello che la stessa moglie del protagonista scopre quando viene finalmente a conoscenza di tutto: la realtà concreta, ma purtroppo invisibile, di un’Italia che abita in ogni città e che ciascuno di noi può scegliere se vedere o meno. Il padre separato degli Equilibristi non sceglie di viverla, ma ci si ritrova in mezzo, quasi senza accorgersene, non potendo nulla contro la forza imperscrutabile del destino sociale. La sua solitudine e la sua triste parabola risuonano così come un monito: la povertà è là fuori, l’equilibrio è instabile e il Paese, quello reale, non aspetta altro di essere raccontato e accolto. Non è difficile, dal momento che di corpi sconfitti come quelli del protagonista, sono piene le pensioni, i dormitori, le mense della Caritas… Roberto Manassero il giro del mondo in 60 film saison culturelle Et si on vivait tous ensemble? 27 Réalisation, scénario : Stéphane Robelin. Photographie : Dominique Colin. Montage : Patrick Wilfert, Florent Blanchard. Musique : Florent Blanchard. Décors : David Bersanetti. Costumes : Jurgen Doering. Interprètes : Guy Bedos, Daniel Brühl, Geraldine Chaplin, Jane Fonda, Claude Rich, Pierre Richard. Production : Les Films de la Butte, Manny Films, Rommel Film. Distribution : Parthenos. Pays : France. Année : 2012. Durée : 96 minutes. Après le triomphe international d’Amour de Michael Haneke, Et si on vivait tous ensemble prend presque des allures d’antidote, ou du moins, d’alternative légère : avec la modestie formelle qui caractérisait déjà son premier film (Real Movie, 2004, tourné en DV avec très peu de moyens), l’auteur-réalisateur Stéphane Robelin aborde la vieillesse et la dépendance qu’elle entraîne avec un enthousiasme, un sens du collectif et une détermination comique qui rendent cette œuvre mineure tout à fait réjouissante. Le titre résume le point de départ du scénario : devant la mort qui vient et les handicaps physiques qui s’accumulent, cinq amis septuagénaires – deux couples et un veuf – décident de vivre en communauté. Autant pour Jean, militant de gauche de la première heure, cette perspective rejoint des idéaux soixante-huitards, autant pour Albert, introverti qui utilise son journal intime pour combattre ses trous de mémoire, partager l’intimité de sa femme malade Jeanne avec ses amis coule moins de source. Quant aux deux femmes, une ancienne liaison au plus chaud lapin de la bande, Claude, pimente la cohabitation d’une nostalgie amoureuse et sensuelle. En termes de mise en scène, ce scénario classique de la vie en commun permet à merveille d’éviter l’écueil d’un paresseux « film choral » qui émietterait des vies pour mieux les faire se croiser : le sujet du film est bien ce qui (se) passe entre ces cinq-là, bientôt mieux liés encore par la présence d’un thésard en ethnologie allemand venu habiter avec eux pour les étudier en échange de menus services domestiques. Ce per- sonnage-liant, brillamment interprété par Daniel Brühl, introduit une dimension générationnelle bienvenue dans un film axé sur une « tribu » par ailleurs plutôt fâchée contre ses enfants : Annie et Jean se trouvent par exemple obligés de construire une piscine dans leur jardin pour s’attirer la présence de leurs enfants et petits-enfants ; quant à Claude, son entêtement à conserver une sexualité le brouille régulièrement avec un fils plein de sollicitude bêtifiante ; enfin, ayant chuté dans la rue à cause de son chien, Albert résume : " ma fille veut buter mon chien et l’en acheter un petit sur internet " … Humoristiques ou hargneux, les dialogues ne versent jamais dans l’antijeunisme mais posent le rapport à la descendance comme un point contentieux, complexe. Les protagonistes ont non seulement conscience des difficultés physiques de la dernière étape de leur vie et de la menace qui plane sur leur conjoint, mais c’est un groupe assiégé, socialement parlant. Seule arme dans ce Rio Bravo générationnel : l’aisance financière, qui, si elle n’est pas l’un des sujets du film, permet cependant à ses cinq baby boomers de se faire aider à la maison, d’envisager une sépulture originale ou encore une piscine familiale, bref, de vivre plutôt que de survivre. Cristallisée autour d’une liaison qu’Annie et Jeanne ont toutes deux eue avec Claude à l’insu de leur mari et aussi l’une de l’autre, la ligne narrative intime du film met aussi en lumière un tabou que certains films, ailleurs (du documentaire coréen Too Young to Die ou la fiction allemande Cloud 9 en passant par certaines séquences chez Woody Allen) ont déjà abordé : la sexualité des seniors. La singularité piquante d’Et si on vivait tous ensemble? est de le traiter avant même l’étape du tournage, via son casting : quand Jeanne déclare au jeune thésard : " Il faut arrêter de penser que les vieux sont asexués : on n’est pas des Anges, merde! ", la réplique prend d’autant plus de poids que c’est Jane Fonda qui la prononce – l’actrice de Tout va bien comme de Barbarella, la reine du fitness et l’auteure du tout récent Prime Time, mémoires empreints d’une réflexion frontale sur la vieillesse et la nécessité d’en faire une période vitale et pas seulement ante mortem. Ainsi, en réunissant, en plus de la star américaine, un ovni du cinéma comique français (le fantasque Pierre Richard), un poids lourd du stand-up (Guy Bedos), un acteur de théâtre également associé à Resnais (Claude Rich) et la fille de Chaplin la plus vue à l’écran (Geraldine), la comédie de mœurs à la française dépasse-t-elle d’emblée ses limites génériques et nationales. Pour les « vieux » acteurs et actrices, une tension féconde s’établit entre l’interprétation précise et juste de leur personnage et une légère distanciation qui permet de suggérer qu’ils composent, restant en cela moins proche de la mort ou de l’impotence que ceux qu’ils incarnent. Entre maigreur de vedette de cinéma et maigreur de malade, il y a très peu de différence visible, par exemple. C’est par ce « jeu » doublement laissé à ses interprètes que cette comédie grave mais jamais mélancolique adresse un pied de nez lointain, du fond d’une piscine vide où la table est dressée, au très tendu Amour, à sa vision de la fin de la vie, du couple et du cinéma. Charlotte Garson 28 il giro del mondo in 60 film saison culturelle LA FAIDA The Forgiveness of Blood Regia: Joshua Marston. Sceneggiatura: Joshua Marston, Andamion Murataj. Fotografia: Rob Hardy. Musica: Jacobo Lieberman, Leonardo Heiblum. Montaggio: Malcolm Jamieson. Scenografia: Tommaso Ortino. Costumi: Emir Turkeshi-Gramo, Emir Turkeshi. Intepreti: Tristan Halilaj, Refet Abazi, Zana Hasaj, Erjon Mani, Luan Jaha, Çun Lajçi. Produzione: Journeyman Pictures, Lissus Media, Fandango Portobello, Artistic Public Domain. Distribuzione: Fandango. Paese: Usa, Albania, Danimarca, Italia Anno: 2011. Durata: 109 minuti. Girare un film su una realtà lontana dalla propria è una sfida difficile; ma fondarlo su uno sgradevole luogo comune attribuito a una cultura straniera è davvero un azzardo. Questo però è ciò che ha fatto l’americano Joshua Marston, al suo secondo film dopo Maria Full of Grace (2003): raccontare la logica delle vendette di sangue nell’Albania contemporanea. Il sangue a cui si riferisce il titolo originale (The Forgiveness of Blood, il perdono del sangue) non è un sangue qualsiasi: è il «gjak», termine albanese che indica la linea di discendenza maschile che unisce il «fis», il gruppo di fratelli e dei loro discendenti riconducibili a un antenato comune. E ciò che bisognerebbe perdonare è il «gjakmarrje», cioè l’omicidio compiuto per levare l’onta arrecata all’onore del proprio clan: un’azione rituale eseguita da un uomo designato dal capo famiglia del gruppo offeso e diretta verso un membro di quello responsabile. Tale prassi è contenuta nel Kanun, il codice consuetudinario albanese, trasmesso per lo più in forma orale, la cui forma scritta più antica risale al XV secolo. È in questo testo che si trova la regola secondo cui è necessario vendicare l’uccisione del proprio famigliare, colpendo fino al terzo grado i parenti maschi dell’assassino. Adempiere alla vendetta è un obbligo al quale non ci si può sottrarre. E per quanto le faide ancora presenti nell’Albania contemporanea possano sembrare pratiche barbare e animali, il loro radicamento è tale da invitare a superare il pregiudizio e lo scandalo culturale. Come scrive l’antropologa Patrizia Resta in Pensare il sangue, affrontando proprio la questione delle vendette trasversali in Albania, è "pericoloso parlarne perché si corre il rischio di costruire uno stereotipo negativo e di contribuire a diffondere o rinsaldare il pregiudizio che assimila gli albanesi a violenti criminali. Incauto perché inocula il dubbio che esista una nazione tribale, organizzata sul modello della violenza individuale. Azzardato perché induce a far credere che la vendetta sia oggi, in Albania, un’istituzione funzionante". Marston, accettando una sfida sia intellettuale sia produttiva, visto le traversie affrontate per realizzare il film, si assume i rischi del caso, a partire da una trama che sembra centrata su uno stratagemma narrativo e invece basata su fatti di cronaca: sin dai primi anni ’90, infatti, si ha notizia della ripresa in Albania delle vendette di sangue in seguito a faide fra diverse famiglie. L’adesione al Kanun viene spiegata mediante la categoria del rispetto: la vendetta non è considerata un’azione violenta, ma un obbligo morale. Questo non toglie la componente tragica che la vendetta ha per le famiglie coinvolte, obbligate a un’alternativa impossibile tra la minaccia dello sterminio e l’onta del disprezzo sociale. Proprio come in un melodramma hollywoodiano (in un interessante incontro/scontro fra le origini di Marston e la cultura straniera che racconta), la dimensione collettiva appare in tutta la sua tragicità, privando il singolo della libertà: è in gruppo che ci si vendica, ed è sul gruppo che ricadono le conseguenze. Ma il solco che il protagonista incide sul muro della camera in cui si nasconde per non incombere nella vendetta, è anche il divario che lo divide dal suo mondo e dai suoi metodi arcaici e inefficaci. La distanza fra il giovane e il padre, ad esempio, è la distanza che tutti i suoi coetanei pongono fra la loro famiglia, insabbiata in una mentalità passata, e un futuro di tecnologia, comunicazione e apertura al mondo. Nessun figlio ha più intenzione di pagare per le colpe dei padri o è disposto ad andare fino in fondo per raggiungere un obiettivo che non gli appartiene. Non c’è rivendicazione o arroganza: i giovani protagonisti di La faida sono personaggi commoventi nell’accettare con coraggio le conseguenze delle loro azioni e delle persone che li circondano. Ed è la consapevolezza del diritto di vivere la propria che li porta a tagliare i ponti con il contesto famigliare, superando la scelta lacerante tra l’accettare il sistema o rigettarlo. L’immagine del protagonista che si allontana, la schiena china sotto il peso della sacca, invita così a guardare con occhi nuovi, stranieri come quelli del regista, un paese diverso: un paese che oggi percorre l’Europa con passo sicuro e prova a vivere il proprio inconfutabile e inarrestabile cambiamento. Nora Demarchi saison culturelle il giro del mondo in 60 film UN GIORNO DEVI ANDARE 29 Regia: Giorgio Diritti. Soggetto: Giorgio Diritti, Fredo Valla. Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla, Tania Pedroni. Fotografia: Roberto Cimatti. Musica: Marco Biscarini, Daniele Furlati. Montaggio: Esmeralda Calabria. Scenografia: JeanLouis Leblanc, Paola Comencini. Costumi: Hellen Crysthine, Bentes Gomes, Lia Morandini. Suono: Carlo Missidenti. Interpreti: Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth, Sonia Gessner, Amanda Fonseca Galvão, Paulo De Souza, Davide Tuniz, Eder Frota Dos Santos. Produzione: Aranciafilm, Lumière & co., Rai Cinema. Distribuzione: BIM. Paese: Italia. Anno: 2013. Durata: 110 minuti. È emozionante ritrovare la storia del cinema in Un giorno devi andare. Quello di Diritti è un piccolo grande film che riflette diversi itinerari della produzione indipendente. Innanzitutto perché il Brasile ha sempre rappresentato un fascino irresistibile per i concept produttivi basati sulla sperimentazione, dal film incompiuto di Orson Welles (It’s All True, 1942) fino a Tigrero: A Film That Was Never Made di Mika Kaurismaki (1994), viaggio con due mostri sacri del cinema indipendente come Sam Fuller e Jim Jarmusch, alla ricerca di un’opera mai realizzata. L’Amazzonia, poi, è terra di imprese epiche, dove l’uomo si trova da solo al cospetto di una natura che sgomenta e annichilisce, come nello strepitoso Fitzcarraldo di Herzog (1982), in cui una produzione cinematografica testarda e pericolosa diventa la metafora stessa della lotta per l’esistenza. Vedendo la parte iniziale di Un giorno devi andare, in cui la protagonista e l’amica suora raggiungono il villaggio sul fiume, non si può non pensare a Fuller che mostra agli Indios le immagini dei loro avi riprese dalla sua cinecamera negli anni ’50; così come non si può non pensare a Herzog quando le prime inquadrature aeree abbracciano la vastità del Rio delle Amazzoni. Diritti coglie la necessità di un confronto tra condizioni sociali e valori spirituali diversi, nel senso di una sceneggiatura costruita sul tema dello «sguardo reciproco» tra gli indigeni della regione di Manaus e le donne straniere arrivate dall’Europa. Come nei grandi racconti di viaggio, la scoperta dell’Altro è sempre intimamente legata alla comprensione di sé. Così il pellegrinaggio di Augusta, che deve rielaborare dolorose vicende personali, diventa occasione per scoprire con occhi vergini la doppia dimensione del paesaggio naturale e umano del Brasile. Ma è lo spettatore stesso ad attivare una doppia attenzione, andando oltre la descrizione delle condizioni materiali degli Indios e arrivando a percepire lo sguardo mistico di un approccio al reale di ordine sacro. E qui Diritti conferma e amplifica il legame con il maestro Olmi, la capacità di catturare, attraverso la contemplazione dell’ambiente naturale, quel senso del «meraviglioso» che costituisce il principio fondativo del recupero della sacralità religiosa. È nello sguardo degli uomini – artisti, interpreti e spettatori – protratto alla ricerca di un senso che si riflette la luce divina, e la ricerca del personaggio femminile arriva a evocare l’ascesa al vulcano di Stromboli, terra di dio (1951), capolavoro rosselliniano in cui la Bergman affida al proprio corpo inerme il compito di sublimare l’inchiesta intorno a un significato percepito soltanto nella fusione con la Natura. Il percorso della protagonista Augusta è proposto attraverso tappe progressive, e il primo passaggio è il ripiegamento nella dimensione privata: osserva il mondo chiusa in se stessa con il distacco seguito al lutto della perdita di un figlio. È soltanto più tardi che la protagoni- sta sceglie l’adesione concreta alla vita di comunità, con la permanenza nelle favelas di Manaus, a stretto contatto con i suoi abitanti, in un’esperienza di testimonianza sociale e militante che supera il concetto di missionariato. Ma è nella terza parte del film, quella in cui Augusta si reca da sola su un’isoletta del fiume, che Diritti si prende i rischi più grandi, spostando la percezione su una complessità dell’individuo per il quale il vivere sociale, declinato secondo principi d’impegno di matrice socialista, non rappresenta la soluzione. Certo, alcune immagini relative all’ambientazione urbana si impongono con straordinaria intensità, arrivando a sfondare il confine del visibile, primo fra tutti il dedalo di case pericolanti invase da tonnellate di rifiuti. Così come spicca la disperata ricerca da parte degli Indios dell’unico valore rimasto, quel senso di appartenenza al loro territorio che di fronte agli sgomberi delle favelas suona come l’ultimo tentativo di conservare un’identità culturale estinta. Sarebbe però spiacevole limitare Un giorno devi andare al suo valore documentaristico e ai suoi toni obbligatoriamente politici: è giusto invece percepirne il valore ben più alto e poetico, legato alla lotta esistenziale di una donna segnata da una terribile perdita e alle prese con l’epica lotta di chi cerca di ritrovarsi alla vita. Umberto Mosca 30 il giro del mondo in 60 film LA GUERRE EST DÉCLARÉE saison culturelle Réalisation : Valérie Donzelli. Scénario : Valérie Donzelli et Jérémie Elkaïm. Photographie : Sébastien Buchmann. Montage : Pauline Gaillard. Décors : Gaëlle Usandivaras. Costumes : Elisabeth Méhu. Interprètes : Valérie Donzelli, Jérémie Elkaïm, César Desseix, Gabriel Elkaïm, Brigitte Sy, Elina Löwensohn, Michèle Moretti, Philippe Laudenbach, Bastien Bouillon, Béatrice de Staël, Anna Le Ny, Frédéric Pierrot, Elisabeth Dion. Production : Edouard Weil pour Rectangle Productions. Distribution : Sacher Film. Pays : France. Année : 2011. Durée : 100 minutes. Présenté en ouverture à la Semaine de la critique de Cannes 2011, le second long métrage de Valérie Donzelli éblouit et bouleverse presse et public. Dans La Reine des pommes, la réalisatrice, scénariste et actrice transforme le chagrin d’une fille en une comédie musicale originale, délicieuse et en même temps drôle. Dans ce premier film, on ressent un goût typiquement Nouvelle-Vague, mais toutefois moderne. Cette foisci, par contre, la cinéaste a toute la force pour faire un film d’action, comme le titre nous le montre. La guerre est déclarée - référence au combat en Irak qui éclate en mars 2003 bien évoqué dans le film par la radio - veut témoigner le conflit quotidien que chacun de nous doit affronter et les protagonistes en donne la preuve. C’est une histoire autobiographique, entre réalité et fiction, incarnée par Valérie Donzelli et son co-scénariste et compagnon Jérémie Elkaïm, qui a été vécue quand leur premier enfant Gabriel est tombé malade à l’âge de 18 mois. Après un contrôle pour un R.M.I. à l’hôpital, un flash-back nous emmène au commencement de l’aventure entre Roméo et Juliette, « voués au terrible destin ». Le coup de foudre entre ces deux jeunes avec « le nez droit e la bouche cerise » se déclenche à une fête avec une musique punk-rock et là commence l’amour fou, filmé comme une décharge électrique entre le couple. Le rythme serré et vif qui suit la vie des deux amoureux nous rappelle le prologue de Jules et Jim. La course à toute allure, les plaisanteries avec la barbe à papa et les pommes, les rires, les baisers et les étreintes se fondent dans une ambiance musicale harmonieuse de Bach et de Georges Delerue. Les musiques tellement différentes et parfois éclectiques marquent les parties du film: Break Ya de Yuksek fait de fond sonore à une course désespérée et désarticulée de Juliette qui a laissé son enfant aux médecins pour son premier scanner, L’hiver de Vivaldi annonce la rupture de la joie et Le grain de beauté est la chanson d’amour, interprétée par les deux protagonistes en surimpression, au moment où ils cherchent d’être fort et unis et de sortir de cette situation tragique. En effet jusqu’ici, l’histoire a été filmée et contée de façon frénétique et jolie: l’amour libre et égalitaire du couple qui rêve d'un avenir plein d’aspiration, la naissance d’Adam, avec les nuits blanches, les tétées et les tensions entre père et mère pour les pleurs de leurs fils et à nouveau un bonheur familial, avec les parents de Roméo et de Juliette, qui est raconté avec fraîcheur et de façon très littéraire par une voix-off féminine. Encore un grand hommage à la Nouvelle-Vague et en particulier à Truffaut avec les iris qui ferment et ouvrent les chapitres du film. C’est encore la plage du final dans Les Quatres cents coups qui nous emmène à cet univers marin de l’espoir. Avec une Canon 5D, un appareil-photo de la même manière qu’une caméra légère et à la main comme dans les années soixante et une petite troupe, la réalisatrice peut en effet entrer dans les hôpitaux et les filmer, en pouvant rendre encore plus réel ce film qui laisse de la place à l’humour et se transforme en hymne à la vie, à l’amour, au courage. Une expérience tragique et intime décrite sous forme d’art poétique cinématographique avec douceur, tendresse et enthousiasme. Le couple ne se laisse jamais vaincre par la terrible douleur de la maladie, mais ils réagissent toujours pour leur fils et ils restent soudés grâce à leur amour qu’il se nourrit de jour en jour de dialogues entre eux, de respect, de compréhension. " Pourquoi c’est tombé sur nous? parce que on est capables de surmonter ça ". Ces question et réponse expriment bien le message de lutte de refus de résignation de cette expérience. En surmontant le marathon, où la course devient le symbole du film dans toutes ses formes et métaphore de la vie qui s’écoule vite, le couple moderne de Shakespeare chasse les malheurs, le pessimisme et la peur. Des larmes tombent sur nos visages, mais ce sont des gouttes associées à une pulsion de vie qui se délivre et s’exorcise. Avec un style pop et des couleurs violentes mêlés au naturalisme et à la sincérité d’une Donzelli radieuse, La guerre est déclarée a une audace qui ne faiblit jamais pour arriver à un résultat débordant d’énergie et de magie, comme un conte de fées. Alexine Dayné il giro del mondo in 60 film saison culturelle HUNGER Regia: Steve McQueen. Sceneggiatura: Steve McQueen, Enda Walsh. Fotografia: Sean Bobbit. Montaggio: Joe Walker. Musica: David Holmes, Leo Abrahams. Scenografia: Tom McCullagh, Brendan Rankin. Costumi: Anushia Nieradzik. Interpreti: Michael Fassbender, Liam Cunningham, Lalor Roddy, Stuart Graham, Brian Milligan, Liam McMahon, Laine Megaw, Helena Bereen, Helen Madden, Des McAleer. Produzione: Blast! Films/ Channel Four Films/Film4. Distribuzione: BIM. Paese: Gran Bretagna. Anno: 2008. Durata: 96 minuti. Hunger, cioè "fame", presentato al Festival di Cannes del 2008, è arrivato in Italia solamente nel giugno 2012, sulla scia del successo di Shame, il secondo e ben più celebre film del regista inglese Steve McQueen. Eppure fin dalla sua prima proiezione il film aveva messo prepotentemente in luce McQueen, artista londinese, scultore e fotografo all’esordio nel cinema. Dietro questo lavoro, in modo più convincente rispetto al secondo, si avverte un ispirato lavoro di sperimentazione sull’inquadratura, come se l’immagine nei suoi differenti formati fosse una materia da plasmare, smembrare e poi ricomporre. Per questo Hunger non è, o almeno non soltanto, un film biografico su Bobby Sands, l’attivista irlandese che lottò per ottenere lo status di prigioniero politico e morì a ventisette anni nel carcere di Maze, a Long Kesh, il 5 maggio 1981, dopo sessantasei giorni di sciopero della fame. Al di là di ciò che viene mostrato, nel film c’è un preciso lavoro sul corpo, sulla luce e sullo spazio, come se il cinema fosse un’altra emanazione artistica nel rapporto tra sguardo e creazione di McQueen. Innanzitutto il corpo, quello di Michael Fassbender: un corpo di cui si assiste la mutazione, prima graduale, poi sempre più consistente. I capelli e il lavaggio fatto dai secondini, le cicatrici sul volto e sulla schiena, il progressivo deperimento fisico ne fanno quasi l’emblema di un martirio cristologico. Le immagini della figura di Sands potrebbero essere scatti fotografici in successione, o brevi ellissi che generano un ritmo sotterraneo e silenzioso, molto più potente e intenso di quello che viene mostrato. McQueen orchestra un’incessante percussione, sottolineata da elementi sonori messi in risalto e spesso più importanti dei dialoghi: il rumore dell’acqua del lavandino, le chiavi dei carcerieri, i rumori dei prigionieri durante la protesta delle coperte e dello sporco. La vera novità del passaggio di McQueen al cinema è qui: nella ricerca dell’elemento uditivo da sovrapporre a quello visivo, per dar modo alle immagini di respirare quasi fisicamente. Oltre al suono diegetico, c’è poi la voce di Margareth Thatcher, quasi un contrappunto freddo a una violenza impassibile, ancora più forte perché sentita fuori campo e avvertita dietro le mura. Hunger è un’opera densissima, studiata nei minimi dettagli, ma di una vitalità sconvolgente; un film che lascia i segni del suo passaggio come un dipinto o una visione del passato che ritorna con prepotenza. Non si sa, ad esempio, se e che tipo d’influenza abbia avuto su McQueen Il processo di Giovanna d’Arco di Bresson, per quanto proprio l’estrema sintesi della parte finale faccia intendere come modello il cinema del grande regista francese. Oltre il corpo, poi, in Hunger c’è lo spazio. Il film è chiuso, ma non claustrofobico. Lo si può vedere nelle aperture in esterno della scena iniziale, quando l’agente penitenziario controlla la presenza di esplosivo sotto la sua auto. Oppure nei colloqui dei detenuti con i parenti, nelle soggettive di Bobby sui genitori che idealmente spezzano l’unità del luogo e anticipano le allucinazioni dell’ultima parte. Lo stesso spazio della cella, poi, con le sue pareti sporche e puzzolenti, diventa una traccia compositiva, quasi come l’istallazione filmata di una mostra. Ma la sfida più estrema di Hunger è il lungo dialogo tra Bobby e il sacerdote, diciassette minuti di associazione tra immagine cinematografica e fotografia che proprio per la sua durata estrema dà l’impressione di sgretolarsi da un momento all’altro, quasi a ricordare il celebre piano fisso di Andy Warhol sull’Empire State Building. In Warhol, a manipolare il rapporto tra sguardo e realtà era la fissità della macchina da presa, mentre in Hunger è il puro e semplice dialogo. La parola diventa l’arma nascosta di Bobby Sands, lo strumento che apre il film a distanze profondissime, a interpretazioni sul rapporto tra individuo e moralità, libertà e religione. Quella stessa profondità che a livello visivo si percepisce in dettagli come un lenzuolo sporco, in immagini come quella di Bobby agonizzante, che confermano la ricchezza e l’inafferrabilità di un lavoro come Hunger, soprattutto se messo a confronto con i risultati compiaciuti e al limite dell’artificio del successivo Shame. Simone Emiliani 31 32 il giro del mondo in 60 film L’intervallo saison culturelle Regia: Leonardo Di Costanzo. Sceneggiatura: Leonardo di Costanzo, Mariangela Barbanente, Maurizio Braucci. Fotografia: Luca Bigazzi. Montaggio: Carlotta Cristiani. Scenografia: Luca Servino. Costumi: Kay Devanthey. Interpreti: Francesca Riso, Alessio Gallo, Antonio Buil Puejo, Carmine Paternoster, Salvatore Ruocco. Produzione: Tempesta Film. Distribuzione: Cinecittà Luce. Paese: Italia/Svizzera/ Germania. Anno: 2012. Durata: 90 minuti. Ci sono le opinioni, i gusti e le predilezioni. E poi ci sono i fatti. È un fatto che un film come Corpo celeste abbia fatto il giro del mondo, lanciato dal trampolino di Cannes e dalla definizione di "miglior esordio femminile del cinema italiano". Invitato a decine di festival internazionali, il primo film di Alice Rohrwacher ha trovato distribuzione in diversi paesi europei e ottenuto visibilità al di là dell’oceano. Poi i fatti vanno letti e interpretati, certo. E a voler fare i maligni si potrebbe pensare che il film trasmette all’estero l’immagine stereotipata di un’Italia meridionale e arretrata, schiacciata all’ombra della croce e diroccata tanto nell’urbanistica quanto nella morale. Ma non è così: Corpo celeste ha fatto il giro del mondo perché dice la verità, non tanto su un’Italia che è (anche) così, ma soprattutto su una condizione esistenziale raccontata con attenzione e delicatezza, e con uno stile capace di alternare in maniera fluida osservazione a distanza a serrati pedinamenti dal sapore «dardenniano». Una modalità che segna in maniera profonda il cinema degli ultimi anni e che da noi si confronta con una diffusa cecità distributiva, non solo per quanto riguarda le opere autoctone ma anche, e soprattutto, per quanto arriva – potrebbe arrivare – dall’estero. Forse vivere all’estero aiuta, e non è un caso che tanto la regista quanto il produttore di Corpo celeste non risiedano in Italia: Rohrwacher è di stanza a Berlino e Carlo Cresto-Dina, anche se la sede operativa di Tempesta (produttrice del film) è a Bologna, vive da tempo a Londra. Forse Cresto-Dina è furbo e sa che l’appeal di un film per il mercato internazionale ha i suoi standard, così come li hanno i film commerciali: ma non fa forse parte del lavoro del produttore avere una propria idea di cinema e perseguirla, confrontandola e misurandola con quella dei registi con cui lavora? Allora non sarà certo un caso se, a due anni di distanza da Corpo celeste, il «miracolo» sembra ripetersi con L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, visto che dietro c’è nuovamente Tempesta e ancora una volta un film italiano arrivato in sordina in un grande festival – questa volta la Mostra del Cinema di Venezia – abbia finito per essere il titolo di cui si parlava, se non di più, quantomeno meglio (con buona pace dei vari Ciprì e Bellocchio). È vero: la realtà illustrata è nuovamente quella di un Sud afflitto da un degrado strutturale etico e civile, con quelle abitazioni fatiscenti, sventrate di vita e bellezza, popolate di fantasmi e presagi di morte, prigioni dalle quali l’adolescenza non sa come evadere. Costretti da regole che non sanno interpretare né aggirare, un ragazzo e una ragazza trascorrono una lunga giornata all’interno di un caseggiato abbandonato: superata l’iniziale diffidenza, dimenticheranno di essere uno il carceriere e l’altra la carcerata, e come in un’avventura di Harry Potter, ma senza incantesimi o effetti speciali, per un istante voleranno sospesi sulle ali di un abbandono impossibile. Perché la loro vita è già segnata, dalle parole che usano, dai vestiti che indossano, dagli sguardi che si lanciano, da un’accondiscendenza all’ambiente circostante forte quanto il desiderio di rivalsa. E la realtà irromperà nuovamente a fine giornata, nei panni di un capo quartiere mafioso giunto a ripristinare un ordine che non può essere messo in discussione, nemmeno da uno sgarbo inconsapevole. Cinema provinciale, dialettale: a quanto pare è sempre da lì che dobbiamo ripartire, come se la lezione rosselliniana non fosse mai stata appresa e interiorizzata o sia l’unica ancora necessaria, da tramandare di film in film. Leonardo Di Costanzo, apprezzato documentarista (in Francia, soprattutto, ché in Italia il nome fino a oggi lo conoscevano in pochi), mette il proprio sguardo al servizio di una sceneggiatura a due voci tesa ed essenziale, scritta insieme con Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente. Non un dialogo di troppo, non un movimento di macchina sprecato: i silenzi e i volti dicono tanto quanto le parole, e solo nel finale si ha la percezione di uno scarto, l’impressione di una quinta teatrale, o di un gesto attoriale appena più marcato del necessario. O forse è solo il desiderio di una chiusa diversa, pur sapendo che non ci può essere altra chiusa che questa. E oggi, in Italia, altro cinema che questo. Alessandro Stellino il giro del mondo in 60 film saison culturelle IO E TE Regia: Bernardo Bertolucci. Soggetto: dal romanzo omonimo di Niccolò Ammanniti. Sceneggiatura: Niccolò Ammaniti, Umberto Contarello, Francesca Marciano, Bernardo Bertolucci. Fotografia: Fabio Cianchetti. Musica: Franco Piersanti. Montaggio: Jacopo Quadri. Scenografia: Jean Rabasse. Costumi: Metka Kosak. Interpreti: Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco, Sonia Bergamasco, Veronica Lazar, Tommaso Ragno, Pippo Delbono. Produzione: Fiction, Wildside, Medusa Film. Distribuzione: Medusa. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 97 minuti. Sempre di più, soprattutto nel corso degli ultimi anni, il cinema di Bertolucci sembrava portarsi dietro l’immagine di un cinema dell’assedio, frutto di uno sguardo che sembrava non poter guardare il mondo se non rinchiudendosi in spazi di sicurezza, di salvaguardia della propria umanità e della propria vita. Un cinema sintomatico di una realtà in costante cambiamento, di uno sguardo che coglieva lo smarrimento e la perdita di riferimento dei soggetti che abitano questo mondo. Smarrimento e perdita di senso che costringeva i personaggi a rinchiudersi, sotto assedio appunto, in un appartamento al centro di Roma o a Parigi alla vigilia del maggio ’68, nelle colline del Chianti o nel deserto africano ai primi del ’900. Uomini, donne, ragazzi e ragazze. Tutti accomunati dal destino di vivere in spazi temporanei di (apparente) libertà, tra illusioni e scoperta della propria impotenza. Un cinema sottilmente disperato e al tempo stesso lucido nel cogliere una fase di cambiamento e trasformazione radicale, che appartiene appunto al mondo e allo sguardo. Io e te sembra letteralmente rovesciare dall’interno, in modo lento e inesorabile, questo movimento di chiusura (che non è mai stato, ripetiamolo, un movimento di limitazione dello sguardo), proprio attraversandolo, vivendolo totalmente in un certo senso, fino alla fine. L’esperienza di visione del film è infatti qualcosa che porta lo spettatore a vivere con i personaggi, le due solitudini rappresentate dai fratellastri Loren- zo e Olivia, che per una settimana abitano per scelta o per obbligo l’interno di una cantina. La macchina da presa è con loro, li accompagna più che seguirli, li scopre più che confermarli – e in questo la bellezza dei corpi filmici inediti di Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco non può che essere d’aiuto – porta all’interno di un altro microuniverso chiuso, per scoprire però non solo e non tanto il senso di smarrimento ed estraneità al mondo dei due ragazzi, ma il desiderio di vita, lo slancio vitale parte integrante del loro essere. Man mano che i giorni passano, i due individui non confermano la propria solitudine, non rimangono arroccati e isolati nella loro estraneità, ma cominciano a incontrarsi, ad accettare, reciprocamente, lo sguardo dell’altro. Il film è straordinario nel seguire, attraverso piccoli eventi o gesti inattesi, la trasformazione di due soggettività, che letteralmente si attraversano e si incontrano «scambiandosi» reciprocamente gli occhi. La metodicità di Lorenzo – che programma fino all’ultimo dettaglio la permanenza nello scantinato – si scontra con una forma di vita senza regole né metodo, alla deriva come quella di Olivia. Ma lo scontro determina un incontro che si costruisce sequenza dopo sequenza, gesto dopo gesto. La lucidità e l’attenzione di Bertolucci stanno anche in questo movimento di avvicinamento graduale, in cui ogni dettaglio conta, ogni evento ha la sua importanza. Non c’è nulla di più umano e vitale che accogliere l’altro proprio a partire dalla sua diversità e alterità. Ed è proprio così che Io e te (titolo in cui la congiunzione separa e al tempo stesso unisce un «io» e un «tu») si configura come un gioco complesso di sguardi, gioco tra i due protagonisti, tra la macchina da presa e il mondo in cui essi si ritrovano a vivere, tra noi e le loro storie. Gioco vitale, che un cinema attuale (cioè contemporaneo) come quello di Bertolucci riesce ad attivare. Sì, perché in questo complesso movimento si costruisce un cinema che ha respiro, che non guarda dall’alto i suoi personaggi, non li pensa (né li filma) come parti di un esperimento, di una messa in forma teorica, di una messa alla prova etica. Bertolucci è inattuale in questo, e forse per fortuna. Questa dinamica dell’incontro, questo movimento complesso e vitale di cui abbiamo parlato è ciò che permette ai personaggi, finalmente, di uscire dall’assedio e alla regia di filmare una doppia possibilità di vita, per Olivia e per Lorenzo. Entrambi usciranno dallo spazio serrato dello scantinato, entrambi prenderanno altre direzioni. Ma quel movimento di fuoriuscita è possibile solo grazie a tutto quell’insieme di gesti e sguardi che ha caratterizzato il loro incontro. Ancora una volta, la forza del cinema risiede nella capacità di cogliere ciò che altrove è solo un dettaglio. Daniele Dottorini 33 34 il giro del mondo in 60 film IL LATO POSITIVO saison culturelle Silver Linings Playbook Regia, sceneggiatura: David O. Russell. Soggetto: dal romanzo L’orlo argenteo delle nuvole di Matthew Quick (ristampato con il titolo Il lato positivo). Fotografia: Masanobu Takayanagi. Montaggio: Crispin Struthers, Jay Cassidy. Musica: Danny Elfman. Interpreti: Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Julia Stiles, Jacki Weaver, Chris Tucker, Anupam Kher, John Ortiz, Shea Whigham, Dash Mihok. Produzione: Mirage Enterprises, The Weinstein Company. Distribuzione: Eagle Pictures. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 122 minuti. Da un’inquadratura su sfondo nero si sentono i pensieri di un uomo rinchiuso in una clinica psichiatrica: raccontano i ricordi piacevoli di una domenica in famiglia. Lentamente la macchina da presa si muove e si sofferma sul mezzo busto dell’uomo ripreso di spalle, la cui voce dice di aver rovinato tutto, ma assicura che ogni cosa si rimetterà al meglio; subito dopo, ripreso in primo piano, l’uomo si rivolge all’obiettivo con uno sguardo intriso di sofferenza. Lo sguardo in macchina di quello che sarà il protagonista è il primo segnale dell’identificazione con i suoi travagli: per lo spettatore sarà infatti impossibile non soffrire per un individuo fragile, ammalato ma in fondo comune. Pat Solatano, affetto da disturbo bipolare, esce dall’ospedale dopo otto mesi di ricovero e crede che la sua riabilitazione consista nel mantenersi in forma con la corsa, nell’evitare di assumere gli psicofarmaci prescritti e nel leggersi i libri che la moglie Nikki, da cui è separato e che ha intenzione di riconquistare, consiglia ai suoi studenti. L’uomo ha perso la compagna, la casa, il lavoro, eppure dimostra un’insolita forza positiva. Tuttavia deve scontrarsi con le persone che gli stanno vicino: la madre dallo sguardo vacuo e incapace di reagire agli strani comportamenti del figlio (una Jackie Weaver tanto protettiva quanto era spietata in Animal Kingdom, 2011) e soprattutto il padre, uno scommettitore superstizioso e compulsivo che condiziona pesantemente l’umore di Pat (un Robert De Niro tornato in gran forma). Come nel precedente The Fighter (2010), David O. Russell ripropone l’incisività e la ferocia dell’universo familiare, questa volta attraverso una passione maniacale per i Philadelphia Eagles, la squadra di football locale. Pat si aggrapperà ai suoi vecchi amici per recuperare il rapporto con Nikki, la donna perfetta, ma incontrerà Tiffany, una donna misteriosa che ha subito un grave trauma e come lui soffre di stati d’animo alterati. Tutti i personaggi che ruotano intorno al protagonista non sono meno «folli» di lui, ma non riconoscono la propria patologia e, anzi, sono convinti di poter aiutare l’uomo diagnosticato malato. Il lato positivo induce a riflettere su ciò che universalmente viene ritenuto «normale»: una persona con problemi mentali, etichettata come tale, che si dimostra più pericolosa perché non si rassegna ad aver torto, non è troppo diversa da persone più controllate che fanno ugualmente emergere lati aggressivi, tic nervosi e disagi psichici. Il film, tratto dal romanzo L’orlo argenteo delle nuvole di Matthew Quick, traspone la commedia all’interno di un dramma in cui la metafora del titolo originale indica i raggi del sole che faticano a rischiarare le nuvole dopo una tempesta: dietro quelle nuvole, però, il sole tornerà a splendere e a rischiare il lato positivo della vita. Un tema drammatico come la malattia mentale viene smorzato da una freschezza vitale e da dialoghi brillanti che restituiscono un’immagine di leggerezza e piacere. I due protagonisti, Pat e Tiffany, considerati «diversi», si conoscono per caso e dopo parecchi scontri verbali lungo la strada, luogo di incontro dove la macchina da presa si concentra sui loro corpi, si aiuteranno in un percorso di salvezza dal mal di vivere. Il binomio tragedia-commedia, come in un film d’epoca classica, è bilanciato dallo scambio di battute dei due attori, una serie frenetica di colpi da boxeur. Uno stile a tratti nevrotico, accentuato da un montaggio veloce e dal frequente uso della shaky camera, rende infine le immagini leggermente malferme e riproduce fisicamente i violenti sbalzi d’umore di Pat. Da un lato emerge il lato più drammatico e infantile del personaggio, un Bradley Cooper inedito, attore finissimo e sensibile lontano anni luce dal bellimbusto di Una notte da leoni; dall’altra sale in cattedra la personalità folle e seducente di Tiffany, una Jennifer Lawrence premiata a sorpresa con l’Oscar per la Miglior attrice e capace di interpretare una donna schietta, irresistibile e redentrice che sembra venire dritta dalla tradizione comica del cinema hollywoodiano. Anche e soprattutto il rapporto di amore e scontro verbale tra i due protagonisti rende Il lato positivo un film commovente, a tratti molto divertente, sull’incontro tra due anime folli, ma più reali che immaginarie. Alexine Dayné saison culturelle il giro del mondo in 60 film THE MASTER 35 Regia, soggetto, sceneggiatura: Paul Thomas Anderson. Fotografia: Mihai Malaimare Jr. Musica: Jonny Greenwood. Montaggio: Leslie Jones, Peter McNulty. Scenografia: Jack Fisk, David Crank. Costumi: Mark Bridges. Interpreti: Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern, Ambyr Childers, Rami Malek, Jesse Plemons, Kevin J. O’Connor. Produzione: Ghoulardi Film Company, Annapurna Pictures. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 137 minuti. Difficile mettere a fuoco The Master, a quanto pare persino per quelli che, a vario titolo, hanno contribuito alla sua realizzazione. Il distributore Harvey Weinstein ha candidamente ammesso di avere sbagliato la strategia di lancio e promozione del film; uno dei due attori principali, Joaquin Phoenix, ha confessato di essersi divertito, alla prima proiezione, come e più che a un film comico. A tutto questo vanno aggiunte le polemiche dei seguaci di Scientology, setta religiosa il cui fondatore, Ron Hubbard, avrebbe indirettamente ispirato la costruzione del personaggio di Philip Seymour Hoffman. Polemiche iniziate prima dell’uscita del film, e rivelatisi a loro volta fuorvianti, posto che il regista di The Master si pone – nei confronti di Scientology come di qualsiasi altro movimento religioso – in una posizione più descrittiva che critica, più contemplativa che polemica. Tra le mille voci trapelate durante la lavorazione del film, alla base dei numerosi equivoci che ne hanno accompagnato l’uscita, una pare tuttavia rivelatrice: quella per cui il copione consisterebbe in una rielaborazione di una stesura preliminare della sceneggiatura del film precedente di Anderson, Il petroliere (2008). I punti in comune fra i due film sono infatti diversi, il principale dei quali è la critica, questa sì feroce, al mito dell’individualismo americano, che qui assume la forma di un delirio egocentrico di onnipotenza (per chi lo vive) e di un culto della personalità spinto alla sottomissione (per chi lo subisce). Sin dai tempi di Magnolia (1999), nel cinema di Anderson i personaggi eccezionali sono tali soprattutto nei tratti patologici. Che, nel caso di questi ultimi due film, possono essere ricondotti all’ansia di affermazione, a un narcisismo ossessivo, alla compiaciuta consapevolezza del proprio carisma. Sotto questo punto di vista, il suo è un cinema wellesiano, dominato da figure «bigger than life», magniloquenti nel successo come nel declino. Paradossalmente, la statura di questi personaggi è tale che finisce per tracimare dal piano della finzione, determinando squilibri strutturali nell’impalcatura del film. Il problema, che già affiorava alla superficie del Petroliere, si fa qui più evidente, al punto che in certi momenti ci si chiede quando la storia abbia effettivamente inizio. Perché Anderson mette in pista due grandi personaggi, li affida a due attori disponibili a curare in ogni dettaglio la loro caratterizzazione, poi però sembra dimenticarsi che le grandi interpretazioni – Welles docet – devono pur sempre essere funzionali a un’orchestrazione complessiva capace in qualche modo di trascenderle. Come già nel Petroliere però, il regista mette il film al servizio dei suoi attori, invece di seguire – nonostante a suo tempo sia stato capace di comporre un mosaico complesso come quello di Magnolia – il principio contrario. Per leggere The Master in modo appropriato occorre dunque uscire dal film stesso, e provare a raccordarlo a scenari più ampi. Abbiamo già detto della critica all’individualismo che accomuna i due ultimi film di An- derson; ma sarebbe forse il caso di dare all’affermazione una risonanza diversa, forse persino opposta. In qualche modo, il regista cade vittima dello stesso male che si propone di rappresentare, rimanendo schiacciato sotto il peso di quella forma squisitamente cinematografica di individualismo che passa sotto il nome di autorialità. Affascinato dal magnetismo e dal talento dei suoi interpreti, Anderson lascia alle loro performance uno spazio che finisce per mangiarsi il film, fagocitando ogni possibile sviluppo narrativo. Sequenza dopo sequenza, il racconto viene risucchiato dentro un’orbita tracciata e scandita dalle interpretazioni altisonanti di Hoffman e Phoenix: due eccessi – di narcisismo in un caso, di follia nell’altro – legittimano una recitazione debordante, espressivamente ingorda, stilisticamente prolissa, nei confronti della quale la deferenza di Anderson è del tutto tangibile. È così che un film che avrebbe dovuto raccontare la storia della dipendenza di un personaggio da un altro, risulta, alla prova dei fatti, un film che parla di un’altra forma di dipendenza, quella di un regista dai suoi attori, o forse piuttosto dalla sua stessa passione a mettere in scena personaggi così magniloquenti da scompaginare i confini stessi del racconto, nel quale dovrebbero agire da protagonisti, e che invece provvedono a schiacciare sotto il peso della propria identità. Leonardo Gandini 36 il giro del mondo in 60 film LA MIA VITA È UNO ZOO saison culturelle We Bought a Zoo Regia: Cameron Crowe. Sceneggiatura: Aline Brosh McKenna, Cameron Crowe. Fotografia: Rodrigo Prieto. Montaggio: Mark Livolsi. Musica: Jónsi (Jon Thor Birgisson). Scenografia: Clay Griffith. Costumi: Deborah L. Scott. Interpreti: Matt Damon, Scarlett Johansson, Thomas Haden Church, Colin Ford, Maggie Elizabeth Jones, Angus Macfadyen, Elle Fanning, Patrick Fugit, John Michael Higgins. Produzione: 20th Century Fox, LBI Entertainment, Vinyl Films. Distribuzione: 20th Century Fox Italia. Paese: Usa. Anno: 2011. Durata: 124 minuti. Come accade spesso, l’incipit di un film rivela molto di quello che racconterà: nella sequenza d’apertura di La mia vita è uno zoo vediamo infatti il protagonista vestito con una tuta protettiva per le api, intento a raccontare l’esperienza di essere esente dal dolore. E in effetti la prima inquadratura è una soggettiva del protagonista che vede il mondo attraverso la rete di una gabbia. Il film di Cameron Crowe è basato sul romanzo autobiografico di Benjamin Mee e narra le vicende della sua stessa famiglia, che risparmiò una vita intera per comprare il Dartmoor Zoological Park, uno zoo semiabbandonato della campagna inglese con circa duecento animali delle più svariate specie. Crowe, già regista di film commerciali ma aperti a interessanti suggestioni da autore come Vanilla Sky, Quasi famosi e Jerry Maguire, torna all’opera di finzione a sei anni da Elizabethtown, anche in quel caso una storia di rinascita dopo l’incontro con la morte e prima ancora con il fallimento esistenziale. Rispetto al modello originale, sposta l’ambientazione negli stati Uniti e affida la parte del protagonista a Matt Damon, qui capace di dare al suo personaggio fragilità, sussulti e complessità che vanno ben oltre le esigenze di una commedia. Perché in fin dei conti La mia vita è uno zoo ha molte caratteristiche tipiche della commedia, per quanto Crowe sappia gestire con mano sicura una sorta di doppio binario: da una parte, il tono farsesco dato dalla stravaganza di alcuni personaggi (in testa il curioso team di volontari che si incaponisce per pura passione a curare e nutrire gli animali dello zoo), dall’altro il dramma della famiglia di Benjamin, che si trova a dover affrontare la vita dopo la scomparsa della madre. Ed è il tema della perdita e della difficoltà ad accettare la morte dei propri cari a costituire il perno attorno al quale ruota il senso del film. Benjamin Mee è un giornalista abituato a raccontare esperienze estreme. Dopo la morte della moglie si trova a dover gestire da solo i suoi figli: Rosie, una bambina di otto anni, e Dylan, un adolescente arrabbiato col mondo. Deciso a dare una svolta alla propria famiglia, sceglie di licenziarsi dal giornale di cui è una firma di punta, di abbandonare ciò che lo lega ai ricordi della vita precedente e di trovare una nuova casa in campagna. Ma quando si trova ad acquistare la proprietà dei suoi sogni, scopre che nel pacchetto è incluso uno zoo. E che per contratto il nuovo acquirente deve impegnarsi a gestire e a mantenere gli animali. Abituato a raccontare le storie degli altri, Benjamin si trova a vivere una straordinaria avventura in prima persona. Anche sul piano della messa in scena, La mia vita è uno zoo si configura come un film più complesso di quello che potrebbe sembrare a prima vista: girato in una alternanza continua di luce e tonalità più scure – la fotografia oppone la luminosità della campagna californiana a lunghe sequenze di pioggia – il film è anche ricco di metafore visive stratificate e immerse nel discorso, fra le quali emerge l’immagine della gabbia. Il viaggio di Benjamin arriva infatti in un luogo dove la wilderness americana si scontra con la cattività degli animali e dove il protagonista rimane «ingabbiato» dai ricordi della moglie scomparsa (non è un caso che sia proprio la gabbia della tigre a diventare lo specchio in cui il protagonista si ritrova dopo ogni scontro con il figlio). Inoltre, non è solo il protagonista a essere prigioniero dei propri ricordi, ma sono i ricordi stessi delle persone amate a essere prigionieri, chiusi nel buio del proprio passato. Sono fantasmi che solo nel momento in cui saranno lasciati liberi potranno invadere lo spazio del cuore e finalmente volare via. In questo senso, un film all’apparenza tradizionale come La mia vita è uno zoo trova una leggerezza e una profondità commosse. Merito anche dell’ottimo apporto della musica di Jónsi, il celebre cantante degli islandesi Sigur Rós, che per l’occasione ha composto musica originale e ripreso alcune tracce dagli album della band e dalla sua carriera solista: un connubio perfetto, in equilibrio tra la fragilità del pianto e l’eroismo della liberazione, che accompagna il sentimentalismo e l’onestà del film, confermata in fondo dalla stessa sequenza finale, in cui i morti prendono vita davanti ai vivi e finalmente possono salutare e andare in pace. Silvia Colombo saison culturelle il giro del mondo in 60 film MONSIEUR LAZHAR Regia: Philippe Falardeau. Soggetto: dall’omonima pièce di Evelyne De La Chenelière. Sceneggiatura: Philippe Falardeau, Evelyne De La Chenelière. Fotografia: Ronald Plante. Musica: Martin Léon. Montaggio: Stéphane Lafleur. Scenografia: Emmanuel Fréchette. Costumi: Francesca Chamberland. Interpreti: Mohamed Fellag, Sophie Nélisse, Émilien Néron, Marie-Ève Beauregard, Vincent Millard, Seddik Benslimane, Louis-David Leblanc. Produzione: Luc Déry, Kim McCraw per micro_scope. Distribuzione: Officine UBU. Paese: Canada. Anno: 2011. Durata: 94 minuti. Ci vogliono lo sguardo sensibile e la partecipazione discreta che dieci anni fa usò il regista francese Nicolas Philibert in Essere e avere, per parlare al cinema di bambini e di educazione scolastica. Lo spazio chiuso di un’aula, idealmente inviolabile, va filmato e prima ancora occupato, dunque «violato», con gentilezza e discrezione, con la consapevolezza di osservare uno spettacolo proibito, uno dei pochi che ancora rimangano: lo spettacolo, cioè, della scoperta del mondo e di se stessi da parte di un gruppo di piccoli uomini e piccole donne. E se in Habemus Papam Moretti provava a raccontare un altro luogo chiuso e proibito (questa volta nel vero senso della parola), il conclave che elegge il Papa, e non sapendone nulla lo reinventava e smontava con l’arma della follia ludica, il canadese Philippe Falardeau, che non è né Philibert né Moretti e per fortuna nemmeno aspira a esserlo, abbastanza consapevole di non possedere lo sguardo da documentarista e altrettanto onesto da capire che la scuola e l’infanzia non sono materiale narrativo da manipolare impunemente, sceglie con Monsieur Lazhar di raccontare il mondo segreto dell’aula scolastica distruggendolo fin dalla prima sequenza e passando poi il resto del film a ricostruirlo da capo. L’evento traumatico dell’incipit è di quelli che lasciano senza parole, che infliggono ferite destinate a restare aperte per tutta la vita, ancora più profonde se impresse sui corpi di bambini di dieci anni di età o ancor meno. Ma se la violazione dello spazio avviene fuori dal film, prima ancora che la macchina da presa entri nell’aula, e se la tragedia è intravista solamente di sfuggita attraverso lo sguardo innocente di una bambina, e se, ancora, il luogo violato dalla morte viene immediatamente ripulito con una mano di vernice, allora il compito del cinema non è filmare l’esistente, e nemmeno inventarlo per reagire all’assenza di immagini e di immaginario, ma è quello più classico, e se vogliamo hollywoodiano, di rimettere ordine nel mondo, ristabilire la legge che ne regola l’andamento e soprattutto aiutare i suoi piccoli abitanti a riprendere il cammino. La figura autorevole e gentile di Bachir Lazhar è in questo senso un personaggio cinematografico perfetto, un tramite tra lo spettatore e i bambini della classe elementare in cui si trova a insegnare. Sono questi ultimi, in realtà, i veri protagonisti del film, mentre il maestro arrivato dal nulla a deciso a dar loro un’educazione nel momento più difficile, quello in cui l’infanzia incontra ingiustamente il mistero della morte, è piuttosto una guida, forse un agnello sacrificale, pronto a farsi da parte una volta ripreso il cammino e finito il film. In termini narrativi, soprattutto in un genere come il melodramma, la sua figura viene definita «intruder redeemer», cioè lo straniero che redime il mondo in cui si introduce, spesso e volentieri malaccetto e non richiesto; nel caso di Monsieur Lazhar l’ottica da cui è rappresentata ha una forte valenza religiosa, sebbene mai eccessiva o forzata, e il personaggio dello straniero redentore arriva per liberare dal tabù del dolore e della morte la realtà chiusa della scuola e quella iperprotetta, ma in fondo incompresa, dell’infanzia contemporanea. Nella figura di Lazhar i riferimenti cristologici ci sono tutti: al pari dei propri allievi è stato violentato nei suoi affetti personali e ferito per sempre; costretto a rifugiarsi in un paese straniero, lui algerino sposato con una giornalista dissidente, ha dovuto ricominciare da zero e violare uno spazio diverso, in quanto immigrato in un paese dell’Occidente. Dunque Lazhar è figlio e al tempo stesso padre, redento e redentore: se comunica con i propri allievi è perché lo fa da pari a pari, senza dimenticare la severità della figura autoritaria, ma sovente accettando lo scambio di ruoli con i suoi piccoli interlocutori. In modo diverso, forse non altrettanto efficace ma in ogni caso altrettanto delicato, anche Monsieur Lazhar, come Essere e avere, è dunque il racconto del percorso lento e necessario dell’infanzia: senza l’aderenza ai volti e alle situazioni tipica del documentario, senza i tempi e i ritmi delle stagioni della vita, è il racconto di una guarigione e di un ritorno alla vita, con il cinema che prova a mettere ordine in una realtà sconquassata grazie alla forza commovente di un eroe e dei suoi piccoli allievi. Roberto Manassero 37 38 il giro del mondo in 60 film MOONRISE KINGDOM saison culturelle UNA FUGA D’AMORE Regia, soggetto: Wes Anderson. Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola. Fotografia: Robert Yeoman. Montaggio: Andrew Weisblum. Musica: Alexandre Desplat. Scenografia: Adam Stockhausen. Interpreti: Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton, Jared Gilman, Kara Hayward, Jason Schwartzman, Bob Balaban. Produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Scott Rudin Productions. Distribuzione: Lucky Red. Paese: USA. Anno: 2012. Durata: 94 minuti. La prima sensazione che si prova, davanti alla sequenza di apertura di Moonrise Kingdom, è di trovarsi dentro una casa di bambole, dove tutto – dai quadri alle pareti, alla tappezzeria stampata – è stato predisposto da uno di quei pazzi che costruiscono interi castelli con i fiammiferi o da un etnomologo intento a osservare con pazienza infinita un formicaio e la sua febbrile attività. La prima impressione, davanti al cinema di Anderson, è quella di avere il sospetto che al regista non interessi ciò che i personaggi provano o perché fanno determinate cose, ma che il suo obbiettivo sia predisporre un teatro in miniatura dentro cui muovere le sue meravigliose e affascinanti siluhette bidimensionali. Prendiamo il modo con cui descrive lo spazio famigliare e ci fa entrare nella casa della protagonista: la macchina da presa traccia carrellate geometriche, dritte e scorrevoli come righelli su un foglio, ripetute più volte da sinistra a destra e viceversa, parallele verticali e orizzontali su cui costruire la griglia perfetta di una visione molto simile a quella di un insettario, la visione orizzontale di cose che invece scavano nella profondità. Quella che si agita nel labirinto di Moonrise Kingdom la tipica famiglia che Anderson ha sempre messo in scena a partire da I Tenembaum in poi: nuclei disfunzionali ed eccentrici inseriti in un universo vintage, dove ogni oggetto, indumento o arredo diventa cimelio decorativo, evocazione puntuale di una certa atmosfera e di un determinato periodo storico, punto catalizzatore di una gamma di sentimenti ed emozioni che va dalla nostalgia, al ricordo, all’emozione estetica di un preciso sentimento della bellezza. E da buon esteta, innamorato di ogni particolare e sfumatura, Anderson intona i suoi personaggi all’ambiente e agli aggetti di cui li circonda, e non viceversa. Il rischio di questa straordinaria abilità, di questa sensibilità unica per il décor anni ’70 è la tendenza a mettere in scena non personaggi in carne e ossa, ma figurine eleganti, caratteri eccentrici studiati a tavolino, e filmare ogni volta il festival della famiglia anticonvenzionale a ogni costo. Leggendo il film sotto questa luce, il binocolo che copre spesso il viso di Suzy non è più il simbolo di un voler guardare meglio, o più da vicino, le cose del mondo, ma al contrario la metafora di un filtro, di una distanza ulteriore che si frappone tra lo sguardo e il suo oggetto. Ma in Moonrise Kingdom Anderson evita questo pericolo (come invece accadeva in Il treno per Darjeeling) proprio nel momento in cui segue due ragazzini che tentano una fuga d’amore, alla ricerca di nuove possibilità. Sam e Suzy sono due bambini in fuga dalle rispettive famiglie (e poco importa davvero se la famiglia è quella «natural» o quella adottiva) da cui non si sentono desiderati e compresi. Insieme, decidono di percorrere in tutta la sua lunghezza la piccola isola del New England in cui vivono per andare a rifugiarsi in una baia appartata, chiamata per l’appunto Moonrise Kingdom: perché ogni volta che nel loro avanzare fanno tappa nella natura selvaggia, i due protagonisti rinominano il luogo che li ospita. Attraverso l’arte sapiente del campeggio, Sam e Suzy trasformano l’ambiente che li circonda: lo disseminano di oggetti amati (il giradischi a pile, il binocolo, la tenda gialla), lo popolano di arredi quanto meno impropri al luogo e alla situazione (scatolette di cibo per gatti, pile di libri), cambiano d’uso il paesaggio che li circonda (pietre, tronchi e corsi d’acqua trasformati in sedie, tavoli per cenare), trovano nuovi nomi ai luoghi e alle cose. Così a ogni loro nuovo passo il mondo si trasforma e di conseguenza per il loro sguardo, esattamente come dovrebbe accadere – e qui accade – In ogni storia d’amore. E non è un caso che in questo luogo nuovo – una baia isolata diventata il nascondiglio perfetto dove concludere l’avventura di una fuga – la regia filmi il primo bacio tra i due bambini e riesca a farlo nel modo più pudico e vero possibile. Sono momenti in cui il binocolo non serve più, e dove la macchina da presa si ferma, vicina e immobile, davanti a due corpi sulla soglia dell’adolescenza per riempire il nostro sguardo e far scorrere la tenera verità di un momento. Silvia Colombo saison culturelle il giro del mondo in 60 film NOI SIAMO INFINITO The Perks of Being a Wallflower Regia, soggetto e sceneggiatura: Stephen Chbosky. Fotografia: Andrew Dunn. Montaggio: Mary Jo Markey. Musica: Michael Brook. Scenografia: Inbal Weinberg. Costumi: David C. Robinson. Interpreti: Logan Lerman, Emma Watson, Ezra Miller, Mae Whitman, Kate Walsh, Dylan McDermott, Melanie Lynskey, Paul Rudd. Produttore: Mr. Mudd. Summit Entertainment. Distribuzione: M2 Pictures. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 102 minuti. Charlie sta per iniziare l’anno scolastico in un nuovo liceo, preoccupato come solo gli adolescenti sanno essere. La scuola è una giungla in cui vige la legge del più forte, l’unica luce è un professore che si rivela fidato spacciatore di buone letture. Almeno fino a quando, nel rituale giro dei tavoli della mensa – tutti potenzialmente respingenti, simboli tangibili di una temuta esclusione – Charlie conosce la seduttiva Sam e il suo fratellastro Patrick, due carismatici studenti dell’ultimo anno pronti ad accoglierlo tra le braccia di una nuova amicizia, a fargli da bussola in quel mondo che ha il terrore di conoscere. Noi siamo infinito racconta di come i rapporti umani siano destinati a far crescere, di come la fragile età dell’adolescenza possa diventare una palestra per scoprirsi e rinascere, per elaborare lutti e riconoscere il dolore che ci portiamo dentro. Stephen Chbosky ha pubblicato il romanzo The Perks of Being a Wallflower nel 1999 (pubblicato in italiano con il più aderente titolo Ragazzo da parete) e ora torna sui suoi passi per tradurlo in film, trasformando la struttura epistolare del libro in una confessione aperta del protagonista, scandita dalla sua voce fuori campo e dalla quasi totale aderenza al suo sguardo. La forza del film di Chbosky sta nella riuscita caratterizzazione dei protagonisti e nell’interpretazione dei suoi giovani attori (Logan Lerman, Emma Watson, Ezra Miller), capaci di suscitare un’immediata empa- tia, figure di carne e sangue in cui ci si identifica con languida facilità. Charlie è timido, introverso ma curioso, occhi spalancati su un mondo da cui si sente al tempo stesso attratto e minacciato; Sam ha successo, è spigliata e intelligente ma cela un passato dal cuore di tenebra; Patrick è bello e brillante, ma la sua omosessualità lo costringe a vivere nell’ombra, a essere desiderato solo di nascosto, schiacciato dalle ferree regole di comportamento che la scuola mutua dalla società adulta. L’ambientazione – un sobborgo borghese di Pittsburgh all’inizio degli anni ’90 – amplifica il senso nostalgico dell’operazione senza però depotenziare il valore universale della storia, come se non potesse esistere un contesto sociale e culturale capace di avere la meglio sullo spirito indomito dell’adolescenza. Chbosky insiste su gusti, mode e momenti che identificano un preciso momento storico e sottolinea il senso atemporale di un sentimento, di una «Weltanschauung» generazionale capace di commuovere a qualunque età. Puntualizza i modelli (musicali, letterari, cinematografici) di riferimento, storicamente riconoscibili, ma li sfila dal loro valore di testimonianza vintage per mutarli in strumenti di emancipazione, privi di una connotazione cronologica. Asseconda un’anima citazionista usandola per trascendere più che per precisare, per dare al racconto la forma di un apologo più che quello di una fotografia d’epoca. Coesistono così gli Smiths (come in Bella in rosa, 1986) e il Rocky Horror Picture Show (come in Saranno famosi, 1980), Heroes di Bowie e il totem anticonformista del Giovane Holden, i Sonic Youth e i New Order, a esprimere la volontà di tracciare un fluido canale emotivo in cui generazioni diverse possano riconoscere umori e dolori comuni. Noi siamo infinito si caratterizza proprio in questo: è un film che comunica con l’idea di adolescenza che ogni spettatore porta dentro di sé. Questa indeterminatezza rappresenta la sua principale forza evocativa e la definizione precisa dei suoi limiti. Prendendo a modello (in maniera tangente ma evidentissima) il cinema anni ’80 di John Hughes – con i suoi genitori affettuosi e assenti, con l’orgogliosa indipendenza dal mondo adulto, con la prevalenza dell’emozione sulla ragione, con la pudica riflessione sui corpi e sul sesso – Noi siamo infinito affida ai personaggi la valenza simbolica di un’età dolente e pura, capace di metabolizzare, «by any means necessary», il dolore in forza vitale. Una tale affettività tetragona rischia però di ridursi a un’anamnesi dei turbamenti che sfiora il semplicismo. Fiero dell’emozione che suscita, complice anche una regia attenta ma vagamente didascalica, succube dell’afflato romantico che mette in scena, il film scivola a tratti nell’enfasi retorica, alla ricerca di una commozione empatica che tra le lacrime rischia di sfumare i contorni di un ritratto generazionale altrimenti assai preciso. Federico Pedroni 39 40 il giro del mondo in 60 film ON THE ROAD saison culturelle Regia: Walter Salles. Soggetto: dal romanzo omonimo di Jack Kerouac. Sceneggiatura: Jose Rivera. Fotografia: Éric Gautier. Musica: Gustavo Santaolalla. Montaggio: François Gédigier. Scenografia: Carlos Conti. Costumi: Danny Glicker. Interpreti: Garrett Hedlund, Sam Riley, Kristen Stewart, Amy Adams, Tom Sturridge, Allen Ginsberg, Danny Morgan, Alice Braga, Marie-Ginette Guay, Elisabeth Moss, Viggo Mortensen, Steve Buscemi. Produzione: Mk2, Videofilmes, Jerry Leider Company. Distribuzione: Medusa. Paese: USA, Francia, Regno Unito, Brasile. Anno: 2012. Durata: 137 minuti. C’è un motivo per cui gli adattamenti cinematografici dei grandi romanzi americani hanno, salvo rare eccezioni, deluso. Sono deludenti le versioni filmate della Lettera scarlatta e del Grande Gatsby, e non è un capolavoro nemmeno il Moby Dick di Huston, perché il romanzo di Melville non è (solo) la storia dell’ossessione di un uomo che dà la caccia a una balena. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano e la prima che viene in mente è Furore, notevole nelle parole di Steinbeck e altrettanto riuscito nelle immagini di John Ford. Sì, certo, Ford: lo stesso che ha tratto un grande film da un altro romanzo sulla Depressione, ma decisamente minore, La via del tabacco di Caldwell. È risaputo: meno ambizioso è il romanzo, più un autore può servirsi della sua trama come canovaccio per elaborare la propria, autonoma visione. Così, a cinquant’anni dalla pubblicazione, è arrivato il momento del celebre romanzo beat di Jack Kerouac, per la regia di Walter Salles. Del libro si prende la traccia narrativa, e la sceneggiatura di Jose Rivera (già collaboratore del regista per I diari della motocicletta) non manca di cogliere alcuni motivi chiave. Su tutti l’amicizia tra Sal Paradise e Dean Moriarty, centrale nell’illustrare la ricerca di un’anima gemella, e il desiderio panico di cantare la bellezza di una terra immensa, alla maniera di Whitman, abbracciando in un solo sguardo pianure e grattacieli, oceani e tramonti. La terra delle mille possibilità che in realtà non sono che una sola, illusoria e destinata a pochi: il Grande sogno americano, che si dissolve alla fine della strada. E il ritorno a casa è il sofferto addio alle illusioni della gioventù, ancora valido per coloro che covano la spinta alla fuga e insieme la consapevolezza che ogni viaggio è una fuga da se stessi. Resta forte, allora, la necessità di essere curiosi, di conoscere, vedere e sapere più che si può, perché se non c’è destinazione allora è il movimento ciò che conta: l’essere, appunto, sulla strada. Qualcosa di tutto questo filtra tra le immagini, negli scorci intravisti dal finestrino di un’auto o dalla finestra di un appartamento: è un vento leggero in un film che fatica a prendere il largo, ma è anche il segno di un legame che il brasiliano Salles, forte del suo sguardo da straniero, trova con il paesaggio americano. Tutto è filtrato, niente è diretto come in Kerouac: ed è per questo che oltre alla voce narrante, nel film c’è molta gente che legge e scrive libri, lettere, poesie. Ma se il vero senso del cinema, di fronte a un romanzo, è trasformare la parola in immagine, Salles, ancora in quanto straniero, sembra temere il confronto con la parola e, rispettandola, la lascia intatta. Può essere un peccato originale: seguire cioè la letteralità delle pagine dimenticando che la fedeltà doveva essere nei confronti del suo spirito. Ma proprio in virtù della letterarietà del film, emergono il vitalismo e la musicalità rubate al jazz, il piacere e la distruzione dei figli dell’ebrezza alcolica, tra lenzuola sfatte, posacenere colmi e mura scrostate. Così un’ombra lentamente si stende sul film, sulle emozioni degli incontri e la passione degli amori perduti, e il senso di rimpianto non appartiene solo ai protagonisti bensì al film stesso, che forse non riesce fino in fondo a essere quel che vorrebbe, ma al tempo stesso dimostra la propria onestà nei confronti del romanzo di partenza. Per certi versi On the Road ricorda Questa terra è la mia terra, il biopic dedicato a Woody Guthrie diretto da Hal Ashby nel 1976: la storia è quella cantata da Guthrie, e probabilmente proprio così sono andate le cose, tra le lotte operaie, gli scioperi dei braccianti e le dustbowls della Grande Depressione. Ma da un film non ci si aspetta che ci convinca di come stavano realmente le cose, quanto del modo in cui le immagina il suo autore. E in questo Salles fa come Ashby: entrambi sono troppo attenti a rispettare una visione altrui, ma al tempo stesso riescono a restituirla; rinunciano all’autorialità, forse anche al gusto della sfida, e inseguono la pagina scritta, la scrittura vibrante, il senso perduto delle cose e la possibilità di provare a riviverle ancora. Anche solo per sapere come si vivevano la strada e la libertà in tempi ormai lontani e, per quanto mitici, un po’ offuscati. Sulla strada ha il merito di averli resi ancora vivi. Alessandro Stellino saison culturelle il giro del mondo in 60 film PADRONI DI CASA Regia: Edoardo Gabbriellini. Soggetto: Edoardo Gabbriellini, Pierpaolo Piciarelli. Sceneggiatura: Edoardo Gabbriellini, Francesco Cenni, Michele Pellegrini, Valerio Mastandrea. Fotografia: Daria D’Antonio. Montaggio: Walter Fasano. Musica: Cesare Cremonini, Gabriele Roberto, Stefano Pilia. Scenografia: Francesca Di Mottola. Costumi: Antonella Cannarozzi. Interpreti: Valerio Mastandrea, Elio Germano, Gianni Morandi, Valeria Bruni Tedeschi, Francesca Rabbi, Mauro Marchese, Lorenzo Rivola, Alina Gulyalyeva, Giovanni Piccinini. Produzione: First Sun, Relief, Rai Cinema, Rodiani Productions. Distribuzione: Good Films. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 90 minuti. In un cinema italiano inflazionato da esordi spesso e volentieri non seguiti da una seconda prova, occorre guardare con attenzione a chi riesce ad avere la pazienza e l’intelligenza di aspettare una seconda occasione, seguendo la duplice prospettiva dell’esigenza di autenticità e dell’attenzione nei confronti del pubblico. È il caso recente di Edoardo Gabbriellini, che dopo l’esordio del 2003 con B. B. e il cormorano, presentato a Cannes, torna alla regia con Padroni di casa, in concorso al Festival di Locarno. Gabbriellini distilla e condensa una serie di importanti esperienze professionali d’attore, che vanno dall’entusiasmo narrativo di Virzì (da Ovosodo a Baci e abbracci) ai toni più amari delle regie di Zanasi (Non pensarci) e Guadagnino (Io sono l’amore), fino alla leggerezza della commedia di Lucio Pellegrini (Figli delle stelle e la serie tv I liceali). Tali prove hanno fornito a Gabbriellini anche l’esperienza della direzione degli interpreti, che in questo secondo film costituiscono un bouquet d’eccezione. Sebbene il giovane regista sostenga di non aver fatto nulla, perché gli attori si sarebbero diretti da soli, risulta chiaro come l’eterogeneità dei contributi necessitasse di una mano al contempo leggera ed equilibrata. In questo senso spicca la scelta di due differenti registri interpretativi, che seguono con precisione la linea dei caratteri: da una parte il duo Germano-Mastandrea, cui viene lasciata la libertà di esprimere tutta l’empatica selvatichezza dei loro personaggi, dall’altra la coppia Morandi-Bruni Tedeschi, che non potrebbe essere più eterogenea e su cui grava la responsabilità di trovare un convincente equilibrio, vista la delicatezza di una relazione sentimentale condizionata dalla malattia. Ed è proprio in queste audaci scommesse narrative, oltre ogni rigidità di sceneggiatura, che è oggi possibile rilevare l’estrema vitalità del giovane cinema italiano. Individuare e formare nuovi segmenti di pubblico significa anche andare al di là delle ingessature del racconto, lasciarsi sorprendere dalla libertà dei personaggi e delle storie; ma anche apprezzare lo sforzo di comunicazione di un autore. Nel film, infatti, affascina la rappresentazione simbolica di una contemporaneità secondo i valori opposti del nuovo e del vecchio, del rinnovamento e della tradizione, della visibilità e dell’invisibilità. Seguendo lo schema consolidato dell’elemento estraneo che irrompe in un universo immobile, Gabbriellini confeziona la giusta miscela di veracità e dolore, sottolineando come la frustrazione e l’insoddisfazione finiscano spesso per minacciare la vocazione al piacere di ogni essere umano e arrivino a compromettere il tessuto sociale. Se perciò un tempo si diceva che la maggior parte dei film italiani rivela uno sguardo ristretto o provinciale, accontentandosi di storie piccole o poco emblematiche, oggi è necessario riconoscere come l’ambientazione geografica e la perifericità delle storie sappiano proporsi come paradigma di una condizione più ampia, di una visione necessaria che ci porta, come indicato dall’intreccio, a vedere cose inattese. È perciò in questo spaccato della provincia più profonda che Padroni di casa trova la sua necessità, in un senso di squallore e mediocrità messo in discussione dall’arrivo in un paesino dell’Appennino tosco-emiliano di due fratelli incaricati di lavorare nella villa di un famoso cantante dimenticato. In tal senso non esisteva icona migliore di Morandi, con i suoi autentici vissuti di temporanei tramonti, per semplificare la complessità di Fausto Mieli e riuscire a tradurla agli occhi del pubblico. Al tempo stesso risulta strategica, ma non priva di fascino, anche la scelta di Valeria Bruni Tedeschi per condensare il portato di sacrificio del personaggio. Di fronte a un film come Padroni di casa diventa automatico ribadire come il vero problema del cinema italiano sia oggi quello della distribuzione, facendo però attenzione a porre accanto alle questioni dell’industria culturale, e dunque delle strategie di diffusione dei film, anche quello di una necessaria trasformazione del gusto della critica e del pubblico, in cui l’intelligenza di chi guarda diventa una condizione essenziale della fruizione. Mettere in discussione i propri parametri critici, per non rischiare di rendere vani gli sforzi produttivi e creativi di una scena italiana raramente così florida. Umberto Mosca 41 42 il giro del mondo in 60 film PARIS-MANHATTAN saison culturelle Réalisation, scénario: Sophie Lellouche. Photographie: Laurent Machuel. Montage: Monica Coleman. Interprètes: Alice Taglioni, Patrick Bruel, Marine Delterme, Louis-Do de Lencquesaing, Michel Aumont, Marie-Christine Adam, Yannick Soulier, Margaux Châtellier, Arsène Mosca, Gladys Cohen, Julie Martel, Roman Guisset. Production: Vendôme Production, France 2 Cinéma, SND. Distribution: Academy 2. Pays: France. Année: 2012. Durée: 77 minutes. Premier long-métrage de la réalisatrice française Sophie Lellouche, Paris-Manhattan fait un clin d'œil à Woody Allen et reprend, une certaine cinématographie américaine liée à la sophisticated comedy de Lubitsch, Capra et Wilder. La ville française assimilée à la ville de New York n’est pas vraiment la même car la première ressemble ici à un petit village et l’aide des amis et des ipersonnes connues règle chaque obstacle. De toute façon, Paris n’est plus évoqué dans son architecture caractéristique mais elle représente le symbole d’une atmosphère de rêverie et du romantisme comme un des derniers films de Allen le témoigne, Midnight in Paris. Lellouche débute son premier film comme une comédie du cinéaste américain, avec Bewitched chantée par Ella Fitzgerald qui accompagne un travelling sur des livres de Shakespeare, Dostoevskij, des études freudiennes, des cd de Cole Porter, de Bechet et le générique de début avec des caractères blancs sur plan noir. Alice, jeune et belle pharmacienne d'origine juive, mais encore single à l’âge de 35 ans, cause comme une adolescente avec le poster gigantesque de son réalisateur préféré qui devient son guide spirituel afin de pouvoir sortir de ses crises sentimentales. Ce dialogue entre l’héroïne et la voix de Woody Allen nous dévoile la difficulté de cette femme de gtandir, de sortir d'un monde onirique et imaginaire qui provient directement de son obsession pour les films de l’auteur américain. L’idole de « la verbosité humoristique et psychanalytique » incarne pour Alice la projection de soi-même et le rapport qui s’instaure entre thérapeute et patient comme dans le film Tombe les filles et tais-toi, où le protagoniste interprété par Woody Allen cherche à avoir des conseils de la part de Humphrey Bogart parce qu’il n’arrive pas à trouver la femme de sa vie. Le personnage de la merveilleuse blonde actrice représente une nouvelle Amélie Poulain qui se retrouve en équilibre instable entre réalité effective et onirique, entourée par des humains étranges et malheureux dont elle prend soin à travers les long-métrages de Lubitsch et de son mythe Woody Allen. Victor, homme « incomplet » qui n’a jamais vu un film de Allen est l'opposé d'Alice. Pessimiste et réaliste, il lui fera découvrir peu à peu que les personnes qui vivent à côté d’elle ne sont pas si heureuses ni si parfaites qu'elle pensait. À la douceur et à l'esprit pétillant d'Alice Taglioni, qui incarne deux icônes de Woody Allen, Mia Farrow et Diane Keaton, s’ajoutent Patrick Bruel, représentant un plus jeune et sceptique Woody Allen et d’autres couples, bien en harmonie entre eux comme jeux d’acteurs et qui affir- ment que " la vie est belle " si on sait que " personne n’est parfait ". De plus, la protagoniste n’arrive pas à comprendre ses propres sentiments et le bonheur qui l’attend tout proche jusqu’au moment où elle se souvient des phrases de Victor – un fragment tiré de Tout ce que vous avez toujours voulu savoir sur le sexe dans l’épisode de la passion entre le sexologue et le mouton du film – et enfin, elle comprend la vérité sur l’âme sœur. Paris-Manhattan est un film léger et ironico-sentimental dans sa mise en scène qui essaye d'explorer un univers magique, mais qui n’arrive pas à déclencher une histoire bien soutenue et originale. Les nombreuses allusions aux films de Woody Allen étouffent le premier travail de Lellouche qui perd sa personnalité. On comprend l’intention de célébration pour le cinéaste de New York mais cet hommage devient toujours plus une confrontation et la réalisatrice perd de vue son objectif. Cependant, un coup de vraie magie rend le final très surprenant et donne au film un ambiance agréable et une dimension encore plus féerique, démontrant que quelquefois les rêves, avec une pincée de chance et de courage, peuvent se réaliser. Alexine Dayné saison culturelle il giro del mondo in 60 film LA PARTE DEGLI ANGELI The Angels’ Share Regia: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul Laverty. Fotografia: Robbie Ryan. Montaggio: Jonathan Morris. Musica: George Fenton. Scenografia: Fergus Clegg. Costumi: Dani Miller. Interpreti: Paul Brannigan, John Henshaw, Gary Maitland, Jasmin Riggins,William Ruane, Roger Allam, Siobhan Reilly, Chooye Bay, Paul Birchard, James Casey. Produzione: Sixteen Films, Why Not Productions, Wild Bunch. Distribuzione: BIM. Paese: Regno Unito/ Francia. Anno: 2012. Durata: 106 minuti. "Verso la fine dello scorso anno, il numero di giovani disoccupati in Gran Bretagna ha superato per la prima volta il milione. Volevamo raccontare una storia che riguardasse questa generazione di giovani che spesso ha come prospettiva un futuro vuoto. Sono pressoché certi che non avranno un’occupazione, un impiego fisso, un lavoro sicuro. Che effetto ha questa consapevolezza sulle persone e come vedono se stesse?". Questo il punto di partenza di Ken Loach per La parte degli angeli, film con cui, dopo il cupo L’altra verità (2010), indagine sulla morte di una guardia del corpo inglese in Iraq, il regista britannico torna alla commedia riassaporando il «gusto» corrosivo e geniale di Riff Raff (1991) e Piovono pietre (1993), ma rivisitando il proprio cinema in chiave di favola lieve che riflette sulla disoccupazione, la dispersione giovanile e l’uso di stratagemmi, più o meno ortodossi, per recuperare la speranza del futuro. Semplicità, piccole raffinatezze nel racconto, paesaggi umani e urbani di Glasgow e della campagna scozzese costituiscono l’ossatura di uno script che funziona come un meccanismo perfetto: un puzzle da ricostruire in ordine sparso, in apparente disordine, fino a raggiungere (come sempre in questi casi) variazioni inattese. Non tanto un gioco di sorprese, quanto la capacità di assecondare la storia e lasciarla vivere nelle sue piccole derive. Il protagonista del film, Robbie, sconta una condanna a svolgere lavori socialmente utili per la sua indole aggressiva a la tendenza a risolvere tutto con la violenza. Ma la sua fidanzata aspetta un figlio e lui deve cambiare qualcosa per non rischiare di perdersi. L’occasione arriva grazie ad Harry, l’educatore che lo segue e scopre il talento del giovane nell’assaggiare e «decifrare» whisky. Una rivelazione destinata a restare senza prospettive se non fosse per la volontà di Robbie di cambiare vita e rivendicare le sue occasioni. Come sempre Loach offre uno sguardo a tutto tondo delle storie e dei suoi personaggi. La parte degli angeli ci mostra l’urgenza del discorso sociale e lo sberleffo delle convenzioni, c’è l’immagine della periferia cittadina, vendicativa e violenta, e ci sono personaggi capaci di leggerezza e ironia. La scommessa è quella di insinuare situazioni insolite in un contesto di crisi e immobilismo e trasformare l’alcol in veicolo di emancipazione, piuttosto che simbolo del degrado. In una bottiglia di whisky, infatti, si nasconde il segreto del successo di Robbie e dei suoi compagni di viaggio. Smessa la tuta da ginnastica e indossato il kilt per mascherare il loro aspetto e le loro intenzioni, i quattro eroi del film partono verso la brughiera delle Highlands alla volta della distilleria più ambita del paese per rubare tre bottiglie di un rarissimo nettare. Un piano perfetto, proprio perché assurdo, al punto da sembrare impraticabile, che si sgretola e si ricompone più volte sotto i nostri occhi, come fosse opera d’improvvisazione degli attori che Loach lascia liberi di agire. Perché sono i protagonisti il punto di forza del film, l’oggetto che catalizza attenzione e apprensione di un Loach ancora una volta puntuale nel descrivere con tocchi di sapiente sobrietà il vissuto di persone vere, figure tratteggiate con passione e irriverenza, ai quali si devono i dialoghi più belli del suo recente cinema. E infatti tutto è costruito attorno a loro: il ritmo, la scelta di luci e colori, l’alternanza continua tra commedia e dramma sociale. Si passa con velocità tra periferie, aule di tribunali e scorci della ridente campagna scozzese, con toni lividi e colori che irrompono con sorpresa di tutti. Sofisticato (come la miglior commedia inglese) e realista al tempo stesso, La parte degli angeli pur nella coerenza assoluta della semplicità si trasforma e cambia pelle e volto: come il 2% di whisky che evapora ogni anno dalle botti delle distillerie per raggiungere gli angeli. Come Robbie che, nonostante la cicatrice sulla faccia (che lo definisce a priori come teppista), ha il coraggio di cercare un’altra strada. L’incipit è quasi surreale, con l’esilarante scena sui binari della stazione. Ne è protagonista lo stralunato Albert, cui è affidato il compito di scompigliare le carte e innescare meccanismi inattesi di comicità. Scene veloci, necessarie a stabilire il ritmo discontinuo, fatto di scatti e di pause che puntellano tutto il film. Grazia Paganelli 43 44 il giro del mondo in 60 film LES PETITS MOUCHOIRS saison culturelle Réalisation, scénario: Guillaume Canet. Photographie: Christophe Offenstein. Montage: Hervé de Luze. Décoration: Philippe Chiffre. Costumes de scène: Carine Sarfati. Interprètes: François Cluzet, Marion Cotillard, Benoît Magimel, Gilles Lellouche, Valérie Bonneton, Laurent Laffite, Pascale Arbillot, Jean Dujardin. Production: Les Productions du Trésor, EuropaCorp. Distribution: Lucky Red. Pays: France. Année: 2010. Durée: 154 minutes. Véritable phénomène de box-office en France dès sa sortie en octobre 2010, le troisième long métrage de l’acteur et réalisateur Guillaume Canet a depuis dépassé les cinq millions d’entrées dans le seul Hexagone. Etonnant, a priori, pour « un film de vacances » qui relate le séjour d’un groupe d’amis dans la villa de l’un d’entre eux au Cap Ferret. La splendide péninsule gasconne aurait pu fournir un simple décor de feel-good movie dans le sillage des Bronzés, mais Canet prend d’emblée une tout autre option en ouvrant son récit entre quatre murs. Dans l’atmosphère confinée d’une discothèque parisienne, Ludo (Jean Dujardin, en version assombrie de Brice de Nice, son personnage de café-théâtre porté à l’écran en 2005) a manifestement consommé de la cocaïne, tant ses rodomontades donjuanesques et vulgaires semblent galvanisées artificiellement. La caméra le suit dans les couloirs sous-éclairés, mais une fois dehors, la grisaille de Paris ne lui apporte guère mieux que la boîte ringarde : usé par une nuit d’excès, il grille un feu rouge en scooter et se fait faucher par un camion. C’est donc sur fond d’accident à la fois évitable et grave (défiguré, il est immobilisé à l’hôpital) que commence l’aventure de ses amis. Et d’abord, leur dilemme : partir ou ne pas partir en vacances, le séjour étant prévu de longue date? Résolution est prise de partir, mais l’absence du copain amoché fonctionne dès lors comme un hors-champ permanent, une mauvaise conscience toujours susceptible de couper cours aux « déconnades » amicales. Plutôt qu’à l’horizon cinématogra- phique avoué du film qui serait Vincent, François, Paul et les autres de Claude Sautet (1974), l’ancrage dans cette mort en sursis le rapprocherait plutôt, toutes proportions gardées, de l’immense Règle du jeu de Jean Renoir (1939), dont l’un des enjeux était aussi l’amitié, notamment entre hommes et femmes, et le centre narratif, une grande demeure de vacances où la chasse et la fête se succédaient pour se confondre tragiquement. Dans Les Petits Mouchoirs, rien n’est grave, rien n’est anodin non plus. Il ne s’agit pas de prendre le prétexte du séjour ensemble pour brosser une galerie de portraits où les travers des uns et des autres prêteraient à maints gags. Seul le personnage de Max, le propriétaire des lieux joué par François Cluzet, semble délibérément plus caricatural: plus âgé que les trentenaires qu’il réunit, c’est un grand frère bougon à la fois généreux et râleur. Sa promptitude à la colère et son goût du luxe évoquent immanquablement le président de la République de l’époque du tournage, Nicolas Sarkozy, à la fois people et monsieur-tout-le-monde, bling bling et sale gosse. De même que Sautet faisait un portrait de groupe au lendemain de l’élection de Valery Giscard d’Estaing (le centrisme aristocratique en habits neufs), Canet livre celui de la furtive génération Sarkozy. Et on ne peut pas dire qu’elle éclate de santé : entre la belle Marie, qui s’entend dire par son meilleur ami qu’elle "couche avec tout le monde, alors pourquoi pas avec [lui] ? " et Vincent, marié et père, qui se découvre homosexuel et attise l’homophobie de Max, les éclats de rire de la bande masquent un mal de vivre soigné à coups de rouge et de plantades en ski nautique. Autant les situations amoureuses des amis sont variées (Antoine ne rêve que de reconquérir son ex, Eric sent qu’une rupture lui pend au nez, Marie fuit un amant musicien apparemment idéal, la femme de Max joue les cochonnes sur Second Life...), autant chacun se pique de respecter celle des autres. La génération petits-mouchoirs est donc avant tout, plutôt que celle du collectif, celle d’un individualisme inaliénable, pour le meilleur (la tolérance) et le pire (l’égoïsme). Chacun peut se reconnaître dans de tels désynchronismes : combien de fois les rythmes de sommeil et de vie interfèrent-ils dans l’harmonie des couples, des familles? Campant endeçà de la caricature, Canet tend à un miroir au quotidien de ses spectateurs, même ceux qui n’ont pas les moyens d’acheter dans un lieu de villégiature chic. A intervalles réguliers, comme des intermèdes, des séquences montées « en accolade » viennent célébrer une forme de partage amical, par-delà les idiosyncrasies. Mais l’égoïsme collectif, qui tient à distance le blessé parisien, devra faire face à la réalité de cette absence. Rétrospectivement, on peut dire que le retour de vacances (et de bâton) des Petits Mouchoirs anticipe ce qui arriva en 2012 à l’arrogance sarkozyste. Leçon d’humilité plus que d’indéfectible amitié, le film est bel et bien devenu la chronique d’une mort politique annoncée – libre à chacun de sortir ou non son mouchoir... Charlotte Garson il giro del mondo in 60 film saison culturelle PIETÀ Pieta Regia, sceneggiatura, montaggio: Kim Kiduk. Fotografia: Jo Yeoung-jik. Musica: Park In-young Tim Starnes. Suono: Lee Seokjun. Scenografia: Lee Hyun-joo. Interpreti: Min-soo Jo, Eunjin Kang, Jae-rok Kim, Jeong-jin Lee, Jin Yong-Ok. Produzione: Good Film, Finecut. Distribuzione: Good Films. Paese: Corea del sud. Anno: 2012. Durata: 104 minuti. A dispetto della sua iconografia sacrale, a prima istanza Pietà sembra ed è un film che parla di denaro: "La gente oggi è ossessionata dall’idea che il denaro possa risolvere tutto", scrive Kim Ki-duk introducendo il film, e in effetti la sua è una storia in cui i soldi determinano l’intera rete di relazioni, in una sorta di virtuale economia di scambio dove il denaro sta esattamente allo snodo tra felicità e disperazione, gioia e dolore, vita e morte. In realtà, come sempre accade nel cinema del regista, ciò che è più materiale finisce con l’assumere la funzione simbolica del suo opposto, divenendo riflesso di una spiritualità che definisce la natura di personaggi ed azioni. È un po’ come la pietra legata alle creature come una zavorra esistenziale in Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, che nella sua immediatezza materiale racchiudeva il peso pienamente spirituale della (buona o cattiva) coscienza. Il denaro, in Pietà, è esattamente la zavorra che Kang-do, spietato esattore di un usuraio, pone sulle spalle della gente del quartiere, imponendo umiliazioni, mutilazioni e dolore a poveracci incapaci di restituire un debito. Il denaro dovrebbe liberarli dal bisogno e invece li schiaccia sotto il peso delle loro aspirazioni, lasciandoli schiantati al suolo, offesi nello spirito prima ancora che nel corpo. Naturalmente, essendo questo un film di Kim Ki-duk, la nemesi si impone al protagonista come un nemico interno, un fantasma evocato dal vuoto che coltiva dentro, svaporato dalla sua stessa assenza rispetto a sé stesso, alla propria storia, alla biografia invisibile che gli appartiene. Sicché, dal silenzio della coscienza di questo essere intriso di spietata materialità non poteva che essere evocata una nemesi che si incarnasse in una madre, ovvero nella figura più intima e vicina alla spiritualità che in natura si possa immaginare. Il personaggio di Mi-sun è, del resto, perfettamente speculare a Kangdo: incede impassibile, silenziosa e determinata come lui, ma invece di pretendere la restituzione del denaro dato, pretende di offrire l’amore non dato. La complementarietà delle due figure è il gesto logico sul quale Kim Ki-duk costruisce la sua parabola, basata sul ribaltamento di prospettiva esistenziale che il regista impone ai suoi personaggi e destinata a concludersi con la dissoluzione del protagonista nel suo dolore. Perché poi Pietà è un film che racconta la sconfitta della compassione, l’impossibilità di infrangere l’atarassia nella scoperta di una spiritualità distaccata, che ne sospinge la parabola in un mondo al quale non appartengono e dal quale sono rifiutati. Pietà, insomma, scambia denaro per sentimenti, materia per spirito, ribaltando l’economia di un sistema che pretendeva invece di scambiare soldi per felicità, benessere materiale per pienezza affettiva: la prospettiva spirituale che Kang-do scopre con l’arrivo della madre diviene urgenza e bisogno quando la donna sparisce una seconda volta, mettendolo nella condizione di provare nella sfera spirituale quell’urgenza e quel bisogno che le sue vittime provavano nella sfera materiale. Ovviamente, però, tale non può essere l’approdo di un personaggio di Kim Ki-duk, poiché verrebbe a mancare la tara tra vero e falso: il vero dramma di Kang-do sta infatti nell’inganno alla base dell’apparire di Mi-sun, la finzione di un legame di sangue nato in realtà dal sangue sparso da Kang-do. Come sempre, anche questo personaggio di Kim Ki-duk è destinato a ritrovarsi solo col proprio dolore, disfatto nella impossibile catarsi di un destino che si compie lasciandolo esattamente al punto di partenza, nella solitudine silenziosa e impassibile del suo essere estraneo al Bene e al Male del mondo. La deposizione finale di Mi-sun messa in scena da Kang-do (che tra l’altro ribalta perfettamente l’iconografia michelangiolesca ricostruita per l’immagine di lancio occidentale del film e completa quella della crocifissione evocata dal poster coreano) è l’ennesima ricostruzione in forma di natura morta di uno scenario nel quale il protagonista, infine astratto nel proprio dolore, ricostruisce in vitro la completezza di quello scenario spirituale, affettivo ed esistenziale, che la vita gli ha prima negato e poi lasciato crudelmente assaporare per un attimo fugace e menzognero. Massimo Causo 45 46 il giro del mondo in 60 film LE PRÉNOM saison culturelle Réalisation, scénario : Matthieu Delaporte et Alexandre de la Patellière, d’après leur pièce. Photographie : David Ungaro. Montage : Célia Lafite-Dupont. Musique: Jérôme Rebotier. Décors : Marie Cheminal. Costumes : Anne Schotte. Interprètes : Patrick Bruel, Valérie Benguigui, Charles Berling, Guillaume de Tonquédec, Judith El Zein, Françoise Fabian. Production : Dimitri Rassam, Jérôme Seydoux, Chapter 2, Pathé, TF1 Films Production, M6 Films, Fargo Films, Nexus Factory. Distribution : Pathé Distribution. Pays : France, 2012. Durée : 109 minutes. Joli succès populaire du cinéma français, Le Prénom s’affiche d’emblée comme un objet bricolé et suspect. Soupçonné de n’être que l’avatar cinématographique et opportuniste d’un grand succès du théâtre parisien naguère mis en scène par Bernard Murat, le film de Matthieu Delaporte et Alexandre de la Patellière, adapté de leur propre pièce, cherche de fait à réitérer sans complexes le triomphe déjà ancien du Dîner de cons ou du Père Noël est une ordure, adaptations triomphales et quasi-historiques de comédies françaises cultissimes. Sans surprise, tous les ingrédients de la recette à l’ancienne sont aujourd’hui réunis à l’écran : reprise de dialogues percutants, personnages au profil taillé à la hache, acteurs truculents pour la plupart déjà présents dans la version scénique (Patrick Bruel et Valérie Benguigui), ouverture revendiquée d’une « fenêtre sur la société », morale douce-amère... Force est de constater que la version filmée du Prénom ne parvient pas à éviter, dans son déroulé boulevardier, quelques-unes des ornières de ce type d’adaptation. Il en va ainsi de la séquence inaugurale qui narre, en voix off, un trajet en extérieur destiné à nous faire oublier que la suite ne sera qu’un huis-clos dans l’appartement qui est sa destination. De même, la première demi-heure du film semble se contenter de faire son miel d’un pitch accrocheur, mais somme toute un peu étriqué, qui ne repose que sur un ping-pong verbal : une famille se déchire autour du pré- nom d’un futur nouveau-né dont le père, hâbleur, incisif et joueur, soutient mordicus le choix surprenant. De ce début convenu, qui voit naître, comme de bien entendu, la dispute et la discorde familiales, n’émergent que peu de propositions cinématographiques. Le film, défense et illustration des vertus ancestrales du champ-contrechamp, se contente de capitaliser sur la force et l’acidité de répliques souvent très drôles sans apporter de plus-value à la pièce originelle. Pire, même, l’adaptation paraît réduire chacun des personnages, dans un premier temps, à la caricature consensuelle du milieu dont il est issu. Un coup à droite : le cynique charmeur libéral n’est qu’un grand gamin immature et provocateur. Un coup à gauche : le professeuressayiste humaniste n’est qu’un bobo inattentif aux autres. Objectivité en trompe-l’œil : en dépit des traits d’humour, toujours vachards et parfois jubilatoires, il est alors difficile de cautionner l’idéologie conservatrice qui sous-tend cette pseudo-neutralité en mettant très commodément sur le même plan l’idéalisme lâche de l’intellectuel bien-pensant et le « bling bling » cynique de l’agent immobilier sarkozyste. La suite s’éloigne heureusement de cet œcuménisme populiste et renonce opportunément à ses prétentions sociales pour s’intéresser davantage à la famille. Si ce glissement figurait déjà dans la pièce, le film accorde une véritable ampleur à cette réorientation, sans doute parce qu’il se donne les moyens de mettre en valeur deux personnages féminins impeccablement interprétés par deux actrices remarquables. C’est ainsi que Babou, la maîtresse de maison jouée avec brio par Valérie Benguigui, étrangère au déclenchement de la querelle, devient peu à peu le centre névralgique du film. Derrière le personnage de comédie – auquel un diminutif tient lieu de prénom ! – apparaissent dès lors des doutes et des frustrations qui nous éloignent du prétexte sociologisant pour scruter, avec davantage d’authenticité, les angles morts des relations hommes-femmes. Le film devient alors l’histoire d’une rébellion. L’autre grand rôle féminin du film, bien que beaucoup plus discret, est superbement interprété par Françoise Fabian. Mère à l’écran de Babou et du Vincent, incarné par Bruel, le personnage lui-aussi prénommé Françoise souligne la nécessaire émancipation d’une femme... dont l’existence repose désormais sur la possibilité d’échapper à l’étroitesse d’esprit de ses propres enfants. C’est ce vrai sujet, jadis traité dans la splendeur des mélos de Sirk, que frôle alors le scénario. Que le passage au film ait finalement permis au personnage de quitter le hors-champ théâtral pour faire quelques brèves et lumineuses apparitions est sans doute l’une des qualités majeures du Prénom. Thierry Méranger saison culturelle il giro del mondo in 60 film IL PRIMO UOMO Le premier homme Regia, sceneggiatura: Gianni Amelio. Soggetto: dall’omonimo romanzo di Albert Camus. Fotografia: Yves Cape. Montaggio: Carlo Simeoni. Scenografia: Arnaud de Moléron. Costumi: Patricia Colin. Musica: Franco Piersanti. Interpreti: Jacques Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola, Denis Podalydès, Ulla Baugué, Nino Jouglet, Abdelkarim Benhabouccha, JeanFrançois Stévenin. Produzione: Cattleya, Maison De Cinema, Soudaine Compagnie, France 3 Cinéma, Rai Cinema, Laith Media, Canal +, Ciné +, France Télévisions, Ministère Algérien De La Culture. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: Italia/Francia/Algeria. Anno: 2011. Durata: 98 minuti. Con Il primo uomo ci si ritrova nel miglior cinema di Gianni Amelio. Con naturalezza, senza forzature. Quel cinema che fa degli spostamenti, delle lontananze, del viaggio fisico necessario per descrivere tensioni interiori, un segno di riconoscimento immediato. Si tratta, anche in quest’opera, di avviare e sostenere una riflessione sull’essere umano, sulle scelte da compiere, sul ruolo degli individui nella società in relazione a significativi contesti storici e politici. Punti di partenza che sono serviti ad Amelio per disegnare le tappe di una filmografia in territori, geografici e dell’anima, ai margini: nelle periferie dell’Italia (Il ladro di bambini, Così ridevano), in un Sud espanso (Lamerica) o ancora in «altrovi» verso i quali sconfinare per riavviare identità instabili (La stella che non c’è, Le chiavi di casa). E che sono ben presenti nel Primo uomo, personale avvicinamento, compiuto con sensibilità e ispirazione, alle pagine dell’omonimo romanzo di Albert Camus, la cui stesura fu interrotta dalla scomparsa dello scrittore in un incidente automobilistico nel 1960. La Francia, l’Algeria dei pieds-noirs, la complessa questione algerina dagli anni Dieci agli anni Cinquanta del Novecento, il ruolo degli intellettuali, la memoria e il presente di una persona: tutto questo costituisce il corpo vivo del libro di Camus. E di conseguenza del film di Amelio, che ha trasferito in immagini, con esemplare espressione narrativa e formale, momenti della vita dello scrittore, soffermandosi in particolare sugli anni dell’infanzia e della formazione scolastica, e specchiandovi in essa la propria. Amelio ha infatti dichiarato di avere "ritrovato nell’infanzia di Camus ad Algeri le tracce della Calabria del secondo dopoguerra". Autobiografia, dunque, ma non un saggio, non un documento, bensì un film, e in precedenza un testo letterario, radicato nella finzione, nei nomi di fantasia; perché, come afferma l’anziano maestro al protagonista, un tempo suo allievo, "è nei romanzi che si trova la verità". Il primo uomo è un film che si sposta con leggerezza nel tempo, fra il 1957 e gli anni attorno alla Grande Guerra, fra il 1924 e il 1913. Ma le date, per Jacques, hanno un’importanza relativa. È un uomo adulto, uno scrittore famoso e contestato per le sue scelte che rientra in Algeria dopo una lunga assenza: deve partecipare a un incontro all’università e trova una capitale militarizzata e studenti divisi sulle posizioni da sostenere riguardo alla relazione con la Francia. Ma ritrova anche le persone che hanno segnato la sua vita, dalla madre all’ex compagno di scuola algerino con il quale aveva instaurato un rapporto di "impossibile amicizia". Amelio descrive la storia di Jacques, il suo essere "per sempre" metà francese e metà algerino, non solo con una efficace ricostruzione dei periodi storici, ma con uno sguardo al tempo stesso meravigliato e meraviglioso, capace di insinuarsi in quegli ambienti per osservare vite sospese di fron- te a mutazioni epocali. Il primo uomo è un film sulla scrittura, sull’ostinazione a imparare e apprendere nonostante le avversità sociali; sul disagio di non saper leggere e scrivere, solo in parte superato in età anziana dalla madre di Jacques, che scrive con grafia incerta il nome del figlio copiandolo da un giornale. Ed è anche un film sulla ricerca del padre, un’indagine intima compiuta attraverso il cinema e le fotografie di guerra che il maestro mostra agli alunni. Costruito come un piano sequenza della memoria, Il primo uomo adegua il proprio stile alle situazioni narrative. È esplorativo mentre accompagna Jacques nelle sue scoperte, da bambino in un’alba deserta o in una festa nei campi e da adulto nei vicoli della kasbah osservato da occhi arabi ostili; al tempo stesso sa farsi anche crudo nell’introdursi con camera a mano nel buio delle celle dei prigionieri politici. E sa infine virare quasi nell’astratto quando filma coppie che ballano in un caffè, immobilizzate nell’inquadratura e sotto lo sguardo di Jacques, o quando ritrae il tempo e lo spazio sospesi, prima di un’improvvisa esplosione. Il primo uomo è abitato da continue separazioni e incontri, ricongiungimenti temporanei e distacchi silenziosi, e ha al centro un personaggio al tempo stesso presente e fantasma. Giuseppe Gariazzo 47 48 il giro del mondo in 60 film PROMISED LAND saison culturelle Regia: Gus Van Sant. Soggetto: Dave Eggers. Sceneggiatura: Matt Damon, John Krasinski. Fotografia: Linus Sandgren. Montaggio: Billy Rich. Musica: Danny Elfman. Scenografia: Daniel B. Clancy. Costumi: Juliet Polcsa. Interpreti: Matt Damon, John Krasinski, Frances McDormand, Rosemarie DeWitt, Lucas Black, Titus Welliver, Hal Holbrook, Ken Strunk, Tim Guinee, Scoot McNairy, Terry Kinney. Produzione: Focus Features. Distribuzione: BIM Distribuzione. Pase: Usa. Anno: 2012. Durata: 106 minuti. Un film sull’esplorazione dell’identità. Ovvero, il nuovo capitolo di una filmografia, quella di Gus Van Sant, da sempre inscritta in questa ricerca. In Promised Land tale dinamica è affrontata nel segno dell’essenzialità narrativa e visiva, di una composizione formale meno innovativa rispetto a opere precedenti (come Belli e dannati, 1991, e Elephant, 2003), traendo da essa sostanza, lentamente e con precisione, scena dopo scena. Ambientato in un luogo dell’America profonda, Promised Land, con il suo procedere «sotto tono», con il suo ritmo piano e tuttavia incalzante, aderisce al lento scorrere del tempo che plasma la quotidianità di una cittadina rurale della Pennsylvania, la natura sconfinata e i corpi che la abitano. Sono luoghi non inusuali nel cinema di Van Sant, evocano le immense distese fra terra e cielo di Belli e dannati e gli spazi desertici di Gerry (2002), il lavoro più radicale e invisibile del cineasta. Un altro elemento significativo lega Gerry e Promised Land: entrambi i film sono interpretati da Matt Damon, già attore per Van Sant in Will Hunting - Genio ribelle (1998). Una collaborazione che in questo caso si fa ancora più stretta in quanto inizialmente questo lavoro – sulle conseguenze delle devastanti politiche di manipolazione dell’ambiente e delle persone adottate dalle multinazionali petrolifere – avrebbe dovuto dirigerlo lo stesso Damon. Poi, l’entrata in scena di Van Sant che parte da quel forte argomento d’attualità, mantenendolo sempre in primo piano, per costruire un’opera dove le immagini e i comportamenti dei personaggi possiedono il respiro di un cinema d’altri tempi, evidenziato sia dalla struttura diegetica sia da una fotografia (dello svedese Linus Sandgren) nel segno dei toni tenui talvolta accentuati da cromatismi più accesi. Una «sottrazione» di colori che si coniuga con lo stile rarefatto adottato dall’autore di Milk (2009) e abbandonato solo raramente nel corso del film (si pensi alle pause che contrappuntano la narrazione principale, costituiti dalle immagini velocizzate di una folla o di nuvole in transito – ulteriore tratto d’identità del cinema del regista americano). Dopo avere affrontato con esemplare rigore in L’amore che resta (2011) la tormentata relazione fra due adolescenti toccati con esperienze diverse dalla solitudine e dalla morte e in profondo contatto con la natura, Van Sant percorre un altro luogo lontano dalle metropoli accompagnando il protagonista Steve Butler, esperto agente di vendita di una potente società specializzata nell’estrazione di gas naturale, nel suo «ritorno a casa». Infatti Butler, prima di trasferirsi in città negli uffici della multinazionale, è cresciuto in una campagna simile a quella nella quale si reca per lavoro con il compito di convincere la popolazione a vendere a poco prezzo le terre. Così, il viaggio, intrapreso con la collega Sue Thomason e che si sarebbe dovuto concludere in pochi giorni, fa esplodere in Steve, complici gli imprevisti quotidiani generati dall’ostilità degli abitanti, un conflitto interiore che lo porterà a ridisegnare la propria vita ripartendo proprio da quel posto dimenticato. Sono emblematiche, a tale proposito, due brevi scene speculari collocate all’inizio e alla fine di Promised Land. In entrambe, il volto di Steve affiora dall’acqua torbida di due lavandini prima di affrontare due colloqui rivelatori, rispettivamente con i colleghi di lavoro e con la comunità alla quale deve riferire la verità sui fatti accaduti in quel territorio. E sono emblematiche altre scene e situazioni che evolvono dal pre-testo per svilupparsi in senso autonomo. Su tutte, il nascere di un amore, quello fra Steve e la maestra Alice, che vive nella casa di famiglia custodita dopo la morte del padre. Promised Land è un film che si concentra con uguale intensità sui volti e sugli sguardi dei personaggi principali e di quelli anonimi mettendoli di volta in volta a fuoco o sfocandoli nel bar del paese, nell’aula della scuola, in una abitazione. È un film che assomiglia a un dipinto in cui coesistono l’insieme e il particolare, dove i dettagli (di un’insegna o della preparazione di una festa rovinata dal temporale) hanno la stessa importanza delle scene più elaborate. Dove ogni immagine è sempre osservata dall’occhio di un autore attento e sensibile. Giuseppe Gariazzo saison culturelle il giro del mondo in 60 film QUALCOSA NELL’ARIA Après mai Regia, sceneggiatura: Olivier Assayas. Fotografia: Éric Gautier. Montaggio: Luc Barnier, Mathilde Van de Moortel. Musica: Johnny Flynn, Jean-Marc Montera. Scenografia: François-Renaud Labarthe. Costumi: Jürgen Doering. Interpreti: Clément Métayer, Lola Créton, Félix Armand, Carole Combes, India Menuez, Hugo Conzelmann, Mathias Renou, Léa Rougeron, Martin Loizillon, André Marcon. Produzione: MK2. Distribuzione: Officine Ubu. Pase: Francia. Anno: 2012. Durata: 122 minuti. Una volta tanto possiamo evitare di prendercela con i titolisti italiani: Qualcosa nell’aria, che deriva dal titolo internazionale del film, Something in the Air, non sarà la traduzione letterale dell’originale Après mai, né si avvicina a esserlo, ma nella sua vaghezza chiama in causa uno degli aspetti più interessanti del film e ne offre persino una possibile lettura. Chiunque abbia letto A PostMay Adolescence – pubblicato prima in francese dai Cahiers du Cinéma e ora disponibile in lingua inglese per le edizioni del Film Museum – sa quanto il periodo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 ("un crocevia tra arte e politica") abbia rivestito un ruolo fondamentale nella formazione di Assayas uomo e cineasta. L’impatto del Maggio ’68 sul tredicenne Olivier è fortissimo: appassionato di pittura e figlio di un celebre sceneggiatore, viene precocemente investito dall’ondata sovversiva, dai furori della contestazione situazionista, dal contraddittorio miscuglio di tensioni volte all’abbattimento di codici preesistenti, a favore di... «qualcosa di nuovo». Osservatore attento, il giovane Assayas partecipa agli eventi con sguardo critico, e gli anni successivi, quelli che porteranno alla maturità, sono segnati dalla disillusione e dalla necessità di arrivare a patti con quanto è accaduto e con ciò che è rimasto, con lo slancio delle speranze e il tradimento degli ideali. Nei suoi film, il regista francese tornerà spesso su questa scena primaria: a tutt’oggi il suo film migliore resta L’eau froide (1994), un piccolo capola- voro che andrebbe visto (o rivisto) alla luce della nuova opera, perché ne costituisce un precedente chiarificatore. I temi sono sostanzialmente gli stessi: il conflitto generazionale, l’alternarsi di spaesamento e partecipazione, il solco tra aspirazione individuale e dimensione collettiva, le resistenze della società, che persistono anche là dove sono messe in discussione, l’impossibilità della fuga (in primis da se stessi). Il cuore pulsante de L’eau froide era una Virginie Ledoyen agli esordi, uno sguardo magnetico in grado di catturare e infondere in ogni inquadratura tremore e grinta, un’anima persa tra i falò della contestazione, una voce senza niente da dire in un’epoca di proclami. E quando alla fine Christine si dissolveva come un fantasma nell’acqua gelida del titolo, nessuna parola rimaneva sul foglio bianco. Nel mezzo, il regista tracciava il ritratto di una generazione decisa a scrollarsi di dosso il peso di obblighi e costrizioni sulle note di Dylan, Nico, Leonard Cohen, Janis Joplin, ma senza una reale consapevolezza di cosa offrire in cambio, e soprattutto di quale posto trovare tra le macerie del passato. In Qualcosa nell’aria affiorano gli stessi problemi, ma cambia l’ampiezza dello sguardo, che si apre alla coralità del racconto. Ciò che nel film precedente veniva lasciato all’immaginazione da un finale sospeso ed enigmatico, qui è maggiormente esplicitato: le diverse posizioni sono incarnate dai singoli personaggi, ciascuno portatore di un proprio sentire, di esigenze indivi- duali desiderose di creare un varco nella Storia e trovare un proprio spazio. Il concetto di lotta, come mezzo necessario al superamento dello status quo, viene ancora una volta ribadito (e ricordiamo che il regista è fresco dall’esperienza di Carlos, sul terrorista Ilich Ramirez Sanchez, le cui gesta prendono il via proprio nel ’73, anno in cui era ambientato L’eau froide), mostrandone l’afflato anarchico, senza però rinunciare alla dolente consapevolezza di chi, in quanto combattente, deve essere pronto a lasciarsi tutto alle spalle. Qualcosa nell’aria è il racconto di esperienze e fatti vissuti in prima persona, filtrati da una sensibilità e una riflessione personale che ancora si interroga sul significato di azioni e pensieri confluiti disordinatamente in quell’epoca fervida e bruciante. Perché solo a posteriori è possibile tracciare un bilancio e capire che fine hanno fatto quelle persone, in cambio di cosa hanno offerto la propria gioventù, e tentare di dare un nome a quel "qualcosa nell’aria" che in tanti percepivano, nella speranza forse vana di renderlo solido, tangibile. Oppure di accettare una volta per tutte che «qualcosa» si è infine dissolto, senza lasciare traccia se non nei ricordi, nelle canzoni, negli incontri, nei desideri che hanno accomunato una generazione, l’ultima ad aver sognato collettivamente un mondo diverso da quello che gli era stato lasciato in eredità. Alessandro Stellino 49 50 il giro del mondo in 60 film saison culturelle QUARTET Regia: Dustin Hoffman. Soggetto: dall’omonima pièce teatrale di Ronald Harwood. Sceneggiatura: Ronald Harwood. Fotografia: John de Borman. Montaggio: Barney Pilling. Musica: Dario Marianelli. Scenografia: Andrew McAlpine. Interpreti: Maggie Smith, Tom Courtenay, Billy Connolly, Pauline Collins, Michael Gambon, Sheridan Smith, Luke Newberry, Trevor Peacock. Produzione: BBC Films, Finola Dwyer Productions, Headline Pictures. Distribuzione: BiM Distribuzione. Paese: Regno Unito. Anno: 2012. Durata: 98 minuti. Vedendo Quartet, opera d’esordio alla regia di Dustin Hoffman, non si può non pensare a Il bacio di Tosca, di Daniel Schmid (1984). Un capolavoro con il quale uno dei più originali esponenti della magnifica onda del cinema svizzero degli anni ’70 e ’80 raccontava le giornate di anziani musicisti residenti nella casa di riposo Giuseppe Verdi, fondata nel 1896 a Milano dal celebre compositore. Cantanti lirici che vivevano in un tempo sospeso e che Schmid, con il suo sguardo dolce, descriveva con sensibilità. La musica e il canto, per quelle persone, erano e sarebbero rimaste le fonti meravigliose delle loro esistenze, ancorate a un passato continuamente riproposto nel presente. Daniel Schmid (scomparso nel 2006) viene ringraziato nei titoli di coda di Quartet. Infatti, Il bacio di Tosca è stato riferimento imprescindibile per la doppia genesi del film: prima, la pièce teatrale di Ronald Harwood andata in scena a Londra; poi, il film di Hoffman, che ha trovato ispirazione proprio nel documentario di Schmid. Le analogie, qui in forma di finzione, sono evidenti. Hoffman ambienta Quartet negli spazi di una dimora per anziani musicisti e cantanti lirici in pensione, Beecham House, ne fa il set, il palcoscenico, quasi esclusivo della narrazione. E fin dalla prima inquadratura, il corpo di un’anziana ospite della lussuosa casa di riposo non nasconde l’essenza del suo lavoro, vale a dire una riflessione sulla vecchiaia, sul segno lasciato dal trascorrere degli anni sui corpi e nella psiche di donne e uomini che furono star e che a quel ruolo non vogliono, non possono, abdicare. In tal senso Quartet si inserisce in quello che sta diventando un vero e proprio «genere» cinematografico con personaggi anziani narrati con una pluralità di approcci. Dustin Hoffman, all’interno di questa collocazione, sceglie il punto di vista dell’ottimismo, della vita che non si chiude, della resistenza nonostante i disagi fisici e mentali si insinuino nei protagonisti. Film corale dove anche il personaggio più marginale ha una sua necessità, Quartet si concentra in particolare su quattro figure dal legame tormentato eppure indelebile, in periodi precedenti delle loro vite come nel presente. Il titolo fa riferimento al tenore Reginald Paget, al baritono Wilfred Bond, alla contralto Cecily Robson, alla solista Jean Horton e, al tempo stesso, al Quartetto del Rigoletto di Verdi che interpretarono nei momenti d’oro delle loro carriere e che, anziani e acciaccati, decidono, non senza iniziali malcontenti, di rappresentare ancora in occasione dell’annuale galà per l’anniversario verdiano ospitato a Beecham House. Tutto accade in funzione del concerto il cui clou, in maniera inattesa, Hoffman lascia fuori campo abbandonando i quattro protagonisti sulla soglia della entrata in scena e consegnando la fine a un’inquadratura, da lontano, della dimora e del parco circostante, mentre il canto si diffonde. Si tratta di una scena inscritta, come tutto il resto del film, nella discrezione, nella morbidezza del filmare, nella coesistenza di ampi movimenti della macchina da presa e di soste sui volti di un gruppo di attori inglesi d’immensa grandezza. Hoffman si muove leggero negli interni, nei saloni, nei corridoi, nelle stanze e nei luoghi attorno alla villa – il giardino, i gazebo, la chiesa – frequentati da alcuni personaggi sempre disegnati con umanità fra umorismo e dramma. Quartet è un film dove quel che accade sullo sfondo ha la stessa importanza di quanto viene in primo piano, dove le finestre e gli specchi sono utilizzati per moltiplicare i piani della visione, dove i pieni e i vuoti, le parole e i silenzi contribuiscono a definire gli strati di memoria appartenenti a ogni individuo, raccontato in profondità o appena accennato, in un luogo esso stesso carico di storia. Inoltre, con altrettanta leggerezza, e lontano da schematismi, Hoffman colloca in quel luogo figure apparentemente inconciliabili. Una classe di studenti i cui riferimenti musicali sono il rap, l’hip hop e Lady Gaga visita Beecham House per assistere a una lezione di Reginald. Il vecchio tenore e i ragazzi scoprono che lirica e hip hop non sono poi mondi così lontani, se vengono esplorati e rappresentati con emozione autentica. Si tratta di restituire alla lirica l’anima che le è stata tolta dai ricchi, spiega Reginald. Di ritrovare le parole e i comportamenti per farlo. Nulla di più naturale, quindi, che gli studenti assistano, coinvolti, al galà verdiano. E che Hoffman isoli i loro volti tra la folla filmandoli con identica, sincera partecipazione. Giuseppe Gariazzo saison culturelle il giro del mondo in 60 film RE DELLA TERRA SELVAGGIA Beasts of the Southern Wild Regia: Benh Zeitlin. Soggetto: Lucy Alibar. Sceneggiatura: Lucy Alibar, Benh Zeitlin. Fotografia: Ben Richardson. Montaggio: Crockett Doob, Affonso Gonçalves. Musica: Dan Romer, Benh Zeitlin. Scenografia: Alex DiGerlando. Costumi: Stephani Lewis. Interpreti: Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Levy Easterly, Lowell Landes, Pamela Harper, Gina Montana, Amber Henry, Jonshel Alexander. Produzione: Cinereach, Court 13 Pictures, Journeyman Pictures. Distribuzione: Satine Film, Bolero Film. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 93 minuti. Un altro mondo. È questo il punto di partenza dell’esordiente Benh Zeitlin, che in epoca di sofisticate fantasmagorie digitali da fantascienza contemporanea racconta un universo ricco della concretezza materica degli elementi primordiali: acqua, terra, vento, fuoco. Un mondo al contempo lontano e vicino, realistico e fiabesco. L’ambientazione, in linea di principio, è tutt’altro che esotica, visto che la storia si svolge in Louisiana, dunque in una zona meridionale degli Stati Uniti. In realtà siamo in pieno «southern wild», come recita il titolo originale: terre paludose, semisommerse dall’acqua, battute da piogge e uragani che ridisegnano costantemente la geografia del paesaggio, mettendo a serio rischio le catapecchie e le vite degli abitanti del luogo. Un mondo d’altri tempi, sordo alla modernità e alla civiltà, almeno per come la concepiamo oggi. In questa galassia umida e fatiscente vive una comunità di persone orgogliosamente arroccata alla propria precarietà, e qui arriva la prima, salutare sorpresa del film, almeno per chi, nell’Occidente ricco e confortevole dei nostri tempi, è abituato a guardare l’alterità dall’alto in basso, ora con intolleranza ora con condiscendenza. Nel «bathtub», la tinozza, il soprannome che gli abitanti hanno dato alla loro terra, la vita scorre serena e felice: privazioni e difficoltà cementano i rapporti, l’inclemenza della natura alimenta la solidarietà reciproca e conferisce al tempo un sapore particolare; ogni giornata da vivere come l’ultima, essendo la morte una possibilità contemplata dalle variazioni del meteo. Le paure sono invece metabolizzate come si conviene a un mondo arcaico, attraverso un repertorio di leggende su figure mitologiche e animali mostruosi che risalgono alla notte dei tempi. In sintesi, nel bathtub ci si sta a meraviglia, ad andarsene da lì non ci pensa nessuno, prima di tutto il padre della protagonista, una ragazzina di nome Hushpuppy: pur afflitto da male incurabile, l’uomo rifiuta ostinatamente le cure ospedaliere che comporterebbero il trasferimento in città. Nelle mani di un regista più convenzionale, il southern wild sarebbe diventato oggetto di un documentario sociale sulle zone sfortunate e disgraziate della terra. Zeitlin capovolge invece il punto di vista, raccontando il bathtub come fosse un luogo incantato, da fiaba, una sorta di Atlantide dei poveri, che lo abitano e vivono con orgogliosa consapevolezza del proprio privilegio. Nello stesso tempo, l’acutezza dello sguardo riesce nel miracolo di farci entrare in questo mondo, che pure non potrebbe esserci – sotto il profilo sociale, culturale e geografico – più estraneo. Il film innesca una sorta di tridimensionalità narrativa che ce lo avvicina al punto da renderlo familiare, addirittura congeniale. Buona parte dell’effetto è dovuto alla scelta di utilizzare come figura intermediaria una ragazzina, attraverso i cui occhi tutto trova una sua logica misteriosa e affascinante, in virtù della quale la miseria e l’arretratezza si trasfor- mano magicamente negli splendori e nei paradossi di un regno stravagante e incantato. L’idea era già alla base di La vita è bella di Benigni (1998), a sua volta incentrato su un rapporto tra padre e figlio e sull’affabulazione fiabesca dei momenti più drammatici. In quel caso era l’adulto a dettare tempi e contenuti del «gioco», qui invece la prospettiva è quella della ragazzina, voce narrante e nume tutelare di un mondo strano e ammaliante soprattutto grazie a un’ostinata determinazione nel vederlo tale. L’impostazione narrativa genera un cortocircuito tra parole e immagini che rappresenta un altro tratto di grande originalità del film. Poiché mentre Hushpuppy racconta il suo mondo con i toni inteneriti e accorati di chi sta descrivendo la propria terra d’origine, la messa in scena spiega un paesaggio flagellato dalle intemperie e dalla miseria, sulla soglia della sopravvivenza, perennemente a rischio d’estinzione. Il cinema non può fare a meno di registrare la desolazione umana e geografica che passa davanti ai suoi occhi; ma la parola ne raccoglie il testimone sul piano dell’immaginario, riscattando questo mondo attraverso un processo di trasfigurazione che dona logica, senso, addirittura bellezza. Ed è in questo attrito fra l’occhio della macchina da presa e quello dell’infanzia che Re della terra selvaggia trova la sua identità e la sua ragione d’essere. Leonardo Gandini 51 52 il giro del mondo in 60 film IL ROSSO E IL BLU saison culturelle Regia: Giuseppe Piccioni. Soggetto: Giuseppe Piccioni, Marco Lodoli , Francesca Manieri da Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana di Marco Lodoli. Sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Francesca Manieri. Fotografia: Roberto Cimatti. Musica: Ratchev & Carratello. Montaggio: Esmeralda Calabria. Scenografia: Ludovica Ferrario. Costumi: Loredana Buscemi. Interpreti: Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Roberto Herlitzka, Silvia D’Amico, Davide Giordano, Nina Torresi, Ionut Paun, Serena Autieri, Gene Gnocchi. Produzione: Bianca Film. Distribuzione: Teodora Film, Spazio Cinema. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 98 A partire dalla metà degli anni ’50, il film ad ambientazione scolastica si è consolidato come sottogenere, con i suoi tipi fissi, le proprie progressioni narrative, la sua ispirazione da cinema civile. Accadeva nel Seme della violenza (1955) di Richard Brooks, in cui il reduce Glenn Ford arrivava in un istituto professionale del Bronx infestato da giovani ribelli, e da lì nascevano decine di variazioni, in particolare rispetto all’ambiente sociale, passando per Stand and Delivery (1988), L’attimo fuggente (1989) e Pensieri pericolosi (1995) e giungendo al geniale ribaltamento di School of Rock (2003), in cui la cultura giovanile non è più un enigma da decodificare, ma il contenuto da trasmettere. Secondo il modello americano spesso la scuola è osservata dalla prospettiva del docente, mentre nel modello europeo il racconto funziona più ad altezza bambino, come nei 400 colpi di Truffaut (1959). Esistono ovviamente delle eccezioni, che passano dal cinema indie (Haynes, Van Sant) o da film come Essere e avere di Nicholas Philibert (2002) e La classe di Laurent Cantet (2008). Il rosso e il blu cerca un punto di equilibrio tra queste varie tendenze, richiamando l’immaginario di sintesi elaborato da La scuola di Daniele Luchetti (1995), tratto da due libri di Domenico Starnone. Anche nel film di Piccioni c’è un testimone d’eccezione, un affermato scrittore ed esperto di temi giovanili che fa l’insegnante in un istitu- to professionale di Roma e che si chiama Marco Lodoli. Il modello si percepisce immediatamente dalla prima caratterizzazione dei personaggi dei docenti, un condensato di nevrosi in cui spicca l’anziano professor Fiorito, al cui cognome basta aggiungere sin troppo facilmente una «s» iniziale per evocare un percorso di sfioritura basato sullo scarto tra le aspettative e le applicazioni sul campo. La recitazione teatrale di Roberto Herlizka, peraltro voce narrante iniziale, dà alla sua figura un necessario distacco dalla realtà quotidiana che tuttavia, insistendo sulla condizione di alienazione, rischia di produrre nello spettatore una sensazione di straniamento verso il racconto. Ed è intorno a questo difficile equilibrio tra le tante cose da dire e la ricerca di una forma armoniosa che le comprenda, che il film di Piccioni si prende i rischi più grandi; la sceneggiatura in alcuni passaggi dà la sensazione di non riuscire a trasformare la scrittura in prosa nella liberazione della vera poesia promossa dal giovane professor Prezioso. Oggi a scuola mancano anche i soldi per fare le fotocopie; le Lim ci sarebbero anche, ma nessuno le sa usare; i professori hanno perso il prestigio di un tempo anche in virtù del carattere precario del proprio status socio-economico, sempre sull’orlo dell’esaurimento nervoso non sono neppure capaci di togliersi di mezzo e qualche genitore arrogante li prenderebbe volentieri a botte. Troppe verità, seppure sa- crosante, e dunque troppo arduo il compito di tenerle insieme. Il rischio, forse non abbastanza calcolato, è quello di enunciarle in modo dimostrativo, senza prendersi il tempo per lasciare che i temi e le verità lievitino durante il racconto, si rendano in tal modo necessarie e non, più semplicemente, affermate. È come la differenza tra l’eccessivo ordine del classicismo e il creativo disordine del romanticismo di cui parla Fiorito nella sua lezione più bella. Va bene la coralità, in un film sulla scuola è per così dire essenziale, ma con un numero eccessivo di personaggi c’è la possibilità che gli insegnanti risultino sin troppo caratterizzati e che gli studenti non abbiano lo spazio per affrancarsi dalla pura subalternità. Spesso sono i genitori a non permettere ai loro figli di crescere, come ha meravigliosamente raccontato di recente il Biancaneve di Tarsem, e il film di Piccioni sottolinea con merito tale assunto. La scuola è il delicatissimo punto di raccordo tra due differenti missioni formative che non si trovano più in equilibrio, tutto pesa dalla parte dei docenti, e questa spesso è un’altra verità sacrosanta. Per narrare verità così pesanti bisogna scegliere una forma adeguata, e a volte può capitare che funzioni meglio il gag di trenta secondi di due insegnanti che si contendono una sola sedia per due classi, che decine di irrisolti languori sentimentali. Umberto Mosca saison culturelle il giro del mondo in 60 film RUBY SPARKS Regia: Jonathan Dayton, Valerie Faris. Soggetto, sceneggiatura: Zoe Kazan. Fotografia: Matthew Libatique. Montaggio: Pamela Martin. Scenografia: Judy Becker. Costumi: Nancy Steiner. Musica: Nick Urata. Interpreti: Paul Dano, Zoe Kazan, Antonio Banderas, Annette Bening, Steve Coogan, Elliott Gould, Chris Messina, Alia Shawkat, Aasif Mandvi, Toni Trucks, Deborah Ann Woll. Produzione: Bona Fide. Distribuzione: Fox Searchlight Italia. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 104 minuti. Sulla carta, il soggetto di Ruby Sparks sembrerebbe una variazione su temi che il cinema indipendente americano già ben conosce per mano di Charlie Kaufman: indagini sugli effetti postraumatici della scrittura applicata alla narrazione di personaggi in bilico tra creazione e vita, desideri e vissuti, labirinti mentali e stanze dell’esistere, tutta roba che accade in film da lui sceneggiati come Se mi lasci ti cancello (2004) di Gondry o Il ladro di orchidee (2002) di Jonze e nel suo film d’esordio alla regia Synecdoche, New York (2008). In realtà, dietro Ruby Sparks c’è una naturalezza davvero poco incline agli intellettualismi pennaioli di Kaufman, una genuinità che manipola la fragranza dei sentimenti con una accortezza tale da far vibrare i personaggi più come in un film di Gondry che come in un lavoro di Jonze. Sarà per il fatto che Dayton & Faris lavorano su soggetto e sceneggiatura di Zoe Kazan, star off Broadway, che del film è anche interprete e produttrice esecutiva assieme al compagno Paul Dano, ma Ruby Sparks riesce a tenere fede a una sensibilità psicologica nei confronti dei suoi personaggi che l’impianto tendenzialmente teorico e tutto sommato teatrale della storia di certo non garantirebbe. Il modello cui Zoe Kazan si rifà è, esplicitamente, quello di Pigmalione e Galatea, dove al re scultore innamoratosi della statua da lui forgiata e portata in vita da Afrodite, si sostituisce Calvin Weir-Field, un giovane scrittore di talento che, nel pieno del classico blocco creativo, vede mate- rializzarsi in casa sua Ruby Sparks, una ragazza di cui s’è innamorato in sogno e che ha trasformato nella protagonista del suo nuovo, attesissimo romanzo. Il film non tenta di risolvere il dissidio sulla natura reale o immaginaria di Ruby, ma la pone accanto a Calvin col suo statuto di «creatura/ personaggio», come un dato di fatto soggettivo in connessione con la sfera reale del protagonista. Adottando uno slittamento tra immaginazione e realtà tipico della commedia fantastica (si pensi anche solo al coniglio invisibile di James Stewart in Harvey), Dayton & Faris pongono la presenza di Ruby accanto a Calvin con un passaggio di stato che sublima nell’atto della scrittura/creazione il transito dalla dimensione psicologica del desiderio/immaginazione alla dimensione esistenziale del contatto/relazione. Il paradosso viene affrontato con semplicità, lasciando che l’eccezionalità dell’evento trapassi dalla sfera soggettiva del protagonista a quella oggettiva, puntando sulla capacità di Dayton & Faris di tenere il film sulla corda di un malinconico senso iperbolico della realtà già comprovato in Little Miss Sunshine (2007). Il film lascia che Calvin affronti il paradosso della sublimazione tra immaginazione e vita puntando sul suo potere creativo, che evidentemente è un elemento fondativo della sua identità di «giovane genio»: il parallelo tra la scarsa capacità di socializzazione, la ritrosia sentimentale, la sessualità refrattaria e il blocco creativo di Calvin viaggia chiaramente sul tema metaforico di una totale impotenza che paralizza il personaggio nella sua solitudine, lasciandolo alle prese con un disadattamento esistenziale che lo rende fragile nella sua immagine di grandezza pubblica. Questa incoerenza tra indole personale e attese sociali si traduce in un sottotesto sulla solitudine socializzata che, come già avveniva in Little Miss Sunshine, appone al testo filmico una sorta di perenne nota malinconica a pie’ di pagina, una postilla umorale che smargina sia dall’ironia dei personaggi e delle situazioni, sia dal loro vissuto sentimentale. Del resto, anche in Ruby Sparks risulta evidente l’effettiva rimozione di un reale sfondo sociale, in favore di una raffigurazione del tessuto connettivo dei personaggi desertificato nel sentimento di isolamento che il protagonista cerca rispetto a ogni legame familiare e sociale. La lunare e quasi adolescenziale raffigurazione di Calvin offerta dal sempre più bravo Paul Dano aggiunge un senso di fragilità al film, una sorta di ritrosia che, nella raffigurazione del personaggio voluta da Dayton & Faris, gioca forse non a caso con la memoria della figura di James Spader in Sesso, bugie & videotape (1989). Zoe Kazan, dal canto suo, offre la sua flagrante indeterminatezza al personaggio di Ruby, tenendola perfettamente in bilico sul suo doppio statuto reale/ immaginario. Massimo Causo 53 54 il giro del mondo in 60 film SILENT SOULS saison culturelle Ovsyanki Regia: Aleksei Fedorchenko. Soggetto: dalla novella Ovsjanki di Aist Sergeyev. Sceneggiatura: Denis Osokin. Fotografia: Mikhail Krichman. Montaggio: Sergei Ivanov. Musica: Andrei Karasyov. Scenografia: Andrey Ponckratov, Aleksei Potapov. Costumi: Anna Barthuly, Lidiya Archakova. Interpreti: Igor Sergeev, Yuri Tsurilo, Yuliya Aug, Victor Sukhorukov, Ivan Tushin. Produzione: Media Mir Foundation. Distribuzione: Microcinema. Paese: Russia. Anno: 2010. Durata: 80 mimuti. Dopo la morte della moglie Tanya, Miron, proprietario di una cartiera, chiede aiuto all’amico Aist Sergeyev perché lo accompagni a compiere quello che secondo le tradizioni della cultura «merja» è il rituale di addio con cui congedarsi dai morti. Il loro sarà un lungo viaggio nei luoghi gelidi dell’inverno e in quelli congelati dell’animo, solitario, malinconico e inquieto. Nel primo film completamente di finzione di Aleksei Fedorchenko, le figure del paesaggio sembrano prendere corpo direttamente dalle parole e affiorare lentamente in superficie dalle profondità dell’acqua. L’elemento primordiale per eccellenza è, infatti, una sorta di specchio del tempo, il luogo dove fare ritorno dopo la vita, ma anche quello dove poter incontrare il volto delle persone amate e recuperare i misteri della propria storia personale di uomini. Aist e Miron, quindi, si mettono in viaggio, dopo che un fiume di parole ha già travolto immagini inondate di bianco, come se fossero presenti e assenti in egual misura, reali e proiezioni di racconti persi nel tempo. Come per i riti dei merja (antica etnia ugro-finnica di una remota regione del centro-ovest della Russia, scomparsa circa quattrocento anni fa), anche della loro storia si sono persi i contorni. Restano le reminiscenze nei nomi dei fiumi, che donano al film il ritmo incessante e lento, a tratti irregolare e dal sapore antico. "Non saprei dire quando questa storia ebbe inizio", dice all’inizio il protagonista che vive sulle rive di un fiume in una città ormai dimenticata, e già si comprende che si procederà in equilibrio tra il presente e l’oblio di un passato che si sgretola velocemente e lascia dietro di sé solo tracce sbiadite, oggetti irriconoscibili, gesti ripetitivi e pieni di mistero. Fin dalla prima immagine, però, Silent Souls appare come un catalogo di antiche credenze, a partire dagli uccellini giallo-verdi, gli zigoli cui è dedicato il titolo originale (Ovsyanki). È su di loro che il film si apre, con la corsa in bicicletta fino a casa, chiusi in una gabbia, ma straordinariamente liberi nel loro delicato cinguettio. Aist li porterà con sé in viaggio, come a voler dar loro il compito di intonare il canto funebre fino alle rive del lago in cui il corpo di Tanya (soprannominata non a caso Ovsyanki) sarà cremato. E poi ci sono i nomi dei fiumi, le parole che stanno scomparendo, il senso di un tempo che sfugge e si stratifica nelle cose. Da sempre attento alle tradizioni e credenze delle etnie minori, Fedorchenko sembra porre i suoi personaggi su due livelli paralleli, osservatori e narratori di una storia che sono essi stessi a vivere, ma che sembra sfuggire loro di mano. Lento e triste, essenziale e lieve, il regista si spinge nelle profondità temporali a partire da un luogo senza tempo, dai ponti in legno attraversati dal protagonista, mentre tutto intorno le molte tonalità di grigio riempiono lo schermo e sospendono l’azione tra la realtà e l’immaginazione. Film sull’amore resistente e impalpabile (i merja non hanno déi, si dice, solo amore reciproco), ma anche così concreto da trovare conforto proprio nel racconto della vita intima coniugale di Miron e Tanya, rievocata per rafforzare il legame tra vivi e morti. Da qui la nostalgia che i protagonisti sembrano rivivere nelle lunghe scene silenziose e nei flashback sull’infanzia di Aist, fotografo e raccoglitore di memorie del suo popolo, che in questo viaggio verso la fine, ritroverà il ricordo del padre, a sua volta morto di tristezza per la perdita della moglie. Ne racconta, infatti, la storia, affascinante e intrisa a sua volta di poesia: poeta autodidatta, la cui macchina da scrivere viene gettata nell’acqua ghiacciata del fiume, e con essa tutte le sue parole, accudite e amate in una vita di studio e d’amore. La ritroverà Aist nel fondo fangoso, nel suo andare con naturalezza incontro alla morte. Cronaca di una storia impossibile, dove si compiono fino in fondo i sentimenti di tristezza e tenerezza accennati fin dalle prime immagini. Nei movimenti spontanei della macchina a mano durante il «funerale» sulla spiaggia, nella flagranza di un incontro fugace e dolce con due donne, nella passeggiata sul ghiaccio, per affidare al fiume, e quindi all’immortalità, i ricordi di un uomo che ha trascorso la vita a sottrarre all’oblio le parole scomparse. Grazia Paganelli il giro del mondo in 60 film saison culturelle SISTER L’ e n f a n t d ’ e n h a u t Regia: Ursula Meier. Sceneggiatura: Antoine Jaccoud, Ursula Meier, Gilles Taurand. Fotografia: Agnès Godard. Montaggio: Nelly Quettier. Musica: John Parish. Scenografia: Ivan Niclass. Costumi: Anne Van Brée. Interpreti: Kacey Mottet Klein, Léa Seydoux, Martin Compston, Gillian Anderson, Jean-François Stévenin, Yann Trégouët. Produzione: Vega Film, Archipel 35. Distribuzione: Teodora Film. Paese: Francia/Svizzera. Anno: 2012. Durata: 97 minuti. Con due film, Home (2008) e Sister (Orso d’argento speciale al festival di Berlino 2012), Ursula Meier, regista nata a Besançon e con doppia cittadinanza francese e svizzera, ha già creato un personale universo narrativo e visivo. I personaggi dei suoi lavori abitano i margini degli ambienti contemporanei, periferie fisiche e dell’anima, separate da altri luoghi confinanti eppure infinitamente distanti. La quotidianità vissuta dalle famiglie anomale descritte da Ursula Meier non può prescindere dagli ambienti in cui i fatti si svolgono, che nello sguardo e nelle parole della regista "non sono mai una semplice location, ma posseggono una grande forza narrativa". Sister, come Home, rende tangibile tale percorso in ogni scena, quasi in ogni inquadratura. È un’opera continuamente, nervosamente, tesa fra due dimensioni spaziali: la stazione sciistica situata in cima alla montagna, frequentata dai turisti facoltosi così come dai lavoratori stagionali, e le case popolari collocate ai piedi del massiccio. Fra loro c’è il dodicenne Simon (interpretato da Kacey Mottet Klein, già in Home e con cui Meier voleva di nuovo lavorare, affascinata dal fisico delicato e duro, fragile e violento del ragazzo). Simon è un piccolo ladro che ruba sci, guanti, occhiali ai turisti per rivenderli ai coetanei proletari come lui e che vive in uno squallido appartamento con la «sorella» Louise (Léa Seydoux, attrice ormai più che emergente). Insieme, Simon e Louise costituiscono una «coppia misteriosa» la cui vera identità sarà rivelata in una scena madre di notevole tensione e violenza verbale e fisica. Ma Simon gioca anche a immaginare altri scenari familiari con i personaggi che incontra alla stazione sciistica: al cuoco che per un po’ diventa suo complice dice di essere orfano, alla ricca signora inglese che i genitori sono proprietari di un hotel. Inoltre, deve prendersi cura di quella ragazza/donna con la quale vive perché Louise è attraversata dall’instabilità, da una malinconica ribellione, da una tenerezza schiaffeggiata dagli eventi, non sa tenere un lavoro e nemmeno gli uomini che la usano. Simon è attratto dall’alto (e il titolo originale, L’enfant d’en haut, lo conferma). Louise, dal basso. C’è un ossessivo spostarsi di Simon e Louise in queste due dimensioni. Per Simon la funivia che collega la stazione e il quartiere popolare è non solo il mezzo di trasporto da utilizzare ogni giorno per il suo ben organizzato lavoro di ladruncolo, ma anche un luogo di protezione e di rifugio, spazio sospeso e protetto fra un mondo che non gli apparterrà mai e uno dal quale è costantemente in fuga. Per Louise, le strade accanto al palazzo grigio dove abita, e le automobili dei suoi amanti, sono spazi nei quali avventurarsi, possibili vie di fuga che però riportano sempre al punto di partenza. Simon e Louise sono corpi inseparabili, hanno bisogno l’uno dell’altra, si perdono e cercano. Emblematica, a tale proposito, è la scena che chiude il film lasciando aperta ogni soluzione narrativa; non casualmente è ambientata né a monte né a valle, ma su due funivie che incrociano il loro movimento e su ciascuna delle quali si trova uno dei due personaggi. È una scena rilevante anche perché, come in quelle simili che l’hanno preceduta, un elemento concreto al suo interno assume un valore simbolico: i cavi sui quali scorrono incessanti le funivie sono infatti la visualizzazione di quella tensione sempre presente nel film. Sister vive così di queste scosse nervose, di momenti che producono collisioni e tenerezze manifestate spesso silenziosamente. Si pensi alla scena con Louise e Simon abbracciati a letto e filmati come un unico corpo: un attimo di amore, preceduto dal rifiuto della ragazza ad accogliere il «fratello» accanto a lei. Pur trattando argomenti sociali forti (compresa la funzione del denaro nelle relazioni fra i personaggi o la descrizione delle condizioni di vita dei lavoratori stagionali), Ursula Meier non ha fatto con Sister un film «sociale» o «di denuncia». Ha posto il suo sguardo essenziale (che non può non far pensare al cinema dei fratelli Dardenne, «evocati» anche da Denis Freyd, produttore dei loro film e di Sister) per portare sullo schermo le complesse dinamiche delle relazioni umane, del loro manifestarsi, dibattersi, esprimersi. Senza imporre giudizi. Giuseppe Gariazzo 55 56 il giro del mondo in 60 film IL SOSPETTO saison culturelle Jagten Regia: Thomas Vinterberg. Sceneggiatura: Thomas Vinterberg, Tobias Lindholm. Fotografia: Charlotte Bruus Christensen. Musica: Nikolaj Egelund. Montaggio: Anne Østerud, Janus Billeskov Jansen. Scenografia: Torben Stig Nielsen. Costumi: Manon Rasmussen. Interpreti: Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Annika Wedderkopp, Lass Fogelstrøm, Susse Wold, Anne Louise Hassing, Lars Ranthe, Alexandra Rapaport, Ole Dupont. Produzione: Zentropa Entertainments. Distribuzione: BIM. Paese: Danimarca. Anno: 2012. Durata: 106 minuti. Secondo la nota tesi dell’antropologo francese René Girard nel suo libro La violenza e il sacro (1972), il sacrificio umano è una delle funzioni alle quali le popolazioni antiche affidavano il compito di sancire o ricostruire la propria coesione sociale. Attraverso la scelta di un capro espiatorio sul quale poi accanirsi in modo violento, una comunità aveva modo di mettere in scena un sacrificio rituale da cui usciva rafforzata e purgata delle sue forme più estreme di aggressività. Pur facendo riferimento a eventi che affondano nella notte dei tempi, Girard delinea una traiettoria che, nelle sue coordinate essenziali, non è difficile rinvenire in epoche a noi più vicine. Persino la tragedia dell’Olocausto è stata da più parti letta alla luce di questa visione, con il popolo ebreo nella parte della vittima sacrificale. Al giorno d’oggi invece il politicamente corretto sembrerebbe avere disinnescato certe tendenze alla discriminazione immotivata e generalizzata. Il condizionale è d’obbligo, poiché i fenomeni di emarginazione isterica e di caccia alle streghe possono comunque affiorare alla superficie di una società che si crede laica, equa e benevola. Il film di Vinterberg parla di questo, mettendo in scena – con una schematicità che può lasciare dubbi sul piano estetico, nondimeno efficace all’esposizione della tesi di fondo – un caso esemplare di discriminazione del singolo da parte di una comunità. Un gruppo cementato da rapporti di forte affettività reciproca, una scuola di paese dove tutti (bam- bini, insegnanti, genitori) si conoscono fra loro, l’imminenza del Natale a oliare i meccanismi della generosità e del buon cuore: è in questo contesto di solidarietà a tutto tondo che cade, come una meteora, la maldicenza di una bambina riguardo al comportamento non irreprensibile di un insegnante. A quel punto la paura di non essere corretti, di non esserlo pedagogicamente e politicamente, genera dinamiche che non sono poi così lontane da quelle descritte da Girard. Semplicemente, nella nostra epoca, la punizione non contempla la presenza di falò e fiamme, e prende semmai la direzione opposta: il castigo assume la forma dell’esclusione, dell’emarginazione. Il capro espiatorio non sta più al centro del palcoscenico, circondato da spettatori attirati dal rito del sacrificio; al contrario viene relegato ai margini, condannato al silenzio e all’interdizione sociale. È attraverso un atto di esclusione che la comunità rafforza la propria coesione, cementata dall’idea di avere fatto – tutti insieme – quello che era giusto fare. Sin dalla sua opera prima, l’acclamato Festen, Vinterberg si è dimostrato attento ai rituali sociali, interrogandosi sulla loro legittimità e sincerità. Lì si trattava di un matrimonio, qui della routine quotidiana di una comunità. La predilezione per la disgregazione di forme di solidarietà apparentemente inossidabili non va però letta nell’ottica di una critica anti-borghese. Non siamo dalle parti di Buñuel, non vi è traccia di irrisione, né satira. La prospettiva non è politica, né sociale, semmai antropologica, come bene spiega la presenza nel film di un tema chiaramente metaforico, quello della caccia, cui fa riferimento anche il titolo originale. La caccia come valvola di sfogo di un atteggiamento aggressivo e primitivo che apparentemente l’uomo civile ha messo ai margini della propria esistenza. Sotto questo profilo, Vinterberg espone tutto il risaputo catalogo della civilizzazione del maschio adulto nel mondo occidentale: l’elemento determinante pare essere la condizione di genitori, mariti, uomini a capo di famiglie che vivono le une accanto alle altre in piena armonia, conoscendosi e aiutandosi a vicenda. Ma sotto cova qualcosa, che un fucile e una selvaggina da abbattere non sono sufficienti a soddisfare e placare. Possiamo liquidare la storia di Il sospetto semplicemente come sgradevole e infelice, come peraltro fa il protagonista alla fine, in quello che è il punto più debole e meno convincente del film. Ma sarebbe meglio guardare al film come una parabola esemplare sui guai e le ipocrisie del politicamente corretto, la strategia attraverso la quale proviamo a sentirci un po’ più umani e un po’ meno animali, macchine rigorosamente programmate alla generosità sistematica e indiscriminata, del tutto prive di risentimento. Tranne poi farlo scaturire, il risentimento, in forme di isteria collettiva che perlopiù si nascondono dietro il dito della preoccupazione per i propri figli. Leonardo Gandini il giro del mondo in 60 film saison culturelle LA SPOSA PROMESSA - FILL THE VOID Lemale et ha’chalal Regia, sceneggiatura: Rama Burshtein. Fotografia: Asaf Sudri. Montaggio: Sharon Elovic. Musiche: Yitzhak Azulay. Scenografia: Ori Aminov. Costumi: Chani Gurewitz. Interpreti: Hadas Yaron, Yiftach Klein, Irit Sheleg, Chayim Sharir, Razia Israeli, Hila Feldman, Renana Raz, Yael Tal. Produzione: Norma Productions. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Israele. Anno: 2012. Durata: 90 minuti. La sposa promessa ha un’ambientazione contemporanea, ma potrebbe anche arrivare da Jane Austen: il rapporto tra desiderio e regole sociali che lo attraversa è infatti uno degli elementi chiave dei romanzi della scrittrice inglese. E nel film emerge nei claustrofobici interni con le luci deboli e i volti in chiaroscuro, visi spezzati a metà, anime divise in due, come quelle che dipingevano Bergman e il suo direttore della fotografia Sven Nykvyst. Le stesse anime di Bergman sono nuovamente cicatrizzate dallo sguardo dell’israeliana Rama Buhrstein, in un tempo dilatato e contaminato dalla penombra, da pause che sembrano avvertirsi anche nei dialoghi, da effetti mélo trattenuti in figure immobili, simboli di un rito che deve proseguire nella sua perenne ciclicità. A Tel Aviv, Shira sta per sposarsi con un ragazzo della sua classe sociale. Le nozze imminenti passano però in secondo piano quando la sorella Esther muore di parto durante la festività del Purim. Il marito della donna defunta, Yochai, sa che prima o poi dovrà risposarsi e pensa di unirsi a una vedova belga. Ed è a questo punto che la madre di Shira, per evitare che l’uomo lasci il paese, cerca di combinare il matrimonio tra la figlia e Yochai. La sposa promessa sembra restare sospeso tra il film familiare e il documentario sull’ortodossia ebraica. Rama Buhrstein, nata a New York e laureatasi alla Sam Spiegel Film and Television School di Gerusalemme, ha spesso utilizzato il cinema per mostrare la comunità ortodossa e la condizione delle sue donne. Per questo il suo film può essere considerato lo strumento di una testimonianza, uno sguardo su un mondo privato che a prima vista non potrebbe essere mostrato a tutti. Ma in questo suo primo lungometraggio di finzione la cineasta condensa la materia narrativa accumulata per anni e la contamina con una visione personale segnata dal dolore. La sposa promessa è chiuso nei suoi interni, confinato tra porte che si aprono e chiudono, tra zone di penombra e finestre dove il fuori diventa l’estensione del dentro: ne sono un esempio l’immagine di Shira che segue da dietro il padre e Yochai, o l’inizio ambientato nel supermercato, movimento frenetico che rallenta fino a un ritmo uniforme. Rama Buhrstein sa di avere fra le mani un materiale incandescente che prima o poi potrebbe esplodere. E ciò avviene nell’abisso emotivo descritto dal finale, e in particolare dall’immagine di Shira schiacciata contro la parete. Quell’immagine è il segno di un film non finito, intenzionalmente interrotto per mettere in luce, fuoricampo, le strade di un destino individuale rispetto a quello di un gruppo. Un gruppo da cui Shira e lo stesso Yochai, non sembrano distaccarsi anche nei momenti di intimità, ma che anzi finiscono per confermare con le loro parole e le loro azioni. Solo nella parte finale la giovane ragazza sarà lasciata da sola e finalmente (per un attimo) libera: immersa in un biancore che stride rispetto alle ombre del resto del film, Shira è ripresa in campo medio e a una distanza di sicurezza, laddove prima veniva inseguita, quasi schiacciata, da primi piani che proiettavano sul suo volto ombre simboliche. Ma in La sposa promessa dalla fine si ritorna all’inizio, con un nuovo passaggio tra la vita e la morte. Da un funerale a un matrimonio che potrebbe sembrare anch’esso la cerimonia per una defunta. Perché dietro l’illusoria distanza di uno sguardo oggettivo, il film mette in risalto il contrasto tra il mondo che rappresenta e il modo in cui lo filma. La materia, come si è visto, sembra appartenente a un documentario privato, ma lo sguardo cerca immagini che si sfibrino sullo schermo, che ambiscano all’inconsistenza fisica e trasformino le parole in rumori sordi. I fasci di luce sullo sfondo nero, che provengono da fonti luminose interne o vicine all’inquadratura, trasformano i corpi in proiezioni, ne fanno delle icone più che dei personaggi, per quanto incontrollabili e devastate. I suoni della colonna musicale, invece, come la fisarmonica nella scena all’asilo, preannunciano la rottura degli equilibri formali a cui si assiste nel finale: Shira, vestita da sposa, è catturata in un momento in cui si abbandona a un dolce dondolio, il volto segnato dalle lacrime e una luce di candele alle sue spalle. Come se di colpo La sposa promessa avesse tolto ogni maschera e messo a nudo il proprio cinema, senza più trucco, focalizzando ogni abbraccio mostrato e spezzato. Simone Emiliani 57 58 il giro del mondo in 60 film saison culturelle SU RE Regia, montaggio: Giovanni Columbu. Sceneggiatura: Giovanni Columbu, Michele Columbu. Fotografia: Massimo Foletti, Uliano Lucas, Francisco Della Chiesa. Scenografia: Sandro Asara. Costumi: Stefania Grilli, Elisabetta Montaldo. Suono: Marco Fiumara, Enrico Medri, Andrea Sileo, Elvio Melas. Interpreti: Fiorenzo Mattu, Pietrina Menneas, Tonino Murgia, Paolo Pillonca, Antonio Forma, Luca Todde, Giovanni Frau, Bruno Petretto. Produzione: Luches Film. Distribuzione: Sacher Film. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 87 minuti. Perché ancora il Vangelo? Qual è la motivazione cha ha spinto Giovanni Columbu a raccontare, un’altra volta, la storia delle storie? La risposta è scritta nelle immagini del suo magnifico Su Re. L’idea di Columbu stravolge la narrazione lineare della Passione di Cristo per portarla, da una parte, nel campo della visione soggettiva (utilizzando come fonte la lettura sinottica di tutti e quattro i Vangeli, cogliendone le differenze nelle sfumature più che nelle contrapposizioni) e, dall’altra, ricreandola in un contesto irriducibile e preciso come quello delle montagne sarde. Nell’attingere ai differenti testi di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, Columbu seziona il Verbo e lo ricrea, lo interpreta senza manipolarlo, regalandogli una frammentazione che ridona centralità al sentire individuale, che getta fasci di luce sul Cristo sofferente e sull’umanità circostante. Già nel precedente Arcipelaghi (2001), Columbu raccontava una storia di vendetta barbaricina facendo esplodere il racconto, moltiplicando i punti di vista, scomponendo l’azione per poi ricostruire un segnale univoco dagli avvenimenti. Qui, alternando le voci e gli sguardi degli evangelisti, realizza un’operazione simile mirando piuttosto a ricompattare un’unità narrativa, a evocare ai margini dell’inquadratura una moltitudine di dettagli, di anime e di corpi. La frammentazione di Su Re è un gioco di specchi che, pur tenendo ferma la centralità di Gesù, pone l’accento sulle umane tensioni che si sviluppano accanto, che arricchisco- no la problematicità intima dei personaggi, che sciolgono la teologia in un liturgico quotidiano. Columbu si affida a volti e suoni che reificano la storia di Cristo caratterizzandola geograficamente, ma non per questo privandola di universalità. Su Re non è, ovviamente, un film sulla Sardegna ma è intimamente un film sardo. A differenza del Vangelo secondo Matteo di Pasolini (forse l’unico film con cui concretamente possono trovarsi similitudini per, come dice Columbu, "il ricorso ai non attori e il rilevante proposito di raccontare le vicende evangeliche filtrandole attraverso lo spirito e l’identità di un diverso e altro universo popolare"), l’autore non mira alla creazione di una diversa Gerusalemme – che Pasolini trovò nei sassi di Matera – ma affonda invece la storia sacra in un contesto dominato dalla natura, con le rocce scarnificate e secche che echeggiano la rielaborazione linguistica del dialetto sardo. Ma proprio la forte caratterizzazione geografica e umana tramuta il racconto in un hic et nunc amplificato, donando universalità attraverso una sospensione spazio-temporale che conduce a una perenne contemporaneità. Sulla stessa linea si muove la ricerca iconografica di Columbu: la scelta dei volti raddoppia quella dei luoghi, la rispecchia. Quello di Su Re è un Gesù non bello – che rispecchia le parole del profeta Isaia: "Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima" – capace di farsi immagine di pura sofferenza, lontano dalla rassicurante rappresentazione dell’iconografia tradizionale. Non è un caso che il regista citi quali fonti d’ispirazione pittori tedeschi e fiamminghi come Memling, Grunewald, Brueghel il Vecchio, ammirati per il loro senso del sacro ricco di drammaticità terrena e di intuizioni astratte e metafisiche. Ed è proprio nel contrasto tra un mondo antropologicamente arcaico e la modernità di Cristo che si crea la scintilla dell’invenzione. Dallo strazio viscerale di un Gesù stremato – lo sguardo denso di un agnello portato al macello – alla sofferenza interiore di un Giuda lieve, dilaniato dalla colpa a venire, strumento di un disegno inconoscibile come nelle Tre versioni di Giuda di Borges; dal potere preistorico della casta sacerdotale fino al dolore inconoscibile di Maria, madre senza tempo che piange il figlio – e con lui tutti i figli – brutalmente strappato: tutto in Su Re rimbomba di un’eco di infinito amplificato dall’uso narrativo di un silenzio che si spande come una nuvola sul film. Su Re è un’opera rigorosa e potente, ricca di competenza teologica e umanissimo spirito popolare, ostica come il Verbo e come il Verbo fonte di grande forza, di sincera compassione, di infuocata pietà, di mirabile senso del sacro. Federico Pedroni saison culturelle il giro del mondo in 60 film TO ROME WITH LOVE Regia, sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Darius Khondji. Montaggio: Alisa Lepselter. Scenografia: Anne Seibel. Costumi: Sonia Grande. Interpreti: Alec Baldwin, Ellen Page, Jesse Eisenberg, Judy Davis, Woody Allen, Roberto Benigni, Antonio Albanese, Alessandro Tiberi, Alessandra Mastronardi, Penelope Cruz, Greta Gerwig. Produzione: Medusa Film, Gravier Productions, Perdido Productions. Distribuzione: Medusa. Paese: Usa/ Italia/Spagna. Anno: 2012. Durata: 112 minuti. Attenzione al titolo: non c’è Roma più di quanto non ci sia amore in questo quarantaduesimo film scritto e diretto da Woody Allen. O per lo meno non la Roma e l’amore che ci aspettiamo. C’è una città non vera, dove la luce non lascia ombra, e c’è un amore che si lascia incorniciare, ma solo per aggiungere distanza tra il desiderio dei personaggi, frustrato perché governato da dinamiche oscure, e il desiderio dello spettatore di perdersi nei codici di una commedia romantica, tradito da un autore che non vuole dire ciò che ci si aspetterebbe di sentire. Nell’opera di Woody Allen, infatti, To Rome with Love trova il suo posto non nel filone dei grandi temi attorno ai quali si agglutinano intrecci e figure sempre più archetipiche, ma nel genere delle improvvisazioni, che partono da questi stessi temi e li riportano alla loro origine: il confronto per assonanza o opposizione con le voci di altri artisti, siano essi scrittori, musicisti, pittori o registi. To Rome with Love non è dunque espressione di una maniera seconda o minore dell’Allen commediografo prestato al cinema, ma di un’autonoma e genuina forma di scrittura: un registro di appunti di lettura, visione e ascolto, dato in forma narrativa e per immagini, articolate per libera associazione. Un esempio è dato dalla scena del battibecco a tre girata sulla gradinata dell’arena dell’Auditorium Parco della Musica. Il soggetto della stroncatura è la scrittrice Ayn Rand attraverso il personaggio di Howard Roark, protagonista del romanzo The Fountainhead (da cui è stato tratto il film La fonte meravigliosa, con Gary Cooper). Rand è stata una fiera sostenitrice dell’individualismo più sfrenato, conquistando alla propria causa, diventata anche una filosofia di vita con il nome di oggettivismo: niente di più lontano dallo spirito raffinato di Allen, attento alle minime sfumature dei sentimenti. Niente di più ragionevole, quindi, che egli senta la voglia di deriderla per puro piacere intellettuale. Da questo piacere nasce il suo desiderio tutto intimo, totalmente estraneo a qualunque costruzione finzionale e al rapporto con lo spettatore, di associare liberamente un personaggio (Howard Roark) che di mestiere fa l’architetto, spingendo a parlarne due altri personaggi che svolgono la stessa professione, seduti all’interno dell’opera di un architetto realmente esistente. Un altro esempio, in questo caso per assonanza elettiva, è quello della storia degli sposini pordenonesi che si perdono e si ritrovano nel ventre della grande città. Delle quattro vicende che si alternano senza intrecciarsi all’interno del film è senza dubbio quella narrativamente più sconclusionata, soprattutto per quanto riguarda la continuità temporale (quando nelle altre storie passano i giorni, in questa sembra di vivere un presente continuo), ma è anche la più fedele alla sua ispirazione, che è Lo sceicco bianco di Fellini. Interessante esempio di come la creatività di chiunque non sia altro che l’eco di quella di qualcun altro, la sequenza mostra come Allen sappia spogliarsi della scrittura, riducendola al suo modello, riprodotto in risposta a un impulso tutto intellettuale: il sogno di uno spettatore che ricorda e nel ricordo inventa sul filo di una creazione altrui. Come spettatori, che esperienza ci propone allora To Rome with Love? Di certo non quella della leggerezza e del romanticismo, ampiamente sfruttati in occasione di Midnight in Paris. Ma nemmeno quella della partecipazione a un gioco narrativo ben congegnato, all’opposto di tante altre opere di Allen meno rapidamente scritte e realizzate. La risposta sta nelle parole del personaggio interpretato da Alec Baldwin, citate da un sonetto di Shelley: la "malinconia di Ozymandias", potentissimo faraone, "re di tutti i re", la cui statua gigantesca, costruita per incutere timore, giace ora ridotta in frantumi, e "attorno alle rovine di quel colossale relitto, sconfinate e nude", le sabbie del deserto. Malinconia della fine di una vita, di un’opera destinata, se non altro nei millenni, a non durare, e di un artista che a settantasei anni cita se stesso e in particolare Stardust Memories, quando per la prima volta accennò a questi versi di Shelley e per la prima volta cominciò a riflettere su come l’arte ci faccia sentire immortali, almeno fino a quando non moriamo. Marco Gianni 59 60 il giro del mondo in 60 film TUTTI I NOSTRI DESIDERI saison culturelle To u t e s n o s e n v i e s Regia: Philippe Lioret. Soggetto: Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère. Sceneggiatura: Philippe Lioret, Emmanuel Courcol. Fotografia: Gilles Henry. Musica: Flemming Nordkrog. Montaggio: Andrea Sedlácková. Scenografia: Yves Brover-Rabinovici. Costumi: Anne Dunsford-Varenne. Interpreti: Vincent Lindon, Marie Gillain, Amandine Dewasmes, Yannick Renier, Pascale Arbillot, Isabelle Renauld, Laure Duthilleul. Produzione: Fin Août Productions. Distribuzione: Parthénos. Paese: Francia. Anno: 2011. Durata: 120 minuti. "L’ordre est le plaisir de la raison", scriveva Paul Claudel nell’introduzione a Le soulier de satin. In questa formula è richiusa una certa idea della letteratura e della cultura francese, che vede nell’organizzazione razionale della realtà non solo il vero senso del bello, ma il senso stesso dell’esistenza. Un ordine che, nel cinema francese classico, si declina come dogma di misura ed equilibrio tra le diverse parti di un racconto e nelle articolazioni stesse del linguaggio che lo svolge. Philippe Lioret aderisce con convinzione a questo dogma, a partire dalla scelta – che si potrebbe definire ideologica – di affrontare nei suoi film grandi temi esistenziali, in alcuni casi con un forte accento sociale, attraverso il punto di vista minuto di personaggi di rivendicata normalità. In altre parole, lo scontro squisitamente classico tra l’infinito e il particolare, tra il trascendente e il concreto. In Tutti i nostri desideri sono la morte e l’ingiustizia gli avversari contro i quali la protagonista Claire combatte, e tutto il film si risolve nell’organizzazione del suo combattimento sul collaudato arco dei cinque atti. L’astuzia di Lioret – e la coscienza del ruolo fondamentale giocato dagli attori nel suo cinema – lo porta a utilizzare Vincent Lindon come motore di un’accelerazione che alza l’intensità della narrazione nel passaggio da un atto all’altro. L’ingresso in scena dalla porta di un bar; l’arrivo inaspettato a casa di Claire un sabato mattina; la scoperta da parte sua della malattia di Claire; il «rapimento» della donna dall’ospedale per accompagnarla a un match di rugby: ecco i passaggi attorno ai quali, come in una pièce, tutti i personaggi, maggiori e minori, prendono posto. E se tra i maggiori possiamo contare i soli Lindon e Marie Gillain, è interessante sottolineare come tra quelli minori – i classici «chevilles ouvrières» di un racconto – spicchi il valore negativo che Lioret attribuisce al marito di Claire: l’uomo è infatti disoccupato, quando persino i personaggi socialmente più disgraziati si distinguono per la loro professione; è distratto, quando la concentrazione e l’attenzione ai dettagli animano il lavoro della moglie; ma soprattutto è inconsapevole di tutto, quando «sapere tutto» è fin dal principio il tratto distintivo dei due protagonisti. Per quanto poca sia l’incidenza di questo personaggio nella narrazione, è importante notare che è grazie ai suoi disvalori che Lioret riesce a definire in opposizione i valori del personaggio di Lindon. Finché i due uomini che ruotano attorno a Claire sono accomunati dal «non sapere» (della sua malattia e della sua lotta con la morte), il loro rapporto è paritario e non alimenta il racconto. Ma quando Lindon accede al «sapere tutto» di Claire, la loro opposizione diventa, con la lotta contro la morte e l’ingiustizia, il motore della narrazione. Un motore legato alla necessità di tenere in piedi un film di lunga durata che rischierebbe di perdere ritmo e cedere al patetismo della lotta con la morte o all’eccesso di «agonismo» civile della lotta contro le società di credito. Proprio su questi due aspetti Lioret dirige il suo film su strade potenzialmente pericolose. Da un lato la diagnosi che Claire riceve all’inizio richiede necessariamente un’organizzazione in crescendo delle emozioni, in antitesi con i requisiti di misura che Lioret si è imposto. Dall’altro il lato giudiziario della vicenda espone al rischio di trasformare le posizioni opposte in caricature. È su quest’ultimo aspetto che il film ha i suoi momenti meno riusciti, quando vediamo un procuratore capo, con la legion d’onore appuntata sul bavero della giacca, ricordare freddo a Marie che "il contratto è il fondamento del codice civile". O come quando Lindon, con un’espressione troppo seria per non risultare involontariamente ironica, ci dice che "il credito è il consumo e il consumo è la base del sistema". Per tornare a Claudel, viene in mente un altro passaggio del suo libro: "Il faut que tout ait l’air provisoire […], improvisé dans l’enthousiasme". Come a voler dire che compito della misura è anche quello di rappresentare il suo contrario: ovvero ciò che fa Lioret alla fine, chiedendo alla sentenza di un tribunale di portare a termine ciò che Marie ha lasciato in sospeso e vincendo la lotta contro l’assoluto, perché, concludeva ancora Claudel, "le désordre est la délice de l’imagination". Marco Gianni saison culturelle il giro del mondo in 60 film TUTTO PARLA DI TE Regia: Alina Marazzi. Soggetto, sceneggiatura: Alina Marazzi, Dario Zonta, Daniela Persico. Fotografia: Mario Masini. Musica: Dominik Scherrer, Ronin. Montaggio: Ilaria Fraioli. Scenografia: Petra Barchi. Costumi: Bettina Pontiggia. Suono: Vito Martinelli. Interpreti: Charlotte Rampling, Elena Radonicich, Valerio Binasco, Maria Grazia Mandruzzato, Aice Torriani, Marta Lina Camerio. Produzione: Mir Cinematografica, Ventura Film, Rai Cinema, RSI. Distribuzione: BIM. Paese: Italia/Svizzera. Anno: 2012. Durata: 83 minuti. Tutto parla di te, il quarto lungometraggio di Alina Marazzi, il suo primo dichiaratamente di finzione, concentra l’attenzione sulla nascita: di un figlio e delle difficoltà che possono arrivare. Lo sguardo, il cuore, la mente sono rivolti alle madri e alla loro solitudine. Per non lasciarle sole, per seguire, anche professionalmente, senza temere di usare la parola «malattia», il loro cambiamento rapido e definitivo. Perché la maternità è anche una nuova identità che traligna, che ostruisce il corso naturale delle cose e che talvolta può defluire nella tragedia di donne schiacciate da un altro destino. Talvolta può insorgere la cosiddetta «sindrome post-partum», coi suoi sintomi di tristezza, fatica, insonnia, inappetenza, ansia, depressione e irritabilità. Sono due donne le protagoniste di Tutto parla di te: la sessantenne Pauline (Charlotte Rampling), che assiste e sostiene nei momenti di ansia e depressione giovani madri in difficoltà, e la giovane Emma (Elena Radonicich), neomamma frustrata dalla maternità e confrontata con l’evoluzione a genitrice. Per la prima, il selciato su cui cammina è il ritorno a una sorta di Golgota individuale svelato sul finale, un trauma di giovinezza mai del tutto guarito, segno di un amore e una paura così grandi da portare alla morte; per la seconda, invece, la strada sembra avere come unica uscita l’incapacità di affrontare le responsabilità di donna a cui è incolpevolmente chiamata. L’incontro e il progressivo avvicinamento tra le due donne genera il film stesso, restituisce l’emotività della maternità, il piacere intellettuale dello scambio, la tensione psichica del trauma. Fra di loro si instaura un gioco di specchi, un rapporto fatto più di sguardi che di dialoghi, di ricerche di complicità e tentativi di aiuto di Pauline verso Emma. Sullo sfondo le strade e le luci di Torino, quasi un labirinto, luoghi di un presente che può diventare memoria, essendo quest’ultima un elemento sempre presente nel lavoro della regista milanese, dal primo Un’ora sola ti vorrei (2002) ai successivi Per sempre (2005) fino a Vogliamo anche le rose (2007). In quest’ottica di recupero di una dimensione collettiva, non solo personale, della maternità e dei suoi ostacoli, va inteso l’irrinunciabile elemento documentario, l’inchiesta-intervista sulle mamme assassine per follia e per solitudine, lo sguardo sui centri di sostegno. La sottile ambiguità dell’approccio provoca una frantumazione del dramma e prova strade inedite per il cinema italiano. I frequenti silenzi di Pauline e i movimenti nervosi di Emma amplificano la sospensione espressiva ed emotiva del film, il vuoto lasciato tra le immagini in bianco e nero, le fotografie, le animazioni in stop motion, le prove di uno spettacolo di danza moderna, lo scontro tra le voci registrate del passato e il pianto di un bambino nel presente. Tutto parla di te è un film che non ha paura di filmare e raccontare la paura stessa, i gesti muti e il drammatico carico di non-detto che lasciano dietro di sé, nello spazio esiguo in cui una donna prova a diventare madre. Dietro a tutto, come una cicatrice inguaribile, come il trauma che segna la vita di Pauline, c’è il dolore della stessa autrice, la solitudine di figlia abbandonata dalla madre suicida, già ricordata, richiamata, agognata in Un’ora sola ti vorrei, e poi rimasta come presenza incombente nelle altre opere. Alina Marazzi, insomma, parla sempre di sé, ma così facendo riflette su cosa significhi essere donna in Italia, dal dopoguerra in poi. La stessa commistione di generi, di elementi formali e toni del discorso, la stessa fragilità del film, così ricco di elementi da perdere in molti momenti la bussola del discorso, fa comunque parte del suo lavoro di cineasta, informa una visione del mondo che non indietreggia di fronte al progetto inedito di un film di finzione. Madre nella vita, Alina Marazzi ricompone febbrilmente un patchwork che è la rappresentazione poetica di una donna/ madre alle prese con la dispersione di sé. Ma anche, inevitabilmente, la metafora di una creazione artistica che nasce come un progetto/figlio, si rivela a poco a poco e prende vita con la sua bellissima fragilità. Andrea Bergese 61 62 il giro del mondo in 60 film VENUTO AL MONDO saison culturelle Regia: Sergio Castellitto. Soggetto: dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini. Sceneggiatura: Sergio Castellitto, Margaret Mazzantini. Fotografia: Gian Filippo Corticelli. Montaggio: Patrizio Marone. Musica: Eduardo Cruz. Scenografia: Francesco Frigeri. Costumi: Sonoo Mishra. Interpreti: Penélope Cruz, Emile Hirsch, Adnan Haskovic, Saadet Aksoy, Pietro Castellitto, Luca De Filippo, Vinicio Marchioni, Jane Birkin, Mira Furlan, Sergio Castellitto. Produzione: Medusa Film, in collaborazione con Telecinco, Mod Producciones. Distribuzione: Medusa. Paese: Italia/Spagna/Croazia. Anno: 2012. Durata: 127 minuti. Dopo una telefonata nella sua casa di Roma, Gemma decide di ripartire per Sarajevo con il figlio Pietro: è da qui che prende avvio il quarto lungometraggio di Sergio Castellitto, secondo adattamento di un libro scritto dalla moglie Margaret Mazzantini, a quattro anni da Non ti muovere. Roma rappresenta per Gemma un passato di ricordi contrapposti, momenti pieni di felicità e tristezza, di dolore, amore e morte: e come il romanzo, anche il film rappresenta le sue due storie attraverso l’uso ripetuto del flashback. Dalle immagini che mostrano il presente, con la protagonista invecchiata e terribilmente indurita dalla vita, si passa agli anni della sua giovinezza, al periodo passato a Sarajevo nel 1984, durante i Giochi olimpici invernali, con l’amico e poeta Gojko, fino agli anni ’90 e ai terribili anni dell’assedio della città. Sullo sfondo dell’ultimo conflitto civile europeo, tra i bombardamenti, i massacri e gli stupri, scoppiano gli stati d’animo e le pulsioni irrazionali dei personaggi che Gemma incontra nei suoi due viaggi in Bosnia: Castellitto ne restituisce la drammaticità con un frequente uso di primi e primissimi piani e con una messa in scena molto teatrale, mentre Penelope Cruz si immedesima così a fondo nella complessità e nell’insoddisfazione del suo personaggio da convogliare l’attenzione quasi esclusivamente sulla sua perfor- mance e sulla storia d’amore con il fotografo Diego. Il personaggio di Diego (interpretato dall’attore americano Emile Hirsch), solido nell’assolutezza del suo amore ma debole di fronte al male del mondo, incarna l’obiettivo e insieme la caratteristica principale del film: l’assenza di sovrastrutture. L’amore che anch’egli vive è così impetuoso, appassionante e imperfetto, da mettere in moto una nuova esistenza per entrambi, a partire soprattutto da Gemma, che lascia il primo marito e intraprende un’avventura con un ragazzo più giovane, forse ancora un po’ bambino ma con un’immensa voglia di vivere. È però la visita a una mostra fotografica in memoria delle vittime dell’assedio a far affiorare l’inferno, i lati più oscuri dell’essere umano: alle immagini degli orrori della Storia si accostano quelle di sofferenza e disperazione di una donna sterile che si sente responsabile del proprio difetto fisico e cerca in ogni modo di dare un «lucchetto di carne» all’uomo che ama. Il desiderio di maternità diventa un’ossessione tale da portare a una scelta discutibile: trovare una donna-surrogato per concepire un bambino. La creatura tanto cercata, colei che «viene al mondo», è l’essere umano privo di colpe, la speranza per un futuro migliore: non a caso Castellitto sceglie di darle il volto del figlio Pietro, nonostante tale scelta sbilanci il tono della recita- zione del film. In un mondo carico di dolore e passione, trambusto e pianto, Castellitto e la Mazzantini, anche co-sceneggiatrice del film, innestano tutti gli elementi di forza del romanzo di partenza: la scoperta di un mondo sconosciuto, l’amore sostenuto da una passione travolgente, la guerra che devasta le coscienze, il dramma della sterilità, la maternità, la paternità… L’esito sullo schermo schiude a un’intensità di toni che rende fedelmente il sentimentalismo della pagina scritta, per quanto nelle mani del Castellitto regista l’incandescente materia narrativa rischi talvolta di scivolare nella retorica. La musica stessa, composta da brani di grande potenza espressiva, prova a rendere fluido l’amalgama tra emozioni e immagini e a trasportare lo spettatore nelle viscere della Storia. Un compito arduo e ambizioso, che se il film talvolta non centra in pieno, al contrario la sua interprete principale riesce perfettamente a sostenere: cresciuta nei «tourbillon emotivi» del cinema di Almodovar, Penelope Cruz dona al film la sua forza di attrice naturale: soprattutto nel finale regala allo spettatore la verità dell’amore che salva e redime e che trasforma Venuto al mondo in un melodramma capace di spurgare le ferite e ridonare speranza per un futuro diverso. Alexine Dayné il giro del mondo in 60 film saison culturelle VITA DI PI Life of Pi Regia: Ang Lee. Soggetto: dal romanzo omonimo di Yann Martel. Sceneggiatura: David Magee. Fotografia: Claudio Miranda. Montaggio: Tim Squyres. Musica: Mychael Danna. Scenografia: David Gropman. Costumi: Arjun Bhasin. Interpreti: Suraj Sharma, Irrfan Khan, Rafe Spall, Gérard Depardieu, Tabu, Adil Hussain, Ayush Tandon. Produzione: Rhythm & Hues, 20th Century Fox. Distribuzione: 20th Century Fox Italia. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 127 minuti. Bastano alcune immagini tratte dal nucleo pulsante e centrale del film, vale a dire la parte in cui il ragazzo indiano Pi e la tigre del Bengala Richard Parker sono insieme sulla scialuppa di salvataggio, per ripensare a Bazin e al suo famoso saggio sul montaggio proibito, testo spessissimo citato ed evocato come dettame critico, punto limite della rappresentabilità dell’immagine. Se dovessimo prendere il saggio di Bazin alla lettera, come norma morale ed estetica, allora dovremmo negare a Vita di Pi il suo status di film, proprio perché il ragazzo e la tigre non sono mai stati insieme sulla scialuppa, diversamente ad esempio da Chaplin e il leone nella gabbia de Il circo, che invece erano lì, nella stessa inquadratura, filmati e visti dalla macchina da presa. Ma il saggio di Bazin non si riduce a una serie di precetti (l’equivoco del montaggio proibito inteso come dogma). Esso indica, più che altro, la potenza del cinema di diventare atto necessario, la possibiltà di sperimentare la forza di un’immagine come impronta-limite del reale. L’impossibile coesistenza di un essere umano e di una belva all’interno di un’unica inquadratura diventa appunto un’inquadratura-limite, esempio di un cinema ai confini della rappresentabilità del reale. Da questo punto di vista dobbiamo allora guardare al film da un’altra prospettiva. Vita di Pi ha infatti vinto i principali premi «tecnici» all’ultima cerimonia degli Oscar, dalla fotografia agli effetti speciali alla regia, e non è certo un caso: la fabbrica sem- pre più artificiale dei sogni sa riconoscere le sue tendenze più importanti, e di sicuro Vita di Pi lo è, in quanto indica una sfida, una strada aperta che si contrappone radicalmente alla potenza del cinema baziniano e lo fa in nome di un’altra potenza, quella di un’immagine fantastica, realmente fantastica. Tutto lo sforzo tecnico e registico del film sta proprio in questo, nel mostrare al tempo stesso la doppia possibilità, reale e fantastica del cinema. Le identità stesse dei personaggi sono dislocate, spostate: Pi non si chiama così (si chiama «Piscine», alla francese), Richard Parker si chiama in realtà Thirsty (il suo nome è stato scambiato con l’uomo che l’ha venduta allo zoo). Entrambi sono costruzioni fantastiche con la pretesa di diventare reali. Non siamo più dalle parti dell’immagine-sogno, del cinema visionario che crea mondi – come può essere il cinema di Cameron, ad esempio –, siamo entrati, attraverso le immagini di Lee, in un mondo che vuole raddoppiare fantasmagoricamente la realtà. La storia che Pi racconta allo scrittore potrebbe anche essere un’altra, perché alla fine della sua narrazione l’uomo offre un’altra possibilità al suo ascoltatore e narra una vicenda così terribile e insieme verosimile da non aver bisogno di immagini. La seconda storia viene solo raccontata a parole, perché il cinema, sembra suggerire il film, non ha più voglia di raccontare queste storie. Lo scrittore (e Ang Lee con lui) si terrà la storia con la tigre. Tutto quindi lavora in questa dire- zione, nel mostrare come identici il mare e il cielo, nel disegnare un mare che diventa una tavola piatta e riflettente, nell’illuminare fondali e profondità marine come se fossero luoghi magici e al tempo stesso immagini del reale. Il regista taiwanese (ma cresciuto cinematograficamente negli Stati Uniti) crea di fatto un’idea di regia che moltiplica i momenti riflettenti in attimi in cui lo sguardo si posa su spazi simmetrici (il sopra e il sotto della barca, il fondo del mare e l’orizzonte del cielo, il corpo che nuota in piscina e sembra fluttuare nell’aria), spazi che – ed è questa la novità che attraversa la Hollywood più consapevole degli ultimi anni – hanno l’obiettivo di costruire un reale al tempo stesso concreto, riconoscibile e irreale, se non allucinato. È insomma qui che risiede la vera rivoluzione del digitale, la possibilità di rendere più vicina a noi un’altra promessa, di costruire «letteralmente» un altro reale presente solo sullo schermo. Ed è quindi su una tale polarità radicale che si gioca oggi la doppia partita del cinema, che non è ancora (e forse non è mai stato) post-cinema. Una partita che Hollywood è pronta a giocare fino in fondo e che mostra, dall’altra parte, un cinema del reale (capace cioè di pensare il reale come spazio mobile e mai «ricostruibile» fino in fondo) impegnato con altrettanta intensità in una partita opposta. Lo scenario è aperto, oggi più che mai. Daniele Dottorini 63 64 il giro del mondo in 60 film ZERO DARK THIRTY saison culturelle Regia: Kathryn Bigelow. Sceneggiatura: Mark Boal. Fotografia: Greig Fraser. Montaggio: Dylan Tichenor, William Goldenberg. Musica: Alexandre Desplat. Scenografia: Jeremy Hindle. Costumi: George L. Little. Interpreti: Jessica Chastain, Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer Ehle, Mark Strong, Kayle Chandler, Édgar Ramírez, Scott Adkins, Chris Pratt, Mark Duplass, James Gandolfini. Produzione: Annapurna Pictures. Distribuzione: Universal. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 157 minuti. Partiamo dal fondo. Dal finale di un film che non finisce, e che proprio in chiusura pone gli interrogativi più importanti, più gravidi di significati e (necessità di) prospettive. Portata a termine la sua missione (l’ossessione di eliminare Bin Laden, a partire da quell’11 settembre 2001 che apre il film) l’agente della CIA Maya, interpretata con appassionata partecipazione da Jessica Chastain, si ritrova sola, sulla pista di un aeroporto dove l’aspetta un velivolo militare tutto per lei. "Dev’essere un pezzo grosso", le dice il pilota, "è la mia unica passeggera". Ma alla domanda su dove andare, quale sia la destinazione, la casa alla quale tornare, l’intrepida e sicurissima Maya non sa dare una risposta certa. E cede. Cede alle lacrime, alla fatica, alla solitudine. Cede a tutto quello che ha dovuto sempre reprimere per non essere considerata «una donna», cede a tutto quello che ha dovuto sacrificare sull’altare dei sogni e degli incubi. Eppure, è proprio la sua condizione di genere – che riafferma secondo traiettorie diverse sia dal femminismo tradizionale sia dalla società maschile nella quale opera – che le ha garantito la possibilità di successo. È la sua condizione di genere che le ha donato la forza e la sicurezza necessarie per continuare ad agire in un mondo dove le incertezze, i dubbi e le paure spingevano verso una paralisi che rischiava di riguardare il pensiero prima ancora che il corpo. Perché Maya non antepone l’azione al pensiero, ma fa scaturire la prima dal secondo: così facendo, condanna le azioni senza ragionamento responsabili del disastro contemporaneo e al tempo stesso il ragionamento senza applicazione pratica, sterile riflessione che mal nasconde il terrore di compiere errori. Maya ha il coraggio di rischiare grazie a una determinazione figlia delle sue sicurezze, e perfino delle sue contraddizioni. Perché solo accettando la propria natura contraddittoria, che si esplicita nell’accumulo di modalità e simboli spesso contrastanti, può calarsi in un mondo nel quale la caduta di certezze e punti di riferimento rende vane le tradizionali bussole e le sicurezze monolitiche e ideologiche. Il mondo che Kathryn Bigelow racconta in Zero Dark Thirty – con modalità identiche a quella della sua protagonista – è un mondo confuso e impaurito, nel quale attaccarsi al feticcio della soppressione di un nemico pubblico è un antidoto momentaneo ma necessario a un senso di smarrimento pervasivo e generalizzato. Quel senso di smarrimento che deflagra impietoso nel cuore e nella testa di Maya a missione compiuta, alla fine del film. Eppure il cammino indicato dalla Bigelow non è affatto circolare e senza vie d’uscita. La scelta di un finale non consolatorio, ma addirittura sconsolato, coerente con l’andamento solenne e funerario di un film costruito attorno all’uccisione di un uomo, non è affatto una dichiarazione di resa. L’ammissione di fragilità e solitudine che Maya compie nei confronti di se stessa e dello spettatore è coerente con le precedenti necessità di mascherarla e negarla; è la dichiarazione della consapevolezza che, dissolto il feticcio, sarà ancora più importante abbracciare la propria complessità per affrontare quella del mondo. Un mondo dove, oramai, i simboli sono spariti, o svuotati di senso, dove l’intero universo simbolico è da ricostruire. Basti pensare all’uso e abuso che nel film viene fatto dalla bandiera statunitense, del modo in cui Maya vi si approccia e riflette, e di come, proprio nel finale, tutto questo cambi e perda di senso. Come possa Maya, e come possiamo noi tutti, uscire dal vuoto dalla confusione e dall’assenza di riferimenti, la Bigelow lo indica quindi con il suo agire filmico: se ne esce accettando e unendo il doppio binario del pubblico e del privato, per lei che racconta un thriller d’azione e al tempo stesso un dramma intimo senza distinguerli; abbracciando la natura meticcia di una realtà che spinge verso una riorganizzazione di senso e pensiero che va ben oltre l’indossare le All Star sotto il burqua; facendo sì che la nostra vulnerabilità sia la base di nuove sicurezze e nuove azioni figlie di un pensiero rinnovato, meticcio ed empatico. Un pensiero che ridefinisca le dinamiche di genere (di ogni genere), nel cinema e nella vita, che le riorganizzi e le ricostruisca a partire da specificità e differenze da intendere come ricchezze e non limitazioni. Un pensiero che parta dalla fine che stiamo vivendo, verso un nuovo inizio. Federico Gironi TRA LA VITA E LA MORTE ROTTERDAM Conversazione con Leonardo Brzezicki, Rotterdam, 2013 N el cinema che vive il presente e che guarda al futuro, l’immagine digitale non può che essere la sola forma di sguardo possibile. Un’immagine piatta, trasparente, dove la luce non si accumula in colori e ombre fragranti, pastose, ma si dispone uniforme sulla superficie, creando visioni nette e iperrealiste. La realtà si trasfigura in qualcosa che la ribadisce, che la connota in senso sempre più realista (iperrealista, per l’appunto) e al tempo stesso la supera e la nega. Il digitale toglie verità all’immagine e le regala la piattezza dell’oggetto puro, dischiudendo di fronte al cinema, in modo diverso rispetto ai maestri che con la pellicola hanno lavorato su temi esistenziali quali la morte, il divino, la concretezza dell’invisibile (Bresson, Bergman, Ozu, Mizoguchi, Dreyer), una dimensione spirituale intangibile. Non è certo una cosa nuova o propria delle ultime stagioni (la regista giapponese Naomi Kawase, tanto per fare un nome, ricerca una dimensione trascendentale dell’immagine digitale da più di un decennio), ma è innegabile che grazie alla diffusione dell’alta definizione il cinema abbia superato il realismo della rappresentazione nella direzione di uno sguardo tanto più preciso e nitido, quanto più accecato dalla sua stessa precisione. Un cinema che insegue ossessivamente il mito della realtà da toccare con mano, eppure sempre più se ne allontana… La partita si gioca a livello visivo. Un film come Noche, esordio dell’argentino Leonardo Brzezicki, storia di un gruppo di amici che si ritrova per ricordare uno di loro morto suicida e ascoltarne i pensieri registrati in punto di morte, lavora su elementi immateriali come la memoria, la morte, il rimorso, concentrandosi sul rapporto fra l’immagine e il suono, creando il racconto a partire da connessioni puramente sensibili. Nel film le immagini sono separate dalle parole e dai suoni, ma il montaggio audiovisivo unisce gli elementi su un piano del tutto originale, oltre il racconto e vicino all’andamento disconnesso del pensiero automatico. Come lastre di vetro impresse, con la trasparenza tipica del digitale contemporaneo (riscontrabile anche nel cinema mainstream, ad esempio in un film come Vita di Pi), le immagini di Noche si so- vrappongono, lasciando emergere i singoli elementi che le compongono e al tempo stesso fondendoli in nuove forme visive: tecnicamente il film è composto da lunghi piani che si concludono in dissolvenze incrociate, ma a livello visivo l’effetto è quello di sovrimpressioni fra immagini che durano il tempo di creare una realtà inattesa e puramente cinematografica. Sullo schermo emerge una dimensione unica, irripetibile, che a livello visivo supera l’opposizione tra vita e morte, tra luce e buio, e a livello sonoro tesse dialoghi impossibili tra passato e presente, tra vivi e morti. Non ci sono connessioni logiche, non c’è legame tra gli elementi, ma solo la sensazione di un’esperienza unica e irripetibile: per i personaggi, persi fra il giorno e la notte e incapaci di distinguere la realtà che vivono, e per gli spettatori, immersi in un’operazione sperimentale inafferrabile e proprio per questo affascinante, sospesa, forse, chissà, su uno dei possibili futuri del cinema d’autore, oltre il realismo e dentro l’immanenza delle cose. R.M. 66 Da dove nasce l’idea del film? Il racconto è ancorato all’idea di passato e memoria, bloccato da un rimpianto difficile da estirpare, eppure al tempo stesso è molto forte la voglia di ricominciare, di creare un mondo interiore dove la vita e la morte possano condividere lo stesso spazio… L’ispirazione per Noche viene da alcuni miei ricordi, non eventi specifici, ma reminiscenze di sensazioni provate in momenti diversi della mia vita. Tempo fa ho vissuto per un lungo periodo all’estero, e quando sono tornato a Buenos Aires molte persone vicine alla mia famiglia erano morte. Di colpo mi sono così ritrovato a vivere una strana sensazione: un luogo familiare come la città in cui avevo sempre vissuto era diventato uno strano posto, per via dell’assenza di tutte quelle persone… Giorno dopo giorno sperimentavo sensazioni soggettive molto forti, fatte di conversazioni nella mia testa, richieste rivolte a persone scomparse (per vederle ancora una volta, per sentire ancora le loro parole…), sogni che li vedevano come protagonisti e che potevano essere sia gentili sia spaventosi. Mi ricordo ad esempio della mia nipotina, nata giusto una settimana prima della morte di mio padre: eventi come questi non potevano che generare inevitabili domande sul significato della vita, sulla presenza di una natura che si dispiega dinnanzi ai nostri occhi incurante di quanto possiamo tener strette le cose che amiamo o di quanto possiamo sforzarci di dare un significato a ciò che ci capita. La verità è che il mondo va avanti, spesso in modo incomprensibile, e sempre in modo irreversibile. Con tutti questi pensieri nella testa, volevo fare un film introspettivo, alla ricerca di elementi sensuali e fisici più che psicologici; e volevo una struttura narrativa che favorisse associazioni di natura poetica piuttosto che una storia compiuta. Noche doveva essere un viaggio sensoriale, soggettivo e insieme ambiguo, aperto a molteplici interpretazioni e senza risposte chiare da dare… Ma le domande che pone sono giustamente molte… Esatto. Ad esempio, cosa rimane qui, sulla Terra, delle persone che ci hanno lasciato. O come continuare a vivere la propria vita… Tutte queste domande sulla vita e la morte, tutte queste incertezze erano le figure guida del film, in cui le sole risposte da trovare sono quelle soggettive, che inevitabilmente sono incerte e fragili. Come dici, però, Noche è anche un film sulla possibilità di ricostruire ancora una volta il mondo attorno a noi, ignorando come andrà a finire e accettando un carico ancora maggiore di domande senza risposta e incertezze; un mondo fragile, ma che va avanti e che, soprattutto, si percepisce come nuovo. Perché alla fine di ogni ragionamento o pensiero, si capisce che la novità, la voglia di rinascita rappresenta ciò di cui ognuno di noi ha più bisogno, ciò che ognuno di noi più desidera: cercare di rappresentare queste sensazioni attraverso il cinema ha rappresentato per me la sfida creativa più esaltante. Ne era anzi il punto centrale: vedere le cose in modo originale e per me nuovo, senza sapere cosa sarebbe venuto fuori e accettando i rischi e le incertezze di imbarcarsi in un processo del genere. Alla base del film c’è l’idea di fondere gli elementi fra loro, la luce con il colore, la notte con il giorno. Ma l’opposizione più evidente è quella tra la vita passata e la vita presente, e di conseguenza quella tra la vita in generale e la morte. Sei d’accordo? Sì, assolutamente. Mi interessava evocare un paesaggio emotivo a partire da opposizioni come quelle fra passato e presente, vita e morte. Nel film un gruppo di amici ritorna a far visita alla casa e ai luoghi che appartenevano a Miguel, un loro compagno suicidatosi l’anno precedente. In realtà, sono loro, gli amici ancora in vita, a essere rivisitati da Miguel e dalla sua voce: perché qualcosa di molto interessante succede quando i vivi si confrontano con la voce e i suoni del passato, qualcosa di molto simile a un sogno a occhi aperti, che nessuno sa distinguere da tutto il resto e a cui nessuno sa porre un freno. Personalmente, collego questa particolare sensazione ai momenti 67 in cui si cerca di ricordare qualcosa che sfugge e si costruisce a ritroso un evento con la memoria. È una delle mie ossessioni: spesso mi ritrovo a ricostruire ricordi e a giocare con loro nella mia testa… Credo infatti che in queste ricostruzioni ci sia un elemento molto forte di finzione, elementi narrativi che aggiungiamo volontariamente ai ricordi o cose accadute in modo totalmente diverso da come sono andate. È come se il presente provasse ad appropriarsi del passato o, viceversa, il passato provasse a prendersi gioco del presente… Non sono molto sicuro di cosa accada in quei momenti, ma nei labirinti della mente c’è il bisogno umanissimo di aggrapparsi alle cose o alle persone; per questo c’è sempre una forma di racconto che nasce in mezzo ai ricordi… La cosa più affascinante e sorprendente di Noche è l’aspetto visivo. In particolare, l’uso della dissolvenza ha qualcosa di trascendentale: per esempio nell’ultima scena, in cui la notte e il giorno, fondendosi, creano uno spazio innaturale. Non a caso un personaggio pensa di vivere nella notte e un altro dice di vivere nel giorno… C’è dunque lo scorrere naturale del tempo e la percezione interiore dei singoli personaggi, e tutte queste emozioni nel film sono rese come sensazioni profonde, quasi materiali, grazie a una resa visiva carica di intensità. Puoi raccontarci come hai lavorato sulle dissolvenze e soprattutto di come hai sfruttato la tecnica digitale per ottenere degli effetti così particolari? Dopo le riprese ho lavorato a lungo con il montatore, ogni giorno a casa mia, per ottenere un final cut soddisfacente. A essere onesti, abbiamo scoperto durante il montaggio che fondere le immagini fra loro sarebbe stato il modo migliore per ottenere il tipo di sensazioni che cercavo di catturare; non era una cosa prevista in partenza. Il montaggio del film si è sviluppato in un modo molto plastico, come se il film fosse un dipinto, come se le immagini fossero dei colori e noi cercassimo di fonderle talvolta in modo anche casuale per vedere l’effetto che si veniva a creare. Abbiamo fatto molti tentativi e spesso c’erano giorni davvero frustranti in cui l’idea di non seguire una narrazione strutturata e comprensibile ci buttava giù; non c’era una logica narrativa dietro le unioni di colori, luci e corpi, non c’era una sceneg- giatura da seguire e dunque nessuna struttura. A volte, poi, le immagini si fondevano bene all’inizio, ma andando avanti si capiva che la cosa non funzionava… Si è trattato di momenti molto difficili, ma al tempo stesso molto stimolanti, perché spesso la combinazione di due immagini generava a sua volta combinazioni ancora più sorprendenti, elementi che nessuno aveva notato o intuito in precedenza, immagini create da un sistema di libere dissolvenze. Il momento finale che tu citi è nato proprio in questo modo, grazie a un’associazione inattesa di più elementi: quando ha funzionato, è stato davvero esaltante. Puoi raccontare come hai lavorato con la colonna sonora? Così come le immagini, anche il suono è composto da più elementi: i rumori della natura, la voce dei vivi e la voce registrata dei morti. In questo modo è ancora più intensa la sensazione di base del film, la creazione di una realtà che è sogno e incubo, un mondo che esiste o forse no… La maggiore parte del suono che fa riferimento a Miguel l’ho creato io stesso. Ho comprato un registratore e per più di un anno l’ho portato 68 sempre con me, in modo da cogliere qualsiasi cosa mi stesse attorno e attirasse la mia attenzione. È una specie di suono documentario registrato nei luoghi dove sono stato e insieme con le persone che ho incontrato. L’aspetto concettuale relativo al sonoro, però, è stato pensato e costruito in una fase successiva, durante il montaggio della parte visiva, perché trovavo veramente difficile procedere nella costruzione del film tenendo separate le immagini dal suono. Era fondamentale che le due cose avanzassero insieme. In generale, penso che grazie al suono viviamo emozioni impossibili da articolare altrimenti in modo razionale, e alla base del film c’è proprio la voglia di fare qualche esperimento con un elemento che funziona soprattutto a livello emotivo. Spezzare con il suono la linearità del tempo e dello spazio, lavorare con uno spazio trasformato dal suono stesso in una dimensione indipendente rispetto all’immagine, ritrarre sensazioni e stati mentali in modo sottile: ecco dove nasce Noche. Sono infatti convinto che nel suono ci sia qualcosa che intrighi la mente in modo speciale; di solito infatti non giudichiamo ciò che ascoltiamo in modo altrettanto severo rispetto a ciò che vediamo, e le informazioni che processiamo attraverso il suono ci attraversano soprattutto al livello subconscio. Nel film, ad esempio, si ascolta un testo o un suono lontano non sempre riconoscibile, ma capace di far viaggiare la mente, di generare, nei personaggi e spero anche nello spettatore, pensieri intimi, associazioni poetiche con il passato… All’improvviso è come se la mente fosse altrove. Inoltre, oggigiorno registrare suoni rimanda a qualcosa che si è perso: in genere, infatti, le registrazioni del passato riguardano l’audiovisivo, qualcosa che si vede e insieme si sente, mentre una volta la gente registrava i propri pensieri e le proprie memorie su un diario e quell’intero mondo poteva rinascere solamente grazie al suono, attraverso la parola. Così il suono rappresentava di per sé qualcosa di perduto, memoria da desiderare e recuperare… Il tuo è un film sulla morte, ma al tempo stesso fortemente legato a un sentimento della vita e dell’amore. Non a caso tutti i personaggi sono innamorati e hanno a che fare con il desiderio e il sesso. Sei d’accordo con questa visione più ottimistica e solare di Noche? Sì, assolutamente. C’è una frase che io stesso leggo da qualche parte del film, e che dice: "La vita è per i vivi". Forse è un’affermazione un po’ troppo sintetica, ma è senza dubbio vera: la vita è per i vivi, i quali, mentre vivono, devono vedersela con la morte, l’amore, il desiderio. Ecco perché era importante, nel film, dopo aver sentito le ultime parole di Miguel pronunciate prima di uccidersi, tornare ai personaggi in riva al fiume: per stare con loro, lì vicino all’acqua, e senza sapere dove andranno fare un pezzo di strada insieme, senza abbandonarli. a cura di Roberto Manassero IL SILENZIO ATTRAVERSO LA MUSICA BERLIN Conversazione con Matthew Porterfield, Berlino, 2013 I l rock m a l i n c o n i c o a m e r i cano, indie, lo-fi o folk, è una sorta di inno dei nostri tempi. Distante dalla mitologia o dallo sciamanesimo che a Berlino si è visto in un film come A batalha de Tabatô di João Viana, dove la musica è un tramite tra l’uomo e la divinità, tra la vita e la morte, il rock americano ha una dimensione secolarizzata e minimale, è profondamente ancorato al mondo dei vivi, alle loro sofferen ze capaci di consumarsi nello spazio di una canzonetta, ed è diventato ormai un devastante strumento di autoanalisi. Matthew Porterfield, nel suo terzo film I Used to Be Darker, intesse una rete sfaldata e fragile di relazioni fra individui sull’orlo del collasso e usa la musica come unico, per quanto improbabile e altrettanto fragile collante. La storia è tradizionale: una diciottenne nordirlandese ar- riva negli Stati Uniti, nei sobborghi di Baltimora, per fare visita alla sorella della madre, a suo marito e alla cugina coetanea. Solo che la coppia si sta separando e l’ingombrante ospite straniera, per quanto accolta con gentilezza, diventa un problema: per loro e per lei. Tutto sembra già scritto e già visto, ma Porterfield si prende del tempo, imposta la trama e poi la sfilaccia, lasciando che i personaggi emergano, con la loro storia interiore e il loro dolore. La musica folk, eseguita da autentici musicisti, per l’occasione anche interpreti, per fortuna non è un semplice riverbero dei sentimenti dei personaggi, ma si inserisce nel racconto come parte del discorso, come personaggio. Ci sono concerti di autentici gruppi indie, ci sono prove dal vivo, ci sono sfoghi solitari in cui un verso anche banale, anche immediato, esprime pensieri taciuti. La di- sperazione si stempera così nella dolcezza della musica e il film a poco a poco acquisisce un passo dolce, quasi naturalista che rende i personaggi dolorosamente credibili. Perché Porterfield, aiutato dalla splendida fotografia nitida di Jeremy Saulnier (il regista di Blue Ruin), non dimentica lo sguardo documentario del suo film precedente, Putty Hill (2011), e sta lì a osservare, partecipe e distante, costruendo sì una finzione con personaggi immaginari, ma lasciando al caso, all’epifania della realtà il compito di prendersi il film e, dopo un inizio stentato, fatto di troppi silenzi e troppe attese, diventare uno splendido ritratto collettivo di uomini e donne alla deriva, desiderosi di ricominciare. Da una canzone, un suono, una parola detta, non importa come, se cantando o bisbigliando. R.M. 70 Dopo Putty Hill, con cui seguivi la vita quotidiana di una famiglia colpita da un grave lutto, con I Used to Be Darker il tuo cinema sembra volgere verso un naturalismo meno documentario e più virato verso la finzione. Eppure c’è sempre la sensazione di qualcosa lasciato al caso, la presenza di uno sguardo che lascia "la porta del set aperta", come avrebbe detto Jean Renoir… I Used to Be Darker è il mio terzo film, e quello in cui forse ho voluto sperimentare di più. La cosa può sembrare paradossale, perché forse è un film con la struttura tradizionale, ma in realtà si tratta di una costruzione lenta e ragionata. Il racconto di un divorzio e di un’estranea che spezza l’equilibrio di una famiglia già pericolante, è in realtà saldamente ancorato a una forma tradizionale di racconto, e a partire da qui volevo tentare vie formali più avventurose e sorprendenti. I Used to Be Darker è infatti un dramma pieno di emozioni, di comportamenti incomprensibili, di liti e riappacificazioni, ma come il cinema realistico ci ha insegnato a fare si prende anche tutto il tempo del mondo per dipingere il quotidiano dei personaggi. Le canzoni stesse sono sia momenti autentici, perché i personaggi sono dei musicisti, sia riflessioni sul loro stato interiore. L’elemento di base è una continua interrogazione su una serie di aspetti formali del cinema, su come si possa spezzare l’illusione di realtà della finzione attraverso un’ambientazione naturalista e la scelta di lavorare con attori non professionisti. Consideri il film più la storia di una ragazzina che si ritrova in un mondo che non le appartiene e nel quale, sbagliando, cerca di farsi strada oppure la storia di un divorzio che coinvolge non solo la coppia, ma tutte le persone che le stanno attorno? Credo la seconda. Anzi, ne sono certo. Insieme con la co-sceneggiatrice volevamo raccontare in modo onesto una storia di divorzio, perché su questo argomento avevamo un terreno comune. Entrambi infatti siamo reduci da un divorzio, e se ripenso alla mia vita ne ho addirittura vissuti due, se conto oltre al mio anche quello dei miei genitori nell’estate in cui tornai a casa dal mio primo anno di college. Quello che volevamo fare era rendere nel modo più sincero possibile le nostre esperienze e soprattutto pro- vare ad andare oltre. Provare, cioè, a far emergere quanto una separazione possa essere complessa e nonostante tutto piena di vita, visto che la fine di un matrimonio è certamente la fine di un mondo, ma anche l’inizio di qualcos’altro. E questo sia per la coppia coinvolta, sia per le persone che frequenta. La musica è una delle protagoniste del tuo film, quasi un personaggio. Con la musica i protagonisti si esprimono, tirano fuori quello che hanno dentro, dicono quello che non sanno esprimere a parole. Eppure questo rapporto in fondo classico tra emozione e canzoni rock non è forzato, si intesse perfettamente nel film. L’hai pensato così fin dall’inizio? La musica, certo, è decisiva. Quando con Amy Belk, la mia co-sceneggiatrice, abbiamo cominciato a lavorare al film ascoltavamo un sacco Bill Callahan (cantautore statunitense, tra i più noti dell’universo indie e del genere lo-fi, ndr). Mi ricordavo che durante il mio divorzio ascoltavo spesso una sua canzone, Sometimes I Wish We Were An Eagle, e l’ho fatta ascoltare ad Amy. Anche a lei, come dicevo, è passata attraverso un divorzio, e per quanto nessuno dei due avesse voglia rivivere quell’esperienza, sentivamo comunque la necessità di tornarci sopra, di provare a capire cosa resta dopo che tutto è passato. La musica, se ci pensi, è fatta proprio di cose che ti lasci dieto, si porta con sé memorie e sensazioni, le lascia fluttuare nell’aria, e permette anche di esprimere, o semplicemente dire, cose che altrimenti si 71 tacerebbero. Per Amy, poi, la canzone in cui tutto si raccoglieva era un’altra, ancora di Callahan, Jim Cain: diceva sempre che per noi era una specie di inno. Alla fine, il titolo del film viene proprio da lì: "I used to be darker, then I got lighter, then I got dark again / Something to be seen was passing over and over me". L’abbiamo scelto perché ci piacevano le emozioni contraddittorie che esprime, il carico di vita che quelle parole contengono, e ovviamente anche il «mood» della canzone. Quindi che significato ha per te, per voi, il fatto che gli interpreti siano musicisti nella finzione e anche nella vita? Direi che fa parte del generale processo di messa in discussione dell’illusione realista e della finzione tradizionale. C’è un dialogo tra la storia, la realtà e i personaggi tenuto insieme dalla musica. In un certo senso il protagonista maschile, il marito della coppia che si separa, è modellato sullo stesso Callahan: non sulla sua persona, ma su quello che dimostra di essere nelle sue canzoni, un uomo con pensieri profondi, oscuri, e una logica tutta sua, non così facile da intuire. Di conseguenze, da un personaggio impostato in questo modo non poteva che nascere una controparte in grado di tenergli testa, capace di condividere con lui un intero mondo di pensieri e di attitudini verso la vita, e forse proprio per questo destinata a separarsi da lui. Nel film la moglie è interpretata da Kim Taylor, una cantante folk piuttosto nota nell’ambiente, nonché compagna di scuola di Amy. Prima ancora che pensassimo di chiederle di interpretare il ruolo – e in qualche modo di non smettere di essere se stessa – Amy mi ha fatto ascoltare le sue canzoni per entrare nel «mood» della storia; e quando l’ho incontrata sapevo già che di suo nel film non ci sarebbero state solo le canzoni, ma ben altro, la sua presenza, la sua bellezza fragile e intensa. In un certo senso, come dice sempre Amy, "Kim era Kim fin dall’inizio". Nel film poi si vede un altro gruppo musicale, quello a cui si unisce la moglie una volta andata via di casa… Quelli sono un vero gruppo pure loro: sono i Palace Brothers di Ned Oldham, fratello del più celebre Will (cioè Bonnie Prince Billy), che spesso e volentieri fa anche l’attore. Inizialmente avevo pensato a lui, ma poi ho pensato che anche Ned potesse far parte del film: siamo andati fino in Virginia a incontrarlo, e quando abbiamo visto la sua casa, il cortile, gli alberi, il giardino, lo studio nel garage, e abbiamo cominciato a parlare e bere birra, abbiamo capito che lui, Ned, sarebbe stato il nostro Bill. Come sempre, dunque, la vita si ripresenta nella finzione. Giunti al tuo terzo film, dopo Hamilton (2006) e Putty Hill (2011), si può dire che sia una tua caratteristica precisa. Sei d’accordo? In generale credo di prediligere un cinema dell’osservazione. Scelgo forme narrative, come dire… «ascetiche», in grado di unire documentario con tecniche narrative classiche. In questo modo provo a cogliere l’essenza di ambienti precisi, dove però privilegiare il ritratto degli essere umani come individui singoli, e non tanto come parti di un gruppo sociale. I miei personaggi sono persone colte nel loro tempo, e resto lì in attesa che in loro scatti qualcosa… In definitiva potrei dire di essere un regista modernista che lavora nel solco della tradizione. Mi piace infatti pensare che nel film ci sono elementi molto tradizionali, ad esempio le emozioni, i gesti estremi e il ricorso alla musica tipici di un il melodramma del XVIII secolo, ma al tempo stesso anche cose contemporanee, uno sguardo realistico e intimo sulla realtà. L’effetto è quello di una «dicotomia dinamica», qualcosa che emerge poco a poco e smuove le acque, che chiede allo spettatore di pazientare, perché prima o poi il film avrà il suo ritmo e la sua forza. Mi rendo conto che ci vuole del tempo per costruire sensazioni di questo tipo in un film, e che la cosa valga sia per noi che lo facciamo, sia per lo spettatore che lo guarda. Quello che I Used to Be Darker chiede è una sorta di fiducia emotiva, uno sguardo attento che sappia osservare e in questo caso anche ascoltare. Puoi chiarire meglio cosa intendi per «dicotomia dinamica»? In pratica la questione cruciale riguardava il modo con cui rendere l’unione di elementi armoniosi con altri contraddittori e discordanti, come unire la musica con il silenzio, come, soprattutto, risolvere il silenzio attraverso la musica. I lunghi piani fissi in cui i personaggi suonano servono proprio a far emergere ciò che di taciuto e nascosto c’è in loro. A livello narrativo l’unione degli opposti si ottiene costruendo con cura e lentezza caratteri ed emozioni, a livello stilistico utilizzando uno sguardo attento, osservatore, capace di andare oltre il semplice dato realistico. Certo, mi rendo conto che vedere sullo schermo persone che parlano poco, o non parlano quasi mai, possa portare lo spettatore ad alienarsi rispetto al film. Al cinema di solito si va per vedere gente parlare e fare delle cose: ma a me interessa il naturalismo della vita quotidiana, voglio che lo spettatore si avvicini a una forma di narrazione a metà strada tra la finzione e l’osservazione della vita, in modo da sentirne il respiro. Spesso i film sono mossi dai conflitti, dallo scontro fra diverse volontà: tutto questo in I Used to Be Darker c’è, ma viene dopo i personaggi, inizia a partire dai loro movimenti e dalle loro azioni non spiegate… A proposito dell’ambiente sociale, trovo molto interessante che i tuoi lavori abbiano un legame molto forte con il paesaggio americano nel quale sono ambientati, la costa est meno nota e più povera, la zona di Baltimora. Qual è il tuo legame con quel luoghi? In tutti i miei film, e in particolare negli ultimi due, un valore fondamentale ce l’ha sicuramente l’ambientazione sociale, non c’è dubbio. La scelta dei sobborghi di Baltimora è dovuta al fatto che io stesso vengo da quelle parti e li conosco molto bene: con i miei film ho cercato di esplorare le diversità della classe media americana che abita in quella zona, provando a capire come far emergere sullo schermo le diverse fasce sociali e razziali che la abitano. Non è certo un argomento che voglio trattare direttamente, preferisco farlo emergere dal contesto, utilizzare l’ambiente sociale come una presenza che condiziona in parte l’atteggiamento dei personaggi. Da questo si intuisce che c'è molto di personale nei tuoi lavori, anche qualcosa di autobiografico. È vero? Sì assolutamente, per quanto mediato dal bisogno di fare cinema e di raccontare storie e personaggi che non sia io. Paradossalmente, 73 I Used to Be Darker è forse il mio film più personale, ma al tempo stesso quello realizzato con il maggior numero di persone, quello per cui ho sentito il bisogno di confrontarmi maggiormente. Senza l’aiuto di queste persone forse non sarei riuscito a farlo: avevo infatti bisogno di uno sguardo esterno al mio per poter andare a fondo delle mie sensazioni rispetto a un tema come il divorzio. Una grossa mano te l’hanno dato anche gli interpreti, che non sono professionisti e proprio per questo riescono perfettamente a fondersi con l’ambiente naturalistico. Come hai lavorato con loro? Abbiamo lavorato tantissimo sulla recitazione, e devo ammettere che ogni volta che rivedo il film, come qui a Berlino, mi stupisco di quanto gli interpreti abbiano dato al film. Sullo schermo vedo persone che amo, non personaggi immaginari, e per quanto in questo film ci sia meno il gioco di rimbalzi fra la finzione e la vita vera rispetto a Putty Hill, che era più sul versante del documentario che su quello della finzione, anche in questo caso le singole performance degli attori rimandano alle loro vite re- ali. Ciascuno pesca nella propria esperienza, nelle proprie debolezze e intuizioni, e trova il modo di portare sullo schermo la vita interiore del personaggio. E come è stato il lavoro con il tuo direttore della fotografia di fiducia, quel Jeremy Saulnier che è anche regista e che ha da poco finito il suo film Blue Ruin? Con Jeremy lavoriamo da tempo insieme e di lui mi fido ciecamente. Per I Used to Be Darker ha scelto una ARRI Alexa a mano, uno strumento leggero e per questo in grado di dare un’energia molto intensa alle singole inquadrature. Non volevamo una luce sfocata e slabbrata, tipica del digitale nervoso, ma qualcosa di molto stabile, qualcosa di pittorico, come mi ha detto un giorno Jeremy, che aumentasse ulteriormente il senso di intimità delle situazioni. Da qui si coglie anche l’estrema attenzione che avete avuto nel scegliere gli spazi: la casa americana con le sue scale, i suoi scantinati, i suoi giardini… È come se anche l’ambiente partecipasse al sentimento comune di malinconica rassegnazione. Tant’è che in uno dei momenti più belli del film il protagonista maschile canta una canzone per intero con la sua chitarra e poi, una volta finita, spacca lo strumento contro la colonna di uno scantinato: è come se volesse parlare con il cemento… È vero, povera colonna! Comunque sì, abbiamo fatto un lavoro attento agli ambienti, soprattutto quelli interni, in modo che potessero rappresentare lo stato d’animo dei personaggi, la loro dimensione interiore, senza però che questo togliesse naturalismo alla rappresentazione. Raccontare una storia sul divorzio, farlo in modo onesto e delicato, non doveva per forza significare scegliere spazi ristretti e situazioni chiuse. Quello che colpisce delle relazioni, infatti, è la varietà di sensazioni, pensieri, ricordi, effetti che mette in moto: un movimento che coinvolge tutte le persone che stanno attorno alla coppia e che quindi allarga lo spazio, chiama in causa un mucchio di altre ragioni e pensieri. Da qui nasce l’idea di inserire un personaggio estraneo alla coppia, che è vittima delle azioni che testimonia, ma in un certo senso ne viene coinvolta e migliorata. a cura di Roberto Manassero CANNES LA DISTRUZIONE DELLA CLASSE MEDIA Conversazione con Jeremy Saulnier, Cannes 2013 L a direzione presa dalla Quinzaine des realisateurs dopo l’arrivo del nuovo delegato generale Edouard Waintrop è tanto rischiosa quanto, a volte, sorprendente (o anche solo fortunata). La sfida, non facile, non sempre condivisibile, specie se mirata solamente a consentire la distribuzione in sala dei film in selezione, è quella di equilibrare la proposta tra il cinema autoriale, il «cinema da festival», secondo un’accezione non proprio positiva, e il cinema di genere, che dall’altra parte della barricata sconta pure lui un mucchio di pregiudizi, spesso vittima di chi si rifugia nel cinema classico e non accetta in nessun modo che nuovi autori abbiano il coraggio di riprendere vecchi modelli. Jeremy Saulnier, che è al secondo lungometraggio e nell’ambiente indie lavora anche come operatore (in particolare per Matthew Potterfield, regista di I Used to Be Darker), prende ad esempio il modello del revenge movie, della storia di vendetta familiare, e ne fa un racconto di precisione cristallina. Un film diritto, come le strade di Lynch o dei Coen, e capace per questo di contenere cinema puro e spettacolare. La storia è semplice, già vista, eppure piena di sorprese: c’è un poveraccio a cui hanno ucciso padre e madre che si sente braccato dall’autore dell’omicidio, appena uscito di galera; invece di fuggire, però, si mette in viaggio e lo va a cercare per ammazzarlo. E dalla sua azione assurda si innesca una trama gialla che scivola verso il dramma familiare, il mélo pieno di sangue, gli omicidi incrociati di una tragedia elisabettiana, e con l’America delle autostrade che diventa la provincia redneck e ignorante di Un tranquillo weekend da paura. Nell’intervista Saulnier cita i Coen e Mann, Ashby e Kelly Reichardt, ed è tutto vero: ma ciò che rende prezioso il suo Blue Ruin è una consapevolezza stilistica e narrativa che mette il personaggio principale al centro di tutto, che non disperde il filo del racconto, che non punta all’affresco corale, e imbastisce così una storia tragica e insieme divertente. In una parola, per l’appunto, spettacolare. Senza per questo togliere nulla al cinema d’autore a cui Saulnier giustamente aspira, ma aggiungendo molto alla necessità dello spettatore (non solo quello festivaliero) di assistere a un cinema (soprattutto americano) che non ripieghi su se stesso, che non rifletta con insopportabile cinismo sui propri meccanismi, che si fidi della propria storia e si prenda tutto il tempo che ci vuole – tra inseguimenti, assedi, ferimenti, sangue, suspense, sorprese, salti sulla sedia – per raccontare una storia come si deve. R.M. 75 Partiamo dal genere, dal modo in cui Blue Ruin prende il thriller, il revenge movie, e senza per nulla snaturarlo sa anzi dare vita a un racconto di limpida precisione, a una discesa agli inferi che non rinuncia all’ironia, ma sta lontano mille miglia dal cinismo tipico del cinema postmoderno. Come sei arrivato a una tale consapevolezza? Dunque… Come prima cosa devo dire che in origine avevo piani diversi. La prima stesura della sceneggiatura aveva un tono molto più scanzonato, da commedia, e prevedeva la presenza di una banda di criminali da strapazzo incaricati di uccidere il cane di qualcuno. Poi però ho scoperto che un film simile era già in lavorazione e allora ho deciso di cambiare strada. Ho deciso che avrei lasciato perdere con la solita commedia indie, un po’ violenta e un po’ furbetta, e ho optato per una storia di vendetta da girare con grande pulizia formale. Il mio unico film precedente, Murder Party (2007), era un horror volutamente stupido, roba da gonzi che vanno al cinema a mezzanotte, e in un certo senso in quel settore avevo già dato. Quando però ho dovuto convincere un finanziatore a darmi dei soldi per il film ho pensato a un altro modello, oltre a quello del genere puro a cui ti riferisci tu: ho pensato ai Coen, a un noir negli spazi dell’America provinciale come Blood Simple, e pure a Non è un paese per vecchi. Ci ho pensato un po’ su e poi gli ho detto: "È come No Country, con la differenza che il protagonista è un idiota totale!". Visto che hai tirato in ballo la questione dei finanziamenti e il modello del cinema indie, puoi raccontarci come è nato Blue Ruin e come ti consideri nel panorama indie americano, per quanto vaga e indefinita questa categoria possa sembrare? Blue Ruin viene fuori da un periodo non troppo facile per il mio lavoro. Il mio primo film, Murder Party, aveva avuto un discreto successo nel giro dei festival indipendenti ed era stato comprato per la distribuzione dalla Magnolia Pictures. Era un gran bella cosa, ma poi l’accoglienza è stata pessima e io sono tornato a girare spot pubblicitari per mantenermi. Nel frattempo ho lavorato come direttore della fotografia, in particolare per Matthew Porterfield e per altre produzioni, e poi lo scorso anno ho deciso che era ora di riprovare a realizzare un film. Dal 2007 in poi mi erano arrivate un sacco di sceneggiature e progetti, ma era tutta robaccia. Il nuovo film lo volevo scrivere io, e di conseguenza anche finanziarlo, visto che poi abbiamo usato il fondo pensione di mia moglie, la mia American Express e per fortuna anche un investitore privato, quello a cui ho parlato dei Coen, che siamo riusciti a convincere. Certo, però, che quando il film è stato rifiutato al Sundance non è che fossi contento, ho pensato che sarebbe passato un altro anno prima di poterlo ripresentare. E invece un giorno, mentre mi trovavo a Cleveland per girare uno spot, ho ricevuto l’invito della Quinzaine… Se davvero esiste un universo indie, questa di Cannes è l’occasione per far uscire il mio film da quell’universo… E in effetti, come dicevamo, Blue Ruin ha una compostezza formale così solida da far pensare al cinema classico, non a quello indie. La combinazione di emozioni e sensazioni diverse, dalla violenza alla comicità al dramma famigliare, fa pensare a una sceneggiatura scritta con estrema attenzione… Blue Ruin è un film molto personale, un progetto indipendente nel senso letterale del termine. Non per questo motivo, però, deve anche essere un film volutamente disconnesso o automatico; al contrario, penso che debba stare su da solo, vivere di vita propria e in questo senso rifarsi a un genere preciso come il revenge movie aiuta molto la solidità del racconto. Per quanto mi riguarda posso essere stato influenzato da diverse emozioni, dal mito della famiglia americana, dal moralismo, la reli- gione o la tradizione redneck della cultura provinciale: ma un film non può essere una terapia personale, un film si costruisce con una profonda attenzione per le logiche del racconto e della narrazione, e solo in quel modo riesci nell’obiettivo di intrattenere il pubblico e magari dire anche qualcosa che vada oltre il piacere del racconto. Credo che in questo senso il merito principale del film sia quello di non abbandonare mai il protagonista, per quanto idiota possa essere. La trama è solida, non sbanda, resta con il suo protagonista e ne fa l’unico sguardo con cui identificarsi. Sembra facile, ma non è così… Ho cercato di scrivere il film tenendolo in equilibrio su diversi aspetti. Il genere, per l’appunto, la comicità, la suspense, talvolta anche l’effetto sorpresa. L’elemento che fa sì che il tutto non crolli è proprio il protagonista, Dwight Evans: lui è improbabile, è ingenuo, non sa cosa fare. Dopo averlo visto conciato come un barbone alla deriva, si taglia barba e capelli, si mette dei vestiti puliti e torna quello che è sempre stato, quello che è: un uomo della classe media con la vita completamente distrutta. Questo aspetto ci ha permesso di portare piccole innovazioni al genere: perché Dwight è sì il protagonista di una vendetta, ma non è un veterano di guerra o un esperto, bensì un assassino novello, uno che nemmeno sa come si tiene un’arma in mano… In questo modo tutti gli aspetti più evidenti del film, la sua parte violenta e tragica, così come quella comica, sono venute spontaneamente. Oltre ai citati Coen, ci sono altri modelli per la tua revisione del genere classico? L’ho detto sempre nelle interviste che ho fatto fino a ora, qui a Cannes: Blue Ruin è come un personaggio di Hal Ashby preso in mezzo ad un film dei Coen, oppure la protagonista di Wendy and Lucy che si ritrova in una sparatoria alla Taxi Driver. Nonostante l’evidente 76 ironia della situazione, nonostante l’iniziale effetto di straniamento, non volevo in nessun modo che dal film trapelasse il cinismo di un’operazione intellettuale e insieme popolare. E allora è diventato fondamentale il riferimento al cinema di Michael Mann, e in particolare al realismo drammatico, all’attenzione ai dettagli di Strade violente. Ma in Blue Ruin non c’è solo il cinema: c’è soprattutto il mio legame con l’America, con l’idea di terra selvaggia eppure mitologica che la nostra cultura trasmette da sempre. E questo è un aspetto affrontato soprattutto dalla letteratura, da autori come McCarthy o George Pelecanos, che con i loro romanzi dimostrano che se l’America può essere una terra di violenze e disparità sociali, al tempo stesso è anche una terra di grandi narratori. La violenza nel tuo film è una presenza quasi scontata, un universo nemmeno così distante nel quale chiunque, come dimostra la parabola tragica del protagonista, può entrare. Se penso poi al personaggio del suo amico redneck, il fanatico delle armi che spara come un cecchino (quella è la scena più bella del film!), mi viene da pensare, però, che nella tua riflessione ci sia anche una forte componente ludica. È così? Sarebbe davvero ingenuo dire che la violenza al cinema non sia divertente. Io amo la violenza, al cinema, è una cosa divertente e insieme spaventosa e proprio per questo motivo non si può chiedere niente di più intenso o appassionante a un film. In Blue Ruin la violenza è ritratta in modo brutale e al tempo stesso stilizzato; non è mai esaltata, ma non diventa nemmeno il tema principale. È un mezzo narrativo e stilistico, è cinema niente di più. Per questo credo sia importante mettere in chiaro il patto che c’è alla base della rappresentazione della violenza. Quando due bestie selvagge combattono, ad esempio, lo fanno per uccidersi, nessuno mette in dubbio la cosa, e la stessa situazione si ripete con i personaggi di un film: sono lì per sfidarsi, mettono in conto che possono morire e a tutti va bene così. Se in un film di genere vedi un’arma, sai che sparerà: non è che stai lì a chiederti se sia giusto o meno che quel personaggio maneggi un arsenale. Il genere è un gioco, questo protegge il cinema da molte possibili derive sociologiche… Ho sempre pensato che le armi siano una cosa molto divertente, ma per qualche strana ragione gli americani non sanno gio- carci, non sanno distinguere tra il racconto di una tragedia e la tragedia stessa. In questo senso, come in fondo dice lo stesso Dwight nel suo monologo finale, la storia del film è una specie di avvertimento contro la pericolosità della vendetta incrociata, della spirale di morte che si può innescare. Questo fa di Blue Ruin un classico cautionary tale (un racconto ammonitorio, ndt), per quanto non abbia nessuna intenzione di dire la mia sul dibattito sull’uso delle armi nella società americana. Non voglio schierarmi né da una parte né dall’altra e per questo motivo ho pure tolto dalla sceneggiatura finale diverse battute che avrebbero potuto essere ricondotte alla recente strage di Newton e distrarre l’attenzione dalla storia. Sono da sempre un appassionato del cinema di genere e penso che la violenza al cinema rappresenti una forma d’arte a sé. All’inizio della mia carriera ho fatto anche il truccatore, ed era uno spasso creare sui corpi degli attori tutti quegli effettacci… La tua passione per la violenza fisica, ovviamente fasulla, si vede anche da come tratti il tuo povero protagonista. Come un personaggio di Chandler, Dwight si ferisce di continuo e la sua sofferenza 77 è autentica, quasi scioccante… Come hai lavorato con l’attore principale, Macon Blair, il cui volto impassibile e assolutamente comune diventa un infinito panorama di emozioni? Macon è un attore straordinario, e prima di tutto uno dei miei migliori amici. Ho pensato per lui a una parte come questa per almeno quindici anni e quando finalmente sono riuscito a cucirgli addosso un personaggio ideale ho pensato che tutta la fatica fatta da me e da lui avrebbe dovuto in qualche modo comparire sullo schermo. L’intero progetto del film è costruito attorno a Macon e lui mi ha aiutato in tutto, non solo perché è un ottimo attore, ma perché si è prestato volontariamente alle tribolazioni fisiche del personaggio. Credo sia indistruttibile, per trenta giorni ne ha passate di tutti i colori, è passato attraverso un vetro, è saltato da una finestra, ha sopportato delle riprese massacranti con una barba lunga fatta crescere in otto mesi… Questo in realtà fa parte del carattere assolutamente indipendente del film, il legame stretto con gli interpreti e la partecipazione collettiva al risultato finale… Assolutamente. Lavoro nell’indie da molti anni, soprattutto come operatore, e so bene, anche per averlo visto dall’esterno, che se un regista non ha un rapporto autentico con gli interpreti, il film non viene, l’energia mancante rischia di rovinare tutto. Se l’intera equipe non è coinvolta nel progetto, sei fottuto. E non solo in relazione al film che farai, ma anche a quello che avrai da offrire al pubblico. Un film come Blue Ruin, piccolo e insieme classico, destinato a essere noto grazie ai festival e non tanto alla distribuzione che ancora non ha, ha bisogno della fiducia dello spettatore: bisogna avere fiducia nel regista, nella sua troupe, nel fatto che ci abbiamo messo tutto noi stessi, e la cosa deve trasparire dal film, deve venir fuori spontaneamente. Un film, è sempre una questione di onestà: sia quando vai a chiedere soldi a un finanziatore, sia quando lo presenti di fronte a un pubblico come quello di Cannes, magari non troppo disposto ad assistere all’ennesima storia di una vendetta famigliare… a cura di Roberto Manassero CANNES Les fous, les outsiders, les héros maudits Entretien avec Basil da Cunha, Cannes 2013 V éritable découverte de la Quinzaine des réalisateurs, Basil da Cunha est auteur d’un univers unique qui respire au rythme des gens qu’il filme. C’est un monde où faire de la bouffe, bricoler avec le peu de moyens dont on dispose, fumer un pétard ou cambrioler une voiture ne font qu’un. C’est l’art de la survie. Un univers où le discours laisse la place au rap, la marche à la course, la parole aux cris. Comme chez Pasolini, les héros sont des hommes qui habitent aux marges de la société d’un point de vue géographique aussi bien que culturel. Ils sont l’expression d’une humanité qui ne fait plus aucune différence entre la maison et la rue, entre le privé et le public. Ils sont partout et en mouvement perpétuel, car celui qui arrête de bouger est mort. Sombra et ses amis peuvent très bien dire, comme le célèbre Accattone : " Mo’ sto bene " (" Mainte- nant je suis en paix ") alors qu’ils tombent raides dans la rue. C’est dans une bidonville hors de Lisbonne que Basil da Cunha a trouvé son univers d’élection et son lieu de résidence. Lui-même est un peu à l’image de ses personnages : il aime te regarder droit dans les yeux et parler d’une façon directe. Quelque chose de physique se dégage de sa personne : comme si même les mots peuvent être des gestes ou des actions. Haut en couleurs, expression d’un métissage qui vite a su trouver son imaginaire, le jeune cinéaste après trois court-métrages et un long a les idées claires sur ce qui l’intéresse au cinéma. Du néoréalisme italien - via Pasolini – jusqu’au cinéma américain d’action : ce n’est pas un regard cinéphile qui nourrit son esprit. Ou bien il s’agit d’une cinéphilie qui ne se penche pas sur l’idée d’auteur. Ce sont les lieux et les visages qui priment dans la vision de Basil Da Cunha : son premier long-métrage met en évidence la force de son regard et la complicité avec ses personnages. Si la narration suit un parcours codifié, qu’on pourrait retrouver aussi bien dans un polar américain que dans un film français des années ’70, l’ensemble des sons, des voix et des couleurs composent une image tout à fait nouvelle. Son héro, Sombra avec l’inséparable caméléon, est le pivot autour duquel se compose un ballet qui finit par sublimer la violence de la vie réelle dans le quartier. A la différence de la démarche littéraire de certains cinéastes (Melville ou Scorsese), Basil Da Cunha partage le même milieu que ses héros. Si la vision est parfois poétique le but reste celui de rendre hommage à ces gens qui, jour après jour, résistent sans perdre leur identité. C.C. 79 On ne peut pas commencer à parler du film sans aborder le sujet de son univers. Je voudrais avoir quelques informations en plus sur le quartier où tu as tourné les films. C’est le quartier de Reboleira, situé sur la ligne de Sintra. Un bidonville habité par une communauté capverdienne. Je suis arrivé là-bas il y a quelques années, non pas pour y faire des films mais parce que les loyers étaient bon marché. Très rapidement je me suis fait des amis. Comme dans tout quartier populaire, plusieurs générations se superposent. Il y a les plus anciens, les premiers à être arrivés au Portugal. Et il y a la mienne, des fils d’immigrés. Tous ont une histoire à raconter. Certains travaillent, d’autres sont artistes et certains font d’autres trucs. Quand aux plus jeunes, entre l’école et la rue, ils grandissent un peu trop vite. C’est un ghetto où l’on vit beaucoup dans la rue. Les gars sont là, il y a des petits cafés, le rap et le funana, des sorciers aussi. Mais, il y a du respect et du savoirvivre avant tout. C’est un lieu de résistance où la vie est dure mais la solidarité est grande. Il y a quelque chose qui fait que je vois ce quartier comme un des derniers maquis. Une poche de résistance. Comment se déroule le choix des endroits ? Tout le film, sauf la scène finale, est tourné au quartier. Il y a donc des endroits par lesquels je passe tous les jours. Je suis toujours attentif à la physionomie du lieu car cela fait partie intégrante du dispositif que je mets en place autour des acteurs. Le lieu, s’il est habité ou pas, fermé ou ouvert, labyrinthique ou juste poétique va forcément jouer un rôle sur la manière dont les acteurs vont jouer. Et puis il y la couleur des murs, la lumière, les perspectives. Le lieu de la scène finale a été choisi avec un repérage classique. J’ai pris une voiture et j’allais à la plage la nuit, jusqu’à en trouver une qui me plaisait. Et les comédiens ? Les comédiens sont des amis, des voisins ou juste des mecs qui sont arrivés pendant les tournages des courts par hasard et qui font désormais partie de l’équipe. Ils habitent tous le quartier. En général, plus le temps passe, plus j’écris en pensant à des gens, pour des gens. J’ai fait à peu près la moitié du casting déjà là. Je sais jusqu’où je peux aller avec chacun des mecs. Je sens surtout s’ils vont pouvoir porter telle ou se faire en plan séquence en général, surtout dans les scènes avec dialogues. Des fois, je demande à un acteur de répéter ce qu’il me disait l’autre jour. Par exemple dans la scène ou un des mecs du gang raconte qu’il connait l’histoire d’un mec mort deux fois. Je lui dis qu’il va devoir faire une blague, et sans qu’il le sache il y a un mec qui va le traiter de menteur. Lui, dans la réalité il déteste qu’on l’interrompe et il ne sait pas que l’autre va l’empêcher de par- telle scène. Certains sont devenus des complices de mise en scène, conscients ou pas. Ils mettent en scène de l’intérieur en provoquant certaines discussions ou émotions. Ils mènent la danse en quelque sorte. Et puis l’autre moitié du casting reste toujours ouverte. Il y a toujours des gars qui apparaissent sur le moment et qui créent des choses incroyables. Des cadeaux qu’il faut juste savoir recevoir. ler en se foutant de sa gueule. Du coup ça dégénère et c’est ce que je voulais à ce moment, qu’on se rende compte qu’ils sont un gang pas sérieux, des gros bras qui se disputent comme des gamins. Quelle est la relation pendant le tournage avec les comédiens. Comment les diriges-tu ? Je ne leur donne pas le scénario. On tourne dans l’ordre chronologique. Il y a les complices, qui sont ceux qui lancent la scène avec mes indications. Juste des enjeux à défendre, ou simplement la situation de base et la fin. Je laisse la scène Comment développes-tu ton script ? Est-il établi dans les détails ou laisse-t-il beaucoup de place à ce que le tournage peut amener ? Dans les détails, car cela me fait réfléchir à des questions cinématographiques. Quand j’écris, je suis déjà au tournage et j’y règle une série de problèmes de mise en scène. Même les dialogues sont écrits, alors que c’est de l’improvisation au tournage. Mais l’essence, même les effets comiques d’échanges verbaux, je les retrouve à la fin. C’est magique. Je n’aime pas l’idée d’appliquer un 80 scénario, donc je le laisse ouvert. Et puis au tournage, on se met en danger et on regarde ce qui se passe. On réécrit le film à ce moment-là. A la fin d’une journée de tournage, je rentre et je réécris celle du lendemain. Forcément. Dans son parcours narratif, Ate ver a Luz fait référence au film noir. Est-ce que tu avais à l’esprit des modèles ? Les fous, les outsiders, les héros maudits, je leur voue un culte. Il y a Accattone, I Vitelloni, Chat Noir, Chat blanc, Les sept samouraïs, Die Hard ou L’Etranger... Puis ceux que j’ai rencontrés dans la vie... C’est très difficile d’en choisir car tous sont des morcellements de souvenirs et tous participent à ma foi en la liberté. Les scènes sur les toits sont plutôt incroyables. Tu les avais prévues dès le départ ? Quels ont été les enjeux dans le tournage ? Oui, je voulais retrouver un peu cette sensation qu’on a en voyant les films de vampires ou de samouraïs, des créatures de la nuit qui, en équilibre sur les toits, se frayent un chemin parallèle. L’enjeu c’était surtout de ne pas tomber car les toits sont en taule, tout en ne faisant pas trop de bruit car mes voisins pétaient un plomb ! Comment procèdes-tu au tournage ? Préfères-tu obtenir beaucoup de matériel que tu composeras au montage ? Ou cherches-tu la bonne prise qui sert le scénario ? Quelle est la part de l’improvisation (des comédiens et de la caméra) ? Beaucoup d’improvisation mais très dirigée et retravaillée, avec un découpage sérieux et exigeant. Donc il s’agit de voir le tournage comme un espace de recherche et d’écriture, un vrai espace de liberté mais avec des contraintes et un respect de ma part pour le fil rouge narratif. Je ne pars pas tant que je n’ai pas tout. Après ça n’empêche pas que le montage s’approche plus de la pêche que de l’assemblage d’un puzzle. Quelle part tient le cinéma dans ta relation avec les gens que tu filme ? Elle n’avait pas d’importance les premières années dans le sens où pas grand monde s’intéressait à ce qu’on faisait, elle devient assez grande maintenant car nos films sont médiatisés, presque tous le quartier participe et on m’appelle «le réalisateur» au quartier. Mais bon, la plupart du temps on parle quand même d’autre chose et on vit, simplement. Peux-tu me parler un peu du rapport avec les couleurs et la lumière ? C’est là que réside pour moi un des points forts de ton travail au cinéma et, bien que cela soit dû au quartier, je suis sûr qu’il y a derrière un grand travail de composition et de définition. Je ne filme pratiquement jamais de murs blancs, car les couleurs jouent un rôle dans la manière dont on fait exister l’acteur dans le cadre. Je choisis vraiment les lieux en fonction du moment que vit le personnage. Des murs qui ont une histoire de préférence. Mais des fois je les repeins aussi, comme chez la tante de Sombra ou le vert tire vers l’absurde, le comique. La lumière, toujours travaillée avec peu et de façon à avoir un traitement de la peau sensuelle. Une fenêtre le jour, la nuit des bougies, des phares, des lampes, des briquets et une mandarine de temps en temps. Et la musique ? La musique, en général, je sais à quel moment je vais la placer, mais toujours diégétique. Elle vient sublimer le récit et faire ce que sans elle on n’arrive pas à faire sentir. par Carlo Chatrian LA CITTÀ DIVISA CANNES Conversazione con Hany Abu-Assad, Cannes, 2013 I spirato dalla confessione fatta al regista da un amico avvicinato da un agente governativo israeliano affinché diventasse un collaborazionista, Omar è un’opera solida che si concentra sui volti e le emozioni trasmesse da interpreti quasi tutti esordienti, capace di aprirsi sia a scene d’azione dal montaggio serrato, sia a elementi quasi documentaristici. Costruito con un incastro narrativo che sfiora il genere spionistico, è un film sulla fiducia, sul tradimento, sulla complessità delle relazioni umane, sulla fine di amicizie e la confusione delle identità. Girato in Cisgiordania, come il più celebre film di Hany Abu-Assad, Paradise Now (2005), Omar è fatto di muri, di confini, di sospensione lungo linee fisiche (il muro costruito da Israele che il protagonista scavalca regolarmente, i muri dei cortili e dei vicoli nei quali fuggire...) e lungo barriere interiori, meno visibili, ma in grado di rendere la fiducia tra le persone instabile, sempre sul punto di infrangersi. Per Abu-Assad si tratta di un ritorno a casa. Nato a Nazareth nel 1961, infatti, ha incontrato il successo con Paradise Now, in cui raccontava con stile secco la storia di due palestinesi pronti a sacrificare le loro vite in un attacco suicida a Tel Aviv. Dopo quel film ha scelto di girare altrove, di cercare altre terre, per poi tornarvi ora con una storia che affronta una situazione poco evidenziata del conflitto israelo-palestinese, quella del collaborazionismo dei palestinesi. Abu-Assad nelle sue opere ha quasi sempre parlato della sua terra con argomenti e sguardi mai convenzionali, arricchendo la cinematografia palestinese di testi rilevanti, rendendola ancora più ricca e stratificata. Film di finzione e documentari compongono una filmografia da una parte radicata in Medioriente e dall’altra in viaggio in altri territori e culture. Nel film d’esordio Het 14e kippetje, commedia romantica prodotta e girata in Olanda (dove il regista ha studiato e lavorato come ingegnere aeronautico) e il successivo Rana’s Wedding (2002), girato a Gerusalemme, ci sono il tema del matrimonio e la tensione di un conto alla rovescia, l’attesa dell’evento nel primo caso, solamente dieci ore per realizzare il proprio sogno nel secondo, tra check point e ostacoli della burocrazia israeliana. L’infernale vita sotto l’occupazione torna invece in primo piano nel documentario Ford Transit (2002), opera corale che segue un gruppo di persone nei territori occupati in viaggio su mini-bus Ford appartenuti agli israeliani e dati ai palestinesi dopo gli accordi di Oslo, mentre per The Courier (2001) AbuAssad ha scelto una «deviazione» cinematografica clamorosa, girando a Las Vegas e New Orleans un thriller d’azione con Lili Taylor e Mickey Rourke. G.P. e G.G. Pensiamo che Omar sia un film sulla fedeltà e sulla complessità delle relazioni umane… Era mia precisa intenzione fare un film di questo tipo. Se guardate attentamente vi accorgerete infatti che ogni scena in questo film è sulla fedeltà o sulla mancanza di fedeltà. Sono davvero convinto che la fedeltà sia il fondamento più importante della società. Quando un uomo perde la propria fiducia nelle altre persone diventa insicuro e la sua vita inizia a essere molto più complicata di quello che è realmente. I leader del mondo approfittano spesso della mancanza di fedeltà tra le persone in modo da controllarli e prolungare il loro potere. Negli anni scorsi ho riflettuto a lungo su questa idea e Omar è davvero un’esplorazione della mia preoccupazione a proposito di questa situazione sociale, che è un problema in tutto il mondo, non solo in Palestina. In questo senso Omar è anche un film sul tradimento. Ogni personaggio tradisce ed è tradito. È come una tragedia di Shakespeare dove tutti sono tenuti prigionieri dal/nel tradimento. È molto sottile da parte vostra questa affermazione, ed è soprattutto vera. Ho assistito a simili situazioni così tante volte nella vita reale… Quando tradisci, sarai tradito, ma la gente non sembra capire né vedere questo schema. Al contrario si finisce per cadere in un circolo vizioso. In realtà, si tratta di un aspetto molto interessante, perché quasi tutti sono capaci di giustificare il loro tradimento, ma sono poi devastati quando vengono traditi a loro volta. Non riescono a riconoscere l’ipocrisia delle loro azioni e, abbastanza stranamente, non riescono a identificarsi con i loro traditori. Omar è un film sulla Palestina contemporanea, dove il muro separa la Palestina dalla Palestina. Il muro è un simbolo molto forte di oppressione. Abbiamo creato una città palestinese virtuale, dove la città stessa è divisa, il villaggio è diviso, il campo profughi è diviso e non c’è differenza tra le due parti del muro. A proposito di Omar, mi sono chiesto, da regista, in che modo volessi raffigurare l’oppressione. Paradossalmente il muro ne è una grande e semplice rappresentazione, dal momento che esiste già e non ha bisogno di essere costruito. Questo film mette in evidenza un aspetto nascosto della Palestina contemporanea: il fatto che alcuni palestinesi siano collaborazionisti. Voleva mettere in evidenza questo fenomeno? Il collaborazionismo è una parte più piccola del grande tema della fedeltà e del tradimento. Quando tradisci la tua società sei un collaborazionista, ma al tempo stesso con una simile azione finisci per tradire anche te stesso. Sono convinto che la più grande vergogna dell’occupazione sia l’abuso della debolezza della gente, allo lo scopo di renderli dei collaborazionisti. La manipolazione e il collaborazionismo sono temi che vale decisamente la pena di esplorare, che vorrei vedere affrontati in molte opere. A causa della costante presenza del muro nel film si ha sempre l’impressione di essere in un equilibrio precario, sia fisicamente che esistenzialmente. La vita è un gesto costante di equilibrio precario. Quasi nessuno è sempre la stessa persona in ogni occasione della vita. Abbiamo facce diverse per diverse persone, diverse circostanze o contesti, con o senza un muro a dividerci. In Omar il muro mette semplicemente in evidenza una parte di comportamento umano che spesso cerchiamo di nascondere, o che è naturale celare a causa della sua presenza pervasiva. 83 In Omar diversi attori non sono professionisti. Sono efficaci nel mostrare le loro emozioni e i fremiti che li pervadono. Come hai lavorato con loro? Lavoro sia con attori professionisti che con attori non professionisti e, molto spesso, mi piace affiancarli. La parte più importante del lavoro con gli attori non professionisti è assicurarsi che si fidino di te. Una volta ottenuta la loro fiducia, puoi fare in modo che esprimano ogni emozione necessaria, perché sono umani e dunque sanno esprimersi e reagire alle situazioni. Ciò che inibisce l’espressività, negli attori non professionisti e negli altri, è l’assenza di fiducia, dal momento che senza fiducia nessuno è capace di esporsi, di mostrare la sua «nudi- tà» a un pubblico. Tra l’altro, una differenza sta anche nel fatto che gli attori professionisti imparano a fidarsi del regista in un modo diverso. Cercano qualcuno che mostri loro cosa stia facendo, mentre i non professionisti più di ogni altra cosa cercano una figura paterna. Omar contiene due scene d’azione che evocano la tradizione del genere. È un elemento interessante dal momento che sappiamo che, nel 2011, hai diretto un film d’azione negli Stati Uniti, The Courier. In tutti i film le scene di inseguimento o d’azione sono fatte per appassionare il pubblico. In Omar volevo assicurarmi che queste scene andassero oltre il loro abituale impiego, utilizzarle anche come un modo per esplorare ulteriormente gli sviluppi dei personaggi. Le migliori scene di inseguimento sono quelle in cui i personaggi scoprono qualcosa su se stessi durante la corsa. Invece, girare scene di questo tipo negli Stati Uniti significa, più di ogni altra cosa, avere a che fare con effetti speciali e visivi. La scena del funerale è molto diversa da tutte le altre. Ha un aspetto quasi documentario. Sembra voler ritrarre non solo quel funerale, ma anche tutti i funerali palestinesi. Drammatizzare una scena di f u n e ra l e, e farlo bene, è davvero un’impresa difficile. Come prima cosa, conosciamo tutti le immagini di funerali trasmesse dai notiziari, e questo significa che l’«evento» ha già un’iconografia stabilita e molto difficile da «sfidare»; in secondo luogo, in un vero funerale quasi tutti i partecipanti sono coinvolti in una situazione personale molto emotiva. Ricreare questo tipo di emozione con delle comparse, come accade puntualmente in una scena di funerale al cinema, è virtualmente impossibile. Io però non scritturerei mai degli attori professionisti per una scena soltanto, né un attore professionista farebbe una scena simile sapendo di non avere battute o altre apparizioni nel film. Essendo consapevole di tutte queste implicazioni, la mia sfida era quella di creare un funerale autentico; così ho usato un approccio filmico diverso, un uso del colore diverso e, inoltre, ho inserito della musica per la prima e unica volta nel film, un brano ispirato al Miserere del compositore italiano Gregorio Allegri, una composizione conosciuta per il suo misterioso e inaccessibile sentimento. Tutto ciò risulta efficace perché la scena del funerale è di fatto un momento di svolta per Omar e per il racconto stesso. Un cambiamento drammatico di questo tipo può essere fatto solo in un momento di svolta di primaria importanza. Omar è un dramma, ma è pervaso da un sottile senso dell’umorismo. I personaggi, ad esempio, raccontano spesso delle barzellette. Perché questa scelta? Perché Omar mostra la vita reale. a cura di Giuseppe Gariazzo e Grazia Paganelli VENEZIA TERRA d'ORIGINE Conversazione con Alessandro Rossetto, Venezia 2013 A mbientato nella profonda provincia veneta, Piccola patria è il racconto di un rapporto d’amicizia adolescenziale fra due ragazze e del mondo che ruota attorno a entrambe, un regno imprenditoriale un tempo benestante e oggi rimasto al palo per via della crisi economica, ma soprattutto per colpa di una cultura arida e razzista che nulla sa più creare e tutto desidera al contrario comprare, e dunque possedere e distruggere. Il Veneto del documentarista Rossetto, all’esordio nel lungometraggio di finzione, è popolato di famiglie sull’orlo del baratro, di amici infidi e ipocriti, di (pochi) soldi a cui tutti danno la caccia, di sesso spudorato e manipolato, di una violenza pesante a parole e sottile nei fatti che si offre come forza motrice in grado di trascinare tutti i personaggi in una caduta vertiginosa. Accanto all’ondata di film che continuano a riproporre l’immagine di un Sud connotato, talvolta sincero ma spesso macchiettistico e stereotipato, Rossetto racconta un Nord non meno esente da passioni e conflitti, una terra chiassosa e volgare, grigia di cemento e prefabbricati tanto quanto la Sicilia di Emma Dante e Daniele Ciprì è colorata e fatiscente. Anche in questa parte d’Italia, però, l’anima provinciale del nostro paese si erge a una sorta di catalogo delle tensioni nazionali, il dialetto si fa la lingua di affetti, di odio, di rinascita, una lingua che esprime un radicamento al territorio a cui il Nord, almeno a livello cinematografico, sembrava esente. Insieme alla sua troupe e i suoi collaboratori, tra cui la sceneggiatrice Caterina Serra che ha partecipato all’intervista, Rossetto ha costruito il film come un lungo processo, in cui è visibile la ricerca del connubio tra la finzione e la necessità di lasciare alle riprese il respiro che solo la realtà può conferire. Il risultato è un film carico di tensione e sofferenza, forse imperfetto, ma con il pregio di portare lo sguardo dello spettatore verso altri luoghi e altri modi di concepire il cinema in Italia. N.D. Questo lavoro è fortemente connotato dal punto di vista geografico: è un film sull’Italia del nord, sulla provincia veneta, localizzazione che lo spettatore può effettuare fin dalle primissime scene del film, dove i canti in dialetto accompagnano le immagini della campagna padana. A.R.: Ho eletto il Veneto un po’ a teatro unico delle mie opere, anche perché è la mia terra d’origine. Per me era abbastanza automatico pensare che il mio primo film di finzione dovesse essere ambientato in questa parte di Italia. Inoltre, l’idea stessa del film com’era stata concepita da me e da Caterina Serra, la mia co-sceneggiatrice, partiva da un lavoro di ascolto e ricerca di svariate piccole storie di personaggi reali dislocati sul territorio veneto. Abbiamo poi convogliato tutto il materiale raccolto in una scrittura dall’impostazione classica, avendo in testa il modello di una tragedia appunto classica. Per me, pensando in termini cinematografici, è stato molto interessante sottolineare la «balcanicità» del Nord-est, l’estremizzazione di sentimenti ed emozioni. Di solito quando in Italia ci si riferisce a questi argomenti si pensa al calore e alle passioni del Sud, ma anche qui al Nord non siamo esenti da una forte carica di emotività. Cito sempre come esempio il fatto che in questa regione di piccoli e medi imprenditori in crisi, la scelta di fronte al tracollo di moltissime imprese spesso non sia stata, come ci si sarebbe potuto aspettare, l’adesione a iniziative di ordine tecnico, ma il suicidio. Sono fatti documentati dalla cronaca degli ultimi due anni, e mostrano una passionalità inaspettata in una zona un tempo ricca e pragmatica. Parliamo della struttura narrativa del film, che è frammentario, schizofrenico, alla fine sospeso su un evento di grande impatto drammatico, ma lasciato fluttuare nella mente dello spettatore… A.R: Il film vuole essere una tragedia classica che affronta temi universali: amori difficili, relazioni complicate, rapporti amicali difficoltosi, esplosioni delle famiglie e mercificazione dei corpi dei giovani… Argomenti che si possono trovare nella provincia veneta come in qualsiasi altro posto. Abbiamo poi raccolto delle storie sul 85 territorio che ci hanno ispirato e convinto a inserire parte di ciò che avevamo ascoltato nella struttura portante della tragedia. Volevamo uno sviluppo drammaturgico vicino alle corde del melodramma, scatenato però dall’immobilismo di un mondo in crisi. Tutti i guai che costellano la trama nascono dall’immobilismo, dalla rabbia, dalla paura, dall’accecamento. Non sono iniziative. Le uniche che tentano di modificare concretamente la situazione iniziale sono le due giovani ragazze, ma così facendo non fanno che peggiorare le cose, si lasciano scappare di mano tutto. Anche l’iniziativa finale del padre fa sì che il risultato di questo modo di fare raffazzonato e improvvisato sia la possibilità di un tragico errore. Se la sceneggiatura parte da una raccolta di storie realmente accadute e ascoltate dalle persone che le hanno vissute, viene da pensare che anche Piccola patria abbia un’anima documentaria, e che dunque il documentario sia sempre lo sbocco naturale del tuo lavoro… A.R.: Dalla concezione della storia alla direzione degli attori, fino alla scrittura e al montaggio, ho usato quelli che definirei i tipici strumenti del documentario, non ho inventato nulla. In modo particolare per la direzione degli attori, ho deciso di adottare il metodo di molti registi americani: ho creato le condizioni dimenticando la storia e le battute e ho cercato di creare appartenenza, identità, profondità antropologica e psicologica. Nelle ricerche che ho fatto di scrittura, nello scouting che ho condotto personalmente, e anche nel casting, posso dire di aver operato da documentarista. Sul set hai anche lavorato come operatore di macchina? A.R.: Sì, assolutamente. Ho portato nel film tutto il mio stile, che è molto istintivo. Ho inoltre creato una troupe giovane, composta da persone che avessero una formazione o un’esperienza legata al documentario. Questo mi ha permesso di organizzare il tempo delle riprese quasi come si organizza un documentario, senza sapere mai bene cosa si sarebbe fatto giorno per giorno. Se un metodo del genere l’avessi proposto a dei professionisti del cinema di finzione, sicuramente avrei creato non pochi problemi. Invece, avendo al mio fianco persone che si sono formate secondo quella che era la mia esperienza, tutto ciò che causava cambiamenti di programma, attese, momenti di stasi e ozio funzionale, era perfettamente concepito e considerato come necessario. Lasciare spazio alle cose che possono accadere… A.R.: Esatto. È un metodo che ho sperimentato anche con gli attori, con i quali ho lavorato in modo molto eterogeneo, privilegiando l’improvvisazione pura nelle location delle riprese; un’improvvisazione che ha creato battute che poi sono diventate veri e propri dialoghi per alcune scene. Nel quadro della tragedia ho dato al territorio il ruolo del coro, e quindi l’ho trattato in maniera molto precisa, scegliendo situazioni reali nelle quali calare scene che in fase di sceneggiatura avevano le loro dinamiche e i loro movimenti di macchina prefissati. Caterina Serra, anche per quel che riguarda la tua attività di scrittrice la modalità del documentario si accorda al tuo modo di lavorare? C.S.: Sì. La mia scrittura non nasce mai da un’invenzione: quando scrivo un libro, un racconto o una sceneggiatura parto sempre da storie vere, mi piace lo spunto offerto dalla realtà, dalla verità. Dunque, lavorare con Alessandro è stato decisamente congeniale. Inventiamo, certo, ma nel modo in cui possiamo immaginarci qualcosa sempre connesso con la realtà. Come avete fatto, nella pratica, ad accordare le vostre modalità lavorative? 86 A.R.: Abbiamo concepito la storia iniziale e stabilito a grandi linee il modo in cui il racconto si sarebbe svolto. Poi si è unito un terzo sceneggiatore, Maurizio Braucci, che ha lavorato a Gomorra e Reality, e con lui abbiamo lavorato «sul campo», durante le riprese. Anche lui, in realtà, nonostante la lunga esperienza come sceneggiatore di film di finzione, ha un modo di lavorare che ben si accorda al nostro. Parte cioè dall’inchiesta e sviluppa un percorso di invenzione. C. S.: Credo sarebbe stato impossibile lavorare a una sceneggiatura chiusa, scritta come se fosse un libro, e poi proporla ad Alessandro e adattarla al suo cinema di apertura alla realtà, fatto di scene e dinamiche reali. C’è un salto fra realtà e finzione che fa sì che tu, in quanto sceneggiatore, non trovi le battute, non ritrovi la tua scrittura. Se non si cambia prospettiva, un tale metodo di lavoro da parte di un regista può diventare per uno sceneggiatore molto frustrante, ma allo stesso tempo può generare un’esperienza arricchente e permettergli ugualmente di realizzare le cose che aveva in mente fin dall’inizio. A.R.: È impressionante, infatti, notare come la realtà spesso si accordi al progetto iniziale. Per esempio, per la sequenza in cui i due fidanzati si mettono in viaggio per liberare un loro coetaneo era previsto che uno dei due dovesse cantare qualcosa in albanese. Incredibilmente, facendo il casting ho trovato un ragazzo che cantava rapper, e lo faceva in albanese. Era dunque perfetto per rispettare la sceneggiatura. Certo, al tempo stesso la genesi del racconto, la sua formalizzazione, ha preso una piega che ha sorpreso pure me. E infatti dovrei essere il primo a sorprendersi di ciò che accade nel film. E come avete gestito il lavoro sul set? C.S.: Ho partecipato a metà delle riprese, perché non abito in Italia. Fino alla fase del montaggio, però, c’è stato un lungo lavoro di cura nei confronti di quello che accadeva e di ciò che sarebbe potuto accadere. C’erano scene da rivedere, reinventare, ricostruire rispetto a quello che Alessandro vedeva. E questo è avvenuto anche durante il montaggio, secondo l’idea che la storia potesse rimanere aperta fino all’ultimo, pur rispettando l’idea originale, ma attraversando una realtà in grado di sorprenderci. Per me è stato interessante lavorare in un progetto in cui non potevo mai dire, nemmeno a me stessa, di aver finito. L’ultima parola spettava sempre ad Alessandro, era lui a decidere quando la storia doveva finire e prima ancora quale direzione doveva prendere. La sceneggiatura è stata comunque sempre presa in considerazione durante le riprese, in modo da tenere sotto controllo il senso e la direzione generali. A parte l’improvvisazione di cui parlavi prima, qual è stata la relazione con gli interpreti? A.R.: Una parte fondamentale del lavoro è stata cercare di far calzare ciò che avevamo previsto in fase di sceneggiatura con ciò che ogni singolo interprete portava al personaggio. Un lavoro enorme. Ma, come dicevo prima, l’improvvisazione ha rappresentato l’elemento decisivo. Molti interpreti conoscevano già il dialetto, ma per poterlo parlare fluentemente hanno dovuto lavorare molto sulla psicologia dei loro personaggi, su trascorsi personali e famigliari in cui il dialetto e l’origine erano stati quasi cancellati del tutto. Nel caso di Roberta Da Soller, ad esempio, l’attrice che interpreta una delle due ragazze protagoniste, è stata una fatica: lei viene da un paese della provincia di Treviso e più di tutti è cresciuta parlando in dialetto, salvo poi rifiutarlo una volta cresciuta. Abbiamo dovuto tirarglielo fuori con le tenaglie, e credo che questo nel film si veda e si senta, perché l’emancipazione dalla lingua con la 87 quale si è cresciuti è sofferta, e il fatto di dover poi tornare indietro e riappropriarsene è un processo doloroso. Mi sembra poi che nella scelta del dialetto ci sia una precisa scelta psicologica, il dialetto dice molto, di per sé, dei personaggi… A.R.: Quella del dialetto è stata una scelta registica, ma anche una comodità, perché una profondità bisognava cercarla, la psicologia paga poco. Con il dialetto si arriva a lavorare sull’intimità, nell’attore scatta qualcosa che esiste a prescindere, che va nel profondo e lo slega da ciò che è successo nella sua vita adulta, trasportandolo da un’altra parte. Tralasciando l’effetto sonoro e linguistico che un dialetto può fornire, le cose cambiano parecchio, e si creano situazioni completamente diverse, se si parla in dialetto o in italiano. È anche una questione di appartenenza, e non solo di un legame con il proprio passato. Ad esempio, con Maria Roveran, che viene da un paese dell’interland triestino, ho trovato diversi punti di contatto soprattutto con il sentimento di un’appartenenza condivi- sa. Nonostante abbia la metà dei miei anni, è cresciuta in una situazione di vita di quartiere identica a quella in cui sono cresciuto io. Io potevo fare le stesse battute e guardare alle cose che ci circondavano nel medesimo modo. Trovavo nel suo modo di fare la stessa ironia, lo stesso senso dell’umorismo e sarcasmo che classificherei come «veneto». Avevamo alle nostre spalle un terreno comune, e questo faceva sì che le mie richieste fossero sempre accolte. Quante settimane sono durate le riprese? A.R.: La lavorazione del film è durata poco: abbiamo avuto una preparazione brevissima e tempi di ripresa un po’ più lunghi, perché non avendo alle spalle una preparazione, diciamo, canonica ho dovuto ritagliare delle ore e dei giorni per lo scouting e l’organizzazione generale. Inoltre avevamo bisogno di più tempo per il lavoro di ricerca, per le scene più documentarie. Diciamo che abbiamo passato l’intera estate sul set, e che la parabola estiva ha coinciso con la parabola del film. Durante le riprese c’era una grande energia, complice il fatto che molti degli attori erano esordienti e hanno recitato senza conoscere la trama. Tenendoli all’oscuro siamo riusciti a lavorare con cose molto «materiche», con ciò che accadeva sulla scena o nel momento stesso della ripresa. Inoltre abbiamo lavorato molto anche sull’idea delle location: abbiamo vissuto veramente le case in cui giravamo, le abbiamo abitate, condividendo spazi e tempi con chi ci abitava veramente. Si sono quindi create situazioni imprevedibili, momenti che hanno a che fare con il tentativo di spettacolarizzare una quotidianità altrimenti anonima. Gli attori si sono presi un bel rischio a fidarsi di noi: ci sono state infatti delle difficoltà molto grandi durante le riprese; spesso i più giovani erano convinti di aver fatto malissimo la loro parte, senza accorgersi però che più volte si lamentavano proprio delle scene venute meglio. Per fortuna, appunto, che si sono fidati… C.S.: Forse l’energia di cui parla Alessandro era anche data dal fatto che nel documentario c’è un'umanità tangibile, sempre presente. Il documentario parte da un’ipotesi di relazione, e senza quella, senza la fiducia reciproca tra chi filma e chi viene filmato, il film non si fa. Se non ti affidi a nessuno e a niente, la tua storia non salta fuori, non cresce, e questa è proprio la magia di un film come Piccola patria. a cura di Nora Demarchi WASTED LAND VENEZIA Conversazione con Andrea Pallaoro, Venezia 2013 M edeas, lungometraggio d’esordio di Andrea Pallaoro, trentino emigrato giovanissimo negli Stati Uniti e mai più tornato dopo aver frequentato l’anno di Intercultura e poi, una volta finito il liceo, la California Institute of the Arts, è un film americano nei colori e negli spazi, con evidenti riferimenti al cinema di Malick e una trattazione originale, spigolosa dei tipici paesaggi di un western non deserto, ma collinare. Al tempo stesso, però, è un lavoro profondamente europeo, a partire ovviamente dai riferimenti alla tragedia greca di Euripide (declinata però in chiave maschile, con un padre che uccide i figli perché sopraffatto dal tradimento della moglie) per arrivare a una sensibilità profondamente impressionista, a una resa fotografica che al di là di riferimenti pittorici lega la condizione interiore dei personaggi all’aridità di una natura indifferente. Pallaoro ricrea nelle montagne della California la mitologia americana, ma toglie al suo film qualsiasi afflato epico: c’è una famiglia che vive sola in un deserto senz’acqua, in un silenzio esteriore che si ripercuote tra le mura di casa; c’è una madre sordomuta che vive una vita interiore che non comunica a nessuno e che influisce sulle altre persone, sui figli bambini e sui figli adolescenti, sul neonato trascurato e sul marito abbandonato alla sua fragilità. Non c’è un tempo definito, in Medeas, ci sono oggetti, particolari, riferimenti iconografici che possono far pensare agli anni ’80 così come al tempo presente: è come se Pallaoro avesse messo in scena l’immaginario del suo personale sogno americano (qualcosa a metà tra I giorni del cielo e La casa nella prateria, con l’aggiunta però di un legame italiano con le canzoni, rigorosamente in mangiacassette e cuffie, di Patty Pravo) e vi avesse poi calato dei personaggi intrappolati. La sua America è una terra desolata in cui si ripresenta una tragedia senza tempo, rinnovata dal ribaltamento dei sessi, ma sempre uguale a se stessa nella spaventosa solitudine che chiama in causa: quasi la rabbia e la disperazione degli essere umani, donne o uomini che siano, non dipendesse dalle relazioni personali, ma dal fatto stesso di stare al mondo. R.M. 89 Perché Medea nel deserto della California, per di più virata al maschile? Ho fatto molte ricerche sul mito di Medea, ho letto la tragedia di Euripide e ho lavorato sulle molteplici variazioni che ha avuto nel corso del tempo. Lo sviluppo della vicenda mi ha permesso di esplorare una deriva estrema del comportamento umano, quella disperazione senza via d’uscita che porta al gesto più inumano di tutti, l’uccisione dei propri figli. Più studiavo, però, e più mi convincevo di una cosa: e cioè che le ragioni per cui Medea compie quel gesto così atroce e vendicativo sono ragioni prettamente maschili, sono le ragioni per cui un padre, e non una madre, ucciderebbe i propri figli. L’incapacità di accettare il tradimento, la sconfitta personale, l’impotenza sorda di sapersi umiliati dal piacere dell’altra persona, sono sensazioni che l’uomo non sa tollerare. Al di là degli aspetti psicologici, hai lavorato sulla figura di Medea anche da un punto di vista narrativo? In realtà, al di là del riferimento a Euripide, la vicenda del film è basata in gran parte su fatti realmente accaduti. Quello che abbiamo fatto in fase di sceneggiatura è stato semplicemente rielaborare la psicologia dei personaggi e inserirli in un contesto narrativo astratto. Fin da subito ho scelto come cifra del film un rigore strutturale preciso, quasi geometrico, per far sì che la vicenda veleggiasse sospesa tra il concreto e il metafisico, coinvolgendo in questa ambivalenza, sia stilistica che tematica, i personaggi e l’ambiente che li circonda. I paesaggi di questa terra riarsa, sofferente per la siccità, sono trattati come estensioni visive degli stati emotivi dei protagonisti, di cui richiamano e amplificano sentimenti, aspirazioni, turbamenti. In effetti Medeas è un film fatto di nulla, in cui tutto il peso della narrazione poggia sulle spalle della messinscena… Fin dalla sceneggiatura la mia intenzione era dare importanza al pensiero dei personaggi, piuttosto che alle loro parole o allo sviluppo della trama. Ogni evento si vede per frammenti, suggerimenti, momenti rubati all’intimità dei personaggi: anche la scena del tradimento è gestita in questo modo, come se non fosse distinta dal resto. Direi che più che attraverso la successione di eventi, il film si manifesta attraverso impulsi estetici, derive sensoriali e percettive. Non c’è una vera e propria dimensione narrativa: sia perché la struttura della tragedia è così forte, così nota che l’unico modo per affrontarla oggi è eluderla, affermarla e al tempo stesso nasconderla, sia perché, seguendo la mia idea di cinema e di rappresentazione della realtà fenomenica, volevo minimizzare il più possibile la manipolazione dello spettatore. Ecco perché ho scelto di eliminare la colonna sonora, inserendo solamente suoni diegetici, e allo stesso modo ho insistito nella ripresa del suono d’ambiente. Volevo che lo spettatore potesse trarre liberamente le proprie conclusioni senza manipolazioni esterne; volevo uno spazio e un tempo in grado di comunicare con i personaggi, e un paesaggio percepito come una presenza viva. Ecco, il paesaggio: è quasi un personaggio del film, l’evidente metafora di quello che i personaggi provano. Non pensi che tutto questo, al di là di regalare al film molto fascino visivo, rischi anche di appesantirlo? Il paesaggio è una visualizzazione delle emozioni dei personaggi, del loro mondo interiore. La siccità, il deserto, le colline brulle, per me che sono sbarcato in America andando subito in Colorado e poi, qualche anno dopo, in California, sono state scelte naturali: quella è l’immagine che ho di un paesaggio affascinante e al tempo stesso spaventoso come solo la natura può essere. Il film l’abbiamo girato in California, in piena estate, a un’ora e mezza da Los Angeles e io e il direttore della fotografia abbiamo cercato in tutti i modi di trasformarlo in un luogo immaginifico e al tempo stesso realistico. Dal punto di vista tecnico abbiamo insistito sulla profondità di campo, in modo da ottenere un intreccio continuo tra primi piani e sfondo. La fissità della macchina da presa è stata in tal senso una scelta consapevole, perché dava tempo all’inquadratura di fissare le sue linee, i suoi spazi, e allo spettatore di stabilire relazioni fra i vari elementi che la compongono. E come contraltare della profondità di campo ci sono specchi, finestre, corridoi, elementi che chiudono lo spazio, che costringono a una distanza ravvicinata… Esatto. Molte inquadrature rielaborano lo spazio per realizzare ciò che avevo in mente: rimandare cioè a una dialettica continua tra interno e esterno, tra psicologico e fisico. A tutto questo aggiungerei anche le scelte che abbiamo fatto con il fuoricampo, che ha un ruolo fondamentale e ha guidato molte scelte di composizione e illuminazione. Io non ho una formazione prettamente cinematografica, bensì artistica: ma basta guardare i migliori film della storia per capire che il cinema costruisce la sua grandezza sulla dialettica tra ciò che sta in campo e ciò che sta fuori. E quindi hai deciso di tagliare spesso le teste e i corpi, di mettere la macchina da presa sempre un po’ più in alto, o a lato, di quello che dovrebbe… Mi piace reinquadrare e frammentare i corpi, mi piacciono le scelte visive che offrono la possibilità di osservare la realtà da un altro punto di vista. Nel caso di alcune scene specifiche, poi, come ad esempio il momento in cui il marito si trova in un nigth club ed è avvicinato da una ragazza, la testa tagliata e fuori quadro era un modo piuttosto esplicito di rappresentare lo spaesamento del personaggio. Proprio a partire da questa idea di spaesamento, come hai lavorato con gli attori? 90 La collaborazione con gli interpreti dei due personaggi principali del film, vale a dire la madre e il padre (ndr: rispettivamente Catalina Sandino Moreno, star del cinema messicano, e Brían F. O’Byrne, interprete fra gli altri di Million Dollar Baby e Mildred Pierce) è stata totale. Abbiamo parlato e provato tantissimo prima e durante le riprese, volevamo capire le ragioni dei personaggi, volevamo dare una forma visibile a un dolore che nessuno, nel film, sarebbe stato in grado di esprime a parole. Questo perché il lavoro con gli attori è molto legato all’attenzione, alla concentrazione su quei piccoli momenti in cui una performance può disorientare e perturbare lo spettatore, portandolo a un livello più profondo e personale di comprensione. Ci vuole quindi molto istinto da parte degli interpreti e al tempo stesso molta preparazione. È una questione soprattutto emotiva, non intellettuale, e io sono attratto da esperienze artistiche che lavorino più sulla visceralità, sull’impulso, più che sulla costruzione di una narrazione precisa. Tornando al modo in cui filmi il paesaggio americano, mi viene da pensare che l’unione tra una dimensione intima e una realista sembra sì omaggiare il mito di quei luoghi iconici, propri del western, del road movie, della frontiera, ma al tempo stesso lo supera, o lo mette da parte per recuperare invece una dimensione impressionista. Viene perciò in mente Malick, soprattutto per quei colori ocra e quegli azzurri quasi strappati allo schermo. Sei d’accordo? Devo ammettere che il riferimento a Malick non era voluto: ma non essendo l’unico che me l’ha fatto notare, evidentemente c’è ed è molto forte. Non posso che esserne felice, sia chiaro, ma se dovessi fare il nome di un regista a cui ho voluto avvicinarmi nella rappresentazione dello spazio americano, quello sarebbe Antonioni, che in Zabrieskie Point ri- usciva a cogliere nel deserto una dimensione tragica e al tempo stesso impressionistica. Non si aveva l’impressione di vedere un paesaggio da western, ma si arrivava a capire che quei luoghi potevano diventare anche qualcosa d’altro. Francamente spero che questo emerga anche da Medeas. Nei paesaggi di Antonioni i personaggi sembravano vivere una dimensione extranaturale, qualcosa di profondamente solitario e silenzioso. È da un pensiero simile che potrebbe essere nata l’idea della madre sordomuta? La scelta di fare della madre una donna muta mi serviva per esplorare ancora di più il tema dell’alienazione, dell’incomunicabilità tra persone. La madre di Medeas è una figura molto dolce, ha occhi comprensivi e affettuosi: ma è come se con il suo incolpevole silenzio finisse per contagiare il resto della famiglia, condannando tutti quanti, marito e figli, a una prigione comunicativa prima ancora che fisica o spirituale. In generale, volevo che il film fosse come immerso in una bolla. Ho tolto riferimenti temporali e spaziali precisi, ho sospeso la percezione del tempo, in modo che emergesse la sensazione di una situazione universale e al tempo stesso specifica. E Patti Pravo? C’è Patti Pravo, certo, ma è una specie di vezzo: è sempre stata una delle mie cantanti preferite e attraverso le sue canzoni volevo rappresentare il desiderio di un personaggio – Ruth, la figlia adolescente – di fuggire, di immaginare un altro possibile mito. Se per me da ragazzino quel mito poteva essere l’America, è normale che per una ragazza americana possa essere l’Italia… a cura di Roberto Manassero ERRANTE OSSESSIVO IMPUDICO Ritratto del regista Wang Bing I n diversi modi può essere considerato lo sguardo di Wang Bing, un cineasta che fin dal suo esordio ha declinato il cinema come atto di uno sguardo che si fa corpo. In Tie Xi Qu (2003), colossale progetto dedicato a un distretto industriale nel nord della Cina, non è solo la libertà con cui la videocamera si muove tra gli stretti spazi della fabbrica, combinando dimensione storica e umana, ma ciò che colpiva, affascinava e al contempo metteva in crisi le regole canoniche del “guardar documentando” era la posizione del cineasta rispetto alla sua materia. Wang Bing si sente un cineasta del popolo: non ha problemi a mettersi tra le persone, filmando al loro stesso livello. Non ha problemi a entrare in camere chiuse, a seguire gli uomini nella doccia o ad accompagnarli fin dentro la loro umile casa. L’atto di filmare è in se stesso significante. Non ha bisogno di giustificazioni. Se lo si guarda attraverso la lente del cinema moderno, quel cinema in cui il viaggio è un elemento centrale e il regista si sente in dovere di giustificare la sua posizione di viaggiatore (per evitare di essere confuso con un turista o peggio con un voyeur), tutti i film di Wang Bing creano problemi. Se invece si accetta il fatto che il regista appartiene a un altro orizzonte culturale ed epistemologico (non è un caso che Wang Bing provenga da studi di arte plastica e che da sempre il suo strumento sia una videocamera), il suo lavoro produce degli spaccati di una forza incomparabile. Come accade con il suo coetaneo Jia Zhang-ke, Wang Bing ha l’a- bilità di saper ritrovare la Storia nelle parabole individuale o nei microcosmi che affronta. In Tie Xi Qu è la fine della classe operaia a essere raccontata; in He Fenming (2007) – lancinante testimonianza di una donna il cui marito è stato deportato nei campi di lavoro – il passato di un paese si fa parola e – attraverso questa - acquista un’immagine che il regime ha negato (da questa testimonianza nasce il progetto di finzione The Ditch, 2010). Ciò che però caratterizza la narrazione di Wang Bing è senza dubbio il suo lavoro sul tempo. Non solo i suoi film eccedono di norma la misura di un lungometraggio classico, ma includono procedimenti narrativi e soluzioni che sono usati della serie tv (vedi i capitoli di Tie Xi Qu) e li contamina con altri che derivano dal mondo delle installazioni (vedi la fissità di He Fenming). Il tempo non è solo la tela che regge le inquadrature, ma è il tessuto con cui Wang Bing costruisce i suoi racconti. Questa sensazione è dominante in Feng Ai (2013), ritratto agghiacciante di un ospedale psichiatrico, dove sono detenuti tanto malati reali quanto persone indesiderate. Sfruttando le limitazioni spaziali imposte – un piano solo dell’edificio, costituito da tante camere prive di arredo e dunque indistinguibili – Wang Bing dà corpo a un film che si proietta in un “tempo senza tempo”. In quella che potrebbe letta come una “pura durata”; di qui la scelta di allungare ancora di più le inquadrature, giocando su evidenti effetti di accumulo e ripetizione. Mettendo in evidenza la circola- rità del luogo, l’edificio si dispone attorno a un cortile centrale, Feng Ai finisce per assomigliare ad un girone dantesco, dove le azioni e i personaggi oltrepassano il dato realistico e acquistano un valore simbolico. Il cinema secondo Wang Bing è un’arte che deforma la realtà e, presentandola nelle sue “estremità”, finisce per simboleggiarla. Il cinema di Wang Bing è erratico e profetico. Al viaggio sostituisce l’erranza, il seguire apparentemente senza meta personaggi o linee di fuga altrimenti non definibili: il percorso di un treno (Tie Xi Qu), il vagare di un malato (Feng Ai), le svolte di una parola che ricorda (He Fenming). Così facendo la visione finisce per acquistare una dimensione che eccede la narrazione per diventare visionarietà. I detenuti nell’ospedale sprofondati nelle loro coperte nere, ricordano le anime che spuntano dai sepolcri nella visione dantesca. In questo senso Feng Ai è il film che meglio evidenzia una tensione propria di tutti i film di Wang Bing, il suo diventare visionario a furia di immergersi nel reale. Guardando a come Wang Bing abbraccia il digitale e della sporcizia e imperfezione ne fa un proprio dogma, viene in mente la lezione di Vertov, quel cineocchio mobile. che guarda la città e ne rappresenta l’anima. Alle soglie del XXI secolo il cinema non ha più una città da guardare; così Wang Bing resta tra le rovine a domandarsi dove sia finita l’anima del suo popolo. Carlo Chatrian FOLLIA E AMORE VENEZIA Conversazione con Wang Bing, Venezia 2013 Visione spiazzante e folgorante della 70esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Feng Ai (Til Madness Do Us Part) di Wang Bing ci immerge nella vita quotidiana di alcuni degenti di una clinica psichiatrica dello Yunnan: uomini dallo sguardo spento, i corpi nervosi dentro abiti lacerati, voci lamentose che procedono per nenie e frasi interrotte. Gli internati trascorrono le loro giornate nelle brande sporche, avvolti in lenzuola che li trasformano in larve: ogni stanza affaccia su un ballatoio, spazio comune, luogo del potere e dell’azione impossibile. Lungo il corridoio, girone infernale che, non a caso, è sfruttato all’imbrunire e nelle lunghe notti, si svolge il rito giornaliero della somministrazione delle medicine, violento e assoluto, reiterato nella sua efficiente banalità contro cui il regista non può nulla se non lasciarci queste riprese testimoniali. D’altra parte, sul ballatoio inizia anche la speranza che qualcosa possa resistere, come la corsa folle di un paziente inseguito dalla telecamera nelle sue ronde scatenate attorno a quel cerchio che lo esclude dalla vita e dalla libertà. Proprio alla ricerca di questi lacerti di umanità si dirige lo sguardo di Wang Bing, che modula la denuncia verso uno stato di detenzione (pericolosamente simile ai campi di lavoro sotto Mao, raccontati nel suo film di finzione The Ditch) con la sorprendente resistenza dell’umano, con i suoi desideri e il suo bisogno di ricevere e donare amore. In un film di quasi quattro ore, progressivamente fa capolino tra le mura della segregazione anche la società, una moglie vendicativa e un ragazzo timido, e poi arriva persino il mondo, nell’insperata uscita di uno dei pazienti, che tornando al paese si ritroverà in uno stato di alienazione, rilanciando la questione da una dimensione politica a una ontologica. Un uomo si perde all’orizzonte, senza che lo si possa accompagnare nell’oscurità che sta attraversando: la solitudine della condizione umana, dettata dalla diversità o da un piccolo atto di rivolta contro il sistema (come svela il cartello finale del film), si informa nella precaria immagine digitale, imperfetta e tremolante che è ormai la marca di questo anomalo cineasta. Preciso e lancinante nel restituirci un ritratto della Cina come universo concentrazionario, imperfetto e aperto nel saper accogliere la bellezza che si conserva nei più semplici gesti umani. D.P. 93 Quando ha scelto di girare un film sui manicomi in Cina? E come è riuscito ad ottenere i permessi per realizzarlo? La prima volta che ho messo piede in un ospedale psichiatrico risale a dieci anni fa, gironzolavo per Pechino e mi sono imbattuto in una struttura simile. Ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto girare un film, ma il rifiuto totale a farmi entrare con una telecamera mi ha fatto procrastinare il progetto fino a oggi. Quello che avevo visto in quel lontano pomeriggio continuava a tornarmi in mente: era una storia che dovevo raccontare. Nove anni dopo, un mio amico dello Yunnan (a cui avevo raccontato questa idea), mi chiama per dirmi che ha trovato un modo di farmi entrare in una struttura simile. Infatti conosceva un medico che era stato trasferito da poco nella clinica: una fortuna, perché soltanto una persona del genere avrebbe potuto farci entrare con una telecamera. Una doppia fortuna perché quel medico era una persona sensibile, capace di comprendere il mio progetto, era anche lui allibito della condizione in cui versavano i pazienti e ci ha incoraggiato a portare a termine il documentario per dare visibilità a questa situazione. Il film si apre subito a una dimensione simbolica potente, evocata fin dall’architettura del ricovero: richiama alla memoria un girone infernale. Ma è estremamente potente anche come immagine-mondo: un cortile su cui affacciano tante finestre, che nascondono e svelano quello che accade. La scelta del luogo dunque non è stata cercata? Come ho detto sono arrivato lì per via del medico, ma devo dire che questa struttura architettonica è identica in tutta la Cina. Ci sono due tipi di posti in cui vengono tenuti i pazienti instabili mentalmente: i primi sono degli ospedali, poco interessanti come luoghi, i secondi sono queste cliniche, che grazie alla loro pianta diventano dei luoghi ideali per rappresentare uno stato di reclusione e sottomissione. Feng Ai, il film segue questo binomio: avrebbe subito scommesso che anche in questa situazione in cui gli uomini sono ridotti a larve resista una grande umanità? Il titolo, che ho scelto io nella versione cinese (mentre ho affidato ad altri la traduzione inglese), è la mia ipotesi di partenza: anche nella follia resiste l’amore, il nostro sentimento più alto. Non vorrei infatti che si interpretasse l’amore come nell’accezione comune, l’amore tra un uomo e una donna, e ci terrei a chiarire che quel sentimento che appare nel finale tra due uomini non è un rapporto omosessuale, bensì l’amore nella sua accezione più essenziale, il contatto fisico con l’altro. Gli uomini che sono internati da anni in queste cliniche ricercano qualcuno da stringere, qualcuno con cui dormire: hanno bisogno di uscire dall’alienazione attraverso un rapporto umano. Entrare in una clinica con una videocamera, implica trovare un rapporto con la realtà difficile che si ha di fronte. Come è stata questa ricerca della propria posizione? Lo spazio all’interno della clinica era estremamente ristretto e all’inizio mi sono trovato a disagio: non sapevo che distanza tenere, quasi fosse il luogo a dettarmi delle inquadrature e non io a sce- 94 glierle. L’ambiente era affollato, tra degenti e infermieri, noi ci trovavamo sempre persone da tutte le parti, la confusione non mi aiutava a trovare un’idea di cinema e ho avuto paura. Soltanto dopo dieci giorni ho iniziato ad ambientarmi, a trovare il giusto modo per stare il quel posto, la maniera per interagire con le persone. Da quel momento ho iniziato a scegliere i miei personaggi. Come documentarista ho chiaro che è la mia presenza a costruire il film, paradossalmente trovo che il segno dell’autore sia più marcato nel cinema del reale che non nella finzione. Al contempo, quando giro i miei film, cerco di non disturbare la realtà, non mi piace intralciarla, provocarla o interromperla: alcune reazioni delle persone che riprendo possono essere causate dalla mia presenza, ma cerco di andare sempre aldilà. Per questo uso delle inquadrature lunghe, in cui a poco a poco chi mi è davanti dimentica la mia presenza ed è spinto a superare il suo essere un personaggio. Quando ho iniziato a girare il film pensavo potesse durare 150 minuti, poi mi sono reso conto che questa storia aveva bisogno di un tempo più ampio per far entrare gli spettatori nella particolare dimensione di queste cliniche e, in effetti, al montaggio sono arrivato a 210 minuti. Quale rapporto si è instaurato con i pazienti? Ho scelto quelli che erano più incuriositi dalla mia presenza nella clinica, con alcuni di loro si è instaurato un rapporto umano molto forte. Nella maggior parte dei casi mi vedevano come uno sconosciuto, venuto da Pechino. All’inizio alcuni avevano un po’ di timore nei nostri confronti, altri sembravano poco interessati a quello che stavamo facendo: solo un paziente ci ha attaccato in maniera aggressiva mentre lo riprendevamo, il mio operatore è rimasto ferito ma l’uomo si è subito pentito del suo gesto ed è venuto a chiederci scusa (l’episodio non è inserito nel film, n.d.r.). Poi siamo diventati una presenza discreta, che si teneva alla giusta distanza per diventare invisibile. Ha più volte parlato di «storia» da raccontare e in effetti l’uscita improvvisa di un paziente nella seconda parte del film offre una svolta drammatica potente. Ho sperato fin dall’inizio che almeno un paziente venisse dimesso, c’erano delle buone possibilità che in tre mesi di nostra 95 permanenza questa eventualità si verificasse. E, in effetti, così è stato. Per me l’uscita dalla clinica rappresentava una liberazione, andare incontro alla società, ritornare alla vita e agli affetti. Ma ho scoperto che la mia posizione era idealista. Quando il paziente è uscito, e noi lo abbiamo seguito, abbiamo dovuto costatare che la sua vita nel paese d’origine era totalmente priva di convivialità, la sua famiglia non lo aspettava e non ha avuto alcuna reazione quando lo ha visto arrivare. Lui trascorreva le sue giornate da solo, dormiva, leggeva, andava in giro. Era isolato nel mondo così come nella clinica. Mi sono sentito impotente: pensavo di poter trovare una facile via d’uscita alla storia che stavo raccontando e invece ho capito che dovevo tornare dentro quelle stanze sporche e cercare lì il mio finale. Per me il cinema è il materiale video che agisce su corpi e paesaggi, li informa cercando di renderne manifesta la loro bellezza. Questa convinzione è stata confermata nel mio soggiorno in manicomio: gli uomini, seppur ridotti a uno stato primordiale, resistono e sperano. I corpi sono spesso celati dai lenzuoli e dalle coperte, da vestiti sporchi e informi, eppure non perdono la propria umanità. Un momento magico nel film è quando uno dei degenti si mette a inseguire una mosca, si accorge che lo sto filmando e quindi continua in questa sua lotta contro l’insetto. Ma la mosca ormai è sparita, resta soltanto il suo gesto reiterato, così bello da sembrare una danza. Ho pensato che quell’uomo, distrutto nel fisico e nello spirito, stesse iscenando per me una recita, elegante e magnifica quanto il teatro kabuki. La magia del movimento, l’essenza della vita. Difficile immaginare una diffusione in Cina di questo film, come arriverà al pubblico cinese? Come tutti i miei film, anche questo sarà diffuso grazie a dvd pirata. È una maniera efficace per raggiungere un pubblico metropolitano, di tutte le età. In molti sostengono il mio lavoro e mi scrivono dopo aver visto i miei film. Questo mi spinge ad andare avanti: faccio film prima di tutto per la mia società, anche se è stato decisivo l’appoggio europeo per la diffusione del mio cinema. a cura di Daniela Persico