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La tutela giuridica della musica di tradizione orale
Università degli Studi di Cagliari Facoltà di Giurisprudenza Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza LA TUTELA GIURIDICA DELLA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE Tesi di Laurea Interdisciplinare Relatori: Studente: Prof. Elisabetta Loffredo Prof. Ignazio Macchiarella Andrea Cocco Anno Accademico: 2010-2011 INDICE CAPITOLO I LA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE. UN APPROCCIO COMPARATIVO TRA LE SCIENZE ETNOANTROPOLOGICHE E IL DIRITTO DELLA PROPRIETA' INTELLETTUALE 1. Opere dell'ingegno legate al folklore nella prospettiva antropologica. 3 2. Il folklore nel linguaggio del diritto. 12 2.1. Nozione di folklore nel diritto positivo e nelle convenzioni internazionali sul diritto d'autore. 2.2. Nozione di folklore nel linguaggio delle organizzazioni internazionali. 2.3. Nozione di folklore nella dottrina giuridica. 12 19 27 3. La questione dei cc.dd. “detentori”. 32 4. L'incerta definizione di musica di tradizione orale. 36 CAPITOLO II ESPRESSIONI MUSICALI DI TRADIZIONE ORALE E PROSPETTIVE DI PROTEZIONE 1. La questione della applicabilità della legislazione sul diritto d'autore. 41 1.1. Modelli innovativi di gestione dei diritti. 46 2. Protezione degli artisti, interpreti ed esecutori e altri diritti connessi. 48 3. Utilizzabilità di altre norme del sistema della proprietà intellettuale. 50 4. Misappropriation e pubblico dominio. Esperienze relative a opere di tradizione orale. 54 4.1. Misappropriation di manufatti. 59 CAPITOLO III MODELLI DI TUTELA A CONFRONTO 1. WIPO e UNESCO: due linee di intervento a confronto. 63 1.1. Le “Model provisions” del 1985 e le nuove linee di intervento WIPO. 63 1.2. L'UNESCO e la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. 78 2. Esperienze di tutela a livello sovranazionale. 94 3. Forme di protezione a livello nazionale e locale. 97 4. Un bilancio dell'analisi svolta. 101 Bibliografia. 109 1 2 CAPITOLO I MUSICA DI TRADIZIONE ORALE. UN APPROCCIO COMPARATIVO TRA SCIENZE ETNOANTROPOLOGICHE E DIRITTO DELLA PROPRIETA' INTELLETTUALE 1. Opere dell'ingegno legate al folklore nella prospettiva antropologica. La prima questione da affrontare quando ci si confronta con la musica di tradizione orale è la definizione stessa di “musica di tradizione orale”. Tale nozione, apparentemente inequivocabile, cela in realtà un gran numero di implicazioni, con riguardo a più profili quali, ad esempio, quello linguistico, semantico, dogmatico, metodologico, etc. Ad essa si affianca una serie di altri concetti, come quello di folklore, di traditional knowledge e indigenous knowledge, il cui significato e la cui portata restano ancora da chiarire. La materia è da tempo oggetto di un acceso dibattito su più fronti da parte di etnomusicologi ed antropologi, ai quali si sono aggiunti, con una frequenza sempre maggiore, gli studiosi del diritto e le organizzazioni internazionali: queste ultime, peraltro, con approcci e obiettivi spesso differenti o addirittura incompatibili tra loro. In particolare, il problema di una valorizzazione e tutela giuridica della musica di tradizione orale investe i campi più vari: la proprietà intellettuale, la conservazione dei beni culturali, il diritto internazionale in generale, i diritti umani. Il risultato di questa “stratificazione” è attualmente una trama inestricabile di ricerche accademiche, studi commissionati da istituzioni pubbliche, convenzioni, trattati, atti normativi di vario livello territoriale e grado di vincolatività. Ciò, da un lato, ha senza dubbio apportato un significativo contributo all'approfondimento delle problematiche in gioco, dall'altro ha però reso l'analisi molto più complessa di quanto già non fosse. Procedendo con ordine, si tenterà prima di chiarire i termini, esaminando la nozione di musica di tradizione orale in relazione ad altri concetti generali che fanno riferimento in vario modo all'oralità o alla tradizione; una volta delimitati i confini esterni dell'oralità in musica, si tenterà di definire quelli interni, e cioè di distinguere, nell'ambito dei fenomeni musicali, quelli che pos3 sono essere inclusi nella categoria in parola, e quelli che, pur in presenza di elementi comuni, portano con sé caratteristiche peculiari che ne rendono opportuna una trattazione separata. O, quantomeno, si cercherà di capire se un'operazione di questo genere sia possibile, e se sì in quali termini e a quali scopi. Alla base del problema qui discusso stanno i concetti di cultura e folklore, dai quali perciò è opportuno partire. L'evoluzione degli studi antropologici e folklorici occidentali è stata a lungo (e in alcuni casi è ancora) influenzata da un approccio di tipo paternalistico, che tende a considerare i “noi”, portatori di una cultura evoluta e complessa, in contrapposizione agli “altri”, rappresentanti di mondi culturali arcaici e semplici, scarsamente evoluti e statici nella loro dimensione temporale. Una tale impostazione di fondo ha radici storiche piuttosto risalenti 1, e ha favorito lo sviluppo dell'idea dell'esistenza di tante culture separate, geograficamente localizzabili e riferibili a specifiche comunità o gruppi sociali. Quest'ultima concezione si riflette nella definizione di cultura formulata da Edward B. Tylor nel 1871, che a lungo è stata il punto di riferimento fondamentale per la scienza antropologica. Secondo tale definizione “Culture, or civilization, taken in its broad, ethnographic sense, is that complex whole which includes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a member of society”2. 1 Questa impostazione ha ricevuto un importante slancio a partire dal XVI secolo, con la stagione delle grandi conquiste, quando l'Occidente si è trovato a porsi in relazione con popoli altri da lui, con stili di vita e linguaggi differenti. L'apposizione dell'etichetta di “selvaggi” su tali popoli ne rese più accettabile la conquista, in nome della esportazione di valori (religiosi, politici, civili) affermati universali ed in quanto tali legittimamente imponibili, con qualsiasi mezzo, su chi ancora non li conosceva. Ma sotto un profilo più prettamente scientifico il contatto con civiltà nuove aprì anche la strada alla comparazione. Scrive Cirese: “per assimilare la novità si ricercarono analogie e paralleli tra i 'selvaggi' e le antichità mediterranee; ma questo sforzo di ricondurre l'ignoto al noto […] avviava la messa a punto di quello strumento tecnico di ricerca che è la comparazione […] e proponeva il problema del significato e della collocazione storica delle forme culturali più remote dalla civiltà europea moderna e dai suoi antecedenti storici ufficialmente ammessi”, in A. M. CIRESE, Dislivelli dicultura e altri discorsi inattuali, Roma, 1997, 36. 2 Cfr. E. B. TYLOR, Primitive Culture, Cambridge, 2010 [1871]. Tylor sostenne la teoria dell'evoluzionismo culturale, secondo cui non esisterebbero società per loro natura più evolute di altre. Secondo tale impostazione, l'evoluzione di tutte le società umane seguirebbe un modello comune, caratterizzato da tre fasi graduali: selvaggia, barbara, civile. A questo modello si accompagnava una concezione poligenetica, in base alla quale si riteneva che tutti gli esseri umani fossero animati da una natura comune, che li avrebbe portati, in situazioni e contesti analoghi, a porre in essere gli 4 La scuola antropologica inglese, sulla scorta dell'impostazione tyloriana, continuò a considerare il suo oggetto di studio sotto la denominazione di survivals (sopravvivenze), ossia come una serie di elementi appartenenti al passato, e sopravvissuti, appunto, fino all'epoca attuale, tralasciando di approfondire le dinamiche sulla base delle quali ciò era avvenuto. La cultura popolare venne intesa come un insieme di “fossili” di un tempo passato, che si erano salvati giungendo fino al presente. La formulazione tyloriana ebbe l'innegabile merito di aver riconosciuto adeguato valore, a differenza della dottrina precedente, all'integrazione dei vari aspetti della vita di una comunità nella determinazione del concetto di cultura. Mancava però la valutazione della dimensione storica, e cioè si trascurava di considerare quali adattamenti avessero subito nel tempo tali elementi, quale rapporto esistesse tra la loro funzione originaria e quella attuale. Non è possibile, in questa sede, compiere una dettagliata analisi diacronica dell'evoluzione del concetto di cultura 3. Si rende comunque fondamentale dare conto in maniera sintetica delle linee di tendenza della scienza antropologica nella definizione di tale concetto, per poter meglio apprezzare la differente sorte che il concetto ha avuto nel linguaggio antropologico, da un lato, stessi comportamenti. Le differenze tra una società ed un'altra, perciò, erano determinate dal contesto in cui tale società si era sviluppata. Una società attualmente evoluta non lo era per una sua caratteristica “genetica”, ma solamente perché aveva attraversato prima di altre le precedenti fasi; e così una società ancora alla prima fase evolutiva avrebbe col tempo attraversato le altre, fino a giungere alla fase civile. L'orientamento tyloriano ebbe come conseguenza un ampio ricorso alla comparazione. Se infatti ogni società si comporta in modo analogo in situazioni analoghe, al lora ogni singola espressione culturale deve avere degli omologhi in ogni società, che rispondono a medesime esigenze e che svolgono identiche funzioni. Gli orientamenti successivi misero in risalto il limite di questa impostazione: la riconduzione di tutti i fenomeni umani ad un modello precostituito appare semplicistico e scientificamente rischioso nella misura in cui cerca di giustificare determinati comportamenti alla luce di altri, considerandoli non nella loro dimensione storica e sociale, ma come elementi di un disegno già noto. Si trascurano così le differenze, o meglio viene ad esse data una spiegazione che alimenta più di un sospetto di forzatura. Ma non si mancò di sottolineare anche il pregio che il lavoro di Tylor aveva: quello di avere aperto la strada al relativismo culturale e cioè ad un nuovo approccio in base al quale non esistono culture “giuste” o “sbagliate”, ma solo culture diverse, che vanno studiate e non giudicate sulla base di un parametro fisso di riferimento, sia esso la cultura ufficiale o quella contadina. 3 Per una analisi approfondita v. voce Cultura, in Dizionario di antropologia. Etnologia, antropologia culturale, antropologia sociale, a cura di U. Fabietti – F. Remotti, Bologna, 1997; v. anche A. BARNARD - J. SPENCER, Culture, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 168 ss. 5 e in quello giuridico, dall'altro. Si noterà come il secondo sia rimasto fortemente ancorato, in numerosi casi, alle tesi di Tylor e della scuola inglese tra fine '800 e inizio '900, e si tenterà di comprenderne le ragioni. In antropologia, in realtà, solo di recente ci si è discostati da esse. La teoria “un popolo-una cultura”, ha sempre rappresentato infatti una importante base per lo sviluppo del metodo di ricerca tipico dell'antropologia, la ricerca sul campo. Negli ultimi decenni, tuttavia, l'idea che la comprensione dei fenomeni umani potesse limitarsi alla conoscenza – seppur approfondita – di differenti comunità, alla catalogazione delle informazioni ottenute e alla loro comparazione è entrata in crisi. Il mito dell'esistenza di culture pure è stato messo in discussione, mentre si è iniziato a “storicizzare” le comunità osservate e le loro espressioni di cultura. Ciò ha significato prendere coscienza del fatto che una cultura “non riesce mai a configurarsi come un sistema chiuso e autosufficiente”, ma “è sempre aperta al contatto, al confronto, allo scambio con altre culture, anzi, spesso è proprio attraverso l'alterità più netta che si instaurano i contatti e gli scambi più importanti per la vita sociale” 4. Dunque, cosa si intende quando si parla di cultura? A parte alcune tesi estreme, che sono giunte addirittura a proporre l'eliminazione del termine dal linguaggio antropologico, data la sua estrema vaghezza 5, si è assistito ad una modificazione della prospettiva nell'analisi dei fatti culturali, che ha portato a cessare di intendere la cultura come un elemento determinato (o un in4 U .FABIETTI, – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia, Milano, 2002, 27. Alcuni segnali nella direzione poi definitivamente intrapresa dall'antropologia moderna si erano già manifestati, nella scuola nordamericana, nella prima metà del ventesimo secolo. In particolare, cominciava a farsi strada l'idea della reciproca influenza tra culture, e della onnicomprensività del concetto di cultura, seppure ancora espresse in termini non pienamente compiuti. Scriveva ad esempio A. Blumenthal: “Culture is the world stream of cultural ideas from the first in the cosmos to the great body of them in the present-the whole thing considered as an aggregate plus (1) all functional relationships these ideas have with each other in the same cultural mind and with those in other cultural minds plus (2) all phenomena aside from cultural ideas insofar as such phenomena have been identifiably affected by cultural ideas plus (3) all relationships between cultural ideas and phenomena aside from cultural ideas when these former phenomena have been identifiably affected by them plus (4) all relationships between cultural ideas and phenomena aside from them that have not been identifiably affected by such ideas”: A. BLUMENTHAL, A New Definition of Culture, in American Anthropologist, New Series, Vol. 42, No. 4, Part 1, 571 ss. 5 Cfr. BARTH, F., Rethinking the Object of Anthropology, in AA.VV., A Conversation about Culture, in American Anthropologist, New Series, Vol. 103, No. 2, 2001, 432 ss. 6 sieme di elementi determinati), per considerarla come un fenomeno più comprensivo, che abbraccia l'esistenza dell'uomo non in quanto circoscritta all'interno di una comunità stanziata in un'area geografica, ma che considera gli individui e i gruppi sociali in ragione delle loro reciproche interazioni nel tempo e nello spazio6. A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, in particolare, la dottrina ha posto in risalto come l'evoluzione umana – a differenza di quella delle altre specie animali – sia caratterizzata dall'influenza di elementi che per lo più trascendono la sfera individuale dei singoli, e si collocano invece nel contesto sociale in cui l'individuo viene a trovarsi. Queste considerazioni hanno portato a comprendere come “la 'natura umana' non possa essere colta al di fuori dei costumi” e a concludere, di conseguenza, che il riferimento alla cultura al singolare appare improprio, mentre sarebbe più corretto parlare di “culture” al plurale. Per altro verso, la considerazione dei contesti sociali ha consentito un ulteriore passo. Data la pluralità dei contesti – non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche sotto quello qualitativo – non è possibile definire in maniera esatta i contorni di una singola cultura. L'identificazione di una cultura ha perciò una funzione meramente didascalica, e dipende dagli specifici aspetti assunti come oggetto di analisi nel singolo caso. Il mutamento di prospettiva ha inoltre consentito di ricomprendere nello studio fenomeni, come la c.d. “delocalizzazione” della cultura, che sono sem6 N.M. Stolzenberg sostiene ad esempio che il termine “cultura” può ancora assolvere alla sua funzione di oggetto degli studi antropologici, purché si modifichi la prospettiva di analisi: “we may become more comfortable with the intractable ambiguity of 'culture' if we cease to think of it as the name for a thing and come to view it instead as a placeholder for a set of inquiries-inquiries which may be destined never to be resolved” (N.M. STOLTZENBERG, What We Talk about When We Talk about Culture, in AA.VV., A Conversation about Culture, in American Anthropologist, New Series, Vol. 103, No. 2, 2001, 444). Affermano invece U. FABIETTI, – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, op. cit., 95: “Sulla base delle critiche mosse all'uso del concetto di cultura in antropologia, possiamo affrontare la questione del traffico e dell'ibridazione culturale in una prospettiva che non presuppone alcuna idea di cultura come 'contenitore' (alla maniera di Edward B. Tylor, per intenderci), ma come 'ambiente comunicativo'. Possiamo, anzi, siamo in un certo senso costretti a utilizzare una qualche nozione o concetto che ci renda possibile parlare di questo traffico culturale 'globale'. Parleremo, dunque, di ecumene globale, dove per 'ecumene' dobbiamo intendere una 'regione di persistente interazione e scambio culturale'. Il mondo contemporaneo ci si presenta infatti come un ambiente globale nel quale le culture tendono a instaurare rapporti via via più intensi di conflitto, dialogo e influenza reciproca”. V. anche M.L. WAX, How Culture Misdirects Multiculturalism, in Anthropology & Education Quarterly, Vol. 24, No. 2, 99 ss. 7 pre stati presenti nella storia dell'uomo, ma che, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, hanno assunto dimensioni tali – in particolare a seguito della globalizzazione e dell'emigrazione dai Paesi poveri verso quelli ricchi – da non poter più essere scartati in quanto “irrilevanti”, come era accaduto fino ad allora. In conseguenza di questa nuova apertura, la scienza antropologica è passata dall'intravedere una generica minaccia nei nuovi processi di commistione culturale, ad un esame più articolato delle nuove sfide da essi poste7. Si è così giunti a porre in risalto la differenza tra diversi fenomeni di “ibridazione culturale”: da una parte, quelli determinati dal contatto tra culture e dal loro reciproco influenzarsi; dall'altra, quelli determinati dall'impatto, talvolta violento, tra una società “forte” e una o più altre società in posizione di dipendenza (economica, politica etc.) dalla prima. Si ripropongono qui in termini globali le teorie gramsciane sulla tensione tra culture dominanti e culture subalterne8. Si potrebbe affermare, riformulando tali teorie alla 7 Cfr. U. FABIETTI, – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, op. cit., 30- 31, in cui si afferma: “un concetto più articolato e sfumato, rispetto a quello di omogeneizzazione culturale, come globalizzazione o anche riformulazione culturale come strumento per focalizzare i processi che investono tutte le società contemporanee, porta a individuare non più una minaccia per l'antropologia, che anzi intravede nuovi compiti, nuovi panorami di ricerca, ma per il concetto di cultura: le nozioni di globalizzazione e riformulazione culturale indicano infatti i processi per cui una società vede trasformati anche vorticosamente i propri valori locali per effetto sì di qualcosa che arriva dall'esterno, che non è però il contatto con un'altra cultura portata da un'altra società, ma sono fenomeni globali, transnazionali (come il turismo, la televisione, il mercato, le guerre, i traffici, le deportazioni, le immigrazioni ecc.)”. V. anche J. LIEBER, R.E. WEISBERG, Globalization, Culture, and Identities in Crisis, in International Journal of Politics, Culture, and Society, Vol. 16, No. 2, 273 ss.; 8 Nei Quaderni dal carcere è presente un breve saggio intitolato Osservazioni sul “Folclore” (Quaderno 27, in GRAMSCI, A., Quaderni del carcere, Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, 1975, 2309 ss.) che ha ispirato la dottrina antropologica italiana del dopoguerra e tuttora è alla base della impostazione di molti studi demoetnoantropologici. Gramsci definisce il folklore come “concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo 'ufficiali' (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono succedute nello sviluppo storico”. Emerge in questo scritto l'elemento fondante del pensiero di Gramsci sul folklore, e cioè il fatto che esso esista non in sé, ma in quanto in una società coesistano più classi sociali contrapposte e, in particolare, delle classi dominate in tensione con una classe dominante. Dall'esame delle Osservazioni emerge però una visione del folklore in chiave piuttosto negativa. L'apparente contraddizione è stata giustificata con la considerazione del contesto in cui Gramsci scriveva. Durante il ventennio fascista infatti il folklore 8 luce delle considerazioni svolte, che un pericolo per la diversità culturale nasca nel momento in cui il fenomeno fisiologico del contatto e dell'ibridazione delle culture assume caratteri “patologici”, allorché l'influenza cessi di essere reciproca e spontanea, per diventare unilaterale e quasi imposta. Accanto alla globalizzazione, i fenomeni di delocalizzazione e deterritorializzazione determinano una modificazione degli orizzonti culturali, contribuendo a estenderli su un piano globale. L'espressione “deterritorializzazione” indica “la condizione di individui, comunità e gruppi derivante dal loro spostamento nello spazio fisico e nel loro radicamento, temporaneo o definitivo, in molteplici 'altrove' rispetto al luogo d'origine” 9. Per “delocalizzazione” si intende un fenomeno correlato alla deterritorializzazione, a seguito del quale – soprattutto grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie – si costituiscono flussi di comunicazione di carattere transnazionale, che agiscono anche a livello del contatto tra culture, tanto che si verifica “una specie di de-valorizzazione del luogo in quanto fattore coestensivo della dimensione culturale e della stessa identità”10. Viene ad essere messo in discussione, dunque, lo stesso concetto di “comunità”. Risulta oggi più che mai arduo definire quest'ultima come gruppo di individui stanziato in un'area geografica e portatore di una propria cultura. Perdono, di conseguenza, consistenza anche discorsi identitari fondati sulla salvaguardia di valori o manifestazioni culturali dalla 11 “contaminazione” proveniente dall'esterno . Si tornerà sul punto allorché ci era stato fatto oggetto di una riscoperta in chiave idilliaca per scopi ideologici e non scientifici. Si è ritenuto pertanto che Gramsci si riferisse in termini spregiativi non tanto al folklore in sé, quanto alla concezione vigente al tempo in cui scriveva. Questa ricostruzione è confermata dal fatto che, nei passi in cui la questione viene dal filosofo sardo posta in termini positivi, egli si riferisce non al folklore, ma al concetto di “cultura popolare” (DEI, F., Cultura popolare, in AM. Antropologia museale, XII, 2009, 30 ss.; dello stesso A., Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico italiano, in M. Santova, M. Pavanello, a cura di, Bulgaria-Italia. Dibattiti, culture locali, tradizioni, Sofia, 2006, 145 ss.; sempre dello stesso A., Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione gramsciana negli studi folklorici, in Lares, LXXIV (2), 2008, 445 ss.). 9 U. FABIETTI, – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, op. cit., 106. 10 Ibid. 11 Lo sviluppo di ideali nazionalistici basati sulla esaltazione delle tradizioni popolari è una costante nella storia dell'uomo. Nel corso del romanticismo la cultura ufficiale venne definita corrotta, impura, come una forma deviata della unica e vera cultura, quella popolare, ed in particolare quella contadina. Si trattava, beninteso, di un'operazione politica, volta ad esaltare le radici nazionali e i legami con la storia passata. E in quanto operazione politica fu realizzata secondo criteri che poco 9 si occuperà dell'utilizzo del concetto di “detentori” di conoscenze e culture tradizionali nel linguaggio giuridico12. Strettamente correlato al concetto di “cultura” è quello di “folklore”. La prima comparsa del termine risale al 1846, quando William J. Thoms, sulla rivista Athenaeum, ne propose l'adozione, sostenendo l'esigenza di un vocabolo che esprimesse “manners, customs, observances, superstitions, ballads, proverbs, etc. of the olden time” 13, in sostituzione di quello di popular antiquities allora in uso14. L'oggetto privilegiato degli studi folklorici, anche laddove le avevano di scientifico. La ricerca delle radici e la (ri)costruzione della storia della nazione si spinsero ben oltre lo studio e la documentazione. In forza di questa operazione di ricostruzione l'interesse si concentrò in particolare su poemi e saghe, che furono oggetto di studio e di manipolazione, fino a giungere in alcuni casi ad una “textual ‘emendation’, which sometimes amounted to outright forgery, on the combined grounds of scholarly sophistication and insiders’ instinctive knowledge” (cfr. M. HERZFELD, Folklore, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 300). Con l'avvento in Europa del totalitarismo una nuova ondata di nazionalismo riportò l'attenzione sulla riscoperta delle “buone vecchie tradizioni”, dei mestieri antichi, degli stili di vita non contaminati dalla modernità e pertanto puri, espressione delle virtù e dei valori autentici cui l’uomo ogni buon fascista (o ogni cittadino di stirpe germanica) doveva tendere. Questo nazionalismo, però, presentava un elemento ulteriore rispetto a quello dell'ottocento: i suoi fondamenti, primi tra tutti la nozione di razza, furono ricoperti di autorità scientifica non solo sotto il profilo umanistico, ma anche sotto quello biologico. Ciò che non rientrava nei canoni fissati dal regime, perciò, non poteva soltanto essere corretto, andava eliminato. In Italia, nel campo delle scienze umane, ciò avvenne con la complicità di numerosi autorevoli antropologi, che si prestarono alla affermazione della nuova “verità”, o quantomeno scesero a compromessi con il fascismo, che pretendeva la corrispondenza del contenuto delle pubblicazioni accademiche con l'ideale nazionale, l'unico ammissibile in quanto unico ad essere “scientificamente provato”. 12 V. infra, in questo stesso Capitolo, par. 3. 13 Cit. in DEI, F., Cultura popolare, in AM. Antropologia museale, XII, 2009, 30 ss. 14 Si tratta di una parola composta dall'inglese folk (“popolo”) e lore (“dottrina”, ma anche “sapere”; “complesso di tradizioni o di notizie”) che ha avuto largo successo in tutto il mondo (v. voce folklore, in G. DEVOTO – G.C. OLI, Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1990; T. DE MAURO, Dizionario della lingua italiana, Torino, 2000). Nella lingua italiana compare sia nella forma originaria, sia in quella italianizzata di “folclore”, ed indica “l'insieme delle tradizioni popolari e delle loro manifestazioni, in quanto oggetto di studio o anche di semplice interesse” (G. DEVOTO-G.C. OLI, Dizionario della lingua italiana, op. cit.). Interessante è anche la definizione che ne da il Vocabolario Treccani, dalla quale emerge un ulteriore connotato, quello dell'oralità: “l’insieme delle tradizioni popolari di una regione, di un paese, di un gruppo etnico, in tutte le manifestazioni culturali che ne sono espressione, cioè usi, costumi, leggende, credenze e pratiche religiose o magiche, racconti, proverbi e quanto altro è tramandato per tradizione orale” (AA. VV., Il Vocabolario Treccani, Roma, 2010). Oralità cui fa riferimento anche l'Oxford Dictionary of English, che definisce il folklore come “the traditional beliefs, customs, and stories of a community, passed through the generations by word of mouth“ (AA. VV., Oxford Dictionary of English, Oxford, 10 idee nazionaliste – con il loro corredo di implicazioni politiche – non hanno avuto particolare sviluppo, è stato a lungo rappresentato dal mondo contadino, malgrado l’industrializzazione e lo sviluppo tecnologico avessero reso anacronistico un tale interesse esclusivo. Questa circostanza era determinata da una ambiguità di fondo, analoga a quanto già detto a proposito del concetto di “cultura”, ossia la convinzione circa l'esistenza di espressioni culturali pure, immutabili e fuori dalla storia. Sotto il profilo dei contenuti operò a lungo una sorta di censura nei confronti delle espressioni culturali “politicamente scorrette” e di quelle considerate moralmente “oscene”, secondo una dinamica simile a quella che nel passato aveva portato a selezionare il materiale di studio sulla base di un giudizio di valore. Solo nel secondo dopoguerra, e in particolare grazie al lavoro del folklorista statunitense Alan Dundes, “the categories of urban and industrial folklore began to gain currency, and that obscene or politically subversive folklore gained academic respectability”15. Anche il concetto di “cultura popolare” è stato ripensato. In particolare, la cultura di massa – che fino ad allora era stata ignorata dall'antropologia – viene fatta oggetto di studio e considerata parte dei fenomeni transnazionali che hanno riguardato la cultura in generale negli ultimi decenni16. Anche per il folklore, si è progressivamente abbandonata la tendenza a considerare i singoli elementi che lo compongono (usanze, riti, espressioni musicali etc.) in favore di una prospettiva più ampia. Nell'Europa continentale ciò ha coinciso con la riunione del folklore e dell'etnografia sotto la categoria delle “discipline demoetnoantropologiche”, proprio a voler significare l'interdipendenza tra i due campi di studio e le relative metodologie di analisi. 2010); la dottrina antropologica inglese e statunitense fa ricorso al termine per indicare sia l'oggetto di studio che lo studio stesso: “the term ‘folklore’ means both a body of material and the academic discipline devoted to its study” (HERZFELD, M., Folklore, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. SPENCER, 2010, 300 ss.). Anche nella lingua italiana rimane questa doppia accezione, anche se da tempo non è più in uso in ambito accademico. In italiano ha assunto anche il significato secondario di “aspetto pittoresco di una situazione, di un ambiente” (T. DE MAURO, Dizionario della lingua italiana, op. cit.), con accezione sovente spregiativa. 15 HERZFELD, M., Folklore, in Routledge Encyclopedia, op. cit, 300. 16 Cfr. E.G. TRAUBE, "The Popular" in American Culture, in Annual Review of Anthropology, 25, 1996, 127 ss. V. anche D.E. FOLEY, Does the Working Class Have a Culture in the Anthropological Sense?, in Cultural Anthropology, Vol. 4, No. 2, 1989. 11 2. Il folklore nel linguaggio del diritto. 2.1. Nozione di folklore nel diritto positivo e nelle convenzioni internazionali sul diritto d'autore. A partire dagli anni '50 del secolo XX cominciò ad essere avvertita a livello internazionale l'esigenza che anche le espressioni della cultura popolare avessero un riconoscimento legislativo. Questo diede inizio ad un dibattito, tuttora in corso, che pare ben lontano dall'approdo a risultati convincenti rispetto agli obiettivi proposti. Le ragioni della scarsa efficacia dei risultati finora conseguiti sono probabilmente molteplici: anzitutto, gli scopi perseguiti dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali che hanno affrontato la questione sono stati spesso troppo eterogenei per poter essere sintetizzati in una posizione condivisa; in secondo luogo, gli strumenti di tutela offerti dal diritto positivo hanno mostrato la loro inadeguatezza ad essere applicati ad un simile campo. D’altra parte anche per quanto concerne l’individuazione dell'oggetto della tutela è mancata quella condivisione di idee, che avrebbe dovuto costituire la base di partenza per ogni riflessione in materia. Alla luce di questo era naturale attendersi esiti differenti, se non inconciliabili tra loro: cosa che pare essersi verificata. Una delle mancanze che si può ascrivere alla scienza giuridica è stata quella di aver totalmente (o quasi) ignorato l'evoluzione che la riflessione sul folklore stava subendo in campo antropologico. A differenza di quanto si è ricordato a proposito della dottrina antropologica del dopoguerra, agli operatori del diritto non si può nemmeno “rimproverare” di avere adottato una nozione anacronistica e superata. Infatti, salvo probabilmente alcune eccezioni, pare non sia stata avvertita l'esigenza di coordinare i due campi di studio, come normalmente avviene ogniqualvolta un atto normativo è chiamato a disciplinare una materia dalla elevata connotazione tecnica. Senza voler esagerare, si potrebbe azzardare che ad oggi esistano tante definizioni di folklore quanti sono coloro – si intende sempre in campo giuridico – che a vario titolo se ne sono occupati. A ciò si aggiunga la già menziona ta varietà di concetti elaborati per indicare i vari aspetti della cultura popolare o tradizionale. Per opportunità sistematica si può cominciare con il raggruppare le varie 12 declinazioni del concetto di folklore in due categorie: ad una prima classificazione si possono ricondurre le nozioni più ampie e comprensive (folklore sarebbe l'insieme delle espressioni di cultura tradizionale, conoscenze scientifiche etc.); ad una seconda categoria atterrebbero quelle più restrittive (folklore come insieme delle sole espressioni artistiche, o conoscenze relative ad uno specifico campo). Si tratta di nozioni che rispondono spesso a scelte di natura lato sensu politica. E' del 1952 la prima Conferenza Intergovernativa sul diritto d'autore, tenutasi a Ginevra e promossa dall'UNESCO, durante la quale la Delegazione jugoslava avanzò la proposta di inserire tra le opere protette anche “les oeuvres de l'art national”17. Si tratta della prima volta che il tema delle espressioni della cultura non ufficiale emerse sul piano internazionale. La proposta venne respinta e nessun riferimento a tali opere fu inserito nella Convenzione Universale del Diritto d'autore adottata in quella occasione. Per vedere comparire il termine “folklore” bisognerà attendere fino al 1963 quando, ad esito della Riunione africana di studi sul diritto d'autore, svoltasi a Brazzaville, venne adottata una Raccomandazione nella quale si sottolineava la necessità di salvaguardare il “folklore africano”, inteso come patrimonio culturale delle nazioni africane. Come si può notare, l'aspetto su cui si focalizza l'attenzione è quello della nazionalità. Secondaria è invece l'importanza attribuita alla individuazione dell'oggetto della tutela. Da un punto di vista storico-politico, ciò può essere meglio compreso alla luce della considerazione che quegli anni coincisero, per molti Stati africani, con l'affrancamento dal dominio coloniale e il conseguimento dell'indipendenza. Tale evento favorì a sua volta l'affermazione di idee nazionaliste, che avviarono operazioni di “ricerca” delle radici e dell'identità nazionale; operazioni, d’altra parte, che avrebbero dovuto coinvolgere qualunque campo nel quale si potesse ravvisare una specificità, una peculiarità da rivendicare come propria. Una conferma di quanto sostenuto può essere rinvenuta nei testi delle legislazioni interne di quegli stessi Stati. Nel 1966 fu approvata in Tunisia (indipendente dal 1956) una nuova legge sulla proprietà letteraria e artistica 18, che inserì espressamente nel novero 17 Cfr. Doc. DA/27, in Actes de la Conference intergouvernementale du droit d'auteur, UNESCO, 1954. 18 Legge n. 66-12 del 14 febbraio 1966. 13 delle opere tutelate le “opere ispirate al folklore”, “definite come le creazioni intellettuali ottenute con l'ausilio di elementi tratti dal patrimonio culturale tradizionale della Repubblica Tunisina”19. L'art. 6 affermava che il folklore fa parte del “patrimonio nazionale”. Analoga previsione è contenuta nella legge sulla protezione del diritto d'autore del Marocco (indipendente dal 1956)20. Anche qui si ritrova l'inclusione delle opere ispirate al folklore e il riferimento al patrimonio nazionale. Del 1973 è la legge del Senegal (indipendente dal 1960) 21 sul diritto d'autore: “(i)l folclore e le opere ad esso ispirate si considerano in detta legge (art. 1, comma 2, n. 13) come opere dell'ingegno a tutti gli effetti, con riserva peraltro delle disposizioni particolari inserite in una legge speciale in materia di protezione del patrimonio nazionale”22. Tra tali testi normativi, la legge senegalese è l'unica che contiene un riferimento espresso al folklore, mentre le altre due parlano di “opere ispirate al folklore”. Per quanto concerne la Jugoslavia di Tito, invece, si può ipotizzare che si volesse – anche per questa via – in qualche modo arginare le rivendicazioni nazionaliste dei diversi gruppi etnici presenti nel territorio dello Stato, che esplosero dopo la morte del maresciallo, con gli esiti a tutti noti23. Un ulteriore riferimento alle opere folkloriche si trova in un documento del 1967 stilato in occasione del “Seminario di diritto d'autore dell'Asia Occidentale”, tenutosi a New Delhi, durante il quale fu costituito un Comitato incaricato dello studio della questione relativa alle opere folkloriche. Tale orga19 20 21 22 23 G. GALTIERI, Folclore e diritto d'autore, in IDA, 1973, 391-392. Legge n. 1-69-135 del 29 luglio 1970 Legge n. 73-52 G. GALTIERI, Folclore e diritto d'autore, op. cit, 393-394. Durante il suo governo, Tito inaugurò quello che viene definito “nazionalismo jugoslavo”: dopo la rottura con l'URSS avvenuta nel 1948, la creazione di un'identità nazionale avrebbe agevolato l'accettazione della nuova linea politica, promossa come manifestazione della specificità jugoslava. Questo avrebbe dovuto anche calmare le pressioni dei diversi gruppi etnici presenti nel territorio jugoslavo (albanesi, serbi, croati, sloveni). In parte grazie a questa strategia, in parte grazie alle violente repressioni nei confronti delle rivendicazioni di tali gruppi etnici, fino alla morte di Tito – avvenuta nel 1980 – la situazione fu controllata. Negli anni successivi, l'assenza di una guida forte e lo scontento per una situazione economica sempre più difficile fecero riemergere antichi rancori etnici, alimentati da alcuni partiti e uomini politici, come Slobodan Milosevic, che colsero anche l'occasione di rafforzare il loro potere personale. Nel 1991, a seguito della proclamazione dell'indipendenza di Croazia e Slovenia, ebbero inizio le cc.dd. “Guerre jugoslave”, che si conclusero nel 1995, con la stipula degli “Accordi di Dayton”. 14 nismo elaborò una relazione in cui tali opere venivano assimilate alle opere anonime; funzione di questo lavoro era sollecitare una riflessione sulla materia, in vista della revisione della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche del 1886, che ebbe luogo nel 1971 con l'Atto di Parigi. Nello stesso 1967 la Delegazione indiana presso la Conferenza diplomatica di Stoccolma sulla proprietà intellettuale, preliminare alla revisione della Convenzione di Berna, propose l'inserimento nell'elenco delle opere protette anche delle “opere folcloriche”24 Si evidenzia peraltro come manchi, anche in questi documenti, un chiarimento su cosa si voglia intendere per “folklore”, a testimonianza della difficoltà di fornire una definizione specifica25 Il nuovo testo della Convenzione di Berna recepì sul piano terminologico tale impostazione, riferendosi all'art. 15, alinea 4, alle “opere non pubblicate di cui è ignota l'identità dell'autore”: “(s)i è, così, 'aggirata' la questione, prevedendo una nuova categoria di opere“26. Questa disposizione, per assoggettare tali opere alla disciplina della Convenzione, prevede l'ulteriore requisito che l'autore, per quanto sconosciuto, possa presumibilmente ritenersi appartenente ad uno dei Paesi dell'Unione (organismo del quale, ai sensi dell'art. 1, fanno parte tutti gli Stati che hanno ratificato la Convenzione). E' lasciato agli interpreti l'onere di definire i contorni dell'oggetto della disciplina. E, come era prevedibile, questo non è stato possibile, data l'ampiezza e soprattutto l'ambiguità della formula dell'art. 15. La disposizione solleva a ben vedere una serie di questioni: le opere folkloriche possono esservi fatte rientrare? E se sì, i due concetti coincidono? E se non coincidono, quello di opera folklorica è interamente compreso nel primo, oppure ne risultano escluse alcune sue parti? 24 Cfr. Doc. S/73, in Actes de la Conférence de Stockolm, 1967, I, 704 e II, 891. 25 G. GALTIERI, Folclore e diritto d'autore, op. cit., 381, sottolinea come questa difficoltà emerse anche nella proposta del Gruppo di Lavoro istituito per approfondire lo spunto della Delegazione indiana. Scrive lo stesso Galtieri: “è da rilevare che la proposta del Gruppo di Lavoro non parlava espressamente di 'opere folcloriche', trattandosi di espressione di difficile definizione: si riteneva tuttavia che la categoria 'opere di autore sconosciuto', oggetto della nuova disposizione proposta, data la sua ampiezza, ben potesse comprendere tutte le produzioni che sono generalmente individuate come 'opere folcloriche'”. 26 V. DE SANCTIS, La conferenza diplomatica di Stoccolma della proprietà intellettuale, in IDA, 1967, 338. 15 Si può notare preliminarmente come si dibatta non tanto sul concetto di folklore, quanto su quello di opera folklorica. Questo fatto è già di per sé significativo: si avverte la necessità di individuare un bene - o un complesso di beni (materiali o immateriali) - come tali suscettibili di valutazione economica, da assoggettare a tutela. E questo esclude ogni considerazione relativa al fenomeno da cui tali beni (rectius “opere”) traggono origine. A prescindere dalle conseguenze giuridiche di questa impostazione, si può sollevare il quesito se sia possibile considerare separatamente l'opera folklorica dal folklore, posto che né dell'una né dell'altro si chiarisce (o si conosce) l'effettiva portata. In dottrina ci si è chiesti a tale proposito “se e fino a che punto nella previ sione convenzionale del citato art. 15 possano considerarsi comprese le cosiddette 'opere folcloriche'” e, considerata la discordanza tra la “veste giuridica” data dalle Convenzione e la sostanza, si è affermato: “è necessario […] tentare una definizione o meglio una individuazione delle opere appartenenti al folclore che, pur prescindendo da qualunque rigore scientifico e dottrinario, abbia un valore essenzialmente pratico”27. Le cose non sarebbero migliorate con il successivo sviluppo del dibattito giuridico in materia: si ritroverà più volte il riferimento ad una nozione pratica e non scientifica di folklore, quasi alla stregua di una categoria di creazione legislativa, modellabile in funzione dell'applicazione di una specifica disciplina. Quanto alla questione relativa al fatto che nelle intenzioni della Convenzione di Berna la musica di autore sconosciuto rappresentasse semplicemente una formula meno impegnativa per intendere in realtà il folklore, parte della dottrina ha sostenuto che quella delle opere di autore sconosciuto fosse una categoria “di carattere generale, non quindi ristretta alle opere del folclore”28. Altra dottrina pone in risalto le opposizioni sollevate da alcuni Stati, alla luce del fatto che la proposta della delegazione indiana alla Conferenza di Stoccolma fu respinta nella parte in cui prevedeva l'inserimento nel testo della Convenzione di un riferimento alle opere folkloriche: “although supported by many delegations, doubts particularly by the Australian delegation with respect to applying the provisions of the Berne Convention (which was based on the protection of individual, identifiable authors) to folklore (which did not involve identifiable authors), resulted in the failure to adopt the pro27 Ibid. 28 Ibid. 16 posal of the Indian delegation, which included 'works of folklore' in the nonexclusive list of literary and artistic works of Article 2(1) of the Berne Convention”29. Tuttavia, si nota anche come “the Report of Main Committee I reveals that the main field of application of this new provision was supposed to be folklore”30. Per quanto riguarda l'Italia, alla Camera dei Deputati il 18 febbraio 1971 fu presentato il progetto di legge C. 3097, avente ad oggetto “Tutela e sviluppo delle attività musicali popolari”. Sotto questo nome sono però comprese sia la musica folklorica che la musica leggera, senza distinzione31. La musica popolare è considerata “di rilevante interesse generale, in quanto espressione di una caratteristica tradizione nazionale e per le incidenze sul tempo libero e sul gusto della comunità” (art. 1, comma 1). I termini “popolare” e “tradizione” sono usati, anche nel resto del progetto di legge, con una certa disinvoltura, che cela una totale assenza di approfondimento sulle tematiche in oggetto. L'unico riferimento specifico è contenuto nell'art. 6, che menziona “il patrimonio musicale del folclore regionale e nazionale”, anche qui senza chiarimenti ulteriori. Nella seconda metà degli anni '70 furono adottati due importanti atti, riferiti direttamente al solo continente africano, ma destinati a influenzare il dibattito su scala internazionale. Il primo è il Tunis Model Law on Copyright for Developing Countries del 1976, redatto da un Comitato di Esperti (Committee of Governmental Experts) con l'assistenza di UNESCO e WIPO. All'art. 18(iv) il folklore è definito come “all literary, artistic and scientific works created on national territory by authors presumed to be nationals of such countries or by ethnic communities, passed from generation to generation and constituting one of the basic elements of the traditional cultural heritage”. Il secondo atto è l'Accordo di Bangui, istitutivo dell'OAPI (Organisation Africaine de la Propriété Intellectuelle) adottato nel 1977, che all'art. 68 definisce il folklore come “the literary, artistic, religious, scientific, technological and other traditions and productions as a whole created by communities and handed down from generation to generation”. 29 S. VON LEWINSKI, The protection of Folklore, Symposium, Traditional Knowledge, Intellectual Property and Indigenous Culture, in Cardozo Journal of International and Comparative Law. 30 Ibid. 31 Cfr. L. LEONELLI, Per una legge sulla musica popolare, in IDA, 1972, 1 ss. 17 In entrambe le definizioni assume rilevanza la trasmissione orale (o materiale) ma è evidente una maggiore ampiezza della seconda rispetto alla prima. La divergenza tra le due definizioni si accentua scorrendo l'elenco (non tassativo) di tradizioni o produzioni che ai sensi dell'art. 68 dell'Accordo vanno in ogni caso incluse nelle espressioni di folklore 32: oltre alle produzioni letterarie e artistiche, vi si ricomprendono anche pratiche, usanze, credenze e addirittura “codes of manners and social conventions”. Una definizione che si avvicina molto a quella che si è vista essere la nozione antropologica di folklore. 32 Art. 68. Folklore. (1) Folklore means the literary, artistic, religious, scientific, technological and other traditions and productions as a whole created by communities and handed down from generation to generation. (2) The following, in particular, shall be included in that definition: (a) literary works of all kinds, whether in oral or written form, stories, legends, proverbs, epics, chronicles, myths, riddles; (b) artistic styles and productions: (i) dances, (ii) musical productions of all kinds, (iii) dramatic, dramatico-musical, choreographic and pantomime productions, (iv) styles and productions of fine art and decorative art by any process, (v) architectural styles; (c) religious traditions and celebrations: (i) rites and rituals, (ii) objects, vestments and places of worship, (iii) initiations; (d) educational traditions: (i) sports, games, (ii) codes of manners and social conventions; (e) scientific knowledge and works: (i) practices and products of medicine and of the pharmacopoeia, (ii) theoretical and practical attainments in the fields of natural science, physics, mathematics and astronomy; (f) technical knowledge and productions: (i) metallurgical and textile industries, (ii) agricultural techniques, (iii) hunting and fishing techniques. 18 2.2. Nozione di folklore nel linguaggio delle organizzazioni internazionali. Assieme al Tunis Model Law, l'Accordo di Bangui ha avuto una notevole influenza in sede di redazione delle Model Provisions for national laws on the protection of expressions of folklore against illicit exploitation and other prejudicial actions, emanate da WIPO e UNESCO nel 1985. Si tratta di un testo destinato a fungere da modello per l'adozione da parte dei singoli Stati di una legislazione diretta a tutelare le espressioni di folklore dalle utilizzazioni improprie. L'art. 2 definisce le “expressions of folklore” 33 come “productions consisting of characteristic elements of the traditional artistic heritage developed and maintained by a community […] or by individuals reflecting the traditional artistic expectations of such a community”. Il riferimento è da intendersi non al folklore generalmente inteso, ma a sue specifiche espressioni, che – per ragioni pratiche – vengono dettagliatamente chiarite nel Commentario34 annesso alle Model Provisions. Viene preliminarmente puntualizzato che si è deliberatamente omesso di fornire una definizione di “folklore”, per evitare possibili conflitti con eventuali nozioni contenute in atti normativi nazionali. La scelta della dicitura “expressions of folklore” è frutto delle indicazioni provenienti dal “Committee of Governmental Experts on the Safeguarding of Folklore”, riunitosi nel 1982; si è optato per questa espressione – e per quella di “productions” – in luogo di “works”, in quanto quest'ultima è tipica del linguaggio della legislazione sul copyright, mentre si voleva, anche sotto il profilo terminologico, mettere in risalto la natura sui generis delle disposizioni contenute nelle Model Provisions. 33 SECTION 2. Protected Expressions of Folklore For the purposes of this [law], "expressions of folklore" means productions consisting of characteristic elements of the traditional artistic heritage developed and maintained by a community of [name of the country] or by individuals reflecting the traditional artistic expectations of such a community, in particular: (i) verbal expressions, such as folk tales, folk poetry and riddles; (ii) musical expressions, such as folk songs and instrumental music; (iii) expressions by action, such as folk dances, plays and artistic forms or rituals; whether or not reduced to a material form; and (iv) tangible expressions, such as: (a) productions of folk art, in particular, drawings, paintings, carvings, sculptures, metalware, jewellery, basket weaving, needlework, textiles, carpets, costumes; (b) musical instruments; [(c) architectural forms]. 34 Reperibile all'indirizzo: www.wipo.int/wipolex/en/text.jsp?file_id=184668, parr. 31-39. 19 Si tratta, come si vede, di soluzioni che sono state dettate da scelte di natura politica o tecnico-giuridica. Anche in questo caso – come si è visto per la Conferenza di Stoccolma – si è tentato di aggirare l'ostacolo: in quel caso creando una categoria amplissima, nella quale anche (ma non solo) il folklore avrebbe potuto essere ricompreso; in questo, restringendo l'ambito di applicazione solo ad alcune espressioni di esso, nello specifico quelle artistiche. Questa circostanza solleva una domanda: è davvero possibile definire una parte del tutto, senza che risulti necessario definire il tutto? Ritengo che la risposta debba essere in senso negativo. Le stesse Model Provisions, malgrado l'intento dichiarato, non riescono ad esimersi totalmente dal fornire una definizione del concetto di folklore. Si legge nelle Introductory Observations: “[f]olklore is an important cultural heritage of every nation and is still developing – albeit frequently in contemporary forms – even in modern communities all over the world. […] Particularly in developing countries, folklore is a living, functional tradition, rather than a mere souvenir of the past”. Si parla di folklore, non di sue specifiche espressioni, ed emerge anche la consapevolezza di alcune fondamentali caratteristiche: la sua attualità; il fatto che sia in continuo sviluppo; il fatto che coinvolga qualunque tipo di società. Nel primo “considerando” si specifica che “folklore represents an important part of the living cultural heritage of the nation”. Ancora una volta si parla del folklore in generale, e se ne indica un ulteriore attributo: esso costituirebbe parte del patrimonio culturale della nazione. Nell'art. 2 la menzione alla “tradition” ricorre due volte e in entrambi i casi pare implicitamente considerata come un aspetto caratterizzante non le sole espressioni artistiche; al contrario, il testo della norma pare sottintendere che una espressione artistica possa essere ritenuta appartenente al folklore proprio in ragione dell'ulteriore requisito, consistente nel fatto di essere riconducibile ad una tradizione35. Inoltre il riferimento alla comunità che avrebbe sviluppato o che deterrebbe tale espressione artistica, a sua volta, ritengo non possa essere considerato un elemento autonomo; né pare dalla norma inteso come proprio delle sole “expressions of folklore”. Credo, invece, che l'opzione per una soluzione di compromesso abbia pro35 Tale circostanza pare trovare conferma nel par. 33 del Commentario, allorché si afferma: “'Traditional artistic heritage developed and maintained by a community'” is understood as representing a special part of the 'cultural heritage of the nation'.” 20 dotto un risultato, certamente non voluto, ma potenzialmente dannoso. Si riconoscono, infatti, ai fini della tutela, le espressioni artistiche riferibili a comunità appartenenti a singoli Stati. Questo porta infatti all'esclusione delle comunità (etniche, religiose, linguistiche etc.) che, come in numerosi casi accade, hanno una distribuzione territoriale non coincidente con quella di un singolo Stato. La conseguenza di ciò è che tali ultime espressioni, ai sensi dell'art. 2, o non risultano essere “expressions of folklore” o non sono ritenute meritevoli di tutela. In entrambi i casi l'esito è poco convincente. Questo ragionamento da anche la misura di come sia nei fatti impossibile separare il campo giuridico da quello antropologico: la mancata considerazione di un aspetto fondamentale ha prodotto una soluzione inaccettabile sotto il profilo dei diritti umani. Anche dal punto di vista dei contenuti, la scelta di restringere il campo di applicazione presenta alcune criticità. Come si è detto, le interrelazioni tra culture “forti” e culture in posizione subalterna sono state (e sono) soggette a variazioni nel corso della storia. Analogamente, in ogni periodo storico, su base territoriale varia il modo delle une di relazionarsi alle altre. Accanto a fenomeni di forte commistione – come avviene in particolare nei Paesi sviluppati – vi sono casi di culture in conflitto con quelle dominanti (circostanza, anzi, piuttosto frequente), o che si sviluppano quasi isolate. Questi fenomeni incidono in grande misura non solo sulle produzioni culturali di tali minoranze, ma anche sul loro modo di elaborare determinati concetti – come quello di cultura – che spesso non corrispondono alle categorie occidentali. Ciò che secondo tali categorie non è arte, potrebbe esserlo secondo altre, e viceversa. Alla luce di questo, ci si chiede sulla base di quali criteri andrebbero selezionate le espressioni artistiche degne di essere protette. Anche in questo caso, il risultato della scelta operata nelle Model Provisions è poco convincente; e lo è sia con riferimento alle culture con limitato grado di interconnessione con quelle dominanti (per le quali è più probabile che si riscontrino importanti differenze nella elaborazione dei concetti di cultura e simili), sia con riferimento a quelle in conflitto o perseguitate da governi centrali o locali (che sarebbero gli stessi deputati, ai sensi delle Model Provisions, a individuare in un eventuale futuro atto normativo quali espressioni culturali includere e quali escludere dal regime di tutela, o a nominare l'autorità competente ad adempiere tale compito). 21 E' fonte di confusione, inoltre, la coesistenza di più atti normativi di livello sovranazionale, che disciplinano la materia in esame sotto profili differenti, talvolta stabilendo un espresso coordinamento tra di essi, talvolta no. Per quanto riguarda la prima ipotesi, è il caso della Convenzione Universale del Diritto d'autore e della Convenzione di Berna: con l'Atto di Parigi del 1971, di revisione di entrambe le Convenzioni, sono stati anche disciplinati i loro reciproci rapporti. Ma tale coordinamento, invece di chiarire la situazione, la ha paradossalmente complicata: si è stabilito, infatti, che nei rapporti tra gli Stati appartenenti all'Unione di Berna non trovi applicazione la Convenzione Universale, con l'eccezione dei Paesi in via di sviluppo, che possono ottenere una deroga a questo principio36. Questo significa che per uno stesso Stato, la medesima forma di espressione può essere priva di rilievo ai sensi della Convenzione Universale, ma riconosciuta come appartenente alle opere di autore sconosciuto (formula già di per sé piuttosto ambigua) nei rapporti interni all'Unione. Nei rapporti dei lavori dell'Intergovernmental Copyright Committee, che so36 Appendix declaration relating to Article XVII. The States which are members of the International Union for the Protection of Literary and Artistic Works (hereinafter called `the Berne Union') and which- are signatories to this Convention, Desiring to reinforce their mutual relations on the basis of the said Union and to avoid any conflict which might result from the co-existence of the Berne Convention and the Universal Copyright Convention, Recognizing the temporary need of some States to adjust their level of copyright protection in accordance with their stage of cultural, social and economic development, Have, by common agreement, accepted the terms of the following declaration: (a) Except as provided by paragraph (b), works which, according to the Berne Convention, have as their country of origin a country which has withdrawn from the Berne Union after 1 January 1951, shall not be protected by the Universal Copyright Convention in the countries of the Berne Union; (b) Where a Contracting State is regarded as a developing country in conformity with the established practice of the General Assembly of the United Nations, and has deposited with the Director-General of the United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, at the time of its withdrawal from the Berne Union, a notification to the effect that it regards itself as a developing country, the provisions of paragraph (a) shall not be applicable as long as such State may avail itself of the exceptions provided for by this Convention in accordance with Article Vbis; (c) The Universal Copyright Convention shall not be applicable to the relationships among countries of the Berne Union in so far as it relates to the protection of works having as their country of origin, within the meaning of the Berne Convention, a country of the Berne Union. 22 vrintende all'applicazione della Convenzione Universale, si ritrovano costanti riferimenti al folklore, nei confronti del quale in particolare i Paesi in via di sviluppo chiedono maggiore attenzione, ma si tratta di riferimenti piuttosto generici al concetto, che non ne forniscono una definizione compiuta. Nel corso delle ultime sessioni i riferimenti sono diventati quantitativamente e qualitativamente sempre minori, fino a scomparire nell'ultima , la XIV, tenutasi nel giugno del 2010 37. Dopo le Model Provisions, inoltre, WIPO e UNESCO hanno seguito strade separate. L'UNESCO ha avviato dal 1993 un percorso che ha portato, dieci anni più tardi, all'emanazione della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003. L'art. 2 stabilisce che “per 'patrimonio culturale immateriale' s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”38. Una definizione piuttosto ampia, che coincide per alcuni aspetti con quella antropologica di folklore. Ma con una importante parti37 I rapporti delle ultime tre sessioni sono reperibili al seguente indirizzo: http://portal.unesco.org/culture/en/ev.phpURL_ID=36777&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html 38 Art. 2 Definizioni (estratto) Ai fini della presente Convenzione, 1. per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. Ai fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio culturale immateriale unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile. 2. Il “patrimonio culturale immateriale” come definito nel paragrafo 1 di cui sopra, si manifesta tra l’altro nei seguenti settori: a) tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; b) le arti dello spettacolo; c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; e) l’artigianato tradizionale. 23 colarità: viene qui in risalto il concetto di patrimonio. Di per sé questo fatto non è insolito: si è visto infatti come tale concetto ricorra con una certa frequenza negli atti normativi che disciplinano la materia. Ma a renderlo anomalo in questo caso è una serie di circostanze: dove si è visto menzionato, il concetto di patrimonio era associato o a definizioni del tutto vaghe, e quindi privo di consistenza (ad esempio quando si parla di “patrimonio delle nazioni africane”, “patrimonio culturale della nazione”, etc.), oppure a singole o specifiche espressioni culturali. In questa sede, invece, patrimonio è considerato l'insieme di tutte le manifestazioni culturali di una comunità. Nel linguaggio giuridico, patrimonio è un complesso di beni suscettibili di valutazione economica. Ma in questo caso pare che tale tipo di valutazione non abbia ragion d'essere: prima di tutto, perché non esistono singoli beni; in seconda istanza, perché sarebbe incompatibile con la politica generale UNESCO. Peraltro, i principi formulati dalla Convenzione, sono dalla stessa contraddetti nella disciplina delle politiche attuative. Come è noto, da anni ormai l'UNESCO cataloga espressioni del patrimonio culturale immateriale di tutto il mondo, includendole in una lista da essa stessa creata. Prescindendo per il momento dai criteri e dalle modalità seguite per l'inclusione, appare contraddittorio un sistema che pretenda di poter selezionare cosa includere e cosa no, dopo aver statuito che la cultura immateriale è qualcosa di più delle sue singole manifestazioni39. Tanto più che i riconoscimenti sono centellinati: in Italia dal 2003 ad oggi lo hanno ottenuto solo il canto a tenore sardo, il teatro dei pupi siciliano e, da ultimo, la dieta mediterranea. Un approccio che appare in una certa misura paternalistico, e ben poco coerente con l'obbiettivo di garantire una tutela effettiva ed efficace. L'inadeguatezza è dimostrata anche dal fatto che, malgrado l'affermazione secondo cui il patrimonio immateriale è riferibile alle comunità (non meglio specificate) e “dà loro un senso d’identità e di continuità”, vi sono stati casi di espressioni riconosciute come riferibili a Stati che non avevano alcun legame territoriale con esse, o addirittura 39 Scrive in proposito Ignazio Macchiarella: “la politica Unesco sembra ancora delineare l’idea di una visione del mondo piuttosto semplicistica, articolata in culture delimitate e definite, in un quadro statico di una mera compresenza all’interno di territori nazionali. Una prospettiva contraria alle stesse dichiarazioni di principio del programma ICH dell’Unesco [...], ma che tuttavia risulta evidente in tanti atti formali” (I. MACCHIARELLA, Dove il tocco di Re Mida non arriva. A proposito di proclamazioni Unesco e musica, in La Ricerca Folklorica, 63, 2011, in corso di pubblicazione). 24 rappresentavano una vera e propria minaccia per l'esistenza della relativa comunità40. Per di più, le politiche ICH non sono coordinate con quelle dell'Intergovernmental Copyright Committee, con la conseguenza (sempre prescindendo in questa sede da analisi di tipo giuridico) che una medesima manifestazione culturale può ricevere dalla stessa UNESCO una diversa considerazione, anche sotto il profilo definitorio, a seconda della disciplina da applicare. La WIPO, da parte sua, ha intrapreso un progetto in qualche modo parallelo a quello dell'UNESCO: a parte le differenze dal punto di vista dei termini, nella sostanza il materiale al quale si rivolgono gli interessi di entrambe le istituzioni appare in molti punti coincidente, mentre differenti sono i metodi e gli obbiettivi. Nel 2000 WIPO ha istituito l'Intergovernmental Committee on Intellectual Property and Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore (di seguito denominato IGC), con il compito di favorire la negoziazione tra gli Stati membri, al fine di pervenire alla redazione di uno strumento legislativo condiviso che assicuri una effettiva protezione per le materie di competenza. Si tratta dunque di una strategia ad ampio spettro, che coinvolge non solo le espressioni letterarie e artistiche, ma anche il vasto ambito delle conoscenze tradizionali (come quelle in campo medico, scientifico, agricolo), fino ad abbracciare specificità territoriali come la biodiversità. L'IGC si riunisce ogni sette-otto mesi; all'esito di ogni riunione vengono prodotte delle Draft Provisions divise per i tre ambiti (TK, TCEs/Folklore, GRs), contenenti un documento preliminare (predisposto dal Segretariato) e un annesso, con il testo aggiornato delle proposte (Revised Provisions), corredato da un Commentario41. Si opera quindi una distinzione tra le espressioni culturali (rectius produzioni culturali) ed altri aspetti che secondo la concezione antropologica andrebbero 40 I. MACCHIARELLA, op. cit., menziona due casi, entrambi con protagonista la Cina: “nel corso dell’Intergovernmental Committee di Abu Dhabi (tenutosi nell'aprile 2007, nda), si è arrivati ad esiti, diciamo così, paradossali quali l’attribuzione al patrimonio “nazionale” cinese del Koomei mongolo (richiesta del governo centrale cinese con il consenso di 'local governments, governing bodies and related academic and professional institutions') e del teatro tibetano in cui ben evidenti sono ragioni che poco hanno a che fare con la valorizzazione delle diversità culturali del mondo” (la prima proposta non è stata accolta, e il Koomei è stato infine attribuito alla Mongolia nel 2010; la seconda proposta, invece, è diventata realtà, e la Tibetan opera è entrata nel 2009 a far parte del catalogo UNESCO). 41 Le Draft Provisions della XVII sessione dell'IGC sono reperibili all'indirizzo: http://www.wipo.int/edocs/mdocs/tk/en/wipo_grtkf_ic_17/wipo_grtkf_ic_17_4. pdf 25 senz'altro ricompresi nel concetto di cultura popolare, che sono destinatari di interventi specifici e differenziati. Malgrado l'ambito di intervento, così come formulato da WIPO, sia denominato Traditional Cultural Expressions/Folklore, nelle Draft Provisions il riferimento è non al folklore in generale, ma alle “expressions of folklore” 42, a dimostrazione del fatto che ancora una volta si ritiene necessario circoscrivere il raggio d'azione a elementi singolarmente identificabili, data la difficoltà di comprendere la categoria generale alla quale tali elementi sono riconducibili. D'altra parte, altre “porzioni” di folklore formano i restanti due ambiti (in particolare quello del Traditional Knowledge, data la natura delle Genetic Resources, che non sono direttamente riferibili ad un contributo umano). 42 “Traditional cultural expressions” and/or “expressions of folklore” [are] and any forms,[whether] tangible [and][and/or] or intangible or a combination thereof, in which traditional culture and knowledge are expressed, appear or are manifested, [and comprise:] and are passed on from generation to generation, including: / such as but not limited to the following forms of expressions or combinations thereof: (a) phonetic or verbal expressions, such as: stories, epics, legends, poetry, riddles and other narratives; words, signs, names, and symbols, etc.; (b) musical or sound expressions, such as songs, rhythms, [and] instrumental music and popular tales; (c) expressions by action, such as dances, plays, ceremonies, rituals, sports and traditional games and other performances, theater, including, among others, puppet performance and folk drama, whether or not reduced to a material form; and, (d) tangible expressions, such as productions of art, in particular, drawings, designs, paintings (including body-painting), wooden carvings, sculptures, mouldings, pottery, terracotta, mosaic, woodwork, metalware, jewelry, baskets, food and drink, needlework, textiles, glassware, carpets, costumes, works of mas, toys, gifts and; handicrafts; musical instruments; stonework, metalwork, spinning, and architectural and/or funeral forms. 2. Protection shall extend to those “traditional cultural expressions” or “expressions of folklore” which are: (a) the products of creative intellectual activity, including individual and communal creativity; (b) [characteristic] indicative of authenticity/being genuine of [a community’s] the cultural and social identity and cultural [heritage] of indigenous peoples and communities and traditional and other cultural communities; and (c) maintained, used or developed by [such community] indigenous peoples and communities and traditional and other cultural communities, or by individuals having the right or responsibility to do so in accordance with the customary [law] land tenure system or law/ normative systems [and] or traditional/ancestral practices of [that community] those indigenous peoples and communities and traditional and other cultural communities, or has an affiliation with an indigenous/traditional community. 3. The specific choice of terms to denote the protected subject matter should be determined at the national, sub-regional and regional levels. 26 La separazione degli ambiti di intervento, infine, conferma quanto detto sulla difficoltà occidentale di comprendere i fenomeni estranei senza ricondurli a categorie note; in particolare, per quanto di interesse, l'ampiezza della categoria delle “espressioni culturali” appare frutto di una scelta arbitraria. Restano valide le considerazioni svolte sopra in merito alla pericolosità di una impostazione di questo genere. Il Commentario alle Draft Provisions mostra come i termini adoperati siano il risultato di una intensa negoziazione tra le delegazioni degli Stati membri, e mostra anche quanta incertezza vi sia tra le stesse parti nell'individuare l'oggetto di tutela43. Concludendo, numerosi sono gli Stati che hanno adottato una legislazione interna sulla protezione del folklore, delle espressioni culturali tradizionali, delle conoscenze tradizionali, ispirata in alcuni casi alla formula delle Model Provisions, in altri all'impostazione dell'attuale politica WIPO, e talvolta anche sulla base di un sistema autonomamente predisposto. Di conseguenza, anche la molteplicità delle definizioni ha nel tempo assunto una distribuzione capillare, che allo stato attuale appare incontrollabile44. 2.3. Nozione di folklore nella dottrina giuridica. La nozione di folklore ha impegnato anche le riflessioni della dottrina, sia nello sforzo di comprendere i termini utilizzati dal diritto positivo, sia nel 43 Tra le osservazioni dei delegati, due sono particolarmente interessanti: a) “The Delegation of the Republic of Korea suggested that, in paragraph (1), the term 'traditional' be clearly defined. It believed that the main objective for protecting TCEs was to provide protection to those TCEs containing sufficient value to be protected that would not fall under the scope of the conventional copyright protection regime. As 'cultural expressions' could generally be subject for protection under the existing copyright regime, the core concept applicable to deciding the subject matter of TCE protection should be the term 'traditional'. Although subparagraph (2)(b) could help in defining this term, using the words 'cultural and social identity' and 'cultural heritage', these words too were broad concepts. 'Traditional' was, therefore, not clearly defined”. b) “The Delegations of Cameroon, China, Colombia, the Russian Federation, Spain, Sudan and Switzerland suggested adding an article or glossary setting out definitions of key terms. It was believed to be necessary to use unified terminology for the concepts as the establishment of a working definition of TCEs was one of the prerequisites of a substantive discussion. The Delegation of Switzerland said that existing relevant international terminology, including the definition of 'intangible cultural heritage' of the 2003 UNESCO Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural Heritage, should also be taken into account by the Committee”. 44 Si rimanda al Capitolo III per un'analisi più approfondita sotto il profilo giuridico. 27 tentativo di proporre nuovi contributi per la definizione del concetto. Non essendo possibile passare in rassegna in questa sede la grande quantità di materiale prodotto dagli studiosi del diritto, si è scelto perciò di esaminare alcuni contributi che apparivano particolarmente significativi. Un primo orientamento dottrinale45, risalente alla prima metà degli anni settanta, nel riferirsi al folklore forniva un quadro piuttosto ambiguo. In primo luogo la musica “folcloristica” era considerata come sempre anonima e di pubblico dominio, escludendo perentoriamente dalla categoria musiche non ancora cadute in pubblico dominio e/o di cui sia identificabile un primo autore. Gli studiosi del folklore sostengono che ciò che rileva al fine della qualificazione della musica come folklorica (oltre alla considerazione del contesto sociale) sono piuttosto le dinamiche di produzione e trasmissione: seppure un autore fosse identificabile, il suo apporto originario non avrebbe rango di creazione individuale, perché sarebbe subito sviluppato e aggiornato da nuovi contributi. La chiusura dell'orientamento in parola sul punto non è, peraltro, fondata su considerazioni di carattere scientifico. Lo stesso concetto di pubblico dominio appare vago: in alcuni punti si afferma che il folklore è “musica di tutti”; cosa evidentemente diversa dal pubblico dominio, che indica semplicemente che un'opera è attualmente fruibile liberamente da chiunque, senza versare un corrispettivo all'autore. Dire che è musica di tutti significa affermare che è riconosciuta come propria da tutti; ma chi siano questi “tutti” non è specificato. Secondo tale orientamento, infine, la musica folklorica appartiene solo al passato. Sostenere questo, e contemporaneamente affermare che la stessa musica folklorica (e la musica leggera) “sono, in un determinato momento storico ed in un determinato paese, accolte come l'espressione più sentita ed intima dello stato d'animo del popolo” 46 appare contraddittorio: anche questo concetto è privo di ulteriori chiarimenti. Si riscontra maggiore approfondimento in alcuni orientamenti della dottrina più recente47, che definiscono il folklore come “l'insieme delle tradizioni popolari di una regione, di un paese, di un gruppo etnico, in tutte le manifestazioni culturali che ne sono espressione (e che in quanto popolari si contrappongono alla cultura della classe colta, ove questa ci sia), cioè usi, costumi, leggende, credenze e pratiche religiose o magiche, racconti, proverbi e 45 L. LEONELLI, Per una legge sulla musica popolare, op. cit. 46 Ivi, 2. 47 F. DE PROPRIS, La tutela delle opere folkloriche, in EM, 2003, I, 97 ss. 28 quanto altro è tramandato per tradizione orale”. Appare qui la consapevolezza della ampiezza del concetto di folklore e della contrapposizione culturale tra differenti classi sociali, che ne è alla base. Ancora, si afferma che gli aspet ti folklorici di quasi tutte le culture “vanno scemando, stanno subendo profonde metamorfosi per effetto della globalizzazione della cultura in atto nella società occidentale”. L'opera folklorica è il frutto dell'elaborazione di tradizioni popolari. Si parla di opera dell'ingegno collettivo: collettiva non è l'opera, ma proprio l'ingegno che sta alla base della sua creazione. Può essere frutto anche dell'attività di un singolo individuo, ma “condivisa ed elaborata nell'immediatezza dagli altri componenti la comunità e tramandata […] attraverso la tradizione orale per entrare a far parte del patrimonio culturale comune, tanto da perdersi le tracce, se vi è stato, del singolo autore, o iniziatore”48. Una interessante prospettiva si ritrova anche in un altro autore 49, che considera il folklore una categoria comprensiva, che include anche l'insieme delle conoscenze tradizionali, che si è visto essere comunemente ricomprese nella categoria della Traditional Knowledge: “While the statutory illustrations appear to exclude plant varieties grown by farmers, and plant extracts developed by local medicine men, those items certainly qualify as works of folklore to the extent that these techniques embody scientific techniques passed down through generations in the community. The knowledge they embody is priceless and, once lost, cannot be recovered. Widespread abuses in the exploitation of such types of traditional knowledge certainly justify their inclusion in any protective legal regime”50. L'ONU, che già attraverso l'UNESCO è impegnata, come si è rilevato, su due diversi fronti (quello del copyright e quello della tutela del patrimonio culturale immateriale), tramite la UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Developement) – di concerto con l'ICTSD (International Center for Trade and Sustainable Developement) – ha avviato da alcuni anni un progetto denominato Project on Intellectual Property Rights and Sustainable Development che, negli ultimi dieci anni, ha incluso tra i suoi ambiti di intervento an48 Ivi, 100. 49 P. KURUK, Protecting Folklore Under Modern Intellectual Property Regimes: a Reappraisal of the Tension Between Individual and Communal Rights in Africa and the United States , in 48 Am. U.L. Rev., 1999, 769 ss.; 50 Ivi, 779-780. 29 che quello del folklore e della Traditional Knowledge. Il progetto ha la funzione di promuovere la ricerca sulle possibilità di utilizzo degli strumenti offerti dai diritti di proprietà intellettuale per favorire uno sviluppo sostenibile, in particolare per i Paesi del terzo mondo e per quelli in via di sviluppo. Non sono stati elaborati atti formali, ma sono state finanziate ricerche e studi che hanno condotto a numerose pubblicazioni51. In una di queste, dedicata proprio a folklore e TK, ci si propone di ricostruire l'intreccio delle concezioni legate a questi due concetti, ma nella sostanza, a parte una scarna distinzione 52, nel saggio le due nozioni sono esaminate separatamente. Quanto al folklore, accogliendo la definizione data da WIPO e UNESCO, si afferma : “Folklore […] is tradition based, collectively held, is orally transmitted, and a source of cultural identity” 53. Si sostiene inoltre che la percezione del folklore da parte dell'Occidente è diversa da una tale concezione “because traditional knowledge and art forms no longer constitute an integral part of most people’s lives, and may even be considered as archaic”. Questa differente percezione può essere riscontrata “not only among people in developed countries, but also among urban elites in developing countries”. Per le popolazioni indigene (“indigenous peoples”), invece, “folklore is not a historical phenomenon, but, as UNESCO recognises, is living and evolving, handed down from generation to generation orally rather than in fixed form, and is an essential aspect of cultural identity”. Emerge qui la considerazione dell'esistenza di più concezioni in conflitto: una propria dell'Occidente, basata su una visione “distorta” del folklore, ed una propria delle società primitive, che invece lo vivono come elemento fondante della loro esistenza. In una certa misura, si ritrova qui la teoria dei dislivelli di cultura54, che riemerge anche nella parte dedicata alla definizione della Traditional Knowledge. Si tratta di uno spunto interessante, che tuttavia 51 Tra le tante pubblicazioni vi è una collana di saggi, Issue Papers, commissionati a esperti ed accademici, ognuno dei quali si occupa di uno specifico argomento attinente al progetto. Il primo di essi, firmato da Graham Dutfield e pubblicato nel 2003, è dedicato proprio a folklore e TK: v. G. DUTFIELD SENIOR, Protecting Traditional Knowledge and Folklore, in Issue Papers, 2003, I. 52 Ivi, 20: “Traditional knowledge commonly refers to knowledge associated with the environment rather than knowledge related to, for example, artworks, handicrafts and other cultural works and expressions (which tend to be considered as elements of folklore)”. 53 Ibid. 54 L'Occidente, in quanto parte ricca e sviluppata del Mondo, può essere inteso in senso lato come classe egemonica al tempo della globalizzazione. 30 non viene sviluppato compiutamente: traspare un'idea semplicistica del fenomeno, nel senso che permane l'idea che il folklore sia riferibile solo a popolazioni indigene o comunque che vivono ai margini della società. Così come quando, parlando della TK, si fa riferimento a suoi presunti “detentori”, che vivono prevalentemente nelle aree rurali e in alcuni casi in quelle urbanizzate. La considerazione della tensione tra classi sociali è presente anche in altra parte della dottrina55, che sostiene l'esistenza, oggi, di due interpretazioni del concetto di folklore, in conflitto tra di loro: per l'Occidente il folklore sarebbe l'insieme delle espressioni artistiche della cultura di un popolo, tramandate per generazioni, che dovrebbero essere preservate per non scomparire; per le comunità a cui è riferibile “folklore is a living heritage that is an integral part of their lives and whose character is necessarily evolutionary”. E' comunque possibile individuare due caratteristiche comuni a entrambe le concezioni, che sono individuate in “anonimity” e “traditional character”, alle quali occasionalmente si affianca “the oral mode of transmission”. Si è già affrontata la questione della natura anonima del folklore che, per quanto prevalente, non è necessariamente l'unica possibile. Emerge poi, qui, l'idea dell'oralità nella trasmissione come elemento non essenziale del folklore, ma solo occasionale: circostanza questa che trova effettivi riscontri presso molte culture, ma che viene generalmente ignorata da testi normativi e dottrina giuridica. Dopo aver esposto le ragioni per cui una nozione ampia del concetto di folklore risulta di difficile accoglimento, si afferma che ciò porta a propendere per una nozione limitata alle sole espressioni artistiche: “it seems preferable to consider folklore only as being the expressions of traditional artistic creation; otherwise, the system of protection would be rendered impractical” 56. Il folklore costituirebbe “a sub-totality of the cultural heritage of a nation”, ed in particolare quella parte del patrimonio culturale caratterizzata dall'intervento creativo dell'uomo, “which excludes in particular natural sites, ethnological material or the products of archaeological excavations”. Prevalgono dunque le ragioni pratiche su quelle scientifiche, al fine di una determinazione del concetto che sia funzionale ad una forma di tutela giuridica. 55 A. LUCAS-SCHLOETTER, Folklore, in AA. VV., Indigenous Heritage and Intellectual Property, Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, a cura di S. Von Lewinsky, Kluwer Law International, 2008, 339 ss. 56 Ivi, 349. 31 Concludendo, si nota come una piena consapevolezza della riflessione antropologica sul concetto di folklore sia rimasta fuori dal dibattito giuridico, come se essa non rilevasse ai fini della comprensione del fenomeno. Ritengo che, finché si proseguirà per questa via, non si potrà giungere ad una soluzione condivisa e condivisibile. 3. La questione dei cc.dd. “detentori”. È frequente nel linguaggio giuridico il riferimento alle comunità (o in alcuni casi agli individui) da cui le espressioni culturali tradizionali – variamente denominate – proverrebbero. In particolare, vengono sovente utilizzate espressioni quali “holders”57 (detentori) e “bearers”58 (portatori), allo scopo di individuare il soggetto, collettivo o individuale, da consultare ai fini dell'elaborazione di una strategia legislativa in materia di espressioni culturali tradizionali o al quale una eventuale tutela debba riferirsi. Occorre interrogarsi se una tale terminologia abbia un fondamento scientifico e, in caso negativo, se possa comunque avere una validità in campo giuridico. Le “expectations of traditional knowledge holders” sono oggetto di uno studio commissionato dalla WIPO all'inizio degli anni duemila 59. Tali “aspettative” vengono individuate per aree geografiche con lo scopo di fungere da 57 Cfr, tra gli altri, S.R. MUNZER, The Uneasy Case for Intellectual Property rights in Traditional Knowledge, in Cardozo Arts & Entertainment Law Journal, 2009, 27, 37ss.; D.J. GERVAIS, Spiritual but not Intellectual? The Protection of Sacred Intangible Traditional Knowledge, in Cardozo Journal of International and Comparative Law, 2003, 11, 467 ss.; C. OSI, Understanding Indigenous Dispute Resolution Processes and Western Alternative Dispute Resolution: Cultivating Culturally Appropriate Methods in Lieu of Litigation, in Cardozo Journal of Conflict Resolution, 10, 163ss. 58 V. ad esempio L.M. MORAN, Intellectual Property Law Protection for Traditional and Sacred "Folklife Expressions" - Will Remedies Become Available to Cultural Authors and Communities?, in University of Baltimore Intellectual Property Law Journal, 6, 1998, 99 ss.; F. FRANCIONI, Beyond State Sovereignty: the Protection of Cultural Heritage as a Shared Interest of Humanity , in Michigan Journal of International Law, 25, 2004, 1209 ss. 59 Lo studio è reperibile su internet, diviso in due parti, ai seguenti indirizzi: http://www.wipo.int/tk/en/tk/ffm/report/final/pdf/part1.pdf; http://www.wipo.int/tk/en/tk/ffm/report/final/pdf/part2.pdf. Esso si ricollega al percorso intrapreso dalla WIPO con l'istituzione – avvenuta nel 2000 – dell'Intergovernmental Committee on Intellectual Property and Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, con funzioni di raccordo tra gli Stati nell'elaborazione di strumenti di tutela, nell'ambito della proprietà intellettuale, in materia di risorse genetiche e conoscenze tradizionali. 32 base per le future attività dell'organizzazione in materia di tutela delle conoscenze tradizionali e delle espressioni di folklore. Al significato di “traditional knowledge holder” è dedicata una definizione piuttosto sintetica, secondo cui l'espressione è utilizzata “to refer to all persons who create, originate, develop and practice traditional knowledge in a traditional setting and context”. Il riferimento al contesto tradizionale, tuttavia, è del tutto vago: manca, infatti, una qualunque definizione, che consentirebbe di meglio interpretare i risultati dello studio. Tanto più che, come si specifica, “[i]ndigenous communities, peoples and nations are traditional knowledge holders, but not all traditional knowledge holders are indigenous”. Anche, perciò, volendo adottare una nozione restrittiva dell'aggettivo “indigeno”, nel senso di attribuirgli una specifica funzione di connotazione etnica e geografica, l'espresso riconoscimento della circostanza per cui non tutti i detentori sono “indigeni” porta ad un'estensione della definizione potenzialmente illimitata. È possibile comprendere meglio tutto ciò se si esamina come il concetto di comunità in senso antropologico sia mutato nel tempo. I fenomeni migratori, già a partire dalla prima metà del novecento, avevano intaccato la validità delle concezioni che tendevano a considerare i gruppi sociali (e le loro manifestazioni culturali) come mondi separati gli uni dagli altri, chiusi al contatto con l'esterno e geograficamente localizzati. Lo spostamento di masse di individui verso altri Paesi o continenti aveva determinato una loro, talora estrema, dispersione. Molti mantenevano il contatto con il Paese o la comunità di origine, altri vi facevano ritorno dopo qualche tempo. Questi aspetti posero nuovi interrogativi, che non ricevevano risposte convincenti sotto le vecchie concezioni. L'inattualità di queste ultime è divenuta ancora più evidente con lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie – internet in particolare – che hanno consentito un contatto immediato e costante tra individui e culture che fino ad allora avevano avuto scarse occasioni di incontro. Nuove comunità “delocalizzate” si sono formate, altre si sono riorganizzate proprio sfruttando i nuovi mezzi di comunicazione, “al punto che alcune culture nazionali sembrano oggi avere i loro centri più attivi al di fuori dello stato nazionale”60. Risulta, pertanto, scientificamente inesatto delimitare una comunità con riferimento sia al profilo soggettivo che a quello geografico, tenuto anche 60 U. FABIETTI – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia, Milano, 2002, 100-101. 33 conto del fatto che i requisiti per essere riconosciuti membri di una comunità variano da società a società. Come il concetto di cultura, quello di comunità appare perciò – per quanto funzionale a esigenze espositive – vago e, soprattutto, variabile a seconda dell'elemento – condiviso dai soggetti considerati in quanto membri appunto di una specifica comunità – considerato nella singola analisi. In altre parole, lo stesso soggetto può appartenere a distinte comunità a seconda che lo si consideri, ad esempio, come seguace di una determinata religione, appartenente ad un determinato gruppo etnico, esponente di una specifica espressione culturale 61. Proprio con riferimento a quest'ultimo aspetto, va rilevata, sulla scorta di quanto detto, la fallacia di quelle norme giuridiche che fanno coincidere la comunità dei detentori con la comunità dei soggetti residenti in una determinata regione. Ciò per due ragioni: da un lato, come si è detto, una stessa espressione culturale può essere praticata anche al di fuori dell'area di origine 62; da un altro lato, i soggetti che “detengono” una determinata espressione culturale costituiscono di frequente un nucleo limitato, dal quale sono esclusi gli stessi appartenenti al gruppo sociale di provenienza che non siano dotati di specifici requisiti63. É comunque possibile rinvenire nel linguaggio normativo qualche segnale di apertura verso una nozione di comunità più ampia. La convenzione UNESCO sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, non fornendo una definizione di “comunità”, quantomeno non esclude questa possibilità. Le Draft Provisions WIPO, nell'attuale versione, all'art. 5, nel definire i beneficiari della protezione, accanto alle “local communities” menzionano delle non meglio specificate “cultural communities”. Ciò che, 61 Con riferimento a tutti gli aspetti accennati nel testo si veda, per una trattazione più approfondita, v. RAPPORT, N., Community, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 142 ss. Cfr. anche U. FABIETTI – R. MALIGHETTI – V. MATERA, op. cit., e AUGE', M. - COLLEYN, J.P., L'Antropologia del Mondo Contemporaneo, Milano, 2006 [2004]; 62 Posto che si possa individuare l'area di origine di una determinata espressione culturale – operazione, peraltro, tutt'altro che semplice, considerato che anche le espressioni di origine più remota sono a loro volta frutto di influenze da parte di altre culture – nell'epoca attuale accade di frequente che individui provenienti da una determinata regione si stabiliscano in un'area geografica differente, portando con sé alcuni elementi della propria cultura di provenienza. Capita altrettanto spesso che espressioni culturali, anche tradizionali, vengano praticate da soggetti non appartenenti alla comunità di riferimento dell'espressione medesima. 63 Ad esempio, i suonatori di un determinato strumento o i cantori in un particolare stile vocale non sono necessariamente – ed anzi non sono quasi mai – tutti gli abitanti di una specifica area geografica. 34 tuttavia, ostacola nei fatti questo processo sono le dinamiche con cui le due organizzazioni operano. In quanto organi di Stati, e perciò privi di una propria sovranità autonoma, hanno come unici interlocutori gli Stati stessi, ai quali in ultima istanza spettano le scelte legislative in materia, comprese quelle riguardanti l'individuazione dei soggetti e delle comunità. Questa circostanza non è priva di conseguenze: anzitutto, in sede consultiva verrebbero sentiti soltanto soggetti positivamente riconosciuti come membri di una comunità sulla base di criteri in una certa misura arbitrari. In secondo luogo, in sede di applicazione delle normative di tutela delle espressioni culturali tradizionali, i soggetti beneficiari della tutela finirebbero per essere solo alcuni membri delle comunità, anche in questo caso selezionati arbitrariamente. Le conseguenze maggiori si possono apprezzare proprio nella fase applicativa della normativa. Si pensi ad esempio all'art. 4 delle Draft Provisions (che riprende una disposizione già presente nelle Model Provisions all'art. 3) il quale prevede la necessità di autorizzazione per l'utilizzazione di espressioni culturali tradizionali che facciano riferimento a comunità presenti nel territorio dello Stato. Già di per sé l'autorizzazione rischierebbe di essere discriminatoria, escludendo dalla consultazione membri della stessa comunità residenti nel territorio di un altro Stato. Inoltre, una ulteriore discriminazione potrebbe essere prodotta dal fatto che lo Stato, ai fini della concessione dell'autorizzazione, può attribuire tale compito alla stessa comunità interessata. La determinazione dei criteri per l'individuazione dei soggetti appartenenti alla comunità potrebbe essere rimessa alla stessa, ma anche allo Stato. In proposito, la previsione inserita nello stesso art. 5 secondo cui i criteri per l'autorizzazione possono fare riferimento a norme non statali, ma consuetudinarie, potrebbe assicurare una minore arbitrarietà. Ma, come detto, si tratta di scelte discrezionali, che non garantiscono una uguaglianza di trattamento all'interno dei diversi Stati. Infine, manca del tutto nei testi normativi esaminati la considerazione delle ipotesi, peraltro molto frequenti, in cui specifiche espressioni culturali – appartenendo a rituali o cerimonie segrete o comunque non aperte a tutti i membri della comunità – siano conosciute e praticate solo da soggetti appartenenti alla stessa titolari di un particolare status o incarico. È presente, all'art. 3 delle Draft Provisions, un riferimento alle espressioni culturali segrete e alla necessità che si adottino misure atte ad impedirne la pubblicizzazione, 35 ma si omette di specificare che in tali casi la potenziale “minaccia” proverrebbe non solo dall'esterno, ma da tutti i soggetti (compresi i membri della comunità interessata) che non siano in possesso di determinati requisiti. Sarebbe opportuna, in tali casi, quantomeno una riformulazione della definizione di “detentore” o “portatore”. 4. L'incerta definizione di musica di tradizione orale. È opportuno a questo punto definire il concetto che sta alla base di questo lavoro, quello di “musica di tradizione orale”. Comunemente, nella musica come anche nel linguaggio, il concetto di oralità viene inteso in contrapposizione a quello di scrittura: tradizione orale contro tradizione scritta, perciò, come due modalità alternative di trasmissione di informazioni. Gli studi più recenti in materia hanno tuttavia posto in risalto numerosi aspetti cui non era stata dedicata in passato sufficiente attenzione. Il primo di tali aspetti riguarda proprio il rapporto tra oralità e scrittura. Anzitutto, nel campo del linguaggio, la comparsa della scrittura e la sua adozione da parte di un popolo non ha mai determinato una automatica scomparsa dell'oralità, per il fatto che nella generalità dei casi la prima era appannaggio delle classi sociali più elevate, che rappresentavano una percentuale minoritaria della popolazione. I due sistemi hanno continuato a coesistere per lungo tempo, senza che il secondo venisse mai abbandonato del tutto64. La scrittura musicale, inoltre, non compare né si sviluppa necessariamente in parallelo con l'altro tipo di scrittura. Vi sono infatti esempi di società che conoscono quest'ultima, ma utilizzano per la musica un sistema di trasmissione orale. Si è anche ipotizzato in dottrina che il rapporto tra oralità e scrittura – musicale nello specifico – sia correlato al grado di professionalizzazione della pratica musicale nelle diverse società, e che tale professionalizzazione sia a sua volta collegata con la complessità dell'organizzazione sociale65. 64 V. J. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, in Enciclopedia della Musica Einaudi V/2005, 367 ss.; v. anche P. SHEHAN CAMPBELL, Orality, Literacy and Music's Creative Potential: A Comparative Approach, in Bulletin of the Council for Research in Music Education, 101, 1989, 30 ss.; 65 Cfr. J. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, op. cit. 36 Rimanendo nel campo della musica, è fondamentale notare come la scrittura, quando esista, investe solo una parte delle informazioni trasmissibili. Ciò vale anche per il sistema di notazione “classico”, quello attualmente più diffuso. L'idea della partitura come sede di tutti i dati necessari all'esecutore, da riprodurre fedelmente (con la sola variabile dell'interpretazione) nasce nel corso del romanticismo, e condiziona la produzione musicale successiva. La concezione romantica della composizione come momento creativo in cui si manifestava la genialità individuale dell'autore, richiedeva come indispensabile corollario la fissazione “esatta” in forma scritta del risultato della creazione, che è stato in seguito fatto oggetto di un ossequio quasi religioso. Ma è stato in particolare l'insegnamento accademico dei secoli successivi che ha teso a cristallizzare il contenuto delle partiture, omettendo di considerare il ruolo che l'estemporaneità giocava anche per i musicisti romantici, presso i quali l'improvvisazione era una pratica tutt'altro che desueta. È perciò fuorviante considerare oralità e scrittura come due processi separati. Ciò che emerge è invece una loro forte compenetrazione, anche nella cosiddetta “musica colta” europea del XIX secolo. I meccanismi della trasmissione orale sono piuttosto complessi e differiscono da società a società, da un'espressione musicale ad un'altra, essendo legati anche alle modalità di produzione musicale, agli strumenti utilizzati e a numerose altre variabili. Sono state tuttavia individuate alcune costanti. La più importante di esse è che l'oralità non è mai solo oralità. Si è parlato in proposito di “auralità”, per significare un processo che implica non solo l'apprendimento da una fonte esterna (il maestro insegna all'allievo cosa fare) ma anzitutto – talvolta soprattutto – tramite l'osservazione, l'ascolto e l'imitazione66. Malgrado l'opinione comune, che associa la tradizione orale alla antichità 66 Si è osservato in dottrina che, a seguito dello sviluppo di nuove tecnologie che hanno consentito la registrazione, quindi la fissazione di una specifica performance per un tempo indefinito, si è affiancata a questo un diverso tipo di auralità – definita “tecnica”: “[la musica si può apprendere ascoltando le registrazioni degli artisti preferiti e cercando di imitarli: non è necessario il passaggio attraverso la scrittura e ci si avvicina in questo modo alle condizioni dell'oralità tradizionale. Non vi è certamente più quell'antico rapporto tra maestro e allievo, bensì un legame inedito, nel quale avviene effettivamente qualcosa. Non si parlerà quindi di tradizione orale, poiché l'allievo non ascolta più direttamente il maestro che gli parla, bensì di tradizione puramente aurale, e tale auralità è di natura tecnica” (J. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, op. cit., 405). 37 dell'espressione trasmessa, presso numerose culture la composizione individuale assume un ruolo centrale, e vengono costantemente creati nuovi canti o musiche, il cui autore è noto e talvolta questi esercita professionalmente all'interno della comunità proprio l'incarico di musicista/compositore 67. Quello che rende queste ipotesi peculiari rispetto alla musica “scritta”, prima ancora dell'assenza di una partitura su carta, è la variabilità ad esse connaturata: l'apporto creativo iniziale assume un valore equivalente a quello delle successive modifiche, al punto che in alcuni casi lo stesso compositore giunge a definire sé stesso come “strumento” della comunità, e le musiche da lui composte come espressione della stessa. Ciò che pare essere il discrimine tra musica scritta e musica di tradizione orale è un differente rapporto gerarchico tra testo ed esecutore, ed in particolare un differente grado di variabilità. Nella prima la variazione investe l'aspetto interpretativo, mentre nella seconda “[l]a variazione è [...] presente a tutti i livelli d'organizzazione della musica, dalle unità di base ai motivi, alle sequenze e alle opere”68. Secondo uno schema comune alle espressioni musicali orali, la variazione non interessa mai tutti gli aspetti dell'opera o della musica eseguita, ma invece “[l]a variabilità di un livello è compensata dalla fissità di un altro69”. In proposito sono però opportune alcune puntualizzazioni: le considerazioni svolte si possono applicare agevolmente alla musica c.d. “classica” fino alla prima metà del '900, più precisamente alle modalità di esecuzione di tale musica attualmente insegnate in conservatori e accademie musicali 70. Sono invece difficilmente adattabili a differenti tipi di musica, pure basati sull'esistenza di una partitura scritta, sviluppatisi a partire dalla prima metà del 67 Si veda ad esempio BLACKING, J., Challenging the Myth of 'Ethnic' Music: First Performances of a New Song in an African Oral Tradition, 1961, in Yearbook for Traditional Music, 21, 1989,17 ss., in cui sono esaminate le dinamiche di creazione e sviluppo di nuovi canti in diverse tradizioni africane. 68 J. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, op. cit., 377. 69 Ibid, 379; si veda anche in proposito B.H. BRONSON, Melodic Stability in Oral Transmission, in Journal of the International Folk Music Council, 3, 1951, 50 ss. 70 Come detto poco sopra, anche presso i compositori classici e gli esecutori, fino al XIX secolo, la pratica dell'improvvisazione era piuttosto comune, tanto da essere alla base di uno stile compositivo, quello dell'improvviso. Tra gli interpreti tale pratica tese a scomparire all'inizio del XX secolo: il pianista F. Busoni affermava, non a torto, di essere l'ultimo improvvisatore sulle partiture di J.S. Bach. Attualmente lo studio dell'improvvisazione è stato espunto dai programmi dei corsi tradizionali dei Conservatori, fatta salva l'eccezione dello studio della improvvisazione organistica nelle scuole di organo. 38 ventesimo secolo71. Si potrebbe allora affermare che la differenza risiede in un differente rapporto tra originale e sue modifiche: mentre nella musica orale ogni modifica ha pari valore rispetto all'originale – tanto che ogni nuovo apporto si stratifica sui precedenti – nella musica scritta la partitura funge da modello fisso di riferimento per ogni successiva modifica 72. Si potrebbe d'altra parte obbiettare che si tratti di differenze di grado, non di genere, non idonee a tracciare una linea netta di demarcazione tra i due sistemi 73. Malgrado ciò, la categoria della musica di tradizione orale continua ad avere una sua fondatezza scientifica, e presenta caratteristiche sufficientemente precise da consentirne una trattazione autonoma74. Gli elementi esaminati portano a distinguere inoltre la musica di tradizione orale da altre categorie che presentano alcune affinità con essa, ma che non le sono interamente assimilabili: 71 Si pensi al jazz, dove la variazione investe non più il solo aspetto interpretativo, ma pure l'armonia, la melodia, la struttura e l'arrangiamento; oppure alla musica contemporanea, dove spesso la partitura contiene indicazioni di massima riferite ad elementi musicali non trascrivibili con la notazione convenzionale, in relazione ai quali l'esecutore ha un grado di autonomia esecutiva più o meno elevato. Si veda su tali profili O.B. AREWA, From J.C. Bach to Hip Hop: musical borrowing, copyright and cultural context, in North Carolina Law Review, 84, 547 ss., che analizza la questione con particolare riferimento al genere musicale del rap. 72 Anche questo non è però sempre vero. Si può affermare che non sia il genere musicale a influenzare le modalità di trasmissione, scritta o orale, ma l'esatto contrario. 73 È proprio appellandosi a ciò che parte della comunità etnomusicologica sostiene l'opportunità di una riforma della disciplina del diritto d'autore, nel senso dell'attribuzione di un maggior valore alla performance, a scapito della partitura. Nella dottrina giuridica O.B. AREWA, From J.C. Bach to Hip Hop, op. cit, evidenzia l'anacronismo dell'attuale sistema di tutela del diritto d'autore, e ne auspica una rinnovazione. 74 P. Shehan Campbell, ad esempio, sostiene che la differenza tra i due sistemi sia “marcata”, in ragione proprio del differente rapporto tra esecutore e musica eseguita: “When orality is operationally defined as the transmission of music through the aural/oral mode, this definition does not always imply precise imitation of the transmitter by the receiver. Rather, the absence of notation releases the performer from strict adherence to every detail of performance. Freedom from reading notation eases restrictions in performance and allows for greater creative expression through improvisation. Notational literacy, as it is currently defined in the west, accepts little variation from one musician to the next. The contrast with orality, where the expectations range from imitative performance to highly individual interpretations within a framework, is marked” (P. SHEHAN CAMPBELL, Orality, Literacy and Music's Creative Potential, op. cit, 32). 39 a) Musica di tradizione orale e musica di creazione estemporanea. La categoria della musica di tradizione orale va anzitutto distinta dalla musica improvvisata, sia con riferimento all'improvvisazione radicale che a quella basata su schemi ritmici, melodici o armonici prefissati. Beninteso, la differenza risiede nel fatto che l'improvvisazione, basandosi su una sorta di composizione estemporanea, non può per definizione presupporre una tradizione. Tuttavia, sono numerose le musiche di tradizione orale che prevedono la pratica dell'improvvisazione. In questo caso, si parlerà di tradizione orale con riguardo agli schemi improvvisativi, non all'improvvisazione in sé; b) Musica di tradizione orale e composizioni ispirate a musiche di tradizione orale. Non rientrano poi nella categoria della musica di tradizione orale le composizioni ispirate a musiche trasmesse oralmente. In quest'ultimo caso, infatti, malgrado la base compositiva sia fornita da una musica non scritta, l'apporto creativo di uno o più autori determinati e l'originalità dell'opera (ove sussista e sia verificata) ne consentono la tutela tramite i comuni strumenti di protezione del diritto d'autore e, in particolare, per quelli riservati alle variazioni musicali costituenti di per sé opera originale (ex art. 2, comma 1 n. 2 l. aut.) Infine, per indicare la musica di tradizione orale, si utilizza spesso l'espressione “musica tradizionale”. In dottrina si è sostenuto che una tale terminologia sarebbe impropria in quanto ciò che può essere definito tradizionale, tutt'al più, è il modo di trasmissione, non la musica in sé 75. Quanto al concetto di tradizione, inoltre, la stessa dottrina ha evidenziato come si cada di frequente nell'errore di intendere tale processo come una perpetuazione immutata dal passato di una forma espressiva (nel nostro caso, di una espressione musicale). Al contrario, “une tradition se (re)construit chaque jour; elle est donc fondamentalement active et, productrice de sens, elle mobilise ses acteurs. Elle est donc tout sauf un phénomène naturel et se présente comme une configuration changeante, suscitant des conduites parfois hésitantes et des comportements fragiles”76. 75 V. LORTAT-JACOB, B., Musiques du monde: le point de vue d'un ethnomusicologue, (URL http://www.sibetrans.com/trans/trans5/lortat.htm). 76 Ibid. 40 CAPITOLO II ESPRESSIONI MUSICALI DI TRADIZIONE ORALE E PROSPETTIVE DI PROTEZIONE 1. La questione della applicabilità della legislazione sul diritto d'autore. Nel tentare di rispondere al quesito se e in quali termini la musica di tradizione orale possa ricevere una tutela nell'ambito dell'attuale disciplina del diritto d'autore è necessario affrontare alcune questioni preliminari 77. La prima questione da esaminare riguarda l'oggetto della tutela. Partendo dalla “Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche”78 (di seguito CUB) ai sensi dell'art. 2, comma 1, rientrano nell'ambito di applicazione della Convenzione medesima “le composizioni musicali con o senza parole” e “le opere drammatico-musicali”. L'art. 2, n 2) l. aut., che riprende la nozione della CUB, aggiunge al novero delle opere protette “le variazioni musicali costituenti di per sé opera originale”. 77 Si farà riferimento, a tal fine, ai principi espressi nella “Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche”, e per quanto concerne la normativa di dettaglio alla legislazione italiana – come esempio di ordinamento di civil law - e a quella degli Stati Uniti, in quanto ordinamento di common law. La legge fondamentale in materia di diritto d'autore in Italia è la legge 633/1941, di seguito denominata “l. aut.”); negli Stati Uniti la materia è disciplinata in particolare dal “Copyright Act” del 1976. Negli ordinamenti di common law, tendenzialmente, le opere letterarie, artistiche, musicali e le altre opere creative in genere sono tutelate secondo un sistema parzialmente diverso da quello del diritto d'autore, tipico degli ordinamenti di civil law. Tale sistema prende il nome di copyright, e si caratterizza per una minore ampiezza rispetto al diritto d'autore. Essendo stato ideato per scopi prevalentemente commerciali, esso – come appare dallo stesso nome – ha ad oggetto essenzialmente il diritto di copiare e riprodurre l'opera, ed ha come destinatari privilegiati non tanto gli autori, quanto gli editori e gli altri soggetti che svolgono professionalmente attività di pubblicazione e diffusione delle opere creative. Per queste ragioni, il copyright non contempla l'esistenza di diritti morali che – come invece avviene nei sistemi di civil law – permangono in capo all'autore indipendentemente dalla cessione dei diritti di utilizzazione economica dell'opera ed hanno una durata illimitata. 78 La Convenzione di Berna è stata conclusa nella capitale elvetica nel 1886. L'Italia vi ha aderito nel 1978, con la legge di ratifica n. 399/1978, che recepisce il testo della Convenzione risultante dalla revisione introdotta dall'Atto di Parigi del 1971, mentre non è stata recepita l'ultima revisione, risalente al 1979. Gli Stati Uniti hanno aderito nel 1989, dopo aver opposto a lungo il loro rifiuto. Proprio a seguito di tale rifiuto, e di quello dell'Unione Sovietica, fu stipulata a Ginevra nel 1952 la Convenzione Universale del Diritto d'Autore. Attualmente, dopo il crollo dell'Unione Sovietica e la ratifica da parte degli Stati Uniti della Convenzione di Berna, la Convenzione di Ginevra resta solo formalmente in vigore, ma è priva di efficacia pratica. 41 L'art. 2, comma 2 CUB rimette agli Stati la scelta se tutelare solo le opere “fissate su un supporto materiale” o meno. Dall'analisi della legislazione statunitense (art. 102 Copyright Act) – come pure si rileva tendenzialmente negli altri ordinamenti di common law – emerge che essa ha optato per la prima soluzione, mentre per la disciplina italiana del diritto d'autore, citata come esempio di ordinamento di civil law, questa facoltà è stata esercitata solo con riferimento alle opere coreografiche e pantomimiche (art. 2, n. 3, l. aut.). Le opere letterarie e artistiche sono invece espressamente protette “tanto se in forma scritta quanto se orale”. In assenza di espressa previsione in senso contrario, questa soluzione deve ritenersi tacitamente operante anche con riferimento alle altre opere tutelabili ai sensi della l. aut., comprese quelle musicali. Ma, come si è rilevato in dottrina, “perché un'opera venga ad esistenza, non basta sia concepita nella mente dell'autore, occorre anche sia estrinsecata o con la fissazione su un supporto materiale […], o con la comunicazione (orale) ad altra persona”79. Passando dal piano dell'oggetto della tutela a quello dei soggetti, diversi dati normativi depongono nel senso di precludere la protezione a quelle espressioni musicali che si fondano su una tradizione orale 80. Il primo di tali dati è costituito dalla necessità che l'opera sia riferibile ad uno o più autori determinati, ai quali imputare i diritti morali e patrimoniali derivanti dalla titolarità dell'opera stessa81. Ai sensi della l. aut. l'autore ha, ad esempio, il diritto esclusivo – salva la facoltà di cessione ad un terzo – di pubblicare l'opera e di utilizzarla economicamente (art. 12), di eseguirla o rappresentarla in pubblico82 (art. 15), di modificare, elaborare e trasformare l'opera (art. 18). È agevole notare come questa previsione si scontri con le dinamiche di pro79 AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, III, Torino, 2009, 563. 80 Si veda in proposito M. TORSEN, Reflections on Intellectual Property, Traditional Knowledge and Cultural Expressions: Intellectual Property and Traditional Cultural Expressions: a Synopsis of Current Issues, in Intercultural Human Rights Law Review, 3, 2008, 199 ss., che si occupa delle cosiddette “Traditional Cultural Expressions”, categoria all'interno della quale rientra a buon diritto anche la musica di tradizione orale; v. anche P. KURUK, Protecting Folklore Under Modern Intellectual Property Regimes: a Reappraisal of the Tension Between Individual and Communal Rights in Africa and the United States, in 48 Am. U.L. Rev., 1999, 769 ss, spec. 791 ss. 81 L'art. 9 l. aut. riconosce all'autore la facoltà di restare anonimo o di utilizzare uno pseudonimo. 82 Ai sensi dell'art. 15, comma 2 l. aut. “Non è considerata pubblica la esecuzione, rappresentazione o recitazione dell'opera entro la cerchia ordinaria della famiglia, del convitto, della scuola o dell'istituto di ricovero, purché non effettuata a scopo di lucro”. 42 duzione della musica di tradizione precedentemente esaminate 83. La stratificazione di più interventi creativi e la variabilità connaturata all'oralità, infatti, non permettono di qualificare l'opera orale nemmeno come opera collettiva in senso proprio84. Ciò anche nelle ipotesi in cui siano identificabili uno o più autori85, il cui apporto creativo non fissa comunque l'opera in una forma cristallizzata. In questi casi esecuzione e composizione si confondono a tal punto che ogni nuova esecuzione costituisce anche una nuova creazione. L'autore è anche il soggetto legittimato all'esercizio dei diritti morali 86 derivanti dalla titolarità dell'opera. Tali diritti vengono ascritti alla categoria costituzionalmente tutelata dei diritti della personalità 87, come tali intrasferibili ed irrinunciabili dall'autore. Alla morte di quest'ultimo, tali diritti possono essere esercitati, senza limiti di tempo, dai prossimi congiunti (art. 23 l. aut). In alcuni casi, in presenza di specifiche esigenze derivanti da finalità pubbliche, l'azione a tutela dei diritti morali può essere esercitata anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Pertanto, come è stato rilevato in dottrina, “nella ipotesi di opere anonime, quali possiamo intendere anche le opere folkloriche, ove si concretizzi una violazione meritevole di tutela come lesione del diritto morale d'autore, di fatto essa sarebbe inattuabile per difetto di legittimati”88. In secondo luogo, sono previsti limiti di durata per i diritti patrimoniali spettanti all'autore, che decadono dopo settant'anni dalla morte dello stesso o 83 V. supra, Cap. I, par. 2. 84 In dottrina si è parlato in proposito di “opera dell'ingegno collettivo” (F. DE PROPRIS, La tutela delle opere folkloriche, in EM, 2003, I, 97 ss.). 85 Si veda in proposito J. BLACKING, Challenging the Myth of 'Ethnic' Music: First Performances of a New Song in an African Oral Tradition, 1961, in Yearbook for Traditional Music, 21, 1989,17 ss. 86 Secondo la tradizionale ricostruzione, il diritto d'autore è un diritto bipartito: da un lato vi è il diritto patrimoniale – liberamente trasferibile dall'autore a terzi – dall'altra il diritto morale, comprendente, ai sensi dell'art. 20, comma 1 l. aut. (che riprende quanto disposto dall'art. 6-bis CUB), “il diritto di rivendicare la paternità dell'opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell'opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione”. L'autore non può rinunciare ai diritti morali derivanti dalla titolarità di un'opera da egli creata, né può trasferirli a terzi, anche quando abbia trasferito i diritti di utilizzazione economica. Il diritto morale è una peculiarità degli ordinamenti di civil law, data la difficoltà nei sistemi di common law (che configurano il diritto d'autore in termini di copyright) a concepire l'esistenza del diritto di rivendicare la paternità di un'opera scollegato dalla titolarità dei diritti patrimoniali. 87 Cfr. P. RESCIGNO, Personalità (diritti della), in Enciclopedia giuridica, XXIV/1991. 88 F. DE PROPRIS, op. cit, 114. 43 dalla data di prima pubblicazione89, decorsi i quali l'opera cade in pubblico dominio. Nella maggioranza dei casi è impossibile individuare il momento esatto in cui un'opera trasmessa oralmente è venuta ad esistenza, e si tratta sovente di espressioni musicali la cui genesi è piuttosto remota. Di conseguenza, se anche in ipotesi fosse astrattamente applicabile la disciplina del diritto d'autore, non lo sarebbe in concreto nella generalità dei casi. Per quanto attiene al profilo del contenuto dell'opera tutelabile, anche il requisito della originalità – richiamato dalla l. aut. ed espressamente richiesto dal Copyright Act come caratteristica essenziale di un'opera che ambisca alla protezione – appare difficilmente adattabile alla musica di tradizione orale, per ragioni analoghe a quelle espresse 90 con riguardo in particolare ai meccanismi di trasmissione e fruizione di tale musica. Fenomeni come l'imitazione, la rielaborazione e l'utilizzo in varie forme di elementi melodici, armonici o ritmici preesistenti, che nell'ambito dell'attuale sistema costituirebbero violazioni (quantomeno in assenza di autorizzazione da parte dell'autore) sono invece connaturati al concetto di oralità, ed è proprio tramite essi che un'espressione musicale orale manifesta la sua vitalità. Il requisito della fissazione su un supporto materiale (non richiesto nel nostro ordinamento, ma richiesto invece in quello statunitense, dove è funzionale al claim of copyright) pone in risalto anch'esso l'inadeguatezza della disciplina del copyright rispetto allo scopo della protezione della musica di tradizione orale. Se da un lato è vero che per “supporto materiale” non si intende necessariamente una partitura cartacea – ben potendo rientrare nella nozione anche una registrazione fonografica – va d'altro canto rilevato che il concetto di fissazione è antitetico rispetto a quello di variazione. La protezione del risultato di una singola esecuzione, cristallizzato ad esempio in un disco, risulterebbe perciò non solo insoddisfacente, ma addirittura contraddittoria rispetto agli obbiettivi prospettati. Si aggiunga che gli ordinamenti 89 Per le opere anonime, pseudonime e collettive la durata dei diritti patrimoniali è di settant'anni dalla data di prima pubblicazione. L'attuale termine di settant'anni (per tutte le opere) è stato introdotto in Italia dalla legge 6 febbraio 1996, n. 52, di attuazione della direttiva 93/83/CEE. Prima dell'entrata in vigore di tale legge il termine di durata era di cinquant'anni, a seconda dei casi dalla morte dell'autore o dalla prima pubblicazione (art. 7, comma 1 CUB e artt. 25 ss. l. aut.). Negli Stati Uniti, come in Italia, la protezione è assicurata per settant'anni dalla morte dell'autore, mentre nel caso di opere collettive tale termine decorre dalla morte dell'ultimo coautore sopravvissuto. 90 V. supra, Cap. I. par. 2. 44 ispirati alla CUB accordano tutela alle sole espressioni artistiche (musicali per quanto interessa il presente lavoro) pubbliche, ossia quelle che siano offerte “alla conoscenza di un pubblico indifferenziato”91. Vengono in rilievo in proposito quelle espressioni che – in ragione della loro funzione all'interno della comunità di riferimento – non possano essere rivelate 92, quali ad esempio quelle relative a rituali praticati in segreto. Sarebbe evidentemente inaccettabile esigere la loro rivelazione per assoggettarle a tutela. Ciò che, tuttavia, appare dirimente, con riferimento ai modelli occidentali di tutela del diritto d'autore – con ciò riferendosi ai modelli tanto di civil law quanto di common law – è la considerazione del sistema nel suo complesso. L'elemento sul quale tale sistema si fonda è l'opera, o più precisamente una specifica nozione di “opera” intesa come “oggetto di arte plastica considerato nella sua singolarità”93, frutto della genialità individuale dell'autore. Posto che una tale impostazione non è pacifica in dottrina – dove si è più volte sottolineato come non sia concepibile nei fatti una nozione di originalità in termini assoluti94 – il sistema in parola omette invece di prendere in considerazione l'esistenza di un vastissimo campo occupato da fenomeni musicali che non rientrano in tale nozione, e che per questa ragione non trovano una tutela soddisfacente sotto l'attuale disciplina95. La musica di tradizione orale è solo uno di tali fenomeni, senza dubbio uno di quelli che pongono i quesiti di più difficile soluzione, dato il rilievo che in materia assumono questioni non strettamente correlate al campo della proprietà intellettuale, quali ad esempio l'esigenza di garantire il rispetto del sentimento religioso di comunità e gruppi sociali, e di conseguenza quella di garantire una tutela effettiva, non semplicemente formale. In proposito, tornando sulla nozione di opera 91 F. DE PROPRIS, op cit, 110. 92 Cfr. M. TORSEN, Reflections on Intellectual Property, Traditional Knowledge and Cultural Expressions: Intellectual Property and Traditional Cultural Expressions: a Synopsis of Current Issues, in Intercultural Human Rights Law Review, 3, 2008, 199 ss., che pone una questione analoga con riferimento al pubblico dominio. 93 Così L. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, in Enciclopedia della Musica Einaudi V/2005, 378, che contrasta tale concezione. 94 Si vedano su tali profili e per un'analisi storica delle ragioni che hanno ispirato l'attuale sistema occidentale di tutela del copyright: M. CARPENTER, Intellectual Property Law and Indigenous Peoples: Adapting Copyright Law to the Needs of a Global Community, in Yale Human Rights & Development Law Journal, 7, 2004, 51 ss; O. B. AREWA, From J.C. Bach to Hip Hop: musical borrowing, copyright and cultural context, in North Carolina Law Review, 84, 2006, 547 ss. 95 Si veda in proposito O. B. AREWA, op. cit. 45 sopra ricordata, va rilevato come essa sia senz'altro inadeguata con riferimento alla musica orale, per i motivi in precedenza esposti. Nella dottrina etnomusicologica si è discusso sulla possibilità di concepire un'opera orale 96, con risposte tendenzialmente positive. Ma si è visto che il riconoscimento dell'esistenza di categorie di opere non coincidenti con quella presa a riferimento dalla maggioranza delle legislazioni, porta inevitabilmente a concludere per l'inapplicabilità di queste ultime a tali categorie, pena una forzatura del dettato normativo. 1.1. Modelli innovativi di gestione dei diritti. È opportuno in conclusione un cenno ad alcuni meccanismi di circolazione delle opere dell'ingegno che hanno recentemente avuto particolare sviluppo, e che possono incidere sulle vicende che riguardano le espressioni musicali tradizionali. La diffusione delle nuove tecnologie, infatti, consentendo scambi di informazioni in maniera sempre più rapida su scala mondiale, ha fatto emergere con prepotenza la scarsa flessibilità degli attuali sistemi di tutela del diritto d'autore (o del copyright). In particolare, gli organismi che svolgono professionalmente l'attività di intermediazione nella gestione dei diritti d'autore su mandato degli autori stessi impongono generalmente a questi ultimi la riserva di tutti i diritti (di utilizzazione economica) 97. Da più parti si è sostenuto che un tale meccanismo rappresenterebbe un iniquo contempera96 Si veda in proposito J. MOLINO, op. cit, il quale afferma: “Ciò che conferma l'esistenza di opere orali è che le differenti versioni da noi considerate come realtà musicali diverse corrispondono, per coloro che appartengono alla cultura interessata, a una sola e unica unità. […] Dal punto di vista logico, la nozione di opera si basa sull'esistenza di un criterio d'identità, e gli appartenenti a una cultura orale possiedono proprio un criterio d'identità 'emico': la variazione esiste e ha senso solo in rapporto a costanti di cui essa rappresenta il rovescio”. 97 In Italia, l'art. 180 l. aut. attribuisce alla SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) – ente pubblico economico – la competenza a svolgere attività di intermediazione nella gestione dei diritti d'autore in via esclusiva. L'autore che non intenda provvedere da sé alla gestione dei propri diritti (operazione peraltro piuttosto ardua) è tenuto ad associarsi alla SIAE. Una volta associato, inoltre, è implicitamente vincolato al deposito di tutte le opere future, sulla base della disposizione di cui all'art. 3 del Regolamento SIAE, secondo cui “l'iscritto ha l'obbligo di dichiarare tempestivamente tutte le opere destinate alla pubblica utilizzazione sulle quali abbia od acquisti diritti”. Nella maggior parte degli altri ordinamenti europei ed in quelli anglosassoni le società di intermediazione non operano in regime di esclusiva, quindi si attua una maggiore concorrenza, con una – in alcuni casi notevole – riduzione dei costi derivanti all'autore dal rapporto di affiliazione. 46 mento tra l'interesse dell'autore a percepire un compenso per l'utilizzo delle proprie opere (e a che queste non vengano modificate senza il suo consenso), da un lato, e quello della collettività alla libera fruizione della cultura, dall'altro, bloccando in molti casi processi creativi che includano l'utilizzo a vario titolo di opere (o parti di esse) create da altri. Per queste ragioni numerosi organismi privati senza fini di lucro hanno elaborato differenti modelli di licenze, attraverso cui l'autore può decidere quali diritti di utilizzazione della propria opera riservare, e in relazione a quali scopi. Tra le licenze più flessibili vi sono quelle “Creative Commons” che, ferma l'attribuzione all'autore della paternità della propria opera, possono articolarsi in modo più o meno restrittivo nei confronti dei terzi utilizzatori98. Vengono in rilievo in particolare due tipi di licenze – “Attribuzione-Non Commerciale-Condividi allo stesso modo” e “Attribuzione-Condividi allo stesso modo”, attraverso le quali l'autore autorizza a priori qualunque modificazione dell'opera (nel primo caso solo per scopi non commerciali, nel secondo anche per scopi commerciali), a condizione che ne venga riconosciuta la paternità (nei modi indicati dall'autore stesso, che facciano intendere con chiarezza che la modifica non è stata anche da lui approvata) e che le successive elaborazioni vengano dai rispettivi autori licenziate con lo stesso tipo di licenza. Si potrebbe giungere a ritenere che tali licenze, consentendo la libera modificabilità dell'opera originaria ed avendo un regime di fruizione dotato di un grado di libertà piuttosto elevato, possano – magari con alcuni adattamenti – essere estese alle opere orali, che riceverebbero in questo modo una tutela dotata di una veste giuridica più confacente alle loro peculiarità. Senonché anche in questo caso alcuni dati conducono a negare questa possibilità. Anzitutto, è da rilevare che la natura della licenza è quella di una dichiarazione, di provenienza dell'autore, con la quale questi si impegna a non esercitare alcuni specifici diritti di utilizzazione economica relativi ad una determinata sua opera, nei confronti di tutti i futuri possibili fruitori. Ma tale dichiarazione non incide in nessun modo sulla disciplina di legge, che pertanto continua ad applicarsi anche alle opere licenziate. Da ciò consegue 98 Le licenze Creative Commons attualmente previste sono le seguenti: Attribuzione Attribuzione - Non opere derivate; Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate; Attribuzione - Non commerciale; Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo; Attribuzione - Condividi allo stesso modo. È possibile reperire informazioni dettagliate su tutti i tipi di licenza alla pagina internet: http://www.creativecommons.it/Licenze. 47 la persistenza di tutte le riserve espresse sopra in relazione a tale disciplina. Anche la struttura delle licenze Creative Commons, inoltre, prevede la riconducibilità dell'opera – e di ogni singola sua elaborazione o esecuzione – ad un autore determinato. Ogni licenza poi ha ad oggetto una singola opera e non è pertanto suscettibile di applicazione generalizzata. Non verrebbero pertanto eliminati i problemi concernenti l'individuazione del soggetto legittimato ad esercitare i diritti derivanti dall'opera – o a rinunciarvi, dato che anche per la rinuncia occorre la medesima legittimazione – e quelli relativi alla libera fruizione della stessa, in particolare nelle ipotesi in cui questa sia soggetta nell'ambito della comunità di riferimento ad uno specifico regime di segretezza nei confronti dei non appartenenti alla comunità o nei confronti di tutti i soggetti privi di determinati requisiti. 2. Protezione degli artisti, interpreti ed esecutori e altri diritti connessi. L'inapplicabilità dei diritti d'autore alla musica di tradizione orale, data – come si è visto – l'impossibilità di individuare un autore a cui riferirli, salve le ipotesi di variazioni originali, non osta tuttavia all'applicazione dei cosiddetti “diritti connessi”99. Si tratta di una serie di diritti di varia natura e contenuto, accomunati dalla circostanza di essere collegati all'utilizzazione di un'opera e di essere riferiti a soggetti diversi dall'autore che utilizzino l'opera a vario titolo. Tra essi, quelli che qui maggiormente interessano sono quelli relativi agli artisti interpreti o esecutori e ai produttori di fonogrammi, disciplinati dalla Convenzione di Roma100 del 1961, e nell'ordinamento italiano anche dal Titolo II l. aut., così come risultante dalle modifiche introdotte a seguito del recepimento di alcune direttive dell'Unione Europea, con lo scopo di perseguire una progressiva armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri. Sulla base di tali diritti sono attribuite ai soggetti indicati specifiche facoltà, che richiamano la struttura dei diritti, sia patrimoniali che morali, 99 Cfr. F. DE PROPRIS, op.cit. 100Il riferimento è alla “Convenzione Internazionale sulla Protezione degli Artisti Interpreti o Esecutori, dei Produttori di Fonogrammi e degli Organismi di Radiodiffusione”, conclusa a Roma il 26 ottobre 1961. 48 spettanti all'autore101. In particolare, il produttore di fonogrammi102 ha il diritto esclusivo di autorizzare la riproduzione e la diffusione degli stessi (art. 72) e di percepire un compenso per le loro utilizzazioni, differente a seconda che siano fatte a scopo di lucro o meno (artt. 73 - 73bis). Egli ha anche il diritto “di opporsi a che l'utilizzazione dei fonogrammi [...] sia effettuata in condizioni tali da arrecare un grave pregiudizio ai suoi interessi industriali” (art. 74). Gli artisti interpreti ed esecutori103 – oltre allo stesso diritto al compenso spettante al produttore di fonogrammi ai sensi degli artt. 73 ss. l. aut. – hanno il diritto esclusivo di autorizzare la fissazione, la riproduzione e la distribuzione delle loro interpretazioni o esecuzioni (art. 80, comma 2) e, sotto il profilo dell'interesse morale, ad opporsi “alla comunicazione al pubblico o alla riproduzione della loro recitazione, rappresentazione o esecuzione che possa essere di pregiudizio al loro onore o alla loro reputazione” (art. 81). La durata dei diritti spettanti ai produttori di fonogrammi e agli artisti interpreti o esecutori, attualmente fissata in cinquant'anni rispettivamente dalla fissazione104 e dalla prima esecuzione105, è stata elevata a settant'anni da una recentissima direttiva106 dell'Unione Europea, che dovrà essere recepita nel nostro ordinamento interno entro il 01/11/2013. 101Si veda per una trattazione più approfondita della materia AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, op. cit. 102Il fonogramma è costituito “dai suoni fissati su un supporto”. Il relativo diritto viene acquisito dal produttore, a titolo originario, automaticamente – senza che siano necessarie ulteriori formalità – al momento della prima fissazione di un suono sul cosiddetto “master”, ossia il disco originale, ma non si identifica con tale supporto, mantenendosi anche in relazione a tutte le successive fissazioni. Per tali ragioni il fonogramma viene configurato come bene immateriale. 103Ai sensi dell'art. 80, comma 1 l. aut., “[s]i considerano artisti interpreti ed artisti esecutori gli attori, i cantanti, i musicisti, i ballerini e le altre persone che rappresentano, cantano, recitano, declamano o eseguono in qualunque modo opere dell'ingegno, siano esse tutelate o di dominio pubblico”. 104Art. 75 l. aut.: “La durata dei diritti previsti nel presente capo e di cinquanta anni dalla fissazione. Tuttavia, se durante tale periodo il fonogramma è lecitamente pubblicato ai sensi dell'articolo 12, comma 3, la durata dei diritti è di cinquanta anni dalla data della sua prima pubblicazione”. 105Art. 85 l. aut.: “I diritti di cui al presente capo durano cinquanta anni a partire dalla esecuzione, rappresentazione o recitazione. Se una fissazione dell'esecuzione, rappresentazione o recitazione è pubblicata o comunicata al pubblico durante tale termine, i diritti durano cinquanta anni a partire dalla prima pubblicazione, o, se anteriore, dalla prima comunicazione al pubblico della fissazione”. 106Il riferimento è alla Direttiva 2011/77/UE, adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell'Unione Europea in data 13/09/2011. Il testo può essere consultato online al seguente indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do? uri=OJ:L:2011:265:0001:0005:IT:PDF . 49 Rientrano tra i diritti connessi anche quelli spettanti ai produttori di opere cinematografiche e audiovisive che, al pari dei produttori di fonogrammi, hanno diritto ad un compenso per la riproduzione delle opere suddette, compenso che viene calcolato in misura diversa a seconda che la riproduzione sia privata o effettuata in pubblico. È evidente come tali diritti connessi – ma anche altri, quali quelli spettanti agli organismi di radiodiffusione – interessino anche le espressioni musicali di tradizione orale, nel momento in cui queste vengano fissate su un supporto a fini commerciali o di diffusione a vario titolo tra il pubblico, o vengano eseguite nell'ambito di eventi pubblici. Ma è altrettanto evidente come essi rappresentino una tutela parziale, che ha riguardo solo ad un momento successivo alla utilizzazione, mentre nulla dicono in merito ai criteri e alle modalità cui tale utilizzazione debba ispirarsi. Attraverso tali diritti connessi, infatti, è tutelato soltanto il risultato della fissazione o della esecuzione, ma non, ad esempio, l'interesse della comunità di riferimento a che una determinata espressione musicale non venga resa pubblica (se infatti vi è il consenso dell'esecutore alla fissazione questa risulta pienamente legittima) o quello sempre della comunità a impedire l'esecuzione al di fuori dello specifico contesto nell'ambito del quale la forma viene tradizionalmente eseguita e all'interno del quale essa assume significato. 3. Utilizzabilità di altre norme del sistema della proprietà intellettuale. Un ulteriore aspetto che merita considerazione è se altre norme del sistema della proprietà intellettuale possano fornire elementi utili alla elaborazione di strumenti di tutela per le opere della tradizione. Il riferimento è in particolare alla disciplina dei segni distintivi, specialmente dei marchi e delle indicazioni geografiche107. Va premesso anzitutto che, dato l'oggetto che tali istituti sono tradizionalmente preposti a tutelare, non è possibile immaginarne una diretta applicabilità alle espressioni musicali orali, come a nessuna espressione musicale in generale. Ciò su cui è possibile ragionare, allora, è se vi siano margini per la loro applicazione ad aspetti per così dire “collaterali” alle 107Cfr. E. LOFFREDO, Profili giuridici della tutela delle produzioni tipiche, in Riv. Dir. Ind., 2003, I, 139 ss. 50 espressioni musicali di cui si tratta, aspetti tuttavia strettamente correlati alla loro esistenza ed al loro sviluppo, quali in particolar modo la costruzione di strumenti musicali, in quanto manufatti e/o opere artistiche. Quanto ai marchi, occorre distinguere due ipotesi. La prima di tali ipotesi è quella in cui un costruttore di strumenti musicali “tradizionali” apponga sugli stessi uno specifico segno distintivo che li renda a lui riconducibili 108. In questi casi non vi sono ostacoli all'applicazione della disciplina comune dei marchi109 individuali. La circostanza che gli strumenti musicali siano utilizzati per pratiche musicali orali non è idonea ad introdurre un criterio di specialità tale da incidere sulla struttura della fattispecie in esame. Il costruttore potrà pertanto legittimamente registrare ed utilizzare il marchio – purché, ovviamente, ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge in via generale per la validità della registrazione110 – o, in caso di mancata registrazione, avvalersi della più limitata tutela accordata al marchio di fatto111. La seconda ipotesi è quella del ricorso al marchio di certificazione. Si tratta di una sottocategoria del marchio collettivo112. Tali marchi hanno la funzione 108Si tratta di una pratica abbastanza diffusa, soprattutto con riferimento agli strumenti che presentano una particolare complessità organologica, e la cui costruzione richiede specifiche competenze tecniche e un elevato grado di specializzazione. 109In Italia la materia è attualmente disciplinata dagli artt. 2569-2574 c.c. e dal D. Lgs. 30/2005 (Codice della Proprietà Industriale), oltreché da fonti internazionali e comunitarie. Quanto alle prime, il più importante atto normativo vigente è il cosiddetto “Accordo TRIPs”(Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) del 1994. Tra le seconde, assume particolare rilievo il regolamento 40/94/CE (c.d. “regolamento sul marchio comunitario”) che – essendo dotato di diretta applicabilità all'interno degli Stati membri – ha, assieme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ridefinito i contorni della materia anche nel nostro ordinamento interno. 110Ai sensi dell'art. 4 r.m.c. “[p]ossono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese”. A questa elencazione, che è comunemente ritenuta non tassativa – la stessa norma la fa precedere dall'espressione “in particolare”, facendo propendere per questa interpretazione – l'art. 4 cpi aggiunge i suoni e le combinazione e le tonalità cromatiche; per un'analisi più approfondita si rimanda a AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, op. cit., spec. 72 ss. 111Il marchio di fatto, in particolare, a differenza di quello registrato, attribuisce al suo titolare protezione per il solo periodo successivo al suo utilizzo effettivo – essendo l'utilizzo elemento determinante per la nascita stessa di tale tipo di marchio – ed è protetto solamente in relazione agli specifici beni per i quali è adoperato. 112Ai sensi dell'art. 11, comma 1 cpi “[i] soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi, possono ottenere la 51 non di attestare la provenienza del bene a cui si riferiscono a una o più imprese determinate, quanto invece la rispondenza dello stesso a specifici requisiti di qualità – così come previsti da una disciplina di fonte statale o comunitaria – certificata da un organismo di diritto pubblico o privato a ciò istituzionalmente deputato. Attraverso il marchio di certificazione a ricevere tutela diretta non è il singolo produttore/artigiano 113, ma l'intera classe di beni che di quel marchio beneficiano. L'apposizione del marchio consente infatti di distinguere tali prodotti da tutti quelli simili che ne siano privi, svolgendo la funzione primaria di tutelare l'affidamento del terzo acquirente nella genuinità dei primi, evitando che cada in errore. Parte della dottrina guarda con favore a queste soluzioni legislative, pur con alcune riserve 114. Da taluno si è proposta la creazione di “marchi di autenticità” 115, assoggettati ad una disciplina speciale, con lo scopo di offrire una protezione di grado maggiore, prevedendo un diretto controllo degli stessi da parte delle comunità interessate: il modello – da sviluppare – sarebbe quello seguito negli Stati Uniti con l'adozione dell'Indian Arts and Crafts Act116, che ha previsto proprio una tale possibilità. registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed hanno la facoltà di concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti”. I soggetti autorizzati ad utilizzare il marchio sono perciò diversi da quello che lo ho registrato. In passato questo poteva avvenire solo in virtù di un rapporto associativo o partecipativo tra un'impresa e un organismo di diritto privato che svolgesse le funzioni di cui all'art. 11, comma 1 cpi. Attualmente questa limitazione è venuta meno, pertanto ora “la legittimazione all'acquisto della titolarità di un marchio collettivo spetta […] anche ai soggetti ed agli enti che siano legati alle imprese utilizzatrici non da un rapporto di partecipazione od associativo ma da un vincolo meramente contrattuale, ivi incluse le imprese che svolgano la funzione di 'verificatore professionale' di standards qualitativi” (AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, op. cit., 153). Proprio questa apertura ha permesso la creazione anche nel diritto italiano della figura dei marchi di certificazione, tipica dei sistemi anglosassoni. 113I due marchi possono anche coesistere, nel senso che sul bene può essere apposto il marchio dell'individuo che lo ha realizzato e quello che ne certifichi la qualità. 114V. A. LUCAS-SCHLOETTER, Folklore, in AA. VV., Indigenous Heritage and Intellectual Property, Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, a cura di S. Von Lewinsky, Kluwer Law International, 2008, 339 ss.. Ivi ulteriori citazioni di dottrina. 115V. S. SCAFIDI, Intellectual Property and Cultural Products, in Boston University Law eview, 81, 2001, 793 ss. La questione sarà esaminata più approfonditamente infra, Cap. III, par. 5. 116V. infra Cap. III, par. 1.1. Come si dirà meglio in tale sede, lo IACA non istituisce in realtà un marchio di autenticità, ma più semplicemente autorizza l'utilizzo della denominazione “Indian Produced”, “Indian Product” o altre simili, su un prodotto artigianale commercializzato, solo da parte di chi sia membro di una comunità indiana, o da chi – pur non essendo membro di alcuna tribù indiana – sia certificato come artigiano indiano da parte di una tribù indiana. 52 Emergono tuttavia alcuni rilievi, che è opportuno esaminare. Anzitutto, va precisato che l'apposizione del marchio di certificazione (o di autenticità) ha una precipua funzione commerciale117. Non copre pertanto le ipotesi di beni non commercializzati o non commercializzabili. In secondo luogo, con riguardo al marchio di autenticità, qualunque criterio di determinazione dell'autenticità medesima rischierebbe di essere arbitrario. Mentre, infatti, è possibile provare che un bene è stato prodotto nel rispetto di un determinato disciplinare, non è altrettanto agevole dimostrarne la provenienza da un membro di una specifica comunità. O, più precisamente, ci si potrà servire di criteri formali, che prescindano da qualunque fondamento scientifico. Si potrà, ad esempio, adoperare un criterio geografico – che legittimi all'uso del marchio solo chi operi o risieda in un determinato territorio –, oppure un criterio che tenga conto dell'appartenenza del produttore ad un determinato gruppo etnico. Ma, come si è visto a proposito della nozione di comunità in senso antropologico118, la possibilità di circoscrivere un gruppo sociale ad una cerchia determinata o determinabile di soggetti geograficamente localizzata è tutt'altro che pacifica. Il rischio di una esclusione arbitraria della tutela non viene pertanto, con tali sistemi, eliminato. D'altro canto, potrebbero non ricevere adeguata tutela quelle ipotesi in cui la minaccia provenga “dall'interno”, ossia da un membro della stessa comunità che si ritenga lesa da un determinato comportamento. È anche da rilevare che i prodotti commercializzati con un marchio di questo tipo sono spesso realizzati per assecondare il gusto “etnico” occidentale, circostanza questa che induce gli artigiani a scelte artistiche non sempre spontanee. Risulta ancora più arduo, alla luce di ciò, parlare di autenticità o genuinità. Con riferimento nello specifico alla costruzione di strumenti musicali, è da chiedersi quale potrebbe essere la funzione del marchio. Se fosse quella di attestare la provenienza dello strumento da un membro della comunità di riferimento, non si avrebbe la garanzia che tale soggetto possieda anche le competenze tecniche necessarie. Se invece fosse quella di certificare proprio 117La stessa S. SCAFIDI, op. ult. cit., riconosce che la soluzione del marchio di autenticità è ammissibile solo in relazione ai “prodotti culturali” che siano pubblici (rectius conoscibili da parte di un pubblico indifferenziato) e commercializzati, mentre propone soluzioni diverse per quelli che siano riservati (o segreti) e/o non commercializzati. 118V. supra, Cap. I, par. 1.3. 53 quest'ultimo elemento, o il rispetto di particolari regole o procedimenti nella produzione, sarebbe da stabilire a quale organismo attribuire il compito di determinare tali criteri, in particolare, se si debba trattare di un organismo statale o locale, e da chi debba essere composto. Spesso poi gli stessi costruttori apportano innovazioni alle tecniche di produzione119, senza che questo sia percepito – purché entro certi limiti – come un pericolo per la sopravvivenza delle tecniche tradizionali. Anzi, si è già visto come meccanismi di questo tipo siano connaturati all'oralità e ne costituiscano un momento essenziale. In definitiva, il marchio collettivo può rappresentare in alcuni casi uno strumento utile per limitare i fenomeni di misappropriation120, ma garantisce una protezione del tutto parziale e, come si è visto, con alcuni aspetti di contraddizione. Resta, inoltre, ineliminabile il problema dato dal fatto che una disciplina di carattere statuale non potrà mai garantire una adeguata tutela alle espressioni culturali che facciano riferimento a comunità il cui territorio stanziale travalichi i confini di un singolo Stato. Quest'ultima considerazione vale anche a contestare quella dottrina 121 che vede nelle indicazioni geografiche una soluzione ai problemi posti dal ricorso alla disciplina dei marchi di certificazione, sostenendo che in tal modo si avrebbe “an entirely satisfactory means of guaranteeing the authenticity of the expressions of folklore”, a condizione dell'esistenza di associazioni locali rappresentative delle popolazioni indigene dotate di “legal capacity”. 4. Misappropriation e pubblico dominio. Esperienze relative a opere di tradizione orale. Nella dottrina giuridica anglosassone viene talvolta utilizzato il termine misappropriation per indicare una serie di utilizzazioni di espressioni culturali 119Tra i costruttori di launeddas, ad esempio, già dal XVIII secolo le tecniche di produzione hanno subito una modifica, presumibilmente per consentire allo strumento – che utilizza il sistema non temperato – di essere incluso nei cerimoniali sacri all'interno delle chiese, dove si diffondevano gli organi a canne, che invece utilizzavano già allora il sistema temperato. Più tardi, alcuni costruttori hanno iniziato ad utilizzare strumenti quali pianoforti, harmonium o anche accordatori elettronici per avere dei centri di riferimento tonali più definiti nell'accordatura. 120V. infra, par. succ. 121A. LUCAS-SCHLOETTER, op. cit. 54 tradizionali da parte di soggetti estranei al contesto o alla comunità in cui tali espressioni si sono sviluppate – con finalità generalmente speculative – che ledano interessi della comunità (o dei cosiddetti detentori 122) di tipo economico o lato sensu morale. Nella maggioranza dei casi si tratta di utilizzazioni del tutto lecite, in mancanza di specifiche norme che le limitino o vietino. Per tale ragione è preferibile parlare di misappropriation piuttosto che – come pure fa parte della dottrina – di illicit exploitation. Il primo termine appare più appropriato anche per una seconda ragione. In chi lo utilizza, infatti, vi è l'espresso intento di istituire un parallelismo tra le situazioni di cui si sta parlando e la rivelazione di segreti industriali (misappropriation of trade secrets), per porre in rilievo l'analogo effetto lesivo che accomuna le due fattispecie. Detto questo, sono da fare comunque alcune precisazioni, per evitare che la terminologia crei fraintendimenti e confusioni. L'analogia tra gli effetti non implica affatto una equiparazione delle due ipotesi sotto altri profili. Sotto il profilo soggettivo, la rivelazione di segreti industriali ha come parte necessaria un soggetto che esercita una attività commerciale, che subisce una lesione di carattere economico a causa della pubblicazione di informazioni riservate riguardo alla medesima attività. Nelle ipotesi che qui interessano, invece, come si vedrà meglio, non sempre è possibile individuare un soggetto determinato quale vittima della lesione, che talvolta può essere riferita ad una comunità, talvolta a individui singoli. L'interesse leso, inoltre, non sempre è semplicemente economico (per mancata percezione di un compenso a seguito dell'utilizzazione), ma anzi spesso si concreta in un'offesa al sentimento religioso o in una violazione di regole consuetudinarie di vario contenuto. Il termine misappropriation, pertanto, può essere utilizzato per la sua forza evocativa, a condizione che si tengano presenti le osservazioni appena svolte, e che si sia consapevoli che non si tratta di una categoria omogenea, ma di un fenomeno articolato, che viene ricondotto ad unità per esigenze di trattazione. Alla luce di quanto detto, è opportuno domandarsi se si renda necessaria l'adozione di norme giuridiche che disciplinino tali ipotesi e, in caso di risposta affermativa, se ciò sia possibile nell'ambito degli attuali ordinamenti e in quali termini. Prima di tentare di rispondere, è utile esaminare alcune concre122Si è già visto supra, Cap. I, par. 1.3 come tale espressione possa risultare inappropriata. Si rimanda pertanto a tale sede per una analisi più approfondita della questione. 55 te esperienze, in modo da comprendere meglio di cosa si discute e quali problematiche emergano. Un caso che ha avuto una certa notorietà è quello che ha coinvolto l'etnomusicologo Hugo Zemp nei primi anni '90 123. Una melodia tradizionale delle Isole Salomone cantata da una donna indigena, da lui registrata qualche anno prima, fu campionata ed utilizzata, con il titolo “Rorogwela” e con l'aggiunta di un moderno sottofondo musicale, in un disco di “world music” di grande successo commerciale, il disco “Deep Forest”, pubblicato – con il patrocinio dell'UNESCO – con lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle esigenze di protezione delle foreste pluviali. Zemp, che non aveva prestato il suo consenso all'utilizzazione della registrazione, in seguito alla pubblicazione del disco chiese – inutilmente – che quantomeno la comunità cui apparteneva la donna da cui la melodia era stata registrata percepisse parte dei proventi. La stessa melodia fu poi riutilizzata in un noto disco di jazz, con il nome di “Pigmy Lullaby”, con una errata attribuzione di provenienza geografica. Il musicista interessato – il sassofonista norvegese Jan Garbarek –, che non aveva avuto alcun contatto diretto con la registrazione originale, ma che si era basato sulla versione di “Deep Forest”, alle richieste di Zemp replicò asserendo la piena legittimità della sua utilizzazione, sulla base della considerazione che il TONO, l'istituzione norvegese deputata alla raccolta dei diritti di autore, aveva provveduto a ripartire i proventi dell'utilizzazione del disco tra lui e un fondo pubblico per la promozione della musica folklorica. Spunti interessanti emergono anche da una ricerca 124 commissionata dall'ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna) che, attraverso un'analisi dei registri SIAE, ha mostrato come sia frequente nell'isola, tra i musicisti che si occupano di musica di tradizione orale, la prassi di depositare a proprio nome brani che recano la stessa denominazione di espressioni musicali tradizionali. Talvolta si tratta di brani originali, ispirati a musiche tradizionali125. Altre volte si tratta di varianti personali di espressioni musica123Si veda in proposito S. FELD, A Sweet Lullaby For World Music, in Public Culture 2000, 12(1), 145 ss; ZEMP, H., The/An Ethnomusicologist and the Record Business, in Yearbook for Traditional Music, 28, 1996, 35 ss, spec. 44 ss. 124Si tratta di una ricerca effettuata dall'etnomusicologo Marco Lutzu in occasione del convegno “Diritti d’autore e tradizione orale: consuetudini, leggi ed etica”, organizzato dall'ISRE nel giugno del 2009. 125In questi casi l'autore si limita semplicemente a dare alla propria composizione il 56 li tradizionali. Le prime ipotesi presentano aspetti problematici limitati, in quanto l'elaborazione creativa, pur basata su modelli tradizionali, è comunemente considerata operazione legittima, sia sotto il profilo giuridico che sotto quello etico. In relazione a tali ipotesi si potrebbe tutt'al più porre il problema se considerare ammissibile l'utilizzo di titoli già in uso (nel caso specifico se ammettere l'attribuzione ad un'opera originale di un titolo già presente in una espressione musicale tradizionale). Problema che, sotto l'attuale disciplina, deve essere risolto in senso positivo, non sussistendo particolari limitazioni alla registrazione di opere con titolo identico ad altre già registrate, purché chiaramente la melodia non coincida 126. Per analoghe ragioni, si dovrebbero ritenere ammissibili operazioni simili anche nella prospettiva di un eventuale futuro intervento normativo in materia di tutela delle espressioni musicali di tradizione orale. Le seconde ipotesi, invece, pongono questioni più complesse. Mentre infatti alcuni autori registrano a proprio nome solo gli elementi innovativi più direttamente riconducibili al loro apporto creativo, altri considerano il proprio intervento sul modello sufficiente a conferire originalità all'intero brano. Numerosi sono gli interrogativi che emergono. Anzitutto va considerato come in questi casi l'autore depositi come suo un brano che, almeno in parte, preesisteva al deposito, pur non essendo riconducibile ad un autore determinato. Non è chiaro se ciò sia da ritenere ammissibile secondo l'attuale disciplina italiana del diritto d'autore. Ma, considerato che le ricerche di anteriorità effettuate dalla SIAE all'atto della registrazione di ogni nuova opera si limitano a verificare l'esistenza di altra opera registrata, di fatto il deposito di un'opera appartenente alla tradizione orale risulta, se non pienamente lecito, quantomeno possibile e privo di conseguenze sanzionatorie. Di conseguenza, l'autore (o presunto tale) avrebbe diritto a percepire i diritti di utilizzazione della stessa opera eseguita da altri musicisti, anche nelle ipotesi in cui questi titolo di una espressione musicale tradizionale, senza però registrare quest'ultima come propria. Si tenga presente che le espressioni musicali della tradizione sarda hanno spesso nomi generici (ballu, canto in re, etc.), che in molti casi corrispondono a modelli stilistici, più che a opere in senso stretto. Si è già affrontata la questione della c.d. “opera orale” supra, cap. I, par. 2, al quale si rimanda per una trattazione più approfondita e per indicazioni bibliografiche. 126La SIAE rifiuta la registrazione di un'opera avente titolo identico ad altra opera già registrata solo quando anche i nomi degli autori coincidono. Ma la limitazione in questo caso ha ragioni esclusivamente pratiche, essendo in tali ipotesi impossibile individuare l'autore cui corrispondere i proventi dell'utilizzazione dell'opera. 57 eseguano soltanto le parti “tradizionali” incorporate nella partitura depositata, e non anche le parti più propriamente originali. È evidente come una tale conclusione risulti paradossale, e purtuttavia plausibile, in applicazione della normativa vigente127. C'è infine un ulteriore profilo che merita considerazione. La variazione rappresenta un meccanismo connaturato alla trasmissione orale, tanto che quando si parla di “opera orale” 128 ci si riferisce non ad una partitura fissa, ma ad un modello aperto, modificabile secondo determinati criteri e parametri dall'esecutore. La cristallizzazione di una variante su una partitura appare perciò in una certa misura una forzatura. Circostanza confermata dal fatto che nella generalità dei casi ciò che il suonatore-autore esegue non è una riproduzione della partitura depositata, ma una “variante della variante”. La scelta di depositare l'opera – come in parte emerge dalle interviste ad alcuni musicisti, contenute nella ricerca in parola – rappresenta perciò in molti casi il ricorso ad un meccanismo riconosciuto come inappropriato, ma al tempo stesso come l'unico possibile, data la mancanza di meccanismi ad hoc. Il fenomeno descritto pone in evidenza due aspetti: da un lato mostra l'inadeguatezza dell'attuale sistema del diritto d'autore rispetto alle esigenze di tutela delle espressioni musicali di tradizione orale; dall'altro pone in risalto come, in assenza di uno strumento di tutela specifico, il rischio di utilizzazioni improprie sia concreto. Esso presenta un ulteriore profilo di interesse: la presunta misappropriation in questi casi, infatti, proviene “dall'interno”, ossia da un esponente della stessa forma di espressione oggetto di abuso. Questa circostanza mostra come in siffatte ipotesi una tutela che assuma quale soggetto di diritto la comunità “detentrice” risulterebbe insoddisfacente, anche a voler prescindere dalla difficoltà di configurare la comunità di riferimento (l'intera comunità locale; l'insieme dei soggetti che praticano una determinata espressione culturale; l'insieme dei suonatori di un determinato strumento etc.) In Italia, data l'assenza di norme positive di riferimento, non è dato riscontrare una casistica giurisprudenziale in materia. Tuttavia, meritano attenzione alcune pronunce delle corti che hanno coinvolto, a vario titolo, 127Per un caso riguardante una melodia della tradizione monodica sarda, riconosciuta come creazione originale del musicista che ne aveva curato l'arrangiamento per organico strumentale, v. Trib. Cagliari, 15 gennaio 2008, n. 119 in Rivista Giuridica Sarda, III, 2010, 561 ss., con nota di V. Madau. 128V. supra Cap. I, par. 2. 58 espressioni culturali tradizionali. In un caso 129, ad esempio, si è ritenuto che “in tema di maltrattamento di animali, la configurabilità del reato previsto a carico di chi organizzi spettacoli o manifestazioni che comportino strazio o sevizie per gli animali ovvero vi partecipi non è esclusa dal fatto che trattasi di manifestazione folcloristica di carattere religioso, risalente a tempo immemorabile”. In un altro caso si è negata la legittimazione attiva di un Comune a far valere i diritti sull'immagine di un evento svolgentesi nel territorio del Comune medesimo, in quanto “appartenente al patrimonio storico, culturale e folcloristico della nazione”130. 4.1. Misappropriation di manufatti. Nell'ordinamento statunitense è dato riscontrare una vasta casistica in materia di produzioni artistiche artigianali, favorita dalla presenza dell'Indian Arts and Crafts Act131 (IACA), che vieta la commercializzazione di manufatti falsamente qualificati come “Indiani” dal venditore o dal produttore, o che gli acquirenti possano comunque essere erroneamente portati a ritenere prodotti indiani autentici132. Data la stretta attinenza con la materia dei marchi, lo IACA va applicato in coerenza con il Lanham Act (la legge fondamentale statunitense sui marchi). Come emerge da numerose pronunce delle Corti nordamericane, perciò, sulla tribù o l'associazione rappresentativa che agisca per inibire la produzione o vendita di prodotti falsamente attribuibili all'artigianato indiano, incombe l'onere di provare non solo il pregiudizio potenziale, ma anche quello patito in concreto, ed inoltre di dimostrare che la parte convenuta, operando in un ambito geografico coincidente – almeno in 129Cass. Pen., 37878/2004 130Trib. Milano, 9 novembre 1992. Nel caso di specie si è affermato che “(i)l comune di Siena è privo di legittimazione attiva a far valere i diritti sull'immagine e sui simboli del palio di Siena in quanto delegato solo alla sopraintendenza e alla direzione dei palii e dunque a mere funzioni organizzative e di polizia. [...] Il palio di Siena è pubblico evento risalente al XIII secolo, dunque appartenente al patrimonio storico, culturale e folcloristico della nazione, senza che chicchessia possa vantare diritti esclusivi di sorta su di esso. Nella rappresentazione del palio e nei caratteristici segni utilizzati dai partecipanti allo svolgimento di esso non è ravvisabile un apporto suscettibile da assurgere ad opera dell'ingegno proteggibile secondo la disposizione della legge sul diritto d'autore”. 131V. supra, Cap. II, par. 1.3; infra, Cap. III, par. 3.1 132Lo IACA non ha invece ad oggetto le espressioni culturali intangibili, quali le espressioni musicali di tradizione orale. Può comunque investire l'aspetto della produzione e commercializzazione di strumenti musicali della tradizione nativoamericana. 59 parte – con quello di riferimento della parte attrice, si trovi con quest'ultima in un rapporto di concorrenza diretta, in assenza del quale non si configurerebbe alcun danno. Il pregiudizio cui le Corti fanno riferimento è, ovviamente, il solo pregiudizio economico (per danno emergente o lucro cessante), che si sia concretato ad esempio in una riduzione delle vendite o in una forzata diminuzione dei prezzi 133. Non ricevono alcuna considerazione, invece, interessi non economici, circostanza questa che consentirebbe di superare il limite dell'ambito geografico di riferimento. L'assenza, d'altra parte, di norme che abbiano riguardo a interessi extraeconomici lascia aperte questioni di non secondaria importanza. In un colloquio il Dott. Scott M. Stevens, direttore del “D'Arcy McNickle Center for American Indian and indigenous Studies” mi ha esposto un dilemma etico-legale in cui il centro che dirige si trova, in relazione ad alcune fotografie presenti nei suoi archivi, ma attualmente non rese pubbliche. Tali fotografie – scattate tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo – ritraggono alcuni riti sacri degli indiani d'America. Al tempo i capi delle comunità indiane custodi dei riti immortalati acconsentirono alla realizzazione delle fotografie, probabilmente dietro la promessa di benefici economici o di altro tipo. Gli esponenti delle stesse comunità ora richiedono che tali foto non vengano rese pubbliche, perché si tratterebbe di riti segreti, come tali conoscibili solo da alcuni soggetti in possesso di specifici requisiti. Il Centro detiene legittimamente le fotografie, e le attuali leggi statunitensi non ne vietano la pubblicazione. Se però esse venissero esposte, a parte le implicazioni di carattere etico, il Centro tradirebbe la sua missione di tutela della cultura indiana. Un'istituzione o un soggetto con minori scrupoli etici potrebbe legittimamente utilizzare le fotografie senza incorrere in alcuna conseguenza sotto il profilo strettamente giuridico. Risulta evidente come rimettere interamente scelte di questo tipo 133Cfr. U.S. District Court, M.D. Georgia, Valdosta Division, NATIVE AMERICAN ARTS, INC. v. BUD K WORLDWIDE, INC., Civil Action No. 7:10–CV–124; United States District Court, D. Rhode Island.NATIVE AMERICAN ARTS, INC. v. CONTRACT SPECIALTIES, INC. d/b/a Sunburst Companies, Civil Action No. 10– 106 S.; si veda anche G. MOSSETTO, Attribuzione dei diritti e patrimonio culturale, in AA.VV. La negoziazione delle appartenenze. Arte, identità e proprietà culturale nel terzo e quarto mondo, a cura di M. L. Ciminelli, Milano, 2006, dove si cita menziona il c.d. “Caso Crazy Horse”, che coinvolse un discendente del capo indiano Sioux Lakota “Cavallo Pazzo” e un'azienda produttrice di birra che tale nome aveva utilizzato per un suo prodotto. La vicenda si risolse stragiudizialmente con una pubblica lettera di scuse da parte della compagnia e un risarcimento in natura, secondo la tradizione Lakota. 60 alla volontà dei soggetti interessati non consente di limitare, nemmeno in parte, il rischio di utilizzazioni improprie134. Un effetto riflesso della misappropriation può essere apprezzato con riferimento alla produzione e al commercio di didjeridoo135. Lo strumento tradizionale aborigeno è oggetto da alcuni anni di forte interesse commerciale su scala internazionale, al pari di alcune percussioni africane. Questo ha favorito lo sviluppo del mercato della contraffazione, tanto che la maggioranza dei didjeridoo attualmente in vendita, e che oramai è piuttosto facile reperire – in particolare nei negozi di prodotti c.d. “etnici” - sono realizzati industrialmente spesso in Paesi asiatici e sovente decorati con motivi che richiamano l'arte figurativa aborigena, in maniera approssimativa e impropria. La posizione dei suonatori/costruttori aborigeni rispetto a questo fenomeno è differenziato a seconda del tipo di utilizzazioni. Molti di essi non sono contrari alla commercializzazione in sé di strumenti non aborigeni. Ciò che generalmente si richiede è un approccio che rispetti il significato religioso dello strumento medesimo. Gli strumenti decorati con soggetti della mitologia aborigena, perciò, sono difficilmente accettati, mentre quelli realizzati in 134Un esempio di quanto un tale rischio sia concreto ed attuale è riscontrabile in SCAFIDI, S., Intellectual Property and Cultural Products, in Boston University Law Review, 81, 2001, 793 ss., dove si menziona il caso di una rivista che commissionò ad un fotografo la realizzazione di alcuni scatti aerei che ritraevano una tribù indiana del New Mexico, il “Pueblo of Santo Domingo”, nello svolgimento di una cerimonia sacra. Le foto furono pubblicate in due occasioni (in una delle quali la cerimonia era stata anche erroneamente qualificata come un pow-wow), suscitando lo sdegno di alcuni membri della tribù. Fu anche proposta una causa giudiziaria, che però non giunse mai alla decisione nel merito. 135Il didjeridoo è uno strumento tradizionalmente utilizzato da alcune tribù aborigene australiane, in particolare del Nord Australia. Si compone di un tronco cavo di legno di eucalipto, la cui parte interna è stata mangiata dalle termiti. Una volta selezionato il tronco, il costruttore lo taglia per ottenere la lunghezza desiderata, lo lavora ulteriormente e a seconda dell'uso cui sarà destinato lo decora. Lo strumento utilizza la tecnica della respirazione circolare, e produce una sola nota, ma attraverso alcuni meccanismi è possibile produrre, in aggiunta al suono base, una serie di suoni armonici, mentre con il movimento della lingua e della bocca è possibile realizzare figurazioni ritmiche anche piuttosto complesse. La denominazione originaria dello strumento è ydaki per gli strumenti più lunghi, che emettono suoni più gravi, utilizzati prevalentemente con funzione di accompagnamento al canto, spesso in combinazione con i clap-sticks, due bastoncini di legno che – percossi tra loro – scandiscono il tempo; mago per gli strumenti più corti e acuti, utilizzati generalmente con funzione ritmica. La nomenclatura varia però da regione a regione e da tribù a tribù, tanto che si conoscono più di cinquanta nomi diversi dello strumento. La denominazione didjeridoo è stata coniata dai colonizzatori bianchi, e rappresenta presumibilmente un nome di origine onomatopeica, che richiama il suono prodotto dallo strumento. 61 modo da non rappresentare delle imitazioni sono tendenzialmente accettati. Discorso analogo vale nei confronti di soggetti non aborigeni che suonino lo strumento. Data la funzione rituale dello stesso, è scarsamente tollerata l'imitazione delle tecniche esecutive tradizionali, mentre è generalmente accettato un approccio esecutivo originale, o quantomeno personale136. A fronte di alcuni soggetti aborigeni che, cedendo alle logiche del mercato hanno iniziato a produrre e vendere strumenti destinati a scopi “turistici”, numerosi costruttori hanno sfruttato i nuovi mezzi tecnologici a loro vantaggio, utilizzando soprattutto internet per vendere in tutto il mondo i loro strumenti137, mantenendo prezzi notevolmente superiori a quelli degli strumenti “contraffatti”, rivolgendosi ad un bacino d'utenza specifico, costituito in particolare da musicisti, che necessitano di strumenti dalle caratteristiche qualitativamente elevate138. La frequenza di episodi simili a quelli sopra esposti ha indotto la dottrina a formulare numerose ipotesi in merito ad una possibile tutela delle espressioni culturali tradizionali: dall'utilizzo tout court delle attuali norme in materia di proprietà intellettuale, alla creazione di una disciplina sui generis che moduli le norme sulla proprietà intellettuale in funzione della specialità dell'oggetto della tutela, fino al ricorso al diritto consuetudinario delle singole comunità c.d. “detentrici” coinvolte, per approdare al campo dei diritti umani139. 136Alcuni suonatori aborigeni Yolngu (popolo N.E. Arnhem Land) tengono corsi e seminari sullo strumento in tutto il mondo. Gli stessi Yonlgu – come mi è stato raccontato dal suonatore italiano di didgeridoo Andrea Ferroni – hanno però qualche anno fa intimato ad una band americana di cessare di utilizzare decorazioni tradizionali e nomi di ritmi tradizionali nella loro musica, perché tale comportamento veniva da essi percepito come un oltraggio alla loro cultura. 137Oltre ai costruttori in prima persona, anche numerose associazioni non lucrative fanno da intermediarie tra gli acquirenti in tutto il mondo e i costruttori, vendendo i loro strumenti senza percepire profitti. 138Anche in questi casi, tuttavia, lo strumento viene generalmente indicato come “didgeridoo”, mentre la nomenclatura originale (ydaki o mambo) viene tutt'al più aggiunta tra parentesi o con caratteri tipografici più ridotti. Ciò risponde sicuramente a una funzione commerciale, dato che lo strumento è universalmente più noto con il primo nome, ma dà anche la misura di come le logiche occidentali di mercato (che spesso comportano una semplificazione o una banalizzazione in funzione di una più facile commercializzazione) influenzino anche i tentativi di sfuggire a tali stesse logiche. 139V. supra, Cap. II, par. I e infra, Cap. III, par. 3, per una trattazione più approfondita e per riferimenti bibliografici. 62 CAPITOLO III MODELLI DI TUTELA A CONFRONTO 1. WIPO e UNESCO: due linee di intervento a confronto. L'analisi fin qui svolta ha mostrato l'inadeguatezza degli strumenti di valorizzazione e tutela, sotto il profilo concettuale, ancor prima che sotto quello applicativo. Risulta opportuno perciò ricercare soluzioni di diverso tenore che possano apparire maggiormente appropriate a tali fini. Punto di partenza saranno gli strumenti approntati dalle due principali organizzazioni internazionali che si sono occupate delle espressioni di folklore e delle espressioni culturali tradizionali sotto differenti profili: WIPO (World Intellectual Property Organization) e UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization). 1.1. Le “Model provisions” del 1985 e le nuove linee di intervento WIPO. Negli anni '70, WIPO140 e UNESCO141 hanno dato vita ad una importante collaborazione, che ha avuto come suo più rilevante risultato l'emanazione, nel 1982142, delle Model Provisions for National Laws on the Protection of Expressions of Folklore Against Illicit Exploitation and Other Prejudicial Actions, un atto contenente delle linee guida per gli Stati che intendano adottare una normativa a tutela delle espressioni di folklore. Si tratta di un atto di soft law, cioè 140La WIPO (World Intellectual Property Organization) è una agenza specializzata dell'ONU che si occupa di proprietà intellettuale. Sul sito dell'organizzazione si legge: “It is dedicated to developing a balanced and accessible international intellectual property (IP) system, which rewards creativity, stimulates innovation and contributes to economic development while safeguarding the public interest” (http://www.wipo.int/about-wipo/en/what_is_wipo.html). 141L'UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) è un'agenzia specializzata dell'ONU: “UNESCO works to create the conditions for dialogue among civilizations, cultures and peoples, based upon respect for commonly shared values. It is through this dialogue that the world can achieve global visions of sustainable development encompassing observance of human rights, mutual respect and the alleviation of poverty, all of which are at the heart of UNESCO’S mission and activities” (http://www.unesco.org/new/en/unesco/about-us/who-we-are/introducing-unesco/). 142Le Model Provisions sono state pubblicate nel 1985 corredate da un commentario, non presente nell'edizione del 1982. Per questa ragione ci si riferisce alla data della seconda pubblicazione. 63 privo di forza vincolante, la cui funzione era quella di indirizzare le legislazioni degli Stati che avessero voluto ispirarsi ad esse, con il fine di favorire una omogeneizzazione delle normative statali, in vista di una estensione della tutela su scala sovranazionale. Le Model Provisions vanno in questa prospettiva messe in relazione con un altro atto che porta la firma delle due istituzioni: il Draft Treaty for the Protection of Expressions of Folklore against Illicit Exploitation and Other Prejudicial Actions – del 1984 – che costituisce proprio il tentativo di fornire agli Stati il modello di un trattato internazionale in materia di tutela delle espressioni di folklore. Quest'ultimo atto, malgrado le aspettative in esso riposte da WIPO e UNESCO, ha avuto uno scarso successo e il progetto di un trattato in materia non è mai stato realmente intrapreso, a seguito delle osservazioni proposte da un gruppo di esperti in materia di tutela internazionale delle espressioni di folklore, convocato dalle due organizzazioni nel dicembre 1984, con il compito di esaminare il testo delle Draft Provisions e formulare un parere nel merito 143. In quella sede, infatti, pur convenendo tutti i partecipanti sulla necessità di uno strumento internazionale di tutela, emersero alcune divergenze sui contenuti e sui tempi del processo di internazionalizzazione, che suggerirono di rimandare la questione ad un momento successivo. La soluzione di un trattato venne ritenuta “prematura”, considerato che allo stato non vi era una sufficiente esperienza di tutela a livello nazionale. In particolare, un numero molto limitato di Stati, fino a quel momento, aveva adottato una normativa ispirata alle Model Provisions, data la breve distanza di tempo – appena due anni – dalla loro prima pubblicazione. Alcuni partecipanti, inoltre, sostennero l'opportunità che alcune legislazioni statali in materia di tutela del folklore fossero esaminate con maggiore attenzione, al fine di verificare la praticabilità di un loro recepimento in un atto di livello sovranazionale. Altri ancora, invece, affermarono la necessità di un esame più approfondito degli strumenti internazionali di tutela della proprietà intellettuale già esistenti, prima dell'adozione di un nuovo atto. Alcune perplessità emersero anche con riferimento all'utilizzo del termine “folklore”, in favore dell'adozione di un termine di portata più ampia. Anche le Model Provisions hanno conosciuto un lungo periodo di oblio, ma negli ultimi anni la WIPO le ha riproposte come uno dei punti focali della 143Il resoconto dell'incontro è consultabile online alla pagina: http://unesdoc.unesco.org/images/0006/000623/062340EB.pdf 64 propria attività in materia di espressioni culturali tradizionali. L'antecedente storico di tale atto è il Tunis Model Law on Copyright for Developing Countries144, anch'esso elaborato da WIPO e UNESCO congiuntamente. Oltre ad aver ispirato le legislazioni di numerosi Stati africani, il Tunis Model Law ha infatti avuto un'importante influenza anche sulla redazione delle Model Provisions, che da esso hanno tratto alcuni principi, sviluppando in particolare la disciplina contenuta nella Sezione 6 dell'atto, rubricata “Works of national folklore”. Malgrado la matrice comune, è importante notare come le Model Provisions abbiano tentato di superare alcune criticità emerse nella recezione a livello nazionale del Tunis Model Law, ed essenzialmente le difficoltà poste dall'applicazione alle espressioni di folklore di una disciplina basata sul diritto d'autore. Per sottolineare la presa di distanza da una simile impostazione, le Model Provisions hanno sostituito il riferimento alle opere folkloriche con la terminologia “expressions of folklore” 145. Non viene invece fornita una definizione di “folklore”, “to avoid possible conflict with relevant definitions which are or may be contained in other documents or legal instruments concerning the protection of folklore” 146. Nelle Introductory observations il folklore – considerato come “an important cultural heritage of every nation” – è ritenuto rivestire, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, un fondamentale ruolo nella determinazione dell'identità culturale e sociale. La nozione di “expressions of folklore”, ai sensi dell'art. 2, è limitata alle pro duzioni caratterizzanti il patrimonio artistico di una nazione, “developed and maintained by a community [...] or by individuals reflecting the traditional artistic expectations of such a community”. La necessità di una tutela per tali espressioni è motivata con la considerazione che il progresso tecnologico e lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione aumentano le possibilità di una loro “improper exploitation” (II Considerando). Il principio fondamentale della disciplina proposta nelle Model Provisions è quello per cui una serie di utilizzazioni (comprendenti la pubblicazione, la ri144Disponibile alla pagina: http://portal.unesco.org/culture/en/files/31318/11866635053tunis_model_law_enweb.pdf/tunis_model_law_en-web.pdf 145Dà atto di questa scelta il Commentario, al Paragrafo 32: “The use of the words "expressions" and "productions" rather than "works" is intended to underline the fact that the provisions are sui generis, rather than of copyright. since "works" are the subject matter of copyright”. 146V. Commentario, par. 31. 65 produzione e la distribuzione di copie di espressioni di folklore, nonché le loro rappresentazioni pubbliche) a scopo di lucro o al di fuori del contesto tradizionale o consuetudinario, debbano essere autorizzate da un'autorità competente designata dallo Stato nel cui territorio risiede la comunità interessata, o dalla comunità stessa (art. 3). Questo comporta che da tale previsione siano escluse le utilizzazioni, anche a scopo di lucro, che abbiano luogo all'interno del contesto tradizionale o consuetudinario e, per contro, che sia necessaria l'autorizzazione per quelle utilizzazioni con finalità lucrative effettuate anche da membri della comunità di origine dell'espressione, ma fuori dal contesto147. Sarebbero invece legittime le utilizzazioni non a scopo di lucro, pur al di fuori del contesto: in questo modo si intende rendere più agevole la realizzazione di copie al fine di una loro conservazione o a fini di ricerca148. Sono poi previste dall'art. 4 delle eccezioni all'obbligo di previa autorizzazione, quando: a) l'espressione è utilizzata a scopo educativo; b) l'utilizzazione ha come fine quello di illustrare il lavoro originale di uno o più autori, “provided that the extent of such utilization is compatible with fair practice”; c) l'espressione funge da ispirazione per la creazione di un'opera originale; d) l'utilizzazione ha finalità informative; e) l'utilizzazione ha ad oggetto la fotografia o la ripresa video di un oggetto contenente un'espressione di folklore, che sia situato permanentemente in un luogo aperto al pubblico. Per tutte le utilizzazioni che comportino la pubblicazione o la comunicazione al pubblico di una espressione di folklore, inoltre, è necessario che venga citata la fonte, mediante la menzione della comunità cui l'espressione fa riferimento o la zona geografica da cui essa proviene. L'art. 6 è dedicato alle offenses. Ne sono indicati quattro differenti tipi, che possono avere luogo singolarmente o congiuntamente 149: a) la mancata indicazione della fonte, derivante da dolo o negligenza; b) l'utilizzazione, sempre volontaria o negligente, di un'espressione di folklore in violazione dell'art. 3 e in mancanza di autorizzazione; c) qualunque comportamento volontario, diretto o indiretto, idoneo a creare un errato convincimento circa la provenienza dell'espressione utilizzata; d) la volontaria “distorsione”150 di 147Ivi., par. 41. 148Ivi, par. 46. 149Ivi, par. 62. 150“The term 'distorting' covers any act of distortion or mutilation or other derogatory 66 un'espressione di folklore nella sua utilizzazione pubblica, quando idonea a generare un pregiudizio a danno della comunità interessata. Il verificarsi di una di queste offenses darebbe luogo all'applicazione di una sanzione di natura penale, la determinazione del cui genere e ammontare è rimessa allo Stato che adotti una simile disposizione151. Inoltre, gli oggetti realizzati in violazione di tali disposizioni devono essere distrutti o soggetti ad altre sanzioni, stabilite dallo Stato, idonee a ridurre o limitare le conseguenze dannose della violazione (art. 7). A differenza delle sanzioni principali, queste ultime, che hanno carattere accessorio, possono avere natura non penale. Sono fatte salve dall'art. 8 le sanzioni civili eventualmente applicabili 152. L'art. 10 prevede che la richiesta di autorizzazione sia fatta in forma scrit153 ta , e che il rilascio dell'autorizzazione stessa possa essere subordinato al pagamento di una fee, da destinare eventualmente alla promozione o alla salvaguardia della cultura o del folklore nazionale. Il diniego dell'autorizzazione dovrebbe essere motivato in ordine alle ragioni che lo hanno determinato154. Quanto ai rapporti con altre forme di protezione, l'art. 12 stabilisce che la disciplina contenuta nelle Model Provisions, una volta recepita nell'ordinamento interno di uno Stato, debba essere applicata senza pregiudizio della tutela eventualmente offerta dalla legislazione interna sulla proprietà intellettuale o dai trattati internazionali di cui lo Stato sia parte, né di altre forme di action in relation to the expression of folklore published, reproduced, distributed, performed or otherwise communicated to the public by the culprit”: Commentario, par. 61. 151“The two main types of possible punishments appear to be fine and imprisonment”: ibid., par. 63. 152“This Section emphasizes that the penal sanctions provided for in Section 6 are no substitute for damages or other civil remedies; on the contrary. Section 6 is without prejudice to the availability of such remedies. Such remedies typically include compensation for any damage caused by the unlawful utilization of the expression of folklore. such as the loss of fees normally requested for proper authorization. They also include compensation for any harm done to the reputation of the community concerned on account of the distortion of the expression of folklore”: ibid., par. 71. 153Ovviamente, data la natura non vincolante delle Model Provisions, è scelta discrezionale dello Stato se prevedere per la richiesta la forma scritta a pena di invalidità, o ammettere anche richieste in forma orale. Come chiarisce il Commentario, par. 80, “By placing the words 'in writing' within square brackets. the Model Provisions invite reflection on the question whether oral applications should be allowed.” 154“Such reasons may, inter alia, stem from the proposed kind of utilization, for example, if the use of artistic forms of a religious ritual is intended in the framework of a night club show”: Commentario, par. 83. 67 protezione specificamente riferite al folklore. Particolarmente importante è la previsione di cui all'art. 13, secondo cui l'atto normativo ispirato alle Model Provisions “shall in no way be interpreted in a manner which could hinder the normal use and development of expressions of folklore”. Questa statuizione è da porre in relazione con la natura sui generis della tutela ai sensi delle Model Provisions, tra le cui intenzioni vi è quella di proteggere le espressioni di folklore da eventuali utilizzazioni in danno della comunità o distorsive dell'espressione stessa, ma al contempo quella di consentirne l'evoluzione, data la loro caratteristica di essere in continuo divenire. Una disciplina, pertanto, abbastanza rigida da prevenire o quantomeno sanzionare gli abusi, ma anche abbastanza flessibile da rendere possibile che le espressioni di folklore si mantengano vitali 155. In questa prospettiva qualunque utilizzazione da parte di uno o più membri della comunità di provenienza della specifica espressione sarebbe da considerare legittima senza necessità di previa autorizzazione, e d'altra parte che nessuna utilizzazione effettuata nell'ambito della comunità possa essere considerata distorsiva, “if the community identifies itself with the present-day use of that expression and its consequent modification”156. Manca tuttavia nel testo delle Model Provisions una nozione di “comunità”, e di cosa si debba intendere quando si parla di “origine” dell'espressione culturale o di sua “derivazione”. Si tratta di un aspetto non secondario in quanto, come si è visto157, tale concetto è tutt'altro che univoco, e la relativa definizione risente dell'effetto di numerosi fenomeni (es. emigrazione, presenza stanziale di una “comunità” sul territorio di più Stati), che determinano una non necessaria coincidenza tra i confini statuali e il territorio di riferimento di un gruppo portatore di una determinata “cultura”. In conseguenza di ciò, qualunque scelta legislativa che ometta di tenere conto di una tale circostanza risulterebbe arbitraria. E, non essendovi indicazioni in proposito nell'atto, la relativa determinazione risulta interamente rimessa ai singoli Stati. L'art. 14, infine, si occupa delle espressioni di folklore di altri Paesi, stabilendo che la loro protezione all'interno dello Stato possa essere subordinata alla condizione di reciprocità ovvero sia regolata da trattati o altri accordi tra Stati. 155V. Commentario, par. 28. 156Ivi, par. 92. 157V. Capitolo I, par. 1.2 68 In dottrina è stato sostenuto che uno dei maggiori vantaggi della tutela approntata dalle Model Provisions, a differenza degli altri strumenti di tutela della proprietà intellettuale, risiede nel fatto che essa non è limitata nel tempo158. La ragione di ciò è che “the protection of the expression of folklore is not for the benefit of individual creators but a community whose existence is not limited in time”159. Il Commentario, tuttavia, precisa che l'assenza di limiti temporali non ha effetto sulle norme statali che eventualmente stabiliscano termini di prescrizione per la proposizione dell'azione civile o per l'applicazione di quella penale160. Si è pure posto l'accento sulla circostanza che, a differenza che per la disciplina del copyright, la protezione ai sensi delle Model Provisions spetta alle espressioni di folklore a prescindere dalla previa fissazione su un supporto161. Sono, tuttavia, come si è detto, fatti salvi dall'art. 12 i diritti di proprietà intellettuale spettanti, ad esempio, ai produttori di fonogrammi che incorporino espressioni di folklore. In virtù del principio di specialità, perciò, tali espressioni ricevono una tutela speciale, appunto, fintantoché non siano “fissate”. Da questo momento in poi, invece, la disciplina speciale e quella generale iniziano ad operare congiuntamente. Non è chiarito, però, come debbano essere regolati i casi di potenziale conflitto tra le due discipline: si pensi ad esempio all'ipotesi in cui un fonogramma che incorpori una espressione di folklore sia legittimo ai sensi della legislazione sul copyright, ma costituisca una violazione della normativa statale ispirata alle Model Provisions162. Si è inoltre affermato che esse introdurrebbero una sorta di diritto mora- 69 le163, ma a titolarità collettiva164. Ma, come è stato rilevato da altra dottrina, la questione della “titolarità” dell'espressione di folklore viene deliberatamente elusa dalle Model Provisions: “[d]ue to the fact that in many countries the rights to folklore vest in the state, the Model Provisions avoid the concept of ownership”165. Difatti il testo dell'atto stabilisce esclusivamente che le utilizzazioni a scopo lucrativo al di fuori del contesto tradizionale devono essere autorizzate, prevedendo che la competenza a rilasciare tale autorizzazione possa spettare ad un'autorità statale o alla comunità di origine dell'espressione, senza però approfondire in merito al concetto di origine. Pare perciò improprio parlare di diritto morale, considerato che manca la definizione del presupposto fondamentale per la sua esistenza, cioè il suo titolare. Si può in ogni caso riconoscere alle Model Provisions un importante merito, e cioè quello di avere alimentato a livello internazionale un dibattito che fino a quel momento aveva avuto il suo maggiore sviluppo a livello nazionale e locale. Malgrado, infatti, esse si rivolgano ai singoli Stati, l'intermediazione di WIPO e UNESCO ha favorito il confronto di orientamenti spesso molto distanti, cercando al contempo di elaborare un sistema di tutela che mantenesse un nucleo minimo di principi inalterato, lasciando agli Stati la facoltà di modellare le restanti parti nel modo più confacente alle proprie esigenze166. L'abbandono del Draft Treaty, tuttavia, ha arrestato il percorso 163Il diritto morale dell'autore è configurato dall'art. 6Bis della Convenzione di Berna sulla protezione delle opere letterarie e artistiche come “il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualunque deformazione, mutilazione e altra modificazione della detta opera, nonché a qualsiasi altra lesione all’opera stessa che fossero pregiudizievoli al suo onore o alla sua reputazione”. Si tratta di un diritto non trasferibile e il cui esercizio non è soggetto a limitazioni temporali: l'autore conserva la facoltà di esercitarlo durante tutto il corso della sua vita, mentre dopo la sua morte tale facoltà può – dalle singole legislazioni statali – essere attribuita a specifici soggetti (nel nostro ordinamento ai familiari dell'autore). L'autore mantiene i diritti morali relativamente ad una sua opera “[i]ndipendentemente dai diritti patrimoniali d’autore, e anche dopo la cessione di tali diritti”. 164Ibid.Si avrebbe in questo caso una doppia particolarità: per un verso la titolarità collettiva, a differenza di quella individuale o pluripersonale della disciplina comune; per altro verso, con riferimento agli ordinamenti di common law, la stessa previsione di un diritto morale costituirebbe un'innovazione, data la loro estraneità a tale istituto. 165KURUK, P., Protecting Folklore Under Modern Intellectual Property Regimes: a Reappraisal of the Tension Between Individual and Communal Rights in Africa and the United States, in 48 Am. U.L. Rev., 1999, 815. 166Si può in proposito osservare che, data la rilevanza di alcune scelte rimesse alla discrezionalità del singolo Stato, l'efficacia di una simile tutela minima potrebbe essere comunque compromessa. Come già puntualizzato in più occasioni, è sufficiente l'esi- 70 verso una vera estensione del progetto sul piano internazionale. Un nuovo slancio verso l'internazionalizzazione si è avuto a partire dalla fine degli anni '90. Nel 1999, in particolare, WIPO e UNESCO (in questa occasione di nuovo assieme) hanno avviato quattro Regional Consultations on the Protection of Expressions of Folklore, cui hanno preso parte Stati membri, organismi sovranazionali e anche un piccolo numero di organizzazioni non governative. Dalle raccomandazioni adottate nel corso di tali consultazioni emerse la richiesta della creazione di un organismo autonomo di raccordo tra gli Stati nella materia della protezione delle espressioni di folklore. Questo è avvenuto nel 2000, con l'istituzione dell'Intergovernmental Committee on Intellectual Property and Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore (di seguito denominato IGC), nel corso della XXVI Sessione dell'Assemblea Generale WIPO167. In questa sede gli Stati membri, prendendo atto che l'emergere di nuove tecnologie ha creato nuove possibilità di sfruttamento economico delle cosiddette genetic resources168 e delle conoscenze tradizionali che ne sono alla base, e che al contempo – per quanto più specificamente attiene a questo lavoro - “[o]ther tradition-based creations, such as expressions of folklore, have [...] taken on new economic and cultural significance within a globalized information society”, hanno recepito l'esigenza emersa dalle Regional Consultations, rilevando altresì, data la stretta interrelazione tra genetic resources, traditional knowlegde e espressioni di folklore, l'opportunità che l'organismo istituendo fosse incaricato di tutte e tre le materie. I suoi compiti sono essenzialmente di raccordo tra gli Stati. Sono ammesse a partecipare alle riunioni dell'IGC anche organizzazioni non governative accreditate, ma in veste di osservatori. L'IGC ha iniziato la sua attività nel maggio 2001, quando si è tenuta la sua prima sessione. Da allora si riunisce con cadenza quasi semestrale. Nel 2004 gli Stati membri hanno commissionato allo stesso l'elaborazione di un nuovo modello normativo, che ha preso il nome di Draft Provisions. Queste vengono stenza di una tensione tra Stato e comunità “detentrice” di un'espressione di folklore perché le scelte operate dal primo alimentino quantomeno il sospetto di non essere del tutto favorevoli nei confronti della seconda. 167Il documento è reperibile online alla pagina: http://www.wipo.int/meetings/en/doc_details.jsp?doc_id=1460. 168Si intende con questa espressione l'insieme degli elementi “naturali” collegati all'agricoltura tradizionale, come in particolare la varietà di semi e piante. Le conoscenze tradizionali che hanno ad oggetto l'utilizzazione della terra vengono invece fatte rientrare nella categoria della traditional knowledge. 71 costantemente aggiornate sulla base dei nuovi orientamenti emergenti in seno all'IGC. Per favorire la revisione è stato inaugurato, a partire dalla VII sessione dell'IGC, nel 2005, un Commenting Process, con lo scopo di raccogliere le osservazioni non solo degli Stati, ma anche di soggetti comunità indigene e organizzazioni non governative portatrici di interessi collegati alle aree di interesse dell'IGC. Le Draft Provisions, a differenza delle Model Provisions, non sono onnicomprensive: ne esistono due diverse sezioni, relative rispettivamente a espressioni culturali tradizionali da una parte e conoscenze tradizionali e risorse genetiche dall'altra. Le ragioni della separazione dei due campi sono di carattere politico: si è inteso infatti riflettere le pratiche attualmente esistenti a livello nazionale e internazionale, in modo da rendere più agevole il recepimento169. Sul piano dei contenuti, le Draft Provisions presentano inoltre rispetto alle Model Provisions una maggiore elasticità. Ciò è determinato dalla diversa genesi che i due atti hanno avuto: le seconde sono frutto del lavoro di una commissione che ha operato con una certa autonomia, pur nell'ambito delle osservazioni preliminari effettuate dagli Stati, che hanno svolto in un certo qual modo la funzione di principi generali; le seconde sono il frutto di una continua negoziazione, che nella generalità dei casi conduce non alla modifica del testo, ma alla sua integrazione con nuove prescrizioni alternative a quelle già presenti, in modo tale che ciascuno Stato possa “comporre” l'eventuale atto normativo nazionale nel modo ritenuto più adeguato alle proprie esigenze. Una tale flessibilità non investe solo la parte prescrittiva delle Draft Provisions, ma anche quella “descrittiva”. Risulta così che l'espressione "Traditional cultural expressions" può riferirsi sia in senso lato a qualunque manifestazione – materiale o immateriale – di cultura 169Si legge nel sito internet della WIPO: “There are two distinct sets of provisions, one dealing with TCEs (or expressions of folklore) and the other with TK. This responds to the choice made in many cases to address distinctly the specific legal and policy questions raised by these two areas. However, the draft materials are prepared in the understanding that for many communities these are closely related, even integral, aspects of respect for and protection of their cultural and intellectual heritage. The two sets of draft provisions are therefore complementaryand closely coordinated. Taken together, they do form an holistic approach to protection. This reflects existing practice at the international and national levels. Some jurisdictions protect both TCEs and TK in a single instrument. Others use a range of laws and instruments to address the two areas distinctly. Some laws also address specific aspects of these two areas, such as biodiversity-related TK or indigenous arts and crafts. The draft objectives and principles acknowledge those diverse choices and facilitate a holistic approach”: http://www.wipo.int/tk/en/consultations/draft_provisions/draft_provisions.html. 72 e conoscenze tradizionali sia, in senso stretto, ad espressioni creative 170 riferibili ai “beneficiari” della protezione, che a loro volta possono essere membri di comunità indigene o di comunità più ampie 171. Viene meno dunque il riferimento alle sole espressioni artistiche, ma non vengono eliminate alcune ambiguità che, anzi, risultano accentuate dalla estrema variabilità della definizione dell'oggetto della tutela. E' possibile in proposito osservare che l'attribuzione agli Stati del potere non solo di stabilire se tutelare o no le 170ARTICLE 1 (SUBJECT MATTER OF PROTECTION) 1. "Traditional cultural expressions"1 are any form, tangible or intangible, or a combination thereof, in which traditional culture and knowledge are embodied and have been passed on [from generation to generation],/tangible or intangible forms of creativity of the beneficiaries, as defined in Article 2 including, but not limited to: (a) phonetic or verbal expressions, such as stories, epics, legends, poetry, riddles and other narratives; words, [signs,] names, [and symbols]; (b) musical or sound expressions, such as songs, [rhythms,] and instrumental music, the sounds which are the expression of rituals; (c) expressions by action, such as dances, plays, ceremonies, rituals, rituals in sacred places and peregrinations, [sports and [traditional]] games, puppet performances, and other performances, whether fixed or unfixed; (d) tangible expressions, such as material expressions of art, [handicrafts,] [works of mas,] [architecture,] and tangible [spiritual forms], and sacred places. ] 2. Protection [shall] should extend to any traditional cultural expression which is the [unique] / indicative / characteristic product of a people or community, including an indigenous people or local community and cultural communities or nations as defined in Article 2, and [belongs to] is used and developed by that people or community [as part of their cultural or social identity or heritage]. Protected traditional cultural expressions shall be: (a) the products of [creative intellectual activity,] including communal creativity; (b) indicative of [authenticity/being genuine] of the cultural and social identity and cultural heritage of indigenous peoples and communities and traditional and other cultural communities; and (c) maintained, used or developed by nations, states, indigenous peoples and communities and traditional and other cultural communities, or by individuals having the right or responsibility to do so in accordance with the customary land tenure system or law / customary normative systems or traditional/ancestral practices of those indigenous peoples and communities and traditional and other cultural communities, or has an affiliation with an indigenous/traditional community. 3. The specific choice of terms to denote the protected subject matter should be determined at the national, regional, and sub-regional levels. 171ARTICLE 2 (BENEFICIARIES) Measures for the protection of traditional cultural expressions shall/should be for the benefit of the: Option 1: Indigenous Peoples, communities2 and nations, Local Communities and Cultural Communities [and individuals of those communities] Option 2: Peoples and Communities, [for example] including Indigenous Peoples, Communities, Local Communities, Cultural Communities, and/or Nations, and individual groups and families and minorities. 73 espressioni culturali tradizionali, ma altresì di determinare in cosa tale espressioni consistano ponga alcune questioni. Si è detto delle ragioni politiche che hanno determinato la flessibilità del testo. Tuttavia, proprio sul piano politico, una tale discrezionalità anche in campo definitorio rischia di compromettere il progetto di avvicinamento delle legislazioni statali in materia di tutela delle espressioni culturali e delle conoscenze tradizionali. Quanto ai contenuti, invece, si rileva come il coinvolgimento dei “detentori” e di organizzazioni non governative, seppure sia in grado di influire sul processo di revisione delle Draft Provisions, non necessariamente è altrettanto idoneo a influire sul processo di recepimento. In altri termini le comunità insistenti sul territorio di uno Stato potrebbero essere consultate in sede internazionale, ma non statale, non essendo previsto un meccanismo di consultazione obbligatorio a questo livello. Di conseguenza si potrebbe verificare la situazione per cui lo Stato interessato adotti scelte che non coincidano con le esigenze espresse da tali comunità172. Le Draft Provisions presentano ad ogni modo alcune ulteriori significative differenze rispetto alle Model Provisions, oltre a quelle già esaminate. Compare, ad esempio, all'art. 3, il riferimento alle espressioni culturali tradizionali mantenute segrete dalla popolazione indigena (o dalla comunità di riferimento, o dalla nazione, a seconda dei casi), con riguardo alle quali è prevista l'adozione di misure adeguate, al fine di prevenirne “unauthorized fixation, disclosure, use, or other exploitation”173. Sono presenti inoltre alcune disposi[in whom the [custody, and] safeguarding of the traditional cultural expressions are [entrusted [or bywhom they are held] presumed to be vested] in accordance with:] [Option 1: the relevant national laws and/or practices Option 2: their laws and/or practices, including customary law and community protocols] [[and] or who maintain, control, use or develop the traditional cultural expressions as being [characteristic or genuine] indicative expressions of their cultural and social identity and cultural heritage. In case a traditional cultural expression is specific to a nation, the authority as determined by the national law.] 172Quanto alla possibilità che una comunità insista sul territorio di più Stati, o che sia in contrasto con lo Stato, si rimanda alle considerazioni svolte nel primo capitolo e nel seguente paragrafo. 173Un esempio tra tanti può essere ricavato dai rituali di alcune tribù aborigene australiane. Vi sono cerimonie sacre alle quali non solo non sono ammessi a partecipare gli individui estranei alla tribù, ma altresì gli stessi individui della tribù che non siano in possesso di particolari requisiti. Per lo svolgimento di tali riti è previsto l'utilizzo di strumenti musicali – in particolare idaki (gli strumenti a fiato in legno comunemente denominati “didjeridoo”) – anch'essi segreti, realizzati con particolari decorazioni, che non possono essere a loro volta utilizzate al di fuori dei 74 zioni analoghe a quelle già presenti nelle Model Provisions in materia di citazione della fonte. Nell'alternativa 3, art. B, si parla di “interesse morale” dei beneficiari ad essere riconosciuti come fonte dell'espressione culturale oggetto di utilizzazione. Viene mantenuta l'impostazione per cui l'utilizzazione può essere soggetta ad autorizzazione da parte dei beneficiari o da parte di un'autorità pubblica incaricata, con l'eventuale obbligo per l'utilizzatore di corrispondere una somma di denaro o altri benefici (art. 4, comma 1). È previsto qui che, anche in questo secondo caso, i beneficiari possano comunque essere consultati, e che il loro parere possa essere espresso con modalità non stabilite dalla legge dello Stato, ma in conformità a norme consuetudinarie (art. 4, comma 1, lett. (c)). Su richiesta dei beneficiari, che hanno anche il diritto di essere consultati, l'autorità competente può altresì svolgere attività di carattere accessorio rispetto al suo incarico principale, quali: a) attività di sensibilizzazione e divulgazione; b) monitoraggio sull'utilizzo delle espressioni culturali tradizionali; c) fissazione dei criteri per la determinazione dei benefici monetari e non; d) assistenza nella negoziazione tra beneficiari e utilizzatori delle espressioni culturali tradizionali (art. 4, comma 2). È posto l'obbligo di trasparenza in capo all'autorità competente con riguardo alla provenienza dei benefici, al loro ammontare e alla loro distribuzione tra i beneficiari174. È stata espunta, invece, la previsione – contenuta nelle precedenti versioni delle stesse Draft Provisions – che stabiliva una differenziazione nella tutela a seconda che l'espressione culturale tradizionale fosse stata o meno registrata, e che di tale utilizzazione fosse stata data notifica alla comunità o autorità competente175. Rimane esclusa dall'art. 5 – in conformità con il dettato delle Model Proviriti stessi. 174Tale obbligo è stato inserito nella revisione del 2011 in risposta alle critiche mosse specialmente dalle stesse comunità interessate, che lamentavano l'assenza di criteri per la riscossione e la ripartizione dei benefici. Osservava S. Von Levinksy in proposito: allusions have been made to the potential threat that benefits that benefits would not, or not fully, reach the relevant communities, at least if state agencies were to be involved: VON LEWINSKI, S., An Analysis of WIPO's Latest Proposal and the Model Law 2002 of the Pacific Community for the Protection of Traditional Cultural Expressions, in C. ANTONS (a cura di), Traditional Knowledge, Traditional Cultural Expressions and Intellectual Property Law in the Asia-Pacific Region, Alphen aan den Rijn, 2009, 117. 175Sosteneva ad esempio S. Von Lewinski: “such a system might be too close to western thinking and not truly adapted to the needs of indigenous communities, in particular since the […] registration or notification is in contraddiction to the dynamic, oral nature of indigenous heritage”: ivi, 116. 75 sions – l'applicazione delle norme in materia di autorizzazione per le utilizzazioni che avvengano all'interno del contesto tradizionale, con il fine di favorire non solo l'utilizzo, la trasmissione e lo sviluppo delle espressioni culturali (come in precedenza stabilito) ma pure il loro scambio all'interno della comunità e tra comunità diverse176. Sono inoltre consentite in ogni caso: a) la registrazione e la riproduzione di espressioni culturali tradizionali realizzate con il fine di includere le stesse in archivi, inventori o di promuoverne la diffusione per scopi non commerciali e di salvaguardia; b) la creazione di opere originali da parte di appartenenti alla comunità beneficiaria (o con la loro partecipazione), ispirate a espressioni culturali tradizionali (Art. 5, comma 4). Quanto ai limiti temporali della protezione, l'art. 6 prevede alcune differenziazioni. In via generale la protezione dura fintantoché l'espressione rientri nei requisiti di cui all'art. 1. Tale previsione si applica indistintamente alle espressioni non segrete ed a quelle segrete. È prevista poi una protezione illimitata nel tempo con riferimento alle utilizzazioni che comportino la distorsione, mutilazione o altra modificazione o violazione, poste in essere con lo specifico intento di causare un danno alla comunità, anche alla sua reputazione o immagine (Opzione 1). Infine, con riguardo almeno agli “economic aspects of traditional cultural expressions”, la loro protezione può essere limitata nel tempo (Opzione 2). Si parla di aspetti economici delle espressioni culturali tradizionali: mancando ulteriori specificazioni, non è chiaro se la norma si riferisca agli aspetti economici delle utilizzazioni di tali espressioni, o a qualcosa che prescinda dall'utilizzazione; in questo secondo caso, ne sarebbe del tutto oscura la portata. L'art. 8, a differenza di quanto stabilito dalle Model Provisions, attribuisce ampi poteri agli Stati nella determinazione della natura – civile o penale – delle violazioni, delle sanzioni e dei rimedi. Ciascuno Stato può, inoltre, prevedere che le controversie in materia di espressioni culturali tradizionali possano essere deferite ad un organismo indipendente, internazionale o sta176Si precisa che le norme consuetudinarie o le prassi che regolano l'utilizzo nell'ambito del contesto tradizionale devono essere “consistent with national laws of the member states” (art. 5, comma 1, lett. (a)). Non è specificato se la compatibilità con la legge statale debba essere valutata con riguardo ai soli principi generali dell'ordinamento giuridico o se, invece, lo Stato possa addirittura imporre delle limitazioni positive all'utilizzo, pur nel contesto tradizionale. In quest'ultima ipotesi, che non pare possa essere esclusa dall'analisi del dato normativo, vi sarebbe un'evidente contraddizione con il principio enunciato nel primo periodo dello stesso art. 5. 76 tale. Infine, è stabilito che la tutela accordata dalla normativa statale ispirata alle Draft Provisions non debba pregiudicare quella prevista da eventuali strumenti internazionali in materia di proprietà intellettuale. Concludendo, l'estrema varietà delle soluzioni normative attualmente possibili per i singoli Stati, grazie alla elasticità delle Draft Provisions, pur rispondendo all'esigenza di favorire il loro recepimento, rischia di allontanare l'obbiettivo primario, ossia l'armonizzazione delle legislazioni statali. Se, infatti, risulta arduo persuadere lo Stato ad adottare una disciplina della materia, in assenza di precedenti normativi, potrebbe non essere più semplice, una volta che tale disciplina sia “entrata a regime”, convincerlo a modificarla, incidendo su situazioni giuridiche sorte nel frattempo e su rivendicazioni di comunità o individui che potrebbero perdere privilegi acquisiti. Una menzione merita anche il Cultural Heritage Program avviato da WIPO negli ultimi anni in parallelo con l'attività dell'IGC, con lo scopo di raccogliere e documentare le migliori pratiche in materia di protezione delle espressioni culturali tradizionali con strumenti di proprietà intellettuale, sviluppate da Stati, istituzioni pubbliche e private. A tal fine la WIPO commissiona a esperti lo svolgimento di indagini, con lo scopo di accertare lo “stato dell'arte” in specifici Paesi o regioni geografiche. I risultati delle indagini confluiscono poi in un database online, nel quale è possibile verificare, per singoli Stati e aree di interesse, l'esistenza di una specifica disciplina o di altre risorse. Attraverso conferenze, seminari, pubblicazioni e altri progetti indirizzati alle comunità indigene (e talvolta realizzati con il coinvolgimento delle stesse), l'organizzazione tende a favorire una maggiore sensibilizzazione sull'argomento della tutela delle espressioni culturali e delle conoscenze tradizionali anche tra gli individui, presumibilmente con l'obbiettivo di far sì che le future scelte degli Stati vengano sollecitate da un'opinione pubblica consapevole. Tuttavia, la mancata previsione nel testo normativo di riferimento – quello delle Model Provisions – di uno strumento istituzionale di raccordo e consultazione tra livello governativo e soggetti beneficiari della tutela, comporta che una tale eventualità sia rimessa a scelte discrezionali del singolo Stato. L'opera di divulgazione e sensibilizzazione rischia perciò di 77 non produrre i risultati sperati. 1.2 L'UNESCO la e salvaguardia del patrimonio culturale immateriale. Uno dei più importanti e discussi progetti promossi dall'UNESCO negli ultimi decenni concerne la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (di seguito ICH), firmata a Parigi nel 2003177 in seno alla trentaduesima Conferenza Generale dell'Organizzazione. L'adozione della Convenzione costituisce per la verità la tappa di un percorso intrapreso dall'UNESCO a partire dagli anni '70. Esso ha tratto origine, in particolare, da una proposta della delegazione boliviana del 1973, con la quale lo Stato sudamericano proponeva l'elaborazione di un Protocollo da annettere alla Convenzione Universale sul Diritto d'autore, che riguardasse espressamente le arti popolari e il patrimonio culturale di tutte le nazioni. In quegli stessi anni, com’è noto, l'UNESCO aveva avviato una collaborazione con WIPO, culminata con l'adozione, nel 1985, delle Model Provisions. Durante questo periodo, il processo innescato dalla proposta della Bolivia era rimasto sopito, per poi riprendere vigore nella seconda metà degli anni '80, una volta conclusa l'esperienza collaborativa delle due istituzioni. Il rinnovato interesse nei confronti del progetto di tutela del patrimonio culturale ebbe come suo primo risultato concreto l'emanazione, nel 1989, della Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore. A tale proposito si è osservato in dottrina come tale strumento si sia rivelato “largamente deficitario”178, a causa della scarsa attenzione da esso dedicata ai soggetti “portatori” delle espressioni culturali cui si riferisce179. 177L'adozione ha avuto luogo il 17 ottobre 2003, in seno alla XXXII Conferenza Generale UNESCO. Tutte le decisioni adottate in tale sede sono consultabili su internet alla pagina: http://portal.unesco.org/en/ev.phpURL_ID=8731&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SE CTION=201.html 178L. ZAGATO, La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, in Le identità culturali nei recenti strumenti UNESCO. Un approccio nuovo alla costruzione della pace?, a cura di L. Zagato, I, Padova, 2008, 31. 179Si veda in proposito J. BLAKE, Developing a New Standard-setting Instrument for the Safeguarding of Intangible Cultural Heritage Elements for consideration, UNESCO, 2001, che scrive: “A major criticism of the Recommendation is that it is heavily weighted towards a view of ‘safeguarding’ designed with the needs of scientific researchers and government officials in mind. There is too much emphasis on the role of such ‘outsiders’ in the identification, dissemination and conservation of folklore. This is out of tune with more recent calls by indigenous groups for strengthening their role in such activities through capacity-building and other measures. Such calls must be 78 Nel 1992 viene varato l'Intangible Heritage Program, che si articola in diversi progetti tematici. Tra questi spiccano il progetto “Living Human Treasures” e il programma intitolato “Proclamation of Masterpieces of the Oral and Intangible Heritage of Humanity”180. Quest'ultimo, in particolare, ha avuto la sua prima applicazione pratica nel 2001, con la proclamazione dei primi diciannove “capolavori”. Nel 2003, infine, l'approvazione della Convenzione sull'ICH ha conferito una veste istituzionale più compiuta al programma, proseguendo con la politica di riconoscimento e proclamazione. Tuttavia, si può affermare che anche in tale sede l'UNESCO abbia perso l'occasione di affrontare alcune criticità emerse dal lavoro precedentemente svolto, facendo prevalere le ragioni più squisitamente politiche del progetto181. Come è evidente dallo stesso titolo della Convenzione e dall'indicazione dei suoi scopi, contenuta nell'art. 1, lett. a), essa ha ad oggetto non tanto una generica tutela del patrimonio culturale immateriale, quanto piuttosto la sua salvaguardia. La scelta del termine non è casuale: “salvaguardia” richiama l'idea di qualcosa la cui esistenza è minacciata, e che per questo necessita di una specifica protezione. Infatti, come si legge nell'art. 2, par. 3, nella definitaken account of in any future instrument drafted for protecting intangible heritage. There are occasional nods in the text towards the ‘group’ for whom and by whom folklore should be safeguarded and the ‘tradition-bearers’ of such folklore. However, in many cases the promise of such references is not followed through into the specific actions to be taken by Member States and the text appears to suggest that the originating”. 180“Il primo, richiamando l'esperienza legislativa giapponese e coreana degli anni '50, dà riconoscimento ufficiale – attraverso la creazione di una lista ad hoc – ai 'portatori umani' che incarnano particolari abilità, competenze, conoscenze tradizionali, ripromettendosi di facilitarne la trasmissione alle future generazioni. Il secondo è stato varato nel 1997. […] La proclamazione dei capolavori – ad opera di una giuria internazionale stabilita dalla stessa UNESCO – prevista su base biennale, ha in effetti avuto luogo nel 2001, 2003 e 2005”: ZAGATO, La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, cit, 31. 181“[L]a crescita di importanza del patrimonio culturale intangibile lungo l'arco degli anni '90 rappresent[a] ben più che il momento di maturazione di un lungo processo di progressiva presa di coscienza da parte degli Stati della necessità di dotarsi di uno strumento ad hoc; è piuttosto il risultato di una discontinuità, ovvero la presa d'atto della centralità che beni e manifestazioni culturali – e la loro eventuale distruzione – rivestono nei nuovi conflitti identitari”: ivi., 29; “Il dibattito restava concentrato esclusivamente sui profili istituzionali del nuovo strumento, nonché sulla sorte della Lista dei capolavori del patrimonio orale e intangibile dell'umanità. Malgrado ciò, il Progetto venne poi approvato in sede di 32° Conferenza generale con pochissime modificazioni. La rapidità del procedimento […] costituisce indizio delle presenza di importanti problemi rimasti irrisolti”: ivi., 34. 79 zione di “salvaguardia” rientrano anche le attività di preservazione, protezione e ravvivamento del patrimonio culturale 182. Anche nei “considerando” viene esplicitata in maniera chiara un'impostazione in tal senso. Si riconosce, ad esempio, che “i processi di globalizzazione e di trasformazione sociale, assieme alle condizioni che questi ultimi creano per rinnovare il dialogo fra le comunità, creano altresì, alla stregua del fenomeno dell’intolleranza, gravi pericoli di deterioramento, scomparsa e distruzione del patrimonio culturale immateriale, in particolare a causa della mancanza di risorse per salvaguardare tali beni culturali, consapevoli della volontà universale e delle preoccupazioni comuni relative alla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”; si ritiene, inoltre, che vi sia “il bisogno di creare una maggiore consapevolezza, soprattutto fra le generazioni più giovani, riguardo alla rilevanza del patrimonio culturale immateriale e alla sua 182 Cfr. art. 2 (Definizioni) Ai fini della presente Convenzione, 1. per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. Ai fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio culturale immateriale unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile. 2. Il “patrimonio culturale immateriale” come definito nel paragrafo 1 di cui sopra, si manifesta tra l’altro nei seguenti settori: a) tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo del patrimonio culturale immateriale; b) le arti dello spettacolo; c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi; d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo; e) l’artigianato tradizionale. 3. Per “salvaguardia” s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale. 4. Per “Stati contraenti” s’intendono gli Stati vincolati dalla presente Convenzione e per i quali la presente Convenzione è in vigore. 5. La presente Convenzione si applica mutatis mutandis ai territori di cui all’articolo 33 che divengono Stati contraenti della presente Convenzione conformemente alle condizioni stabilite in detto articolo. In questo contesto l’espressione “Stati contraenti” si riferisce anche a questi territori. 80 salvaguardia”183. La salvaguardia, ai sensi della Convenzione, ha perciò la funzione di garantire la vitalità delle espressioni culturali immateriali. Quanto all'oggetto della Convezione, il patrimonio culturale immateriale, esso è definito come l'insieme delle “prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”. Tale patrimonio è da una parte “trasmesso di generazione in generazione”, dall'altra “costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. Sono invece espressamente escluse tutte le espressioni culturali immateriali che non siano “compatibil[i] con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile”. Un ampio dibattito in dottrina ha preso il via all'indomani dell'adozione della Convenzione, ed è proseguito con ancora maggior vigore a seguito della sua applicazione pratica, dalla quale sono emersi ulteriori spunti critici. Tale dibattito ha avuto in particolare ad oggetto la definizione di “patrimonio culturale immateriale” e il procedimento approntato per la “salvaguardia” delle espressioni culturali immateriali. In particolare, ci si è chiesti se e quanto lo strumento delle liste rappresentative sia utile ed efficace per il perseguimento degli scopi della Convenzione. Per quanto riguarda la nozione di “patrimonio culturale immateriale”, la scelta dell'espressione è stata una decisione “di compromesso”, date le difficoltà per la comunità accademica nel fornire una definizione univoca di termini – quali ad esempio “folklore” e “cultura tradizionale” – di uso più comune184. Si è optato perciò per una categoria “artificiale”, la cui estensione è 183Il testo integrale della Convenzione nella traduzione italiana ufficiale è reperibile al sito: http://www.unesco.org/culture/ich/doc/src/00009-IT-PDF.pdf. 184“The technical, somewhat awkward term ‘intangible cultural heritage’ was selected because of the many difficulties cultural workers and scholars have encountered in an international, comparative context, with the use and misunderstanding of such terms as ‘folklore’, ‘oral heritage’, ‘traditional culture’, ‘expressive culture’, ‘way of life’, ‘folklife’, ‘ethnographic culture’, ‘community-based culture’, ‘customs’, ‘living cultural heritage’, and ‘popular culture’”: R. KURIN, Safeguarding Intangible Cultural Heritage in the 2003 UNESCO Convention: a critical appraisal, in Musem International, 81 funzionale alla sola applicazione della Convenzione. La scelta di adottare una categoria costruita ad hoc non solo evita di affrontare il problema definitorio, ma ne crea potenzialmente di nuovi. Resta aperta anzitutto la questione di cosa sia cultura e cosa non lo sia. Controversa, a tale proposito, è l'esclusione operata nei confronti delle espressioni contrarie al principio del rispetto dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile 185. Crea qualche incertezza, inoltre, l'inclusione nella previsione dell'art. 2, par. 1, anche di beni indiscutibilmente materiali, quali strumenti, manufatti etc. Dà atto di questa ambiguità la deliberazione del Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale186, nella sua quinta sessione (Algeri, 1819 Novembre 2006), contenente la bozza di determinazione dei criteri per l'inserimento nella prima lista rappresentativa. Nelle annotazioni relative al primo criterio – “Fall within one or more of the domains listed in Article 2.2 of the Convention” – si legge: “Article 2.1 includes in its definition of ICH not only 'practices, representations, expressions, knowledge, skills' but also 'the LVI, I-II, 2004, 67. 185Scrive ancora KURIN, ivi, 70:“Determining what is allowable or not as intangible cultural heritage under the Convention will be a difficult task [...]The Convention’s standard is quite idealistic, seeing culture as generally hopeful and positive, born not of historical struggle and conflict but of a varied flowering of diverse cultural ways. Including the ‘mutual respect’ standard can however disqualify much of the world’s traditional culture from coverage by the Convention. […] The standard of ‘sustainability’ is noteworthy but problematic. [...]Sustainability here is an ideal to be achieved, not an eligibility requirement for action. Cultural workers will have to figure out the degree to which a tradition may be sustained – much more a matter of professional judgement than legal stricture. […] For many peoples, separating the tangible and the intangible seems quite artificial and makes little sense. For example, among many local and indigenous communities, particular land, mountains, volcanoes, caves and other tangible physical features are endowed with intangible meanings that are thought to be inherently tied to their physicality. Similarly, it is hard to think of the intangible cultural heritage of Muslims on the hajj, Jews praying at the western wall of Jerusalem’s temple, or Hindus assembling for the kumbh mela as somehow divorced and distinct from the physical instantiation of spirituality. Given that the Convention, in effect, operationally makes the intangible tangible, the conceptual distinction and separation of the two domains is problematic”. 186Istituito ai sensi dell'art. 5 della Convenzione, con i seguenti compiti, indicati all'art. 7: a) promuovere gli obiettivi della presente Convenzione nonché sostenere e sorvegliare la sua attuazione; b) consigliare sulle migliori prassi da seguire e formulare raccomandazioni sulle misure volte a salvaguardare il patrimonio culturale immateriale; c) elaborare e sottoporre all’Assembla generale per l’approvazione un progetto per l’uso delle risorse del Fondo, conformemente all’articolo 25; d) cercare il modo di accrescere le risorse e adottare tutte le misure necessarie a tal fine, in conformità con l’articolo 25. 82 instruments, objects, artefacts and cultural spaces associated therewith'. Experts felt that such objects or spaces cannot be inscribed without the practices, etc. with which they are associated”187. In dottrina si è sostenuto che l'impianto della Convenzione sarebbe in qualche modo viziato dall'utilizzo di un approccio “occidentale”, si potrebbe dire “paternalistico”, che inficerebbe la sua stessa credibilità, prima ancora che l'efficacia. L'ampia portata della nozione di “patrimonio culturale intangibile”, che nelle intenzioni degli Stati contraenti avrebbe dovuto consentire l'estensione della protezione al più vasto ambito possibile di espressioni culturali, rischia nei fatti di rendere del tutto arbitraria la scelta su quali di esse sottoporre a riconoscimento e quali no188. Tali criticità risultano accentuate dagli strumenti per la salvaguardia previsti dalla Convenzione. Come si è accennato sopra, il principale di essi è quello del riconoscimento. Nella terminologia dell'Intangible Heritage Program si parlava di “masterpieces”, espressione che ha continuato ad essere invalsa anche sotto la vigenza della Convenzione, per essere dismessa nel 2005, con l'entrata in vigore di quest'ultima (art. 31, par. 3) – “anche per l’evidente ambiguità della definizione di capolavoro a proposito di espressioni appartenenti a culture diverse”189 – in favore della istituzione di due liste rappresentative del patrimonio intangibile, la “Representative List of the ICH” (art. 16) e la “List of Intangible Heritage in Need of Urgent Safeguarding” 187Il testo della deliberazione è reperibile su internet alla pagina: http://unesdoc.unesco.org/images/0017/001776/177677e.pdf. Si ritrova un'analoga osservazione nelle parole di R. Kurin, al tempo dell'approvazione della Convenzione Direttore del “Smithsonian Institution Centre for Folklife and Cultural Heritage”, che ha avuto un ruolo centrale nell'elaborazione della convenzione. Costui scrive: “Craft items, such as magnificently elaborate Lithuanian crosses are tangible, but the knowledge and skills to create them intangible. Tools are tangible, but plans, if thought are not, but if drawn are”: ibid. 188Scrive in proposito l'antropologa B. Kirshenblatt-Gimblett: “By admitting cultural forms associated with royal courts and state-sponsored temples, as long as they are not European, the intangible heritage list preserves the division between the West and the rest and produces a phantom list of intangible heritage, a list of that which is not indigenous, not minority, and not non-Western, though no less intangible”: KIRSHENBLATT-GIMBLETT, B., Intangible Heritage as Metacultural Production, in Musem International, LVI, I-II, 2004, 57. Si vedano anche le interessanti osservazioni contenute in M.L. CIMINELLI, Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e possibili effetti collaterali: etnomimesi ed etnogenesi, in Le identità culturali nei recenti strumenti UNESCO. Un approccio nuovo alla costruzione della pace?, a cura di L. Zagato, I, Padova, 2008, 99 ss.; 189I. MACCHIARELLA, Dove il tocco di Re Mida non arriva. A proposito di proclamazioni Unesco e musica, in Ricerca Folklorica, 63, 2011, in corso di pubblicazione. 83 (art. 17). In casi di estrema urgenza, inoltre, sulla base di “criteri obbiettivi [...] approvati dall’Assemblea generale su proposta del Comitato 190”, quest'ultimo può iscrivere una voce del patrimonio culturale in oggetto nella Lista di cui al paragrafo 1, previa consultazione con lo Stato contraente interessato”. Interlocutori esclusivi del Comitato, nel procedimento di riconoscimento, sono gli Stati aderenti alla Convenzione, ai quali soli spetta il potere di sottoporre all'UNESCO la candidatura delle espressioni culturali immateriali presenti all'interno dei loro territori. Tale potere esclusivo si esplica con riguardo ad entrambe le liste. L'interrogativo che sorge spontaneo, a questo proposito, è quale debba essere la sorte delle espressioni culturali la cui esistenza sia minacciata proprio dallo Stato “interessato”, ad esempio perché facenti riferimento ad una minoranza etnica, religiosa etc., osteggiata dal Governo centrale o da uno o più governi locali. Parrebbero in questo modo contraddetti gli stessi principi ispiratori della Convenzione. Allo stesso modo, una simile situazione risulta difficilmente compatibile con il rispetto dei diritti umani, cui invece, come si è visto, sono vincolate le espressioni che ambiscano ad ottenere il riconoscimento. Manca inoltre una precisa determinazione dei criteri per l'individuazione dei casi di urgenza, che non rientrino in quelli di “estrema urgenza”. L'assenza di criteri certi ha prodotto risultati in alcuni casi paradossali, come la candidatura di forme espressive al riconoscimento nella seconda lista al solo fine di ottenere che la relativa domanda godesse di una “corsia preferenziale”, invece che attendere i più lunghi tempi necessari per l'esame delle candidature relative alla prima lista. Paradossali perché lo stratagemma ha effettivamente funzionato191. 190Art. 5 Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale 1. Viene qui istituito nell’ambito dell’UNESCO un Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, in seguito denominato “il Comitato”. Esso sarà composto dai rappresentanti di 18 Stati contraenti che vengono nominati dagli Stati contraenti riuniti in Assemblea generale dopo che la presente Convenzione sarà entrata in vigore conformemente all’articolo 34. 2. Il numero di Stati membri del Comitato sarà aumentato a 24 non appena 50 Stati contraenti avranno aderito alla presente Convenzione. 191Un esempio di ciò si ritrova citato in I. MACCHIARELLA, op. cit. Macchiarella, al tempo della CIG di Abu Dhabi consulente UNESCO, racconta alcuni retroscena della proclamazione della “Paghjella”, una forma di canto polifonico originaria della Corsica, avvenuta proprio nel corso di quella Conferenza: “Tra le altre cose, nel dossier si afferma che oggi nell’isola sono attivi solo trenta cantori e solo cinque veri 'maestri di canto'! Una falsità enorme che i responsabili della procedura hanno giustificato a fronte delle rimostranze dei tantissimi cantori a paghjella dell’isola, 84 È, per la verità, previsto dalla Convenzione il coinvolgimento delle comunità direttamente interessate, ma la previsione ha carattere sussidiario 192; anche gli Stati al loro interno sono tenuti a compiere “ogni sforzo per garantire la più ampia partecipazione di comunità, gruppi e, ove appropriato, individui che creano, mantengono e trasmettono tale patrimonio culturale, al fine di coinvolgerli attivamente nella sua gestione” (art. 5). Si tratta tuttavia di una previsione che non va oltre la dichiarazione di principio, mancando di una qualunque forza vincolante. Il ruolo più importante finora svolto dalle comunità, in fase propositiva, è stato quello di aderire ad una candidatura, mediante la compilazione in genere di moduli prestampati con i quali i singoli soggetti, in qualità di rappresentanti di una determinata forma di espressione, ne richiedono l'iscrizione in una delle due liste rappresentative193. A livello internazionale, invece, è prevista dall'art. 9 la possibilità per “organizzazioni non governative aventi una fondata competenza nel settore del patrimonio culturale immateriale” di ottenere, su proposta del Comitato e su nomina dell'Assemblea Generale, l'accreditamento “per esercitare una funzione consultiva presso il Comitato”. Mancano tuttavia ulteriori specificazioni su come debba essere verificata e valutata tale “specifica competenza”. C'è poi un ulteriore elemento che merita considerazione, sempre con riferimento al potere esclusivo di proposizione della candidatura spettante agli Stati. Il testo della Convenzione nulla dice sulla circostanza, assai comune, in cui la comunità di riferimento di una espressione culturale insista su un terrisostenendo che 'se non avessero scritto ciò, l’Unesco non avrebbe preso in considerazione la candidatura'”. 192“A chi spetta identificare cosa costituisce il patrimonio culturale intangibile? Alla stregua dell'art. 2(1) si potrebbe intendere che tale compito spetti a comunità, gruppi e, in alcuni casi, individui. Ci si troverebbe allora in presenza di un'autentica rivoluzione: gli Stati parte alla Convenzione si impegnerebbero a salvaguardare e rispettare un patrimonio che, per ognuno di essi, è lasciato ad entità sub-statuali identificare. […] In realtà la previsione in esame va raccordata a quella di cui alla Sez. 3. […] La competenza delle entità substatuali nell'individuazione delle manifestazioni del patrimonio intangibile è di tipo sussidiario. Quanto invece all'individuazione delle manifestazioni del patrimonio culturale intangibile da sottoporre a protezione internazionale […], il relativo potere di proposta spetta solo agli Sati”: ZAGATO, La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, cit, 35. 193A me stesso, in qualità di suonatore di launeddas e membro di un'associazione culturale che ha come scopo sociale la promozione dello strumento, è stato presentato uno di questi moduli, nei quali eventualmente apporre la mia firma per sostenere la candidatura dello strumento al riconoscimento nella prima lista rappresentativa. 85 torio non coincidente con quello di un singolo Stato. In assenza di una specifica disciplina sul punto, si possono ipotizzare diversi plausibili scenari, alcuni dei quali effettivamente confermati dalla prassi. Una prima ipotesi è quella in cui due o più Stati, che ospitino al loro interno una determinata comunità, decidano di proporre assieme una candidatura relativa ad una espressione culturale “appartenente” a tale comunità. Mancando un espresso divieto, una candidatura “collettiva” di questo tipo si può ritenere legittima194; e si può, anzi, affermare che essa sia auspicabile, alla luce dell'intento – esplicitato nella Convenzione – di realizzare il più ampio coinvolgimento delle comunità interessate. Una seconda ipotesi è quella in cui un solo Stato (o comunque solo alcuni degli Stati potenzialmente interessati) proponga la candidatura. Qualora il riconoscimento fosse accordato, si avrebbe una conseguenza opposta a quella di cui al caso precedente: la comunità di provenienza dell'espressione riconosciuta si troverebbe in qualche modo spossessata della stessa, che verrebbe ad essere considerata – ai sensi della Convenzione UNESCO – come geograficamente localizzata all'interno di confini politici rigidi195. Non merita soffermarsi a lungo sulla contraddizione che una siffatta ipotesi rappresenterebbe rispetto al principio sopra citato. In una terza ipotesi si potrebbero avere due candidature “confliggenti”, presentate da due o più Stati che rivendichino per sé e solo per sé una determinata espressione culturale. Non vi sono strumenti nella Convenzione per determinare in che modo un tale conflitto vada risolto, e secondo quali criteri (cronologico, sulla base della candidatura più tempestiva; qualitativo, sulla base della candidatura più argomentata; quantitativo, sulla base del maggior numero di adesioni), o che stabiliscano che in tale ipotesi le candidature debbano essere riunite ed eventualmente accolte congiuntamente. La politica del riconoscimento sulla base di criteri geografici non tiene 194É quello che è avvenuto con l'iscrizione del “Patrimonio Orale Gedele”, riconducibile alla comunità Yoruba-Nago, attualmente distribuita tra Benin, Nigeria and Togo: http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?lg=en&pg=00011&RL=00002. 195Questa circostanza, per la verità, si è già verificata in alcuni casi, come quello dell'iscrizione, nel 2008, della lingua, danza e musica delle comunità Garifuna. Tali comunità, come specificato nello stesso prospetto descrittivo redatto dall'UNESCO, “mainly live in Honduras, Guatemala, Nicaragua and Belize” (questi ultimi sono gli Stati che hanno proposto la candidatura). Riconoscere che una comunità vive “prevalentemente” nel territorio di uno o più Stati significa implicitamente affermare che esistono parti di quella comunità al di fuori di tali confini. I documenti relativi sono disponibili su internet alla pagina: http://www.unesco.org/culture/ich/index.php? lg=en&pg=00011&RL=00001. 86 conto di un ulteriore aspetto: fenomeni come la “delocalizzazione” e la “deterritorializzazione” della cultura, che nell'ultimo secolo – grazie all'incremento dei traffici e degli scambi – hanno avuto un notevole sviluppo, determinano “una non più ovvia coincidenza di luogo, cultura e identità” 196. Permane, invece, nella Convenzione del 2003, una concezione di cultura superata197, come insieme di singoli elementi isolati e considerabili separatamente e senza relazione con il contesto storico e sociale in cui sono maturati. Suscita perplessità, in particolare, la palese contraddizione tra la nozione di patrimonio immateriale, secondo cui esso viene “costantemente ricreato” – che allude ad una sua vitalità e ad un costante aggiornamento – e l'idea che tale fenomeno possa essere sintetizzato nell'individuazione di singole espressioni fuori dal tempo e dallo spazio. Ciò è tanto evidente che nemmeno la dottrina meno ostile alla Convenzione si astiene dal porre in risalto tale circostanza e le sue implicazioni 198. Si consideri, inoltre, la scarsa rilevanza del ruolo assegnato ai consulenti scientifici, i quali sovente parteci196U. FABIETTI - R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, Introduzione all'antropologia, Milano, 2002, 106. 197M.L. Ciminelli pone in relazione il concetto di cultura formulato dall'UNESCO con quello elaborato da E.B. Tylor nel 1871, esaminato nel primo capitolo, e oramai superato: “Sia la Convenzione UNESCO del 2003, sia la Convenzione UNESCO del 2005 fanno appello ad un concetto di cultura di ispirazione antropologica, senza tuttavia esplicitarne i contenuti”. Qualche lume si trova in un documento dedicato alle '10 chiavi' per la comprensione della diversità delle espressioni culturali, adottato nel 2005 dalla 33ma sessione della Conferenza generale dell'UNESCO […]. Se tanto nella definizione tyloriana quanto in quella dell'UNESCO, le cui similarità sono palesi, è chiaramente riconoscibile quell'oggettificazione culturale – l'essenzializzazione, la reificazione delle culture – messa in luce dalla critica antropologica più recente, la versione UNESCO del concetto antropologico di cultura contiene tuttavia una significativa modifica rispetto a quella di Tylor. […] In essa si perde infatti un elemento prezioso delle definizione tyloriana, e cioè il riferimento alla complessità di questo insieme, che risulterebbe altrimenti […] un mero repertorio di “tratti distintivi” slegati tra loro, oltre che – ed anzi in quanto – individuati secondo criteri occidentali”; in M. L. CIMINELLI, M.L., Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e possibili effetti collaterali, cit. 99-100. 198Scrive ad esempio R. Kurin: “The Convention tends to reduce intangible cultural heritage to a list of largely expressive traditions, atomistically recognized and conceived. The actions it proposes miss the larger, holistic aspect of culture – the very characteristic that makes culture intangible. This is the intricate and complex web of meaningful social actions undertaken by individuals, groups, and institutions. Thousands of human cultures today face a myriad of challenges. Whether they survive or flourish depends upon so many things – the freedom and desire of culture bearers, an adequate environment, a sustaining economic system, a political context within which their very existence is at least tolerated”; in R. KURIN, Safeguarding Intangible Cultural Heritage, cit. 74-75. 87 pano alle sedute della CIG solo virtualmente, dovendosi riunire in luoghi separati rispetto a quelli in cui le decisioni vengono effettivamente adottate, o sono invitati ad assistere alle sedute, ma senza diritto di intervento 199. Tutti questi aspetti rendono arduo, quando non impossibile, il riconoscimento in un elevato numero di ipotesi, che pure sarebbero meritevoli di tutela sulla base degli stessi principi della Convenzione. Ciò ha portato studiosi ed esponenti di espressioni culturali che ambiscono al riconoscimento, a cercare di porre in essere in alcuni casi forme di collaborazione trasversale, dirette a proporre candidature più comprensive possibile, sia dal punto di vista territoriale, sia da quello dell'ampiezza del fenomeno considerato 200. Ma anche questi tentativi sono destinati a scontrarsi con l'impossibilità di interloquire direttamente con l'Organizzazione. In conseguenza di ciò, l'iniziativa sarà sempre inevitabilmente rimessa ai singoli Stati di riferimento, la cui volontà (o mancata volontà) continuerà a risultare determinante201. Per quanto concerne il procedimento attraverso il quale il riconoscimento viene assegnato, spettava al Comitato – secondo il disposto degli artt. 16, par. 2 e 17, par. 2 – il compito di definire i criteri per l'iscrizione nelle liste rappre sentative. Ciò è avvenuto nel 2006202, mentre la prima applicazione pratica si è avuta con i riconoscimenti del 2008. Si tratta di criteri tutt'altro che stringenti che – ad eccezione del quinto criterio (l'elemento deve essere stato previamente “inserito in un archivio sul Patrimonio Culturale Immateriale presente nel territorio/i degli Stati membri, come indicato negli articoli 11 e 12 della Convenzione”) – lungi dall'imporre parametri oggettivi al Comitato in sede di esame dei rapporti inviati dagli Stati, attribuiscono nella sostanza a 199Si veda a tal proposito I. MACCHIARELLA, Dove il tocco di Re Mida non arriva, cit. 200Nell'ambito della Conferenza INCONTRO svoltasi a Cagliari a gennaio-febbraio 2011, ad esempio, è emerso il progetto di candidatura della poesia improvvisata – non di una specifica espressione di essa, ma di tutte quelle riconducibili in quest'ampia categoria. Per il conseguimento di questo risultato si è proposto un sodalizio tra poeti improvvisatori e studiosi di quanti più Stati possibile, al fine di sottoporre all'UNESCO una candidatura congiunta, anche con il fine di garantire alla stessa maggiore autorevolezza, e di conseguenza maggiori possibilità di successo. 201Si pensi alla pratica della “Falconeria”, iscritta nella prima lista nel 2010, che è stata attribuita a Emirati Arabi Uniti, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Repubblica di Corea, Mongolia, Marocco, Qatar, Arabia Saudita, Spagna e Siria, ma che è diffusa e vitale in numerosi altri Stati, tra i quali l'Italia. La documentazione è disponibile su internet all'indirizzo: http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?lg=en&pg=00011&RL=00442 202La tabella con l'indicazione dei criteri è visionabile alla pagina: http://www.unesco.it/_filesPATRIMONIOimmateriale/tabella_criteri_immateriale.pdf 88 tale organo piena discrezionalità nella valutazione della sussistenza dei requisiti in essi indicati. In base al primo criterio sono riconoscibili le espressioni che costituiscano patrimonio culturale immateriale ai sensi dell'art. 2 della Convenzione. Tale previsione contiene un'elencazione piuttosto comprensiva di elementi che possono essere tutelati sotto la Convenzione, completata dal paragrafo 2 dello stesso articolo, in cui si enucleano, in maniera non tassativa, i settori in cui il patrimonio immateriale può manifestarsi 203. È necessario inoltre che tali espressioni siano riconosciute da comunità, gruppi “e in alcuni casi [da]gli individui […] in quanto parte del loro patrimonio culturale”. È stabilito inoltre che questo patrimonio culturale immateriale “è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia”. Mancano tuttavia chiarimenti circa cosa si debba intendere per “gruppi” e “comunità”, e quali “individui” – oltre che in quali casi – possano rilevare ai sensi della disposizione204. Sarà il Comitato, pertanto, a effettuare una tale valutazione caso per caso. Il secondo criterio prevede che il riconoscimento sia accordato quando risulti che l’iscrizione dell’elemento sia idonea a contribuire “a garantire visibilità e consapevolezza del significato di Patrimonio Culturale Immateriale e a favorire il confronto, riflettendo perciò la diversità culturale e la creatività dell’umanità”. Il terzo e quarto criterio richiedono, rispettivamente, che le misure di salvaguardia indicate nel dossier allegato alla candidatura siano “elaborate in modo da poter tutelare e promuovere l’elemento”, e che tale elemento sia stato candidato “sulla base del più ampio riscontro di partecipazione da parte di comunità, gruppi o, eventualmente, persone singole coinvolte con il loro libero, preventivo e informato consenso”. Oltre a lasciare ampi spazi di 203V. nota 5. 204L. Zagato, ad esempio, ipotizza che in futuro il riconoscimento possa essere richiesto anche da “comunità elettive”, sottolineando come il dettato della Convenzione non escluda espressamente questa possibilità: “Va approfondito il richiamo alla necessità del rispetto reciproco 'tra comunità, gruppi e individui'. […] La dimensione individuale […] chiama in causa le c.d. comunità elettive, la partecipazione cioè degli individui, uti singuli, all'esperienza di realtà culturali comuni costruite da gruppi di fatto. […] Non è allora temerario ritenere trattarsi solo questione di tempo prima che da qualcuno venga rivendicato il riconoscimento, alla stregua della Convenzione, di manifestazioni culturali identitarie da parte di comunità elettive”: ZAGATO, La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, cit, 36-37. 89 discrezionalità al Comitato, tali criteri impongono che la meritevolezza di tutela debba essere determinata non solo sulla base di caratteristiche intrinseche dell'espressione candidata, ma anche sulla base della qualità dell'azione svolta dallo Stato che ne propone la candidatura. E alcuni precedenti alimentano seri dubbi sul rigore della valutazione: si pensi all'inserimento nella prima lista rappresentativa del teatro tibetano, attribuito alla Cina. Il criterio strettamente geografico risulta rispettato, ma c'è da chiedersi quanto il Governo cinese, da sempre ostile alla minoranza tibetana, abbia effettivamente garantito la più ampia partecipazione e il coinvolgimento di tale comunità, e quale interesse abbia nella promozione internazionale di tale forma espressiva205. Osservazioni analoghe valgono per i criteri relativi alla seconda lista rappresentativa, quella delle espressioni immateriali che richiedono una salvaguardia urgente206. Restano infine da esaminare gli effetti del riconoscimento. La sezione 4 della Convenzione (“Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale a livello internazionale”), non ricollega alcun effetto specifico per un elemento del patrimonio culturale immateriale, in conseguenza della sua iscrizione in una delle due liste. Come si è visto, il criterio n. 3 per l'inserimento nella prima lista (e il corrispondente criterio per la seconda) impone che siano elaborate dallo Stato che propone la candidatura misure adeguate a garantire la salvaguardia e la sopravvivenza dell'elemento. Tuttavia, malgrado le aspettative spesso nutrite dai rappresentanti delle espressioni candidate, l'efficacia di tali misure è spesso piuttosto blanda, né sono previste sanzioni a carico dello Stato che non tenga fede agli impegni assunti in sede di candidatura. Per quanto riguarda l'UNESCO, l'unica prova concreta del riconoscimento è data dall'inserimento dell'espressione in un database consultabile sul sito dell'organizzazione, in una pagina dedicata, corredata da una breve descrizione207 e dai documenti relativi all'approvazione della can205La concisa affermazione della sussistenza dei criteri non aiuta a dissipare questi dub- bi. I documenti relativi al riconoscimento sono disponibili alla pagina: http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?lg=en&pg=00011&RL=00208. 206Anche in questo caso vi sono precedenti – come l'iscrizione alla seconda lista della “Paghjella” corsa (v. nota 13) – che inducono a dubitare della precisione dei criteri e/o dell'accuratezza della verifica svolta dal Comitato. 207Tale descrizione, per di più, non sempre è capace di dar conto appieno della complessità dell'elemento riconosciuto, e talvolta contiene inesattezze, come quelle rilevate da I. Macchiarella a proposito del “Canto a Tenore” della Sardegna, riconosciuto nel 2008: “i tratti generici di tipicità individuati nel testo si potrebbero grosso modo 90 didatura da parte del Comitato. Sono previsti invece, al di fuori della (o comunque non in necessaria correlazione con la) politica dei riconoscimenti, altri strumenti di raccordo tra il livello internazionale e quello nazionale. L'art. 18 attribuisce al Comitato il potere di approvare periodicamente “programmi, progetti e attività per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”, mentre la Sezione 5 prevede la possibilità di attivare forme di “cooperazione e assistenza internazionali”. Tali strumenti potranno essere finanziati da contributi ordinari da parte degli Stati contraenti a favore di un Fondo, istituito ai sensi dell'art. 25, da “contributi volontari supplementari al Fondo”, sempre versati dagli Stati (art. 27), e infine con contributi ulteriori raccolti grazie a “campagne internazionali per la raccolta di fondi” (art. 28). Se dunque il riconoscimento non comporta vantaggi diretti per le espressioni cui è accordato, in cosa possono essere rinvenute le ragioni del successo di cui tuttora – malgrado dubbi e sospetti da più parti 208 – continua a godere? Come è stato posto in risalto in dottrina, quello UNESCO resta “un ottimo 'marchio'”209. E si tratta di un marchio che agisce su tre livelli: un livello economico-sociale, attinente al rapporto tra espressioni riconosciute e quelle che non hanno (o non hanno ancora) ottenuto il riconoscimento; un livello politico, attinente sia al rapporto tra Stati sia alla sfera interna di ciascuno Stato; infine, un livello economico-turistico. Quanto al primo livello, per una comunità portatrice di una particolare espressione culturale, il riconoscimento della stessa ad opera dell'UNESCO può avere un'importante valenza esterna. La percezione che si ricava dall'interno è che spesso da coloro che praticano l'espressione culturale interessata estendere al canto a più parti vocali di un centinaio e più paesi di tutta la Sardegna, includendo pratiche di canto che dagli stessi protagonisti non vengono considerati come canto a tenore (per esempio a Fonni si parla di cantu a cuncordu) e altre pratiche che nell’opinione di molti cantori sarebbero di 'recente creazione' e dunque non dovrebbero considerarsi come 'autentico' canto a tenore (per esempio i casi dei gruppi a tenore di Elmas, Arzara, San Vito), ma al tempo stesso escludendo pratiche esecutive locali normalmente considerate canto a tenore pur mancando di alcuni tratti indicati dall’Unesco come tipici, primo fra tutti il timbro gutturale delle parti vocali più gravi (assente per esempio a Seneghe)”: I .MACCHIARELLA, op. cit. 208Scrive R. Kurin: “Actions to safeguard ‘tangibilized’ inventoried items of cultural production are unlikely to safeguard adequately the larger, deeper, more diffuse intangible cultural patterns and contexts. Saving songs may not protect the ways of life of their singers, or the appreciation due by listeners. Far greater more holistic and systematic action is likely to be required”: R. KURIN, Safeguarding Intangible Cultural Heritage, cit., 75. 209M.L. CIMINELLI, op. cit., 110. 91 non venga attribuito un particolare significato al “patentino” UNESCO 210. Ma al contempo vi è la consapevolezza della forza suggestiva che esso può rivestire nella commercializzazione della stessa, rendendola più appetibile rispetto ad altre forme espressive che non possono vantare tale riconoscimento. Si aggiunga che spesso in chi aderisce alla candidatura vi è una errata percezione degli effetti dell'iscrizione, su cui in parte influisce il risalto mediatico di cui i riconoscimenti precedenti hanno goduto, cosa che porta a vedere in tale strumento una importante occasione di visibilità e promozione. Con riguardo al secondo livello, malgrado il dichiarato intento della Convenzione di fungere da veicolo per “riavvicinare gli esseri umani e assicurare gli scambi e l’intesa fra di loro” (ult. Considerando), è stato rilevato in dottrina come un siffatto sistema “innesc[hi] una competitività” tra gli Stati – nel senso di tentare di incrementare il numero di riconoscimenti attribuiti a ciascuno di essi – che rischia di avvantaggiare i Paesi dotati di maggiori mezzi di persuasione, di fatto “esplicitando i rapporti di forza esistenti tra i diversi Stati-Nazione”211. In riferimento alla politica interna, rivendicare come proprio successo l'avere ottenuto un tale prestigioso riconoscimento internazionale, può costituire un'importante “arma” elettorale per il Ministro o il Capo di Governo che hanno sottoposto il fascicolo all'UNESCO. Questo può valere a maggior ragione per quei partiti politici che tentano di alimentare il sentimento nazionale, per i quali una dinamica come quella del riconoscimento può essere particolarmente funzionale212. Infine per lo Stato, poter vantare il fatto che numerose espressioni culturali presenti all'interno del suo territorio abbiano ottenuto il riconoscimento UNESCO può avere effetti benefici anche sul versante del richiamo turisti210Soprattutto nei Paesi dell'Occidente – dove fenomeni come l'omologazione culturale sono più pregnanti – in chi rappresenta una cultura altra rispetto a quella dominante, sfuggendo (o almeno ritenendo di sfuggire) a queste dinamiche, è forte la consapevolezza del valore di ciò che si rappresenta, di conseguenza il riconoscimento non avrebbe una significativa valenza interna. 211M.L. CIMINELLI, Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e possibili effetti collaterali, cit., 117. 212“While persistence in old life ways may not be economically viable and may well be inconsistent with economic development and with national ideologies, the valorization of those life ways as heritage (and integration of heritage into economies of cultural tourism) is economically viable, consistent with economic development theory, and can be brought into line with national ideologies of cultural uniqueness and modernity”: B. KIRSHENBLATT-GIMBLETT, B., Intangible Heritage as Metacultural Production, cit., 61. 92 co213. Un richiamo in parte analogo a quello di cui godono i siti riconosciuti dall'organizzazione come patrimonio (tangibile) dell'umanità, o a quello garantito da riconoscimenti assegnati da altri enti o associazioni come quelli che attestano la qualità delle spiagge o dei servizi per i clienti di un albergo. Concludendo, si potrebbe giungere ad affermare che sia la stessa dinamica del riconoscimento ad essere “viziata” in partenza. Se anche, cioè, fosse possibile rimuovere tutte le criticità evidenziate, alcune altre sarebbero ineliminabili, perché connaturate al meccanismo disciplinato dalla Convenzione. Il fatto che un organismo internazionale, pur legittimato dagli Stati aderenti, apponga il proprio sigillo su un'espressione culturale e non su un'altra, sulla base di criteri autodeterminati, lascia insoddisfatti per l'atteggiamento di tipo paternalistico che porta con sé. Né vale a sciogliere le riserve il fatto che la Convenzione parli di “riconoscimento”. Malgrado nella terminologia giuridica tale espressione indichi generalmente l'esistenza pregressa di una situazione giuridica, che viene appunto riconosciuta, non costituita, in questo caso si può ritenere di trovarsi di fronte ad un riconoscimento anomalo. La presenza di criteri selettivi e di un organo con la funzione di commissione giudicatrice portano a ritenere la natura dell'atto di riconoscimento come costitutiva, e non meramente dichiarativa. Di conseguenza le espressioni iscritte costituirebbero patrimonio ai sensi della Convenzione solo in virtù dell'iscrizione. In favore di questa tesi depongono le osservazioni svolte sopra, circa il fatto che i criteri si richiamino anche a caratteristiche esterne alle espressioni candidate, non idonee pertanto a qualificarle ex se, ma solo in funzione delle scelte effettuate dallo Stato di riferimento. Con il riconoscimento si verrebbe a determinare una sorta di graduatoria tra elementi culturali, peraltro considerati nella loro dimensione statica, isolati dal contesto storico e sociale. Oltre a sollevare perplessità sul suo fondamento scientifico, la politica UNESCO pare contraddire se stessa, nel momento in cui afferma di porsi come strumento di salvaguardia della diversità culturale: 213Osserva M.L. CIMINELLI, op. cit., 110: “[L]'evoluzione più usuale cui vanno incon- tro le pratiche […] 'salvaguardate' sembra essere la folklorizzazione e la turisticizzazione. […] Non sembra del resto un caso che, dopo una serie di iniziative succedutesi nel corso degli anni Novanta in collaborazione tra UNESCO e ICOMOS, la Carta del turismo culturale redatta nel 1999 dal Comitato internazionale del turismo culturale dell'ICOMOS preveda il concetto di 'patrimonio immateriale'. […] Dunque, è chiarissimo a chi opera nel settore che lo sviluppo turistico sia il 'naturale sviluppo concreto e applicativo della Lista del patrimonio mondiale”. 93 ci si chiede come possa tale diversità considerarsi protetta da un organismo che pretenda di poterne selezionare dall'alto alcune minuscole porzioni, separandole dal loro contesto e, d'altra parte, di poter semplicemente omettere di considerare tutte quelle che non vengano (o non vengano adeguatamente) supportate dallo Stato “territorialmente competente”. 2. Esperienze di tutela a livello sovranazionale. L'importanza dei progetti WIPO e UNESCO è stata tale da influenzare notevolmente le legislazioni nazionali successive, nonché da limitare altre iniziative dal tema analogo su scala internazionale e sovranazionale. Sono rare a tale livello fonti normative “autonome”, non riconducibili alle due organizzazioni. Un primo importante esempio è rappresentato dall'accordo di Bangui, istitutivo della OAPI (Organisation Africaine de la Propriété Intellectuelle), siglato nella capitale della Repubblica Centrafricana nel 1977 214, quindi precedentemente all'adozione delle Model Provisions215. All'art. 59 sono contenute alcune disposizioni in materia di utilizzazione delle opere cadute in pubblico dominio e delle espressioni di folklore (all'interno delle quali rientrano anche le espressioni musicali tradizionali) 216, per le quali si prevede a carico dell'utilizzatore – in forza del par. 2 – l'onere di corrispondere un adeguato compenso ad un'organizzazione statale istituita ai sensi dell'art. 60. Parte dei proventi delle utilizzazioni di espressioni di folklore saranno successivamente destinati, come stabilito dal par. 3, a “welfare and cultural purposes”. Una simile previsione è in linea con le legislazioni nazionali 214L'accordo di Bangui del 1977 è stato adottato il 2 marzo 1977 ed è entrato in vigore l'8 febbraio 1982. E' stato poi oggetto di una Revisione stipulata il 24 febbraio 1999 – sempre a Bangui – , entrata in vigore il 28 febbraio 2002. Il testo integrale aggiornato dell'accordo è reperibile su internet alla pagina: http://www.wipo.int/wipolex/en/other_treaties/text.jsp? doc_id=132880&file_id=181152. 215Sulle Model Provisions for National Laws on the Protection of Expressions of Folklore Against Illicit Exploitation and Other Prejudicial Actions, adottate da WIPO e UNESCO nel 1982, v. supra, par. 1.1. 216Si è già visto nel Cap. I, par. 1.2, come il folklore venga definito dall'accordo di Bangui, perciò si rimanda su tale punto a quanto detto in quella sede. Basti qui ricordare che nella nozione di folklore contenuta nell'art. 68, par. 1 sono contenute anche le espressioni artistiche e in particolare, ai sensi del par. 2, lett. b), iii), i “ musical productions of all kinds”. 94 africane degli anni '50/'70 del ventesimo secolo (in particolare di quelle degli Stati che ottennero in quel periodo l'indipendenza dai domini coloniali), che tendono a considerare il folklore come patrimonio culturale della nazione, nell'ottica della costruzione di un'identità nazionale forte, anche attraverso la riappropriazione delle espressioni culturali tradizionali217. Delle espressioni di folklore si occupa anche il recente “Swakopmund Protocol on the Protection of Traditional Knowledge and Expressions of Folklore”, adottato nel 2010 dalla ARIPO (African Regional Intellectual Property Organization)218. All'art. 2, par. 2.1, vengono definite le “espressioni di folklore”219, all'interno delle quali rientrano sia le espressioni musicali tradizionali, come canzoni e musica strumentale220, sia espressioni culturali tangibili, come gli strumenti musicali, espressamente contemplati nella definizione. L'atto impegna gli Stati contraenti ad adottare misure adeguate a tutela delle espressioni di folklore (definite come espressione dell'identità delle comunità), idonee a proteggere le stesse da qualsiasi fenomeno di misappropriation e “unlawful exploitation”. I beneficiari della tutela sono le comunità: a) a cui, secondo le norme consuetudinarie, appartengono i soggetti “custodi” delle espressioni di folklore interessate; b) che praticano le espressioni medesime come parte del loro patrimonio culturale. Le misure adottate dagli Stati contro le utilizzazioni improprie devono essere tali da non ostacolare il “normale uso”, lo sviluppo e la trasmissione delle espressioni di folklore, e devono essere rivolte esclusivamente alle utilizzazioni che abbiano luogo al di fuori del contesto tradizionale. Devono inoltre contemplare eccezioni con riferimento 217Si rimanda al Cap. I, par. 1.2 per una trattazione più approfondita di tale aspetto. 218Il Protocollo è stato adottato dalla Conferenza Diplomatica ARIPO a Swakopmund (Namibia) il 9 agosto 2010. 219Section 2, par. 2.1 [Estratto]: “[E]xpressions of folklore” are any forms, whether tangible or intangible, in which traditional culture and knowledge are expressed, appear or are manifested, and comprise the following forms of expressions or combinations thereof: i. verbal expressions, such as but not limited to stories, epics, legends, poetry, riddles and other narratives; words, signs, names, and symbols; ii. musical expressions, such as but not limited to songs and instrumental music; iii. expressions by movement, such as but not limited to dances, plays, rituals and other performances; whether or not reduced to a material form; and iv. tangible expressions, such as productions of art, in particular, drawings, designs, paintings (including body-painting), carvings, sculptures, pottery, terracotta, mosaic, woodwork, metal ware, jewelry, basketry, needlework, textiles, glassware, carpets, costumes; handicrafts; musical instruments; and architectural forms. 220Si specifica che le espressioni musicali rientranti nella definizione non sono limitate ai due esempi esplicitati, ma non si chiarisce la portata dell'estensione della nozione. 95 alle utilizzazioni per scopi non commerciali e di ricerca. Spunti interessanti emergono anche con riferimento alle strategie adottate dal Secretariat of the Pacific Community (d'ora in avanti SPC) 221, organismo internazionale che riunisce numerosi Stati insulari del Sud-Pacifico, con lo scopo di promuoverne lo sviluppo economico e sociale. L'SPC ha elaborato nel 2002 un documento che, in maniera simile alle Model Provisions WIPO/UNESCO, contiene un modello di tutela delle conoscenze e delle espressioni culturali tradizionali, rivolto agli Stati membri. Il documento, che prende il nome di Regional Framework for the Protection of Traditional Knowledge and Exnipressions of Culture222 (noto anche come Pacific Model Law) è stato redatto in stretta connessione con l'UNESCO Pacific Regional Office e, come dichiarato nello stesso preambolo, recepisce gli sviluppi del lavoro WIPO e UNESCO in materia. Per queste ragioni, non appare necessario soffermarsi a lungo sull'impianto generale del Pacific Model Law. Emergono, tuttavia, dall'analisi del testo, alcuni elementi che meritano considerazione. Anzitutto, va rilevato, sotto il profilo terminologico, il conio di una originale denominazione dei diritti di utilizzazione delle conoscenze tradizionali e delle espressioni culturali, diritti che vengono indicati come “traditional cultural rights”. Nonostante l'innovazione lessicale, tali diritti, disciplinati dall'art. 7, corrispondono nella sostanza ai diritti di utilizzazione economica delle opere dell'ingegno come generalmente formulati dalle legislazioni sul diritto d'autore. Va anche rilevata la menzione espressa ai diritti morali, contenuta nella Parte Terza223. Tali diritti sono costruiti in maniera simile ai diritti morali ri221Per maggiori informazioni sull'SPC: http://www.spc.int. 222Il testo completo del Pacific Model Law è reperibile alla pagina: http://www.wipo.int/wipolex/en/text.jsp?file_id=184651. 223PART 3 – MORAL RIGHTS 13 Meaning of moral rights (1) The traditional owners of traditional knowledge or expressions of culture are the holders of the moral rights in the traditional knowledge or expressions of culture. (2) The moral rights of the traditional owners of traditional knowledge and expressions of culture are: (a) the right of attribution of ownership in relation to their traditional knowledge and expressions of culture; and (b) the right not to have ownership of traditional knowledge or expressions of culture falsely attributed to them; and (c) the right not to have their traditional knowledge and expressions of culture subject to derogatory treatment. (3) The moral rights of traditional owners in their traditional knowledge and 96 conosciuti, negli ordinamenti di Civil Law, all'autore di un'opera dell'ingegno, e perciò sono ad esempio perpetui ed inalienabili. Ma, rispetto a questi, presentano una importante particolarità, rappresentata dal fatto di essere diritti prevalentemente collettivi, e non individuali come ordinariamente accade. Sono infatti riconosciuti titolari di tali diritti morali i detentori delle conoscenze tradizionali e delle espressioni culturali che, ai sensi dell'art. 4, possono essere sia individui che “gruppi, clan o comunità di persone”224. 3. Forme di protezione a livello nazionale e locale. Si è già rilevato in più occasioni come la tutela a livello localistico – statale o substatale – porti con sé degli inevitabili rischi, dati anzitutto dall'ambito di applicazione geograficamente limitato, circostanza questa che appare inidonea a garantire una tutela soddisfacente in tutte quelle ipotesi, assai frequenti, in cui l'espressione culturale interessata e la comunità di riferimento della stessa insistano su un territorio non coincidente con quello di uno Stato o di un ente territoriale225. Si è anche posto in risalto come tale livello di tutela appaia inadeguato anche nelle ipotesi, anch'esse tutt'altro che infrequenti, in cui la comunità di riferimento di una espressione culturale sia una minoranza in conflitto con le autorità governative centrali o locali226. Per queste ragioni, non ci si soffermerà ulteriormente – in questa sede – su tali aspetti, ma ci si limiterà a dare conto, in sintesi, di alcune forme di tutela di livello statale e locale. Va anzitutto premesso che è raro riscontrare, a livello nazionale, misure specificamente dedicate alle espressioni musicali tradizionali, mentre più frequenti sono gli strumenti che si occupano genericamente di espressioni di expressions of culture exist independently of their traditional cultural rights. (4) Moral rights continue in force in perpetuity and are inalienable, and cannot be waived or transferred. 224Art. 4 (Definitions) [estratto]: In this Act, unless the contrary intention appears: traditional owners of traditional knowledge or expressions of culture means: (a) the group, clan or community of people; or (b) the individual who is recognized by a group, clan or community of people as the individual; in whom the custody or protection of the traditional knowledge or expressions of culture are entrusted in accordance with the customary law and practices of that group, clan or community. 225Cfr. Cap. II, par. 1,3; Cap. III, par. 1. 226Ibid. 97 folklore ed espressioni culturali tradizionali. Merita altresì rilievo il fatto che tali iniziative legislative siano maggiormente riscontrabili negli Stati c.d. in via di sviluppo, ed in particolare nelle ex-colonie europee, ossia nei Paesi che hanno acquistato l'indipendenza politica solo in epoca recente 227. Non mancano tuttavia esempi anche nei Paesi c.d. sviluppati. Le legislazioni nazionali in materia hanno seguito differenti linee direttrici228. Alcune si esse si sono occupate delle espressioni di folklore sotto il profilo della proprietà intellettuale. Tra di esse si possono ricordare le norme adottate da numerosi Stati africani a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, che sovente qualificano il folklore come patrimonio nazionale, stabilendo coerentemente che le utilizzazioni delle relative espressioni che abbiano luogo al di fuori del territorio dello Stato siano soggette al pagamento di una somma di denaro a favore dello Stato stesso, che in alcuni casi è vincolato a destinarle a iniziative di promozione e salvaguardia del patrimonio culturale nazionale, delle tradizioni popolari o di altre forme di espressione culturale tradizionale variamente denominate. Alcuni Stati hanno introdotto misure specifiche, o sui generis, in materia, nell'ambito del sistema della proprietà intellettuale. Tra le legislazioni dei Paesi sviluppati meritano di essere menzionate quelle di Stati Uniti 229 e Nuova Zelanda230, che hanno adottato una disciplina speciale dei marchi, introducendo una particolare categoria di marchi di certificazione 231 per i manufatti realizzati rispettivamente da artisti e artigiani nativo-americani e Maori. Si tratta di norme ispirate a fini prevalentemente commerciali, che hanno la funzione di limitare i fenomeni di contraffazione di manufatti artistici tradizionali e commercializzazione dei prodotti contraffatti, e quindi di limitare i 227Si veda il Cap. I, par. 2 per un'analisi delle ragioni alla base del forte interesse mani festato dagli Stati di recente indipendenza nei confronti delle espressioni culturali tradizionali. 228Per un'analisi dettagliata delle numerose legislazioni statali che si occupano, direttamente o indirettamente, delle espressioni di folklore o delle espressioni culturali tradizionali si rimanda a LUCAS-SCHLOETTER, A., Folklore, in AA. VV., Indigenous Heritage and Intellectual Property, Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, a cura di S. Von Lewinsky, Kluwer Law International, 2008, 339 ss., spec. 370 ss. 229Indian Arts and Crafts Act, nella versione emendata nel 1990, e Indian Arts and Crafts Enforcement Act, adottato nel 2000, il cui testo è reperibile alla seguente pagina internet: http://www.wipo.int/wipolex/en/details.jsp?id=6436. 230Trade Marks Act 2002 No. 49. Il testo è visionabile al seguente indirizzo: http://www.wipo.int/wipolex/en/details.jsp?id=3373. 231V. supra, Cap. II, par. 3. 98 danni economici che da tali fenomeni potrebbero derivare alle comunità “indigene”. Esse omettono invece di considerare gli interessi extra-economici che vengano in rilievo nelle ipotesi menzionate, accordando perciò una tutela per molti versi parziale232. Un altro esempio è rappresentato dalla Panama Law No. 20 of 26 June 2000 on the Special Intellectual Property Regime with Respect to the Collective Rights of Indigenous Peoples to the Protection and Defense of their Cultural Identity and Traditional Knowledge. La disciplina in essa contenuta, diretta a proteggere le creazioni delle popolazioni indigene, pare per alcuni aspetti rivolta maggiormente alle produzioni successive all'entrata in vigore della legge, piuttosto che agli elementi culturali tradizionali. Essa, inoltre, introduce specifiche norme volte a disciplinare la registrazione di quelli che vengono definiti “diritti collettivi delle popolazioni indigene”, concessa da una autorità governativa istituita dalla stessa legge. Tale registrazione è necessaria al fine di ottenere la tutela accordata dalla legge n. 26/2000. Per queste ragioni, valgono le considerazioni svolte in precedenza riguardo al riconoscimento di espressioni culturali tradizionali effettuato “dall'alto”233. Al di fuori delle norme in materia di proprietà intellettuale, in alcuni Paesi alle espressioni culturali tradizionali è accordata tutela secondo le norme consuetudinarie delle specifiche comunità interessate. Questo tipo di soluzioni, pur comportando alcuni vantaggi, tra cui in particolare il fatto che la disciplina applicabile risulta essere elaborata dagli stessi soggetti beneficiari della relativa tutela (con ciò eludendo il problema della disciplina calata dall'alto), presenta anche alcuni limiti. Anzitutto, le norme consuetudinarie, anche quando ricevano espresso riconoscimento legislativo, hanno un ambito di efficacia geograficamente limitato in alcuni casi al territorio dello Stato, in altri a singole aree circoscritte. Inoltre, talvolta tali norme comportano limitazioni anche sotto il profilo dell'ambito soggettivo di efficacia, essendo spesso applicabili alle liti che riguardino almeno un soggetto (individuale o collettivo) appartenente alla comunità cui faccia riferimento l'espressione culturale che si assuma impropriamente utilizzata, con ciò richiedendo la necessaria instaurazione di un processo in sede giudiziaria. Per quanto riguarda specificamente l'Italia, mancano norme che si interes232Si veda, per una trattazione più approfondita e per riferimenti bibliografici, Cap. II, par. 3. 233V. in proposito supra, in questo stesso capitolo, par. 1, anche per riferimenti biblio grafici. 99 sino specificamente alle espressioni culturali tradizionali, in particolare a quelle musicali. Sussistono oggettive difficoltà all'applicazione delle norme in materia di diritto d'autore234, considerato che nella maggior parte dei casi le opere musicali orali, particolarmente risalenti nel tempo, sono cadute in pubblico dominio, e che in ogni caso risulta impossibile individuare un autore determinato cui attribuire la paternità delle opere medesime, fatte salve le ipotesi di elaborazioni creative originali basate su opere di tradizione orale (riconducibili alla categoria delle “variazioni musicali costituenti di per sé opera originale” di cui all. art. 2, comma1, n. 2 l. aut.). Anche l'applicabilità di altre norme in materia di proprietà intellettuale, in particolare quelle sui marchi e sulle indicazioni geografiche, risulta poco agevole, per ragioni simili 235. Il D. Lgs. 42/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) contiene tuttavia, all'art. 7-bis, una espressa menzione alle “espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali”, che sono considerate “assoggettabili alle disposizioni del presente codice (e dunque possono costituire beni culturali ai sensi dello stesso Codice, nda) qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”. Per quanto riguarda il livello substatale, merita di essere menzionata la legge regionale 64/1986 della Regione Autonoma della Sardegna, recante norme in materia di “interventi regionali per lo sviluppo delle attività musicali popolari”. Malgrado l'intestazione dell'atto, che farebbe pensare a misure di promozione nell'ambito di un impianto organico, gli interventi previsti si limitano alla concessione di contributi economici in favore “delle associazioni e dei complessi musicali bandistici, dei gruppi strumentali di musica sarda, dei gruppi corali polifonici, regolarmente costituiti, senza fine di lucro, ed operanti in modo continuativo da almeno un anno”. Nella stessa Regione Sardegna è stata recentemente presentata, da alcuni Consiglieri regionali, una proposta di legge236 contenente “Norme per la tutela e la valorizzazione delle 234Cfr. Cap. II, par. I-II. 235Cfr. Cap. II, par. III. 236Si tratta della proposta di legge regionale n. 245, presentata al Consiglio Regionale della Sardegna in data 3 febbraio 2011, che riprende i contenuti di una proposta di legge presentata al medesimo Consiglio regionale nel 1996, ma mai approvata. Il testo della proposta è visionabile alla pagina: http://www.consregsardegna.it/xivlegislatura/Disegni%20e%20proposte%20di%20legge/propleg245.asp. 100 tradizioni popolari della Sardegna” che, tra le altre misure, prevede l'istituzione di un “albo regionale dei soggetti, pubblici e privati, che operano negli ambiti delle tradizioni popolari”. L'iscrizione all'albo costituisce requisito di accesso privilegiato – ma non esclusivo – ai finanziamenti e contributi regionali, che potranno essere concessi ai soggetti di cui sopra per finalità di studio, ricerca, promozione e formazione nel settore delle tradizioni popolari. Anche presso la Regione Puglia pende una proposta di legge di iniziativa consiliare237, contenente norme per contenuto e finalità molto simili alla proposta relativa alla Regione Sardegna, ma che a differenza di quest'ultima ha ad oggetto esclusivamente le musiche e le danze popolari di tradizione orale. Un'altra significativa particolarità è rappresentata dal fatto che la proposta pugliese dichiara di essere realizzata “in attuazione della convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”. Valgono in proposito le riserve in precedenza espresse con riguardo a tale Convenzione238. Le due proposte239 non hanno come destinatari diretti né le espressioni culturali tradizionali, né le rispettive comunità di riferimento, ma soggetti che a vario titolo operino nel settore, in questo modo limitando i rischi dati dalla strategia del riconoscimento diretto240. L'assenza tuttavia di criteri chiari per la composizione degli organismi pubblici deputati alla concessione dei contributi, e la previsione di contributi di carattere esclusivamente economico in favore di soggetti privati, ne fanno per alcuni aspetti misure limitate, per le quali pare sussista il rischio concreto del verificarsi di ambiguità e criticità in sede applicativa. 4. Un bilancio dell'analisi svolta. Per una valutazione conclusiva dell'indagine è opportuno prendere le mosse dai due parametri fondamentali assunti come punti di riferimento 237Il testo della proposta è scaricabile all'indirizzo: http://www.consiglio.puglia.it/ap- plicazioni/cadan/cms_agenzianotizie/dataview.aspx?id=170032. 238Cfr. supra, in questo stesso Cap., par. 1.2. 239Va rilevato come i contributi economici erogati da una istituzione pubblica costituiscano una deroga rispetto al regime comunitario degli aiuti di Stato, e siano perciò considerate legittime in quanto siano dirette alla promozione della cultura o alla conservazione del patrimonio culturale e storico-archeologico: cfr. LOFFREDO, E., L'impresa di spettacoli, anche sportivi, in AIDA, 2007, 313 ss., spec. 333. 240Ibid. 101 nell'analisi, ossia la musica di tradizione orale e le sue caratteristiche peculiari, da un lato, le norme positive esistenti e le prospettive future, dall'altro. Può risultare a tal fine utile riassumere gli aspetti maggiormente critici della questione prospettata. Vengono in rilievo, in primo luogo, le difficoltà incontrate dalla dottrina antropologica ed etnomusicologica nella definizione di alcuni concetti fondamentali, come quelli di cultura, folklore 241, musica di tradizione orale242 e comunità243. L’analisi svolta ha evidenziato come tali difficoltà si ripercuotano inevitabilmente sulla riflessione giuridica, con riguardo, rispettivamente, all'oggetto della tutela ed ai soggetti beneficiari della stessa. Si è anche rilevato come la dottrina giuridica, ed ancor più gli atti normativi che si sono occupati delle espressioni culturali tradizionali in generale e, in particolare, – anche se più raramente – della musica di tradizione orale, abbiano spesso fatto ricorso ad una definizione dei concetti sopra menzionati coincidente nella sostanza con quella tyloriana di fine '800, ossia considerando tali espressioni culturali nel loro aspetto statico, come fossili da proteggere dalla scomparsa, omettendo invece di riconoscere adeguata rilevanza all'aspetto dinamico 244. Per contro, la considerazione di tale circostanza consentirebbe di apprezzare il concetto di tradizione secondo il suo significato proprio, ossia come costante processo, che importa necessariamente la mutazione, l'innovazione e lo sviluppo, e che di conseguenza contraddice l'idea di immobilità sottesa alle formulazioni ottocentesche. Si è visto anche che le ragioni delle scelte definitorie adottate dalla dottrina giuridica e dalla legislazione siano talvolta da ricercare in un mancato approfondimento degli aspetti extra-giuridici coinvolti, e siano invece spesso dettate dall'esigenza – propria del diritto – di individuare una definizione puntuale al fine di delimitare in modo chiaro e preciso l'oggetto della tutela. Esigenza che, scontrandosi con la difficoltà di individuare nozioni univoche dei concetti coinvolti, ha portato alla formulazione di definizioni funzionali solo a specifiche forme di tutela, e di conseguenza parziali e arbitrarie245. Queste considerazioni hanno consentito di esprimere alcune perplessità in 241V. supra, Cap. I, par. 1. 242V. supra, Cap. I, par. 4. 243V. supra, Cap. I, par. 3. 244V. supra, Cap. I, par. 1, par. 1-2. 245V. supra, Cap. I, par. 2, Cap. III, par. 1-4. 102 merito all'adeguatezza delle soluzioni normative fino ad ora prospettate. L'elemento della tradizione orale, anzitutto, determina l'impossibilità di attribuire la singola opera ad uno o più autori determinati 246, e di conseguenza comporta serie difficoltà alla applicazione della disciplina del diritto d'autore alle espressioni musicali tradizionali. L'attuale disciplina del diritto d'autore, infatti, fa riferimento ad un concetto di autorialità – elaborato nel corso del romanticismo – che concepisce l'opera come frutto della creazione e del genio individuale, ed in particolare come risultato fisso ed immutabile del processo creativo. Queste premesse stridono fortemente con gli elementi caratterizzanti della musica di tradizione orale, basata su un concetto di autorialità e di opera del tutto diversi, in ragione dei quali quest'ultima è rappresentata da un modello variabile, destinato per sua natura ad essere soggetto ad una costante rielaborazione, e per il quale anzi la variazione assume il valore di elemento costitutivo. Di conseguenza l'estensione alle espressioni musicali di tradizione orale delle norme in materia di diritto d'autore (come pure di quelle in materia di copyright, proprie degli ordinamenti di common law) risulterebbe non solo una forzatura, ma non fornirebbe neppure una tutela soddisfacente247. Essa risulterebbe infatti contraddittoria rispetto allo scopo di accordare tutela a tali espressioni: anzitutto, perché rischierebbe di avere riguardo solo ad una specifica variante cristallizzata dell'opera considerata, mentre lascerebbe fuori tutte le varianti precedenti e successive; in secondo luogo, perché la disciplina del diritto d'autore e quella del copyright richiedono la riferibilità dell'opera ad uno o più autori determinati, mentre come si è visto le espressioni musicali tradizionali, anche nei casi in cui siano riferibili all'apporto creativo iniziale di un soggetto determinato, sono destinate nella generalità dei casi – proprio in ragione della trasmissione orale – ad essere modificate, rielaborate, divenendo opere ad autorialità indifferenziata al pari delle altre espressioni musicali tradizionali248. Il riferimento alle varianti non ha nulla a che vedere, invece, con le “variazioni musicali costituenti di per sé opera originale”, di cui all'art. 2, comma 1, num. 2) l. aut., ossia alle elaborazioni creative basate su espressioni musicali tradizionali. Tali variazioni, infatti, collocandosi al di fuori del processo di 246V. supra, Cap. I, par. 4, in particolare in riferimento alla nozione di opera orale e per riferimenti bibliografici. 247V. supra, Cap. II, par. 1. 248V. supra, Cap. I, par. 4; Cap. II, par. 1. 103 trasmissione orale e costituendo opere autonome, saranno tutelabili con gli ordinari strumenti di tutela del diritto d'autore nei limiti e alle condizioni previsti per le opere originali249. Considerazioni simili valgono per le altre norme del sistema della proprietà intellettuale250, in particolare quelle sui marchi e le indicazioni geografiche, attraverso le quali potrebbero in ipotesi trovare tutela le espressioni culturali tangibili legate alla musica di tradizione orale, in particolare la produzione di strumenti musicali tradizionali. In proposito si sono distinte due ipotesi. Si è anzitutto posto in rilievo come non sussistano particolari difficoltà ad ammettere la tutela del marchio eventualmente apposto dal costruttore di strumenti tradizionali agli stessi, in modo da rendere i suoi manufatti a costui riconducibili. D'altra parte, in relazione alla seconda ipotesi – ossia la possibilità del ricorso al marchio di certificazione o di autenticità – si è posto l'accento sul fatto che tali strumenti abbiano una funzione precipuamente commerciale, e che di conseguenza non sarebbero idonee a tutelare interessi extra-economici; inoltre, si è visto come la difficoltà ad identificare la comunità “detentrice” di una determinata espressione culturale comporti anche notevoli difficoltà nell'individuazione del soggetto beneficiario della tutela, imponendo l'adozione di criteri formali privi di fondamento scientifico 251. Si è poi più volte evidenziato come uno strumento di tutela di carattere statuale o locale, a prescindere da considerazioni sul merito, porti con sé un limite ineliminabile, dato dalla sua natura di atto normativo dotato di una efficacia territorialmente circoscritta. Il limite risiede in particolare nel fatto che le espressioni culturali tradizionali (tra cui quelle musicali) hanno spesso un ambito geografico di diffusione non coincidente con il territorio di singoli Stati o singoli enti territoriali. Le comunità cui tali espressioni culturali fanno riferimento, inoltre, sono sovente rappresentate da minoranze etniche, linguistiche o religiose, stanziate su territori coincidenti con “nazioni” preesistenti alla nascita degli attuali Stati sovrani, e dunque raramente coincidenti con il territorio di questi ultimi252. A ciò si aggiunga che in numerosi casi tali comunità si trovano in un rapporto conflittuale con le autorità governative locali. Una tutela di 249Ibid., anche in relazione ai contorni del concetto di originalità. 250V. supra, Cap. II, par. 3 251V. Cap. II, par. 3. 252Si pensi al popolo Kurdo, originario del Kurdistan, regione geografica che abbraccia parte del territorio di cinque Stati: Turchia, Iran, Iraq, Siria e (secondo alcuni) Armenia. 104 livello statale in queste ipotesi risulterebbe non solo inadeguata, ma potenzialmente anche in contraddizione con alcuni principi fondamentali in materia di diritti umani, primo tra tutti quello di autodeterminazione dei popoli. Considerazioni analoghe si sono svolte per quelle forme di tutela di carattere sovranazionale che, essendo fondate su convenzioni internazionali – ed essendo di conseguenza strettamente legate alla volontà dei singoli Stati aderenti – affidano comunque a questi ultimi le decisioni fondamentali in materia, all'interno del territorio statale. Si è, d'altra parte, mostrato come l'assenza di (adeguati) meccanismi di tutela renda pienamente legittime alcune forme di utilizzazione “impropria” 253 delle espressioni culturali tradizionali tali da snaturarle, distorcerle, al punto da essere percepite dalle comunità di riferimento come offese ai loro valori o al loro sentimento religioso, laddove, per esempio, svelino cerimonie o rituali destinati ad essere segreti, oppure quando si rivelino collegate ad operazioni speculative volte ad escludere le comunità o i singoli dai vantaggi economici e non, derivanti dalle utilizzazioni medesime. Risulta allora particolarmente arduo individuare uno strumento che fornisca al tempo stesso una tutela soddisfacente alle espressioni culturali (musicali) tradizionali – che tenga cioè adeguato conto degli interessi anche extra-economici coinvolti – sia idoneo a valorizzare e promuovere le stesse e sia altrettanto idoneo a limitare le forme di misappropriation, nel rispetto della libertà di espressione, e dei generali principi sui diritti umani. È opportuno perciò riflettere se si debba continuare a cercare una soluzione nell'ambito del sistema della proprietà intellettuale, magari attraverso norme ad hoc, o se non sia piuttosto giunto il momento di spostare l'attenzione verso soluzioni di diverso tenore. Preso atto che sia le ragioni degli Stati che quelle del mercato confliggono per molti aspetti con le esigenze di tutela delle espressioni culturali tradizionali, si potrebbe anzitutto valutare se possa assumere un ruolo chiave la c.d. “sussidiarietà orizzontale”, ossia l'intervento degli individui, singoli o riuniti in formazioni sociali di vario tipo, per finalità di interesse pubblico. Vengono in rilievo in particolare le operazioni di microcredito254 – promosse in tutto il mondo da numerose organizzazioni non 253V. supra, Cap. II, par. 4. 254Il microcredito è stato ideato dall'economista bengalese Muhammad Yunus, che nel 2006 proprio grazie ad esso ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. 105 lucrative255 – che consentono il finanziamento di attività commerciali o di piccola imprenditoria fornendo i fondi necessari all'avvio delle stesse direttamente ai soggetti o alle comunità interessati 256, mettendoli di conseguenza nelle condizioni di acquisire una propria indipendenza economica, senza dover soggiacere a costanti aiuti provenienti dall'esterno. La pratica ha dimostrato che questo sistema ha un grado di efficienza particolarmente elevato 257. Prendendo spunto da esso, si potrebbe valutare l'opportunità di estenderlo anche al finanziamento di progetti di promozione delle espressioni musicali tradizionali realizzati dalle stesse comunità interessate, evitando in questo modo la soggezione alle dinamiche statali ed a quelle del mercato. Questo comporterebbe alcuni innegabili vantaggi. Possono essere tuttavia mossi taluni rilievi in proposito. Anzitutto deve essere tenuto presente che l'iniziativa privata non appare sufficientemente idonea a incidere sulla legislazione vigente, quindi progetti di questo tipo non basterebbero da soli ad eliminare i rischi derivanti da una eventuale normativa vigente inadeguata o pregiudizievole (nei termini sopra esposti) o dall'assenza di una normativa che limiti gli episodi di misappropriation. Va inoltre considerato il significato proprio del principio di sussidiarietà orizzontale. Esso, infatti, non importa un intervento privato di tipo sostitutivo rispetto a quello pubblico, ma integrativo 258. L'assenza di norme di riferimento rende iniziative di questo tipo, per quanto meritorie, parziali. Resta dunque aperta la questione della individuazione di soluzioni legislative efficaci e realmente protettive. Vale la pena, allora, di considerare l'opportunità di un ampliamento di prospettiva. Si è visto come la scienza antropologica non abbia fornito una definizione univoca dei concetti fondamentali coinvolti. E si è visto, d'altra parte, come la scelta, per ragioni di politica legislativa, di fornire definizioni arbitrarie e di efficacia limitata alla disciplina di specifiche ipotesi sia idonea a produrre risultati talvolta dannosi o – nelle mi255Il successo di questo sistema ha portato ad estenderlo dai Paesi del c.d. Terzo Mondo, per i quali era stato originariamente ideato, ai Paesi Sviluppati, per contrastare i fenomeni di povertà che si sono acuiti negli ultimi anni a seguito della crisi economica internazionale. Oltre alle organizzazioni non lucrative, tale sistema ha cominciato ad essere adottato anche da alcune istituzioni pubbliche. 256Per alcuni esempi si possono visitare le seguenti pagine internet: kiva.org; heifer.org. 257La percentuale dei crediti soddisfatti è superiore al 95%, ben oltre quelle relative ai sistemi ordinari di concessione del credito. 258Cfr. Q. CAMERLENGO, Commento all’art. 118, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario della Costituzione, III, Torino, Utet, 2006, 2521 ss. 106 gliori ipotesi – vani. Alla luce di ciò, meritano forse una maggiore considerazione gli aspetti della questione collegati al campo dei diritti umani. Un maggiore sviluppo di tale campo potrebbe consentire di evitare soluzioni parziali e limitate sia sotto il profilo geografico che sotto quello oggettivo. Si eluderebbero in questo modo le criticità derivanti dalla non coincidenza delle definizioni legislative con i concetti elaborati dalle società e comunità interessate, criticità che rendono spesso insostenibili tali scelte definitorie proprio sotto il profilo dei diritti umani. Si è visto infatti come risulti difficile applicare categorie occidentali a forme di espressione che appartengono a contesti e culture non occidentali. La percezione dei concetti di arte, cultura, artigianato varia da società a società, e presso numerose culture non esistono differenziazioni nette tra essi259. Il rischio è, ancora una volta, che malgrado il dichiarato intento protettivo, i risultati di una forma di tutela che pretenda di prescindere da siffatte considerazioni comportino un pregiudizio, piuttosto che un beneficio. La strada dei diritti umani non garantirebbe una soluzione diretta a tutti questi problemi. Non fornirebbe ad esempio risposte su come fronteggiare le ipotesi di misappropriation; non sarebbe neppure di per sé idonea a definire il concetto di comunità detentrice, di cultura, di espressione culturale, artistica, musicale. Ma, per contro, potrebbe determinare in via indiretta alcuni importanti vantaggi. Garantire l'esistenza di una comunità, tutelare una minoranza, limitare le minacce provenienti da autorità governative con esse in conflitto significa non solo garantire l'integrità fisica degli individui che vi appartengono. Significa anche, e soprattutto, consentire lo sviluppo di tutte le manifestazioni della vita di tali comunità, incluse ovviamente quelle culturali. In questo modo, inoltre, potrebbe risultare più agevole aggirare i problemi definitori. La comunità sarebbe messa nelle condizioni non di ricevere una protezione “dall'alto” di specifiche espressioni culturali, ma più semplicemente di manifestare la propria cultura in tutte le sue forme, evitando selezioni e tagli260. Una volta attenuate le disparità esistenti tra governi e minoranze, tra gruppi sociali, etnici, religiosi, sarà possibile eventualmente, in una prospettiva di uguaglianza sostanziale, valutare l'opportunità di misure ad 259Si veda in relazione a tali profili supra, Cap. I, par. 2, spec. p. 19. 260Per una critica dell'approccio selettivo adoperato da alcuni organismi internazionali, in particolare dall'UNESCO, si vedano i precedenti paragrafi di questo capitolo, specialmente il par. 1. Ivi anche riferimenti bibliografici. 107 hoc relative a specifiche espressioni culturali, magari concordate con le comunità di riferimento e di carattere non squisitamente territoriale. In mancanza di un percorso in tal senso, il rischio che qualunque strumento, anche posto in essere con intenti esclusivamente protettivi, continui ad attirare su di sé sospetti di parzialità e arbitrarietà sarebbe difficilmente eliminabile. 108 BIBLIOGRAFIA AA. VV., Definitions of Folklore, in Funk and Wagnalls Standard Dictionary of Folklore, Mythology and Legend I/1949, 255 ss.; AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, III, Torino, 2009; AA. VV., Dizionario di antropologia. Etnologia, antropologia culturale, antropologia sociale, a cura di U. Fabietti – F. Remotti, Bologna, 1997.; AA. VV., Il Vocabolario Treccani, Roma, 2010; AA. VV., Indigenous Intellectual Property Rights, Walnut Creek (CA), 2004; AA. VV., Oxford Dictionary of English, Oxford, 2010; ABRIANI, N., COTTINO, G. - RICOLFI, M., Diritto industriale, in Tratt. 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