...

La tutela giuridica della musica di tradizione orale

by user

on
Category: Documents
21

views

Report

Comments

Transcript

La tutela giuridica della musica di tradizione orale
Università degli Studi di Cagliari
Facoltà di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
LA TUTELA GIURIDICA DELLA MUSICA DI TRADIZIONE
ORALE
Tesi di Laurea Interdisciplinare
Relatori:
Studente:
Prof. Elisabetta Loffredo
Prof. Ignazio Macchiarella
Andrea Cocco
Anno Accademico: 2010-2011
INDICE
CAPITOLO I
LA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE.
UN APPROCCIO COMPARATIVO TRA LE SCIENZE ETNOANTROPOLOGICHE E IL DIRITTO DELLA PROPRIETA' INTELLETTUALE
1. Opere dell'ingegno legate al folklore nella prospettiva antropologica.
3
2. Il folklore nel linguaggio del diritto.
12
2.1. Nozione di folklore nel diritto positivo e nelle convenzioni internazionali
sul diritto d'autore.
2.2. Nozione di folklore nel linguaggio delle organizzazioni internazionali.
2.3. Nozione di folklore nella dottrina giuridica.
12
19
27
3. La questione dei cc.dd. “detentori”.
32
4. L'incerta definizione di musica di tradizione orale.
36
CAPITOLO II
ESPRESSIONI MUSICALI DI TRADIZIONE ORALE E PROSPETTIVE DI
PROTEZIONE
1. La questione della applicabilità della legislazione sul diritto d'autore.
41
1.1. Modelli innovativi di gestione dei diritti.
46
2. Protezione degli artisti, interpreti ed esecutori e altri diritti connessi.
48
3. Utilizzabilità di altre norme del sistema della proprietà intellettuale.
50
4. Misappropriation e pubblico dominio. Esperienze relative a opere di tradizione orale.
54
4.1. Misappropriation di manufatti.
59
CAPITOLO III
MODELLI DI TUTELA A CONFRONTO
1. WIPO e UNESCO: due linee di intervento a confronto.
63
1.1. Le “Model provisions” del 1985 e le nuove linee di intervento WIPO.
63
1.2. L'UNESCO e la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
78
2. Esperienze di tutela a livello sovranazionale.
94
3. Forme di protezione a livello nazionale e locale.
97
4. Un bilancio dell'analisi svolta.
101
Bibliografia.
109
1
2
CAPITOLO I
MUSICA DI TRADIZIONE ORALE.
UN APPROCCIO COMPARATIVO TRA SCIENZE
ETNOANTROPOLOGICHE E DIRITTO DELLA PROPRIETA'
INTELLETTUALE
1. Opere dell'ingegno legate al folklore nella prospettiva antropologica.
La prima questione da affrontare quando ci si confronta con la musica di
tradizione orale è la definizione stessa di “musica di tradizione orale”. Tale
nozione, apparentemente inequivocabile, cela in realtà un gran numero di
implicazioni, con riguardo a più profili quali, ad esempio, quello linguistico,
semantico, dogmatico, metodologico, etc. Ad essa si affianca una serie di altri
concetti, come quello di folklore, di traditional knowledge e indigenous knowledge,
il cui significato e la cui portata restano ancora da chiarire.
La materia è da tempo oggetto di un acceso dibattito su più fronti da parte
di etnomusicologi ed antropologi, ai quali si sono aggiunti, con una frequenza sempre maggiore, gli studiosi del diritto e le organizzazioni internazionali: queste ultime, peraltro, con approcci e obiettivi spesso differenti o addirittura incompatibili tra loro.
In particolare, il problema di una valorizzazione e tutela giuridica della
musica di tradizione orale investe i campi più vari: la proprietà intellettuale,
la conservazione dei beni culturali, il diritto internazionale in generale, i diritti umani.
Il risultato di questa “stratificazione” è attualmente una trama inestricabile
di ricerche accademiche, studi commissionati da istituzioni pubbliche, convenzioni, trattati, atti normativi di vario livello territoriale e grado di vincolatività. Ciò, da un lato, ha senza dubbio apportato un significativo contributo
all'approfondimento delle problematiche in gioco, dall'altro ha però reso l'analisi molto più complessa di quanto già non fosse.
Procedendo con ordine, si tenterà prima di chiarire i termini, esaminando
la nozione di musica di tradizione orale in relazione ad altri concetti generali
che fanno riferimento in vario modo all'oralità o alla tradizione; una volta delimitati i confini esterni dell'oralità in musica, si tenterà di definire quelli interni, e cioè di distinguere, nell'ambito dei fenomeni musicali, quelli che pos3
sono essere inclusi nella categoria in parola, e quelli che, pur in presenza di
elementi comuni, portano con sé caratteristiche peculiari che ne rendono opportuna una trattazione separata. O, quantomeno, si cercherà di capire se
un'operazione di questo genere sia possibile, e se sì in quali termini e a quali
scopi.
Alla base del problema qui discusso stanno i concetti di cultura e folklore,
dai quali perciò è opportuno partire.
L'evoluzione degli studi antropologici e folklorici occidentali è stata a lungo (e in alcuni casi è ancora) influenzata da un approccio di tipo paternalistico, che tende a considerare i “noi”, portatori di una cultura evoluta e complessa, in contrapposizione agli “altri”, rappresentanti di mondi culturali arcaici e semplici, scarsamente evoluti e statici nella loro dimensione temporale. Una tale impostazione di fondo ha radici storiche piuttosto risalenti 1, e ha
favorito lo sviluppo dell'idea dell'esistenza di tante culture separate, geograficamente localizzabili e riferibili a specifiche comunità o gruppi sociali. Quest'ultima concezione si riflette nella definizione di cultura formulata da Edward B. Tylor nel 1871, che a lungo è stata il punto di riferimento fondamentale per la scienza antropologica. Secondo tale definizione “Culture, or civilization, taken in its broad, ethnographic sense, is that complex whole which
includes knowledge, belief, art, morals, law, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a member of society”2.
1 Questa impostazione ha ricevuto un importante slancio a partire dal XVI secolo, con
la stagione delle grandi conquiste, quando l'Occidente si è trovato a porsi in relazione
con popoli altri da lui, con stili di vita e linguaggi differenti. L'apposizione
dell'etichetta di “selvaggi” su tali popoli ne rese più accettabile la conquista, in nome
della esportazione di valori (religiosi, politici, civili) affermati universali ed in quanto
tali legittimamente imponibili, con qualsiasi mezzo, su chi ancora non li conosceva.
Ma sotto un profilo più prettamente scientifico il contatto con civiltà nuove aprì
anche la strada alla comparazione. Scrive Cirese: “per assimilare la novità si
ricercarono analogie e paralleli tra i 'selvaggi' e le antichità mediterranee; ma questo
sforzo di ricondurre l'ignoto al noto […] avviava la messa a punto di quello
strumento tecnico di ricerca che è la comparazione […] e proponeva il problema del
significato e della collocazione storica delle forme culturali più remote dalla civiltà
europea moderna e dai suoi antecedenti storici ufficialmente ammessi”, in A. M.
CIRESE, Dislivelli dicultura e altri discorsi inattuali, Roma, 1997, 36.
2 Cfr. E. B. TYLOR, Primitive Culture, Cambridge, 2010 [1871]. Tylor sostenne la teoria
dell'evoluzionismo culturale, secondo cui non esisterebbero società per loro natura
più evolute di altre. Secondo tale impostazione, l'evoluzione di tutte le società umane
seguirebbe un modello comune, caratterizzato da tre fasi graduali: selvaggia,
barbara, civile. A questo modello si accompagnava una concezione poligenetica, in
base alla quale si riteneva che tutti gli esseri umani fossero animati da una natura
comune, che li avrebbe portati, in situazioni e contesti analoghi, a porre in essere gli
4
La scuola antropologica inglese, sulla scorta dell'impostazione tyloriana,
continuò a considerare il suo oggetto di studio sotto la denominazione di
survivals (sopravvivenze), ossia come una serie di elementi appartenenti al
passato, e sopravvissuti, appunto, fino all'epoca attuale, tralasciando di approfondire le dinamiche sulla base delle quali ciò era avvenuto. La cultura
popolare venne intesa come un insieme di “fossili” di un tempo passato, che
si erano salvati giungendo fino al presente. La formulazione tyloriana ebbe
l'innegabile merito di aver riconosciuto adeguato valore, a differenza della
dottrina precedente, all'integrazione dei vari aspetti della vita di una comunità nella determinazione del concetto di cultura. Mancava però la valutazione
della dimensione storica, e cioè si trascurava di considerare quali adattamenti
avessero subito nel tempo tali elementi, quale rapporto esistesse tra la loro
funzione originaria e quella attuale.
Non è possibile, in questa sede, compiere una dettagliata analisi diacronica dell'evoluzione del concetto di cultura 3. Si rende comunque fondamentale
dare conto in maniera sintetica delle linee di tendenza della scienza antropologica nella definizione di tale concetto, per poter meglio apprezzare la differente sorte che il concetto ha avuto nel linguaggio antropologico, da un lato,
stessi comportamenti. Le differenze tra una società ed un'altra, perciò, erano
determinate dal contesto in cui tale società si era sviluppata. Una società attualmente
evoluta non lo era per una sua caratteristica “genetica”, ma solamente perché aveva
attraversato prima di altre le precedenti fasi; e così una società ancora alla prima fase
evolutiva avrebbe col tempo attraversato le altre, fino a giungere alla fase civile.
L'orientamento tyloriano ebbe come conseguenza un ampio ricorso alla comparazione. Se infatti ogni società si comporta in modo analogo in situazioni analoghe, al lora ogni singola espressione culturale deve avere degli omologhi in ogni società, che
rispondono a medesime esigenze e che svolgono identiche funzioni.
Gli orientamenti successivi misero in risalto il limite di questa impostazione: la riconduzione di tutti i fenomeni umani ad un modello precostituito appare semplicistico e scientificamente rischioso nella misura in cui cerca di giustificare determinati
comportamenti alla luce di altri, considerandoli non nella loro dimensione storica e
sociale, ma come elementi di un disegno già noto. Si trascurano così le differenze, o
meglio viene ad esse data una spiegazione che alimenta più di un sospetto di forzatura.
Ma non si mancò di sottolineare anche il pregio che il lavoro di Tylor aveva:
quello di avere aperto la strada al relativismo culturale e cioè ad un nuovo approccio
in base al quale non esistono culture “giuste” o “sbagliate”, ma solo culture diverse,
che vanno studiate e non giudicate sulla base di un parametro fisso di riferimento,
sia esso la cultura ufficiale o quella contadina.
3 Per una analisi approfondita v. voce Cultura, in Dizionario di antropologia. Etnologia,
antropologia culturale, antropologia sociale, a cura di U. Fabietti – F. Remotti, Bologna,
1997; v. anche A. BARNARD - J. SPENCER, Culture, in Routledge Encyclopedia of Social
and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 168 ss.
5
e in quello giuridico, dall'altro. Si noterà come il secondo sia rimasto fortemente ancorato, in numerosi casi, alle tesi di Tylor e della scuola inglese tra
fine '800 e inizio '900, e si tenterà di comprenderne le ragioni.
In antropologia, in realtà, solo di recente ci si è discostati da esse. La teoria
“un popolo-una cultura”, ha sempre rappresentato infatti una importante
base per lo sviluppo del metodo di ricerca tipico dell'antropologia, la ricerca
sul campo. Negli ultimi decenni, tuttavia, l'idea che la comprensione dei fenomeni umani potesse limitarsi alla conoscenza – seppur approfondita – di
differenti comunità, alla catalogazione delle informazioni ottenute e alla loro
comparazione è entrata in crisi. Il mito dell'esistenza di culture pure è stato
messo in discussione, mentre si è iniziato a “storicizzare” le comunità osservate e le loro espressioni di cultura. Ciò ha significato prendere coscienza del
fatto che una cultura “non riesce mai a configurarsi come un sistema chiuso e
autosufficiente”, ma “è sempre aperta al contatto, al confronto, allo scambio
con altre culture, anzi, spesso è proprio attraverso l'alterità più netta che si
instaurano i contatti e gli scambi più importanti per la vita sociale” 4.
Dunque, cosa si intende quando si parla di cultura? A parte alcune tesi
estreme, che sono giunte addirittura a proporre l'eliminazione del termine
dal linguaggio antropologico, data la sua estrema vaghezza 5, si è assistito ad
una modificazione della prospettiva nell'analisi dei fatti culturali, che ha portato a cessare di intendere la cultura come un elemento determinato (o un in4 U .FABIETTI, – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale. Introduzione
all'antropologia, Milano, 2002, 27.
Alcuni segnali nella direzione poi definitivamente intrapresa dall'antropologia
moderna si erano già manifestati, nella scuola nordamericana, nella prima metà del
ventesimo secolo. In particolare, cominciava a farsi strada l'idea della reciproca
influenza tra culture, e della onnicomprensività del concetto di cultura, seppure
ancora espresse in termini non pienamente compiuti. Scriveva ad esempio A.
Blumenthal: “Culture is the world stream of cultural ideas from the first in the
cosmos to the great body of them in the present-the whole thing considered as an
aggregate plus (1) all functional relationships these ideas have with each other in the
same cultural mind and with those in other cultural minds plus (2) all phenomena
aside from cultural ideas insofar as such phenomena have been identifiably affected
by cultural ideas plus (3) all relationships between cultural ideas and phenomena
aside from cultural ideas when these former phenomena have been identifiably
affected by them plus (4) all relationships between cultural ideas and phenomena
aside from them that have not been identifiably affected by such ideas”: A.
BLUMENTHAL, A New Definition of Culture, in American Anthropologist, New Series,
Vol. 42, No. 4, Part 1, 571 ss.
5 Cfr. BARTH, F., Rethinking the Object of Anthropology, in AA.VV., A Conversation about
Culture, in American Anthropologist, New Series, Vol. 103, No. 2, 2001, 432 ss.
6
sieme di elementi determinati), per considerarla come un fenomeno più comprensivo, che abbraccia l'esistenza dell'uomo non in quanto circoscritta all'interno di una comunità stanziata in un'area geografica, ma che considera gli
individui e i gruppi sociali in ragione delle loro reciproche interazioni nel
tempo e nello spazio6. A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, in
particolare, la dottrina ha posto in risalto come l'evoluzione umana – a differenza di quella delle altre specie animali – sia caratterizzata dall'influenza di
elementi che per lo più trascendono la sfera individuale dei singoli, e si collocano invece nel contesto sociale in cui l'individuo viene a trovarsi. Queste
considerazioni hanno portato a comprendere come “la 'natura umana' non
possa essere colta al di fuori dei costumi” e a concludere, di conseguenza, che
il riferimento alla cultura al singolare appare improprio, mentre sarebbe più
corretto parlare di “culture” al plurale. Per altro verso, la considerazione dei
contesti sociali ha consentito un ulteriore passo. Data la pluralità dei contesti
– non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche sotto quello qualitativo –
non è possibile definire in maniera esatta i contorni di una singola cultura.
L'identificazione di una cultura ha perciò una funzione meramente didascalica, e dipende dagli specifici aspetti assunti come oggetto di analisi nel singolo caso.
Il mutamento di prospettiva ha inoltre consentito di ricomprendere nello
studio fenomeni, come la c.d. “delocalizzazione” della cultura, che sono sem6 N.M. Stolzenberg sostiene ad esempio che il termine “cultura” può ancora assolvere
alla sua funzione di oggetto degli studi antropologici, purché si modifichi la
prospettiva di analisi: “we may become more comfortable with the intractable
ambiguity of 'culture' if we cease to think of it as the name for a thing and come to
view it instead as a placeholder for a set of inquiries-inquiries which may be destined
never to be resolved” (N.M. STOLTZENBERG, What We Talk about When We Talk
about Culture, in AA.VV., A Conversation about Culture, in American Anthropologist,
New Series, Vol. 103, No. 2, 2001, 444). Affermano invece U. FABIETTI, – R.
MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, op. cit., 95: “Sulla base delle
critiche mosse all'uso del concetto di cultura in antropologia, possiamo affrontare la
questione del traffico e dell'ibridazione culturale in una prospettiva che non
presuppone alcuna idea di cultura come 'contenitore' (alla maniera di Edward B.
Tylor, per intenderci), ma come 'ambiente comunicativo'. Possiamo, anzi, siamo in un
certo senso costretti a utilizzare una qualche nozione o concetto che ci renda possibile
parlare di questo traffico culturale 'globale'. Parleremo, dunque, di ecumene globale,
dove per 'ecumene' dobbiamo intendere una 'regione di persistente interazione e
scambio culturale'. Il mondo contemporaneo ci si presenta infatti come un ambiente
globale nel quale le culture tendono a instaurare rapporti via via più intensi di
conflitto, dialogo e influenza reciproca”. V. anche M.L. WAX, How Culture Misdirects
Multiculturalism, in Anthropology & Education Quarterly, Vol. 24, No. 2, 99 ss.
7
pre stati presenti nella storia dell'uomo, ma che, a partire dalla seconda metà
del ventesimo secolo, hanno assunto dimensioni tali – in particolare a seguito
della globalizzazione e dell'emigrazione dai Paesi poveri verso quelli ricchi –
da non poter più essere scartati in quanto “irrilevanti”, come era accaduto
fino ad allora. In conseguenza di questa nuova apertura, la scienza antropologica è passata dall'intravedere una generica minaccia nei nuovi processi di
commistione culturale, ad un esame più articolato delle nuove sfide da essi
poste7. Si è così giunti a porre in risalto la differenza tra diversi fenomeni di
“ibridazione culturale”: da una parte, quelli determinati dal contatto tra culture e dal loro reciproco influenzarsi; dall'altra, quelli determinati dall'impatto, talvolta violento, tra una società “forte” e una o più altre società in posizione di dipendenza (economica, politica etc.) dalla prima. Si ripropongono
qui in termini globali le teorie gramsciane sulla tensione tra culture dominanti e culture subalterne8. Si potrebbe affermare, riformulando tali teorie alla
7 Cfr. U. FABIETTI, – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, op. cit., 30-
31, in cui si afferma: “un concetto più articolato e sfumato, rispetto a quello di
omogeneizzazione culturale, come globalizzazione o anche riformulazione culturale
come strumento per focalizzare i processi che investono tutte le società
contemporanee, porta a individuare non più una minaccia per l'antropologia, che
anzi intravede nuovi compiti, nuovi panorami di ricerca, ma per il concetto di
cultura: le nozioni di globalizzazione e riformulazione culturale indicano infatti i
processi per cui una società vede trasformati anche vorticosamente i propri valori
locali per effetto sì di qualcosa che arriva dall'esterno, che non è però il contatto con
un'altra cultura portata da un'altra società, ma sono fenomeni globali, transnazionali
(come il turismo, la televisione, il mercato, le guerre, i traffici, le deportazioni, le
immigrazioni ecc.)”. V. anche J. LIEBER, R.E. WEISBERG, Globalization, Culture, and
Identities in Crisis, in International Journal of Politics, Culture, and Society, Vol. 16, No. 2,
273 ss.;
8 Nei Quaderni dal carcere è presente un breve saggio intitolato Osservazioni sul
“Folclore” (Quaderno 27, in GRAMSCI, A., Quaderni del carcere, Edizione critica
dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, 1975, 2309 ss.) che ha ispirato la
dottrina antropologica italiana del dopoguerra e tuttora è alla base della
impostazione di molti studi demoetnoantropologici.
Gramsci definisce il folklore come “concezione del mondo e della vita”, implicita
in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della
società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con
le concezioni del mondo 'ufficiali' (o in senso più largo delle parti colte della società
storicamente determinate) che si sono succedute nello sviluppo storico”. Emerge in
questo scritto l'elemento fondante del pensiero di Gramsci sul folklore, e cioè il fatto
che esso esista non in sé, ma in quanto in una società coesistano più classi sociali contrapposte e, in particolare, delle classi dominate in tensione con una classe dominante.
Dall'esame delle Osservazioni emerge però una visione del folklore in chiave piuttosto negativa. L'apparente contraddizione è stata giustificata con la considerazione
del contesto in cui Gramsci scriveva. Durante il ventennio fascista infatti il folklore
8
luce delle considerazioni svolte, che un pericolo per la diversità culturale nasca nel momento in cui il fenomeno fisiologico del contatto e dell'ibridazione
delle culture assume caratteri “patologici”, allorché l'influenza cessi di essere
reciproca e spontanea, per diventare unilaterale e quasi imposta.
Accanto alla globalizzazione, i fenomeni di delocalizzazione e deterritorializzazione determinano una modificazione degli orizzonti culturali, contribuendo a estenderli su un piano globale. L'espressione “deterritorializzazione” indica “la condizione di individui, comunità e gruppi derivante dal loro
spostamento nello spazio fisico e nel loro radicamento, temporaneo o definitivo, in molteplici 'altrove' rispetto al luogo d'origine” 9. Per “delocalizzazione” si intende un fenomeno correlato alla deterritorializzazione, a seguito del
quale – soprattutto grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie – si costituiscono flussi di comunicazione di carattere transnazionale, che agiscono anche
a livello del contatto tra culture, tanto che si verifica “una specie di de-valorizzazione del luogo in quanto fattore coestensivo della dimensione culturale
e della stessa identità”10.
Viene ad essere messo in discussione, dunque, lo stesso concetto di “comunità”. Risulta oggi più che mai arduo definire quest'ultima come gruppo
di individui stanziato in un'area geografica e portatore di una propria cultura. Perdono, di conseguenza, consistenza anche discorsi identitari fondati
sulla
salvaguardia
di
valori
o
manifestazioni
culturali
dalla
11
“contaminazione” proveniente dall'esterno . Si tornerà sul punto allorché ci
era stato fatto oggetto di una riscoperta in chiave idilliaca per scopi ideologici e non
scientifici. Si è ritenuto pertanto che Gramsci si riferisse in termini spregiativi non
tanto al folklore in sé, quanto alla concezione vigente al tempo in cui scriveva. Questa
ricostruzione è confermata dal fatto che, nei passi in cui la questione viene dal filosofo sardo posta in termini positivi, egli si riferisce non al folklore, ma al concetto di
“cultura popolare” (DEI, F., Cultura popolare, in AM. Antropologia museale, XII, 2009,
30 ss.; dello stesso A., Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito
antropologico italiano, in M. Santova, M. Pavanello, a cura di, Bulgaria-Italia. Dibattiti,
culture locali, tradizioni, Sofia, 2006, 145 ss.; sempre dello stesso A., Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione gramsciana negli studi folklorici, in Lares, LXXIV (2), 2008,
445 ss.).
9 U. FABIETTI, – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, op. cit., 106.
10 Ibid.
11 Lo sviluppo di ideali nazionalistici basati sulla esaltazione delle tradizioni popolari è
una costante nella storia dell'uomo. Nel corso del romanticismo la cultura ufficiale
venne definita corrotta, impura, come una forma deviata della unica e vera cultura,
quella popolare, ed in particolare quella contadina. Si trattava, beninteso, di
un'operazione politica, volta ad esaltare le radici nazionali e i legami con la storia
passata. E in quanto operazione politica fu realizzata secondo criteri che poco
9
si occuperà dell'utilizzo del concetto di “detentori” di conoscenze e culture
tradizionali nel linguaggio giuridico12.
Strettamente correlato al concetto di “cultura” è quello di “folklore”. La
prima comparsa del termine risale al 1846, quando William J. Thoms, sulla rivista Athenaeum, ne propose l'adozione, sostenendo l'esigenza di un vocabolo
che esprimesse “manners, customs, observances, superstitions, ballads, proverbs, etc. of the olden time” 13, in sostituzione di quello di popular antiquities
allora in uso14. L'oggetto privilegiato degli studi folklorici, anche laddove le
avevano di scientifico. La ricerca delle radici e la (ri)costruzione della storia della
nazione si spinsero ben oltre lo studio e la documentazione. In forza di questa
operazione di ricostruzione l'interesse si concentrò in particolare su poemi e saghe,
che furono oggetto di studio e di manipolazione, fino a giungere in alcuni casi ad una
“textual ‘emendation’, which sometimes amounted to outright forgery, on the
combined grounds of scholarly sophistication and insiders’ instinctive knowledge”
(cfr. M. HERZFELD, Folklore, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural
Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 300). Con l'avvento in Europa
del totalitarismo una nuova ondata di nazionalismo riportò l'attenzione sulla
riscoperta delle “buone vecchie tradizioni”, dei mestieri antichi, degli stili di vita non
contaminati dalla modernità e pertanto puri, espressione delle virtù e dei valori
autentici cui l’uomo ogni buon fascista (o ogni cittadino di stirpe germanica) doveva
tendere. Questo nazionalismo, però, presentava un elemento ulteriore rispetto a
quello dell'ottocento: i suoi fondamenti, primi tra tutti la nozione di razza, furono
ricoperti di autorità scientifica non solo sotto il profilo umanistico, ma anche sotto
quello biologico. Ciò che non rientrava nei canoni fissati dal regime, perciò, non
poteva soltanto essere corretto, andava eliminato. In Italia, nel campo delle scienze
umane, ciò avvenne con la complicità di numerosi autorevoli antropologi, che si
prestarono alla affermazione della nuova “verità”, o quantomeno scesero a
compromessi con il fascismo, che pretendeva la corrispondenza del contenuto delle
pubblicazioni accademiche con l'ideale nazionale, l'unico ammissibile in quanto
unico ad essere “scientificamente provato”.
12 V. infra, in questo stesso Capitolo, par. 3.
13 Cit. in DEI, F., Cultura popolare, in AM. Antropologia museale, XII, 2009, 30 ss.
14 Si tratta di una parola composta dall'inglese folk (“popolo”) e lore (“dottrina”, ma
anche “sapere”; “complesso di tradizioni o di notizie”) che ha avuto largo successo in
tutto il mondo (v. voce folklore, in G. DEVOTO – G.C. OLI, Dizionario della lingua
italiana, Firenze, 1990; T. DE MAURO, Dizionario della lingua italiana, Torino, 2000).
Nella lingua italiana compare sia nella forma originaria, sia in quella italianizzata di
“folclore”, ed indica “l'insieme delle tradizioni popolari e delle loro manifestazioni,
in quanto oggetto di studio o anche di semplice interesse” (G. DEVOTO-G.C. OLI,
Dizionario della lingua italiana, op. cit.). Interessante è anche la definizione che ne da il
Vocabolario Treccani, dalla quale emerge un ulteriore connotato, quello dell'oralità:
“l’insieme delle tradizioni popolari di una regione, di un paese, di un gruppo etnico,
in tutte le manifestazioni culturali che ne sono espressione, cioè usi, costumi,
leggende, credenze e pratiche religiose o magiche, racconti, proverbi e quanto altro è
tramandato per tradizione orale” (AA. VV., Il Vocabolario Treccani, Roma, 2010).
Oralità cui fa riferimento anche l'Oxford Dictionary of English, che definisce il folklore
come “the traditional beliefs, customs, and stories of a community, passed through
the generations by word of mouth“ (AA. VV., Oxford Dictionary of English, Oxford,
10
idee nazionaliste – con il loro corredo di implicazioni politiche – non hanno
avuto particolare sviluppo, è stato a lungo rappresentato dal mondo contadino, malgrado l’industrializzazione e lo sviluppo tecnologico avessero reso
anacronistico un tale interesse esclusivo. Questa circostanza era determinata
da una ambiguità di fondo, analoga a quanto già detto a proposito del concetto di “cultura”, ossia la convinzione circa l'esistenza di espressioni culturali pure, immutabili e fuori dalla storia. Sotto il profilo dei contenuti operò a
lungo una sorta di censura nei confronti delle espressioni culturali “politicamente scorrette” e di quelle considerate moralmente “oscene”, secondo una
dinamica simile a quella che nel passato aveva portato a selezionare il materiale di studio sulla base di un giudizio di valore. Solo nel secondo dopoguerra, e in particolare grazie al lavoro del folklorista statunitense Alan Dundes,
“the categories of urban and industrial folklore began to gain currency, and
that obscene or politically subversive folklore gained academic respectability”15. Anche il concetto di “cultura popolare” è stato ripensato. In particolare,
la cultura di massa – che fino ad allora era stata ignorata dall'antropologia –
viene fatta oggetto di studio e considerata parte dei fenomeni transnazionali
che hanno riguardato la cultura in generale negli ultimi decenni16.
Anche per il folklore, si è progressivamente abbandonata la tendenza a
considerare i singoli elementi che lo compongono (usanze, riti, espressioni
musicali etc.) in favore di una prospettiva più ampia. Nell'Europa continentale ciò ha coinciso con la riunione del folklore e dell'etnografia sotto la categoria delle “discipline demoetnoantropologiche”, proprio a voler significare
l'interdipendenza tra i due campi di studio e le relative metodologie di analisi.
2010); la dottrina antropologica inglese e statunitense fa ricorso al termine per
indicare sia l'oggetto di studio che lo studio stesso: “the term ‘folklore’ means both a
body of material and the academic discipline devoted to its study” (HERZFELD, M.,
Folklore, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A.
Barnard – J. SPENCER, 2010, 300 ss.). Anche nella lingua italiana rimane questa
doppia accezione, anche se da tempo non è più in uso in ambito accademico.
In italiano ha assunto anche il significato secondario di “aspetto pittoresco di una
situazione, di un ambiente” (T. DE MAURO, Dizionario della lingua italiana, op. cit.),
con accezione sovente spregiativa.
15 HERZFELD, M., Folklore, in Routledge Encyclopedia, op. cit, 300.
16 Cfr. E.G. TRAUBE, "The Popular" in American Culture, in Annual Review of
Anthropology, 25, 1996, 127 ss. V. anche D.E. FOLEY, Does the Working Class Have a
Culture in the Anthropological Sense?, in Cultural Anthropology, Vol. 4, No. 2, 1989.
11
2. Il folklore nel linguaggio del diritto.
2.1. Nozione di folklore nel diritto positivo e nelle convenzioni internazionali sul diritto d'autore.
A partire dagli anni '50 del secolo XX cominciò ad essere avvertita a livello
internazionale l'esigenza che anche le espressioni della cultura popolare
avessero un riconoscimento legislativo. Questo diede inizio ad un dibattito,
tuttora in corso, che pare ben lontano dall'approdo a risultati convincenti rispetto agli obiettivi proposti.
Le ragioni della scarsa efficacia dei risultati finora conseguiti sono probabilmente molteplici: anzitutto, gli scopi perseguiti dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali che hanno affrontato la questione sono stati spesso
troppo eterogenei per poter essere sintetizzati in una posizione condivisa; in
secondo luogo, gli strumenti di tutela offerti dal diritto positivo hanno mostrato la loro inadeguatezza ad essere applicati ad un simile campo.
D’altra parte anche per quanto concerne l’individuazione dell'oggetto della tutela è mancata quella condivisione di idee, che avrebbe dovuto costituire
la base di partenza per ogni riflessione in materia. Alla luce di questo era naturale attendersi esiti differenti, se non inconciliabili tra loro: cosa che pare
essersi verificata.
Una delle mancanze che si può ascrivere alla scienza giuridica è stata quella di aver totalmente (o quasi) ignorato l'evoluzione che la riflessione sul folklore stava subendo in campo antropologico. A differenza di quanto si è ricordato a proposito della dottrina antropologica del dopoguerra, agli operatori del diritto non si può nemmeno “rimproverare” di avere adottato una
nozione anacronistica e superata. Infatti, salvo probabilmente alcune eccezioni, pare non sia stata avvertita l'esigenza di coordinare i due campi di studio,
come normalmente avviene ogniqualvolta un atto normativo è chiamato a disciplinare una materia dalla elevata connotazione tecnica.
Senza voler esagerare, si potrebbe azzardare che ad oggi esistano tante definizioni di folklore quanti sono coloro – si intende sempre in campo giuridico – che a vario titolo se ne sono occupati. A ciò si aggiunga la già menziona ta varietà di concetti elaborati per indicare i vari aspetti della cultura popolare o tradizionale.
Per opportunità sistematica si può cominciare con il raggruppare le varie
12
declinazioni del concetto di folklore in due categorie: ad una prima classificazione si possono ricondurre le nozioni più ampie e comprensive (folklore sarebbe l'insieme delle espressioni di cultura tradizionale, conoscenze scientifiche etc.); ad una seconda categoria atterrebbero quelle più restrittive (folklore
come insieme delle sole espressioni artistiche, o conoscenze relative ad uno
specifico campo). Si tratta di nozioni che rispondono spesso a scelte di natura
lato sensu politica.
E' del 1952 la prima Conferenza Intergovernativa sul diritto d'autore, tenutasi a Ginevra e promossa dall'UNESCO, durante la quale la Delegazione jugoslava avanzò la proposta di inserire tra le opere protette anche “les oeuvres de l'art national”17. Si tratta della prima volta che il tema delle espressioni della cultura non ufficiale emerse sul piano internazionale. La proposta
venne respinta e nessun riferimento a tali opere fu inserito nella Convenzione
Universale del Diritto d'autore adottata in quella occasione.
Per vedere comparire il termine “folklore” bisognerà attendere fino al 1963
quando, ad esito della Riunione africana di studi sul diritto d'autore, svoltasi a
Brazzaville, venne adottata una Raccomandazione nella quale si sottolineava
la necessità di salvaguardare il “folklore africano”, inteso come patrimonio
culturale delle nazioni africane.
Come si può notare, l'aspetto su cui si focalizza l'attenzione è quello della
nazionalità. Secondaria è invece l'importanza attribuita alla individuazione
dell'oggetto della tutela. Da un punto di vista storico-politico, ciò può essere
meglio compreso alla luce della considerazione che quegli anni coincisero,
per molti Stati africani, con l'affrancamento dal dominio coloniale e il conseguimento dell'indipendenza. Tale evento favorì a sua volta l'affermazione di
idee nazionaliste, che avviarono operazioni di “ricerca” delle radici e dell'identità nazionale; operazioni, d’altra parte, che avrebbero dovuto coinvolgere qualunque campo nel quale si potesse ravvisare una specificità, una peculiarità da rivendicare come propria.
Una conferma di quanto sostenuto può essere rinvenuta nei testi delle legislazioni interne di quegli stessi Stati.
Nel 1966 fu approvata in Tunisia (indipendente dal 1956) una nuova legge sulla proprietà letteraria e artistica 18, che inserì espressamente nel novero
17 Cfr. Doc. DA/27, in Actes de la Conference intergouvernementale du droit d'auteur,
UNESCO, 1954.
18 Legge n. 66-12 del 14 febbraio 1966.
13
delle opere tutelate le “opere ispirate al folklore”, “definite come le creazioni
intellettuali ottenute con l'ausilio di elementi tratti dal patrimonio culturale
tradizionale della Repubblica Tunisina”19. L'art. 6 affermava che il folklore fa
parte del “patrimonio nazionale”.
Analoga previsione è contenuta nella legge sulla protezione del diritto
d'autore del Marocco (indipendente dal 1956)20. Anche qui si ritrova l'inclusione delle opere ispirate al folklore e il riferimento al patrimonio nazionale.
Del 1973 è la legge del Senegal (indipendente dal 1960) 21 sul diritto d'autore: “(i)l folclore e le opere ad esso ispirate si considerano in detta legge (art. 1,
comma 2, n. 13) come opere dell'ingegno a tutti gli effetti, con riserva peraltro
delle disposizioni particolari inserite in una legge speciale in materia di protezione del patrimonio nazionale”22.
Tra tali testi normativi, la legge senegalese è l'unica che contiene un riferimento espresso al folklore, mentre le altre due parlano di “opere ispirate al
folklore”.
Per quanto concerne la Jugoslavia di Tito, invece, si può ipotizzare che si
volesse – anche per questa via – in qualche modo arginare le rivendicazioni
nazionaliste dei diversi gruppi etnici presenti nel territorio dello Stato, che
esplosero dopo la morte del maresciallo, con gli esiti a tutti noti23.
Un ulteriore riferimento alle opere folkloriche si trova in un documento
del 1967 stilato in occasione del “Seminario di diritto d'autore dell'Asia Occidentale”, tenutosi a New Delhi, durante il quale fu costituito un Comitato incaricato dello studio della questione relativa alle opere folkloriche. Tale orga19
20
21
22
23
G. GALTIERI, Folclore e diritto d'autore, in IDA, 1973, 391-392.
Legge n. 1-69-135 del 29 luglio 1970
Legge n. 73-52
G. GALTIERI, Folclore e diritto d'autore, op. cit, 393-394.
Durante il suo governo, Tito inaugurò quello che viene definito “nazionalismo
jugoslavo”: dopo la rottura con l'URSS avvenuta nel 1948, la creazione di un'identità
nazionale avrebbe agevolato l'accettazione della nuova linea politica, promossa come
manifestazione della specificità jugoslava. Questo avrebbe dovuto anche calmare le
pressioni dei diversi gruppi etnici presenti nel territorio jugoslavo (albanesi, serbi,
croati, sloveni). In parte grazie a questa strategia, in parte grazie alle violente
repressioni nei confronti delle rivendicazioni di tali gruppi etnici, fino alla morte di
Tito – avvenuta nel 1980 – la situazione fu controllata. Negli anni successivi, l'assenza
di una guida forte e lo scontento per una situazione economica sempre più difficile
fecero riemergere antichi rancori etnici, alimentati da alcuni partiti e uomini politici,
come Slobodan Milosevic, che colsero anche l'occasione di rafforzare il loro potere
personale. Nel 1991, a seguito della proclamazione dell'indipendenza di Croazia e
Slovenia, ebbero inizio le cc.dd. “Guerre jugoslave”, che si conclusero nel 1995, con la
stipula degli “Accordi di Dayton”.
14
nismo elaborò una relazione in cui tali opere venivano assimilate alle opere
anonime; funzione di questo lavoro era sollecitare una riflessione sulla materia, in vista della revisione della Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche del 1886, che ebbe luogo nel 1971 con l'Atto di Parigi.
Nello stesso 1967 la Delegazione indiana presso la Conferenza diplomatica
di Stoccolma sulla proprietà intellettuale, preliminare alla revisione della
Convenzione di Berna, propose l'inserimento nell'elenco delle opere protette
anche delle “opere folcloriche”24
Si evidenzia peraltro come manchi, anche in questi documenti, un chiarimento su cosa si voglia intendere per “folklore”, a testimonianza della difficoltà di fornire una definizione specifica25
Il nuovo testo della Convenzione di Berna recepì sul piano terminologico
tale impostazione, riferendosi all'art. 15, alinea 4, alle “opere non pubblicate
di cui è ignota l'identità dell'autore”: “(s)i è, così, 'aggirata' la questione, prevedendo una nuova categoria di opere“26.
Questa disposizione, per assoggettare tali opere alla disciplina della Convenzione, prevede l'ulteriore requisito che l'autore, per quanto sconosciuto,
possa presumibilmente ritenersi appartenente ad uno dei Paesi dell'Unione
(organismo del quale, ai sensi dell'art. 1, fanno parte tutti gli Stati che hanno
ratificato la Convenzione).
E' lasciato agli interpreti l'onere di definire i contorni dell'oggetto della disciplina. E, come era prevedibile, questo non è stato possibile, data l'ampiezza e soprattutto l'ambiguità della formula dell'art. 15.
La disposizione solleva a ben vedere una serie di questioni: le opere folkloriche possono esservi fatte rientrare? E se sì, i due concetti coincidono? E
se non coincidono, quello di opera folklorica è interamente compreso nel primo, oppure ne risultano escluse alcune sue parti?
24 Cfr. Doc. S/73, in Actes de la Conférence de Stockolm, 1967, I, 704 e II, 891.
25 G. GALTIERI, Folclore e diritto d'autore, op. cit., 381, sottolinea come questa difficoltà
emerse anche nella proposta del Gruppo di Lavoro istituito per approfondire lo
spunto della Delegazione indiana. Scrive lo stesso Galtieri: “è da rilevare che la
proposta del Gruppo di Lavoro non parlava espressamente di 'opere folcloriche',
trattandosi di espressione di difficile definizione: si riteneva tuttavia che la categoria
'opere di autore sconosciuto', oggetto della nuova disposizione proposta, data la sua
ampiezza, ben potesse comprendere tutte le produzioni che sono generalmente
individuate come 'opere folcloriche'”.
26 V. DE SANCTIS, La conferenza diplomatica di Stoccolma della proprietà intellettuale, in
IDA, 1967, 338.
15
Si può notare preliminarmente come si dibatta non tanto sul concetto di
folklore, quanto su quello di opera folklorica. Questo fatto è già di per sé significativo: si avverte la necessità di individuare un bene - o un complesso di
beni (materiali o immateriali) - come tali suscettibili di valutazione economica, da assoggettare a tutela. E questo esclude ogni considerazione relativa al
fenomeno da cui tali beni (rectius “opere”) traggono origine. A prescindere
dalle conseguenze giuridiche di questa impostazione, si può sollevare il quesito se sia possibile considerare separatamente l'opera folklorica dal folklore,
posto che né dell'una né dell'altro si chiarisce (o si conosce) l'effettiva portata.
In dottrina ci si è chiesti a tale proposito “se e fino a che punto nella previ sione convenzionale del citato art. 15 possano considerarsi comprese le cosiddette 'opere folcloriche'” e, considerata la discordanza tra la “veste giuridica”
data dalle Convenzione e la sostanza, si è affermato: “è necessario […] tentare
una definizione o meglio una individuazione delle opere appartenenti al folclore che, pur prescindendo da qualunque rigore scientifico e dottrinario, abbia un valore essenzialmente pratico”27.
Le cose non sarebbero migliorate con il successivo sviluppo del dibattito
giuridico in materia: si ritroverà più volte il riferimento ad una nozione pratica e non scientifica di folklore, quasi alla stregua di una categoria di creazione legislativa, modellabile in funzione dell'applicazione di una specifica disciplina.
Quanto alla questione relativa al fatto che nelle intenzioni della Convenzione di Berna la musica di autore sconosciuto rappresentasse semplicemente
una formula meno impegnativa per intendere in realtà il folklore, parte della
dottrina ha sostenuto che quella delle opere di autore sconosciuto fosse una
categoria “di carattere generale, non quindi ristretta alle opere del folclore”28.
Altra dottrina pone in risalto le opposizioni sollevate da alcuni Stati, alla
luce del fatto che la proposta della delegazione indiana alla Conferenza di
Stoccolma fu respinta nella parte in cui prevedeva l'inserimento nel testo
della Convenzione di un riferimento alle opere folkloriche: “although supported by many delegations, doubts particularly by the Australian delegation
with respect to applying the provisions of the Berne Convention (which was
based on the protection of individual, identifiable authors) to folklore (which
did not involve identifiable authors), resulted in the failure to adopt the pro27 Ibid.
28 Ibid.
16
posal of the Indian delegation, which included 'works of folklore' in the nonexclusive list of literary and artistic works of Article 2(1) of the Berne Convention”29. Tuttavia, si nota anche come “the Report of Main Committee I reveals that the main field of application of this new provision was supposed
to be folklore”30.
Per quanto riguarda l'Italia, alla Camera dei Deputati il 18 febbraio 1971 fu
presentato il progetto di legge C. 3097, avente ad oggetto “Tutela e sviluppo
delle attività musicali popolari”. Sotto questo nome sono però comprese sia
la musica folklorica che la musica leggera, senza distinzione31.
La musica popolare è considerata “di rilevante interesse generale, in quanto espressione di una caratteristica tradizione nazionale e per le incidenze sul
tempo libero e sul gusto della comunità” (art. 1, comma 1).
I termini “popolare” e “tradizione” sono usati, anche nel resto del progetto
di legge, con una certa disinvoltura, che cela una totale assenza di approfondimento sulle tematiche in oggetto. L'unico riferimento specifico è contenuto
nell'art. 6, che menziona “il patrimonio musicale del folclore regionale e nazionale”, anche qui senza chiarimenti ulteriori.
Nella seconda metà degli anni '70 furono adottati due importanti atti, riferiti direttamente al solo continente africano, ma destinati a influenzare il dibattito su scala internazionale.
Il primo è il Tunis Model Law on Copyright for Developing Countries del 1976,
redatto da un Comitato di Esperti (Committee of Governmental Experts) con
l'assistenza di UNESCO e WIPO. All'art. 18(iv) il folklore è definito come “all
literary, artistic and scientific works created on national territory by authors
presumed to be nationals of such countries or by ethnic communities, passed
from generation to generation and constituting one of the basic elements of
the traditional cultural heritage”.
Il secondo atto è l'Accordo di Bangui, istitutivo dell'OAPI (Organisation
Africaine de la Propriété Intellectuelle) adottato nel 1977, che all'art. 68
definisce il folklore come “the literary, artistic, religious, scientific,
technological and other traditions and productions as a whole created by
communities and handed down from generation to generation”.
29 S. VON LEWINSKI, The protection of Folklore, Symposium, Traditional Knowledge,
Intellectual Property and Indigenous Culture, in Cardozo Journal of International and
Comparative Law.
30 Ibid.
31 Cfr. L. LEONELLI, Per una legge sulla musica popolare, in IDA, 1972, 1 ss.
17
In entrambe le definizioni assume rilevanza la trasmissione orale (o materiale) ma è evidente una maggiore ampiezza della seconda rispetto alla prima. La divergenza tra le due definizioni si accentua scorrendo l'elenco (non
tassativo) di tradizioni o produzioni che ai sensi dell'art. 68 dell'Accordo vanno in ogni caso incluse nelle espressioni di folklore 32: oltre alle produzioni letterarie e artistiche, vi si ricomprendono anche pratiche, usanze, credenze e
addirittura “codes of manners and social conventions”. Una definizione che
si avvicina molto a quella che si è vista essere la nozione antropologica di folklore.
32 Art. 68. Folklore.
(1) Folklore means the literary, artistic, religious, scientific, technological and other
traditions and productions as a whole created by communities and handed down
from generation to generation.
(2) The following, in particular, shall be included in that definition:
(a) literary works of all kinds, whether in oral or written form, stories, legends,
proverbs, epics, chronicles,
myths, riddles;
(b) artistic styles and productions:
(i) dances,
(ii) musical productions of all kinds,
(iii) dramatic, dramatico-musical, choreographic and pantomime productions,
(iv) styles and productions of fine art and decorative art by any process,
(v) architectural styles;
(c) religious traditions and celebrations:
(i) rites and rituals,
(ii) objects, vestments and places of worship,
(iii) initiations;
(d) educational traditions:
(i) sports, games,
(ii) codes of manners and social conventions;
(e) scientific knowledge and works:
(i) practices and products of medicine and of the pharmacopoeia,
(ii) theoretical and practical attainments in the fields of natural science,
physics, mathematics and astronomy;
(f) technical knowledge and productions:
(i) metallurgical and textile industries,
(ii) agricultural techniques,
(iii) hunting and fishing techniques.
18
2.2. Nozione di folklore nel linguaggio delle organizzazioni internazionali.
Assieme al Tunis Model Law, l'Accordo di Bangui ha avuto una notevole influenza in sede di redazione delle Model Provisions for national laws on the protection of expressions of folklore against illicit exploitation and other prejudicial actions, emanate da WIPO e UNESCO nel 1985.
Si tratta di un testo destinato a fungere da modello per l'adozione da parte
dei singoli Stati di una legislazione diretta a tutelare le espressioni di folklore
dalle utilizzazioni improprie. L'art. 2 definisce le “expressions of folklore” 33
come “productions consisting of characteristic elements of the traditional
artistic heritage developed and maintained by a community […] or by individuals reflecting the traditional artistic expectations of such a community”.
Il riferimento è da intendersi non al folklore generalmente inteso, ma a sue
specifiche espressioni, che – per ragioni pratiche – vengono dettagliatamente
chiarite nel Commentario34 annesso alle Model Provisions. Viene preliminarmente puntualizzato che si è deliberatamente omesso di fornire una definizione di “folklore”, per evitare possibili conflitti con eventuali nozioni contenute in atti normativi nazionali. La scelta della dicitura “expressions of folklore” è frutto delle indicazioni provenienti dal “Committee of Governmental Experts on the Safeguarding of Folklore”, riunitosi nel 1982; si è optato
per questa espressione – e per quella di “productions” – in luogo di “works”,
in quanto quest'ultima è tipica del linguaggio della legislazione sul copyright,
mentre si voleva, anche sotto il profilo terminologico, mettere in risalto la natura sui generis delle disposizioni contenute nelle Model Provisions.
33 SECTION 2. Protected Expressions of Folklore
For the purposes of this [law], "expressions of folklore" means productions consisting
of characteristic elements of the traditional artistic heritage developed and
maintained by a community of [name of the country] or by individuals reflecting the
traditional artistic expectations of such a community, in particular:
(i) verbal expressions, such as folk tales, folk poetry and riddles;
(ii) musical expressions, such as folk songs and instrumental music;
(iii) expressions by action, such as folk dances, plays and artistic forms or rituals;
whether or not reduced to a material form; and
(iv) tangible expressions, such as:
(a) productions of folk art, in particular, drawings, paintings, carvings,
sculptures, metalware, jewellery, basket weaving, needlework, textiles, carpets,
costumes;
(b) musical instruments;
[(c) architectural forms].
34 Reperibile all'indirizzo: www.wipo.int/wipolex/en/text.jsp?file_id=184668, parr. 31-39.
19
Si tratta, come si vede, di soluzioni che sono state dettate da scelte di natura politica o tecnico-giuridica. Anche in questo caso – come si è visto per la
Conferenza di Stoccolma – si è tentato di aggirare l'ostacolo: in quel caso
creando una categoria amplissima, nella quale anche (ma non solo) il folklore
avrebbe potuto essere ricompreso; in questo, restringendo l'ambito di applicazione solo ad alcune espressioni di esso, nello specifico quelle artistiche.
Questa circostanza solleva una domanda: è davvero possibile definire una
parte del tutto, senza che risulti necessario definire il tutto?
Ritengo che la risposta debba essere in senso negativo. Le stesse Model
Provisions, malgrado l'intento dichiarato, non riescono ad esimersi totalmente
dal fornire una definizione del concetto di folklore. Si legge nelle Introductory
Observations: “[f]olklore is an important cultural heritage of every nation and
is still developing – albeit frequently in contemporary forms – even in modern communities all over the world. […] Particularly in developing countries,
folklore is a living, functional tradition, rather than a mere souvenir of the
past”. Si parla di folklore, non di sue specifiche espressioni, ed emerge anche
la consapevolezza di alcune fondamentali caratteristiche: la sua attualità; il
fatto che sia in continuo sviluppo; il fatto che coinvolga qualunque tipo di società.
Nel primo “considerando” si specifica che “folklore represents an important part of the living cultural heritage of the nation”. Ancora una volta si parla del folklore in generale, e se ne indica un ulteriore attributo: esso costituirebbe parte del patrimonio culturale della nazione.
Nell'art. 2 la menzione alla “tradition” ricorre due volte e in entrambi i
casi pare implicitamente considerata come un aspetto caratterizzante non le
sole espressioni artistiche; al contrario, il testo della norma pare sottintendere
che una espressione artistica possa essere ritenuta appartenente al folklore
proprio in ragione dell'ulteriore requisito, consistente nel fatto di essere riconducibile ad una tradizione35. Inoltre il riferimento alla comunità che
avrebbe sviluppato o che deterrebbe tale espressione artistica, a sua volta, ritengo non possa essere considerato un elemento autonomo; né pare dalla
norma inteso come proprio delle sole “expressions of folklore”.
Credo, invece, che l'opzione per una soluzione di compromesso abbia pro35 Tale circostanza pare trovare conferma nel par. 33 del Commentario, allorché si
afferma: “'Traditional artistic heritage developed and maintained by a community'”
is understood as representing a special part of the 'cultural heritage of the nation'.”
20
dotto un risultato, certamente non voluto, ma potenzialmente dannoso. Si riconoscono, infatti, ai fini della tutela, le espressioni artistiche riferibili a comunità appartenenti a singoli Stati. Questo porta infatti all'esclusione delle
comunità (etniche, religiose, linguistiche etc.) che, come in numerosi casi accade, hanno una distribuzione territoriale non coincidente con quella di un
singolo Stato. La conseguenza di ciò è che tali ultime espressioni, ai sensi dell'art. 2, o non risultano essere “expressions of folklore” o non sono ritenute
meritevoli di tutela. In entrambi i casi l'esito è poco convincente. Questo ragionamento da anche la misura di come sia nei fatti impossibile separare il
campo giuridico da quello antropologico: la mancata considerazione di un
aspetto fondamentale ha prodotto una soluzione inaccettabile sotto il profilo
dei diritti umani.
Anche dal punto di vista dei contenuti, la scelta di restringere il campo di
applicazione presenta alcune criticità. Come si è detto, le interrelazioni tra
culture “forti” e culture in posizione subalterna sono state (e sono) soggette a
variazioni nel corso della storia. Analogamente, in ogni periodo storico, su
base territoriale varia il modo delle une di relazionarsi alle altre. Accanto a
fenomeni di forte commistione – come avviene in particolare nei Paesi sviluppati – vi sono casi di culture in conflitto con quelle dominanti (circostanza, anzi, piuttosto frequente), o che si sviluppano quasi isolate. Questi fenomeni incidono in grande misura non solo sulle produzioni culturali di tali
minoranze, ma anche sul loro modo di elaborare determinati concetti – come
quello di cultura – che spesso non corrispondono alle categorie occidentali.
Ciò che secondo tali categorie non è arte, potrebbe esserlo secondo altre, e viceversa. Alla luce di questo, ci si chiede sulla base di quali criteri andrebbero
selezionate le espressioni artistiche degne di essere protette. Anche in questo
caso, il risultato della scelta operata nelle Model Provisions è poco convincente; e lo è sia con riferimento alle culture con limitato grado di interconnessione con quelle dominanti (per le quali è più probabile che si riscontrino importanti differenze nella elaborazione dei concetti di cultura e simili), sia con
riferimento a quelle in conflitto o perseguitate da governi centrali o locali
(che sarebbero gli stessi deputati, ai sensi delle Model Provisions, a individuare in un eventuale futuro atto normativo quali espressioni culturali includere
e quali escludere dal regime di tutela, o a nominare l'autorità competente ad
adempiere tale compito).
21
E' fonte di confusione, inoltre, la coesistenza di più atti normativi di livello
sovranazionale, che disciplinano la materia in esame sotto profili differenti,
talvolta stabilendo un espresso coordinamento tra di essi, talvolta no. Per
quanto riguarda la prima ipotesi, è il caso della Convenzione Universale del Diritto d'autore e della Convenzione di Berna: con l'Atto di Parigi del 1971, di revisione di entrambe le Convenzioni, sono stati anche disciplinati i loro reciproci rapporti. Ma tale coordinamento, invece di chiarire la situazione, la ha paradossalmente complicata: si è stabilito, infatti, che nei rapporti tra gli Stati
appartenenti all'Unione di Berna non trovi applicazione la Convenzione Universale, con l'eccezione dei Paesi in via di sviluppo, che possono ottenere una deroga a questo principio36. Questo significa che per uno stesso Stato, la medesima forma di espressione può essere priva di rilievo ai sensi della Convenzione Universale, ma riconosciuta come appartenente alle opere di autore sconosciuto (formula già di per sé piuttosto ambigua) nei rapporti interni all'Unione.
Nei rapporti dei lavori dell'Intergovernmental Copyright Committee, che so36 Appendix declaration relating to Article XVII.
The States which are members of the International Union for the Protection of
Literary and Artistic Works (hereinafter called `the Berne Union') and which- are
signatories to this Convention,
Desiring to reinforce their mutual relations on the basis of the said Union and to
avoid any conflict which might result from the co-existence of the Berne Convention
and the Universal Copyright Convention,
Recognizing the temporary need of some States to adjust their level of copyright
protection in accordance with their stage of cultural, social and economic
development,
Have, by common agreement, accepted the terms of the following declaration:
(a) Except as provided by paragraph (b), works which, according to the Berne
Convention, have as their country of origin a country which has withdrawn from the
Berne Union after 1 January 1951, shall not be protected by the Universal Copyright
Convention in the countries of the Berne Union;
(b) Where a Contracting State is regarded as a developing country in conformity with
the established practice of the General Assembly of the United Nations, and has
deposited with the Director-General of the United Nations Educational, Scientific
and Cultural Organization, at the time of its withdrawal from the Berne Union, a
notification to the effect that it regards itself as a developing country, the provisions
of paragraph (a) shall not be applicable as long as such State may avail itself of the
exceptions provided for by this Convention in accordance with Article Vbis;
(c) The Universal Copyright Convention shall not be applicable to the relationships
among countries of the Berne Union in so far as it relates to the protection of works
having as their country of origin, within the meaning of the Berne Convention, a
country of the Berne Union.
22
vrintende all'applicazione della Convenzione Universale, si ritrovano costanti
riferimenti al folklore, nei confronti del quale in particolare i Paesi in via di
sviluppo chiedono maggiore attenzione, ma si tratta di riferimenti piuttosto
generici al concetto, che non ne forniscono una definizione compiuta. Nel
corso delle ultime sessioni i riferimenti sono diventati quantitativamente e
qualitativamente sempre minori, fino a scomparire nell'ultima , la XIV, tenutasi nel giugno del 2010 37.
Dopo le Model Provisions, inoltre, WIPO e UNESCO hanno seguito strade
separate.
L'UNESCO ha avviato dal 1993 un percorso che ha portato, dieci anni più
tardi, all'emanazione della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003. L'art. 2 stabilisce che “per
'patrimonio culturale immateriale' s’intendono le prassi, le rappresentazioni,
le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i
gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”38. Una definizione piuttosto ampia, che coincide per alcuni aspetti con quella antropologica di folklore. Ma con una importante parti37 I rapporti delle ultime tre sessioni sono reperibili al seguente indirizzo:
http://portal.unesco.org/culture/en/ev.phpURL_ID=36777&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html
38 Art. 2 Definizioni (estratto)
Ai fini della presente Convenzione,
1. per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le
espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i
manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni
casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo
patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è
costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro
interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità,
promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana. Ai
fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio culturale immateriale
unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti esistenti in materia di
diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui
nonché di sviluppo sostenibile.
2. Il “patrimonio culturale immateriale” come definito nel paragrafo 1 di cui sopra, si
manifesta tra l’altro nei seguenti settori:
a) tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo
del patrimonio culturale immateriale;
b) le arti dello spettacolo;
c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi;
d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo;
e) l’artigianato tradizionale.
23
colarità: viene qui in risalto il concetto di patrimonio. Di per sé questo fatto
non è insolito: si è visto infatti come tale concetto ricorra con una certa frequenza negli atti normativi che disciplinano la materia. Ma a renderlo anomalo in questo caso è una serie di circostanze: dove si è visto menzionato, il
concetto di patrimonio era associato o a definizioni del tutto vaghe, e quindi
privo di consistenza (ad esempio quando si parla di “patrimonio delle nazioni africane”, “patrimonio culturale della nazione”, etc.), oppure a singole o
specifiche espressioni culturali. In questa sede, invece, patrimonio è considerato l'insieme di tutte le manifestazioni culturali di una comunità. Nel linguaggio giuridico, patrimonio è un complesso di beni suscettibili di valutazione economica. Ma in questo caso pare che tale tipo di valutazione non abbia ragion d'essere: prima di tutto, perché non esistono singoli beni; in seconda istanza, perché sarebbe incompatibile con la politica generale UNESCO.
Peraltro, i principi formulati dalla Convenzione, sono dalla stessa contraddetti nella disciplina delle politiche attuative. Come è noto, da anni ormai
l'UNESCO cataloga espressioni del patrimonio culturale immateriale di tutto
il mondo, includendole in una lista da essa stessa creata. Prescindendo per il
momento dai criteri e dalle modalità seguite per l'inclusione, appare contraddittorio un sistema che pretenda di poter selezionare cosa includere e cosa
no, dopo aver statuito che la cultura immateriale è qualcosa di più delle sue
singole manifestazioni39. Tanto più che i riconoscimenti sono centellinati: in
Italia dal 2003 ad oggi lo hanno ottenuto solo il canto a tenore sardo, il teatro
dei pupi siciliano e, da ultimo, la dieta mediterranea. Un approccio che appare in una certa misura paternalistico, e ben poco coerente con l'obbiettivo di
garantire una tutela effettiva ed efficace. L'inadeguatezza è dimostrata anche
dal fatto che, malgrado l'affermazione secondo cui il patrimonio immateriale
è riferibile alle comunità (non meglio specificate) e “dà loro un senso d’identità e di continuità”, vi sono stati casi di espressioni riconosciute come riferibili a Stati che non avevano alcun legame territoriale con esse, o addirittura
39 Scrive in proposito Ignazio Macchiarella: “la politica Unesco sembra ancora delineare
l’idea di una visione del mondo piuttosto semplicistica, articolata in culture
delimitate e definite, in un quadro statico di una mera compresenza all’interno di
territori nazionali. Una prospettiva contraria alle stesse dichiarazioni di principio del
programma ICH dell’Unesco [...], ma che tuttavia risulta evidente in tanti atti
formali” (I. MACCHIARELLA, Dove il tocco di Re Mida non arriva. A proposito di
proclamazioni Unesco e musica, in La Ricerca Folklorica, 63, 2011, in corso di
pubblicazione).
24
rappresentavano una vera e propria minaccia per l'esistenza della relativa comunità40.
Per di più, le politiche ICH non sono coordinate con quelle dell'Intergovernmental Copyright Committee, con la conseguenza (sempre prescindendo in
questa sede da analisi di tipo giuridico) che una medesima manifestazione
culturale può ricevere dalla stessa UNESCO una diversa considerazione, anche sotto il profilo definitorio, a seconda della disciplina da applicare.
La WIPO, da parte sua, ha intrapreso un progetto in qualche modo parallelo a quello dell'UNESCO: a parte le differenze dal punto di vista dei termini, nella sostanza il materiale al quale si rivolgono gli interessi di entrambe le
istituzioni appare in molti punti coincidente, mentre differenti sono i metodi
e gli obbiettivi. Nel 2000 WIPO ha istituito l'Intergovernmental Committee on
Intellectual Property and Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore (di
seguito denominato IGC), con il compito di favorire la negoziazione tra gli
Stati membri, al fine di pervenire alla redazione di uno strumento legislativo
condiviso che assicuri una effettiva protezione per le materie di competenza.
Si tratta dunque di una strategia ad ampio spettro, che coinvolge non solo le
espressioni letterarie e artistiche, ma anche il vasto ambito delle conoscenze
tradizionali (come quelle in campo medico, scientifico, agricolo), fino ad abbracciare specificità territoriali come la biodiversità. L'IGC si riunisce ogni
sette-otto mesi; all'esito di ogni riunione vengono prodotte delle Draft Provisions divise per i tre ambiti (TK, TCEs/Folklore, GRs), contenenti un documento preliminare (predisposto dal Segretariato) e un annesso, con il testo aggiornato delle proposte (Revised Provisions), corredato da un Commentario41.
Si opera quindi una distinzione tra le espressioni culturali (rectius produzioni
culturali) ed altri aspetti che secondo la concezione antropologica andrebbero
40 I. MACCHIARELLA, op. cit., menziona due casi, entrambi con protagonista la Cina:
“nel corso dell’Intergovernmental Committee di Abu Dhabi (tenutosi nell'aprile 2007,
nda), si è arrivati ad esiti, diciamo così, paradossali quali l’attribuzione al patrimonio
“nazionale” cinese del Koomei mongolo (richiesta del governo centrale cinese con il
consenso di 'local governments, governing bodies and related academic and
professional institutions') e del teatro tibetano in cui ben evidenti sono ragioni che
poco hanno a che fare con la valorizzazione delle diversità culturali del mondo” (la
prima proposta non è stata accolta, e il Koomei è stato infine attribuito alla Mongolia
nel 2010; la seconda proposta, invece, è diventata realtà, e la Tibetan opera è entrata
nel 2009 a far parte del catalogo UNESCO).
41 Le Draft Provisions della XVII sessione dell'IGC sono reperibili all'indirizzo:
http://www.wipo.int/edocs/mdocs/tk/en/wipo_grtkf_ic_17/wipo_grtkf_ic_17_4.
pdf
25
senz'altro ricompresi nel concetto di cultura popolare, che sono destinatari di
interventi specifici e differenziati.
Malgrado l'ambito di intervento, così come formulato da WIPO, sia denominato Traditional Cultural Expressions/Folklore, nelle Draft Provisions il riferimento è non al folklore in generale, ma alle “expressions of folklore” 42, a dimostrazione del fatto che ancora una volta si ritiene necessario circoscrivere
il raggio d'azione a elementi singolarmente identificabili, data la difficoltà di
comprendere la categoria generale alla quale tali elementi sono riconducibili.
D'altra parte, altre “porzioni” di folklore formano i restanti due ambiti (in
particolare quello del Traditional Knowledge, data la natura delle Genetic Resources, che non sono direttamente riferibili ad un contributo umano).
42 “Traditional cultural expressions” and/or “expressions of folklore” [are] and any
forms,[whether] tangible [and][and/or] or intangible or a combination thereof, in which
traditional culture and knowledge are expressed, appear or are manifested, [and
comprise:] and are passed on from generation to generation, including: / such as but
not limited to the following forms of expressions or combinations thereof:
(a) phonetic or verbal expressions, such as: stories, epics, legends, poetry, riddles and
other narratives; words, signs, names, and symbols, etc.;
(b) musical or sound expressions, such as songs, rhythms, [and] instrumental music
and popular tales;
(c) expressions by action, such as dances, plays, ceremonies, rituals, sports and
traditional games and other performances, theater, including, among others, puppet
performance and folk drama, whether or not reduced to a material form; and,
(d) tangible expressions, such as productions of art, in particular, drawings, designs,
paintings (including body-painting), wooden carvings, sculptures, mouldings, pottery,
terracotta, mosaic, woodwork, metalware, jewelry, baskets, food and drink, needlework,
textiles, glassware, carpets, costumes, works of mas, toys, gifts and; handicrafts; musical
instruments; stonework, metalwork, spinning, and architectural and/or funeral forms.
2. Protection shall extend to those “traditional cultural expressions” or “expressions
of
folklore” which are:
(a) the products of creative intellectual activity, including individual and communal
creativity;
(b) [characteristic] indicative of authenticity/being genuine of [a community’s] the
cultural
and social identity and cultural [heritage] of indigenous peoples and communities
and
traditional and other cultural communities; and
(c) maintained, used or developed by [such community] indigenous peoples and
communities and traditional and other cultural communities, or by individuals having
the right or responsibility to do so in accordance with the customary [law] land tenure
system or law/ normative systems [and] or traditional/ancestral practices of [that
community] those indigenous peoples and communities and traditional and other
cultural communities, or has an affiliation with an indigenous/traditional community.
3. The specific choice of terms to denote the protected subject matter should be
determined at the national, sub-regional and regional levels.
26
La separazione degli ambiti di intervento, infine, conferma quanto detto
sulla difficoltà occidentale di comprendere i fenomeni estranei senza ricondurli a categorie note; in particolare, per quanto di interesse, l'ampiezza della
categoria delle “espressioni culturali” appare frutto di una scelta arbitraria.
Restano valide le considerazioni svolte sopra in merito alla pericolosità di
una impostazione di questo genere.
Il Commentario alle Draft Provisions mostra come i termini adoperati siano
il risultato di una intensa negoziazione tra le delegazioni degli Stati membri,
e mostra anche quanta incertezza vi sia tra le stesse parti nell'individuare
l'oggetto di tutela43.
Concludendo, numerosi sono gli Stati che hanno adottato una legislazione
interna sulla protezione del folklore, delle espressioni culturali tradizionali,
delle conoscenze tradizionali, ispirata in alcuni casi alla formula delle Model
Provisions, in altri all'impostazione dell'attuale politica WIPO, e talvolta anche sulla base di un sistema autonomamente predisposto. Di conseguenza,
anche la molteplicità delle definizioni ha nel tempo assunto una distribuzione capillare, che allo stato attuale appare incontrollabile44.
2.3. Nozione di folklore nella dottrina giuridica.
La nozione di folklore ha impegnato anche le riflessioni della dottrina, sia
nello sforzo di comprendere i termini utilizzati dal diritto positivo, sia nel
43 Tra le osservazioni dei delegati, due sono particolarmente interessanti:
a) “The Delegation of the Republic of Korea suggested that, in paragraph (1), the
term 'traditional' be clearly defined. It believed that the main objective for protecting
TCEs was to provide protection to those TCEs containing sufficient value to be
protected that would not fall under the scope of the conventional copyright
protection regime. As 'cultural expressions' could generally be subject for protection
under the existing copyright regime, the core concept applicable to deciding the
subject matter of TCE protection should be the term 'traditional'. Although
subparagraph (2)(b) could help in defining this term, using the words 'cultural and
social identity' and 'cultural heritage', these words too were broad concepts.
'Traditional' was, therefore, not clearly defined”.
b) “The Delegations of Cameroon, China, Colombia, the Russian Federation, Spain,
Sudan and Switzerland suggested adding an article or glossary setting out
definitions of key terms. It was believed to be necessary to use unified terminology
for the concepts as the establishment of a
working definition of TCEs was one of
the prerequisites of a substantive discussion. The Delegation of Switzerland said that
existing relevant international terminology, including the definition of 'intangible
cultural heritage' of the 2003 UNESCO Convention for the Safeguarding of the
Intangible Cultural Heritage, should also be taken into account by the Committee”.
44 Si rimanda al Capitolo III per un'analisi più approfondita sotto il profilo giuridico.
27
tentativo di proporre nuovi contributi per la definizione del concetto.
Non essendo possibile passare in rassegna in questa sede la grande quantità di materiale prodotto dagli studiosi del diritto, si è scelto perciò di esaminare alcuni contributi che apparivano particolarmente significativi.
Un primo orientamento dottrinale45, risalente alla prima metà degli anni
settanta, nel riferirsi al folklore forniva un quadro piuttosto ambiguo. In primo luogo la musica “folcloristica” era considerata come sempre anonima e di
pubblico dominio, escludendo perentoriamente dalla categoria musiche non
ancora cadute in pubblico dominio e/o di cui sia identificabile un primo autore. Gli studiosi del folklore sostengono che ciò che rileva al fine della qualificazione della musica come folklorica (oltre alla considerazione del contesto
sociale) sono piuttosto le dinamiche di produzione e trasmissione: seppure
un autore fosse identificabile, il suo apporto originario non avrebbe rango di
creazione individuale, perché sarebbe subito sviluppato e aggiornato da nuovi contributi. La chiusura dell'orientamento in parola sul punto non è, peraltro, fondata su considerazioni di carattere scientifico. Lo stesso concetto di
pubblico dominio appare vago: in alcuni punti si afferma che il folklore è
“musica di tutti”; cosa evidentemente diversa dal pubblico dominio, che indica semplicemente che un'opera è attualmente fruibile liberamente da
chiunque, senza versare un corrispettivo all'autore. Dire che è musica di tutti
significa affermare che è riconosciuta come propria da tutti; ma chi siano
questi “tutti” non è specificato. Secondo tale orientamento, infine, la musica
folklorica appartiene solo al passato. Sostenere questo, e contemporaneamente affermare che la stessa musica folklorica (e la musica leggera) “sono, in un
determinato momento storico ed in un determinato paese, accolte come l'espressione più sentita ed intima dello stato d'animo del popolo” 46 appare
contraddittorio: anche questo concetto è privo di ulteriori chiarimenti.
Si riscontra maggiore approfondimento in alcuni orientamenti della dottrina più recente47, che definiscono il folklore come “l'insieme delle tradizioni
popolari di una regione, di un paese, di un gruppo etnico, in tutte le manifestazioni culturali che ne sono espressione (e che in quanto popolari si contrappongono alla cultura della classe colta, ove questa ci sia), cioè usi, costumi, leggende, credenze e pratiche religiose o magiche, racconti, proverbi e
45 L. LEONELLI, Per una legge sulla musica popolare, op. cit.
46 Ivi, 2.
47 F. DE PROPRIS, La tutela delle opere folkloriche, in EM, 2003, I, 97 ss.
28
quanto altro è tramandato per tradizione orale”. Appare qui la consapevolezza della ampiezza del concetto di folklore e della contrapposizione culturale
tra differenti classi sociali, che ne è alla base. Ancora, si afferma che gli aspet ti folklorici di quasi tutte le culture “vanno scemando, stanno subendo profonde metamorfosi per effetto della globalizzazione della cultura in atto nella
società occidentale”. L'opera folklorica è il frutto dell'elaborazione di tradizioni popolari. Si parla di opera dell'ingegno collettivo: collettiva non è l'opera, ma proprio l'ingegno che sta alla base della sua creazione. Può essere frutto anche dell'attività di un singolo individuo, ma “condivisa ed elaborata nell'immediatezza dagli altri componenti la comunità e tramandata […] attraverso la tradizione orale per entrare a far parte del patrimonio culturale comune, tanto da perdersi le tracce, se vi è stato, del singolo autore, o iniziatore”48.
Una interessante prospettiva si ritrova anche in un altro autore 49, che considera il folklore una categoria comprensiva, che include anche l'insieme
delle conoscenze tradizionali, che si è visto essere comunemente ricomprese
nella categoria della Traditional Knowledge: “While the statutory illustrations
appear to exclude plant varieties grown by farmers, and plant extracts developed by local medicine men, those items certainly qualify as works of
folklore to the extent that these techniques embody scientific techniques
passed down through generations in the community. The knowledge they
embody is priceless and, once lost, cannot be recovered. Widespread abuses
in the exploitation of such types of traditional knowledge certainly justify
their inclusion in any protective legal regime”50.
L'ONU, che già attraverso l'UNESCO è impegnata, come si è rilevato, su
due diversi fronti (quello del copyright e quello della tutela del patrimonio
culturale immateriale), tramite la UNCTAD (United Nations Conference on
Trade and Developement) – di concerto con l'ICTSD (International Center for
Trade and Sustainable Developement) – ha avviato da alcuni anni un progetto denominato Project on Intellectual Property Rights and Sustainable Development che, negli ultimi dieci anni, ha incluso tra i suoi ambiti di intervento an48 Ivi, 100.
49 P. KURUK, Protecting Folklore Under Modern Intellectual Property Regimes: a Reappraisal
of the Tension Between Individual and Communal Rights in Africa and the United States , in
48 Am. U.L. Rev., 1999, 769 ss.;
50 Ivi, 779-780.
29
che quello del folklore e della Traditional Knowledge. Il progetto ha la funzione
di promuovere la ricerca sulle possibilità di utilizzo degli strumenti offerti
dai diritti di proprietà intellettuale per favorire uno sviluppo sostenibile, in
particolare per i Paesi del terzo mondo e per quelli in via di sviluppo. Non
sono stati elaborati atti formali, ma sono state finanziate ricerche e studi che
hanno condotto a numerose pubblicazioni51. In una di queste, dedicata proprio a folklore e TK, ci si propone di ricostruire l'intreccio delle concezioni legate a questi due concetti, ma nella sostanza, a parte una scarna distinzione 52,
nel saggio le due nozioni sono esaminate separatamente.
Quanto al folklore, accogliendo la definizione data da WIPO e UNESCO,
si afferma : “Folklore […] is tradition based, collectively held, is orally transmitted, and a source of cultural identity” 53. Si sostiene inoltre che la percezione del folklore da parte dell'Occidente è diversa da una tale concezione
“because traditional knowledge and art forms no longer constitute an integral part of most people’s lives, and may even be considered as archaic”.
Questa differente percezione può essere riscontrata “not only among people
in developed countries, but also among urban elites in developing
countries”. Per le popolazioni indigene (“indigenous peoples”), invece, “folklore is not a historical phenomenon, but, as UNESCO recognises, is living
and evolving, handed down from generation to generation orally rather than
in fixed form, and is an essential aspect of cultural identity”.
Emerge qui la considerazione dell'esistenza di più concezioni in conflitto:
una propria dell'Occidente, basata su una visione “distorta” del folklore, ed
una propria delle società primitive, che invece lo vivono come elemento fondante della loro esistenza. In una certa misura, si ritrova qui la teoria dei dislivelli di cultura54, che riemerge anche nella parte dedicata alla definizione
della Traditional Knowledge. Si tratta di uno spunto interessante, che tuttavia
51 Tra le tante pubblicazioni vi è una collana di saggi, Issue Papers, commissionati a
esperti ed accademici, ognuno dei quali si occupa di uno specifico argomento
attinente al progetto. Il primo di essi, firmato da Graham Dutfield e pubblicato nel
2003, è dedicato proprio a folklore e TK: v. G. DUTFIELD SENIOR, Protecting
Traditional Knowledge and Folklore, in Issue Papers, 2003, I.
52 Ivi, 20: “Traditional knowledge commonly refers to knowledge associated with the
environment rather than knowledge related to, for example, artworks, handicrafts
and other cultural works and expressions (which tend to be considered as elements
of folklore)”.
53 Ibid.
54 L'Occidente, in quanto parte ricca e sviluppata del Mondo, può essere inteso in senso
lato come classe egemonica al tempo della globalizzazione.
30
non viene sviluppato compiutamente: traspare un'idea semplicistica del fenomeno, nel senso che permane l'idea che il folklore sia riferibile solo a popolazioni indigene o comunque che vivono ai margini della società. Così come
quando, parlando della TK, si fa riferimento a suoi presunti “detentori”, che
vivono prevalentemente nelle aree rurali e in alcuni casi in quelle urbanizzate.
La considerazione della tensione tra classi sociali è presente anche in altra
parte della dottrina55, che sostiene l'esistenza, oggi, di due interpretazioni del
concetto di folklore, in conflitto tra di loro: per l'Occidente il folklore sarebbe
l'insieme delle espressioni artistiche della cultura di un popolo, tramandate
per generazioni, che dovrebbero essere preservate per non scomparire; per le
comunità a cui è riferibile “folklore is a living heritage that is an integral part
of their lives and whose character is necessarily evolutionary”. E' comunque
possibile individuare due caratteristiche comuni a entrambe le concezioni,
che sono individuate in “anonimity” e “traditional character”, alle quali occasionalmente si affianca “the oral mode of transmission”. Si è già affrontata la
questione della natura anonima del folklore che, per quanto prevalente, non
è necessariamente l'unica possibile. Emerge poi, qui, l'idea dell'oralità nella
trasmissione come elemento non essenziale del folklore, ma solo occasionale:
circostanza questa che trova effettivi riscontri presso molte culture, ma che
viene generalmente ignorata da testi normativi e dottrina giuridica. Dopo
aver esposto le ragioni per cui una nozione ampia del concetto di folklore risulta di difficile accoglimento, si afferma che ciò porta a propendere per una
nozione limitata alle sole espressioni artistiche: “it seems preferable to consider folklore only as being the expressions of traditional artistic creation;
otherwise, the system of protection would be rendered impractical” 56. Il folklore costituirebbe “a sub-totality of the cultural heritage of a nation”, ed in
particolare quella parte del patrimonio culturale caratterizzata dall'intervento creativo dell'uomo, “which excludes in particular natural sites, ethnological material or the products of archaeological excavations”. Prevalgono dunque le ragioni pratiche su quelle scientifiche, al fine di una determinazione
del concetto che sia funzionale ad una forma di tutela giuridica.
55 A. LUCAS-SCHLOETTER, Folklore, in AA. VV., Indigenous Heritage and Intellectual
Property, Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, a cura di S. Von
Lewinsky, Kluwer Law International, 2008, 339 ss.
56 Ivi, 349.
31
Concludendo, si nota come una piena consapevolezza della riflessione antropologica sul concetto di folklore sia rimasta fuori dal dibattito giuridico,
come se essa non rilevasse ai fini della comprensione del fenomeno. Ritengo
che, finché si proseguirà per questa via, non si potrà giungere ad una soluzione condivisa e condivisibile.
3. La questione dei cc.dd. “detentori”.
È frequente nel linguaggio giuridico il riferimento alle comunità (o in alcuni casi agli individui) da cui le espressioni culturali tradizionali – variamente
denominate – proverrebbero. In particolare, vengono sovente utilizzate
espressioni quali “holders”57 (detentori) e “bearers”58 (portatori), allo scopo
di individuare il soggetto, collettivo o individuale, da consultare ai fini dell'elaborazione di una strategia legislativa in materia di espressioni culturali
tradizionali o al quale una eventuale tutela debba riferirsi. Occorre interrogarsi se una tale terminologia abbia un fondamento scientifico e, in caso
negativo, se possa comunque avere una validità in campo giuridico.
Le “expectations of traditional knowledge holders” sono oggetto di uno
studio commissionato dalla WIPO all'inizio degli anni duemila 59. Tali “aspettative” vengono individuate per aree geografiche con lo scopo di fungere da
57 Cfr, tra gli altri, S.R. MUNZER, The Uneasy Case for Intellectual Property rights in
Traditional Knowledge, in Cardozo Arts & Entertainment Law Journal, 2009, 27, 37ss.; D.J.
GERVAIS, Spiritual but not Intellectual? The Protection of Sacred Intangible Traditional
Knowledge, in Cardozo Journal of International and Comparative Law, 2003, 11, 467 ss.; C.
OSI, Understanding Indigenous Dispute Resolution Processes and Western Alternative
Dispute Resolution: Cultivating Culturally Appropriate Methods in Lieu of Litigation, in
Cardozo Journal of Conflict Resolution, 10, 163ss.
58 V. ad esempio L.M. MORAN, Intellectual Property Law Protection for Traditional and
Sacred "Folklife Expressions" - Will Remedies Become Available to Cultural Authors and
Communities?, in University of Baltimore Intellectual Property Law Journal, 6, 1998, 99
ss.; F. FRANCIONI, Beyond State Sovereignty: the Protection of Cultural Heritage as a
Shared Interest of Humanity , in Michigan Journal of International Law, 25, 2004, 1209
ss.
59 Lo studio è reperibile su internet, diviso in due parti, ai seguenti indirizzi:
http://www.wipo.int/tk/en/tk/ffm/report/final/pdf/part1.pdf; http://www.wipo.int/tk/en/tk/ffm/report/final/pdf/part2.pdf. Esso si ricollega al percorso intrapreso dalla WIPO con l'istituzione – avvenuta nel 2000 – dell'Intergovernmental
Committee on Intellectual Property and Genetic Resources, Traditional Knowledge
and Folklore, con funzioni di raccordo tra gli Stati nell'elaborazione di strumenti di
tutela, nell'ambito della proprietà intellettuale, in materia di risorse genetiche e conoscenze tradizionali.
32
base per le future attività dell'organizzazione in materia di tutela delle conoscenze tradizionali e delle espressioni di folklore. Al significato di
“traditional knowledge holder” è dedicata una definizione piuttosto sintetica, secondo cui l'espressione è utilizzata “to refer to all persons who create,
originate, develop and practice traditional knowledge in a traditional setting
and context”. Il riferimento al contesto tradizionale, tuttavia, è del tutto vago:
manca, infatti, una qualunque definizione, che consentirebbe di meglio interpretare i risultati dello studio. Tanto più che, come si specifica, “[i]ndigenous
communities, peoples and nations are traditional knowledge holders, but not
all traditional knowledge holders are indigenous”. Anche, perciò, volendo
adottare una nozione restrittiva dell'aggettivo “indigeno”, nel senso di attribuirgli una specifica funzione di connotazione etnica e geografica, l'espresso
riconoscimento della circostanza per cui non tutti i detentori sono “indigeni”
porta ad un'estensione della definizione potenzialmente illimitata.
È possibile comprendere meglio tutto ciò se si esamina come il concetto di
comunità in senso antropologico sia mutato nel tempo. I fenomeni migratori,
già a partire dalla prima metà del novecento, avevano intaccato la validità
delle concezioni che tendevano a considerare i gruppi sociali (e le loro manifestazioni culturali) come mondi separati gli uni dagli altri, chiusi al contatto
con l'esterno e geograficamente localizzati. Lo spostamento di masse di individui verso altri Paesi o continenti aveva determinato una loro, talora
estrema, dispersione. Molti mantenevano il contatto con il Paese o la comunità di origine, altri vi facevano ritorno dopo qualche tempo. Questi aspetti
posero nuovi interrogativi, che non ricevevano risposte convincenti sotto le
vecchie concezioni. L'inattualità di queste ultime è divenuta ancora più evidente con lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie – internet in
particolare – che hanno consentito un contatto immediato e costante tra individui e culture che fino ad allora avevano avuto scarse occasioni di incontro.
Nuove comunità “delocalizzate” si sono formate, altre si sono riorganizzate
proprio sfruttando i nuovi mezzi di comunicazione, “al punto che alcune culture nazionali sembrano oggi avere i loro centri più attivi al di fuori dello
stato nazionale”60.
Risulta, pertanto, scientificamente inesatto delimitare una comunità con riferimento sia al profilo soggettivo che a quello geografico, tenuto anche
60 U. FABIETTI – R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale. Introduzione
all'antropologia, Milano, 2002, 100-101.
33
conto del fatto che i requisiti per essere riconosciuti membri di una comunità
variano da società a società. Come il concetto di cultura, quello di comunità
appare perciò – per quanto funzionale a esigenze espositive – vago e, soprattutto, variabile a seconda dell'elemento – condiviso dai soggetti considerati in
quanto membri appunto di una specifica comunità – considerato nella singola analisi. In altre parole, lo stesso soggetto può appartenere a distinte
comunità a seconda che lo si consideri, ad esempio, come seguace di una determinata religione, appartenente ad un determinato gruppo etnico,
esponente di una specifica espressione culturale 61. Proprio con riferimento a
quest'ultimo aspetto, va rilevata, sulla scorta di quanto detto, la fallacia di
quelle norme giuridiche che fanno coincidere la comunità dei detentori con la
comunità dei soggetti residenti in una determinata regione. Ciò per due ragioni: da un lato, come si è detto, una stessa espressione culturale può essere
praticata anche al di fuori dell'area di origine 62; da un altro lato, i soggetti che
“detengono” una determinata espressione culturale costituiscono di frequente un nucleo limitato, dal quale sono esclusi gli stessi appartenenti al gruppo
sociale di provenienza che non siano dotati di specifici requisiti63.
É comunque possibile rinvenire nel linguaggio normativo qualche segnale
di apertura verso una nozione di comunità più ampia. La convenzione UNESCO sulla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, non
fornendo una definizione di “comunità”, quantomeno non esclude questa
possibilità. Le Draft Provisions WIPO, nell'attuale versione, all'art. 5, nel definire i beneficiari della protezione, accanto alle “local communities”
menzionano delle non meglio specificate “cultural communities”. Ciò che,
61 Con riferimento a tutti gli aspetti accennati nel testo si veda, per una trattazione più
approfondita, v. RAPPORT, N., Community, in Routledge Encyclopedia of Social and
Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 142 ss. Cfr. anche U.
FABIETTI – R. MALIGHETTI – V. MATERA, op. cit., e AUGE', M. - COLLEYN, J.P.,
L'Antropologia del Mondo Contemporaneo, Milano, 2006 [2004];
62 Posto che si possa individuare l'area di origine di una determinata espressione culturale – operazione, peraltro, tutt'altro che semplice, considerato che anche le espressioni di origine più remota sono a loro volta frutto di influenze da parte di altre culture
– nell'epoca attuale accade di frequente che individui provenienti da una determinata
regione si stabiliscano in un'area geografica differente, portando con sé alcuni elementi della propria cultura di provenienza. Capita altrettanto spesso che espressioni
culturali, anche tradizionali, vengano praticate da soggetti non appartenenti alla comunità di riferimento dell'espressione medesima.
63 Ad esempio, i suonatori di un determinato strumento o i cantori in un particolare stile vocale non sono necessariamente – ed anzi non sono quasi mai – tutti gli abitanti di
una specifica area geografica.
34
tuttavia, ostacola nei fatti questo processo sono le dinamiche con cui le due
organizzazioni operano. In quanto organi di Stati, e perciò privi di una propria sovranità autonoma, hanno come unici interlocutori gli Stati stessi, ai
quali in ultima istanza spettano le scelte legislative in materia, comprese
quelle riguardanti l'individuazione dei soggetti e delle comunità. Questa circostanza non è priva di conseguenze: anzitutto, in sede consultiva verrebbero
sentiti soltanto soggetti positivamente riconosciuti come membri di una comunità sulla base di criteri in una certa misura arbitrari. In secondo luogo, in
sede di applicazione delle normative di tutela delle espressioni culturali tradizionali, i soggetti beneficiari della tutela finirebbero per essere solo alcuni
membri delle comunità, anche in questo caso selezionati arbitrariamente. Le
conseguenze maggiori si possono apprezzare proprio nella fase applicativa
della normativa. Si pensi ad esempio all'art. 4 delle Draft Provisions (che riprende una disposizione già presente nelle Model Provisions all'art. 3) il quale
prevede la necessità di autorizzazione per l'utilizzazione di espressioni culturali tradizionali che facciano riferimento a comunità presenti nel territorio
dello Stato. Già di per sé l'autorizzazione rischierebbe di essere discriminatoria, escludendo dalla consultazione membri della stessa comunità residenti
nel territorio di un altro Stato. Inoltre, una ulteriore discriminazione potrebbe
essere prodotta dal fatto che lo Stato, ai fini della concessione dell'autorizzazione, può attribuire tale compito alla stessa comunità interessata. La
determinazione dei criteri per l'individuazione dei soggetti appartenenti alla
comunità potrebbe essere rimessa alla stessa, ma anche allo Stato. In proposito, la previsione inserita nello stesso art. 5 secondo cui i criteri per
l'autorizzazione possono fare riferimento a norme non statali, ma consuetudinarie, potrebbe assicurare una minore arbitrarietà. Ma, come detto, si tratta
di scelte discrezionali, che non garantiscono una uguaglianza di trattamento
all'interno dei diversi Stati.
Infine, manca del tutto nei testi normativi esaminati la considerazione delle ipotesi, peraltro molto frequenti, in cui specifiche espressioni culturali –
appartenendo a rituali o cerimonie segrete o comunque non aperte a tutti i
membri della comunità – siano conosciute e praticate solo da soggetti appartenenti alla stessa titolari di un particolare status o incarico. È presente,
all'art. 3 delle Draft Provisions, un riferimento alle espressioni culturali segrete
e alla necessità che si adottino misure atte ad impedirne la pubblicizzazione,
35
ma si omette di specificare che in tali casi la potenziale “minaccia” proverrebbe non solo dall'esterno, ma da tutti i soggetti (compresi i membri della
comunità interessata) che non siano in possesso di determinati requisiti. Sarebbe opportuna, in tali casi, quantomeno una riformulazione della
definizione di “detentore” o “portatore”.
4. L'incerta definizione di musica di tradizione orale.
È opportuno a questo punto definire il concetto che sta alla base di questo
lavoro, quello di “musica di tradizione orale”.
Comunemente, nella musica come anche nel linguaggio, il concetto di oralità viene inteso in contrapposizione a quello di scrittura: tradizione orale
contro tradizione scritta, perciò, come due modalità alternative di trasmissione di informazioni. Gli studi più recenti in materia hanno tuttavia posto in
risalto numerosi aspetti cui non era stata dedicata in passato sufficiente attenzione.
Il primo di tali aspetti riguarda proprio il rapporto tra oralità e scrittura.
Anzitutto, nel campo del linguaggio, la comparsa della scrittura e la sua adozione da parte di un popolo non ha mai determinato una automatica
scomparsa dell'oralità, per il fatto che nella generalità dei casi la prima era
appannaggio delle classi sociali più elevate, che rappresentavano una percentuale minoritaria della popolazione. I due sistemi hanno continuato a
coesistere per lungo tempo, senza che il secondo venisse mai abbandonato
del tutto64. La scrittura musicale, inoltre, non compare né si sviluppa necessariamente in parallelo con l'altro tipo di scrittura. Vi sono infatti esempi di
società che conoscono quest'ultima, ma utilizzano per la musica un sistema
di trasmissione orale. Si è anche ipotizzato in dottrina che il rapporto tra oralità e scrittura – musicale nello specifico – sia correlato al grado di
professionalizzazione della pratica musicale nelle diverse società, e che tale
professionalizzazione sia a sua volta collegata con la complessità dell'organizzazione sociale65.
64 V. J. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, in Enciclopedia della Musica Einaudi V/2005,
367 ss.; v. anche P. SHEHAN CAMPBELL, Orality, Literacy and Music's Creative
Potential: A Comparative Approach, in Bulletin of the Council for Research in Music
Education, 101, 1989, 30 ss.;
65 Cfr. J. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, op. cit.
36
Rimanendo nel campo della musica, è fondamentale notare come la scrittura, quando esista, investe solo una parte delle informazioni trasmissibili.
Ciò vale anche per il sistema di notazione “classico”, quello attualmente più
diffuso. L'idea della partitura come sede di tutti i dati necessari all'esecutore,
da riprodurre fedelmente (con la sola variabile dell'interpretazione) nasce nel
corso del romanticismo, e condiziona la produzione musicale successiva. La
concezione romantica della composizione come momento creativo in cui si
manifestava la genialità individuale dell'autore, richiedeva come indispensabile corollario la fissazione “esatta” in forma scritta del risultato della
creazione, che è stato in seguito fatto oggetto di un ossequio quasi religioso.
Ma è stato in particolare l'insegnamento accademico dei secoli successivi che
ha teso a cristallizzare il contenuto delle partiture, omettendo di considerare
il ruolo che l'estemporaneità giocava anche per i musicisti romantici, presso i
quali l'improvvisazione era una pratica tutt'altro che desueta. È perciò fuorviante considerare oralità e scrittura come due processi separati. Ciò che
emerge è invece una loro forte compenetrazione, anche nella cosiddetta “musica colta” europea del XIX secolo.
I meccanismi della trasmissione orale sono piuttosto complessi e differiscono da società a società, da un'espressione musicale ad un'altra, essendo
legati anche alle modalità di produzione musicale, agli strumenti utilizzati e
a numerose altre variabili. Sono state tuttavia individuate alcune costanti. La
più importante di esse è che l'oralità non è mai solo oralità. Si è parlato in
proposito di “auralità”, per significare un processo che implica non solo l'apprendimento da una fonte esterna (il maestro insegna all'allievo cosa fare) ma
anzitutto – talvolta soprattutto – tramite l'osservazione, l'ascolto e l'imitazione66.
Malgrado l'opinione comune, che associa la tradizione orale alla antichità
66 Si è osservato in dottrina che, a seguito dello sviluppo di nuove tecnologie che hanno
consentito la registrazione, quindi la fissazione di una specifica performance per un
tempo indefinito, si è affiancata a questo un diverso tipo di auralità – definita
“tecnica”: “[la musica si può apprendere ascoltando le registrazioni degli artisti
preferiti e cercando di imitarli: non è necessario il passaggio attraverso la scrittura e
ci si avvicina in questo modo alle condizioni dell'oralità tradizionale. Non vi è
certamente più quell'antico rapporto tra maestro e allievo, bensì un legame inedito,
nel quale avviene effettivamente qualcosa. Non si parlerà quindi di tradizione orale,
poiché l'allievo non ascolta più direttamente il maestro che gli parla, bensì di
tradizione puramente aurale, e tale auralità è di natura tecnica” (J. MOLINO, Che cos'è
l'oralità musicale, op. cit., 405).
37
dell'espressione trasmessa, presso numerose culture la composizione individuale assume un ruolo centrale, e vengono costantemente creati nuovi canti
o musiche, il cui autore è noto e talvolta questi esercita professionalmente all'interno della comunità proprio l'incarico di musicista/compositore 67. Quello
che rende queste ipotesi peculiari rispetto alla musica “scritta”, prima ancora
dell'assenza di una partitura su carta, è la variabilità ad esse connaturata:
l'apporto creativo iniziale assume un valore equivalente a quello delle successive modifiche, al punto che in alcuni casi lo stesso compositore giunge a
definire sé stesso come “strumento” della comunità, e le musiche da lui composte come espressione della stessa.
Ciò che pare essere il discrimine tra musica scritta e musica di tradizione
orale è un differente rapporto gerarchico tra testo ed esecutore, ed in particolare un differente grado di variabilità. Nella prima la variazione investe
l'aspetto interpretativo, mentre nella seconda “[l]a variazione è [...] presente a
tutti i livelli d'organizzazione della musica, dalle unità di base ai motivi, alle
sequenze e alle opere”68. Secondo uno schema comune alle espressioni musicali orali, la variazione non interessa mai tutti gli aspetti dell'opera o della
musica eseguita, ma invece “[l]a variabilità di un livello è compensata dalla
fissità di un altro69”.
In proposito sono però opportune alcune puntualizzazioni: le considerazioni svolte si possono applicare agevolmente alla musica c.d. “classica” fino
alla prima metà del '900, più precisamente alle modalità di esecuzione di tale
musica attualmente insegnate in conservatori e accademie musicali 70. Sono
invece difficilmente adattabili a differenti tipi di musica, pure basati sull'esistenza di una partitura scritta, sviluppatisi a partire dalla prima metà del
67 Si veda ad esempio BLACKING, J., Challenging the Myth of 'Ethnic' Music: First
Performances of a New Song in an African Oral Tradition, 1961, in Yearbook for Traditional
Music, 21, 1989,17 ss., in cui sono esaminate le dinamiche di creazione e sviluppo di
nuovi canti in diverse tradizioni africane.
68 J. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, op. cit., 377.
69 Ibid, 379; si veda anche in proposito B.H. BRONSON, Melodic Stability in Oral
Transmission, in Journal of the International Folk Music Council, 3, 1951, 50 ss.
70 Come detto poco sopra, anche presso i compositori classici e gli esecutori, fino al XIX
secolo, la pratica dell'improvvisazione era piuttosto comune, tanto da essere alla base
di uno stile compositivo, quello dell'improvviso. Tra gli interpreti tale pratica tese a
scomparire all'inizio del XX secolo: il pianista F. Busoni affermava, non a torto, di
essere l'ultimo improvvisatore sulle partiture di J.S. Bach. Attualmente lo studio
dell'improvvisazione è stato espunto dai programmi dei corsi tradizionali dei
Conservatori, fatta salva l'eccezione dello studio della improvvisazione organistica
nelle scuole di organo.
38
ventesimo secolo71. Si potrebbe allora affermare che la differenza risiede in
un differente rapporto tra originale e sue modifiche: mentre nella musica orale ogni modifica ha pari valore rispetto all'originale – tanto che ogni nuovo
apporto si stratifica sui precedenti – nella musica scritta la partitura funge da
modello fisso di riferimento per ogni successiva modifica 72. Si potrebbe d'altra parte obbiettare che si tratti di differenze di grado, non di genere, non
idonee a tracciare una linea netta di demarcazione tra i due sistemi 73. Malgrado ciò, la categoria della musica di tradizione orale continua ad avere una
sua fondatezza scientifica, e presenta caratteristiche sufficientemente precise
da consentirne una trattazione autonoma74.
Gli elementi esaminati portano a distinguere inoltre la musica di tradizione orale da altre categorie che presentano alcune affinità con essa, ma che
non le sono interamente assimilabili:
71 Si pensi al jazz, dove la variazione investe non più il solo aspetto interpretativo, ma
pure l'armonia, la melodia, la struttura e l'arrangiamento; oppure alla musica
contemporanea, dove spesso la partitura contiene indicazioni di massima riferite ad
elementi musicali non trascrivibili con la notazione convenzionale, in relazione ai
quali l'esecutore ha un grado di autonomia esecutiva più o meno elevato. Si veda su
tali profili O.B. AREWA, From J.C. Bach to Hip Hop: musical borrowing, copyright and
cultural context, in North Carolina Law Review, 84, 547 ss., che analizza la questione con
particolare riferimento al genere musicale del rap.
72 Anche questo non è però sempre vero. Si può affermare che non sia il genere
musicale a influenzare le modalità di trasmissione, scritta o orale, ma l'esatto
contrario.
73 È proprio appellandosi a ciò che parte della comunità etnomusicologica sostiene
l'opportunità di una riforma della disciplina del diritto d'autore, nel senso
dell'attribuzione di un maggior valore alla performance, a scapito della partitura.
Nella dottrina giuridica O.B. AREWA, From J.C. Bach to Hip Hop, op. cit, evidenzia
l'anacronismo dell'attuale sistema di tutela del diritto d'autore, e ne auspica una
rinnovazione.
74 P. Shehan Campbell, ad esempio, sostiene che la differenza tra i due sistemi sia
“marcata”, in ragione proprio del differente rapporto tra esecutore e musica eseguita:
“When orality is operationally defined as the transmission of music through the
aural/oral mode, this definition does not always imply precise imitation of the
transmitter by the receiver. Rather, the absence of notation releases the performer
from strict adherence to every detail of performance. Freedom from reading notation
eases restrictions in performance and allows for greater creative expression through
improvisation. Notational literacy, as it is currently defined in the west, accepts little
variation from one musician to the next. The contrast with orality, where the
expectations range from imitative performance to highly individual interpretations
within a framework, is marked” (P. SHEHAN CAMPBELL, Orality, Literacy and
Music's Creative Potential, op. cit, 32).
39
a) Musica di tradizione orale e musica di creazione estemporanea.
La categoria della musica di tradizione orale va anzitutto distinta dalla
musica improvvisata, sia con riferimento all'improvvisazione radicale che a
quella basata su schemi ritmici, melodici o armonici prefissati. Beninteso, la
differenza risiede nel fatto che l'improvvisazione, basandosi su una sorta di
composizione estemporanea, non può per definizione presupporre una tradizione. Tuttavia, sono numerose le musiche di tradizione orale che prevedono
la pratica dell'improvvisazione. In questo caso, si parlerà di tradizione orale
con riguardo agli schemi improvvisativi, non all'improvvisazione in sé;
b) Musica di tradizione orale e composizioni ispirate a musiche di tradizione orale.
Non rientrano poi nella categoria della musica di tradizione orale le composizioni ispirate a musiche trasmesse oralmente. In quest'ultimo caso,
infatti, malgrado la base compositiva sia fornita da una musica non scritta,
l'apporto creativo di uno o più autori determinati e l'originalità dell'opera
(ove sussista e sia verificata) ne consentono la tutela tramite i comuni strumenti di protezione del diritto d'autore e, in particolare, per quelli riservati
alle variazioni musicali costituenti di per sé opera originale (ex art. 2, comma
1 n. 2 l. aut.)
Infine, per indicare la musica di tradizione orale, si utilizza spesso l'espressione “musica tradizionale”. In dottrina si è sostenuto che una tale
terminologia sarebbe impropria in quanto ciò che può essere definito tradizionale, tutt'al più, è il modo di trasmissione, non la musica in sé 75. Quanto al
concetto di tradizione, inoltre, la stessa dottrina ha evidenziato come si cada
di frequente nell'errore di intendere tale processo come una perpetuazione
immutata dal passato di una forma espressiva (nel nostro caso, di una
espressione musicale). Al contrario, “une tradition se (re)construit chaque
jour; elle est donc fondamentalement active et, productrice de sens, elle mobilise ses acteurs. Elle est donc tout sauf un phénomène naturel et se présente
comme une configuration changeante, suscitant des conduites parfois hésitantes et des comportements fragiles”76.
75 V. LORTAT-JACOB, B., Musiques du monde: le point de vue d'un ethnomusicologue,
(URL http://www.sibetrans.com/trans/trans5/lortat.htm).
76 Ibid.
40
CAPITOLO II
ESPRESSIONI MUSICALI DI TRADIZIONE ORALE E PROSPETTIVE
DI PROTEZIONE
1. La questione della applicabilità della legislazione sul diritto d'autore.
Nel tentare di rispondere al quesito se e in quali termini la musica di tradizione orale possa ricevere una tutela nell'ambito dell'attuale disciplina del
diritto d'autore è necessario affrontare alcune questioni preliminari 77.
La prima questione da esaminare riguarda l'oggetto della tutela. Partendo
dalla “Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche”78 (di seguito CUB) ai sensi dell'art. 2, comma 1, rientrano nell'ambito di
applicazione della Convenzione medesima “le composizioni musicali con o
senza parole” e “le opere drammatico-musicali”. L'art. 2, n 2) l. aut., che riprende la nozione della CUB, aggiunge al novero delle opere protette “le
variazioni musicali costituenti di per sé opera originale”.
77 Si farà riferimento, a tal fine, ai principi espressi nella “Convenzione di Berna per la
protezione delle opere letterarie e artistiche”, e per quanto concerne la normativa di
dettaglio alla legislazione italiana – come esempio di ordinamento di civil law - e a
quella degli Stati Uniti, in quanto ordinamento di common law. La legge fondamentale
in materia di diritto d'autore in Italia è la legge 633/1941, di seguito denominata “l.
aut.”); negli Stati Uniti la materia è disciplinata in particolare dal “Copyright Act” del
1976. Negli ordinamenti di common law, tendenzialmente, le opere letterarie,
artistiche, musicali e le altre opere creative in genere sono tutelate secondo un
sistema parzialmente diverso da quello del diritto d'autore, tipico degli ordinamenti
di civil law. Tale sistema prende il nome di copyright, e si caratterizza per una minore
ampiezza rispetto al diritto d'autore. Essendo stato ideato per scopi prevalentemente
commerciali, esso – come appare dallo stesso nome – ha ad oggetto essenzialmente il
diritto di copiare e riprodurre l'opera, ed ha come destinatari privilegiati non tanto
gli autori, quanto gli editori e gli altri soggetti che svolgono professionalmente
attività di pubblicazione e diffusione delle opere creative. Per queste ragioni, il
copyright non contempla l'esistenza di diritti morali che – come invece avviene nei
sistemi di civil law – permangono in capo all'autore indipendentemente dalla cessione
dei diritti di utilizzazione economica dell'opera ed hanno una durata illimitata.
78 La Convenzione di Berna è stata conclusa nella capitale elvetica nel 1886. L'Italia vi
ha aderito nel 1978, con la legge di ratifica n. 399/1978, che recepisce il testo della
Convenzione risultante dalla revisione introdotta dall'Atto di Parigi del 1971, mentre
non è stata recepita l'ultima revisione, risalente al 1979. Gli Stati Uniti hanno aderito
nel 1989, dopo aver opposto a lungo il loro rifiuto. Proprio a seguito di tale rifiuto, e
di quello dell'Unione Sovietica, fu stipulata a Ginevra nel 1952 la Convenzione
Universale del Diritto d'Autore. Attualmente, dopo il crollo dell'Unione Sovietica e la
ratifica da parte degli Stati Uniti della Convenzione di Berna, la Convenzione di
Ginevra resta solo formalmente in vigore, ma è priva di efficacia pratica.
41
L'art. 2, comma 2 CUB rimette agli Stati la scelta se tutelare solo le opere
“fissate su un supporto materiale” o meno. Dall'analisi della legislazione statunitense (art. 102 Copyright Act) – come pure si rileva tendenzialmente
negli altri ordinamenti di common law – emerge che essa ha optato per la prima soluzione, mentre per la disciplina italiana del diritto d'autore, citata
come esempio di ordinamento di civil law, questa facoltà è stata esercitata
solo con riferimento alle opere coreografiche e pantomimiche (art. 2, n. 3, l.
aut.). Le opere letterarie e artistiche sono invece espressamente protette “tanto se in forma scritta quanto se orale”. In assenza di espressa previsione in
senso contrario, questa soluzione deve ritenersi tacitamente operante anche
con riferimento alle altre opere tutelabili ai sensi della l. aut., comprese quelle
musicali. Ma, come si è rilevato in dottrina, “perché un'opera venga ad esistenza, non basta sia concepita nella mente dell'autore, occorre anche sia
estrinsecata o con la fissazione su un supporto materiale […], o con la comunicazione (orale) ad altra persona”79.
Passando dal piano dell'oggetto della tutela a quello dei soggetti, diversi
dati normativi depongono nel senso di precludere la protezione a quelle
espressioni musicali che si fondano su una tradizione orale 80. Il primo di tali
dati è costituito dalla necessità che l'opera sia riferibile ad uno o più autori
determinati, ai quali imputare i diritti morali e patrimoniali derivanti dalla titolarità dell'opera stessa81. Ai sensi della l. aut. l'autore ha, ad esempio, il
diritto esclusivo – salva la facoltà di cessione ad un terzo – di pubblicare l'opera e di utilizzarla economicamente (art. 12), di eseguirla o rappresentarla
in pubblico82 (art. 15), di modificare, elaborare e trasformare l'opera (art. 18).
È agevole notare come questa previsione si scontri con le dinamiche di pro79 AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, III, Torino, 2009, 563.
80 Si veda in proposito M. TORSEN, Reflections on Intellectual Property, Traditional
Knowledge and Cultural Expressions: Intellectual Property and Traditional Cultural
Expressions: a Synopsis of Current Issues, in Intercultural Human Rights Law Review, 3,
2008, 199 ss., che si occupa delle cosiddette “Traditional Cultural Expressions”,
categoria all'interno della quale rientra a buon diritto anche la musica di tradizione
orale; v. anche P. KURUK, Protecting Folklore Under Modern Intellectual Property
Regimes: a Reappraisal of the Tension Between Individual and Communal Rights in Africa
and the United States, in 48 Am. U.L. Rev., 1999, 769 ss, spec. 791 ss.
81 L'art. 9 l. aut. riconosce all'autore la facoltà di restare anonimo o di utilizzare uno
pseudonimo.
82 Ai sensi dell'art. 15, comma 2 l. aut. “Non è considerata pubblica la esecuzione,
rappresentazione o recitazione dell'opera entro la cerchia ordinaria della famiglia, del
convitto, della scuola o dell'istituto di ricovero, purché non effettuata a scopo di
lucro”.
42
duzione della musica di tradizione precedentemente esaminate 83. La stratificazione di più interventi creativi e la variabilità connaturata all'oralità, infatti,
non permettono di qualificare l'opera orale nemmeno come opera collettiva
in senso proprio84. Ciò anche nelle ipotesi in cui siano identificabili uno o più
autori85, il cui apporto creativo non fissa comunque l'opera in una forma cristallizzata. In questi casi esecuzione e composizione si confondono a tal
punto che ogni nuova esecuzione costituisce anche una nuova creazione.
L'autore è anche il soggetto legittimato all'esercizio dei diritti morali 86 derivanti dalla titolarità dell'opera. Tali diritti vengono ascritti alla categoria
costituzionalmente tutelata dei diritti della personalità 87, come tali intrasferibili ed irrinunciabili dall'autore. Alla morte di quest'ultimo, tali diritti
possono essere esercitati, senza limiti di tempo, dai prossimi congiunti (art.
23 l. aut). In alcuni casi, in presenza di specifiche esigenze derivanti da finalità pubbliche, l'azione a tutela dei diritti morali può essere esercitata anche
dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Pertanto, come è stato rilevato in
dottrina, “nella ipotesi di opere anonime, quali possiamo intendere anche le
opere folkloriche, ove si concretizzi una violazione meritevole di tutela come
lesione del diritto morale d'autore, di fatto essa sarebbe inattuabile per difetto di legittimati”88.
In secondo luogo, sono previsti limiti di durata per i diritti patrimoniali
spettanti all'autore, che decadono dopo settant'anni dalla morte dello stesso o
83 V. supra, Cap. I, par. 2.
84 In dottrina si è parlato in proposito di “opera dell'ingegno collettivo” (F. DE
PROPRIS, La tutela delle opere folkloriche, in EM, 2003, I, 97 ss.).
85 Si veda in proposito J. BLACKING, Challenging the Myth of 'Ethnic' Music: First
Performances of a New Song in an African Oral Tradition, 1961, in Yearbook for Traditional
Music, 21, 1989,17 ss.
86 Secondo la tradizionale ricostruzione, il diritto d'autore è un diritto bipartito: da un
lato vi è il diritto patrimoniale – liberamente trasferibile dall'autore a terzi – dall'altra
il diritto morale, comprendente, ai sensi dell'art. 20, comma 1 l. aut. (che riprende
quanto disposto dall'art. 6-bis CUB), “il diritto di rivendicare la paternità dell'opera e
di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni
atto a danno dell'opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla
sua reputazione”. L'autore non può rinunciare ai diritti morali derivanti dalla
titolarità di un'opera da egli creata, né può trasferirli a terzi, anche quando abbia
trasferito i diritti di utilizzazione economica. Il diritto morale è una peculiarità degli
ordinamenti di civil law, data la difficoltà nei sistemi di common law (che configurano
il diritto d'autore in termini di copyright) a concepire l'esistenza del diritto di
rivendicare la paternità di un'opera scollegato dalla titolarità dei diritti patrimoniali.
87 Cfr. P. RESCIGNO, Personalità (diritti della), in Enciclopedia giuridica, XXIV/1991.
88 F. DE PROPRIS, op. cit, 114.
43
dalla data di prima pubblicazione89, decorsi i quali l'opera cade in pubblico
dominio. Nella maggioranza dei casi è impossibile individuare il momento
esatto in cui un'opera trasmessa oralmente è venuta ad esistenza, e si tratta
sovente di espressioni musicali la cui genesi è piuttosto remota. Di conseguenza, se anche in ipotesi fosse astrattamente applicabile la disciplina del
diritto d'autore, non lo sarebbe in concreto nella generalità dei casi.
Per quanto attiene al profilo del contenuto dell'opera tutelabile, anche il
requisito della originalità – richiamato dalla l. aut. ed espressamente richiesto
dal Copyright Act come caratteristica essenziale di un'opera che ambisca alla
protezione – appare difficilmente adattabile alla musica di tradizione orale,
per ragioni analoghe a quelle espresse 90 con riguardo in particolare ai meccanismi di trasmissione e fruizione di tale musica. Fenomeni come l'imitazione,
la rielaborazione e l'utilizzo in varie forme di elementi melodici, armonici o
ritmici preesistenti, che nell'ambito dell'attuale sistema costituirebbero violazioni (quantomeno in assenza di autorizzazione da parte dell'autore) sono
invece connaturati al concetto di oralità, ed è proprio tramite essi che un'espressione musicale orale manifesta la sua vitalità.
Il requisito della fissazione su un supporto materiale (non richiesto nel nostro ordinamento, ma richiesto invece in quello statunitense, dove è
funzionale al claim of copyright) pone in risalto anch'esso l'inadeguatezza della
disciplina del copyright rispetto allo scopo della protezione della musica di
tradizione orale. Se da un lato è vero che per “supporto materiale” non si intende necessariamente una partitura cartacea – ben potendo rientrare nella
nozione anche una registrazione fonografica – va d'altro canto rilevato che il
concetto di fissazione è antitetico rispetto a quello di variazione. La protezione del risultato di una singola esecuzione, cristallizzato ad esempio in un
disco, risulterebbe perciò non solo insoddisfacente, ma addirittura contraddittoria rispetto agli obbiettivi prospettati. Si aggiunga che gli ordinamenti
89 Per le opere anonime, pseudonime e collettive la durata dei diritti patrimoniali è di
settant'anni dalla data di prima pubblicazione. L'attuale termine di settant'anni (per
tutte le opere) è stato introdotto in Italia dalla legge 6 febbraio 1996, n. 52, di
attuazione della direttiva 93/83/CEE. Prima dell'entrata in vigore di tale legge il
termine di durata era di cinquant'anni, a seconda dei casi dalla morte dell'autore o
dalla prima pubblicazione (art. 7, comma 1 CUB e artt. 25 ss. l. aut.). Negli Stati Uniti,
come in Italia, la protezione è assicurata per settant'anni dalla morte dell'autore,
mentre nel caso di opere collettive tale termine decorre dalla morte dell'ultimo
coautore sopravvissuto.
90 V. supra, Cap. I. par. 2.
44
ispirati alla CUB accordano tutela alle sole espressioni artistiche (musicali per
quanto interessa il presente lavoro) pubbliche, ossia quelle che siano offerte
“alla conoscenza di un pubblico indifferenziato”91. Vengono in rilievo in proposito quelle espressioni che – in ragione della loro funzione all'interno della
comunità di riferimento – non possano essere rivelate 92, quali ad esempio
quelle relative a rituali praticati in segreto. Sarebbe evidentemente inaccettabile esigere la loro rivelazione per assoggettarle a tutela.
Ciò che, tuttavia, appare dirimente, con riferimento ai modelli occidentali
di tutela del diritto d'autore – con ciò riferendosi ai modelli tanto di civil law
quanto di common law – è la considerazione del sistema nel suo complesso.
L'elemento sul quale tale sistema si fonda è l'opera, o più precisamente una
specifica nozione di “opera” intesa come “oggetto di arte plastica considerato
nella sua singolarità”93, frutto della genialità individuale dell'autore. Posto
che una tale impostazione non è pacifica in dottrina – dove si è più volte sottolineato come non sia concepibile nei fatti una nozione di originalità in
termini assoluti94 – il sistema in parola omette invece di prendere in considerazione l'esistenza di un vastissimo campo occupato da fenomeni musicali
che non rientrano in tale nozione, e che per questa ragione non trovano una
tutela soddisfacente sotto l'attuale disciplina95. La musica di tradizione orale
è solo uno di tali fenomeni, senza dubbio uno di quelli che pongono i quesiti
di più difficile soluzione, dato il rilievo che in materia assumono questioni
non strettamente correlate al campo della proprietà intellettuale, quali ad
esempio l'esigenza di garantire il rispetto del sentimento religioso di comunità e gruppi sociali, e di conseguenza quella di garantire una tutela effettiva,
non semplicemente formale. In proposito, tornando sulla nozione di opera
91 F. DE PROPRIS, op cit, 110.
92 Cfr. M. TORSEN, Reflections on Intellectual Property, Traditional Knowledge and Cultural
Expressions: Intellectual Property and Traditional Cultural Expressions: a Synopsis of
Current Issues, in Intercultural Human Rights Law Review, 3, 2008, 199 ss., che pone una
questione analoga con riferimento al pubblico dominio.
93 Così L. MOLINO, Che cos'è l'oralità musicale, in Enciclopedia della Musica Einaudi
V/2005, 378, che contrasta tale concezione.
94 Si vedano su tali profili e per un'analisi storica delle ragioni che hanno ispirato
l'attuale sistema occidentale di tutela del copyright: M. CARPENTER, Intellectual
Property Law and Indigenous Peoples: Adapting Copyright Law to the Needs of a Global
Community, in Yale Human Rights & Development Law Journal, 7, 2004, 51 ss; O. B.
AREWA, From J.C. Bach to Hip Hop: musical borrowing, copyright and cultural context, in
North Carolina Law Review, 84, 2006, 547 ss.
95 Si veda in proposito O. B. AREWA, op. cit.
45
sopra ricordata, va rilevato come essa sia senz'altro inadeguata con riferimento alla musica orale, per i motivi in precedenza esposti. Nella dottrina
etnomusicologica si è discusso sulla possibilità di concepire un'opera orale 96,
con risposte tendenzialmente positive. Ma si è visto che il riconoscimento
dell'esistenza di categorie di opere non coincidenti con quella presa a riferimento dalla maggioranza delle legislazioni, porta inevitabilmente a
concludere per l'inapplicabilità di queste ultime a tali categorie, pena una forzatura del dettato normativo.
1.1. Modelli innovativi di gestione dei diritti.
È opportuno in conclusione un cenno ad alcuni meccanismi di circolazione
delle opere dell'ingegno che hanno recentemente avuto particolare sviluppo,
e che possono incidere sulle vicende che riguardano le espressioni musicali
tradizionali. La diffusione delle nuove tecnologie, infatti, consentendo scambi di informazioni in maniera sempre più rapida su scala mondiale, ha fatto
emergere con prepotenza la scarsa flessibilità degli attuali sistemi di tutela
del diritto d'autore (o del copyright). In particolare, gli organismi che svolgono professionalmente l'attività di intermediazione nella gestione dei diritti
d'autore su mandato degli autori stessi impongono generalmente a questi ultimi la riserva di tutti i diritti (di utilizzazione economica) 97. Da più parti si è
sostenuto che un tale meccanismo rappresenterebbe un iniquo contempera96 Si veda in proposito J. MOLINO, op. cit, il quale afferma: “Ciò che conferma
l'esistenza di opere orali è che le differenti versioni da noi considerate come realtà
musicali diverse corrispondono, per coloro che appartengono alla cultura interessata,
a una sola e unica unità. […] Dal punto di vista logico, la nozione di opera si basa
sull'esistenza di un criterio d'identità, e gli appartenenti a una cultura orale
possiedono proprio un criterio d'identità 'emico': la variazione esiste e ha senso solo
in rapporto a costanti di cui essa rappresenta il rovescio”.
97 In Italia, l'art. 180 l. aut. attribuisce alla SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) –
ente pubblico economico – la competenza a svolgere attività di intermediazione nella
gestione dei diritti d'autore in via esclusiva. L'autore che non intenda provvedere da
sé alla gestione dei propri diritti (operazione peraltro piuttosto ardua) è tenuto ad
associarsi alla SIAE. Una volta associato, inoltre, è implicitamente vincolato al
deposito di tutte le opere future, sulla base della disposizione di cui all'art. 3 del
Regolamento SIAE, secondo cui “l'iscritto ha l'obbligo di dichiarare tempestivamente
tutte le opere destinate alla pubblica utilizzazione sulle quali abbia od acquisti
diritti”. Nella maggior parte degli altri ordinamenti europei ed in quelli anglosassoni
le società di intermediazione non operano in regime di esclusiva, quindi si attua una
maggiore concorrenza, con una – in alcuni casi notevole – riduzione dei costi
derivanti all'autore dal rapporto di affiliazione.
46
mento tra l'interesse dell'autore a percepire un compenso per l'utilizzo delle
proprie opere (e a che queste non vengano modificate senza il suo consenso),
da un lato, e quello della collettività alla libera fruizione della cultura, dall'altro, bloccando in molti casi processi creativi che includano l'utilizzo a vario
titolo di opere (o parti di esse) create da altri. Per queste ragioni numerosi organismi privati senza fini di lucro hanno elaborato differenti modelli di
licenze, attraverso cui l'autore può decidere quali diritti di utilizzazione della
propria opera riservare, e in relazione a quali scopi. Tra le licenze più flessibili vi sono quelle “Creative Commons” che, ferma l'attribuzione all'autore
della paternità della propria opera, possono articolarsi in modo più o meno
restrittivo nei confronti dei terzi utilizzatori98. Vengono in rilievo in particolare due tipi di licenze – “Attribuzione-Non Commerciale-Condividi allo stesso
modo” e “Attribuzione-Condividi allo stesso modo”, attraverso le quali l'autore autorizza a priori qualunque modificazione dell'opera (nel primo caso
solo per scopi non commerciali, nel secondo anche per scopi commerciali), a
condizione che ne venga riconosciuta la paternità (nei modi indicati dall'autore stesso, che facciano intendere con chiarezza che la modifica non è stata
anche da lui approvata) e che le successive elaborazioni vengano dai rispettivi autori licenziate con lo stesso tipo di licenza.
Si potrebbe giungere a ritenere che tali licenze, consentendo la libera modificabilità dell'opera originaria ed avendo un regime di fruizione dotato di
un grado di libertà piuttosto elevato, possano – magari con alcuni adattamenti – essere estese alle opere orali, che riceverebbero in questo modo una
tutela dotata di una veste giuridica più confacente alle loro peculiarità. Senonché anche in questo caso alcuni dati conducono a negare questa
possibilità. Anzitutto, è da rilevare che la natura della licenza è quella di una
dichiarazione, di provenienza dell'autore, con la quale questi si impegna a
non esercitare alcuni specifici diritti di utilizzazione economica relativi ad
una determinata sua opera, nei confronti di tutti i futuri possibili fruitori. Ma
tale dichiarazione non incide in nessun modo sulla disciplina di legge, che
pertanto continua ad applicarsi anche alle opere licenziate. Da ciò consegue
98 Le licenze Creative Commons attualmente previste sono le seguenti: Attribuzione
Attribuzione - Non opere derivate; Attribuzione - Non commerciale - Non opere
derivate; Attribuzione - Non commerciale; Attribuzione - Non commerciale Condividi allo stesso modo; Attribuzione - Condividi allo stesso modo. È possibile
reperire informazioni dettagliate su tutti i tipi di licenza alla pagina internet:
http://www.creativecommons.it/Licenze.
47
la persistenza di tutte le riserve espresse sopra in relazione a tale disciplina.
Anche la struttura delle licenze Creative Commons, inoltre, prevede la riconducibilità dell'opera – e di ogni singola sua elaborazione o esecuzione – ad
un autore determinato. Ogni licenza poi ha ad oggetto una singola opera e
non è pertanto suscettibile di applicazione generalizzata. Non verrebbero
pertanto eliminati i problemi concernenti l'individuazione del soggetto legittimato ad esercitare i diritti derivanti dall'opera – o a rinunciarvi, dato che
anche per la rinuncia occorre la medesima legittimazione – e quelli relativi
alla libera fruizione della stessa, in particolare nelle ipotesi in cui questa sia
soggetta nell'ambito della comunità di riferimento ad uno specifico regime di
segretezza nei confronti dei non appartenenti alla comunità o nei confronti di
tutti i soggetti privi di determinati requisiti.
2. Protezione degli artisti, interpreti ed esecutori e altri diritti connessi.
L'inapplicabilità dei diritti d'autore alla musica di tradizione orale, data –
come si è visto – l'impossibilità di individuare un autore a cui riferirli, salve
le ipotesi di variazioni originali, non osta tuttavia all'applicazione dei cosiddetti “diritti connessi”99. Si tratta di una serie di diritti di varia natura e
contenuto, accomunati dalla circostanza di essere collegati all'utilizzazione di
un'opera e di essere riferiti a soggetti diversi dall'autore che utilizzino l'opera
a vario titolo. Tra essi, quelli che qui maggiormente interessano sono quelli
relativi agli artisti interpreti o esecutori e ai produttori di fonogrammi, disciplinati dalla Convenzione di Roma100 del 1961, e nell'ordinamento italiano
anche dal Titolo II l. aut., così come risultante dalle modifiche introdotte a seguito del recepimento di alcune direttive dell'Unione Europea, con lo scopo
di perseguire una progressiva armonizzazione delle legislazioni degli Stati
membri.
Sulla base di tali diritti sono attribuite ai soggetti indicati specifiche facoltà, che richiamano la struttura dei diritti, sia patrimoniali che morali,
99 Cfr. F. DE PROPRIS, op.cit.
100Il riferimento è alla “Convenzione Internazionale sulla Protezione degli Artisti Interpreti o Esecutori, dei Produttori di Fonogrammi e degli Organismi di Radiodiffusione”, conclusa a Roma il 26 ottobre 1961.
48
spettanti all'autore101. In particolare, il produttore di fonogrammi102 ha il diritto esclusivo di autorizzare la riproduzione e la diffusione degli stessi (art. 72)
e di percepire un compenso per le loro utilizzazioni, differente a seconda che
siano fatte a scopo di lucro o meno (artt. 73 - 73bis). Egli ha anche il diritto “di
opporsi a che l'utilizzazione dei fonogrammi [...] sia effettuata in condizioni
tali da arrecare un grave pregiudizio ai suoi interessi industriali” (art. 74). Gli
artisti interpreti ed esecutori103 – oltre allo stesso diritto al compenso spettante al produttore di fonogrammi ai sensi degli artt. 73 ss. l. aut. – hanno il
diritto esclusivo di autorizzare la fissazione, la riproduzione e la distribuzione delle loro interpretazioni o esecuzioni (art. 80, comma 2) e, sotto il profilo
dell'interesse morale, ad opporsi “alla comunicazione al pubblico o alla riproduzione della loro recitazione, rappresentazione o esecuzione che possa
essere di pregiudizio al loro onore o alla loro reputazione” (art. 81).
La durata dei diritti spettanti ai produttori di fonogrammi e agli artisti interpreti o esecutori, attualmente fissata in cinquant'anni rispettivamente dalla
fissazione104 e dalla prima esecuzione105, è stata elevata a settant'anni da una
recentissima direttiva106 dell'Unione Europea, che dovrà essere recepita nel
nostro ordinamento interno entro il 01/11/2013.
101Si veda per una trattazione più approfondita della materia AA. VV., Diritto
Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, op. cit.
102Il fonogramma è costituito “dai suoni fissati su un supporto”. Il relativo diritto viene
acquisito dal produttore, a titolo originario, automaticamente – senza che siano
necessarie ulteriori formalità – al momento della prima fissazione di un suono sul
cosiddetto “master”, ossia il disco originale, ma non si identifica con tale supporto,
mantenendosi anche in relazione a tutte le successive fissazioni. Per tali ragioni il
fonogramma viene configurato come bene immateriale.
103Ai sensi dell'art. 80, comma 1 l. aut., “[s]i considerano artisti interpreti ed artisti
esecutori gli attori, i cantanti, i musicisti, i ballerini e le altre persone che
rappresentano, cantano, recitano, declamano o eseguono in qualunque modo opere
dell'ingegno, siano esse tutelate o di dominio pubblico”.
104Art. 75 l. aut.: “La durata dei diritti previsti nel presente capo e di cinquanta anni
dalla fissazione. Tuttavia, se durante tale periodo il fonogramma è lecitamente
pubblicato ai sensi dell'articolo 12, comma 3, la durata dei diritti è di cinquanta anni
dalla data della sua prima pubblicazione”.
105Art. 85 l. aut.: “I diritti di cui al presente capo durano cinquanta anni a partire dalla
esecuzione, rappresentazione o recitazione. Se una fissazione dell'esecuzione,
rappresentazione o recitazione è pubblicata o comunicata al pubblico durante tale
termine, i diritti durano cinquanta anni a partire dalla prima pubblicazione, o, se
anteriore, dalla prima comunicazione al pubblico della fissazione”.
106Il riferimento è alla Direttiva 2011/77/UE, adottata dal Parlamento Europeo e dal
Consiglio dell'Unione Europea in data 13/09/2011. Il testo può essere consultato
online al seguente indirizzo: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?
uri=OJ:L:2011:265:0001:0005:IT:PDF .
49
Rientrano tra i diritti connessi anche quelli spettanti ai produttori di opere
cinematografiche e audiovisive che, al pari dei produttori di fonogrammi,
hanno diritto ad un compenso per la riproduzione delle opere suddette, compenso che viene calcolato in misura diversa a seconda che la riproduzione sia
privata o effettuata in pubblico.
È evidente come tali diritti connessi – ma anche altri, quali quelli spettanti
agli organismi di radiodiffusione – interessino anche le espressioni musicali
di tradizione orale, nel momento in cui queste vengano fissate su un supporto a fini commerciali o di diffusione a vario titolo tra il pubblico, o vengano
eseguite nell'ambito di eventi pubblici. Ma è altrettanto evidente come essi
rappresentino una tutela parziale, che ha riguardo solo ad un momento successivo alla utilizzazione, mentre nulla dicono in merito ai criteri e alle
modalità cui tale utilizzazione debba ispirarsi. Attraverso tali diritti connessi,
infatti, è tutelato soltanto il risultato della fissazione o della esecuzione, ma
non, ad esempio, l'interesse della comunità di riferimento a che una determinata espressione musicale non venga resa pubblica (se infatti vi è il consenso
dell'esecutore alla fissazione questa risulta pienamente legittima) o quello
sempre della comunità a impedire l'esecuzione al di fuori dello specifico contesto nell'ambito del quale la forma viene tradizionalmente eseguita e
all'interno del quale essa assume significato.
3. Utilizzabilità di altre norme del sistema della proprietà intellettuale.
Un ulteriore aspetto che merita considerazione è se altre norme del sistema della proprietà intellettuale possano fornire elementi utili alla
elaborazione di strumenti di tutela per le opere della tradizione. Il riferimento è in particolare alla disciplina dei segni distintivi, specialmente dei marchi
e delle indicazioni geografiche107.
Va premesso anzitutto che, dato l'oggetto che tali istituti sono tradizionalmente preposti a tutelare, non è possibile immaginarne una diretta
applicabilità alle espressioni musicali orali, come a nessuna espressione musicale in generale. Ciò su cui è possibile ragionare, allora, è se vi siano
margini per la loro applicazione ad aspetti per così dire “collaterali” alle
107Cfr. E. LOFFREDO, Profili giuridici della tutela delle produzioni tipiche, in Riv. Dir. Ind.,
2003, I, 139 ss.
50
espressioni musicali di cui si tratta, aspetti tuttavia strettamente correlati alla
loro esistenza ed al loro sviluppo, quali in particolar modo la costruzione di
strumenti musicali, in quanto manufatti e/o opere artistiche.
Quanto ai marchi, occorre distinguere due ipotesi. La prima di tali ipotesi
è quella in cui un costruttore di strumenti musicali “tradizionali” apponga
sugli stessi uno specifico segno distintivo che li renda a lui riconducibili 108. In
questi casi non vi sono ostacoli all'applicazione della disciplina comune dei
marchi109 individuali. La circostanza che gli strumenti musicali siano utilizzati per pratiche musicali orali non è idonea ad introdurre un criterio di
specialità tale da incidere sulla struttura della fattispecie in esame. Il costruttore potrà pertanto legittimamente registrare ed utilizzare il marchio –
purché, ovviamente, ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge in via generale per la validità della registrazione110 – o, in caso di mancata registrazione,
avvalersi della più limitata tutela accordata al marchio di fatto111.
La seconda ipotesi è quella del ricorso al marchio di certificazione. Si tratta
di una sottocategoria del marchio collettivo112. Tali marchi hanno la funzione
108Si tratta di una pratica abbastanza diffusa, soprattutto con riferimento agli strumenti
che presentano una particolare complessità organologica, e la cui costruzione
richiede specifiche competenze tecniche e un elevato grado di specializzazione.
109In Italia la materia è attualmente disciplinata dagli artt. 2569-2574 c.c. e dal D. Lgs.
30/2005 (Codice della Proprietà Industriale), oltreché da fonti internazionali e
comunitarie. Quanto alle prime, il più importante atto normativo vigente è il
cosiddetto “Accordo TRIPs”(Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights)
del 1994. Tra le seconde, assume particolare rilievo il regolamento 40/94/CE (c.d.
“regolamento sul marchio comunitario”) che – essendo dotato di diretta applicabilità
all'interno degli Stati membri – ha, assieme alla giurisprudenza della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee, ridefinito i contorni della materia anche nel nostro
ordinamento interno.
110Ai sensi dell'art. 4 r.m.c. “[p]ossono costituire oggetto di registrazione come marchio
d'impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare
le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del
prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché
siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese”.
A questa elencazione, che è comunemente ritenuta non tassativa – la stessa norma la
fa precedere dall'espressione “in particolare”, facendo propendere per questa
interpretazione – l'art. 4 cpi aggiunge i suoni e le combinazione e le tonalità
cromatiche; per un'analisi più approfondita si rimanda a AA. VV., Diritto Industriale,
Proprietà intellettuale e Concorrenza, op. cit., spec. 72 ss.
111Il marchio di fatto, in particolare, a differenza di quello registrato, attribuisce al suo
titolare protezione per il solo periodo successivo al suo utilizzo effettivo – essendo
l'utilizzo elemento determinante per la nascita stessa di tale tipo di marchio – ed è
protetto solamente in relazione agli specifici beni per i quali è adoperato.
112Ai sensi dell'art. 11, comma 1 cpi “[i] soggetti che svolgono la funzione di garantire
l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi, possono ottenere la
51
non di attestare la provenienza del bene a cui si riferiscono a una o più imprese determinate, quanto invece la rispondenza dello stesso a specifici
requisiti di qualità – così come previsti da una disciplina di fonte statale o comunitaria – certificata da un organismo di diritto pubblico o privato a ciò
istituzionalmente deputato. Attraverso il marchio di certificazione a ricevere
tutela diretta non è il singolo produttore/artigiano 113, ma l'intera classe di
beni che di quel marchio beneficiano. L'apposizione del marchio consente infatti di distinguere tali prodotti da tutti quelli simili che ne siano privi,
svolgendo la funzione primaria di tutelare l'affidamento del terzo acquirente
nella genuinità dei primi, evitando che cada in errore. Parte della dottrina
guarda con favore a queste soluzioni legislative, pur con alcune riserve 114. Da
taluno si è proposta la creazione di “marchi di autenticità” 115, assoggettati ad
una disciplina speciale, con lo scopo di offrire una protezione di grado maggiore, prevedendo un diretto controllo degli stessi da parte delle comunità
interessate: il modello – da sviluppare – sarebbe quello seguito negli Stati
Uniti con l'adozione dell'Indian Arts and Crafts Act116, che ha previsto proprio una tale possibilità.
registrazione per appositi marchi come marchi collettivi ed hanno la facoltà di
concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti”. I soggetti autorizzati
ad utilizzare il marchio sono perciò diversi da quello che lo ho registrato. In passato
questo poteva avvenire solo in virtù di un rapporto associativo o partecipativo tra
un'impresa e un organismo di diritto privato che svolgesse le funzioni di cui all'art.
11, comma 1 cpi. Attualmente questa limitazione è venuta meno, pertanto ora “la
legittimazione all'acquisto della titolarità di un marchio collettivo spetta […] anche ai
soggetti ed agli enti che siano legati alle imprese utilizzatrici non da un rapporto di
partecipazione od associativo ma da un vincolo meramente contrattuale, ivi incluse
le imprese che svolgano la funzione di 'verificatore professionale' di standards
qualitativi” (AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, op. cit.,
153). Proprio questa apertura ha permesso la creazione anche nel diritto italiano della
figura dei marchi di certificazione, tipica dei sistemi anglosassoni.
113I due marchi possono anche coesistere, nel senso che sul bene può essere apposto il
marchio dell'individuo che lo ha realizzato e quello che ne certifichi la qualità.
114V. A. LUCAS-SCHLOETTER, Folklore, in AA. VV., Indigenous Heritage and Intellectual
Property, Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, a cura di S. Von
Lewinsky, Kluwer Law International, 2008, 339 ss.. Ivi ulteriori citazioni di dottrina.
115V. S. SCAFIDI, Intellectual Property and Cultural Products, in Boston University Law
eview, 81, 2001, 793 ss. La questione sarà esaminata più approfonditamente infra,
Cap. III, par. 5.
116V. infra Cap. III, par. 1.1. Come si dirà meglio in tale sede, lo IACA non istituisce in
realtà un marchio di autenticità, ma più semplicemente autorizza l'utilizzo della
denominazione “Indian Produced”, “Indian Product” o altre simili, su un prodotto
artigianale commercializzato, solo da parte di chi sia membro di una comunità
indiana, o da chi – pur non essendo membro di alcuna tribù indiana – sia certificato
come artigiano indiano da parte di una tribù indiana.
52
Emergono tuttavia alcuni rilievi, che è opportuno esaminare. Anzitutto, va
precisato che l'apposizione del marchio di certificazione (o di autenticità) ha
una precipua funzione commerciale117. Non copre pertanto le ipotesi di beni
non commercializzati o non commercializzabili. In secondo luogo, con riguardo al marchio di autenticità, qualunque criterio di determinazione
dell'autenticità medesima rischierebbe di essere arbitrario. Mentre, infatti, è
possibile provare che un bene è stato prodotto nel rispetto di un determinato
disciplinare, non è altrettanto agevole dimostrarne la provenienza da un
membro di una specifica comunità. O, più precisamente, ci si potrà servire di
criteri formali, che prescindano da qualunque fondamento scientifico. Si potrà, ad esempio, adoperare un criterio geografico – che legittimi all'uso del
marchio solo chi operi o risieda in un determinato territorio –, oppure un criterio che tenga conto dell'appartenenza del produttore ad un determinato
gruppo etnico. Ma, come si è visto a proposito della nozione di comunità in
senso antropologico118, la possibilità di circoscrivere un gruppo sociale ad
una cerchia determinata o determinabile di soggetti geograficamente localizzata è tutt'altro che pacifica. Il rischio di una esclusione arbitraria della tutela
non viene pertanto, con tali sistemi, eliminato. D'altro canto, potrebbero non
ricevere adeguata tutela quelle ipotesi in cui la minaccia provenga “dall'interno”, ossia da un membro della stessa comunità che si ritenga lesa da un
determinato comportamento.
È anche da rilevare che i prodotti commercializzati con un marchio di questo tipo sono spesso realizzati per assecondare il gusto “etnico” occidentale,
circostanza questa che induce gli artigiani a scelte artistiche non sempre
spontanee. Risulta ancora più arduo, alla luce di ciò, parlare di autenticità o
genuinità.
Con riferimento nello specifico alla costruzione di strumenti musicali, è da
chiedersi quale potrebbe essere la funzione del marchio. Se fosse quella di attestare la provenienza dello strumento da un membro della comunità di
riferimento, non si avrebbe la garanzia che tale soggetto possieda anche le
competenze tecniche necessarie. Se invece fosse quella di certificare proprio
117La stessa S. SCAFIDI, op. ult. cit., riconosce che la soluzione del marchio di
autenticità è ammissibile solo in relazione ai “prodotti culturali” che siano pubblici
(rectius conoscibili da parte di un pubblico indifferenziato) e commercializzati,
mentre propone soluzioni diverse per quelli che siano riservati (o segreti) e/o non
commercializzati.
118V. supra, Cap. I, par. 1.3.
53
quest'ultimo elemento, o il rispetto di particolari regole o procedimenti nella
produzione, sarebbe da stabilire a quale organismo attribuire il compito di
determinare tali criteri, in particolare, se si debba trattare di un organismo
statale o locale, e da chi debba essere composto. Spesso poi gli stessi costruttori apportano innovazioni alle tecniche di produzione119, senza che questo
sia percepito – purché entro certi limiti – come un pericolo per la sopravvivenza delle tecniche tradizionali. Anzi, si è già visto come meccanismi di
questo tipo siano connaturati all'oralità e ne costituiscano un momento essenziale.
In definitiva, il marchio collettivo può rappresentare in alcuni casi uno
strumento utile per limitare i fenomeni di misappropriation120, ma garantisce
una protezione del tutto parziale e, come si è visto, con alcuni aspetti di contraddizione. Resta, inoltre, ineliminabile il problema dato dal fatto che una
disciplina di carattere statuale non potrà mai garantire una adeguata tutela
alle espressioni culturali che facciano riferimento a comunità il cui territorio
stanziale travalichi i confini di un singolo Stato.
Quest'ultima considerazione vale anche a contestare quella dottrina 121 che
vede nelle indicazioni geografiche una soluzione ai problemi posti dal ricorso alla disciplina dei marchi di certificazione, sostenendo che in tal modo si
avrebbe “an entirely satisfactory means of guaranteeing the authenticity of
the expressions of folklore”, a condizione dell'esistenza di associazioni locali
rappresentative delle popolazioni indigene dotate di “legal capacity”.
4. Misappropriation e pubblico dominio. Esperienze relative a opere di tradizione orale.
Nella dottrina giuridica anglosassone viene talvolta utilizzato il termine
misappropriation per indicare una serie di utilizzazioni di espressioni culturali
119Tra i costruttori di launeddas, ad esempio, già dal XVIII secolo le tecniche di
produzione hanno subito una modifica, presumibilmente per consentire allo
strumento – che utilizza il sistema non temperato – di essere incluso nei cerimoniali
sacri all'interno delle chiese, dove si diffondevano gli organi a canne, che invece
utilizzavano già allora il sistema temperato. Più tardi, alcuni costruttori hanno
iniziato ad utilizzare strumenti quali pianoforti, harmonium o anche accordatori
elettronici per avere dei centri di riferimento tonali più definiti nell'accordatura.
120V. infra, par. succ.
121A. LUCAS-SCHLOETTER, op. cit.
54
tradizionali da parte di soggetti estranei al contesto o alla comunità in cui tali
espressioni si sono sviluppate – con finalità generalmente speculative – che
ledano interessi della comunità (o dei cosiddetti detentori 122) di tipo economico o lato sensu morale. Nella maggioranza dei casi si tratta di utilizzazioni del
tutto lecite, in mancanza di specifiche norme che le limitino o vietino. Per tale
ragione è preferibile parlare di misappropriation piuttosto che – come pure fa
parte della dottrina – di illicit exploitation. Il primo termine appare più appropriato anche per una seconda ragione. In chi lo utilizza, infatti, vi è l'espresso
intento di istituire un parallelismo tra le situazioni di cui si sta parlando e la
rivelazione di segreti industriali (misappropriation of trade secrets), per porre in
rilievo l'analogo effetto lesivo che accomuna le due fattispecie. Detto questo,
sono da fare comunque alcune precisazioni, per evitare che la terminologia
crei fraintendimenti e confusioni. L'analogia tra gli effetti non implica affatto
una equiparazione delle due ipotesi sotto altri profili. Sotto il profilo soggettivo, la rivelazione di segreti industriali ha come parte necessaria un soggetto
che esercita una attività commerciale, che subisce una lesione di carattere
economico a causa della pubblicazione di informazioni riservate riguardo
alla medesima attività. Nelle ipotesi che qui interessano, invece, come si vedrà meglio, non sempre è possibile individuare un soggetto determinato
quale vittima della lesione, che talvolta può essere riferita ad una comunità,
talvolta a individui singoli. L'interesse leso, inoltre, non sempre è semplicemente economico (per mancata percezione di un compenso a seguito
dell'utilizzazione), ma anzi spesso si concreta in un'offesa al sentimento religioso o in una violazione di regole consuetudinarie di vario contenuto.
Il termine misappropriation, pertanto, può essere utilizzato per la sua forza
evocativa, a condizione che si tengano presenti le osservazioni appena svolte,
e che si sia consapevoli che non si tratta di una categoria omogenea, ma di un
fenomeno articolato, che viene ricondotto ad unità per esigenze di trattazione.
Alla luce di quanto detto, è opportuno domandarsi se si renda necessaria
l'adozione di norme giuridiche che disciplinino tali ipotesi e, in caso di risposta affermativa, se ciò sia possibile nell'ambito degli attuali ordinamenti e in
quali termini. Prima di tentare di rispondere, è utile esaminare alcune concre122Si è già visto supra, Cap. I, par. 1.3 come tale espressione possa risultare
inappropriata. Si rimanda pertanto a tale sede per una analisi più approfondita della
questione.
55
te esperienze, in modo da comprendere meglio di cosa si discute e quali problematiche emergano.
Un caso che ha avuto una certa notorietà è quello che ha coinvolto l'etnomusicologo Hugo Zemp nei primi anni '90 123. Una melodia tradizionale delle
Isole Salomone cantata da una donna indigena, da lui registrata qualche
anno prima, fu campionata ed utilizzata, con il titolo “Rorogwela” e con l'aggiunta di un moderno sottofondo musicale, in un disco di “world music” di
grande successo commerciale, il disco “Deep Forest”, pubblicato – con il patrocinio dell'UNESCO – con lo scopo di sensibilizzare l'opinione pubblica
sulle esigenze di protezione delle foreste pluviali. Zemp, che non aveva prestato il suo consenso all'utilizzazione della registrazione, in seguito alla
pubblicazione del disco chiese – inutilmente – che quantomeno la comunità
cui apparteneva la donna da cui la melodia era stata registrata percepisse
parte dei proventi. La stessa melodia fu poi riutilizzata in un noto disco di
jazz, con il nome di “Pigmy Lullaby”, con una errata attribuzione di provenienza geografica. Il musicista interessato – il sassofonista norvegese Jan
Garbarek –, che non aveva avuto alcun contatto diretto con la registrazione
originale, ma che si era basato sulla versione di “Deep Forest”, alle richieste
di Zemp replicò asserendo la piena legittimità della sua utilizzazione, sulla
base della considerazione che il TONO, l'istituzione norvegese deputata alla
raccolta dei diritti di autore, aveva provveduto a ripartire i proventi dell'utilizzazione del disco tra lui e un fondo pubblico per la promozione della
musica folklorica.
Spunti interessanti emergono anche da una ricerca 124 commissionata dall'ISRE (Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna) che, attraverso
un'analisi dei registri SIAE, ha mostrato come sia frequente nell'isola, tra i
musicisti che si occupano di musica di tradizione orale, la prassi di depositare a proprio nome brani che recano la stessa denominazione di espressioni
musicali tradizionali. Talvolta si tratta di brani originali, ispirati a musiche
tradizionali125. Altre volte si tratta di varianti personali di espressioni musica123Si veda in proposito S. FELD, A Sweet Lullaby For World Music, in Public Culture 2000,
12(1), 145 ss; ZEMP, H., The/An Ethnomusicologist and the Record Business, in Yearbook
for Traditional Music, 28, 1996, 35 ss, spec. 44 ss.
124Si tratta di una ricerca effettuata dall'etnomusicologo Marco Lutzu in occasione del
convegno “Diritti d’autore e tradizione orale: consuetudini, leggi ed etica”,
organizzato dall'ISRE nel giugno del 2009.
125In questi casi l'autore si limita semplicemente a dare alla propria composizione il
56
li tradizionali. Le prime ipotesi presentano aspetti problematici limitati, in
quanto l'elaborazione creativa, pur basata su modelli tradizionali, è comunemente considerata operazione legittima, sia sotto il profilo giuridico che sotto
quello etico. In relazione a tali ipotesi si potrebbe tutt'al più porre il problema
se considerare ammissibile l'utilizzo di titoli già in uso (nel caso specifico se
ammettere l'attribuzione ad un'opera originale di un titolo già presente in
una espressione musicale tradizionale). Problema che, sotto l'attuale disciplina, deve essere risolto in senso positivo, non sussistendo particolari
limitazioni alla registrazione di opere con titolo identico ad altre già registrate, purché chiaramente la melodia non coincida 126. Per analoghe ragioni, si
dovrebbero ritenere ammissibili operazioni simili anche nella prospettiva di
un eventuale futuro intervento normativo in materia di tutela delle espressioni musicali di tradizione orale.
Le seconde ipotesi, invece, pongono questioni più complesse. Mentre infatti alcuni autori registrano a proprio nome solo gli elementi innovativi più
direttamente riconducibili al loro apporto creativo, altri considerano il proprio intervento sul modello sufficiente a conferire originalità all'intero brano.
Numerosi sono gli interrogativi che emergono. Anzitutto va considerato
come in questi casi l'autore depositi come suo un brano che, almeno in parte,
preesisteva al deposito, pur non essendo riconducibile ad un autore determinato. Non è chiaro se ciò sia da ritenere ammissibile secondo l'attuale
disciplina italiana del diritto d'autore. Ma, considerato che le ricerche di anteriorità effettuate dalla SIAE all'atto della registrazione di ogni nuova opera si
limitano a verificare l'esistenza di altra opera registrata, di fatto il deposito di
un'opera appartenente alla tradizione orale risulta, se non pienamente lecito,
quantomeno possibile e privo di conseguenze sanzionatorie. Di conseguenza,
l'autore (o presunto tale) avrebbe diritto a percepire i diritti di utilizzazione
della stessa opera eseguita da altri musicisti, anche nelle ipotesi in cui questi
titolo di una espressione musicale tradizionale, senza però registrare quest'ultima
come propria. Si tenga presente che le espressioni musicali della tradizione sarda
hanno spesso nomi generici (ballu, canto in re, etc.), che in molti casi corrispondono a
modelli stilistici, più che a opere in senso stretto. Si è già affrontata la questione della
c.d. “opera orale” supra, cap. I, par. 2, al quale si rimanda per una trattazione più
approfondita e per indicazioni bibliografiche.
126La SIAE rifiuta la registrazione di un'opera avente titolo identico ad altra opera già
registrata solo quando anche i nomi degli autori coincidono. Ma la limitazione in
questo caso ha ragioni esclusivamente pratiche, essendo in tali ipotesi impossibile
individuare l'autore cui corrispondere i proventi dell'utilizzazione dell'opera.
57
eseguano soltanto le parti “tradizionali” incorporate nella partitura depositata, e non anche le parti più propriamente originali. È evidente come una tale
conclusione risulti paradossale, e purtuttavia plausibile, in applicazione della
normativa vigente127.
C'è infine un ulteriore profilo che merita considerazione. La variazione
rappresenta un meccanismo connaturato alla trasmissione orale, tanto che
quando si parla di “opera orale” 128 ci si riferisce non ad una partitura fissa,
ma ad un modello aperto, modificabile secondo determinati criteri e parametri dall'esecutore. La cristallizzazione di una variante su una partitura appare
perciò in una certa misura una forzatura. Circostanza confermata dal fatto
che nella generalità dei casi ciò che il suonatore-autore esegue non è una riproduzione della partitura depositata, ma una “variante della variante”. La
scelta di depositare l'opera – come in parte emerge dalle interviste ad alcuni
musicisti, contenute nella ricerca in parola – rappresenta perciò in molti casi
il ricorso ad un meccanismo riconosciuto come inappropriato, ma al tempo
stesso come l'unico possibile, data la mancanza di meccanismi ad hoc.
Il fenomeno descritto pone in evidenza due aspetti: da un lato mostra l'inadeguatezza dell'attuale sistema del diritto d'autore rispetto alle esigenze di
tutela delle espressioni musicali di tradizione orale; dall'altro pone in risalto
come, in assenza di uno strumento di tutela specifico, il rischio di utilizzazioni improprie sia concreto. Esso presenta un ulteriore profilo di interesse: la
presunta misappropriation in questi casi, infatti, proviene “dall'interno”, ossia
da un esponente della stessa forma di espressione oggetto di abuso. Questa
circostanza mostra come in siffatte ipotesi una tutela che assuma quale soggetto di diritto la comunità “detentrice” risulterebbe insoddisfacente, anche a
voler prescindere dalla difficoltà di configurare la comunità di riferimento
(l'intera comunità locale; l'insieme dei soggetti che praticano una determinata
espressione culturale; l'insieme dei suonatori di un determinato strumento
etc.)
In Italia, data l'assenza di norme positive di riferimento, non è dato riscontrare una casistica giurisprudenziale in materia. Tuttavia, meritano
attenzione alcune pronunce delle corti che hanno coinvolto, a vario titolo,
127Per un caso riguardante una melodia della tradizione monodica sarda, riconosciuta
come creazione originale del musicista che ne aveva curato l'arrangiamento per
organico strumentale, v. Trib. Cagliari, 15 gennaio 2008, n. 119 in Rivista Giuridica
Sarda, III, 2010, 561 ss., con nota di V. Madau.
128V. supra Cap. I, par. 2.
58
espressioni culturali tradizionali. In un caso 129, ad esempio, si è ritenuto che
“in tema di maltrattamento di animali, la configurabilità del reato previsto a
carico di chi organizzi spettacoli o manifestazioni che comportino strazio o
sevizie per gli animali ovvero vi partecipi non è esclusa dal fatto che trattasi
di manifestazione folcloristica di carattere religioso, risalente a tempo immemorabile”. In un altro caso si è negata la legittimazione attiva di un Comune
a far valere i diritti sull'immagine di un evento svolgentesi nel territorio del
Comune medesimo, in quanto “appartenente al patrimonio storico, culturale
e folcloristico della nazione”130.
4.1. Misappropriation di manufatti.
Nell'ordinamento statunitense è dato riscontrare una vasta casistica in materia di produzioni artistiche artigianali, favorita dalla presenza dell'Indian
Arts and Crafts Act131 (IACA), che vieta la commercializzazione di manufatti
falsamente qualificati come “Indiani” dal venditore o dal produttore, o che
gli acquirenti possano comunque essere erroneamente portati a ritenere prodotti indiani autentici132. Data la stretta attinenza con la materia dei marchi,
lo IACA va applicato in coerenza con il Lanham Act (la legge fondamentale
statunitense sui marchi). Come emerge da numerose pronunce delle Corti
nordamericane, perciò, sulla tribù o l'associazione rappresentativa che agisca
per inibire la produzione o vendita di prodotti falsamente attribuibili all'artigianato indiano, incombe l'onere di provare non solo il pregiudizio
potenziale, ma anche quello patito in concreto, ed inoltre di dimostrare che la
parte convenuta, operando in un ambito geografico coincidente – almeno in
129Cass. Pen., 37878/2004
130Trib. Milano, 9 novembre 1992. Nel caso di specie si è affermato che “(i)l comune di
Siena è privo di legittimazione attiva a far valere i diritti sull'immagine e sui simboli
del palio di Siena in quanto delegato solo alla sopraintendenza e alla direzione dei
palii e dunque a mere funzioni organizzative e di polizia. [...] Il palio di Siena è
pubblico evento risalente al XIII secolo, dunque appartenente al patrimonio storico,
culturale e folcloristico della nazione, senza che chicchessia possa vantare diritti
esclusivi di sorta su di esso. Nella rappresentazione del palio e nei caratteristici segni
utilizzati dai partecipanti allo svolgimento di esso non è ravvisabile un apporto
suscettibile da assurgere ad opera dell'ingegno proteggibile secondo la disposizione
della legge sul diritto d'autore”.
131V. supra, Cap. II, par. 1.3; infra, Cap. III, par. 3.1
132Lo IACA non ha invece ad oggetto le espressioni culturali intangibili, quali le
espressioni musicali di tradizione orale. Può comunque investire l'aspetto della
produzione e commercializzazione di strumenti musicali della tradizione nativoamericana.
59
parte – con quello di riferimento della parte attrice, si trovi con quest'ultima
in un rapporto di concorrenza diretta, in assenza del quale non si configurerebbe alcun danno. Il pregiudizio cui le Corti fanno riferimento è,
ovviamente, il solo pregiudizio economico (per danno emergente o lucro cessante), che si sia concretato ad esempio in una riduzione delle vendite o in
una forzata diminuzione dei prezzi 133. Non ricevono alcuna considerazione,
invece, interessi non economici, circostanza questa che consentirebbe di superare il limite dell'ambito geografico di riferimento. L'assenza, d'altra parte,
di norme che abbiano riguardo a interessi extraeconomici lascia aperte questioni di non secondaria importanza. In un colloquio il Dott. Scott M. Stevens,
direttore del “D'Arcy McNickle Center for American Indian and indigenous
Studies” mi ha esposto un dilemma etico-legale in cui il centro che dirige si
trova, in relazione ad alcune fotografie presenti nei suoi archivi, ma attualmente non rese pubbliche. Tali fotografie – scattate tra la fine del
diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo – ritraggono alcuni riti sacri
degli indiani d'America. Al tempo i capi delle comunità indiane custodi dei
riti immortalati acconsentirono alla realizzazione delle fotografie, probabilmente dietro la promessa di benefici economici o di altro tipo. Gli esponenti
delle stesse comunità ora richiedono che tali foto non vengano rese pubbliche, perché si tratterebbe di riti segreti, come tali conoscibili solo da alcuni
soggetti in possesso di specifici requisiti. Il Centro detiene legittimamente le
fotografie, e le attuali leggi statunitensi non ne vietano la pubblicazione. Se
però esse venissero esposte, a parte le implicazioni di carattere etico, il Centro tradirebbe la sua missione di tutela della cultura indiana. Un'istituzione o
un soggetto con minori scrupoli etici potrebbe legittimamente utilizzare le fotografie senza incorrere in alcuna conseguenza sotto il profilo strettamente
giuridico. Risulta evidente come rimettere interamente scelte di questo tipo
133Cfr. U.S. District Court, M.D. Georgia, Valdosta Division, NATIVE AMERICAN
ARTS, INC. v. BUD K WORLDWIDE, INC., Civil Action No. 7:10–CV–124; United
States District Court, D. Rhode Island.NATIVE AMERICAN ARTS, INC. v.
CONTRACT SPECIALTIES, INC. d/b/a Sunburst Companies, Civil Action No. 10–
106 S.; si veda anche G. MOSSETTO, Attribuzione dei diritti e patrimonio culturale, in
AA.VV. La negoziazione delle appartenenze. Arte, identità e proprietà culturale nel terzo e
quarto mondo, a cura di M. L. Ciminelli, Milano, 2006, dove si cita menziona il c.d.
“Caso Crazy Horse”, che coinvolse un discendente del capo indiano Sioux Lakota
“Cavallo Pazzo” e un'azienda produttrice di birra che tale nome aveva utilizzato per
un suo prodotto. La vicenda si risolse stragiudizialmente con una pubblica lettera di
scuse da parte della compagnia e un risarcimento in natura, secondo la tradizione
Lakota.
60
alla volontà dei soggetti interessati non consente di limitare, nemmeno in
parte, il rischio di utilizzazioni improprie134.
Un effetto riflesso della misappropriation può essere apprezzato con riferimento alla produzione e al commercio di didjeridoo135. Lo strumento
tradizionale aborigeno è oggetto da alcuni anni di forte interesse commerciale su scala internazionale, al pari di alcune percussioni africane. Questo ha
favorito lo sviluppo del mercato della contraffazione, tanto che la maggioranza dei didjeridoo attualmente in vendita, e che oramai è piuttosto facile
reperire – in particolare nei negozi di prodotti c.d. “etnici” - sono realizzati
industrialmente spesso in Paesi asiatici e sovente decorati con motivi che richiamano l'arte figurativa aborigena, in maniera approssimativa e impropria.
La posizione dei suonatori/costruttori aborigeni rispetto a questo fenomeno
è differenziato a seconda del tipo di utilizzazioni. Molti di essi non sono contrari alla commercializzazione in sé di strumenti non aborigeni. Ciò che
generalmente si richiede è un approccio che rispetti il significato religioso
dello strumento medesimo. Gli strumenti decorati con soggetti della mitologia aborigena, perciò, sono difficilmente accettati, mentre quelli realizzati in
134Un esempio di quanto un tale rischio sia concreto ed attuale è riscontrabile in
SCAFIDI, S., Intellectual Property and Cultural Products, in Boston University Law
Review, 81, 2001, 793 ss., dove si menziona il caso di una rivista che commissionò ad
un fotografo la realizzazione di alcuni scatti aerei che ritraevano una tribù indiana
del New Mexico, il “Pueblo of Santo Domingo”, nello svolgimento di una cerimonia
sacra. Le foto furono pubblicate in due occasioni (in una delle quali la cerimonia era
stata anche erroneamente qualificata come un pow-wow), suscitando lo sdegno di
alcuni membri della tribù. Fu anche proposta una causa giudiziaria, che però non
giunse mai alla decisione nel merito.
135Il didjeridoo è uno strumento tradizionalmente utilizzato da alcune tribù aborigene
australiane, in particolare del Nord Australia. Si compone di un tronco cavo di legno
di eucalipto, la cui parte interna è stata mangiata dalle termiti. Una volta selezionato
il tronco, il costruttore lo taglia per ottenere la lunghezza desiderata, lo lavora
ulteriormente e a seconda dell'uso cui sarà destinato lo decora. Lo strumento utilizza
la tecnica della respirazione circolare, e produce una sola nota, ma attraverso alcuni
meccanismi è possibile produrre, in aggiunta al suono base, una serie di suoni
armonici, mentre con il movimento della lingua e della bocca è possibile realizzare
figurazioni ritmiche anche piuttosto complesse. La denominazione originaria dello
strumento è ydaki per gli strumenti più lunghi, che emettono suoni più gravi,
utilizzati prevalentemente con funzione di accompagnamento al canto, spesso in
combinazione con i clap-sticks, due bastoncini di legno che – percossi tra loro –
scandiscono il tempo; mago per gli strumenti più corti e acuti, utilizzati generalmente
con funzione ritmica. La nomenclatura varia però da regione a regione e da tribù a
tribù, tanto che si conoscono più di cinquanta nomi diversi dello strumento. La
denominazione didjeridoo è stata coniata dai colonizzatori bianchi, e rappresenta
presumibilmente un nome di origine onomatopeica, che richiama il suono prodotto
dallo strumento.
61
modo da non rappresentare delle imitazioni sono tendenzialmente accettati.
Discorso analogo vale nei confronti di soggetti non aborigeni che suonino lo
strumento. Data la funzione rituale dello stesso, è scarsamente tollerata l'imitazione delle tecniche esecutive tradizionali, mentre è generalmente accettato
un approccio esecutivo originale, o quantomeno personale136.
A fronte di alcuni soggetti aborigeni che, cedendo alle logiche del mercato
hanno iniziato a produrre e vendere strumenti destinati a scopi “turistici”,
numerosi costruttori hanno sfruttato i nuovi mezzi tecnologici a loro vantaggio, utilizzando soprattutto internet per vendere in tutto il mondo i loro
strumenti137, mantenendo prezzi notevolmente superiori a quelli degli strumenti “contraffatti”, rivolgendosi ad un bacino d'utenza specifico, costituito
in particolare da musicisti, che necessitano di strumenti dalle caratteristiche
qualitativamente elevate138.
La frequenza di episodi simili a quelli sopra esposti ha indotto la dottrina
a formulare numerose ipotesi in merito ad una possibile tutela delle espressioni culturali tradizionali: dall'utilizzo tout court delle attuali norme in
materia di proprietà intellettuale, alla creazione di una disciplina sui generis
che moduli le norme sulla proprietà intellettuale in funzione della specialità
dell'oggetto della tutela, fino al ricorso al diritto consuetudinario delle singole comunità c.d. “detentrici” coinvolte, per approdare al campo dei diritti
umani139.
136Alcuni suonatori aborigeni Yolngu (popolo N.E. Arnhem Land) tengono corsi e
seminari sullo strumento in tutto il mondo. Gli stessi Yonlgu – come mi è stato
raccontato dal suonatore italiano di didgeridoo Andrea Ferroni – hanno però qualche
anno fa intimato ad una band americana di cessare di utilizzare decorazioni
tradizionali e nomi di ritmi tradizionali nella loro musica, perché tale
comportamento veniva da essi percepito come un oltraggio alla loro cultura.
137Oltre ai costruttori in prima persona, anche numerose associazioni non lucrative
fanno da intermediarie tra gli acquirenti in tutto il mondo e i costruttori, vendendo i
loro strumenti senza percepire profitti.
138Anche in questi casi, tuttavia, lo strumento viene generalmente indicato come
“didgeridoo”, mentre la nomenclatura originale (ydaki o mambo) viene tutt'al più
aggiunta tra parentesi o con caratteri tipografici più ridotti. Ciò risponde sicuramente
a una funzione commerciale, dato che lo strumento è universalmente più noto con il
primo nome, ma dà anche la misura di come le logiche occidentali di mercato (che
spesso comportano una semplificazione o una banalizzazione in funzione di una più
facile commercializzazione) influenzino anche i tentativi di sfuggire a tali stesse
logiche.
139V. supra, Cap. II, par. I e infra, Cap. III, par. 3, per una trattazione più approfondita e
per riferimenti bibliografici.
62
CAPITOLO III
MODELLI DI TUTELA A CONFRONTO
1. WIPO e UNESCO: due linee di intervento a confronto.
L'analisi fin qui svolta ha mostrato l'inadeguatezza degli strumenti di valorizzazione e tutela, sotto il profilo concettuale, ancor prima che sotto quello
applicativo. Risulta opportuno perciò ricercare soluzioni di diverso tenore
che possano apparire maggiormente appropriate a tali fini. Punto di partenza
saranno gli strumenti approntati dalle due principali organizzazioni internazionali che si sono occupate delle espressioni di folklore e delle espressioni
culturali tradizionali sotto differenti profili: WIPO (World Intellectual Property Organization) e UNESCO (United Nations Educational, Scientific and
Cultural Organization).
1.1. Le “Model provisions” del 1985 e le nuove linee di intervento WIPO.
Negli anni '70, WIPO140 e UNESCO141 hanno dato vita ad una importante
collaborazione, che ha avuto come suo più rilevante risultato l'emanazione,
nel 1982142, delle Model Provisions for National Laws on the Protection of Expressions of Folklore Against Illicit Exploitation and Other Prejudicial Actions, un atto
contenente delle linee guida per gli Stati che intendano adottare una normativa a tutela delle espressioni di folklore. Si tratta di un atto di soft law, cioè
140La WIPO (World Intellectual Property Organization) è una agenza specializzata
dell'ONU che si occupa di proprietà intellettuale. Sul sito dell'organizzazione si
legge: “It is dedicated to developing a balanced and accessible international
intellectual property (IP) system, which rewards creativity, stimulates innovation
and contributes to economic development while safeguarding the public interest”
(http://www.wipo.int/about-wipo/en/what_is_wipo.html).
141L'UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) è
un'agenzia specializzata dell'ONU: “UNESCO works to create the conditions for dialogue among civilizations, cultures and peoples, based upon respect for commonly
shared values. It is through this dialogue that the world can achieve global visions of
sustainable development encompassing observance of human rights, mutual respect
and the alleviation of poverty, all of which are at the heart of UNESCO’S mission and
activities” (http://www.unesco.org/new/en/unesco/about-us/who-we-are/introducing-unesco/).
142Le Model Provisions sono state pubblicate nel 1985 corredate da un commentario, non
presente nell'edizione del 1982. Per questa ragione ci si riferisce alla data della
seconda pubblicazione.
63
privo di forza vincolante, la cui funzione era quella di indirizzare le legislazioni degli Stati che avessero voluto ispirarsi ad esse, con il fine di favorire
una omogeneizzazione delle normative statali, in vista di una estensione della tutela su scala sovranazionale. Le Model Provisions vanno in questa
prospettiva messe in relazione con un altro atto che porta la firma delle due
istituzioni: il Draft Treaty for the Protection of Expressions of Folklore against Illicit Exploitation and Other Prejudicial Actions – del 1984 – che costituisce
proprio il tentativo di fornire agli Stati il modello di un trattato internazionale in materia di tutela delle espressioni di folklore. Quest'ultimo atto,
malgrado le aspettative in esso riposte da WIPO e UNESCO, ha avuto uno
scarso successo e il progetto di un trattato in materia non è mai stato realmente intrapreso, a seguito delle osservazioni proposte da un gruppo di
esperti in materia di tutela internazionale delle espressioni di folklore, convocato dalle due organizzazioni nel dicembre 1984, con il compito di esaminare
il testo delle Draft Provisions e formulare un parere nel merito 143. In quella
sede, infatti, pur convenendo tutti i partecipanti sulla necessità di uno strumento internazionale di tutela, emersero alcune divergenze sui contenuti e
sui tempi del processo di internazionalizzazione, che suggerirono di rimandare la questione ad un momento successivo. La soluzione di un trattato
venne ritenuta “prematura”, considerato che allo stato non vi era una sufficiente esperienza di tutela a livello nazionale. In particolare, un numero
molto limitato di Stati, fino a quel momento, aveva adottato una normativa
ispirata alle Model Provisions, data la breve distanza di tempo – appena due
anni – dalla loro prima pubblicazione. Alcuni partecipanti, inoltre, sostennero l'opportunità che alcune legislazioni statali in materia di tutela del folklore
fossero esaminate con maggiore attenzione, al fine di verificare la praticabilità di un loro recepimento in un atto di livello sovranazionale. Altri ancora,
invece, affermarono la necessità di un esame più approfondito degli strumenti internazionali di tutela della proprietà intellettuale già esistenti, prima
dell'adozione di un nuovo atto. Alcune perplessità emersero anche con riferimento all'utilizzo del termine “folklore”, in favore dell'adozione di un
termine di portata più ampia.
Anche le Model Provisions hanno conosciuto un lungo periodo di oblio, ma
negli ultimi anni la WIPO le ha riproposte come uno dei punti focali della
143Il resoconto dell'incontro è consultabile online alla pagina: http://unesdoc.unesco.org/images/0006/000623/062340EB.pdf
64
propria attività in materia di espressioni culturali tradizionali.
L'antecedente storico di tale atto è il Tunis Model Law on Copyright for Developing Countries144, anch'esso elaborato da WIPO e UNESCO congiuntamente.
Oltre ad aver ispirato le legislazioni di numerosi Stati africani, il Tunis Model
Law ha infatti avuto un'importante influenza anche sulla redazione delle Model Provisions, che da esso hanno tratto alcuni principi, sviluppando in
particolare la disciplina contenuta nella Sezione 6 dell'atto, rubricata “Works
of national folklore”. Malgrado la matrice comune, è importante notare come
le Model Provisions abbiano tentato di superare alcune criticità emerse nella
recezione a livello nazionale del Tunis Model Law, ed essenzialmente le difficoltà poste dall'applicazione alle espressioni di folklore di una disciplina
basata sul diritto d'autore. Per sottolineare la presa di distanza da una simile
impostazione, le Model Provisions hanno sostituito il riferimento alle opere
folkloriche con la terminologia “expressions of folklore” 145. Non viene invece
fornita una definizione di “folklore”, “to avoid possible conflict with relevant
definitions which are or may be contained in other documents or legal instruments concerning the protection of folklore” 146. Nelle Introductory
observations il folklore – considerato come “an important cultural heritage of
every nation” – è ritenuto rivestire, in particolare nei Paesi in via di sviluppo,
un fondamentale ruolo nella determinazione dell'identità culturale e sociale.
La nozione di “expressions of folklore”, ai sensi dell'art. 2, è limitata alle pro duzioni caratterizzanti il patrimonio artistico di una nazione, “developed
and maintained by a community [...] or by individuals reflecting the traditional artistic expectations of such a community”. La necessità di una tutela per
tali espressioni è motivata con la considerazione che il progresso tecnologico
e lo sviluppo di nuovi mezzi di comunicazione aumentano le possibilità di
una loro “improper exploitation” (II Considerando).
Il principio fondamentale della disciplina proposta nelle Model Provisions è
quello per cui una serie di utilizzazioni (comprendenti la pubblicazione, la ri144Disponibile alla pagina:
http://portal.unesco.org/culture/en/files/31318/11866635053tunis_model_law_enweb.pdf/tunis_model_law_en-web.pdf
145Dà atto di questa scelta il Commentario, al Paragrafo 32: “The use of the words
"expressions" and "productions" rather than "works" is intended to underline the fact
that the provisions are sui generis, rather than of copyright. since "works" are the
subject matter of copyright”.
146V. Commentario, par. 31.
65
produzione e la distribuzione di copie di espressioni di folklore, nonché le
loro rappresentazioni pubbliche) a scopo di lucro o al di fuori del contesto
tradizionale o consuetudinario, debbano essere autorizzate da un'autorità
competente designata dallo Stato nel cui territorio risiede la comunità interessata, o dalla comunità stessa (art. 3). Questo comporta che da tale
previsione siano escluse le utilizzazioni, anche a scopo di lucro, che abbiano
luogo all'interno del contesto tradizionale o consuetudinario e, per contro,
che sia necessaria l'autorizzazione per quelle utilizzazioni con finalità lucrative effettuate anche da membri della comunità di origine dell'espressione, ma
fuori dal contesto147. Sarebbero invece legittime le utilizzazioni non a scopo
di lucro, pur al di fuori del contesto: in questo modo si intende rendere più
agevole la realizzazione di copie al fine di una loro conservazione o a fini di
ricerca148. Sono poi previste dall'art. 4 delle eccezioni all'obbligo di previa autorizzazione, quando: a) l'espressione è utilizzata a scopo educativo; b)
l'utilizzazione ha come fine quello di illustrare il lavoro originale di uno o
più autori, “provided that the extent of such utilization is compatible with
fair practice”; c) l'espressione funge da ispirazione per la creazione di un'opera originale; d) l'utilizzazione ha finalità informative; e) l'utilizzazione ha ad
oggetto la fotografia o la ripresa video di un oggetto contenente un'espressione di folklore, che sia situato permanentemente in un luogo aperto al
pubblico.
Per tutte le utilizzazioni che comportino la pubblicazione o la comunicazione al pubblico di una espressione di folklore, inoltre, è necessario che
venga citata la fonte, mediante la menzione della comunità cui l'espressione
fa riferimento o la zona geografica da cui essa proviene.
L'art. 6 è dedicato alle offenses. Ne sono indicati quattro differenti tipi, che
possono avere luogo singolarmente o congiuntamente 149: a) la mancata indicazione della fonte, derivante da dolo o negligenza; b) l'utilizzazione, sempre
volontaria o negligente, di un'espressione di folklore in violazione dell'art. 3
e in mancanza di autorizzazione; c) qualunque comportamento volontario,
diretto o indiretto, idoneo a creare un errato convincimento circa la provenienza dell'espressione utilizzata; d) la volontaria “distorsione”150 di
147Ivi., par. 41.
148Ivi, par. 46.
149Ivi, par. 62.
150“The term 'distorting' covers any act of distortion or mutilation or other derogatory
66
un'espressione di folklore nella sua utilizzazione pubblica, quando idonea a
generare un pregiudizio a danno della comunità interessata. Il verificarsi di
una di queste offenses darebbe luogo all'applicazione di una sanzione di natura penale, la determinazione del cui genere e ammontare è rimessa allo Stato
che adotti una simile disposizione151. Inoltre, gli oggetti realizzati in violazione di tali disposizioni devono essere distrutti o soggetti ad altre sanzioni,
stabilite dallo Stato, idonee a ridurre o limitare le conseguenze dannose della
violazione (art. 7). A differenza delle sanzioni principali, queste ultime, che
hanno carattere accessorio, possono avere natura non penale. Sono fatte salve
dall'art. 8 le sanzioni civili eventualmente applicabili 152.
L'art. 10 prevede che la richiesta di autorizzazione sia fatta in forma scrit153
ta , e che il rilascio dell'autorizzazione stessa possa essere subordinato al
pagamento di una fee, da destinare eventualmente alla promozione o alla salvaguardia
della
cultura
o
del
folklore
nazionale.
Il
diniego
dell'autorizzazione dovrebbe essere motivato in ordine alle ragioni che lo
hanno determinato154.
Quanto ai rapporti con altre forme di protezione, l'art. 12 stabilisce che la
disciplina contenuta nelle Model Provisions, una volta recepita nell'ordinamento interno di uno Stato, debba essere applicata senza pregiudizio della
tutela eventualmente offerta dalla legislazione interna sulla proprietà intellettuale o dai trattati internazionali di cui lo Stato sia parte, né di altre forme di
action in relation to the expression of folklore published, reproduced, distributed,
performed or otherwise communicated to the public by the culprit”: Commentario,
par. 61.
151“The two main types of possible punishments appear to be fine and imprisonment”:
ibid., par. 63.
152“This Section emphasizes that the penal sanctions provided for in Section 6 are no
substitute for damages or other civil remedies; on the contrary. Section 6 is without
prejudice to the availability of such remedies. Such remedies typically include compensation for any damage caused by the unlawful utilization of the expression of folklore. such as the loss of fees normally requested for proper authorization. They also
include compensation for any harm done to the reputation of the community concerned on account of the distortion of the expression of folklore”: ibid., par. 71.
153Ovviamente, data la natura non vincolante delle Model Provisions, è scelta discrezionale dello Stato se prevedere per la richiesta la forma scritta a pena di invalidità, o
ammettere anche richieste in forma orale. Come chiarisce il Commentario, par. 80, “By
placing the words 'in writing' within square brackets. the Model Provisions invite reflection on the question whether oral applications should be allowed.”
154“Such reasons may, inter alia, stem from the proposed kind of utilization, for
example, if the use of artistic forms of a religious ritual is intended in the framework
of a night club show”: Commentario, par. 83.
67
protezione specificamente riferite al folklore.
Particolarmente importante è la previsione di cui all'art. 13, secondo cui
l'atto normativo ispirato alle Model Provisions “shall in no way be interpreted
in a manner which could hinder the normal use and development of expressions of folklore”. Questa statuizione è da porre in relazione con la natura sui
generis della tutela ai sensi delle Model Provisions, tra le cui intenzioni vi è
quella di proteggere le espressioni di folklore da eventuali utilizzazioni in
danno della comunità o distorsive dell'espressione stessa, ma al contempo
quella di consentirne l'evoluzione, data la loro caratteristica di essere in continuo divenire. Una disciplina, pertanto, abbastanza rigida da prevenire o
quantomeno sanzionare gli abusi, ma anche abbastanza flessibile da rendere
possibile che le espressioni di folklore si mantengano vitali 155. In questa prospettiva qualunque utilizzazione da parte di uno o più membri della
comunità di provenienza della specifica espressione sarebbe da considerare
legittima senza necessità di previa autorizzazione, e d'altra parte che nessuna
utilizzazione effettuata nell'ambito della comunità possa essere considerata
distorsiva, “if the community identifies itself with the present-day use of that
expression and its consequent modification”156. Manca tuttavia nel testo delle
Model Provisions una nozione di “comunità”, e di cosa si debba intendere
quando si parla di “origine” dell'espressione culturale o di sua
“derivazione”. Si tratta di un aspetto non secondario in quanto, come si è visto157, tale concetto è tutt'altro che univoco, e la relativa definizione risente
dell'effetto di numerosi fenomeni (es. emigrazione, presenza stanziale di una
“comunità” sul territorio di più Stati), che determinano una non necessaria
coincidenza tra i confini statuali e il territorio di riferimento di un gruppo
portatore di una determinata “cultura”. In conseguenza di ciò, qualunque
scelta legislativa che ometta di tenere conto di una tale circostanza risulterebbe arbitraria. E, non essendovi indicazioni in proposito nell'atto, la relativa
determinazione risulta interamente rimessa ai singoli Stati.
L'art. 14, infine, si occupa delle espressioni di folklore di altri Paesi, stabilendo che la loro protezione all'interno dello Stato possa essere subordinata
alla condizione di reciprocità ovvero sia regolata da trattati o altri accordi tra
Stati.
155V. Commentario, par. 28.
156Ivi, par. 92.
157V. Capitolo I, par. 1.2
68
In dottrina è stato sostenuto che uno dei maggiori vantaggi della tutela approntata dalle Model Provisions, a differenza degli altri strumenti di tutela
della proprietà intellettuale, risiede nel fatto che essa non è limitata nel tempo158. La ragione di ciò è che “the protection of the expression of folklore is
not for the benefit of individual creators but a community whose existence is
not limited in time”159. Il Commentario, tuttavia, precisa che l'assenza di limiti temporali non ha effetto sulle norme statali che eventualmente stabiliscano
termini di prescrizione per la proposizione dell'azione civile o per l'applicazione di quella penale160. Si è pure posto l'accento sulla circostanza che, a
differenza che per la disciplina del copyright, la protezione ai sensi delle Model Provisions spetta alle espressioni di folklore a prescindere dalla previa
fissazione su un supporto161. Sono, tuttavia, come si è detto, fatti salvi dall'art.
12 i diritti di proprietà intellettuale spettanti, ad esempio, ai produttori di fonogrammi che incorporino espressioni di folklore. In virtù del principio di
specialità, perciò, tali espressioni ricevono una tutela speciale, appunto, fintantoché non siano “fissate”. Da questo momento in poi, invece, la disciplina
speciale e quella generale iniziano ad operare congiuntamente. Non è chiarito, però, come debbano essere regolati i casi di potenziale conflitto tra le due
discipline: si pensi ad esempio all'ipotesi in cui un fonogramma che incorpori
una espressione di folklore sia legittimo ai sensi della legislazione sul copyright, ma costituisca una violazione della normativa statale ispirata alle
Model Provisions162.
Si è inoltre affermato che esse introdurrebbero una sorta di diritto mora-
69
le163, ma a titolarità collettiva164. Ma, come è stato rilevato da altra dottrina, la
questione della “titolarità” dell'espressione di folklore viene deliberatamente
elusa dalle Model Provisions: “[d]ue to the fact that in many countries the
rights to folklore vest in the state, the Model Provisions avoid the concept of
ownership”165. Difatti il testo dell'atto stabilisce esclusivamente che le utilizzazioni a scopo lucrativo al di fuori del contesto tradizionale devono essere
autorizzate, prevedendo che la competenza a rilasciare tale autorizzazione
possa spettare ad un'autorità statale o alla comunità di origine dell'espressione, senza però approfondire in merito al concetto di origine. Pare perciò
improprio parlare di diritto morale, considerato che manca la definizione del
presupposto fondamentale per la sua esistenza, cioè il suo titolare.
Si può in ogni caso riconoscere alle Model Provisions un importante merito,
e cioè quello di avere alimentato a livello internazionale un dibattito che fino
a quel momento aveva avuto il suo maggiore sviluppo a livello nazionale e
locale. Malgrado, infatti, esse si rivolgano ai singoli Stati, l'intermediazione di
WIPO e UNESCO ha favorito il confronto di orientamenti spesso molto distanti, cercando al contempo di elaborare un sistema di tutela che
mantenesse un nucleo minimo di principi inalterato, lasciando agli Stati la facoltà di modellare le restanti parti nel modo più confacente alle proprie
esigenze166. L'abbandono del Draft Treaty, tuttavia, ha arrestato il percorso
163Il diritto morale dell'autore è configurato dall'art. 6Bis della Convenzione di Berna
sulla protezione delle opere letterarie e artistiche come “il diritto di rivendicare la
paternità dell’opera e di opporsi a qualunque deformazione, mutilazione e altra
modificazione della detta opera, nonché a qualsiasi altra lesione all’opera stessa che
fossero pregiudizievoli al suo onore o alla sua reputazione”. Si tratta di un diritto
non trasferibile e il cui esercizio non è soggetto a limitazioni temporali: l'autore
conserva la facoltà di esercitarlo durante tutto il corso della sua vita, mentre dopo la
sua morte tale facoltà può – dalle singole legislazioni statali – essere attribuita a
specifici soggetti (nel nostro ordinamento ai familiari dell'autore). L'autore mantiene
i diritti morali relativamente ad una sua opera “[i]ndipendentemente dai diritti
patrimoniali d’autore, e anche dopo la cessione di tali diritti”.
164Ibid.Si avrebbe in questo caso una doppia particolarità: per un verso la titolarità
collettiva, a differenza di quella individuale o pluripersonale della disciplina
comune; per altro verso, con riferimento agli ordinamenti di common law, la stessa
previsione di un diritto morale costituirebbe un'innovazione, data la loro estraneità a
tale istituto.
165KURUK, P., Protecting Folklore Under Modern Intellectual Property Regimes: a
Reappraisal of the Tension Between Individual and Communal Rights in Africa and the
United States, in 48 Am. U.L. Rev., 1999, 815.
166Si può in proposito osservare che, data la rilevanza di alcune scelte rimesse alla discrezionalità del singolo Stato, l'efficacia di una simile tutela minima potrebbe essere
comunque compromessa. Come già puntualizzato in più occasioni, è sufficiente l'esi-
70
verso una vera estensione del progetto sul piano internazionale.
Un nuovo slancio verso l'internazionalizzazione si è avuto a partire dalla
fine degli anni '90. Nel 1999, in particolare, WIPO e UNESCO (in questa occasione di nuovo assieme) hanno avviato quattro Regional Consultations on the
Protection of Expressions of Folklore, cui hanno preso parte Stati membri, organismi sovranazionali e anche un piccolo numero di organizzazioni non
governative. Dalle raccomandazioni adottate nel corso di tali consultazioni
emerse la richiesta della creazione di un organismo autonomo di raccordo tra
gli Stati nella materia della protezione delle espressioni di folklore. Questo è
avvenuto nel 2000, con l'istituzione dell'Intergovernmental Committee on Intellectual Property and Genetic Resources, Traditional Knowledge and
Folklore (di seguito denominato IGC), nel corso della XXVI Sessione dell'Assemblea Generale WIPO167. In questa sede gli Stati membri, prendendo atto
che l'emergere di nuove tecnologie ha creato nuove possibilità di sfruttamento economico delle cosiddette genetic resources168 e delle conoscenze
tradizionali che ne sono alla base, e che al contempo – per quanto più specificamente attiene a questo lavoro - “[o]ther tradition-based creations, such as
expressions of folklore, have [...] taken on new economic and cultural significance within a globalized information society”, hanno recepito l'esigenza
emersa dalle Regional Consultations, rilevando altresì, data la stretta interrelazione tra genetic resources, traditional knowlegde e espressioni di folklore,
l'opportunità che l'organismo istituendo fosse incaricato di tutte e tre le materie. I suoi compiti sono essenzialmente di raccordo tra gli Stati. Sono
ammesse a partecipare alle riunioni dell'IGC anche organizzazioni non governative accreditate, ma in veste di osservatori.
L'IGC ha iniziato la sua attività nel maggio 2001, quando si è tenuta la sua
prima sessione. Da allora si riunisce con cadenza quasi semestrale. Nel 2004
gli Stati membri hanno commissionato allo stesso l'elaborazione di un nuovo
modello normativo, che ha preso il nome di Draft Provisions. Queste vengono
stenza di una tensione tra Stato e comunità “detentrice” di un'espressione di folklore
perché le scelte operate dal primo alimentino quantomeno il sospetto di non essere
del tutto favorevoli nei confronti della seconda.
167Il documento è reperibile online alla pagina:
http://www.wipo.int/meetings/en/doc_details.jsp?doc_id=1460.
168Si intende con questa espressione l'insieme degli elementi “naturali” collegati all'agricoltura tradizionale, come in particolare la varietà di semi e piante. Le conoscenze
tradizionali che hanno ad oggetto l'utilizzazione della terra vengono invece fatte
rientrare nella categoria della traditional knowledge.
71
costantemente aggiornate sulla base dei nuovi orientamenti emergenti in
seno all'IGC. Per favorire la revisione è stato inaugurato, a partire dalla VII
sessione dell'IGC, nel 2005, un Commenting Process, con lo scopo di raccogliere le osservazioni non solo degli Stati, ma anche di soggetti comunità
indigene e organizzazioni non governative portatrici di interessi collegati alle
aree di interesse dell'IGC. Le Draft Provisions, a differenza delle Model Provisions, non sono onnicomprensive: ne esistono due diverse sezioni, relative
rispettivamente a espressioni culturali tradizionali da una parte e conoscenze
tradizionali e risorse genetiche dall'altra. Le ragioni della separazione dei due
campi sono di carattere politico: si è inteso infatti riflettere le pratiche attualmente esistenti a livello nazionale e internazionale, in modo da rendere più
agevole il recepimento169. Sul piano dei contenuti, le Draft Provisions presentano inoltre rispetto alle Model Provisions una maggiore elasticità. Ciò è
determinato dalla diversa genesi che i due atti hanno avuto: le seconde sono
frutto del lavoro di una commissione che ha operato con una certa autonomia, pur nell'ambito delle osservazioni preliminari effettuate dagli Stati, che
hanno svolto in un certo qual modo la funzione di principi generali; le seconde sono il frutto di una continua negoziazione, che nella generalità dei casi
conduce non alla modifica del testo, ma alla sua integrazione con nuove prescrizioni alternative a quelle già presenti, in modo tale che ciascuno Stato
possa “comporre” l'eventuale atto normativo nazionale nel modo ritenuto
più adeguato alle proprie esigenze. Una tale flessibilità non investe solo la
parte prescrittiva delle Draft Provisions, ma anche quella “descrittiva”. Risulta
così che l'espressione "Traditional cultural expressions" può riferirsi sia in
senso lato a qualunque manifestazione – materiale o immateriale – di cultura
169Si legge nel sito internet della WIPO: “There are two distinct sets of provisions, one
dealing with TCEs (or expressions of folklore) and the other with TK. This responds
to the choice made in many cases to address distinctly the specific legal and policy
questions raised by these two areas. However, the draft materials are prepared in the
understanding that for many communities these are closely related, even integral,
aspects of respect for and protection of their cultural and intellectual heritage. The
two sets of draft provisions are therefore complementaryand closely coordinated. Taken together, they do form an holistic approach to protection. This reflects existing
practice at the international and national levels. Some jurisdictions protect both TCEs
and TK in a single instrument. Others use a range of laws and instruments to address
the two areas distinctly. Some laws also address specific aspects of these two areas,
such as biodiversity-related TK or indigenous arts and crafts. The draft objectives
and principles acknowledge those diverse choices and facilitate a holistic approach”:
http://www.wipo.int/tk/en/consultations/draft_provisions/draft_provisions.html.
72
e conoscenze tradizionali sia, in senso stretto, ad espressioni creative 170 riferibili ai “beneficiari” della protezione, che a loro volta possono essere membri
di comunità indigene o di comunità più ampie 171. Viene meno dunque il riferimento alle sole espressioni artistiche, ma non vengono eliminate alcune
ambiguità che, anzi, risultano accentuate dalla estrema variabilità della definizione dell'oggetto della tutela. E' possibile in proposito osservare che
l'attribuzione agli Stati del potere non solo di stabilire se tutelare o no le
170ARTICLE 1 (SUBJECT MATTER OF PROTECTION)
1. "Traditional cultural expressions"1 are any form, tangible or intangible, or a
combination thereof, in which traditional culture and knowledge are embodied and
have been passed on [from generation to generation],/tangible or intangible forms of
creativity of the beneficiaries, as defined in Article 2 including, but not limited to:
(a) phonetic or verbal expressions, such as stories, epics, legends, poetry, riddles and
other narratives; words, [signs,] names, [and symbols];
(b) musical or sound expressions, such as songs, [rhythms,] and instrumental music,
the sounds which are the expression of rituals;
(c) expressions by action, such as dances, plays, ceremonies, rituals, rituals in sacred
places and peregrinations, [sports and [traditional]] games, puppet performances,
and other performances, whether fixed or unfixed;
(d) tangible expressions, such as material expressions of art, [handicrafts,] [works of
mas,] [architecture,] and tangible [spiritual forms], and sacred places. ]
2. Protection [shall] should extend to any traditional cultural expression which is the
[unique] / indicative / characteristic product of a people or community, including
an indigenous people or local community and cultural communities or nations as
defined in Article 2, and [belongs to] is used and developed by that people or
community [as part of their cultural or social identity or heritage]. Protected
traditional cultural expressions shall be:
(a) the products of [creative intellectual activity,] including communal creativity;
(b) indicative of [authenticity/being genuine] of the cultural and social identity and
cultural heritage of indigenous peoples and communities and traditional and other
cultural communities; and
(c) maintained, used or developed by nations, states, indigenous peoples and
communities and traditional and other cultural communities, or by individuals
having the right or responsibility to do so in accordance with the customary land
tenure system or law / customary normative systems or traditional/ancestral
practices of those indigenous peoples and communities and traditional and other
cultural communities, or has an affiliation with an indigenous/traditional
community.
3. The specific choice of terms to denote the protected subject matter should be
determined at the national, regional, and sub-regional levels.
171ARTICLE 2 (BENEFICIARIES)
Measures for the protection of traditional cultural expressions shall/should be for
the benefit of the:
Option 1: Indigenous Peoples, communities2 and nations, Local Communities and
Cultural Communities [and individuals of those communities]
Option 2: Peoples and Communities, [for example] including Indigenous Peoples,
Communities, Local Communities, Cultural Communities, and/or Nations, and
individual groups and families and minorities.
73
espressioni culturali tradizionali, ma altresì di determinare in cosa tale
espressioni consistano ponga alcune questioni. Si è detto delle ragioni politiche che hanno determinato la flessibilità del testo. Tuttavia, proprio sul piano
politico, una tale discrezionalità anche in campo definitorio rischia di compromettere il progetto di avvicinamento delle legislazioni statali in materia di
tutela delle espressioni culturali e delle conoscenze tradizionali. Quanto ai
contenuti, invece, si rileva come il coinvolgimento dei “detentori” e di organizzazioni non governative, seppure sia in grado di influire sul processo di
revisione delle Draft Provisions, non necessariamente è altrettanto idoneo a
influire sul processo di recepimento. In altri termini le comunità insistenti sul
territorio di uno Stato potrebbero essere consultate in sede internazionale,
ma non statale, non essendo previsto un meccanismo di consultazione obbligatorio a questo livello. Di conseguenza si potrebbe verificare la situazione
per cui lo Stato interessato adotti scelte che non coincidano con le esigenze
espresse da tali comunità172.
Le Draft Provisions presentano ad ogni modo alcune ulteriori significative
differenze rispetto alle Model Provisions, oltre a quelle già esaminate. Compare, ad esempio, all'art. 3, il riferimento alle espressioni culturali tradizionali
mantenute segrete dalla popolazione indigena (o dalla comunità di riferimento, o dalla nazione, a seconda dei casi), con riguardo alle quali è prevista
l'adozione di misure adeguate, al fine di prevenirne “unauthorized fixation,
disclosure, use, or other exploitation”173. Sono presenti inoltre alcune disposi[in whom the [custody, and] safeguarding of the traditional cultural expressions are
[entrusted [or bywhom they are held] presumed to be vested] in accordance with:]
[Option 1: the relevant national laws and/or practices
Option 2: their laws and/or practices, including customary law and community
protocols]
[[and] or who maintain, control, use or develop the traditional cultural expressions
as being [characteristic or genuine] indicative expressions of their cultural and social
identity and cultural heritage. In case a traditional cultural expression is specific to a
nation, the authority as determined by the national law.]
172Quanto alla possibilità che una comunità insista sul territorio di più Stati, o che sia in
contrasto con lo Stato, si rimanda alle considerazioni svolte nel primo capitolo e nel
seguente paragrafo.
173Un esempio tra tanti può essere ricavato dai rituali di alcune tribù aborigene
australiane. Vi sono cerimonie sacre alle quali non solo non sono ammessi a
partecipare gli individui estranei alla tribù, ma altresì gli stessi individui della tribù
che non siano in possesso di particolari requisiti. Per lo svolgimento di tali riti è
previsto l'utilizzo di strumenti musicali – in particolare idaki (gli strumenti a fiato in
legno comunemente denominati “didjeridoo”) – anch'essi segreti, realizzati con
particolari decorazioni, che non possono essere a loro volta utilizzate al di fuori dei
74
zioni analoghe a quelle già presenti nelle Model Provisions in materia di citazione della fonte. Nell'alternativa 3, art. B, si parla di “interesse morale” dei
beneficiari ad essere riconosciuti come fonte dell'espressione culturale oggetto di utilizzazione. Viene mantenuta l'impostazione per cui l'utilizzazione
può essere soggetta ad autorizzazione da parte dei beneficiari o da parte di
un'autorità pubblica incaricata, con l'eventuale obbligo per l'utilizzatore di
corrispondere una somma di denaro o altri benefici (art. 4, comma 1). È previsto qui che, anche in questo secondo caso, i beneficiari possano comunque
essere consultati, e che il loro parere possa essere espresso con modalità non
stabilite dalla legge dello Stato, ma in conformità a norme consuetudinarie
(art. 4, comma 1, lett. (c)). Su richiesta dei beneficiari, che hanno anche il diritto di essere consultati, l'autorità competente può altresì svolgere attività di
carattere accessorio rispetto al suo incarico principale, quali: a) attività di sensibilizzazione e divulgazione; b) monitoraggio sull'utilizzo delle espressioni
culturali tradizionali; c) fissazione dei criteri per la determinazione dei benefici monetari e non; d) assistenza nella negoziazione tra beneficiari e
utilizzatori delle espressioni culturali tradizionali (art. 4, comma 2). È posto
l'obbligo di trasparenza in capo all'autorità competente con riguardo alla
provenienza dei benefici, al loro ammontare e alla loro distribuzione tra i beneficiari174. È stata espunta, invece, la previsione – contenuta nelle precedenti
versioni delle stesse Draft Provisions – che stabiliva una differenziazione nella
tutela a seconda che l'espressione culturale tradizionale fosse stata o meno
registrata, e che di tale utilizzazione fosse stata data notifica alla comunità o
autorità competente175.
Rimane esclusa dall'art. 5 – in conformità con il dettato delle Model Proviriti stessi.
174Tale obbligo è stato inserito nella revisione del 2011 in risposta alle critiche mosse
specialmente dalle stesse comunità interessate, che lamentavano l'assenza di criteri
per la riscossione e la ripartizione dei benefici. Osservava S. Von Levinksy in
proposito: allusions have been made to the potential threat that benefits that benefits
would not, or not fully, reach the relevant communities, at least if state agencies were
to be involved: VON LEWINSKI, S., An Analysis of WIPO's Latest Proposal and the
Model Law 2002 of the Pacific Community for the Protection of Traditional Cultural
Expressions, in C. ANTONS (a cura di), Traditional Knowledge, Traditional Cultural
Expressions and Intellectual Property Law in the Asia-Pacific Region, Alphen aan den Rijn,
2009, 117.
175Sosteneva ad esempio S. Von Lewinski: “such a system might be too close to western
thinking and not truly adapted to the needs of indigenous communities, in particular
since the […] registration or notification is in contraddiction to the dynamic, oral
nature of indigenous heritage”: ivi, 116.
75
sions – l'applicazione delle norme in materia di autorizzazione per le utilizzazioni che avvengano all'interno del contesto tradizionale, con il fine di
favorire non solo l'utilizzo, la trasmissione e lo sviluppo delle espressioni culturali (come in precedenza stabilito) ma pure il loro scambio all'interno della
comunità e tra comunità diverse176. Sono inoltre consentite in ogni caso: a) la
registrazione e la riproduzione di espressioni culturali tradizionali realizzate
con il fine di includere le stesse in archivi, inventori o di promuoverne la diffusione per scopi non commerciali e di salvaguardia; b) la creazione di opere
originali da parte di appartenenti alla comunità beneficiaria (o con la loro
partecipazione), ispirate a espressioni culturali tradizionali (Art. 5, comma 4).
Quanto ai limiti temporali della protezione, l'art. 6 prevede alcune differenziazioni. In via generale la protezione dura fintantoché l'espressione
rientri nei requisiti di cui all'art. 1. Tale previsione si applica indistintamente
alle espressioni non segrete ed a quelle segrete. È prevista poi una protezione
illimitata nel tempo con riferimento alle utilizzazioni che comportino la distorsione, mutilazione o altra modificazione o violazione, poste in essere con
lo specifico intento di causare un danno alla comunità, anche alla sua reputazione o immagine (Opzione 1). Infine, con riguardo almeno agli “economic
aspects of traditional cultural expressions”, la loro protezione può essere limitata nel tempo (Opzione 2). Si parla di aspetti economici delle espressioni
culturali tradizionali: mancando ulteriori specificazioni, non è chiaro se la
norma si riferisca agli aspetti economici delle utilizzazioni di tali espressioni,
o a qualcosa che prescinda dall'utilizzazione; in questo secondo caso, ne sarebbe del tutto oscura la portata.
L'art. 8, a differenza di quanto stabilito dalle Model Provisions, attribuisce
ampi poteri agli Stati nella determinazione della natura – civile o penale –
delle violazioni, delle sanzioni e dei rimedi. Ciascuno Stato può, inoltre, prevedere che le controversie in materia di espressioni culturali tradizionali
possano essere deferite ad un organismo indipendente, internazionale o sta176Si precisa che le norme consuetudinarie o le prassi che regolano l'utilizzo nell'ambito
del contesto tradizionale devono essere “consistent with national laws of the member
states” (art. 5, comma 1, lett. (a)). Non è specificato se la compatibilità con la legge
statale debba essere valutata con riguardo ai soli principi generali dell'ordinamento
giuridico o se, invece, lo Stato possa addirittura imporre delle limitazioni positive
all'utilizzo, pur nel contesto tradizionale. In quest'ultima ipotesi, che non pare possa
essere esclusa dall'analisi del dato normativo, vi sarebbe un'evidente contraddizione
con il principio enunciato nel primo periodo dello stesso art. 5.
76
tale.
Infine, è stabilito che la tutela accordata dalla normativa statale ispirata
alle Draft Provisions non debba pregiudicare quella prevista da eventuali strumenti internazionali in materia di proprietà intellettuale.
Concludendo, l'estrema varietà delle soluzioni normative attualmente
possibili per i singoli Stati, grazie alla elasticità delle Draft Provisions, pur rispondendo all'esigenza di favorire il loro recepimento, rischia di allontanare
l'obbiettivo primario, ossia l'armonizzazione delle legislazioni statali. Se, infatti, risulta arduo persuadere lo Stato ad adottare una disciplina della
materia, in assenza di precedenti normativi, potrebbe non essere più semplice, una volta che tale disciplina sia “entrata a regime”, convincerlo a
modificarla, incidendo su situazioni giuridiche sorte nel frattempo e su rivendicazioni di comunità o individui che potrebbero perdere privilegi
acquisiti.
Una menzione merita anche il Cultural Heritage Program avviato da WIPO
negli ultimi anni in parallelo con l'attività dell'IGC, con lo scopo di raccogliere e documentare le migliori pratiche in materia di protezione delle
espressioni culturali tradizionali con strumenti di proprietà intellettuale, sviluppate da Stati, istituzioni pubbliche e private. A tal fine la WIPO
commissiona a esperti lo svolgimento di indagini, con lo scopo di accertare lo
“stato dell'arte” in specifici Paesi o regioni geografiche. I risultati delle indagini confluiscono poi in un database online, nel quale è possibile verificare,
per singoli Stati e aree di interesse, l'esistenza di una specifica disciplina o di
altre risorse.
Attraverso conferenze, seminari, pubblicazioni e altri progetti indirizzati
alle comunità indigene (e talvolta realizzati con il coinvolgimento delle stesse), l'organizzazione tende a favorire una maggiore sensibilizzazione
sull'argomento della tutela delle espressioni culturali e delle conoscenze tradizionali anche tra gli individui, presumibilmente con l'obbiettivo di far sì
che le future scelte degli Stati vengano sollecitate da un'opinione pubblica
consapevole. Tuttavia, la mancata previsione nel testo normativo di riferimento – quello delle Model Provisions – di uno strumento istituzionale di
raccordo e consultazione tra livello governativo e soggetti beneficiari della
tutela, comporta che una tale eventualità sia rimessa a scelte discrezionali del
singolo Stato. L'opera di divulgazione e sensibilizzazione rischia perciò di
77
non produrre i risultati sperati.
1.2 L'UNESCO la e salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
Uno dei più importanti e discussi progetti promossi dall'UNESCO negli
ultimi decenni concerne la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio
culturale immateriale (di seguito ICH), firmata a Parigi nel 2003177 in seno alla
trentaduesima Conferenza Generale dell'Organizzazione.
L'adozione della Convenzione costituisce per la verità la tappa di un percorso intrapreso dall'UNESCO a partire dagli anni '70. Esso ha tratto origine,
in particolare, da una proposta della delegazione boliviana del 1973, con la
quale lo Stato sudamericano proponeva l'elaborazione di un Protocollo da
annettere alla Convenzione Universale sul Diritto d'autore, che riguardasse
espressamente le arti popolari e il patrimonio culturale di tutte le nazioni. In
quegli stessi anni, com’è noto, l'UNESCO aveva avviato una collaborazione
con WIPO, culminata con l'adozione, nel 1985, delle Model Provisions. Durante questo periodo, il processo innescato dalla proposta della Bolivia era
rimasto sopito, per poi riprendere vigore nella seconda metà degli anni '80,
una volta conclusa l'esperienza collaborativa delle due istituzioni.
Il rinnovato interesse nei confronti del progetto di tutela del patrimonio
culturale ebbe come suo primo risultato concreto l'emanazione, nel 1989, della Raccomandazione sulla salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore. A
tale proposito si è osservato in dottrina come tale strumento si sia rivelato
“largamente deficitario”178, a causa della scarsa attenzione da esso dedicata ai
soggetti “portatori” delle espressioni culturali cui si riferisce179.
177L'adozione ha avuto luogo il 17 ottobre 2003, in seno alla XXXII Conferenza Generale
UNESCO. Tutte le decisioni adottate in tale sede sono consultabili su internet alla pagina:
http://portal.unesco.org/en/ev.phpURL_ID=8731&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SE
CTION=201.html
178L. ZAGATO, La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, in Le
identità culturali nei recenti strumenti UNESCO. Un approccio nuovo alla costruzione della
pace?, a cura di L. Zagato, I, Padova, 2008, 31.
179Si veda in proposito J. BLAKE, Developing a New Standard-setting Instrument for the
Safeguarding of Intangible Cultural Heritage Elements for consideration, UNESCO, 2001,
che scrive: “A major criticism of the Recommendation is that it is heavily weighted
towards a view of ‘safeguarding’ designed with the needs of scientific researchers
and government officials in mind. There is too much emphasis on the role of such
‘outsiders’ in the identification, dissemination and conservation of folklore. This is
out of tune with more recent calls by indigenous groups for strengthening their role
in such activities through capacity-building and other measures. Such calls must be
78
Nel 1992 viene varato l'Intangible Heritage Program, che si articola in diversi
progetti tematici. Tra questi spiccano il progetto “Living Human Treasures”
e il programma intitolato “Proclamation of Masterpieces of the Oral and Intangible Heritage of Humanity”180. Quest'ultimo, in particolare, ha avuto la
sua prima applicazione pratica nel 2001, con la proclamazione dei primi diciannove “capolavori”.
Nel 2003, infine, l'approvazione della Convenzione sull'ICH ha conferito
una veste istituzionale più compiuta al programma, proseguendo con la politica di riconoscimento e proclamazione. Tuttavia, si può affermare che anche
in tale sede l'UNESCO abbia perso l'occasione di affrontare alcune criticità
emerse dal lavoro precedentemente svolto, facendo prevalere le ragioni più
squisitamente politiche del progetto181.
Come è evidente dallo stesso titolo della Convenzione e dall'indicazione
dei suoi scopi, contenuta nell'art. 1, lett. a), essa ha ad oggetto non tanto una
generica tutela del patrimonio culturale immateriale, quanto piuttosto la sua
salvaguardia. La scelta del termine non è casuale: “salvaguardia” richiama
l'idea di qualcosa la cui esistenza è minacciata, e che per questo necessita di
una specifica protezione. Infatti, come si legge nell'art. 2, par. 3, nella definitaken account of in any future instrument drafted for protecting intangible heritage.
There are occasional nods in the text towards the ‘group’ for whom and by whom
folklore should be safeguarded and the ‘tradition-bearers’ of such folklore. However,
in many cases the promise of such references is not followed through into the specific
actions to be taken by Member States and the text appears to suggest that the
originating”.
180“Il primo, richiamando l'esperienza legislativa giapponese e coreana degli anni '50,
dà riconoscimento ufficiale – attraverso la creazione di una lista ad hoc – ai 'portatori
umani' che incarnano particolari abilità, competenze, conoscenze tradizionali,
ripromettendosi di facilitarne la trasmissione alle future generazioni. Il secondo è
stato varato nel 1997. […] La proclamazione dei capolavori – ad opera di una giuria
internazionale stabilita dalla stessa UNESCO – prevista su base biennale, ha in effetti
avuto luogo nel 2001, 2003 e 2005”: ZAGATO, La Convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale intangibile, cit, 31.
181“[L]a crescita di importanza del patrimonio culturale intangibile lungo l'arco degli
anni '90 rappresent[a] ben più che il momento di maturazione di un lungo processo
di progressiva presa di coscienza da parte degli Stati della necessità di dotarsi di uno
strumento ad hoc; è piuttosto il risultato di una discontinuità, ovvero la presa d'atto
della centralità che beni e manifestazioni culturali – e la loro eventuale distruzione –
rivestono nei nuovi conflitti identitari”: ivi., 29; “Il dibattito restava concentrato
esclusivamente sui profili istituzionali del nuovo strumento, nonché sulla sorte della
Lista dei capolavori del patrimonio orale e intangibile dell'umanità. Malgrado ciò, il
Progetto venne poi approvato in sede di 32° Conferenza generale con pochissime
modificazioni. La rapidità del procedimento […] costituisce indizio delle presenza di
importanti problemi rimasti irrisolti”: ivi., 34.
79
zione di “salvaguardia” rientrano anche le attività di preservazione, protezione e ravvivamento del patrimonio culturale 182. Anche nei “considerando”
viene esplicitata in maniera chiara un'impostazione in tal senso. Si riconosce,
ad esempio, che “i processi di globalizzazione e di trasformazione sociale, assieme alle condizioni che questi ultimi creano per rinnovare il dialogo fra le
comunità, creano altresì, alla stregua del fenomeno dell’intolleranza, gravi
pericoli di deterioramento, scomparsa e distruzione del patrimonio culturale
immateriale, in particolare a causa della mancanza di risorse per salvaguardare tali beni culturali, consapevoli della volontà universale e delle
preoccupazioni comuni relative alla salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale dell’umanità”; si ritiene, inoltre, che vi sia “il bisogno di creare
una maggiore consapevolezza, soprattutto fra le generazioni più giovani, riguardo alla rilevanza del patrimonio culturale immateriale e alla sua
182 Cfr. art. 2 (Definizioni)
Ai fini della presente Convenzione,
1. per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni,
le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i
manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in
alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale.
Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è
costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla
loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di
continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la
creatività umana. Ai fini della presente Convenzione, si terrà conto di tale patrimonio
culturale immateriale unicamente nella misura in cui è compatibile con gli strumenti
esistenti in materia di diritti umani e con le esigenze di rispetto reciproco fra
comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile.
2. Il “patrimonio culturale immateriale” come definito nel paragrafo 1 di cui sopra, si
manifesta tra l’altro nei seguenti settori:
a) tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio, in quanto veicolo
del patrimonio culturale
immateriale;
b) le arti dello spettacolo;
c) le consuetudini sociali, gli eventi rituali e festivi;
d) le cognizioni e le prassi relative alla natura e all’universo;
e) l’artigianato tradizionale.
3. Per “salvaguardia” s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio
culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la
preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in
particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento
dei vari aspetti di tale patrimonio culturale.
4. Per “Stati contraenti” s’intendono gli Stati vincolati dalla presente Convenzione e per
i quali la presente Convenzione è in vigore.
5. La presente Convenzione si applica mutatis mutandis ai territori di cui all’articolo 33
che divengono Stati contraenti della presente Convenzione conformemente alle
condizioni stabilite in detto articolo. In questo contesto l’espressione “Stati contraenti”
si riferisce anche a questi territori.
80
salvaguardia”183. La salvaguardia, ai sensi della Convenzione, ha perciò la
funzione di garantire la vitalità delle espressioni culturali immateriali.
Quanto all'oggetto della Convezione, il patrimonio culturale immateriale,
esso è definito come l'insieme delle “prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i
manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi
e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio
culturale”. Tale patrimonio è da una parte “trasmesso di generazione in generazione”, dall'altra “costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in
risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia,
e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. Sono invece
espressamente escluse tutte le espressioni culturali immateriali che non siano
“compatibil[i] con gli strumenti esistenti in materia di diritti umani e con le
esigenze di rispetto reciproco fra comunità, gruppi e individui nonché di sviluppo sostenibile”.
Un ampio dibattito in dottrina ha preso il via all'indomani dell'adozione
della Convenzione, ed è proseguito con ancora maggior vigore a seguito della sua applicazione pratica, dalla quale sono emersi ulteriori spunti critici.
Tale dibattito ha avuto in particolare ad oggetto la definizione di “patrimonio
culturale
immateriale”
e
il
procedimento
approntato
per
la
“salvaguardia” delle espressioni culturali immateriali. In particolare, ci si è
chiesti se e quanto lo strumento delle liste rappresentative sia utile ed efficace
per il perseguimento degli scopi della Convenzione.
Per quanto riguarda la nozione di “patrimonio culturale immateriale”, la
scelta dell'espressione è stata una decisione “di compromesso”, date le difficoltà per la comunità accademica nel fornire una definizione univoca di
termini – quali ad esempio “folklore” e “cultura tradizionale” – di uso più comune184. Si è optato perciò per una categoria “artificiale”, la cui estensione è
183Il testo integrale della Convenzione nella traduzione italiana ufficiale è reperibile al
sito: http://www.unesco.org/culture/ich/doc/src/00009-IT-PDF.pdf.
184“The technical, somewhat awkward term ‘intangible cultural heritage’ was selected
because of the many difficulties cultural workers and scholars have encountered in
an international, comparative context, with the use and misunderstanding of such
terms as ‘folklore’, ‘oral heritage’, ‘traditional culture’, ‘expressive culture’, ‘way of
life’, ‘folklife’, ‘ethnographic culture’, ‘community-based culture’, ‘customs’, ‘living
cultural heritage’, and ‘popular culture’”: R. KURIN, Safeguarding Intangible Cultural
Heritage in the 2003 UNESCO Convention: a critical appraisal, in Musem International,
81
funzionale alla sola applicazione della Convenzione. La scelta di adottare
una categoria costruita ad hoc non solo evita di affrontare il problema definitorio, ma ne crea potenzialmente di nuovi. Resta aperta anzitutto la
questione di cosa sia cultura e cosa non lo sia. Controversa, a tale proposito, è
l'esclusione operata nei confronti delle espressioni contrarie al principio del
rispetto dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile 185. Crea qualche incertezza, inoltre, l'inclusione nella previsione dell'art. 2, par. 1, anche di beni
indiscutibilmente materiali, quali strumenti, manufatti etc. Dà atto di questa
ambiguità la deliberazione del Comitato intergovernativo per la salvaguardia
del patrimonio culturale immateriale186, nella sua quinta sessione (Algeri, 1819 Novembre 2006), contenente la bozza di determinazione dei criteri per
l'inserimento nella prima lista rappresentativa. Nelle annotazioni relative al
primo criterio – “Fall within one or more of the domains listed in Article 2.2
of the Convention” – si legge: “Article 2.1 includes in its definition of ICH not
only 'practices, representations, expressions, knowledge, skills' but also 'the
LVI, I-II, 2004, 67.
185Scrive ancora KURIN, ivi, 70:“Determining what is allowable or not as intangible
cultural heritage under the Convention will be a difficult task [...]The Convention’s
standard is quite idealistic, seeing culture as generally hopeful and positive, born not
of historical struggle and conflict but of a varied flowering of diverse cultural ways.
Including the ‘mutual respect’ standard can however disqualify much of the world’s
traditional culture from coverage by the Convention. […] The standard of
‘sustainability’ is noteworthy but problematic. [...]Sustainability here is an ideal to be
achieved, not an eligibility requirement for action. Cultural workers will have to
figure out the degree to which a tradition may be sustained – much more a matter of
professional judgement than legal stricture. […] For many peoples, separating the
tangible and the intangible seems quite artificial and makes little sense. For example,
among many local and indigenous communities, particular land, mountains,
volcanoes, caves and other tangible physical features are endowed with intangible
meanings that are thought to be inherently tied to their physicality. Similarly, it is
hard to think of the intangible cultural heritage of Muslims on the hajj, Jews praying
at the western wall of Jerusalem’s temple, or Hindus assembling for the kumbh mela
as somehow divorced and distinct from the physical instantiation of spirituality.
Given that the Convention, in effect, operationally makes the intangible tangible, the
conceptual distinction and separation of the two domains is problematic”.
186Istituito ai sensi dell'art. 5 della Convenzione, con i seguenti compiti, indicati all'art.
7:
a) promuovere gli obiettivi della presente Convenzione nonché sostenere e
sorvegliare la sua attuazione;
b) consigliare sulle migliori prassi da seguire e formulare raccomandazioni sulle
misure volte a salvaguardare il patrimonio culturale immateriale;
c) elaborare e sottoporre all’Assembla generale per l’approvazione un progetto per
l’uso delle risorse del Fondo, conformemente all’articolo 25;
d) cercare il modo di accrescere le risorse e adottare tutte le misure necessarie a
tal fine, in conformità con l’articolo 25.
82
instruments, objects, artefacts and cultural spaces associated therewith'. Experts felt that such objects or spaces cannot be inscribed without the
practices, etc. with which they are associated”187.
In dottrina si è sostenuto che l'impianto della Convenzione sarebbe in
qualche modo viziato dall'utilizzo di un approccio “occidentale”, si potrebbe
dire “paternalistico”, che inficerebbe la sua stessa credibilità, prima ancora
che l'efficacia. L'ampia portata della nozione di “patrimonio culturale intangibile”, che nelle intenzioni degli Stati contraenti avrebbe dovuto consentire
l'estensione della protezione al più vasto ambito possibile di espressioni culturali, rischia nei fatti di rendere del tutto arbitraria la scelta su quali di esse
sottoporre a riconoscimento e quali no188.
Tali criticità risultano accentuate dagli strumenti per la salvaguardia previsti dalla Convenzione. Come si è accennato sopra, il principale di essi è
quello del riconoscimento. Nella terminologia dell'Intangible Heritage Program
si parlava di “masterpieces”, espressione che ha continuato ad essere invalsa
anche sotto la vigenza della Convenzione, per essere dismessa nel 2005, con
l'entrata in vigore di quest'ultima (art. 31, par. 3) – “anche per l’evidente ambiguità della definizione di capolavoro a proposito di espressioni
appartenenti a culture diverse”189 – in favore della istituzione di due liste rappresentative del patrimonio intangibile, la “Representative List of the ICH”
(art. 16) e la “List of Intangible Heritage in Need of Urgent Safeguarding”
187Il
testo della deliberazione è reperibile su internet alla pagina:
http://unesdoc.unesco.org/images/0017/001776/177677e.pdf.
Si ritrova un'analoga osservazione nelle parole di R. Kurin, al tempo
dell'approvazione della Convenzione Direttore del “Smithsonian Institution Centre
for Folklife and Cultural Heritage”, che ha avuto un ruolo centrale nell'elaborazione
della convenzione. Costui scrive: “Craft items, such as magnificently elaborate
Lithuanian crosses are tangible, but the knowledge and skills to create them
intangible. Tools are tangible, but plans, if thought are not, but if drawn are”: ibid.
188Scrive in proposito l'antropologa B. Kirshenblatt-Gimblett: “By admitting cultural
forms associated with royal courts and state-sponsored temples, as long as they are
not European, the intangible heritage list preserves the division between the West
and the rest and produces a phantom list of intangible heritage, a list of that which is
not indigenous, not minority, and not non-Western, though no less intangible”:
KIRSHENBLATT-GIMBLETT, B., Intangible Heritage as Metacultural Production, in
Musem International, LVI, I-II, 2004, 57. Si vedano anche le interessanti osservazioni
contenute in M.L. CIMINELLI, Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e
possibili effetti collaterali: etnomimesi ed etnogenesi, in Le identità culturali nei recenti
strumenti UNESCO. Un approccio nuovo alla costruzione della pace?, a cura di L. Zagato,
I, Padova, 2008, 99 ss.;
189I. MACCHIARELLA, Dove il tocco di Re Mida non arriva. A proposito di proclamazioni
Unesco e musica, in Ricerca Folklorica, 63, 2011, in corso di pubblicazione.
83
(art. 17). In casi di estrema urgenza, inoltre, sulla base di “criteri obbiettivi
[...] approvati dall’Assemblea generale su proposta del Comitato 190”, quest'ultimo può iscrivere una voce del patrimonio culturale in oggetto nella Lista di
cui al paragrafo 1, previa consultazione con lo Stato contraente interessato”.
Interlocutori esclusivi del Comitato, nel procedimento di riconoscimento,
sono gli Stati aderenti alla Convenzione, ai quali soli spetta il potere di sottoporre all'UNESCO la candidatura delle espressioni culturali immateriali
presenti all'interno dei loro territori. Tale potere esclusivo si esplica con riguardo ad entrambe le liste. L'interrogativo che sorge spontaneo, a questo
proposito, è quale debba essere la sorte delle espressioni culturali la cui esistenza sia minacciata proprio dallo Stato “interessato”, ad esempio perché
facenti riferimento ad una minoranza etnica, religiosa etc., osteggiata dal Governo centrale o da uno o più governi locali. Parrebbero in questo modo
contraddetti gli stessi principi ispiratori della Convenzione. Allo stesso
modo, una simile situazione risulta difficilmente compatibile con il rispetto
dei diritti umani, cui invece, come si è visto, sono vincolate le espressioni che
ambiscano ad ottenere il riconoscimento. Manca inoltre una precisa determinazione dei criteri per l'individuazione dei casi di urgenza, che non rientrino
in quelli di “estrema urgenza”. L'assenza di criteri certi ha prodotto risultati
in alcuni casi paradossali, come la candidatura di forme espressive al riconoscimento nella seconda lista al solo fine di ottenere che la relativa domanda
godesse di una “corsia preferenziale”, invece che attendere i più lunghi tempi necessari per l'esame delle candidature relative alla prima lista.
Paradossali perché lo stratagemma ha effettivamente funzionato191.
190Art. 5 Comitato intergovernativo per la salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale
1. Viene qui istituito nell’ambito dell’UNESCO un Comitato intergovernativo per la
salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, in seguito denominato “il
Comitato”. Esso sarà composto dai rappresentanti di 18 Stati contraenti che vengono
nominati dagli Stati contraenti riuniti in Assemblea generale dopo che la presente
Convenzione sarà entrata in vigore conformemente all’articolo 34.
2. Il numero di Stati membri del Comitato sarà aumentato a 24 non appena 50 Stati
contraenti avranno aderito alla presente Convenzione.
191Un esempio di ciò si ritrova citato in I. MACCHIARELLA, op. cit. Macchiarella, al
tempo della CIG di Abu Dhabi consulente UNESCO, racconta alcuni retroscena della
proclamazione della “Paghjella”, una forma di canto polifonico originaria della
Corsica, avvenuta proprio nel corso di quella Conferenza: “Tra le altre cose, nel
dossier si afferma che oggi nell’isola sono attivi solo trenta cantori e solo cinque veri
'maestri di canto'! Una falsità enorme che i responsabili della procedura hanno
giustificato a fronte delle rimostranze dei tantissimi cantori a paghjella dell’isola,
84
È, per la verità, previsto dalla Convenzione il coinvolgimento delle comunità direttamente interessate, ma la previsione ha carattere sussidiario 192;
anche gli Stati al loro interno sono tenuti a compiere “ogni sforzo per garantire la più ampia partecipazione di comunità, gruppi e, ove appropriato,
individui che creano, mantengono e trasmettono tale patrimonio culturale, al
fine di coinvolgerli attivamente nella sua gestione” (art. 5). Si tratta tuttavia
di una previsione che non va oltre la dichiarazione di principio, mancando di
una qualunque forza vincolante. Il ruolo più importante finora svolto dalle
comunità, in fase propositiva, è stato quello di aderire ad una candidatura,
mediante la compilazione in genere di moduli prestampati con i quali i singoli soggetti, in qualità di rappresentanti di una determinata forma di
espressione, ne richiedono l'iscrizione in una delle due liste rappresentative193. A livello internazionale, invece, è prevista dall'art. 9 la possibilità per
“organizzazioni non governative aventi una fondata competenza nel settore
del patrimonio culturale immateriale” di ottenere, su proposta del Comitato
e su nomina dell'Assemblea Generale, l'accreditamento “per esercitare una
funzione consultiva presso il Comitato”. Mancano tuttavia ulteriori specificazioni su come debba essere verificata e valutata tale “specifica competenza”.
C'è poi un ulteriore elemento che merita considerazione, sempre con riferimento al potere esclusivo di proposizione della candidatura spettante agli
Stati. Il testo della Convenzione nulla dice sulla circostanza, assai comune, in
cui la comunità di riferimento di una espressione culturale insista su un terrisostenendo che 'se non avessero scritto ciò, l’Unesco non avrebbe preso in
considerazione la candidatura'”.
192“A chi spetta identificare cosa costituisce il patrimonio culturale intangibile? Alla
stregua dell'art. 2(1) si potrebbe intendere che tale compito spetti a comunità, gruppi
e, in alcuni casi, individui. Ci si troverebbe allora in presenza di un'autentica
rivoluzione: gli Stati parte alla Convenzione si impegnerebbero a salvaguardare e
rispettare un patrimonio che, per ognuno di essi, è lasciato ad entità sub-statuali
identificare. […] In realtà la previsione in esame va raccordata a quella di cui alla Sez.
3. […] La competenza delle entità substatuali nell'individuazione delle
manifestazioni del patrimonio intangibile è di tipo sussidiario. Quanto invece
all'individuazione delle manifestazioni del patrimonio culturale intangibile da
sottoporre a protezione internazionale […], il relativo potere di proposta spetta solo
agli Sati”: ZAGATO, La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile,
cit, 35.
193A me stesso, in qualità di suonatore di launeddas e membro di un'associazione
culturale che ha come scopo sociale la promozione dello strumento, è stato
presentato uno di questi moduli, nei quali eventualmente apporre la mia firma per
sostenere la candidatura dello strumento al riconoscimento nella prima lista
rappresentativa.
85
torio non coincidente con quello di un singolo Stato. In assenza di una specifica disciplina sul punto, si possono ipotizzare diversi plausibili scenari,
alcuni dei quali effettivamente confermati dalla prassi. Una prima ipotesi è
quella in cui due o più Stati, che ospitino al loro interno una determinata comunità, decidano di proporre assieme una candidatura relativa ad una
espressione culturale “appartenente” a tale comunità. Mancando un espresso
divieto, una candidatura “collettiva” di questo tipo si può ritenere legittima194; e si può, anzi, affermare che essa sia auspicabile, alla luce dell'intento –
esplicitato nella Convenzione – di realizzare il più ampio coinvolgimento
delle comunità interessate. Una seconda ipotesi è quella in cui un solo Stato
(o comunque solo alcuni degli Stati potenzialmente interessati) proponga la
candidatura. Qualora il riconoscimento fosse accordato, si avrebbe una conseguenza opposta a quella di cui al caso precedente: la comunità di
provenienza dell'espressione riconosciuta si troverebbe in qualche modo
spossessata della stessa, che verrebbe ad essere considerata – ai sensi della
Convenzione UNESCO – come geograficamente localizzata all'interno di
confini politici rigidi195. Non merita soffermarsi a lungo sulla contraddizione
che una siffatta ipotesi rappresenterebbe rispetto al principio sopra citato. In
una terza ipotesi si potrebbero avere due candidature “confliggenti”, presentate da due o più Stati che rivendichino per sé e solo per sé una determinata
espressione culturale. Non vi sono strumenti nella Convenzione per determinare in che modo un tale conflitto vada risolto, e secondo quali criteri
(cronologico, sulla base della candidatura più tempestiva; qualitativo, sulla
base della candidatura più argomentata; quantitativo, sulla base del maggior
numero di adesioni), o che stabiliscano che in tale ipotesi le candidature debbano essere riunite ed eventualmente accolte congiuntamente.
La politica del riconoscimento sulla base di criteri geografici non tiene
194É quello che è avvenuto con l'iscrizione del “Patrimonio Orale Gedele”, riconducibile
alla comunità Yoruba-Nago, attualmente distribuita tra Benin, Nigeria and Togo:
http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?lg=en&pg=00011&RL=00002.
195Questa circostanza, per la verità, si è già verificata in alcuni casi, come quello dell'iscrizione, nel 2008, della lingua, danza e musica delle comunità Garifuna. Tali comunità, come specificato nello stesso prospetto descrittivo redatto dall'UNESCO, “mainly live in Honduras, Guatemala, Nicaragua and Belize” (questi ultimi sono gli Stati
che hanno proposto la candidatura). Riconoscere che una comunità vive “prevalentemente” nel territorio di uno o più Stati significa implicitamente affermare che esistono parti di quella comunità al di fuori di tali confini. I documenti relativi sono disponibili su internet alla pagina: http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?
lg=en&pg=00011&RL=00001.
86
conto di un ulteriore aspetto: fenomeni come la “delocalizzazione” e la “deterritorializzazione”
della
cultura,
che
nell'ultimo
secolo
–
grazie
all'incremento dei traffici e degli scambi – hanno avuto un notevole sviluppo,
determinano “una non più ovvia coincidenza di luogo, cultura e identità” 196.
Permane, invece, nella Convenzione del 2003, una concezione di cultura superata197, come insieme
di singoli elementi isolati e
considerabili
separatamente e senza relazione con il contesto storico e sociale in cui sono
maturati. Suscita perplessità, in particolare, la palese contraddizione tra la
nozione di patrimonio immateriale, secondo cui esso viene “costantemente
ricreato” – che allude ad una sua vitalità e ad un costante aggiornamento – e
l'idea che tale fenomeno possa essere sintetizzato nell'individuazione di singole espressioni fuori dal tempo e dallo spazio. Ciò è tanto evidente che
nemmeno la dottrina meno ostile alla Convenzione si astiene dal porre in risalto tale circostanza e le sue implicazioni 198. Si consideri, inoltre, la scarsa
rilevanza del ruolo assegnato ai consulenti scientifici, i quali sovente parteci196U. FABIETTI - R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, Introduzione
all'antropologia, Milano, 2002, 106.
197M.L. Ciminelli pone in relazione il concetto di cultura formulato dall'UNESCO con
quello elaborato da E.B. Tylor nel 1871, esaminato nel primo capitolo, e oramai superato: “Sia la Convenzione UNESCO del 2003, sia la Convenzione UNESCO del 2005
fanno appello ad un concetto di cultura di ispirazione antropologica, senza tuttavia
esplicitarne i contenuti”. Qualche lume si trova in un documento dedicato alle '10
chiavi' per la comprensione della diversità delle espressioni culturali, adottato nel
2005 dalla 33ma sessione della Conferenza generale dell'UNESCO […]. Se tanto nella
definizione tyloriana quanto in quella dell'UNESCO, le cui similarità sono palesi, è
chiaramente riconoscibile quell'oggettificazione culturale – l'essenzializzazione, la reificazione delle culture – messa in luce dalla critica antropologica più recente, la versione UNESCO del concetto antropologico di cultura contiene tuttavia una significativa
modifica rispetto a quella di Tylor. […] In essa si perde infatti un elemento prezioso
delle definizione tyloriana, e cioè il riferimento alla complessità di questo insieme, che
risulterebbe altrimenti […] un mero repertorio di “tratti distintivi” slegati tra loro, oltre che – ed anzi in quanto – individuati secondo criteri occidentali”; in M. L. CIMINELLI, M.L., Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e possibili effetti collaterali,
cit. 99-100.
198Scrive ad esempio R. Kurin: “The Convention tends to reduce intangible cultural heritage to a list of largely expressive traditions, atomistically recognized and conceived.
The actions it proposes miss the larger, holistic aspect of culture – the very characteristic that makes culture intangible. This is the intricate and complex web of meaningful social actions undertaken by individuals, groups, and institutions. Thousands of
human cultures today face a myriad of challenges. Whether they survive or flourish
depends upon so many things – the freedom and desire of culture bearers, an adequate environment, a sustaining economic system, a political context within which
their very existence is at least tolerated”; in R. KURIN, Safeguarding Intangible Cultural Heritage, cit. 74-75.
87
pano alle sedute della CIG solo virtualmente, dovendosi riunire in luoghi separati rispetto a quelli in cui le decisioni vengono effettivamente adottate, o
sono invitati ad assistere alle sedute, ma senza diritto di intervento 199.
Tutti questi aspetti rendono arduo, quando non impossibile, il riconoscimento in un elevato numero di ipotesi, che pure sarebbero meritevoli di
tutela sulla base degli stessi principi della Convenzione. Ciò ha portato studiosi ed esponenti di espressioni culturali che ambiscono al riconoscimento, a
cercare di porre in essere in alcuni casi forme di collaborazione trasversale,
dirette a proporre candidature più comprensive possibile, sia dal punto di vista territoriale, sia da quello dell'ampiezza del fenomeno considerato 200. Ma
anche questi tentativi sono destinati a scontrarsi con l'impossibilità di interloquire direttamente con l'Organizzazione. In conseguenza di ciò, l'iniziativa
sarà sempre inevitabilmente rimessa ai singoli Stati di riferimento, la cui volontà (o mancata volontà) continuerà a risultare determinante201.
Per quanto concerne il procedimento attraverso il quale il riconoscimento
viene assegnato, spettava al Comitato – secondo il disposto degli artt. 16, par.
2 e 17, par. 2 – il compito di definire i criteri per l'iscrizione nelle liste rappre sentative. Ciò è avvenuto nel 2006202, mentre la prima applicazione pratica si
è avuta con i riconoscimenti del 2008. Si tratta di criteri tutt'altro che stringenti che – ad eccezione del quinto criterio (l'elemento deve essere stato
previamente “inserito in un archivio sul Patrimonio Culturale Immateriale
presente nel territorio/i degli Stati membri, come indicato negli articoli 11 e
12 della Convenzione”) – lungi dall'imporre parametri oggettivi al Comitato
in sede di esame dei rapporti inviati dagli Stati, attribuiscono nella sostanza a
199Si veda a tal proposito I. MACCHIARELLA, Dove il tocco di Re Mida non arriva, cit.
200Nell'ambito della Conferenza INCONTRO svoltasi a Cagliari a gennaio-febbraio
2011, ad esempio, è emerso il progetto di candidatura della poesia improvvisata –
non di una specifica espressione di essa, ma di tutte quelle riconducibili in
quest'ampia categoria. Per il conseguimento di questo risultato si è proposto un
sodalizio tra poeti improvvisatori e studiosi di quanti più Stati possibile, al fine di
sottoporre all'UNESCO una candidatura congiunta, anche con il fine di garantire alla
stessa maggiore autorevolezza, e di conseguenza maggiori possibilità di successo.
201Si pensi alla pratica della “Falconeria”, iscritta nella prima lista nel 2010, che è stata
attribuita a Emirati Arabi Uniti, Belgio, Repubblica Ceca, Francia, Repubblica di Corea, Mongolia, Marocco, Qatar, Arabia Saudita, Spagna e Siria, ma che è diffusa e vitale in numerosi altri Stati, tra i quali l'Italia. La documentazione è disponibile su internet all'indirizzo:
http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?lg=en&pg=00011&RL=00442
202La tabella con l'indicazione dei criteri è visionabile alla pagina: http://www.unesco.it/_filesPATRIMONIOimmateriale/tabella_criteri_immateriale.pdf
88
tale organo piena discrezionalità nella valutazione della sussistenza dei requisiti in essi indicati. In base al primo criterio sono riconoscibili le
espressioni che costituiscano patrimonio culturale immateriale ai sensi dell'art. 2 della Convenzione. Tale previsione contiene un'elencazione piuttosto
comprensiva di elementi che possono essere tutelati sotto la Convenzione,
completata dal paragrafo 2 dello stesso articolo, in cui si enucleano, in maniera non tassativa, i settori in cui il patrimonio immateriale può manifestarsi 203.
È necessario inoltre che tali espressioni siano riconosciute da comunità, gruppi “e in alcuni casi [da]gli individui […] in quanto parte del loro patrimonio
culturale”. È stabilito inoltre che questo patrimonio culturale immateriale “è
costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia”. Mancano tuttavia
chiarimenti circa cosa si debba intendere per “gruppi” e “comunità”, e quali
“individui” – oltre che in quali casi – possano rilevare ai sensi della disposizione204. Sarà il Comitato, pertanto, a effettuare una tale valutazione caso per
caso.
Il secondo criterio prevede che il riconoscimento sia accordato quando risulti che l’iscrizione dell’elemento sia idonea a contribuire “a garantire
visibilità e consapevolezza del significato di Patrimonio Culturale Immateriale e a favorire il confronto, riflettendo perciò la diversità culturale e la
creatività dell’umanità”.
Il terzo e quarto criterio richiedono, rispettivamente, che le misure di salvaguardia indicate nel dossier allegato alla candidatura siano “elaborate in
modo da poter tutelare e promuovere l’elemento”, e che tale elemento sia stato candidato “sulla base del più ampio riscontro di partecipazione da parte di
comunità, gruppi o, eventualmente, persone singole coinvolte con il loro libero, preventivo e informato consenso”. Oltre a lasciare ampi spazi di
203V. nota 5.
204L. Zagato, ad esempio, ipotizza che in futuro il riconoscimento possa essere richiesto
anche da “comunità elettive”, sottolineando come il dettato della Convenzione non
escluda espressamente questa possibilità: “Va approfondito il richiamo alla necessità
del rispetto reciproco 'tra comunità, gruppi e individui'. […] La dimensione
individuale […] chiama in causa le c.d. comunità elettive, la partecipazione cioè degli
individui, uti singuli, all'esperienza di realtà culturali comuni costruite da gruppi di
fatto. […] Non è allora temerario ritenere trattarsi solo questione di tempo prima che
da qualcuno venga rivendicato il riconoscimento, alla stregua della Convenzione, di
manifestazioni culturali identitarie da parte di comunità elettive”: ZAGATO, La
Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, cit, 36-37.
89
discrezionalità al Comitato, tali criteri impongono che la meritevolezza di tutela debba essere determinata non solo sulla base di caratteristiche
intrinseche dell'espressione candidata, ma anche sulla base della qualità dell'azione svolta dallo Stato che ne propone la candidatura. E alcuni precedenti
alimentano seri dubbi sul rigore della valutazione: si pensi all'inserimento
nella prima lista rappresentativa del teatro tibetano, attribuito alla Cina. Il
criterio strettamente geografico risulta rispettato, ma c'è da chiedersi quanto
il Governo cinese, da sempre ostile alla minoranza tibetana, abbia effettivamente garantito la più ampia partecipazione e il coinvolgimento di tale
comunità, e quale interesse abbia nella promozione internazionale di tale forma espressiva205. Osservazioni analoghe valgono per i criteri relativi alla
seconda lista rappresentativa, quella delle espressioni immateriali che richiedono una salvaguardia urgente206.
Restano infine da esaminare gli effetti del riconoscimento. La sezione 4
della Convenzione (“Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale a livello internazionale”), non ricollega alcun effetto specifico per un elemento
del patrimonio culturale immateriale, in conseguenza della sua iscrizione in
una delle due liste. Come si è visto, il criterio n. 3 per l'inserimento nella prima lista (e il corrispondente criterio per la seconda) impone che siano
elaborate dallo Stato che propone la candidatura misure adeguate a garantire
la salvaguardia e la sopravvivenza dell'elemento. Tuttavia, malgrado le
aspettative spesso nutrite dai rappresentanti delle espressioni candidate, l'efficacia di tali misure è spesso piuttosto blanda, né sono previste sanzioni a
carico dello Stato che non tenga fede agli impegni assunti in sede di candidatura.
Per
quanto
riguarda
l'UNESCO,
l'unica
prova
concreta
del
riconoscimento è data dall'inserimento dell'espressione in un database consultabile sul sito dell'organizzazione, in una pagina dedicata, corredata da
una breve descrizione207 e dai documenti relativi all'approvazione della can205La concisa affermazione della sussistenza dei criteri non aiuta a dissipare questi dub-
bi. I documenti relativi al riconoscimento sono disponibili alla pagina:
http://www.unesco.org/culture/ich/index.php?lg=en&pg=00011&RL=00208.
206Anche in questo caso vi sono precedenti – come l'iscrizione alla seconda lista della
“Paghjella” corsa (v. nota 13) – che inducono a dubitare della precisione dei criteri
e/o dell'accuratezza della verifica svolta dal Comitato.
207Tale descrizione, per di più, non sempre è capace di dar conto appieno della complessità dell'elemento riconosciuto, e talvolta contiene inesattezze, come quelle rilevate da I. Macchiarella a proposito del “Canto a Tenore” della Sardegna, riconosciuto
nel 2008: “i tratti generici di tipicità individuati nel testo si potrebbero grosso modo
90
didatura da parte del Comitato. Sono previsti invece, al di fuori della (o comunque non in necessaria correlazione con la) politica dei riconoscimenti,
altri strumenti di raccordo tra il livello internazionale e quello nazionale.
L'art. 18 attribuisce al Comitato il potere di approvare periodicamente “programmi, progetti e attività per la salvaguardia del patrimonio culturale
immateriale”, mentre la Sezione 5 prevede la possibilità di attivare forme di
“cooperazione e assistenza internazionali”. Tali strumenti potranno essere finanziati da contributi ordinari da parte degli Stati contraenti a favore di un
Fondo, istituito ai sensi dell'art. 25, da “contributi volontari supplementari al
Fondo”, sempre versati dagli Stati (art. 27), e infine con contributi ulteriori
raccolti grazie a “campagne internazionali per la raccolta di fondi” (art. 28).
Se dunque il riconoscimento non comporta vantaggi diretti per le espressioni cui è accordato, in cosa possono essere rinvenute le ragioni del successo
di cui tuttora – malgrado dubbi e sospetti da più parti 208 – continua a godere?
Come è stato posto in risalto in dottrina, quello UNESCO resta “un ottimo
'marchio'”209. E si tratta di un marchio che agisce su tre livelli: un livello economico-sociale, attinente al rapporto tra espressioni riconosciute e quelle che
non hanno (o non hanno ancora) ottenuto il riconoscimento; un livello politico, attinente sia al rapporto tra Stati sia alla sfera interna di ciascuno Stato;
infine, un livello economico-turistico.
Quanto al primo livello, per una comunità portatrice di una particolare
espressione culturale, il riconoscimento della stessa ad opera dell'UNESCO
può avere un'importante valenza esterna. La percezione che si ricava dall'interno è che spesso da coloro che praticano l'espressione culturale interessata
estendere al canto a più parti vocali di un centinaio e più paesi di tutta la Sardegna,
includendo pratiche di canto che dagli stessi protagonisti non vengono considerati
come canto a tenore (per esempio a Fonni si parla di cantu a cuncordu) e altre pratiche
che nell’opinione di molti cantori sarebbero di 'recente creazione' e dunque non dovrebbero considerarsi come 'autentico' canto a tenore (per esempio i casi dei gruppi a
tenore di Elmas, Arzara, San Vito), ma al tempo stesso escludendo pratiche esecutive
locali normalmente considerate canto a tenore pur mancando di alcuni tratti indicati
dall’Unesco come tipici, primo fra tutti il timbro gutturale delle parti vocali più gravi
(assente per esempio a Seneghe)”: I .MACCHIARELLA, op. cit.
208Scrive R. Kurin: “Actions to safeguard ‘tangibilized’ inventoried items of cultural
production are unlikely to safeguard adequately the larger, deeper, more diffuse
intangible cultural patterns and contexts. Saving songs may not protect the ways of
life of their singers, or the appreciation due by listeners. Far greater more holistic and
systematic action is likely to be required”: R. KURIN, Safeguarding Intangible Cultural
Heritage, cit., 75.
209M.L. CIMINELLI, op. cit., 110.
91
non venga attribuito un particolare significato al “patentino” UNESCO 210. Ma
al contempo vi è la consapevolezza della forza suggestiva che esso può rivestire nella commercializzazione della stessa, rendendola più appetibile
rispetto ad altre forme espressive che non possono vantare tale riconoscimento. Si aggiunga che spesso in chi aderisce alla candidatura vi è una errata
percezione degli effetti dell'iscrizione, su cui in parte influisce il risalto mediatico di cui i riconoscimenti precedenti hanno goduto, cosa che porta a
vedere in tale strumento una importante occasione di visibilità e promozione.
Con riguardo al secondo livello, malgrado il dichiarato intento della Convenzione di fungere da veicolo per “riavvicinare gli esseri umani e assicurare
gli scambi e l’intesa fra di loro” (ult. Considerando), è stato rilevato in dottrina come un siffatto sistema “innesc[hi] una competitività” tra gli Stati – nel
senso di tentare di incrementare il numero di riconoscimenti attribuiti a ciascuno di essi – che rischia di avvantaggiare i Paesi dotati di maggiori mezzi
di persuasione, di fatto “esplicitando i rapporti di forza esistenti tra i diversi
Stati-Nazione”211. In riferimento alla politica interna, rivendicare come proprio
successo
l'avere
ottenuto
un
tale
prestigioso
riconoscimento
internazionale, può costituire un'importante “arma” elettorale per il Ministro
o il Capo di Governo che hanno sottoposto il fascicolo all'UNESCO. Questo
può valere a maggior ragione per quei partiti politici che tentano di alimentare il sentimento nazionale, per i quali una dinamica come quella del
riconoscimento può essere particolarmente funzionale212.
Infine per lo Stato, poter vantare il fatto che numerose espressioni culturali presenti all'interno del suo territorio abbiano ottenuto il riconoscimento
UNESCO può avere effetti benefici anche sul versante del richiamo turisti210Soprattutto nei Paesi dell'Occidente – dove fenomeni come l'omologazione culturale
sono più pregnanti – in chi rappresenta una cultura altra rispetto a quella dominante,
sfuggendo (o almeno ritenendo di sfuggire) a queste dinamiche, è forte la
consapevolezza del valore di ciò che si rappresenta, di conseguenza il riconoscimento
non avrebbe una significativa valenza interna.
211M.L. CIMINELLI, Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e possibili effetti
collaterali, cit., 117.
212“While persistence in old life ways may not be economically viable and may well be
inconsistent with economic development and with national ideologies, the
valorization of those life ways as heritage (and integration of heritage into economies
of cultural tourism) is economically viable, consistent with economic development
theory, and can be brought into line with national ideologies of cultural uniqueness
and modernity”: B. KIRSHENBLATT-GIMBLETT, B., Intangible Heritage as
Metacultural Production, cit., 61.
92
co213. Un richiamo in parte analogo a quello di cui godono i siti riconosciuti
dall'organizzazione come patrimonio (tangibile) dell'umanità, o a quello garantito da riconoscimenti assegnati da altri enti o associazioni come quelli
che attestano la qualità delle spiagge o dei servizi per i clienti di un albergo.
Concludendo, si potrebbe giungere ad affermare che sia la stessa dinamica
del riconoscimento ad essere “viziata” in partenza. Se anche, cioè, fosse possibile rimuovere tutte le criticità evidenziate, alcune altre sarebbero
ineliminabili, perché connaturate al meccanismo disciplinato dalla Convenzione. Il fatto che un organismo internazionale, pur legittimato dagli Stati
aderenti, apponga il proprio sigillo su un'espressione culturale e non su
un'altra, sulla base di criteri autodeterminati, lascia insoddisfatti per l'atteggiamento di tipo paternalistico che porta con sé. Né vale a sciogliere le
riserve il fatto che la Convenzione parli di “riconoscimento”. Malgrado nella
terminologia giuridica tale espressione indichi generalmente l'esistenza pregressa di una situazione giuridica, che viene appunto riconosciuta, non
costituita, in questo caso si può ritenere di trovarsi di fronte ad un riconoscimento anomalo. La presenza di criteri selettivi e di un organo con la funzione
di commissione giudicatrice portano a ritenere la natura dell'atto di riconoscimento come costitutiva, e non meramente dichiarativa. Di conseguenza le
espressioni iscritte costituirebbero patrimonio ai sensi della Convenzione
solo in virtù dell'iscrizione. In favore di questa tesi depongono le osservazioni svolte sopra, circa il fatto che i criteri si richiamino anche a caratteristiche
esterne alle espressioni candidate, non idonee pertanto a qualificarle ex se, ma
solo in funzione delle scelte effettuate dallo Stato di riferimento. Con il riconoscimento si verrebbe a determinare una sorta di graduatoria tra elementi
culturali, peraltro considerati nella loro dimensione statica, isolati dal contesto storico e sociale. Oltre a sollevare perplessità sul suo fondamento
scientifico, la politica UNESCO pare contraddire se stessa, nel momento in
cui afferma di porsi come strumento di salvaguardia della diversità culturale:
213Osserva M.L. CIMINELLI, op. cit., 110: “[L]'evoluzione più usuale cui vanno incon-
tro le pratiche […] 'salvaguardate' sembra essere la folklorizzazione e la turisticizzazione. […] Non sembra del resto un caso che, dopo una serie di iniziative succedutesi
nel corso degli anni Novanta in collaborazione tra UNESCO e ICOMOS, la Carta del
turismo culturale redatta nel 1999 dal Comitato internazionale del turismo culturale
dell'ICOMOS preveda il concetto di 'patrimonio immateriale'. […] Dunque, è chiarissimo a chi opera nel settore che lo sviluppo turistico sia il 'naturale sviluppo concreto
e applicativo della Lista del patrimonio mondiale”.
93
ci si chiede come possa tale diversità considerarsi protetta da un organismo
che pretenda di poterne selezionare dall'alto alcune minuscole porzioni, separandole dal loro contesto e, d'altra parte, di poter semplicemente omettere
di considerare tutte quelle che non vengano (o non vengano adeguatamente)
supportate dallo Stato “territorialmente competente”.
2. Esperienze di tutela a livello sovranazionale.
L'importanza dei progetti WIPO e UNESCO è stata tale da influenzare
notevolmente le legislazioni nazionali successive, nonché da limitare altre
iniziative dal tema analogo su scala internazionale e sovranazionale. Sono
rare a tale livello fonti normative “autonome”, non riconducibili alle due
organizzazioni.
Un primo importante esempio è rappresentato dall'accordo di Bangui,
istitutivo della OAPI (Organisation Africaine de la Propriété Intellectuelle),
siglato nella capitale della Repubblica Centrafricana nel 1977 214, quindi
precedentemente all'adozione delle Model Provisions215. All'art. 59 sono
contenute alcune disposizioni in materia di utilizzazione delle opere cadute
in pubblico dominio e delle espressioni di folklore (all'interno delle quali
rientrano anche le espressioni musicali tradizionali) 216, per le quali si prevede
a carico dell'utilizzatore – in forza del par. 2 – l'onere di corrispondere un
adeguato compenso ad un'organizzazione statale istituita ai sensi dell'art. 60.
Parte dei proventi delle utilizzazioni di espressioni di folklore saranno
successivamente destinati, come stabilito dal par. 3, a “welfare and cultural
purposes”. Una simile previsione è in linea con le legislazioni nazionali
214L'accordo di Bangui del 1977 è stato adottato il 2 marzo 1977 ed è entrato in vigore l'8
febbraio 1982. E' stato poi oggetto di una Revisione stipulata il 24 febbraio 1999 –
sempre a Bangui – , entrata in vigore il 28 febbraio 2002. Il testo integrale aggiornato
dell'accordo è reperibile su internet alla pagina:
http://www.wipo.int/wipolex/en/other_treaties/text.jsp?
doc_id=132880&file_id=181152.
215Sulle Model Provisions for National Laws on the Protection of Expressions of Folklore
Against Illicit Exploitation and Other Prejudicial Actions, adottate da WIPO e UNESCO
nel 1982, v. supra, par. 1.1.
216Si è già visto nel Cap. I, par. 1.2, come il folklore venga definito dall'accordo di Bangui, perciò si rimanda su tale punto a quanto detto in quella sede. Basti qui ricordare
che nella nozione di folklore contenuta nell'art. 68, par. 1 sono contenute anche le
espressioni artistiche e in particolare, ai sensi del par. 2, lett. b), iii), i “ musical productions of all kinds”.
94
africane degli anni '50/'70 del ventesimo secolo (in particolare di quelle degli
Stati che ottennero in quel periodo l'indipendenza dai domini coloniali), che
tendono a considerare il folklore come patrimonio culturale della nazione,
nell'ottica della costruzione di un'identità nazionale forte, anche attraverso la
riappropriazione delle espressioni culturali tradizionali217.
Delle espressioni di folklore si occupa anche il recente “Swakopmund Protocol on the Protection of Traditional Knowledge and Expressions of Folklore”, adottato nel 2010 dalla ARIPO (African Regional Intellectual Property
Organization)218. All'art. 2, par. 2.1, vengono definite le “espressioni di folklore”219, all'interno delle quali rientrano sia le espressioni musicali tradizionali,
come canzoni e musica strumentale220, sia espressioni culturali tangibili,
come gli strumenti musicali, espressamente contemplati nella definizione.
L'atto impegna gli Stati contraenti ad adottare misure adeguate a tutela delle
espressioni di folklore (definite come espressione dell'identità delle comunità), idonee a proteggere le stesse da qualsiasi fenomeno di misappropriation e
“unlawful exploitation”. I beneficiari della tutela sono le comunità: a) a cui,
secondo le norme consuetudinarie, appartengono i soggetti “custodi” delle
espressioni di folklore interessate; b) che praticano le espressioni medesime
come parte del loro patrimonio culturale. Le misure adottate dagli Stati contro le utilizzazioni improprie devono essere tali da non ostacolare il “normale
uso”, lo sviluppo e la trasmissione delle espressioni di folklore, e devono essere rivolte esclusivamente alle utilizzazioni che abbiano luogo al di fuori del
contesto tradizionale. Devono inoltre contemplare eccezioni con riferimento
217Si rimanda al Cap. I, par. 1.2 per una trattazione più approfondita di tale aspetto.
218Il Protocollo è stato adottato dalla Conferenza Diplomatica ARIPO a Swakopmund
(Namibia) il 9 agosto 2010.
219Section 2, par. 2.1 [Estratto]:
“[E]xpressions of folklore” are any forms, whether tangible or intangible, in which
traditional culture and knowledge are expressed, appear or are manifested, and
comprise the following forms of expressions or combinations thereof:
i. verbal expressions, such as but not limited to stories, epics, legends, poetry, riddles
and other narratives; words, signs, names, and symbols;
ii. musical expressions, such as but not limited to songs and instrumental music;
iii. expressions by movement, such as but not limited to dances, plays, rituals and
other performances; whether or not reduced to a material form; and
iv. tangible expressions, such as productions of art, in particular, drawings, designs,
paintings (including body-painting), carvings, sculptures, pottery, terracotta,
mosaic, woodwork, metal ware, jewelry, basketry, needlework, textiles, glassware,
carpets, costumes; handicrafts; musical instruments; and architectural forms.
220Si specifica che le espressioni musicali rientranti nella definizione non sono limitate
ai due esempi esplicitati, ma non si chiarisce la portata dell'estensione della nozione.
95
alle utilizzazioni per scopi non commerciali e di ricerca.
Spunti interessanti emergono anche con riferimento alle strategie adottate
dal Secretariat of the Pacific Community (d'ora in avanti SPC) 221, organismo
internazionale che riunisce numerosi Stati insulari del Sud-Pacifico, con lo
scopo di promuoverne lo sviluppo economico e sociale. L'SPC ha elaborato
nel 2002 un documento che, in maniera simile alle Model Provisions
WIPO/UNESCO, contiene un modello di tutela delle conoscenze e delle
espressioni culturali tradizionali, rivolto agli Stati membri. Il documento, che
prende il nome di Regional Framework for the Protection of Traditional Knowledge and Exnipressions of Culture222 (noto anche come Pacific Model Law) è stato
redatto in stretta connessione con l'UNESCO Pacific Regional Office e, come dichiarato nello stesso preambolo, recepisce gli sviluppi del lavoro WIPO e
UNESCO in materia. Per queste ragioni, non appare necessario soffermarsi a
lungo sull'impianto generale del Pacific Model Law. Emergono, tuttavia, dall'analisi del testo, alcuni elementi che meritano considerazione. Anzitutto, va
rilevato, sotto il profilo terminologico, il conio di una originale denominazione dei diritti di utilizzazione delle conoscenze tradizionali e delle espressioni
culturali, diritti che vengono indicati come “traditional cultural rights”. Nonostante l'innovazione lessicale, tali diritti, disciplinati dall'art. 7, corrispondono nella sostanza ai diritti di utilizzazione economica delle opere dell'ingegno come generalmente formulati dalle legislazioni sul diritto d'autore.
Va anche rilevata la menzione espressa ai diritti morali, contenuta nella
Parte Terza223. Tali diritti sono costruiti in maniera simile ai diritti morali ri221Per maggiori informazioni sull'SPC: http://www.spc.int.
222Il testo completo del Pacific Model Law è reperibile alla pagina: http://www.wipo.int/wipolex/en/text.jsp?file_id=184651.
223PART 3 – MORAL RIGHTS
13 Meaning of moral rights
(1) The traditional owners of traditional knowledge or expressions of culture are the
holders of the
moral rights in the traditional knowledge or expressions of culture.
(2) The moral rights of the traditional owners of traditional knowledge and
expressions of culture
are:
(a) the right of attribution of ownership in relation to their traditional knowledge
and expressions of culture; and
(b) the right not to have ownership of traditional knowledge or expressions of
culture falsely attributed to them; and
(c) the right not to have their traditional knowledge and expressions of culture
subject to derogatory treatment.
(3) The moral rights of traditional owners in their traditional knowledge and
96
conosciuti, negli ordinamenti di Civil Law, all'autore di un'opera dell'ingegno,
e perciò sono ad esempio perpetui ed inalienabili. Ma, rispetto a questi, presentano una importante particolarità, rappresentata dal fatto di essere diritti
prevalentemente collettivi, e non individuali come ordinariamente accade.
Sono infatti riconosciuti titolari di tali diritti morali i detentori delle conoscenze tradizionali e delle espressioni culturali che, ai sensi dell'art. 4, possono essere sia individui che “gruppi, clan o comunità di persone”224.
3. Forme di protezione a livello nazionale e locale.
Si è già rilevato in più occasioni come la tutela a livello localistico – statale
o substatale – porti con sé degli inevitabili rischi, dati anzitutto dall'ambito di
applicazione geograficamente limitato, circostanza questa che appare inidonea a garantire una tutela soddisfacente in tutte quelle ipotesi, assai frequenti, in cui l'espressione culturale interessata e la comunità di riferimento della
stessa insistano su un territorio non coincidente con quello di uno Stato o di
un ente territoriale225. Si è anche posto in risalto come tale livello di tutela appaia inadeguato anche nelle ipotesi, anch'esse tutt'altro che infrequenti, in cui
la comunità di riferimento di una espressione culturale sia una minoranza in
conflitto con le autorità governative centrali o locali226. Per queste ragioni,
non ci si soffermerà ulteriormente – in questa sede – su tali aspetti, ma ci si limiterà a dare conto, in sintesi, di alcune forme di tutela di livello statale e locale.
Va anzitutto premesso che è raro riscontrare, a livello nazionale, misure
specificamente dedicate alle espressioni musicali tradizionali, mentre più frequenti sono gli strumenti che si occupano genericamente di espressioni di
expressions of culture exist independently of their traditional cultural rights.
(4) Moral rights continue in force in perpetuity and are inalienable, and cannot be
waived or transferred.
224Art. 4 (Definitions) [estratto]:
In this Act, unless the contrary intention appears:
traditional owners of traditional knowledge or expressions of culture means:
(a) the group, clan or community of people; or
(b) the individual who is recognized by a group, clan or community of people as the
individual;
in whom the custody or protection of the traditional knowledge or expressions of
culture are entrusted in accordance with the customary law and practices of that
group, clan or community.
225Cfr. Cap. II, par. 1,3; Cap. III, par. 1.
226Ibid.
97
folklore ed espressioni culturali tradizionali. Merita altresì rilievo il fatto che
tali iniziative legislative siano maggiormente riscontrabili negli Stati c.d. in
via di sviluppo, ed in particolare nelle ex-colonie europee, ossia nei Paesi che
hanno acquistato l'indipendenza politica solo in epoca recente 227. Non mancano tuttavia esempi anche nei Paesi c.d. sviluppati.
Le legislazioni nazionali in materia hanno seguito differenti linee direttrici228. Alcune si esse si sono occupate delle espressioni di folklore sotto il profilo della proprietà intellettuale. Tra di esse si possono ricordare le norme adottate da numerosi Stati africani a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, che sovente qualificano il folklore come patrimonio nazionale, stabilendo coerentemente che le utilizzazioni delle relative espressioni che abbiano
luogo al di fuori del territorio dello Stato siano soggette al pagamento di una
somma di denaro a favore dello Stato stesso, che in alcuni casi è vincolato a
destinarle a iniziative di promozione e salvaguardia del patrimonio culturale
nazionale, delle tradizioni popolari o di altre forme di espressione culturale
tradizionale variamente denominate.
Alcuni Stati hanno introdotto misure specifiche, o sui generis, in materia,
nell'ambito del sistema della proprietà intellettuale. Tra le legislazioni dei
Paesi sviluppati meritano di essere menzionate quelle di Stati Uniti 229 e Nuova Zelanda230, che hanno adottato una disciplina speciale dei marchi, introducendo una particolare categoria di marchi di certificazione 231 per i manufatti
realizzati rispettivamente da artisti e artigiani nativo-americani e Maori. Si
tratta di norme ispirate a fini prevalentemente commerciali, che hanno la funzione di limitare i fenomeni di contraffazione di manufatti artistici tradizionali e commercializzazione dei prodotti contraffatti, e quindi di limitare i
227Si veda il Cap. I, par. 2 per un'analisi delle ragioni alla base del forte interesse mani festato dagli Stati di recente indipendenza nei confronti delle espressioni culturali
tradizionali.
228Per un'analisi dettagliata delle numerose legislazioni statali che si occupano, direttamente o indirettamente, delle espressioni di folklore o delle espressioni culturali tradizionali si rimanda a LUCAS-SCHLOETTER, A., Folklore, in AA. VV., Indigenous
Heritage and Intellectual Property, Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, a
cura di S. Von Lewinsky, Kluwer Law International, 2008, 339 ss., spec. 370 ss.
229Indian Arts and Crafts Act, nella versione emendata nel 1990, e Indian Arts and Crafts Enforcement Act, adottato nel 2000, il cui testo è reperibile alla seguente pagina internet: http://www.wipo.int/wipolex/en/details.jsp?id=6436.
230Trade Marks Act 2002 No. 49. Il testo è visionabile al seguente indirizzo:
http://www.wipo.int/wipolex/en/details.jsp?id=3373.
231V. supra, Cap. II, par. 3.
98
danni economici che da tali fenomeni potrebbero derivare alle comunità “indigene”. Esse omettono invece di considerare gli interessi extra-economici
che vengano in rilievo nelle ipotesi menzionate, accordando perciò una tutela
per molti versi parziale232. Un altro esempio è rappresentato dalla Panama
Law No. 20 of 26 June 2000 on the Special Intellectual Property Regime with Respect to the Collective Rights of Indigenous Peoples to the Protection and Defense of
their Cultural Identity and Traditional Knowledge. La disciplina in essa contenuta, diretta a proteggere le creazioni delle popolazioni indigene, pare per alcuni aspetti rivolta maggiormente alle produzioni successive all'entrata in vigore della legge, piuttosto che agli elementi culturali tradizionali. Essa, inoltre,
introduce specifiche norme volte a disciplinare la registrazione di quelli che
vengono definiti “diritti collettivi delle popolazioni indigene”, concessa da
una autorità governativa istituita dalla stessa legge. Tale registrazione è necessaria al fine di ottenere la tutela accordata dalla legge n. 26/2000. Per queste ragioni, valgono le considerazioni svolte in precedenza riguardo al riconoscimento di espressioni culturali tradizionali effettuato “dall'alto”233.
Al di fuori delle norme in materia di proprietà intellettuale, in alcuni Paesi
alle espressioni culturali tradizionali è accordata tutela secondo le norme
consuetudinarie delle specifiche comunità interessate. Questo tipo di soluzioni, pur comportando alcuni vantaggi, tra cui in particolare il fatto che la disciplina applicabile risulta essere elaborata dagli stessi soggetti beneficiari della
relativa tutela (con ciò eludendo il problema della disciplina calata dall'alto),
presenta anche alcuni limiti. Anzitutto, le norme consuetudinarie, anche
quando ricevano espresso riconoscimento legislativo, hanno un ambito di efficacia geograficamente limitato in alcuni casi al territorio dello Stato, in altri
a singole aree circoscritte. Inoltre, talvolta tali norme comportano limitazioni
anche sotto il profilo dell'ambito soggettivo di efficacia, essendo spesso applicabili alle liti che riguardino almeno un soggetto (individuale o collettivo) appartenente alla comunità cui faccia riferimento l'espressione culturale che si
assuma impropriamente utilizzata, con ciò richiedendo la necessaria instaurazione di un processo in sede giudiziaria.
Per quanto riguarda specificamente l'Italia, mancano norme che si interes232Si veda, per una trattazione più approfondita e per riferimenti bibliografici, Cap. II,
par. 3.
233V. in proposito supra, in questo stesso capitolo, par. 1, anche per riferimenti biblio grafici.
99
sino specificamente alle espressioni culturali tradizionali, in particolare a
quelle musicali. Sussistono oggettive difficoltà all'applicazione delle norme in
materia di diritto d'autore234, considerato che nella maggior parte dei casi le
opere musicali orali, particolarmente risalenti nel tempo, sono cadute in pubblico dominio, e che in ogni caso risulta impossibile individuare un autore
determinato cui attribuire la paternità delle opere medesime, fatte salve le
ipotesi di elaborazioni creative originali basate su opere di tradizione orale
(riconducibili alla categoria delle “variazioni musicali costituenti di per sé
opera originale” di cui all. art. 2, comma1, n. 2 l. aut.). Anche l'applicabilità di
altre norme in materia di proprietà intellettuale, in particolare quelle sui marchi e sulle indicazioni geografiche, risulta poco agevole, per ragioni simili 235.
Il D. Lgs. 42/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) contiene tuttavia, all'art. 7-bis, una espressa menzione alle “espressioni di identità culturale
collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del
patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle
diversità culturali”, che sono considerate “assoggettabili alle disposizioni del
presente codice (e dunque possono costituire beni culturali ai sensi dello stesso Codice, nda) qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10”.
Per quanto riguarda il livello substatale, merita di essere menzionata la
legge regionale 64/1986 della Regione Autonoma della Sardegna, recante
norme in materia di “interventi regionali per lo sviluppo delle attività musicali popolari”. Malgrado l'intestazione dell'atto, che farebbe pensare a misure
di promozione nell'ambito di un impianto organico, gli interventi previsti si
limitano alla concessione di contributi economici in favore “delle associazioni
e dei complessi musicali bandistici, dei gruppi strumentali di musica sarda,
dei gruppi corali polifonici, regolarmente costituiti, senza fine di lucro, ed
operanti in modo continuativo da almeno un anno”. Nella stessa Regione
Sardegna è stata recentemente presentata, da alcuni Consiglieri regionali, una
proposta di legge236 contenente “Norme per la tutela e la valorizzazione delle
234Cfr. Cap. II, par. I-II.
235Cfr. Cap. II, par. III.
236Si tratta della proposta di legge regionale n. 245, presentata al Consiglio Regionale
della Sardegna in data 3 febbraio 2011, che riprende i contenuti di una proposta di
legge presentata al medesimo Consiglio regionale nel 1996, ma mai approvata. Il testo della proposta è visionabile alla pagina: http://www.consregsardegna.it/xivlegislatura/Disegni%20e%20proposte%20di%20legge/propleg245.asp.
100
tradizioni popolari della Sardegna” che, tra le altre misure, prevede l'istituzione di un “albo regionale dei soggetti, pubblici e privati, che operano negli
ambiti delle tradizioni popolari”. L'iscrizione all'albo costituisce requisito di
accesso privilegiato – ma non esclusivo – ai finanziamenti e contributi regionali, che potranno essere concessi ai soggetti di cui sopra per finalità di studio, ricerca, promozione e formazione nel settore delle tradizioni popolari.
Anche presso la Regione Puglia pende una proposta di legge di iniziativa
consiliare237, contenente norme per contenuto e finalità molto simili alla proposta relativa alla Regione Sardegna, ma che a differenza di quest'ultima ha
ad oggetto esclusivamente le musiche e le danze popolari di tradizione orale.
Un'altra significativa particolarità è rappresentata dal fatto che la proposta
pugliese dichiara di essere realizzata “in attuazione della convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”. Valgono in
proposito le riserve in precedenza espresse con riguardo a tale Convenzione238. Le due proposte239 non hanno come destinatari diretti né le espressioni
culturali tradizionali, né le rispettive comunità di riferimento, ma soggetti
che a vario titolo operino nel settore, in questo modo limitando i rischi dati
dalla strategia del riconoscimento diretto240. L'assenza tuttavia di criteri chiari
per la composizione degli organismi pubblici deputati alla concessione dei
contributi, e la previsione di contributi di carattere esclusivamente economico in favore di soggetti privati, ne fanno per alcuni aspetti misure limitate,
per le quali pare sussista il rischio concreto del verificarsi di ambiguità e criticità in sede applicativa.
4. Un bilancio dell'analisi svolta.
Per una valutazione conclusiva dell'indagine è opportuno prendere le
mosse dai due parametri fondamentali assunti come punti di riferimento
237Il testo della proposta è scaricabile all'indirizzo: http://www.consiglio.puglia.it/ap-
plicazioni/cadan/cms_agenzianotizie/dataview.aspx?id=170032.
238Cfr. supra, in questo stesso Cap., par. 1.2.
239Va rilevato come i contributi economici erogati da una istituzione pubblica costituiscano una deroga rispetto al regime comunitario degli aiuti di Stato, e siano perciò
considerate legittime in quanto siano dirette alla promozione della cultura o alla conservazione del patrimonio culturale e storico-archeologico: cfr. LOFFREDO, E., L'impresa di spettacoli, anche sportivi, in AIDA, 2007, 313 ss., spec. 333.
240Ibid.
101
nell'analisi, ossia la musica di tradizione orale e le sue caratteristiche
peculiari, da un lato, le norme positive esistenti e le prospettive future,
dall'altro.
Può risultare a tal fine utile riassumere gli aspetti maggiormente critici
della questione prospettata. Vengono in rilievo, in primo luogo, le difficoltà
incontrate dalla dottrina antropologica ed etnomusicologica nella definizione
di alcuni concetti fondamentali, come quelli di cultura, folklore 241, musica di
tradizione orale242 e comunità243. L’analisi svolta ha evidenziato come tali
difficoltà si ripercuotano inevitabilmente sulla riflessione giuridica, con
riguardo, rispettivamente, all'oggetto della tutela ed ai soggetti beneficiari
della stessa. Si è anche rilevato come la dottrina giuridica, ed ancor più gli
atti normativi che si sono occupati delle espressioni culturali tradizionali in
generale e, in particolare, – anche se più raramente – della musica di
tradizione orale, abbiano spesso fatto ricorso ad una definizione dei concetti
sopra menzionati coincidente nella sostanza con quella tyloriana di fine '800,
ossia considerando tali espressioni culturali nel loro aspetto statico, come
fossili da proteggere dalla scomparsa, omettendo invece di riconoscere
adeguata rilevanza all'aspetto dinamico 244. Per contro, la considerazione di
tale circostanza consentirebbe di apprezzare il concetto di tradizione secondo
il suo significato proprio, ossia come costante processo, che importa
necessariamente la mutazione, l'innovazione e lo sviluppo, e che di
conseguenza contraddice l'idea di immobilità sottesa alle formulazioni
ottocentesche. Si è visto anche che le ragioni delle scelte definitorie adottate
dalla dottrina giuridica e dalla legislazione siano talvolta da ricercare in un
mancato approfondimento degli aspetti extra-giuridici coinvolti, e siano
invece spesso dettate dall'esigenza – propria del diritto – di individuare una
definizione puntuale al fine di delimitare in modo chiaro e preciso l'oggetto
della tutela. Esigenza che, scontrandosi con la difficoltà di individuare
nozioni univoche dei concetti coinvolti, ha portato alla formulazione di
definizioni funzionali solo a specifiche forme di tutela, e di conseguenza
parziali e arbitrarie245.
Queste considerazioni hanno consentito di esprimere alcune perplessità in
241V. supra, Cap. I, par. 1.
242V. supra, Cap. I, par. 4.
243V. supra, Cap. I, par. 3.
244V. supra, Cap. I, par. 1, par. 1-2.
245V. supra, Cap. I, par. 2, Cap. III, par. 1-4.
102
merito all'adeguatezza delle soluzioni normative fino ad ora prospettate. L'elemento della tradizione orale, anzitutto, determina l'impossibilità di attribuire la singola opera ad uno o più autori determinati 246, e di conseguenza
comporta serie difficoltà alla applicazione della disciplina del diritto d'autore
alle espressioni musicali tradizionali. L'attuale disciplina del diritto d'autore,
infatti, fa riferimento ad un concetto di autorialità – elaborato nel corso del
romanticismo – che concepisce l'opera come frutto della creazione e del genio
individuale, ed in particolare come risultato fisso ed immutabile del processo
creativo. Queste premesse stridono fortemente con gli elementi caratterizzanti della musica di tradizione orale, basata su un concetto di autorialità e di
opera del tutto diversi, in ragione dei quali quest'ultima è rappresentata da
un modello variabile, destinato per sua natura ad essere soggetto ad una costante rielaborazione, e per il quale anzi la variazione assume il valore di elemento costitutivo. Di conseguenza l'estensione alle espressioni musicali di
tradizione orale delle norme in materia di diritto d'autore (come pure di
quelle in materia di copyright, proprie degli ordinamenti di common law) risulterebbe non solo una forzatura, ma non fornirebbe neppure una tutela soddisfacente247. Essa risulterebbe infatti contraddittoria rispetto allo scopo di accordare tutela a tali espressioni: anzitutto, perché rischierebbe di avere riguardo solo ad una specifica variante cristallizzata dell'opera considerata,
mentre lascerebbe fuori tutte le varianti precedenti e successive; in secondo
luogo, perché la disciplina del diritto d'autore e quella del copyright richiedono la riferibilità dell'opera ad uno o più autori determinati, mentre come si è
visto le espressioni musicali tradizionali, anche nei casi in cui siano riferibili
all'apporto creativo iniziale di un soggetto determinato, sono destinate nella
generalità dei casi – proprio in ragione della trasmissione orale – ad essere
modificate, rielaborate, divenendo opere ad autorialità indifferenziata al pari
delle altre espressioni musicali tradizionali248.
Il riferimento alle varianti non ha nulla a che vedere, invece, con le “variazioni musicali costituenti di per sé opera originale”, di cui all'art. 2, comma 1,
num. 2) l. aut., ossia alle elaborazioni creative basate su espressioni musicali
tradizionali. Tali variazioni, infatti, collocandosi al di fuori del processo di
246V. supra, Cap. I, par. 4, in particolare in riferimento alla nozione di opera orale e per
riferimenti bibliografici.
247V. supra, Cap. II, par. 1.
248V. supra, Cap. I, par. 4; Cap. II, par. 1.
103
trasmissione orale e costituendo opere autonome, saranno tutelabili con gli
ordinari strumenti di tutela del diritto d'autore nei limiti e alle condizioni
previsti per le opere originali249.
Considerazioni simili valgono per le altre norme del sistema della proprietà intellettuale250, in particolare quelle sui marchi e le indicazioni geografiche,
attraverso le quali potrebbero in ipotesi trovare tutela le espressioni culturali
tangibili legate alla musica di tradizione orale, in particolare la produzione di
strumenti musicali tradizionali. In proposito si sono distinte due ipotesi. Si è
anzitutto posto in rilievo come non sussistano particolari difficoltà ad ammettere la tutela del marchio eventualmente apposto dal costruttore di strumenti tradizionali agli stessi, in modo da rendere i suoi manufatti a costui riconducibili. D'altra parte, in relazione alla seconda ipotesi – ossia la possibilità del ricorso al marchio di certificazione o di autenticità – si è posto l'accento
sul fatto che tali strumenti abbiano una funzione precipuamente commerciale, e che di conseguenza non sarebbero idonee a tutelare interessi extra-economici; inoltre, si è visto come la difficoltà ad identificare la comunità “detentrice” di una determinata espressione culturale comporti anche notevoli
difficoltà nell'individuazione del soggetto beneficiario della tutela, imponendo l'adozione di criteri formali privi di fondamento scientifico 251. Si è poi più
volte evidenziato come uno strumento di tutela di carattere statuale o locale,
a prescindere da considerazioni sul merito, porti con sé un limite ineliminabile, dato dalla sua natura di atto normativo dotato di una efficacia territorialmente circoscritta. Il limite risiede in particolare nel fatto che le espressioni culturali tradizionali (tra cui quelle musicali) hanno spesso un ambito geografico di diffusione non coincidente con il territorio di singoli Stati o singoli
enti territoriali. Le comunità cui tali espressioni culturali fanno riferimento,
inoltre, sono sovente rappresentate da minoranze etniche, linguistiche o religiose, stanziate su territori coincidenti con “nazioni” preesistenti alla nascita
degli attuali Stati sovrani, e dunque raramente coincidenti con il territorio di
questi ultimi252. A ciò si aggiunga che in numerosi casi tali comunità si trovano in un rapporto conflittuale con le autorità governative locali. Una tutela di
249Ibid., anche in relazione ai contorni del concetto di originalità.
250V. supra, Cap. II, par. 3
251V. Cap. II, par. 3.
252Si pensi al popolo Kurdo, originario del Kurdistan, regione geografica che abbraccia
parte del territorio di cinque Stati: Turchia, Iran, Iraq, Siria e (secondo alcuni) Armenia.
104
livello statale in queste ipotesi risulterebbe non solo inadeguata, ma potenzialmente anche in contraddizione con alcuni principi fondamentali in materia di diritti umani, primo tra tutti quello di autodeterminazione dei popoli.
Considerazioni analoghe si sono svolte per quelle forme di tutela di carattere
sovranazionale che, essendo fondate su convenzioni internazionali – ed essendo di conseguenza strettamente legate alla volontà dei singoli Stati aderenti – affidano comunque a questi ultimi le decisioni fondamentali in materia, all'interno del territorio statale.
Si è, d'altra parte, mostrato come l'assenza di (adeguati) meccanismi di tutela renda pienamente legittime alcune forme di utilizzazione “impropria” 253
delle espressioni culturali tradizionali tali da snaturarle, distorcerle, al punto
da essere percepite dalle comunità di riferimento come offese ai loro valori o
al loro sentimento religioso, laddove, per esempio, svelino cerimonie o rituali
destinati ad essere segreti, oppure quando si rivelino collegate ad operazioni
speculative volte ad escludere le comunità o i singoli dai vantaggi economici
e non, derivanti dalle utilizzazioni medesime.
Risulta allora particolarmente arduo individuare uno strumento che fornisca al tempo stesso una tutela soddisfacente alle espressioni culturali (musicali) tradizionali – che tenga cioè adeguato conto degli interessi anche extra-economici coinvolti – sia idoneo a valorizzare e promuovere le stesse e sia
altrettanto idoneo a limitare le forme di misappropriation, nel rispetto della libertà di espressione, e dei generali principi sui diritti umani.
È opportuno perciò riflettere se si debba continuare a cercare una soluzione nell'ambito del sistema della proprietà intellettuale, magari attraverso norme ad hoc, o se non sia piuttosto giunto il momento di spostare l'attenzione
verso soluzioni di diverso tenore. Preso atto che sia le ragioni degli Stati che
quelle del mercato confliggono per molti aspetti con le esigenze di tutela delle espressioni culturali tradizionali, si potrebbe anzitutto valutare se possa
assumere un ruolo chiave la c.d. “sussidiarietà orizzontale”, ossia l'intervento
degli individui, singoli o riuniti in formazioni sociali di vario tipo, per finalità di interesse pubblico. Vengono in rilievo in particolare le operazioni di microcredito254 – promosse in tutto il mondo da numerose organizzazioni non
253V. supra, Cap. II, par. 4.
254Il microcredito è stato ideato dall'economista bengalese Muhammad Yunus, che nel
2006 proprio grazie ad esso ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace.
105
lucrative255 – che consentono il finanziamento di attività commerciali o di piccola imprenditoria fornendo i fondi necessari all'avvio delle stesse direttamente ai soggetti o alle comunità interessati 256, mettendoli di conseguenza
nelle condizioni di acquisire una propria indipendenza economica, senza dover soggiacere a costanti aiuti provenienti dall'esterno. La pratica ha dimostrato che questo sistema ha un grado di efficienza particolarmente elevato 257.
Prendendo spunto da esso, si potrebbe valutare l'opportunità di estenderlo
anche al finanziamento di progetti di promozione delle espressioni musicali
tradizionali realizzati dalle stesse comunità interessate, evitando in questo
modo la soggezione alle dinamiche statali ed a quelle del mercato. Questo
comporterebbe alcuni innegabili vantaggi. Possono essere tuttavia mossi taluni rilievi in proposito. Anzitutto deve essere tenuto presente che l'iniziativa
privata non appare sufficientemente idonea a incidere sulla legislazione vigente, quindi progetti di questo tipo non basterebbero da soli ad eliminare i
rischi derivanti da una eventuale normativa vigente inadeguata o pregiudizievole (nei termini sopra esposti) o dall'assenza di una normativa che limiti
gli episodi di misappropriation. Va inoltre considerato il significato proprio del
principio di sussidiarietà orizzontale. Esso, infatti, non importa un intervento
privato di tipo sostitutivo rispetto a quello pubblico, ma integrativo 258. L'assenza di norme di riferimento rende iniziative di questo tipo, per quanto meritorie, parziali.
Resta dunque aperta la questione della individuazione di soluzioni legislative efficaci e realmente protettive. Vale la pena, allora, di considerare l'opportunità di un ampliamento di prospettiva. Si è visto come la scienza antropologica non abbia fornito una definizione univoca dei concetti fondamentali
coinvolti. E si è visto, d'altra parte, come la scelta, per ragioni di politica legislativa, di fornire definizioni arbitrarie e di efficacia limitata alla disciplina di
specifiche ipotesi sia idonea a produrre risultati talvolta dannosi o – nelle mi255Il successo di questo sistema ha portato ad estenderlo dai Paesi del c.d. Terzo
Mondo, per i quali era stato originariamente ideato, ai Paesi Sviluppati, per
contrastare i fenomeni di povertà che si sono acuiti negli ultimi anni a seguito della
crisi economica internazionale. Oltre alle organizzazioni non lucrative, tale sistema
ha cominciato ad essere adottato anche da alcune istituzioni pubbliche.
256Per alcuni esempi si possono visitare le seguenti pagine internet: kiva.org; heifer.org.
257La percentuale dei crediti soddisfatti è superiore al 95%, ben oltre quelle relative ai
sistemi ordinari di concessione del credito.
258Cfr. Q. CAMERLENGO, Commento all’art. 118, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M.
OLIVETTI (a cura di), Commentario della Costituzione, III, Torino, Utet, 2006, 2521 ss.
106
gliori ipotesi – vani. Alla luce di ciò, meritano forse una maggiore considerazione gli aspetti della questione collegati al campo dei diritti umani. Un maggiore sviluppo di tale campo potrebbe consentire di evitare soluzioni parziali
e limitate sia sotto il profilo geografico che sotto quello oggettivo. Si eluderebbero in questo modo le criticità derivanti dalla non coincidenza delle definizioni legislative con i concetti elaborati dalle società e comunità interessate,
criticità che rendono spesso insostenibili tali scelte definitorie proprio sotto il
profilo dei diritti umani. Si è visto infatti come risulti difficile applicare categorie occidentali a forme di espressione che appartengono a contesti e culture
non occidentali. La percezione dei concetti di arte, cultura, artigianato varia
da società a società, e presso numerose culture non esistono differenziazioni
nette tra essi259. Il rischio è, ancora una volta, che malgrado il dichiarato intento protettivo, i risultati di una forma di tutela che pretenda di prescindere
da siffatte considerazioni comportino un pregiudizio, piuttosto che un beneficio.
La strada dei diritti umani non garantirebbe una soluzione diretta a tutti
questi problemi. Non fornirebbe ad esempio risposte su come fronteggiare le
ipotesi di misappropriation; non sarebbe neppure di per sé idonea a definire il
concetto di comunità detentrice, di cultura, di espressione culturale, artistica,
musicale. Ma, per contro, potrebbe determinare in via indiretta alcuni importanti vantaggi. Garantire l'esistenza di una comunità, tutelare una minoranza, limitare le minacce provenienti da autorità governative con esse in conflitto significa non solo garantire l'integrità fisica degli individui che vi appartengono. Significa anche, e soprattutto, consentire lo sviluppo di tutte le
manifestazioni della vita di tali comunità, incluse ovviamente quelle culturali. In questo modo, inoltre, potrebbe risultare più agevole aggirare i problemi
definitori. La comunità sarebbe messa nelle condizioni non di ricevere una
protezione “dall'alto” di specifiche espressioni culturali, ma più semplicemente di manifestare la propria cultura in tutte le sue forme, evitando selezioni e tagli260. Una volta attenuate le disparità esistenti tra governi e minoranze, tra gruppi sociali, etnici, religiosi, sarà possibile eventualmente, in una
prospettiva di uguaglianza sostanziale, valutare l'opportunità di misure ad
259Si veda in relazione a tali profili supra, Cap. I, par. 2, spec. p. 19.
260Per una critica dell'approccio selettivo adoperato da alcuni organismi internazionali,
in particolare dall'UNESCO, si vedano i precedenti paragrafi di questo capitolo,
specialmente il par. 1. Ivi anche riferimenti bibliografici.
107
hoc relative a specifiche espressioni culturali, magari concordate con le comunità di riferimento e di carattere non squisitamente territoriale. In mancanza
di un percorso in tal senso, il rischio che qualunque strumento, anche posto
in essere con intenti esclusivamente protettivi, continui ad attirare su di sé
sospetti di parzialità e arbitrarietà sarebbe difficilmente eliminabile.
108
BIBLIOGRAFIA
AA. VV., Definitions of Folklore, in Funk and Wagnalls Standard Dictionary of
Folklore, Mythology and Legend I/1949, 255 ss.;
AA. VV., Diritto Industriale, Proprietà intellettuale e Concorrenza, III, Torino,
2009;
AA. VV., Dizionario di antropologia. Etnologia, antropologia culturale, antropologia sociale, a cura di U. Fabietti – F. Remotti, Bologna, 1997.;
AA. VV., Il Vocabolario Treccani, Roma, 2010;
AA. VV., Indigenous Intellectual Property Rights, Walnut Creek (CA), 2004;
AA. VV., Oxford Dictionary of English, Oxford, 2010;
ABRIANI, N., COTTINO, G. - RICOLFI, M., Diritto industriale, in Tratt. Dir.
comm., II, Padova, 2001, 177 ss.;
ARAGON, L.V., LEACH, J., Arts and Owners: Intellectual Property Law and the
Politics of Scale in Indonesian Arts, in American Ethnologist, 2008, Vol. 35, No. 4,
607 ss.;
AREWA, O. B., From J.C. Bach to Hip Hop: musical borrowing, copyright
and cultural context, in 84 N.C.L. Rev., 547 ss.;
ASCARELLI, T., Teoria della concorrenza e dei beni immateriali – Istituzioni di diritto industriale, III, Milano, 1960;
AUGE', M. - COLLEYN, J.P., L'Antropologia del Mondo Contemporaneo, Milano, 2006 [2004];
BARNARD, A. - SPENCER, J., Culture, in Routledge Encyclopedia of Social and
Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 168 ss.;
BARTH, F., Rethinking the Object of Anthropology, in AA.VV., A Conversation
about Culture, in American Anthropologist, New Series, Vol. 103, No. 2, 2001,
432 ss.;
BARTOK, B., Scritti sulla musica popolare, a cura di D. Carpitella, Torino, 19772001;
109
BEDJAOUI, M., The Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural
Heritage: the legal framework and universally recognized principles, in Musem International, LVI, I-II, 2004, 150 ss.;
BLACKING, J., Challenging the Myth of 'Ethnic' Music: First Performances of a
New Song in an African Oral Tradition, 1961, in Yearbook for Traditional Music,
21, 1989,17 ss.;
BLAKE, J., Developing a New Standard-setting Instrument for the Safeguarding of Intangible Cultural Heritage Elements for consideration, UNESCO, 2001;
BLAKE, J., On Defining the Cultural Heritage, in The International and Comparative Law Quarterly, 2000, Vol. 49, No. 1, 61 ss;
BLUMENTHAL, A., A New Definition of Culture, in American Anthropologist,
New Series, Vol. 42, No. 4, Part 1, 571 ss.;
BORTOLOTTO, C., Le trouble du patrimoine culturel immatériel in Le patrimoine
culturel immatériel: enjeux d’une nouvelle catégorie. Maison des Sciences de
l’Homme, collection «Cahiers d’ethnologie de la France», a cura di Chiara Bortolotto, Parigi, 2011.
BRONSON, B.H., Melodic Stability in Oral Transmission, in Journal of the International Folk Music Council, 3, 1951, 50 ss.;
CARPENTER, M., Intellectual Property Law and Indigenous Peoples: Adapting
Copyright Law to the Needs of a Global Community, in Yale Human Rights & Development Law Journal, 7, 2004, 51 ss;
CARPITELLA, D., Folklore e Diritto d'autore, in EM, 2003, I, 89 ss.;
CIMINELLI, M.L., Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e possibili
effetti collaterali: etnomimesi ed etnogenesi, in Le identità culturali nei recenti strumenti UNESCO. Un approccio nuovo alla costruzione della pace?, a cura di L. Zagato, I, Padova, 2008, 99 ss.;
CIRESE, A.M., Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma, 1997;
CRISTOFOLINI, P., Gramsci e il diritto naturale, in Critica Marxista, 1976, 105
ss.;
DE MAURO, T., Dizionario della lingua italiana, Torino, 2000;
DE MAURO, T., Dizionario della lingua italiana, Torino, 2000;
110
DE PROPRIS, F., La tutela delle opere folkloriche, in EM, 2003, I, 97 ss.;
DE PROPRIS, F., La tutela delle opere folkloriche, in EM, 2003, I, 97 ss.;
DE SANCTIS, V., La conferenza diplomatica di Stoccolma della proprietà intellettuale, in IDA, 1967, 303 ss.;
DEI, F., Cultura popolare, in AM. Antropologia museale, XII, 2009, 30 ss.;
DEI, F., Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico italiano, in M. Santova, M. Pavanello, a cura di, Bulgaria-Italia. Dibattiti, culture locali, tradizioni, Sofia, 2006, 145 ss.;
DEI, F., Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione gramsciana negli studi
folklorici, in Lares, LXXIV (2), 2008, 445 ss.;
DEVOTO, G. - OLI, G.C., Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1990;
DUTFIELD SENIOR, G., Protecting Traditional Knowledge and Folklore, in Issue
Papers, 2003, I.;
FABIETTI, U. - R. MALIGHETTI – V. MATERA, Dal tribale al globale, Introduzione all'antropologia, Milano, 2002;
FELD, S., A Sweet Lullaby For World Music, in Public Culture 2000, 12(1), 145
ss.;
FOLEY, D.E., Does the Working Class Have a Culture in the Anthropological
Sense?, in Cultural Anthropology, Vol. 4, No. 2, 1989, 137 ss.;
FORLATI, L. - ZAGATO, L., Cultura e innovazione nel rapporto tra ordinamenti,
in Quaderni di Aida, Milano, 2000;
FRANCIONI, F., Beyond State Sovereignty: the Protection of Cultural Heritage as
a Shared Interest of Humanity , in Michigan Journal of International Law, 25, 2004,
1209 ss.;
FUBINI, E., L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino, 1987;
FUBINI, E., L’estetica musicale dall’antichità al Settecento, Torino, 1976;
GALLINI, C., Tradizioni sarde e miti d’oggi , Cagliari, 1977;
GALTIERI, G., Folclore e diritto d'autore, in IDA, 1973, 379 ss.;
111
GERVAIS, D.J., Spiritual but not Intellectual? The Protection of Sacred Intangible
Traditional Knowledge, in Cardozo Journal of International and Comparative Law,
2003, 11, 467 ss.;
GIANNICHEDDA, E., Cultura materiale, in AA. VV., Dizionario di archeologia,
a cura di R. Francovich - D. Manacorda, Torino, 2000, 99 ss.;
GRAB, H., Free trade and cultural industry: finding a way to sleep in the same bed,
in Alberta Law Review, XLV, 2007, 421 ss.;
GRAMSCI, A., Lettere dal carcere. Nuova ed. riveduta e integrata sugli autografi,
con centodiciannove lettere inedite, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini., Torino,
1965, XLV;
GRAMSCI, A., Quaderni del carcere, Edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura
di V. Gerratana, Torino, 1975;
HAIGHT FARLEY, C., Protecting Folklore of Indigenous People: is Intellectual
Property the Answer?, in Connecticut Law Review, 1997;
HALPERN, S. W., C. ALLEN NARD, K. L. PORT, Fundamentals of United
States intellectual property law : copyright, patent, trademark, III, Alphen aan den
Rijn, 2011;
HERZFELD, M., Folklore, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 300 ss.;
JANEVA OSEITUTU, J., Traditional knowledge: is perpetual protection a good
idea?, 50 IDEA 697;
JIBSON, J., Intellectual Property Systems, Traditional Knowledge and the Legal
Authority of Community, in European Intellectual Property Review, 2004, 280 ss.;
JOHNSON, M., “Research on traditional environmental knowledge: its development and its role”, in M. Johnson (ed.), Lore: Capturing Traditional Environmental Knowledge, Ottawa: IDRC, 1992;
KEITUMETSE, S., UNESCO 2003 Convention on Intangible Heritage: Practical
Implications for Heritage Management Approaches in Africa, in The South African
Archaeological Bulletin, 2006, LXI, 166 ss.;
KIRSHENBLATT-GIMBLETT, B., Intangible Heritage as Metacultural Production, in Musem International, LVI, I-II, 2004, 52 ss.;
KURIN, R., Safeguarding Intangible Cultural Heritage in the 2003 UNESCO Convention: a critical appraisal, in Musem International, LVI, I-II, 2004, 66 ss.;
112
KURIN, R., The UNESCO Questionnaire on the Application of the 1989 Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore: Preliminary
Results, (URL: http://www.folklife.si.edu/resources/Unesco/kurin.htm);
KURUK, P., Protecting Folklore Under Modern Intellectual Property Regimes: a
Reappraisal of the Tension Between Individual and Communal Rights in Africa and
the United States, in 48 Am. U.L. Rev., 1999, 769 ss.;
LEIMGRUBER, W., Switzerland and the Unesco Convention on Intangibile Cultural Heritage, in Journal of Folklore Research, 2010, Vol. 47, No. 1-2, 161 ss.;
LEONELLI, L., Per una legge sulla musica popolare, in IDA, 1972, 1 ss.;
LIEBER, J., WEISBERG, R.E., Globalization, Culture, and Identities in Crisis, in
International Journal of Politics, Culture, and Society, Vol. 16, No. 2, 273 ss.;
LOFFREDO, E., L'impresa di spettacoli, anche sportivi, in AIDA, 2007, 313 ss.;
LOFFREDO, E., Profili giuridici della tutela delle produzioni tipiche, in Riv. Dir.
Ind., I, 2003, 139 ss.;
LONG, D.E., Crossing the Innovation Divide, in Temple Law Review, 2008, 507
ss.;
LONG, D.E., The Impact of Foreign Investment on Indigenous Culture: An Intellectual Property Perspective, in 23 N.C. J. Int'l L. & Com. Reg., 1998, 229 ss.;
LONG, D.E., Traditional Knowledge and the Fight for the Public Domain, in The
John Marshall Review of Intellectual Property Law, 2006, 317 ss.;
LORTAT-JACOB, B., Musiques du monde: le point de vue d'un ethnomusicologue,
(URL http://www.sibetrans.com/trans/trans5/lortat.htm);
LUCAS-SCHLOETTER, A., Folklore, in AA. VV., Indigenous Heritage and Intellectual Property, Genetic Resources, Traditional Knowledge and Folklore, a cura di
S. Von Lewinsky, Kluwer Law International, 2008, 339 ss.;
MACCHIARELLA, I., Dove il tocco di Re Mida non arriva. A proposito di proclamazioni Unesco e musica, in La Ricerca Folklorica, 63, 2011, in corso di pubblicazione;
MADAU, V., nota a Trib. Cagliari, 15 gennaio 2008, n. 119, in Rivista Giuridica
Sarda, III, 2010, 561 ss.;
113
MANSANI, L., La tutela delle espressioni di folklore, in AIDA, 2005, 335 ss.;
MEZEY, N., The Paradoxes of Cultural Property, in Columbia Law Review, 2007,
Vol. 107, No. 8, 2004 ss.;
MIRE, S., Preserving Knowledge, not Objects: a Somali Perspective for Heritage
Management and Archaeological Research, in The African Archaeological Review,
2007, Vol. 24, No. 3/4, 49 ss.;
MOLINO, J., Che cos'è l'oralità musicale, in Enciclopedia della Musica Einaudi
V/2005, 367 ss.;
MORAN, L.M., Intellectual Property Law Protection for Traditional and Sacred
"Folklife Expressions" - Will Remedies Become Available to Cultural Authors and
Communities?, in University of Baltimore Intellectual Property Law Journal, 6,
1998, 99 ss.;
MOREIRA DA SILVA, M., Folklore and Copyright, in EBU Review, 1967, CI, 53
ss.;
MOSSETTO, G., Attribuzione dei diritti e patrimonio culturale, in AA.VV. La negoziazione delle appartenenze. Arte, identità e proprietà culturale nel terzo e quarto
mondo, a cura di M. L. Ciminelli, Milano, 2006;
MUNZER, S.R., The Uneasy Case for Intellectual Property rights in Traditional
Knowledge, in Cardozo Arts & Entertainment Law Journal, 2009, 27, 37ss.;
MUSSO, A., Diritto di autore sulle opere dell'ingegno letterarie e artistiche, in
Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, BolognaRoma, 2008;
NAS, P.J.M., Masterpieces of Oral and Intangible Culture: Reflections on the UNESCO World Heritage List, in Current Anthropology, 2002, Vol. 43, No. 1, 139
ss.;
OGUAMANAM, C., Localizing Intellectual Property in the Globalization Epoch:
The Integration of Indigenous Knowledge, in Indiana Journal of Global Legal Studies, 2004, Vol. 11, No. 2, 135 ss.;
OKPEWHO, I., The Preservation and Survival of African Oral Literature in Research in African Literatures, 2007, Vol. 38, No. 3, 7 ss.;
114
OSI, C., Understanding Indigenous Dispute Resolution Processes and Western Alternative Dispute Resolution: Cultivating Culturally Appropriate Methods in Lieu
of Litigation, in Cardozo Journal of Conflict Resolution, 10, 163ss.;
OSTERGARD, R.L. Jr., TUBIN, M.R., DIKIRR, P., Between the Sacred and the
Secular: Indigenous Intellectual Property, International Markets and the Modern
African State, in The Journal of Modern African Studies, 2006, Vol. 44, No. 2, 309
ss.;
PALUMBO, B., L'Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in
Sicilia orientale, Roma, 2006;
PERRONI, S., Antonio Gramsci e il folclore: i contributi gramsciani allo sviluppo
dell'antropologia italiana attraverso Lettere e Quaderni, in Antrocom, 2005, I, 185
ss.;
PIZZA, G., Tarantism and the politics of tradition in contemporary Salento,
chapter 8, pp. 199-223, in F.PINE – D.KANEFF – H.HAUKANES (eds.),
Memory, Politics and Religion. The past meets the present in Europe, Max Planck
Institute for Social Anthropology, Halle Studies in the Anthropology of Eurasia,
Lit Verlag, Münster, 2004;
RAPPORT, N., Community, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 142 ss.;
RESCIGNO,
XXIV/1991;
P.,
Personalità
(diritti
della),
in
Enciclopedia
giuridica,
SANFORD RIKOON, J., On the Politics of the Politics Origins: Social (In) Justice
and the International Agenda on Intellectual Property, Traditional Knowledge, and
Folklore, in The Journal of American Folklore, 2004, Vol. 117, No. 465, 325 ss.;
SCAFIDI, V. S., Intellectual Property and Cultural Products, in Boston University Law Review, 81, 2001, 793 ss.;
SCARNECCHIA, P., Musica popolare e musica colta, Milano, 2000;
SCHER, P.W., UNESCO Convention and Culture as a Resource, in Journal of
Folklore Research, 2010, Vol. 47, No. 1-2, Special Double Issue: Ethnological Knowledges / Edited by Michaela Fenske and Antonia Davidovic-Walther, 197 ss.;
SCHNEIDER, M., Le role de la musique dans la mythologie et les rites des civilisa115
tions non européennes, Parigi, 1960;
SEE SILLITOE, P., What, know natives? local knowledge in development, in Social
Anthropology, 1998, VI, 203 ss.;
SHEHAN CAMPBELL, P., Orality, Literacy and Music's Creative Potential: A
Comparative Approach, in Bulletin of the Council for Research in Music Education,
101, 1989, 30 ss.;
SLAVEC GRADISNIK, I., Slovenian Folk Culture: Between Academic Knowledge
and Public Displaying, in Journal of Folklore Research, 2010, Vol. 47, No. 1-2, Special Double Issue: Ethnological Knowledges / Edited by Michaela Fenske
and Antonia Davidovic-Walther, 123 ss.;
STABILE, S. - CAVAGNA DI GUALDANA, G. - SACCO, A., La tutela giuridica del folklore e del patrimonio culturale immateriale, in Dir. Ind., 2007, III, 289 ss.;
STOKES, M., Music, in Routledge Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, a cura di A. Barnard – J. Spencer, 2010, 488 ss.;
STOLTZENBERG, N.M., What We Talk about When We Talk about Culture, in
AA.VV., A Conversation about Culture, in American Anthropologist, New Series,
Vol. 103, No. 2, 2001, 444;
TORSEN, M., Reflections on Intellectual Property, Traditional Knowledge and Cultural Expressions: Intellectual Property and Traditional Cultural Expressions: a
Synopsis of Current Issues, in Intercultural Human Rights Law Review, 3, 2008,
199 ss.;
TRAUBE, E.G., "The Popular" in American Culture, in Annual Review of Anthropology, 25, 1996, 127 ss.;
TYLOR, E. B., Primitive Culture, Cambridge, 2010 [1871];
VANZETTI, A., DI CATALDO, V., Manuale di Diritto Industriale, VI, Milano,
2009;
VENTURINI, G.C., Beni immateriali, in Enciclopedia Giuridica, Milano, V/1959,
244 ss.;
VON LEWINSKI, S., An Analysis of WIPO's Latest Proposal and the Model Law
2002 of the Pacific Community for the Protection of Traditional Cultural Expressions, in C. ANTONS (a cura di), Traditional Knowledge, Traditional Cultural
Expressions and Intellectual Property Law in the Asia-Pacific Region, Alphen aan
116
den Rijn, 2009, 109 ss.;
VON LEWINSKI, S., The protection of Folklore, Symposium, Traditional
Knowledge, Intellectual Property and Indigenous Culture, in Cardozo Journal
of International and Comparative Law, 2003, 747 ss.;
WAX, M.L. How Culture Misdirects Multiculturalism, in Anthropology & Education Quarterly, Vol. 24, No. 2, 99 ss.;
WIESSNER, S., Intellectual Property and Indigenous Peoples: An Overview, in
Proceedings of the Annual Meeting (American Society of International Law), 2001,
Vol. 95, 151 ss.;
ZAGATO, L., La Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale intangibile, in Le identità culturali nei recenti strumenti UNESCO. Un approccio nuovo alla
costruzione della pace?, a cura di L. Zagato, I, Padova, 2008, 27 ss.;
ZEMP, H., The/An Ethnomusicologist and the Record Business, in Yearbook for
Traditional Music, 28, 1996, 35 ss.
117
Fly UP