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Luoghi e Non-Luoghi Places and Non-Places

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Luoghi e Non-Luoghi Places and Non-Places
32
Projects
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
Nel radicale processo di
trasformazione che caratterizza
il nostro tempo, l’architettura
è chiamata a progettare
i “luoghi” storici, fissati dalla
tradizione, e i “non-luoghi”
emergenti dalla crisi della
modernità. Nascono nuovi
spazi, nuovi modelli
di relazione, nuove immagini,
nuovi linguaggi visivi.
As part of the radical process of
transformation characterizing
the age in which we live,
architecture is called upon
to design historical “places”
as handed on by tradition
and “non-places” emerging from
the crisis in modernity. This has
led to the emergence of new
spaces, new models
for relationships, new images,
and new visual idioms.
Luoghi e Non-Luoghi
Places and Non-Places
Ripensare lo spazio urbano
Re-thinking urban space
Maurizio Vitta*
È
a Marc Augé, come è noto, che si deve la
riflessione sui “luoghi” e sui “non-luoghi”
che da qualche tempo appassiona architetti e
urbanisti. Ma su queste nozioni bisogna intendersi:
esse sono affiorate nell’ambito di studi di natura
etnologica e antropologica, e hanno toccato i territori delle discipline progettuali solo in quanto queste ci hanno dato alcune tra le rappresentazioni più
vivide di un mutamento sociale di dimensioni planetarie, sul quale è ancora difficile pronunciarsi.
Ciò impone dunque di riferirle a universi culturali
più ampi, partendo dalla percezione del mondo
che attualmente domina la nostra società per arrivare ai modelli di comportamento collettivo che ne
conseguono.
Augé, che insegna Logica simbolica e Ideologia
all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di
Parigi, è uno studioso di antropologia delle società
complesse. Nel suo libro Non-lieux, uscito in
Francia nel 1992 e tradotto in Italia un anno dopo
da Elèuthera col titolo Non-luoghi. Introduzione ad
una antropologia della surmodernità, egli ha sviluppato un’analisi del “luogo antropologico” partendo da due idee: la prima sostiene la centralità
dell’individuo nell’analisi antropologica; la seconda
sottolinea come lo “sguardo antropologico” sia
oggi sollecitato non più da fenomeni “esotici”, ma
dal mondo contemporaneo nel quale noi stessi
viviamo. Questo mondo è però soggetto a radicali
trasformazioni. È mutata la percezione del tempo,
oppressa da una “sovrabbondanza di avvenimenti”
che provoca una “accelerazione della storia”; è
mutato il concetto di spazio, che si riduce a un
punto nel momento stesso in cui il mondo ci si spalanca dinanzi; ed è mutata infine la “figura dell’ego”, dell’individuo, che sempre più “si considera
un mondo a sé”. Viviamo dunque, per Augé, una
situazione di “eccesso” – di tempo, di spazio, di
individualità – grazie alla quale la “modernità”
novecentesca si è trasformata in una surmodernité
– tradotta in italiano col termine “surmodernità” –
che esige nuovi modelli d’analisi antropologica.
È evidente che queste “tre figure dell’eccesso” tendono a condizionarsi reciprocamente; ed è altrettanto chiaro che tanto quella del “tempo” quanto
quella dell’“ego” finiscono col convergere nella
figura dello “spazio”, nella quale esse si trovano
rappresentate, definite da situazioni concrete e
composte in immagini omogenee e coerenti. È a
questo punto che, nell’analisi di Augé, affiora la
nozione di “luogo”, o meglio di “luogo antropologico”, vale a dire lo “spazio” socialmente e culturalmente organizzato sulla base delle relazioni, del-
le percezioni e delle immagini che definiscono la
natura del gruppo che lo abita. Per comprendere
una identità collettiva, l’antropologo deve dunque
compiere un “percorso essenzialmente ‘culturale’,
poiché, passando attraverso i segni più visibili, più
istituiti e più riconosciuti dell’ordine sociale, esso ne
disegna simultaneamente il luogo”. In altri termini,
lo spazio abitato rispecchia i caratteri sociali del
gruppo nella misura in cui questi lo trasformano in
luogo antropologico.
Ma che accade nella surmodernità, quando l’eccesso cancella i tratti distintivi dell’esistenza, li
confonde, li rende fluidi e inafferrabili? È qui che
affiora il concetto di “non-luogo” come “spazio”
tipico della nostra condizione contemporanea.
“I non-luoghi”, scrive Augé, “sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a scorrimento veloce,
svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stesso o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi
profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta”. Di questi “non-luoghi” sappiamo pochissimo. In essi, infatti, le strutture sociali storicamente
codificate si dissolvono, i concetti di “tempo” e di
“individuo” si contraggono o si espandono secondo ritmi imprevedibili, e la stessa nostra percezione
del mondo si fa incerta. È lo stesso Augé a precisarlo: “Il mondo della surmodernità non si commisura esattamente a quello in cui crediamo di vivere;
viviamo, infatti, in un mondo che non abbiamo
ancora imparato a osservare. Abbiamo bisogno di
re-imparare a pensare lo spazio”.
Pensare lo spazio è però compito istituzionale dell’architettura; e non è un caso che negli ultimi
decenni la crisi dell’urbanistica e l’emergere dell’artefatto architettonico come solitario protagonista del panorama urbano siano stati i segnali
più urgenti e immediati del passaggio dalla
modernità novecentesca alla situazione attuale,
attraverso la mediazione, in verità alquanto effimera, della cultura “postmoderna”, preludio – in
prima approssimazione – alla surmodernità additata da Augé come nuova condizione del mondo.
L’architettura, in effetti, è stata costretta a rivedere in profondità – e non certo da oggi – il suo statuto tecnico e culturale, la sua funzione sociale e i
canoni formali destinati a fissarla come immagine
icastica della nostra rappresentazione collettiva. In
pratica, le sono stati affidati nuovi compiti, primo
tra i quali quello di governare il mutamento disegnandone gli spazi nel momento stesso della trasformazione: compito ingrato, che fa dell’innovazione, in mancanza di solidi presupposti funzionali,
un linguaggio destinato a usurarsi rapidamente e
comunque a dichiararsi fin dall’inizio soggettivo e
autoreferenziale.
Non per nulla le maggiori sfide poste all’architettura contemporanea sono venute proprio dai nonluoghi indicati da Augé come figure dell’eccesso
surmoderno: aeroporti, stazioni ferroviarie, centri
commerciali, cinema multiplex, musei – tutti spazi
che rispecchiano, nella loro mobilità continua, nel
loro flusso amorfo di presenze e significati, una
realtà più ampia, segnata soprattutto da quella che
l’antropologo francese definisce “la complessa
matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano
lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione
così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso”. In
questa sfida, la posta in gioco non è tanto il valore
culturale dell’architettura, ovvero la sua capacità di
rispondere a richieste sociali precise, quanto la possibilità di definire una griglia di lettura dei fenomeni dalla quale ricavare una normativa di governo
del mutamento. Nell’immediato, ciò che si ricava
dall’esperienza quotidiana è un processo che si
avvita su se stesso. Sulla base di sollecitazioni fondate su basi incerte, si realizzano opere che si
impongono come modelli immediati di interpretazione delle nuove condizioni di vita: musei spettacolari che innovano antichi panorami urbani, trasformazione delle stazioni ferroviarie in àmbiti di
consumo e di transito commerciale, moltiplicazione
del negozio in enormi complessi polifunzionali e
così via. Ma la stessa presenza di queste strutture
finisce col modellare i comportamenti di chi ne
fruisce, il che moltiplica l’accelerazione delle esperienze e conferma lo stato di incertezza iniziale. Se
infatti è vero che il senso dell’esistenza del nostro
tempo si identifica sempre più nel movimento e
nella sua velocità, è altrettanto vero che di esso
ignoriamo non solo la direzione, ma anche l’orientamento. La distinzione tra luogo e non-luogo
coglie per l’appunto questa condizione. “Se un
luogo può definirsi come identitario, relazionale,
storico”, osserva Augé, “uno spazio che non può
definirsi né identitario né relazionale né storico,
definirà un non-luogo”.
Ma questo mutamento avviene in un contesto planetario che è fittamente storicizzato, e che conserva dovunque il retaggio del suo passato, spesso
tuttora vivo. È il caso, soprattutto, degli edifici del
culto: poli d’attrazione di una religiosità intrinsecamente estranea al mutamento, essi si propongono
spontaneamente come luoghi la cui identità architettonica rispecchia quella storica e relazionale del-
la liturgia che vi si svolge e della fede che ne è ispiratrice, il che ne farebbe dei luoghi in grado di
equilibrare la proliferazione dei non-luoghi. Augé
non è sicuro di questo, e ritiene al contrario che la
surmodernità non integri in se stessa i luoghi antichi, i quali invece, “repertoriati, classificati e promossi ‘luoghi della memoria’, vi occupano un
posto circoscritto e specifico”.
Il problema è però aperto, almeno per ciò che
riguarda le chiese. Per un verso si può sostenere
che la stabilità del culto impone una sostanziale
invariabilità delle strutture e degli spazi, appena
intaccata dal mutamento delle forme e delle immagini di cui può farsi carico la cultura architettonica;
il che darebbe conto della presenza, nel panorama
occidentale, di chiese che si richiamano a linguaggi
progettuali tipici della modernità e oltre, a partire
da quelle realizzate da Michelucci, Quaroni e
Spadolini, per finire alla recente fatica di Richard
Meier a Roma. Per un altro, però, non sono da
ignorare spinte tendenti ad accogliere nel seno della tradizione sollecitazioni provenienti da realtà
nuove e in ebollizione, come il mondo giovanile o
le culture non occidentali, che premono per una
maggiore elasticità – e molteplicità – del rapporto
tra rito, fedele e spazio sacro.
Il discorso è destinato, evidentemente, a restare
aperto. In effetti, non solo, come osserva Augé, “i
non-luoghi rappresentano l’epoca”, ma costituiscono anche lo spazio entro il quale noi stessi ci
muoviamo, trasformandoci con il loro stesso ritmo.
Solo che, invece che essere euclideo, questo spazio
ci si presenta come un iperspazio, il cui senso è
afferrabile solo nella moltiplicazione dei collegamenti, nello sterminato intreccio delle relazioni, nella moltiplicazione delle identità. Si potrebbe pensare
allora allo “spazio” come non-luogo e all’iperspazio
come luogo antropologico della surmodernità? Per
quanto prematura, l’ipotesi è allettante. In ogni
caso, varrebbe la pena di approfondirla.
* Maurizio Vitta è laureato in filosofia, è docente di Teorie e
Storia del Disegno industriale presso la III Facoltà di Design e
Architettura del Politecnico di Milano. E’ autore di numerosi
articoli, saggi e libri sull’arte, la letteratura, l’architettura e il design contemporanei. Collabora con il supplemento domenicale
de “Il Sole24ore” ed è vicedirettore de “l’Arca”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema
delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design
tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.
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A
s we know it was Marc Augé who first studied
the phenomenon of “places” and “non-places,”
that architects and town-planners have become
so interested in over recent times. But we need to clarify these notions properly: they first emerged in the
realms of ethnological and anthropological studies,
and have only really been incorporated in design because it has provided us with some of the most vivid
representations of social change on a planetary scale,
whose consequences are still uncertain. This means
they really ought to be referred to much wider fields of
culture, starting with the way the world is perceived in
present-day society and eventually progressing to the
collective behavioural patterns they entail.
Augé, who teaches Symbolic Logic and Ideology at the
École des Hautes Études en Sciences Sociales in Paris, is
a scholar of the anthropology of complex societies. In
his book called Non-lieux, which was first published in
France in 1992 and translated into English in 1995 under the title Non-Places: Introduction to an Anthropology of Supermodernity, he analyzed the concept of
“anthropological place” based on two ideas: firstly
placing the individual at the focus of anthropological
analysis; and secondly underlining that our “anthropological eyes” are no longer attracted to “exotic” phenomena but rather to the contemporary world in which
we ourselves live. But this world is undergoing radical
changes. Our perception of time has changed after being bombarded by an “overabundance of events” causing an “accelerating of history;” the concept of space
has changed, being reduced to a point at the very moment when the world opens up before us; and finally
the “figure of the ego” has also changed, the individual
who increasingly “considers he is a world of his own.”
Augé thinks we are living in an “excess” of time, space
and individuality, resulting in twentieth-century
“modernity” being turned into surmodernité (translated into English as supermodernity) calling for new
forms of anthropological analysis.
It is obvious that these “three figures of excess” tend to
reciprocally influence each other; and it is equally evident that the figures of both “time” and the “ego” end
up converging into the figure of “space” in which they
are represented, defined by concrete situations and
composed of smooth and coherent images. This is the
point where the notion of “place” or rather “anthropological place” emerges in Augé’s analysis, or in other
words “space” which is socially and culturally organized
around relations, perceptions and images defining the
nature of the group inhabiting it. In order to grasp collective identity, an anthropologist must follow an “essentially ‘cultural’ path, because, through the most visi-
ble, established and widely-acknowledged signs of the
social order, it simultaneously designates the place in
which it unfolds.” In other words, the inhabited space
mirrors the social traits of the group to the extent that
they turn it into an anthropological place.
But what happens in supermodernity when sheer excess cancels out the distinctive features of existence,
mixes them up, and makes them fluid and ungraspable? This is where the concept of a “non-place”
emerges as a typical “space” of our modern-day condition. Augé writes that “non-places are the installations
required for the accelerated circulation of people and
goods (fast-running roads, turn-offs, airports), as well
as the means of transport themselves, big shopping
malls or even refugee camps where the planet’s homeless are parked away.” We know very little about these
“non-places.”
The historically coded structures of society fade away
here, the concepts of “time” and “individual” contract
or expand at unexpected rates and our very perception
of the world grows uncertain. As Augé points out: “The
world of supermodernity does not correspond precisely
to the world in which we think we live; we actually live
in a world that we have not yet learnt to observe. We
need to re-learn to think space.”
But thinking about space is architecture’s official task;
and it is no coincidence that the crisis in town-planning
and emergence of the architectural artifact as the only
leading player on the cityscape over the last few
decades have become the most pressing and urgent
signs of the transition from twentieth-century modernity to the current state of affairs, mediated (rather
transiently it must be admitted) by “postmodern” culture as a prelude—as a first approximation—to the supermodernity Augé talks about as the world’s new condition. Architecture has in fact been forced to profoundly revise—and not just starting now—its own
technical-cultural by-laws, its social functions, and the
stylistic canons designed to make it an icastic image of
our collective representation. In actual fact it has been
given new tasks, most significantly to control change
by designing its spaces as change actually occurs: a
thankless task which, in the absence of firm practical
premises, makes innovation a language soon destined
to fade or, in any case, openly avow its subjective, selfreferential nature right from the start.
It is no coincidence that the greatest challenges facing
modern-day architecture have come from those very
non-places Augé pointed out as being figures of supermodern excess: airports, railway stations, shopping
malls, multiplex film theatres, museums—all places reflecting reality on a much wider scope and scale
through their constant motion and shapeless flow of
presences and meanings; reality marked above all by
what the French anthropologist describes as “an intricate skein of cabled or wireless networks mobilizing extra-terrestrial space for means of communication peculiar enough to often bring individuals into contact with
just another image of themselves.” The stakes in play in
this challenge are not so much the cultural value of architecture (i.e. its ability to meet specific social needs)
as the possibility of setting up a grid for reading the
phenomena setting the normative regulations for controlling change.
The initial result of daily experience is a process that
twists around itself. Based on input grounded on uncertain foundations, works are constructed that provide instant guidelines for interpreting new living conditions:
spectacular museums innovating old cityscapes, the
transformation of railway stations into trading and consumer sites, the multiplying of shops into huge multipurpose complexes and so on. But the very presence of
these structures ends up shaping the behavior of their
users, speeding up experience even more, and confirming the initial state of uncertainty. Even though our
modern-day sense of life is increasingly identified with
motion and speed, it is equally true that we do not know
either their direction or orientation. Distinguishing between places and non-places grasps this state of affairs:
“If a place can be defined as relational, historical, and
concerned with identity,” so Augé points out, “then a
space which cannot be defined as relational, or historical, or concerned with identity will be a non-place.”
But this change is taking place in a planetary context
that is densely historicized and hence still holds onto
the heritage of its past, that is still very much alive. This
is particularly true in the case of places of worship: by
attracting religious feeling that is intrinsically alien to
change, they spontaneously present themselves as
places whose architectural identity mirrors the historical/relational identity of the worshipping that goes on
inside and the faith that inspires it, making them places
capable of counterbalancing the proliferation of nonplaces. Augé is not so sure of this and, on the contrary,
believes that supermodernity does not integrate the
earlier places, which instead are “listed, classified, promoted to the status of ‘places of memory’, and assigned to a circumscribed and specific position.”
This is an open issue, however, at least as far as churches are concerned. On one hand, it may be claimed that
the stable nature of worship calls for basically invariant
structures and spaces hardly affected at all by any
change in forms and images associated with architectural design; this would account for the presence in the
West of churches designed along the typical lines of
modernity and beyond, such as those designed by
Michelucci, Quaroni and Spadolini, not to mention
Richard Meier’s recent work in Rome.
But on the other hand there can be no ignoring a certain
tendency to try and incorporate into tradition fresh input from new enthusiastic sources, like the world of
young people and non-western cultures, all calling for
greater elasticity—and multiplicity—between ritual,
faith, and religious space.
Of course this is destined to remain an open question.
Indeed, not only (as Augé points out) do “non-places
represent our age,” they are also the space in which we
ourselves move, transforming us at their own rhythm
and rate.
The difference is that this is not Euclidean space, it is a
hyperspace, whose meaning can only be grasped
through a multiplicity of links in an endless web of relations, and in a multiplication of identities. Does this
mean “space” may be thought of as a non-place and
hyperspace as the anthropological place of supermodernity? This is a tempting hypothesis, however premature it might seem. In any case, it is certainly worth
looking into.
* Maurizio Vitta, graduated in philosophy, is professor of Theories and
History of Industrial Design at the III Faculty of Design and Architecture
at the Politecnico University in Milan. He has written many articles,
essays and books on contemporary art, literature, architecture and
design. He writes for the Sunday supplement of “Il Sole 24 Ore”, and
is deputy editor of “l’Arca.” Among his recent books: Il disegno delle
cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto
della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001.
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LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
Nel segno della bellezza
In the Name of Beauty
Strasburgo, Palazzo del Parlamento Europeo
Strasbourg, European Parliament Building
Progetto di Architecture Studio
Project by Architecture Studio
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S
e il concetto di trasparenza sta alla politica come la
bellezza sta all’architettura, il complesso del Parlamento Europeo è già un’icona, un parametro di riferimento per altre costruzioni destinate a rappresentare
comunità di popoli diversi. Articolazione volumetrica, varietà di piani e scala paesaggistica restituiscono il senso di
un’architettura centripeta, aperta non solo alla città di
Strasburgo ma anche al mondo intero. Il tutto senza enfasi monumentale, con un elegante understatement
espresso attraverso l’immaterialità di ampie superfici vetrate e senza voler stupire con effetti speciali di alta tecnologia, troppo spesso, in simili contesti, risultata inadeguata poiché autoreferenziale. Tutto ciò non ha comunque
impedito ai progettisti di creare una serie di luoghi ad alto
tasso emozionale, di realizzare ambienti di grande suggestione, come nel caso dello spazio intorno al grande emiciclo, caratterizzato da scale elicoidali, vari ascensori a vista, da passaggi pedonali in quota in grado di creare vertiginose quanto emozionanti visioni prospettiche.
Posto alla confluenza tra il fiume Ill e il canale della Marna
al Reno, il complesso si pone come un vero e proprio brano urbano, un luogo in cui coesistono una piazza, varie
strade ornate da giardini e una passerella in vetro che attraversa il canale nel bacino del fiume Ill, collegando il
Parlamento al Palazzo d’Europa, un edificio senza particolari attributi, realizzato negli anni Settanta.
La necessità di costruire un nuovo complesso per accogliere il Parlamento Europeo si evidenzia verso la fine
degli anni Ottanta, quando gli spazi del Palazzo d’Euro-
pa divengono insufficienti ad accogliere nuove strutture burocratiche. Una preselezione, che vede la partecipazione di circa cento studi di architettura, individua tra
i possibili progettisti, per l’Italia il gruppo coordinato da
Pierluigi Spadolini, per la Gran Bretagna Powell e Moya
e per la Francia Jourda et Perraudin e Architecture Studio. Vince su tutti – forse avvantaggiato poiché ancora
nella lunga scia di fama acquisita come autore (insieme
a Jean Nouvel, Soria e Lézènes) dell’Istituto del Mondo
Arabo, realizzato a Parigi fra il 1981 e il 1987 – il gruppo composto da Martin Robain, Rodo Tisnado, JeanFrançois Bretagnolle, René-Henry Arnaud, LaurentMarc Ficher e Gaston Valente.
L’obiettivo principale del progetto era di realizzare
un’architettura di forte impatto, un’icona che, attraverso un linguaggio pregnante di allusioni e rispecchiamenti al passato, traducesse in forme contemporanee
archetipi – come sostengono i progettisti – del Classico
e del Barocco. La classicità come portatrice dell’ordine
delle proporzioni, della simmetria, dell’importanza della funzione pedagogica dell’arte e dell’architettura; del
Barocco, come controcanto, si è recuperato il movimento quale trasgressione ideologica e il capriccio come espressione di geometrica follia. Il tutto mixato con
una tecnologia non invasiva, affinché non fossero oscurati altri segnali, altre sonorità in sintonia con la città. La
maglia, infatti, su cui è organizzato il sistema planimetrico del complesso riprende le coordinate con cui è stato concepito il reticolo viario di Strasburgo.
I
f transparency is to politics what beauty is to architecture, then the European Parliament complex is already an icon, a guideline for other constructions designed to represent communities of different people.
The structural layout, variety of planes and landscape
scale of the design create a sense of centripetal architecture, open not only to the city of Strasbourg but also
to the world.
All this without resorting to heroic-monumental forms,
drawing on an elegant sense of understatement
through the immateriality of wide glass surfaces and
refusing to try and astound us with high-tech special
effects, which far too often in this kind of context turn
out to be unsatisfactory due to their self-referential nature. Nevertheless, all this has not stopped the architects from creating a series of highly emotive spaces
and evocative surroundings, as epitomized by the
space around the large hemicycle featuring spiral staircases, a variety of exposed lifts and high-level walkways
creating head-spinning and striking views.
Situated where the River Ill and the Marne-Rhine Canal
flow together, the complex looks like an authentic fragment of cityscape, a place where a square, various roads
lined with gardens and a glass walkway crossing the
canal in the basin of the River Ill all co-exist. This is where
the new Parliament complex is connected to the rather
bland Palace of Europe constructed in the 1970s.
It became clear in the late 1980s that a new complex
would be needed to house the European Parliament, as
the Palace of Europe did not have enough room to accommodate the new bureaucratic structures.
A pre-selection process picked out about one hundred
architectural firms as potential designers of the new facility: a team headed by Pierluigi Spadolini for Italy,
Powell and Moya for Great Britain, and Jourda et Perraudin and Architecture Studio for France. The eventual
winner—perhaps exploiting the advantage of the great
reputation it had earned for designing (together with
Jean Nouvel, Soria and Lézènes) the Arab World Institute in Paris from 1981 to 1987—was the team composed of Martin Robain, Rodo Tisnado, Jean-François
Bretagnolle, René-Henry Arnaud, Laurent-Marc Ficher
and Gaston Valente.
The main purpose of the project was to design a striking piece of architecture; an icon drawing on plenty of
stylistic allusions and reflections of the past to translate
archetypes of the Classical and Baroque periods (as the
architects themselves put it) into modern-day forms. Its
classical verve lends a sense of order, proportion and
symmetry, focusing on the educational importance of
art and architecture. In contrast, the influence of the
Baroque can be seen in motion as an ideological transgression and caprice as an expression of geometric folly. All mixed with unobtrusive technology so that other
signs are allowed to emerge, other sounds in harmony
with the city. The basic pattern of the complex’s site
plan draws on the co-ordinates used to design the
Strasbourg road network.
Pagina a fianco, sezione
trasversale. In alto,
modello del complesso;
in basso, pianta del livello
+3,67/+4,00 e pianta del
livello +7,33/+9,17.
Pagine seguenti, un
particolare del sistema di
passerelle pedonali,
ascensori e scale mobili
che conducono
all’emiciclo; scala
elicoidale a doppio
tornante nella corsia
laterale all’asse
principale; il foyer dove si
erge il volume
dell’emiciclo rivestito di
legno di quercia.
Opposite page, cross
section. Top, model of
the complex; bottom,
plan at level
+3.67/+4.00 and plan at
level +7.33/+9.17.
Following pages, a detail
of the footpaths, lifts
and escalators leading to
the hemicycle;
double-twisting spiral
staircase at the side of
the main path; the foyer
where the oak-clad
hemicycle stands.
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41
40
In senso orario, l’aula
dell’emiciclo, dettagli
degli interni e un
particolare dell’asse
principale. L’atmosfera
solare è arricchita
dall’illuminazione
zenitale e dalle piante di
filodendro rampicanti su
cavi d’acciao inox.
Clockwise, the hemicycle
hall, details of the
interiors and detail of the
main axis.
The bright atmosphere is
enhanced by zenith
lighting and
philodendron plants
climbing up the stainless
steel cables.
L???????????? M??????????????
Una sacralità interpersonale
Interpersonal Sacredness
Tokyo, Church of Christ
Tokyo, Church of Christ
Progetto di Fumihiko Maki + Maki Associates
Project by Fumihiko Maki + Maki Associates
È
convinzione comune che le chiese abbiano perso
il senso del sacro, che non siano più la Casa di Dio.
Anche quando si tratta della Cappella di NotreDame-du-Haut, a Ronchamp, realizzata su progetto di
Le Corbusier, considerata un capolavoro di architettura
ma non una vera chiesa poiché concepita eludendo
non poche indicazioni liturgiche.
Ciò è pienamente condiviso da un noto liturgista come
Klaus Gamber che considera l’architettura sacra un luogo immutabile, una struttura spaziale codificata da regole liturgiche destinate a provocare particolari stati
d’animo, anch’essi immutabili.
Questa visione statica del sacro appare però insostenibile poiché è innegabile che l’uomo sia intimamente legato al suo tempo storico: gli stati d’animo dell’uomo
postindustriale sono profondamente diversi da quelli di
chi ha vissuto prima della rivoluzione industriale. Il tempo, dunque, è un forte motore di cambiamento che
coinvolge la cultura, la visione della vita e quindi anche
lo spirito. Anche l’architettura sta radicalmente mutando i suoi statuti disciplinari: il mondo del progetto, nelle
sue espressioni più innovative, punta su un’architettura
orientata verso forme spaziali talmente estreme da capovolgere gerarchie ritenute inamovibili.
Che la forma segue la funzione è ormai un assioma in
via d’estinzione: si tende sempre più a realizzare architetture autoreferenziali. In alcuni casi si assiste a una
sorta di ritorno alle origini, quando l’uomo non costruiva ma sceglieva un luogo, adattandolo alle proprie necessità sia simboliche sia funzionali. Zaha Hadid, architetto inglese di origine irakena di fama internazionale,
descrive la sua architettura “vettoriale” idealmente di-
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Pagina a fianco,
particolare della fronte
ovest, caratterizzata da
una grande facciata
continua di vetro a
doppio strato. Lo strato
esterno è trattato con
una serigrafia ceramica
puntinata in modo da
mascherare in parte la
struttura.
Opposite page, detail of
the west front featuring
a large double-glazed
curtain façade. The
outside sheet of glass is
treated with ceramic
serigraphy to partially
hide the structure.
segnata dalla velocità di un ipotetico missile che, sfrecciando velocissimo davanti a volumi elementari, crea
forme visionarie difficilmente catalogabili rispetto all’immaginario collettivo. Tali metodologie, che, con varianti più o meno simili, sono comuni a molti progettisti, danno vita a una serie infinita di forme archetipali, il
cui valore emozionale è paritario a quello della destinazione funzionale.
L’annosa diatriba fra liturgisti e progettisti sembra dunque risolversi in favore di chi crede più nell’evoluzione
dell’architettura che nella staticità della fede. Qualcosa
in comune per dare sacralità al luogo di culto è tuttavia
rimasta. La luce, grande protagonista sia del Gotico, sia
del Barocco, continua a rappresentare un elemento
simbolico in grado di trasformare lo spazio fisico in un
luogo dell’anima. Fumihiko Maki, nella Church of Christ, usa la luce per dematerializzare la grande parete
translucida prospiciente l’altare, creando nello stesso
tempo un piano luminoso come ideale interfaccia di comunicazione fra Dio e i fedeli.
Anche la particolare configurazione delle pareti laterali
è funzionale al linguaggio della luce: inclinandosi leggermente verso l’esterno, le pareti lasciano filtrare una
lama di luce che illumina la compatta trama verticale
dei pannelli di rivestimento. È quindi chiaro che nelle intenzioni del progettista più l’ambiente è dematerializzato più esprime sacralità. L’interno della chiesa, caratterizzato da rivestimenti e pavimentazioni prevalentemente realizzati in legno di betulla, risulta gradevole e
distensivo, adatto non solo alle procedure rituali ma anche agli incontri e agli scambi interpersonali di chi è
consapevole di appartenere a una comunità.
43
I
44
La scala di legno di
betulla che collega il
piano terra - dove sono
ubicati gli uffici e le sale
destinate alle attività
parrocchiali - al primo
piano in cui è situata
l’aula principale; a
destra, l’atrio del
secondo piano.
The birch wood stairs
connecting the ground
floor – where the offices
and rooms used for
parish activities are
located – to the first
floor where the main hall
is located; right, the
second-floor lobby.
t is a common belief that churches are losing their
sense of holiness and that they no longer feel like a
House of God. Even Le Corbusier’s masterful architectural design for Notre-Dame-du-Haut Chapel in
Ronchamp is not considered a “proper” church, because it was designed without paying due heed to a
number of liturgical guidelines. This is certainly the
view of a well-known expert in liturgy, Klaus Gamber,
who believes that holy architecture should be a neverchanging place, a special structure coded according to
liturgical rules designed to induce certain states of
mind, that are likewise unchanging.
This static vision of holiness is hard to subscribe to because there can be no doubt that man is intimately
bound to the changing historical passage of time: postindustrial man’s state of mind is quite different to that
of people who lived before the industrial revolution.
Time is a powerful driving force behind change that encompasses culture, our view of life and hence even the
human spirit. Architecture is also radically changing its
disciplinary by-laws: the most innovative expressions in
the world of design focus on architecture directed toward spatial forms that are so cutting-edge and extreme that even previously thought unchangeable hierarchies are being turned upside down.
Form follows function is today an invalid axiom: there is
now a growing tendency to design self-referential
works of architecture. In certain cases there is hint of a
return to our origins when man did not build anything
as such, he just chose a place to live and adapted it to
his own symbolic and functional needs. Zaha Hadid, a
British architect of Iraqi origin renowned international-
ly, describes her architecture as “vectorial” ideally designed by the velocity of a hypothetical missile flashing
past simple structures that creates visionary forms hard
to be classed by the collective psyche. These working
methods shared by many architects (more or less similar variations on the same basic theme) bring to life an
endless series of archetypal forms, whose emotional
value is on a par with their functional purposes.
The age-old diatribe between liturgical experts and
designers tends to lean in favor of those who believe
more deeply in architectural progress than the static
nature of faith. Nevertheless, there is still some common ground to ensure the place of worship remains
sacred. Light, the key feature of both Gothic and
Baroque architecture, is still a symbolic element enabling physical space to transform into a spiritual
place. Fumihiko Maki’s Church of Christ uses light to
dematerialize the huge translucent wall overlooking
the altar, at the same time creating a luminous plane
acting as an ideal communicative interface between
God and worshippers.
The peculiar design of the side walls is also geared to
the language of light: as they slope gently outwards the
walls let in a blade of light that illuminates the closelyknit vertical pattern of cladding panels. It is obvious
that the architect feels that a more dematerialized setting is inevitably more holy. The inside of the church
features predominantly birch-wood claddings and
floors creating a soothing and relaxing atmosphere,
suitable for both religious ceremonies and also meetings and encounters between people keenly aware that
they are part of a community.
45
Facciata ovest.
West façade.
46
Pagina precedente,
da sinistra, piante dei
piani terzo, secondo
e terra e la fronte sud.
In questa pagina, in
senso orario, l’aula
principale che può
contenere fino a 700
fedeli, veduta parziale
del sito e planimetria
generale.
Previous page, from left,
plans of the third,
second and ground
floors and the south
front.
This page, clockwise,
the main hall, that can
accommodate up
to 700 worshippers,
partial view of the site,
and site plan.
47
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
Facciata laterale e
particolare della facciata
a nord-est. La chiesa
sorge al centro di un
giardino pubblico ed è
caratterizzata da un
volume cubico sorretto
da dodici pilastri
simboleggianti i dodici
Apostoli.
Riti urbani
Urban Rituals
Side façade and detail of
the north-east façade.
The church stands in the
middle of a public
garden and features a
cube-shaped structure
supported by twelve
columns symbolizing the
twelve Apostles.
Parigi, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance
Paris, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance
Progetto di Architecture Studio
Project by Architecture Studio
L
48
Planimetria generale e
l’ingresso della chiesa
a quota 3,5 metri.
Site plan and church
entrance at a height
of 3.5 meters.
a chiesa di Notre-Dame de l’Arche d’Alliance sorge
nel XV arrondissement, al centro di un giardino pubblico, di fronte a Piazza Falguière. Il complesso è caratterizzato da un volume cubico (contenente l’aula assembleare e il presbiterio con quattro alloggi) sorretto da
dodici pilastri, che simboleggiano le dodici tribù d’Israele e
i dodici Apostoli.
Il volume è contenuto in un reticolo tridimensionale d’acciaio inossidabile – trasposizione spaziale del nartece –
che definisce lo spazio di transizione con l’esterno. La forma cubica è un chiaro riferimento all’Arca dell’Alleanza, il
contenitore in cui erano custodite le Tavole della Legge
che Dio aveva consegnato a Mosé, sul Monte Sinai. Gli interni della chiesa sono, infatti, in legno d’acacia, la stessa
essenza dell’Arca dell’Alleanza.
L’abside del coro è di forma cilindrica, inclinata nel piano
della facciata dove disegna una parabola. Al suo interno
c’è il tabernacolo realizzato in legno d’acacia rivestito di
foglie d’oro. Sull’asse di collegamento fra il coro e l’aula
assembleare trovano posto l’altare, costruito in marmo
di Tassos, l’ambone e gli altri elementi destinati alla funzione liturgica.
Normalmente, il rapporto fra liturgia e architettura sacra
riguarda soprattutto gli spazi interni della chiesa. Il percorso del credente prevede alcune soste ideali: la parte iniziale simboleggia la fase esistenziale di avvicinamento alla fede. Chi attende di essere battezzato è invitato a sostare
nell’area presso l’ingresso, l’abside e il tabernacolo sono le
mete finali del percorso. Nonostante siano presenti molti
elementi simbolici riferibili alla tradizione, la nuova chiesa
si propone come un’architettura in qualche modo trasgressiva, una presa di posizione per dar vita alla ricerca di
un nuovo linguaggio, in altre parole rimettere in gioco il
rapporto fra l’edificio sacro e lo spazio urbano.
La sempre maggiore densità della città pone molti limiti
al suo rinnovamento. La città invecchia, l’architettura anche: poiché la sola sperimentazione rischia di rimanere
semplice teoria, architettura di carta con esigue opzioni
di tradursi in spazio urbano. La valenza simbolica dell’edificio sacro può dunque porsi quale efficace strumento
di riflessione critica per gettare uno sguardo verso il futuro. Il reticolo posto all’esterno della chiesa che, nelle intenzioni dei progettisti, definisce lo spazio di transizione
fra spazio sacro e ambiente urbano è contemporaneamente anche una soglia, una linea virtuale che segna la
divisione degli opposti e nello stesso tempo anche il luogo della loro relazione.
È dunque anche attraverso l’ambiguità semantica dell’assenza/presenza che si può incidere sul linguaggio
dell’architettura contemporanea. Il reticolo della chiesa,
quasi fosse una Gabbia di Faraday, include il tutto e nello stesso tempo è anche una soglia virtuale che estende i
confini geometrici dell’insieme. L’intorno non ha quindi
più una sua identità spaziale certa, poiché intervengono
effetti ottici che ne mettono in discussione la stabilità
della percezione. Questa trasmutabilità virtuale diviene
dunque metafora del costante mutamento del mondo
attraverso una scena urbana che riproduce, in scala ridotta, la condizione d’instabilità che pervade la società
contemporanea.
49
Dal basso in alto, piante
dei piani primo, terzo,
quinto, sesto e sezione
trasversale.
From bottom up, plans
of the first, third, fifth
and sixth floors, and
cross section.
50
N
otre-Dame de l’Arche d’Alliance Church stands
in the 15th arrondissement, in the middle of a
public garden opposite Falguière Square. The
church complex features a cube-shaped structure
(holding the congregation hall and the presbitery with
four lodges) supported by twelve columns symbolizing
the twelve tribes of Israel and the twelve apostles.
The structure is encompassed in a three-dimensional
web made of stainless steel—spatial rendering of a
narthex—marking the area of transition to the outside
environment. The cube-shaped form clearly evokes
the Ark of the Covenant used to hold the Tablets of
Stone inscribed with the Ten Commandments that
God handed down to Moses on Mount Sinai. The interiors of the church are, like the Ark of the Covenant,
made of acacia wood.
The church apse is cylindrical and slopes at an angle toward the façade, where it marks a parabola.
The tabernacle made of acacia covered with golden
leaves is placed inside here. The altar made of Tassos
marble, the ambo and other liturgical features are situated along the axis connecting the choir to the congregation hall.
Religious architecture and liturgy are brought together
through the interiors of a church. Worshippers follow
a sort of ideal path starting with a symbolic rendering
of their own approach to faith. Those awaiting baptism are expected to wait near the entrance area, while
the apse and tabernacle are the final destinations. Despite plenty of references to tradition, the new church
is designed around rather transgressive lines, an approach aimed at searching for a new idiom or, in other
words, a way of calling into question the religious
building’s relation to an urban environment.
The increasing density of cities is hampering their development in many ways. The city ages and so does architecture: since experimentation alone is likely to be
nothing more than mere theory, architecture on paper, with little chance of being transformed into urban
reality. The building’s symbolic worth might be a useful means of casting a critical eye toward the future.
The web on the outside of the church, according to the
architects’ plans, represents the transition between
holy space and the urban environment, suggesting a
threshold; a virtual line marking the division of opposites and also the place where they are united.
The semantic ambiguity between absence/presence is
also a means of influencing the idiom of modern-day
architecture.
The church’s web, almost like a Faraday Cage, encompasses everything and at the same time marks another
virtual threshold extending the geometric boundaries
implying the surroundings have no definite spatial
identity. Optical effects are introduced to call into
question its perceptual stability. This virtual transmutability ultimately turns into a metaphor for our
constantly changing world as the cityscape provides a
smaller scale reproduction of the instability pervading
modern-day society.
Particolare della scalinata
che porta all’ingresso
dominata dal campanile.
Il rivestimento esterno è
realizzato con pannelli in
resina rinforzati con fibra
di legno e rivestiti con
una resina acrilica
serigrafata che riproduce
all’infinito il testo
dell’Ave Maria (Je vous
salue Marie).
Pagine seguenti, l’abside
del coro di forma
cilindrica inclinata nel
piano della facciata dove
disegna una parabola:
al suo interno, il
tabernacolo è in legno
d’acacia coperto
di foglie d’oro.
Il battistero, situato a
livello del terreno.
Detail of the steps up to
the entrance beneath
the bell tower.
The outside cladding is
made of resin panels
reinforced with wooden
fiber and clad with a
serigraphed acrylic resin
featuring an endless
reproduction
of the Ave Marie
(Je vous salue Marie).
Following pages,
the cylindrical-shaped
choir apse in the façade
plane forming a
parabola: the tabernacle
inside is made of acacia
wood covered
with gold foil.
The baptistery at
ground-floor level.
51
52
53
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
Una volta sotto il cielo d’Oriente
A Dome beneath Eastern Skies
Abu Dhabi, nuovo terminal aeroportuale
Abu Dhabi, new airport terminal
Progetto di ADP-Paul Andreu
Project by ADP-Paul Andreu
N
54
Sezione trasversale
e prospetto. La grande
copertura a volta è stata
pensata come metafora
di un cielo stellato
nel deserto.
Cross section and
elevation. The large
vaulted roof is designed
as a metaphor for a
starry night in the desert.
ell’iconografia dei complessi aeroportuali la cupola rappresenta una tipologia alquanto inusuale. Forse la sua purezza geometrica e l’intensa
carica simbolica hanno il potere d’intimorire chiunque
pensi di confrontarsi con un maestro come Brunelleschi, l’autore della cupola più famosa al mondo (realizzata nei primi anni del XV secolo nella chiesa di Santa
Maria del Fiore a Firenze). Il “Module2”, come viene
definito il nuovo terminal dell’aeroporto di Abu Dhabi,
con la sua cupola semitrasparente e mutante, secondo
l’alternarsi del giorno e della notte, potrebbe essere
una sorta di omaggio-sfida lanciato da Paul Andreu
verso uno dei più grandi ingegni della storia dell’architettura rinascimentale? Se così fosse, varrebbe la pena
d’indagare sui possibili significati simbolici della cupola
attraverso i secoli e le diverse culture che si sono avvicendate nel corso del tempo. Nel contesto culturale,
temporale e geografico, la cupola è sempre stata la forma architettonica che rappresenta il cosmo, sia nell’accezione laica, sia in quella religiosa. Nel progetto del
nuovo terminal si è voluto soprattutto creare in scala ridotta un cielo stellato nel deserto, una metafora che alluda alla necessità del viaggiatore di avere punti di riferimento certi per muoversi agevolmente in un luogo
estremo e disorientante.
L’intervento proposto da ADP-Paul Andreu riguarda il
progetto di ampliamento dell’aeroporto attraverso la
realizzazione di due edifici: un satellite, a pianta circolare, e una seconda unità, posta lungo la linea di raccordo con l’edificio del terminal esistente. L’edificio satellite è destinato alle operazioni d’imbarco e di arrivo e agli
spazi del duty-free, nonché ad accogliere alcune strutture accessorie organizzate su due piani separati; la seconda unità comprende invece l’area dei banchi per le
operazioni di check-in e gli uffici amministrativi.
La cupola che fa da copertura all’edificio satellite misura cento metri di diametro ed è sostenuta da una struttura composta di cento tubi in acciaio con un diametro
di venticinque centimetri e uno spessore di un centimetro. Si tratta dunque di uno spazio di notevole ampiezza, in cui la particolare conformazione strutturale crea
effetti di notevole suggestione: la disposizione a raggiera dei tubi ricorda una grande sorgente i cui getti
d’acqua generano una superficie parabolica simile a
una monumentale fontana zampillante.
Sostenuta dal cono centrale, la grande volta è rivestita
da una serie di vetri caratterizzati da diversi gradi di
opacità e trasparenza, con un’intensità che aumenta
progressivamente dalla base verso la sommità, per poi
digradare nuovamente verso la zona perimetrale. Ad
altezza d’uomo, la superficie al livello di massima circonferenza è praticamente trasparente, lasciando così
la possibilità di osservare il panorama a trecentosessanta gradi. Basata su complessi calcoli statici, la cupola
presenta una struttura composta di elementi portanti di
sezione relativamente limitata, ma ad alta resistenza al
carico, un sistema simile a quello impiegato nelle costruzioni aeronautiche. Il progetto si è basato dunque
su alcune affinità fra architettura e sistema di trasporto,
creando un paesaggio artificiale in cui i diversi ambiti
disciplinari si fondono senza però perdere le reciproche
identità.
T
he dome certainly is not the type of stylistic feature usually associated with airport designs. Perhaps its geometric purity and powerful symbolic
force are a daunting prospect for any designer daring
to face up to a master like Brunelleschi, who designed
the world’s most famous dome (built in the early-15th
century at the Santa Maria del Fiore Church in Florence). Might “Module2” (as the new Abu Dhabi airport terminal is called), whose semi-transparent dome
alters between day and night, actually be a sort of
homage-challenge thrown down by Paul Andreu to
one of the greatest engineers in the history of Renaissance architecture? If this were so, it would be worth
investigating the various possible symbolic meanings of
the dome down through the centuries and across different cultures. Through every culture, the dome has
always been the architectural form chosen to represent
the heavens, both from a secular and religious viewpoint. The project for the new terminal was designed
to simulate a starry desert sky; a metaphor alluding to a
traveler’s need to have definite bearings in order to find
one’s way if faced with extreme conditions.
The project designed by ADP-Paul Andreu involves extending the airport through the construction of two
buildings: a circular-based satellite building and a second unit placed along the connecting line to the old
terminal building. The satellite building serves boarding
and disembarking procedures and accommodates duty
free spaces. It also houses some ancillary facilities sited
over two separate levels. The second unit houses the
check-in area and administration offices.
The dome over the satellite building measures one hundred meters in diameter and is held in position by a
structure made of one hundred steel tubes measuring
twenty-five centimeters in diameter and one centimeter thick. This is a spacious area, where the unique
structural form creates striking effects: a sundial formation of tubes calls to mind spurting water creating a
parabolic surface rather like a gushing monumental
fountain.
The large vault supported by the central cone is clad
with a set of glass windows each with different degrees
of opacity and transparency. The opacity increases
gradually from the base up, before gradually decreasing again toward the edges. The glass surface at eye
level is almost transparent providing a three hundred
and sixty degree observation point. The dome, whose
design is based on extremely complex static calculations, has a structure made of bearing elements with
relatively small sections but high load-resistance, a system similar to that used for aeronautical constructions.
The project encompasses certain similarities between
the design of architecture and that of transport systems, thereby creating a sort of manmade landscape in
which disciplinary boundaries break down without,
however, losing their own separate identities.
55
Sezione trasversale
parziale.
Partial cross section.
56
Pagine seguenti,
prospettiva aerea del
complesso aeroportuale;
sezione trasversale
prospettica; particolare
dell’interno con la volta
di 100 m di diametro,
sostenuta da una
struttura composta
di un centinaio di tubi
d’acciaio. La volta è
rivestita con pannelli
di vetro con diversi gradi
di trasparenza e opacità.
Following pages, aerial
view of the airport;
perspective cross section;
detail of the inside,
whose vault measuring
100 meters in diameter
is held up by a structure
made of about one
hundred steel tubes.
The vault is clad with
glass panels of different
degrees of transparency
and opacity.
57
58
59
Da porta a porta
From Door to Door
Roissy, Terminal 2F
Roissy, Terminal 2F
Progetto di Paul Andreu
Project by Paul Andreu
P
60
Pagina a fianco,
planimetria generale e
piante dei livelli partenze
e arrivi. La nuova
aerostazione si inserisce
lungo il prolungamento
est-ovest dei precedenti
quattro moduli A, B, C,
D e di quello di scambio
con la linea ferroviaria
del TGV-RER.
Opposite page, site plan
and plans of the
departures and arrivals
levels. The new airport
fits in along the eastwest extension to the
previous four modules
(A, B, C and D) and the
junction with the
TGV-RER railway line.
er vastità e tipo di configurazione compositiva, il
complesso aeroportuale di Roissy è un vero e proprio paesaggio artificiale, un luogo in cui si confrontano, ad armi pari, architettura e territorio, ovvero:
natura e artificio. Esperto di progettazione di grandi aeroporti (fra gli altri, ha progettato quelli di Giakarta, di
Osaka e di Nizza), Paul Andreu, nelle sue realizzazioni,
oltre alla parte ingegneristica, cura con particolare attenzione anche gli aspetti emozionali che l’architettura
è in grado di creare quando punta sull’innovazione.
Nell’intervento a Roissy, grazie alla particolare concezione delle “penisole” d’imbarco, l’alternarsi di materia
e di luce gioca un ruolo primario.
Il progetto, sviluppato da RFR quando c’era ancora Peter Rice, poi scomparso prematuramente, presenta una
soluzione di raffinata fattura ingegneristica per le parti
strutturali, grazie alla modellizzazione computerizzata,
ma che dimostra anche grande sensibilità nel trattamento della luce naturale.
Un sistema frangisole, composto di lamelle forate in
grado di filtrare e attenuare i raggi solari, permette di
proteggere l’interno senza precludere il passaggio della
luce. La copertura è quindi una superficie mutevole,
che secondo il punto di osservazione presenta diversi
gradi di opacità o di trasparenza. L’intervento a Roissy
riguarda la realizzazione del nuovo Terminal F2 quale
ampliamento dell’aeroporto Charles De Gaulle, di cui
Andreu seguì la realizzazione alcuni decenni fa. Data
l’importanza dello scalo, il complesso aeroportuale si
confronta con aeroporti internazionali come il Kansai
Airport, progettato da Renzo Piano e con l’Hong Kong
Airport, realizzato su progetto di Norman Foster. Contrariamente ai due grandi scali intercontinentali, Roissy
presenta accentuate differenze, grazie a rotondità e accentuate contrapposizioni materiche che segnano le diverse destinazioni funzionali degli edifici.
La parte cosiddetta land side, quella aperta a tutti, dove si
effettua il check-in, è un volume in cemento dall’aspetto
austero rivolto verso la città, mentre la struttura prossima alla fase d’imbarco è caratterizzata dalla leggerezza
e dalla trasparenza, permettendo così ai viaggiatori
l’osservazione diretta sull’area destinata al volo, una
veduta in cui il mondo tecnologico si confronta con il
paesaggio naturale. La differenziazione tra corpi materici e una superficie immateriale come il vetro gioca un
importante ruolo, sia come orientamento per chi transita a terra, sia come percezione visiva dall’alto.
In quest’ultimo caso, la connotazione planimetrica percepibile durante la fase di volo precedente l’atterraggio
è il dato che definisce con maggiore completezza il ruolo dell’aeroporto quale moderna porta d’accesso alla
città. In realtà i grandi aeroporti, per la loro notevole
estensione e complessità, costituiscono un segno forte
nel territorio in quanto, oltre al nucleo aeroportuale vero e proprio, sono spesso generatori di nuove reti infrastrutturali come ferrovie e autostrade a grande traffico.
L’aumento costante dell’intensità del traffico passeggeri fa degli aeroporti, oltre che straordinarie macchine
logistiche, importanti poli di scambio, quindi ottime occasioni per creare strutture che quando puntano su
un’immagine forte e innovativa costituiscono grossi
veicoli di “comunicazione culturale”.
R
62
oissy Airport’s design layout and size make an impressive manmade landscape, a place where architecture and environment (or rather artifice and nature) face each other on an even standing. An expert in
designing large airports (such as those in Jakarta, Osaka
and Nice), Paul Andreu does not just focus on the engineering aspect, his designs also pay careful attention to
the emotions architecture is capable of evoking when it
is designed around innovation. Thanks to the unique
design of the passenger boarding “peninsulas,” the
Roissy project allows the alternation of material and
light to play a key role. The project developed by RFR
while Peter Rice was there (before his untimely death)
works around elegant structural features drawing on
computer modeling, and also shows great sensitivity in
handling natural light.
A sunblind system made of perforated shutter blades capable of filtering through and toning down the sun’s
rays protect the interior without blocking out all the
light. The roof is therefore an ever-changing surface with
different degrees of opacity and transparency depending on the position from which it is viewed. The Roissy
project concerns the construction of the new Terminal
F2 as an extension to Charles De Gaulle Airport, designed by Andreu himself a few decades earlier. Given
the importance of this airport, the complex must inevitably confront the likes of Kansai Airport designed by
Renzo Piano and Hong Kong Airport designed by Norman Foster. In contrast with these two major intercontinental airports, Roissy differs due to its rotundity and accentuated contrasts between differing materials marking the different purposes the various buildings serve.
The land side of the project, where passengers check in,
is an austere-looking cement structure facing the city,
while the building near the boarding area is much lighter
and more transparent, providing passengers with a direct view of the flight area, a view of where technology
meets nature. The distinction between material bodies
and an immaterial surface like glass plays a key role in
guiding passengers in transit and opening up vistas that
can be viewed from above.
In this latter case, the view of the building layout that can
be seen just before landing is a distinctive feature of a
modern airport’s role as a gateway to a city. The expansion and complexity of large airports make them important landmarks as, in addition to the airport complex itself, they also generate new infrastructure networks
such as busy motorways and railways.
The constantly increasing number of passengers make
airports important points of interchange, as well as incredibly effective logistical mechanisms, providing excellent opportunities to create structures that, when focusing on a powerful new image, function as a major means
of “cultural communication.”
Pagina precedente, l’area
d’attesa dei passeggeri.
In questa pagina, spazi
relativi alle partenze
e agli arrivi. Pagine
seguenti, il corpo
principale dove sono
organizzati i due livelli
delle partenze e degli
arrivi e quello intermedio
destinato ai passeggeri
in transito.
Previous page, the
passenger waiting area.
This page, spaces serving
the departures and
arrivals areas. Following
pages, the main section
housing the departures
and arrivals levels and
the intermediate level
serving passengers
in transit.
63
64
65
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
L’utopia degli scambi
The Utopia of Trade
Amsterdam, World Trade Center
Amsterdam, World Trade Center
Progetto di Benthem Crouwel NACO
Project by Benthem Crouwel NACO
D
66
Ingresso e atrio del
nuovo WTC, realizzato
presso l’aeroporto
internazionale di
Amsterdam Schiphol
come supporto logistico.
Entrance and lobby of
the new WTC built inside
Schiphol International
Airport, Amsterdam, as a
logistics facility.
a più parti si sostiene che nell’era delle comunicazioni di massa non esistano più regole sicure sull’etica dello spazio, ovvero l’architettura, globalizzandosi, sembra aver perso la sua originaria carica di
strumento sensibile, di cartina di tornasole per misurare il
tasso di bellezza dell’ambiente costruito. La perdita d’identità è il dato comune dei paesaggi urbani contemporanei, e l’omologazione è un segno dell’assenza della
bellezza poiché manca la materia del confronto.
In uno scenario dove tutto sembra destinato a soccombere alla non-bellezza, vi sono tuttavia alcune isole felici in cui la bellezza non ha ancora definitivamente abdicato. Il World Trade Center di Amsterdam è, infatti, un
esempio di come l’architettura abbia a disposizione un
efficace sistema immunitario in grado di assicurarle un
minimo di decenza formale.
Per ottenere un antivirus abbastanza vigoroso, a volte
basterebbe affidarsi alla tecnologia delle costruzioni in
metallo. Un’architettura realizzata sostanzialmente in
ferro e vetro suggerisce un’idea di leggerezza e quindi
di effimero, di transitorio e assicurerebbe un minimo
impatto sull’ambiente. Ciò che si può facilmente smontare, sollecita il cambiamento, quindi fornirebbe l’occasione per costruire strutture con una maggiore qualità
della volta precedente.
La nuova struttura, realizzata fra il 1999 e il 2000, rappresenta l’ultima fase prevista per il completamento dell’Amsterdam Airport Schiphol, progettato sempre da
Benthem Crouwel NACO. L’intervento consiste nella
realizzazione di una struttura comprendente la stazione
ferroviaria che collega la capitale olandese con Bruxelles
e Parigi, un grande parcheggio, alcuni alberghi e il World
Trade Center, suddiviso in otto edifici per uffici.
Si tratta quindi di una porzione di città ad alto tasso di
specializzazione poiché al suo interno il complesso include ambienti di ricevimento, sale conferenze, negozi,
banche e aree destinate agli incontri. È dunque espressione eclatante di quella modernità che ha prodotto
nuovi territori di scambio, spazi della civiltà globalizzata, ovvero i “non-luoghi”, come li ha definiti l’antropologo Marc Augé: “Il mondo della globalizzazione economica e tecnologica è il mondo del passaggio e della
circolazione, e ha come sfondo il consumo. Gli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati (aggiungerei volentieri alla lista anche le basi di lancio missilistiche) sono dei non-luoghi, nella misura in
cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è
di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie” (da Narrazione, viaggio, alterità, relazione al
seminario presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna).
Se il non-luogo è, in sintesi, uno spazio privo d’identità,
la ricerca di segni identitari sembrerebbe dunque un
percorso possibile per risolvere il problema. Ma da dove
partire per iniziare con una minima probabilità di successo? Forse, dall’utopia? Richard Buckminster Fuller
sosteneva che “il mondo è troppo pericoloso per qualsiasi cosa, meno che per l’utopia”.
67
Planimetria generale e
atrio del terzo livello.
Site plan and third-floor
lobby.
Atrio di ingresso al
secondo piano.
Entrance lobby on the
second floor.
68
Sezione trasversale e
longitudinale.
Cross section and
longitudinal section.
M
any people claim that in an age of mass communication there are no longer any defining
rules governing the ethics of space or in other
words architecture. As standards have globalized architecture has lost some of its original force as a yardstick
for gauging the beauty of the built environment. Loss
of identity is the real leitmotif of modern-day cityscapes
and indistinctiveness is a sign of a certain lack of beauty
due to the absence of any means of comparison.
In an environment where everything seems destined to
give way to non-beauty, there are still some examples
of outstanding beauty that have refused to abdicate
once and for all. The World Trade Center in Amsterdam
is an example of how architecture is still blessed with an
effective immune system capable of providing at least
minimal stylistic decency.
To find a reasonably strong antivirus, we need only turn
to the technology used for metallic constructions. Architecture using mainly iron and glass creates a sense of
lightness, impermanence and transience, with little environmental impact. What can be easily dismantled, encourages change and hence would provide the chance
to build structures of a better quality than in the past.
This new facility, built between 1999-2000, is the last
phase envisaged in the completion of Schiphol Airport,
Amsterdam, also designed by Benthem Crouwel NACO. The project involves a structure encompassing the
railway station that connects the Dutch capital to Brussels and Paris, a large car park, several hotels and the
World Trade Center divided into eight office buildings.
This is a highly specialized corner of the city: the inside
of the complex houses reception rooms, conference
halls, shops, banks and meeting areas. This makes it a
striking example of the kind of modernity that has produced new areas of exchange, places of globalized civilization or “non-places” as Marc Augé called them: “The
world of economic and technological globalization is the
world of passage and circulation, and its background is
consumerism. Airports, hotel chains, motorways and supermarkets (I’d also gladly add missile launch pads to the
list) are non-places in as much as their main vocation is
not territorial, they are not designed to create individual
identities, symbolic relations or common wealth but
rather to make circulation easier (and hence consumerism) in a world of planetary dimensions.” (From
Narration, voyage, altérité, a publication circulated at a
seminar held at the University of Bologna's Superior
School of Human Studies.) If, in brief, a non-place is a
space with no identity, the quest for identifying signs
would seem to be a possible means of solving the problem. But where do we start to have even a minimum
chance of success? Perhaps from utopia? Richard Buckminster Fuller claimed that “the world is too dangerous
for anything; except for utopia.”
69
70
Corridoio di arrivo degli
ascensori.
Interno della grande
vetrata.
Lift corridor.
Inside the large glass
section.
Atrio del terzo piano.
Grande atrio centrale a
tutta altezza con le
installazioni dell’artista
statunitense Dale
Chihuly.
Third-floor lobby.
Huge full-height central
lobby showing the
installations by the
American artist Dale
Chihuly.
71
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
Movimento radiante
Radiant Motion
Pianta del terzo livello e
sezione est-ovest.
Plan of the third level
and east-west section.
Dortmund, Nuova Stazione Centrale
Dortmund, New Central Station
Progetto di BRT Architekten
Project by BRT Architekten
F
72
Sezione nord-sud.
North-south section.
ra le tante definizioni che tentano di esprimere sinteticamente lo spazio urbano, una delle più concise
e pregnanti è: la città è umana mentre la metropoli
è disumana. L’aforisma è senza dubbio efficace, ma il
concetto andrebbe approfondito attraverso alcune riflessioni. Disumana, perché? Il rapido sviluppo delle
metropoli sembra non coincidere con i desiderata dell’individuo, poiché l’enorme quantità di nuove costruzioni sembra sempre più orientata a soddisfare le necessità della collettività. Sembra ormai che l’habitat
metropolitano si autogeneri per clonazione, obbedendo solo a leggi interne, la cui unica finalità è l’autoproduzione/autoconsumo. Insomma, la metropoli sembra
ignorare le emozioni e i desideri dell’individuo. Se tutto ciò corrisponde a verità, è necessario porsi con urgenza il problema del vivere collettivo non solo per risolvere gli aspetti tecnici dell’abitare ma soprattutto
per riflettere sul come gestire l’immaginario metropolitano, dal momento che è proprio l’immagine della
metropoli a subire la crisi più profonda e radicale. La
post-metropoli sembra, infatti, produrre un immaginario sempre più ripetitivo e di conseguenza senza
qualità. L’immaginario ha un nemico inesorabile, che
si evidenzia soprattutto nell’astrazione espressa dal rigore classicista della triade vitruviana utilitas, firmitas,
venustas che ha in gran parte condizionato la cultura
architettonica occidentale.
Il progetto per la realizzazione della nuova Stazione
Centrale di Dortmund propone un’astronave metropolitana per legittimarla come simbolo di architettura
del futuro. Ricreando un set per film di fantascienza a
scala urbana, l’astronave-stazione azzera l’immagine
dell’intorno, trasformando un brano di città in un semplice accumulo di volumi, destinati a svolgere determinate funzioni ma non a essere una porzione di città.
Solo il tempo potrà stabilire definitivamente se si trattava di un’operazione kitsch, oppure di un percorso
capace d’innescare nuovi orizzonti progettuali.
Suddivisa in otto livelli, la nuova struttura accoglie più
o meno tutte le funzioni urbane: dalla residenza temporanea al commercio, dalle attività sportive e per il
tempo libero a quelle culturali, dai servizi ai parcheggi
interrati. Posto al di sopra del sedime ferroviario, il
complesso oltre a porsi come grande scambiatore è
anche un passaggio di attraversamento in grado di
collegare, in direzione nord-sud, due zone urbane interrotte dalla cesura operata dai binari della ferrovia.
La forma oblunga dell’atrio posto al centro dell’edificio, oltre a essere in asse con la passerella pedonale
esterna che corre sulla ferrovia, è anche un segno ordinatore dei flussi interni relativi alla grande piazza
coperta su cui si affacciano gli spazi e i percorsi relativi
alla funzionalità degli ambienti. Simile a un gigantesco multisala Omnimax, con un diametro di 240 metri,
una volta realizzata, la nuova stazione centrale – simbolo delle mutate condizioni socio-ambientali delle
regioni della Rheinland e della Ruhr – diverrà uno
straordinario moltiplicatore di presenze turistiche, attirate dal clamore mediatico che nasce sempre in simili occasioni.
73
A destra, planimetria
generale; rendering del
grande disco sospeso,
del diametro di 240 m.
Pagina a fianco, in alto,
fotomontaggio e
rendering dell’atrio.
Right, site plan;
rendering of the huge
hanging disk measuring
240 meters in diameter.
Opposite page, top,
photo-montage and
rendering of the lobby.
74
O
ne of the most precise and concise definitions
summing up urban environment reads: the city
is humane, whereas the metropolis is inhumane. This is certainly an effective aphorism, but it would
be worth supplementing it with a few extra remarks.
Why is it inhumane? The sudden growth of metropolises does not seem to cater for people’s individual
needs, as the huge quantity of new inner-city constructions appears to be increasingly geared toward the
community’s requirements. It is as though the metropolitan habitat is now capable of self-reproduction through cloning, only obeying its own internal laws whose sole aim is self-production/self-consumption. In
other words, the metropolis seems to ignore the feelings and desires of the individual. If this happens to be
true, we need to face up to the problem of communal
life on a vast scale, not just deal with the technical
aspects of dwellings but also reflect on how to handle
the question of its image, as it is the metropolis’s image
that will likely suffer the real and most radical crisis. The
imagery produced by the post-metropolis is one of repetitiveness and hence totally lacking in quality. The
imagery has an unrelenting enemy that is most obvious
in the abstraction expressed by the classicist rigor of the
Vitruvian triad utilitas, firmitas, venustas (utility, stability, beauty), which has exercised a notable influence
on western architectural culture.
The project to design the new Dortmund Central Station is designed around the idea of a metropolitan spaceship to make it an authentic symbol of the architecture of the future. By re-creating a science fiction film set
on an urban scale, the spaceship-station eclipses its surroundings, turning a part of the city into a simple mass
of structures serving specific purposes but not constituting a portion of the city. Only time will really tell
whether this is a piece of kitsch or whether it is actually
a path capable of opening up new horizons for design.
Divided over eight levels, the new station serves almost
every imaginable urban purpose: from temporary housing to trade, from sports-leisure activities to cultural
events, from utilities to underground car parks. Situated above the old railway line, the complex will be a
major junction and a crossing point providing a northsouth connection between two urban zones separated
by the railway tracks.
As well as being on the same axis of the external pedestrian walkway running over the railway, the oblongshaped lobby in the middle of the building also helps
distribute internal flows around the covered main plaza
lined with zones and corridors serving the various parts
of the premises. Like some huge Omnimax multi-screen
film complex with a diameter of two-hundred and forty
meters, once the new central station has been built—
symbolizing changes in the socio-environmental conditions in the Rhineland and Ruhr regions—it will no
doubt encourage tourism in the area, attracted by the
media attention that surrounds such landmarks.
75
Particolare del grande
atrio con la passerella
pedonale che lo collega
direttamente all’esterno
e al centro della città.
Detail of the large lobby
showing the footpath
connecting it directly to
the outside and city
center.
76
77
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
Viaggio e creatività
Travel and Creativity
Leuven, la nuova stazione ferroviaria
Leuven, the New Railway Station
Progetto di Samyn & Partners
Project by Samyn & Partners
L’
78
Modello: il progetto,
vincitore di un concorso
internazionale, fa parte
di un più ampio
programma di rinnovo
della stazione esistente e
dei suoi immediati
dintorni.
Model of the winning
project in an
international tender
that is part of more
extensive redevelopment
plans for the old station
and its surroundings.
architettura è un sistema produttivo complesso,
in cui è necessario far convivere armoniosamente
grandi capitali, contrattazioni con le amministrazioni e istanze creative del progettista. La sfaccettata
cultura di cui è permeata la proietta in situazioni dove è
prevista anche l’assenza di qualità. Che fare per evitare
di disseminare strutture che poco hanno da spartire
con l’architettura e molto da condividere con la semplice edilizia? Se l’edilizia si identifica nella reiterazione
meccanica di schemi costruttivi consolidati, il progetto
per la nuova stazione di Leuven si pone completamente
fuori da tale categoria, poiché, pur rispecchiando in
parte l’iconografia della stazione nata a cavallo fra Ottocento e Novecento, ripropone varianti ricche di invenzioni linguistiche e di innovative soluzioni strutturali. Il tutto con la consapevolezza che è fondamentale un
giusto equilibrio fra tecnica e linguaggio.
L’evoluzione delle tecniche costruttive intesa come unico percorso non è in grado di assicurare un’architettura
esente da quel narcisismo high-tech che in passato ha
prodotto vere e proprie mostruosità tecnologiche, la
cui rimozione è auspicata da più parti. Il programma di
progetto prevede il recupero e la riorganizzazione di
una vasta superficie intorno alla stazione ferroviaria.
L’iniziativa dell’amministrazione delle ferrovie belghe
offre l’occasione alla città di recuperare grandi aree da
destinare a nuove funzioni per la collettività di Leuven,
città fiamminga che conta circa 65.000 abitanti, cui si
aggiungono 35.000 studenti, in massima parte pendolari. Una città, dunque, dove è costante la necessità di
offrire ai cittadini spazi e adeguate infrastrutture.
Il gruppo di progettazione coordinato da Philippe
Samyn risulta vincitore di un concorso a inviti in cui sono selezionati sei progettisti, fra cui Santiago Calatrava
e Richard Rogers. Raffinata nell’equilibrio compositivo,
la proposta di Samyn si relaziona alla scala del contesto,
una zona di elevata complessità come lo sono tutte
quelle in cui grandi opere infrastrutturali creano forti
cesure nel tessuto urbano. Una complessità il cui nodo
fondamentale da risolvere è come organizzare due diverse identità urbane: la zona storica di Leuven e la periferia oltre il percorso ferroviario.
Recuperando l’immaginario delle antiche stazioni dei
primi del Novecento, con le loro strutture in ferro caratterizzate da grandi arcate, l’intervento ricorda l’essenzialità e la coerenza strutturale ottenuta dagli ingegneri
del passato grazie alla perfetta conoscenza e al rigore
nell’applicazione delle regole costruttive.
Punto focale dell’intera composizione, la grande copertura, da realizzare attraverso una sequenza di arcate
appoggiate l'una alle altre. La dimensione ragguardevole della copertura voltata diviene il rapporto di scala
cui si misura l’intero complesso. Le due realtà urbane,
composte dalla parte storica della città e dalla zona in
divenire rappresentata dalla periferia, hanno nel ponte
coperto pedonale un elemento di connessione caratterizzato da una leggerezza esemplare. Di grande raffinatezza appare anche il sistema strutturale generale attuato attraverso una serie di pilastri in acciaio che si dividono in puntoni obliqui, in grado di scaricare a terra il
peso delle volte e contemporaneamente contrastare le
spinte laterali.
A
rchitecture is a complex production system calling for a smoothly balanced combination of
major capital, contracts with administration
bodies, and the creative requirements of the architectural designer. Its multi-faceted cultural nature projects
it into situations where quality is bound to be missing.
So what can be done to prevent construction that has
little or nothing to do with architecture and plenty in
common with ad hoc building for its own sake? If ad
hoc building were to be described as the mechanical reiteration of well-established construction schemes,
then the project for the new Leuven Station is in a completely different category, since, while partly mirroring
the iconography typical of railway stations built at the
turn of the nineteenth-twentieth centuries, it features
its own highly distinctive stylistic touches and innovative structural designs. All with a keen awareness of the
need for just the right balance between technology and
style.
Developments in building methods are not enough on
their own to produce works of architecture free from
the kind of high-tech narcissism that resulted in some
real technological monstrosities in the past, which
many of us hope will soon be blotted off the landscape.
The project brief referred to the redevelopment and reorganization of a huge area around the railway station.
The Belgian Railway Board has given the city the chance
to salvage large areas for fresh purposes to serve the
people of Leuven, a Flemish city with a population of
about 65 thousand, plus an additional 35 thousand
students, mainly commuting. This makes it a city with a
constant need to provide its local community with adequate space and infrastructure.
The design team headed by Philippe Samyn won an invitational tender, whose six finalists included Santiago
Calatrava and Richard Rogers. Samyn’s elegantly balanced design relates to the scale of its surroundings, a
highly intricate area like all those where major infrastructures cause major rips in the urban fabric. The most
tricky aspect of all this intricacy concerns the identity of
two different urban areas: old Leuven city center and
the suburbs over on the other side of the railway line.
Drawing on the popular imagery surrounding the old
early-20th century stations with their iron structures
with wide arches, the design evokes the structural simplicity and coherence that engineers used in the past
thanks to their meticulous knowledge and precision in
applying construction rules.
The roof, which is the focal point of the whole design, is
planned to be constructed around a sequence of arches
resting against each other. The sheer size of the vaulted
roof sets the scale of the entire complex. The two parts
of the cityscape, composed of the old city neighborhood and a developing suburban area, are connected
by a covered footbridge designed with exemplary lightness. Refined elegance distinguishes also the overall
structural engineering system based on a series of steel
columns divided into oblique rafters capable of dispersing the weight of the vaults into the ground and, at the
same time, contrasting lateral thrust.
79
Rendering degli interni
con la struttura primaria
di copertura sostenuta
da 25 elementi tubolari
formati ciascuno da
quattro (parte centrale) o
tre colonne inclinate
(perimetro) che si
incontrano a 7,13 m dal
piano dei binari.
80
Rendering of the
interiors showing the
main roof structure
supported by 25 tubular
elements, each formed
of four (central part) or
three sloping columns
(perimeter), that
intersect at 7.13 m from
track level.
81
Particolari della struttura
secondaria, formata da
travi d’acciaio
paraboliche che
incrociano
trasversalmente gli archi
primari.
Details of the secondary
structure formed of
parabolic steel girders
cutting across the main
arches.
82
83
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
La scatola magica
The Magic Box
Modello e pianta del
piano terra e sezione
longitudinale.
Model and plan of the
ground floor and
longitudinal section.
Dresda, UFA Cinema Center
Dresden, UFA Cinema Center
Progetto di Coop Himmelb(l)au
Project by Coop Himmelb(l)au
L’
84
Piante a quota +19,70 m
e +5,80 m. Il complesso
è formato da due corpi
uniti: Cinema Block, una
sala cinematografica di
2.500 posti e Crystal,
uno spazio polivalente
che funge sia da foyer
sia da piazza pubblica.
Levels +19.70 m and
+5.80 m. The complex
is formed of two
combined units: Cinema
Block, a 2,500-seat film
theatre, and Crystal,
a multi-purpose space
acting as both a foyer
and public plaza.
UFA Cinema Center fa parte del concorso urbanistico Pragerstrasse Nord, una gara a partecipazione internazionale organizzata per rivalutare una
zona settentrionale di Dresda destinata a essere trasformata in un centro pedonalizzato in grado di rinnovare
una parte significativa della città. Quello che prima era
un luogo senza particolare qualità, uno spazio destinato
a una rapida perdita d’identità, sarà trasformato in percorso articolato in una sequenza di luoghi pubblici e privati, facilmente permeabili ai flussi pedonali.
La tipologia della sala cinematografica, per la sua intrinseca vocazione orientata al visionario, è un tema congeniale a Coop Himmelb(l)au. Il gruppo austriaco (fondato a Vienna da Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky alla
fine degli anni Sessanta) ha tra i suoi obiettivi programmatici la realizzazione di architetture di forte suggestione visiva attuata attraverso composizioni astratte, disequilibranti, opere che presuppongono una lettura non
contemplativa ma partecipativa di un evento architettonico strutturato attraverso un montaggio conflittuale, instabile, consapevole delle contraddizioni e della
complessità insita in ogni percorso progettuale, dunque una visione che rifiuta un’architettura ufficiale come fuga dalla realtà. Il decostruttivismo nasce, infatti,
dall’istanza di ricondurre l’architettura verso territori legati alla realtà, verso una riflessione sulla condizione
conflittuale della metropoli contemporanea.
Composto da due corpi distinti ma comunicanti, l’UFA
Center comprende il Cinema Block, una struttura che
può accogliere circa duemilacinquecento spettatori, e il
Crystal, uno spazio avvolto da un grande guscio traspa-
rente che funge da foyer per la sala cinematografica ma
anche da piazza pubblica offerta alla città.
Per la sua particolare configurazione compositiva, la
nuova struttura si pone nel tessuto cittadino come un
segno di forte identità, una presenza iconica quale elemento catalizzatore per la messinscena di microeventi
urbani. Articolato secondo una complessa geometria e
nonostante offra ampie superfici vetrate, l’UFA Center
a un primo sguardo pare opporsi a qualsiasi contaminazione umana. L’intricata trama spaziale potrebbe, infatti, essere interpretata come un’aggiornata versione
del pozzo dei rasoi di medievale memoria. In realtà è
una sorta di moderna caverna delle meraviglie, una
Wunderkammer a scala urbana capace di risucchiare al
suo interno un gran numero di divoratori d’immagini,
ben felici di perdersi nel grande ventre della balena.
Lo spettacolo inizia già a partire dalla complessa articolazione spaziale del foyer: percorsi in quota, scale sospese e vertiginose passerelle tracciano diagrammi
saettanti simili a rasoiate impazzite.
Schermi giganteschi proiettano all’esterno schegge di
cinema lanciate in ogni direzione, creando a ciclo continuo flussi di immagini e suoni di una Metropolis riveduta e corretta grazie alle tecnologie digitali. Ormai lontani i tempi dei progetti destinati a rimanere architettura
di carta per il loro linguaggio provocatorio, il gruppo
Coop Himmelb(l)au pare definitivamente entrato nel
circuito dell’architettura costruita grazie ad alcune realizzazioni sparse un po’ in tutto il mondo. La cultura di
massa, per non morire, divora anche i frutti più indigesti dell’avanguardia.
85
T
86
Pagina a fianco, sezione
trasversale e modello.
Opposite page, cross
section and model.
he UFA Cinema Center was incorporated at the
Pragerstrasse Nord town-planning competition,
an international tender organized to redevelop
a northern part of Dresden earmarked for conversion into a pedestrian center regenerating a major part of the
city. What was previously a rather inauspicious place of
no real substance, an area destined to rapidly lose its
identity, will be transformed into a series of public and
private zones easily accessible to pedestrian flows.
The intrinsically visionary vocation of film theatre design is a favorite theme of Coop Himmelb(l)au. The
Austrian team (set up in Vienna by Wolf D. Prix and Helmut Swiczinsky in the late-1960s) bases its artistry on
the creation of visually striking pieces of architecture
assembled out of destabilizing abstract compositions.
Pieces of architecture whose perception calls for the
creative collaboration of the observer, or in other
words a subject willing to participate in an architectural
event structured around a conflictual, unstable assemblage, aware of the contradictions and complexity inherent in all design. A vision rejecting official architecture as a flight from reality. In this respect, Deconstructivism derives from the need to bring architecture back
into the realms of reality and to an analysis of the conflictual nature of the modern-day metropolis.
Composed of two separate but interconnecting sections, the UFA Center includes the Cinema Block, a facility with room for audiences of about two thousand fivehundred, and the Crystal, a space enveloped by a large
transparent shell acting as a foyer for the film theatre
and also as a public square at the community’s disposal.
The new facility’s peculiar design incorporates the
building into the urban fabric as a striking landmark, an
icon acting as a catalyst for the staging of urban microevents. Despite its intricate layout and large swathes of
glass surfaces, at first sight the UFA Center appears to
repel any sort of human contact. Indeed, its elaborate
spatial pattern could even be interpreted as a modernday version of the Medieval well of razors. However, it
is almost a modern cave of wonders, an urban-scale
Wunderkammer capable of swallowing up a large
number of image-devourers, happy to be lost in the
huge whale’s belly.
The show begins with the intricate spatial layout of the
foyer: high-level pathways, suspended steps and headspinning walkways trace darting graphics that look like
wild razor slashes.
Huge screens project film clips on the external walls,
creating an endless loop of sounds and images in a
Metropolis that has been updated by digital technology. Gone are the days of projects destined to remain on
the drawing board because of their provocative nature.
The Coop Himmelb(l)au team seems finally to have
joined mainstream architecture thanks to a number of
constructions built in all parts of the world. Mass culture is ready to consume even the most indigestible
fruits of the avant-garde in order to survive.
87
LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES
Sulla collina cosmopolita
On a Cosmopolitan Hill
Lo stile Bauhaus a Tel Aviv
The Bauhaus Style in Tel Aviv
di Sergio I. Minerbi
by Sergio I. Minerbi
cia oggi il Municipio per la conservazione degli edifici più
importanti. Secondo l’architetto Szmuk non si è fatto fino
ad ora quasi nulla per documentare l’influenza del
Bauhaus sugli edifici di Tel Aviv. C’erano tre architetti fra i
quali Arieh Sharon, il quale era stato nel kibbutz Gan Shmuel e fu il principale progettatore delle case popolari per i
lavoratori. Esse furono costruite secondo il concetto che
con una quota mensile pari all’affitto, ognuno si sarebbe
comprato un appartamento. Sharon era stato discepolo di
Meyer e fu lui a portare la denominazione del Bauhaus
che, secondo Szmuk, non è uno stile poiché definendolo
così gli si dà una dimensione visuale statica. Molti dei duecento architetti di Tel Aviv avevano studiato in Belgio, a
Bruxelles e a Gent, mentre gli architetti di Gerusalemme
provenivano in gran parte dalla Germania. Questi professionisti erano arrivati in maggioranza negli anni Trenta e
alcuni, in seguito alla crisi economica, se ne andarono nel
1937 in America o tornarono in Europa. Fino al 1937 furono costruiti 3.000 edifici con l’impronta del Bauhaus e altri
1.000 fino al 1948.
L’architetto Szmuk è pieno di lodi per il piano regolatore
progettato dall’urbanista scozzese Sir Patrick Geddes.
Questi era stato invitato dal Sindaco Meir Dizengoff ed era
urbanista e biologo e produsse un rapporto affascinante
negli anni 1925-1927. Nel 1927 il suo piano regolatore fu
approvato dal Municipio di Tel Aviv ed erano previsti 60
giardini pubblici dei quali ne furono realizzati solo la metà,
ma si può affermare che i principi stabiliti da Geddes sono
applicati fino a oggi.
Durante l’epoca mandatoria (1922-1948) il Municipio non
permise di deturpare il Centro Storico. Oggi alcune strade
sono trascurate e sporche anche perché con solamente 60
giorni di pioggia l’anno, l’acqua piovana non riesce a ripulire le facciate delle case. L’Unesco fu impressionato dalla
grande quantità degli edifici presenti, dalla loro centralità
e dalla sintesi di tutte le correnti moderne europee arrivate
all’allora Palestina in seguito all’immigrazione ebraica.
Ogni corrente architettonica diede il suo contributo e alle
volte cercò un adattamento alla cultura islamica locale.
Quindi piuttosto che un modello Bauhaus rigido, minimalista e alla fine noioso, si ha a Tel Aviv una situazione nella
quale nessun edificio si ripete. Una delle caratteristiche è la
linea dolce, la curva sinuosa orizzontale, i giochi di volumi.
Secondo le norme di “Ahuzat Bayit”, il primo quartiere costruito accanto a Giaffa, le prime 66 case dovevano avere
una superficie di almeno 300 mq ognuna con attorno ancora 260 mq. L’altezza era limitata a 2-3 piani.
Il Municipio sta attuando un piano di conservazione che
include 1.650 edifici, dei quali circa mille in Stile Internazionale. Fin dagli anni Novanta ne è stata proibita la demolizione e non si ripeterà quindi lo scempio della demolizione del ginnasio di Herzlya, il primo grande edificio pubbli-
co della città. Non esiste purtroppo ancora una politica nazionale di conservazione poiché Israele non ha ancora cristallizzato una cultura propria. Viviamo in un periodo di
transizione, ci sono ancora molte questioni sociali ed economiche da risolvere e l’estetica non è mai stato un valore
molto apprezzato. Tel Aviv era una città esteticamente valida soprattutto nel periodo del mandato britannico.
Oggi la conservazione è affidata a un consiglio formato
però da non professionisti, e una proposta di legge affida
la responsabilità all’ente locale. Quindi ogni ente locale
dovrebbe fare delle liste e per legge includerle nel piano
regolatore. A Tel Aviv la legge impone al Municipio delle
misure draconiane che sono state applicate. D’altronde
senza un piano di conservazione serio, l’Unesco non
avrebbe mai dato il suo riconoscimento.
Da quando abbiamo iniziato l’opera di conservazione
negli anni Sessanta, dice Szmuk, abbiamo capito che
dovremo riaprire i balconi che sono stati chiusi dagli inquilini per ricavarne un vano supplementare. In ognuno
degli edifici destinati alla conservazione, si debbono
quindi riaprire i suoi balconi. Questa non è una cosa facile, poiché in alcuni casi il proprietario vuole utilizzare i
suoi diritti di costruzione. Per 120 edifici non abbiamo
concesso nessuna modifica, ma per tutti gli altri dobbiamo approvare l’aggiunta di diritti di costruzione
supplementari per evitare richieste di indennizzi che il
municipio non può finanziare. È stata fatta una selezione severa degli edifici più importanti per i quali le proporzioni sono definitivamente chiuse in modo ermetico
e qualsiasi aggiunta di piani superiori cambierebbe sostanzialmente il progetto architettonico. Se verranno
costruite torri o grattacieli nei paraggi, il proprietario di
un edificio conservato può vendere ai loro proprietari, i
suoi diritti di costruzione. Quando il proprietario di una
torre vuole aumentare i vani da affittare al di là del 70%
egli può acquistare dei diritti di costruzione dal vicino,
che così si astiene dall’apportare modifiche al suo edificio. In questo modo abbiamo salvato almeno 60 edifici
storici che sono rimasti intatti.
Rivisitando Tel Aviv secondo le indicazioni ricevute dall’architetto Nitza Szmuk, siamo rimasti impressionati da
quelle linee orizzontali tagliate talvolta a 90 gradi da
rampe di scale o addolcite da una serie di balconi a semicerchio che erano quanto di più moderno si potesse immaginare nell’architettura di allora. Costruire in quel
modo pur essendo così lontani dalla civiltà, significava
essere “in”, sulla cresta dell’onda del XX secolo, essere
insomma in comunione spirituale con l’Europa da dove
provenivano molti giovani immigranti ebrei venuti sotto
la spinta del nascente ideale sionista. Tel Aviv era allora
una città di giovani idealisti, gente che lavorava sodo,
non aveva tempo né soldi per i fronzoli e che spesso per
vivere lavorava nella costruzione di quegli stessi edifici.
Oggi Tel Aviv è il centro pulsante della gioventù laica, il
cuore dell’economia, la culla dell’High-Tech ormai trasferitosi nei sobborghi, la sede delle banche e dei quotidiani. È un po’ la Milano di Israele, mentre Gerusalemme,
spesso paragonata a Roma, rimane una città piena di spiritualità religiosa e di brucianti problemi politici.
Breve Bibliografia
Nitza Metzger Szmuk, Case dalla sabbia, Architettura in stile internazionale a Tel Aviv, 1931-1940, (in ebraico), Misrad Habitahon, Tel
Aviv, 1994.
Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London,
Batsford, 2003.
Michael Lewin, La Città Bianca. Architettura in stile internazionale in
Israele. Ritratto di un’epoca, (in ebraico), Sabinsky, 1984.
Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New
Land, Stuttgart and Tel Aviv, 1976.
Nourit Melcer Padon
C
ome il borghese di Molière che non sapeva di parlare in prosa, così molti abitanti di Tel Aviv ignorano di
risiedere in un museo vivente dello stile Bauhaus.
Quattromila sono gli edifici di Tel Aviv costruiti sulla scia di
questo stile ma solo recentemente il Municipio si sta occupando seriamente della loro conservazione e miglioria.
Questa ricchezza unica al mondo ha convinto l’Unesco a
dichiarare Tel Aviv come facente parte della “World Heritage List of Monuments”.
Il fenomeno si spiega con la storia di Tel Aviv. In riva al mare c’è l’antichissima città di Giaffa, che risale all’era neolitica. Secondo la tradizione Andromeda, legata a uno scoglio di Giaffa ed esposta a un mostro marino per placarlo,
venne salvata da Perseo che la sposò. Alla fine del XIX secolo cominciarono ad arrivare gli immigranti ebrei che
sbarcavano nel porto di Giaffa e si disperdevano nell’allora
Palestina posta sotto il regime Ottomano.
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel 1909, gli ebrei
cominciarono a costruire Tel Aviv, la collina della primavera, sulle dune di sabbia deserte al limite settentrionale di
Giaffa. Quella sabbia vale oggi milioni di dollari. L’acquisto
di quelle dune ha fatto la fortuna immobiliare di alcune famiglie come gli Chelouche, di origine marocchina.
Nel 1914 il nuovo quartiere aveva già una popolazione di
2.000 abitanti per raggiungere i 34.000 nel 1925. Il costante aumento della popolazione portò gli abitanti a
120.000 nel 1931, e ci fu poi un notevole incremento dovuto all’arrivo degli ebrei dalla Germania in seguito all’avvento al potere di Hitler nel 1933, raggiungendo i 160.000
abitanti nel 1939. Fu questo periodo dal 1931 al 1939 il
più fertile per lo stile Bauhaus. La possibilità di costruire
una città ex-novo senza le limitazioni di edifici precedenti,
diede un grande slancio ad architetti e costruttori.
Ci vollero alcuni decenni per far capire al Municipio di Tel
Aviv di avere in mano la gallina dalle uova d’oro senza che
nessuno se ne fosse accorto. L’artista israeliano di fama internazionale Dani Karavan convinse alla fine degli anni
Settanta Shlomo Lahat, allora Sindaco di Tel Aviv, dell’importanza internazionale degli edifici di stile Bauhaus. Fu
così iniziato l’inventario di questi edifici e si cominciarono a
raccogliere fondi per la loro conservazione e miglioria. All’inizio degli anni Novanta fu creato presso il Municipio un
gruppo di conservazione diretto dall’architetto Nitza Szmuk, che ha studiato in Italia, dove ha trascorso molti anni.
Nel 1994 una conferenza internazionale ebbe luogo a Tel
Aviv in cooperazione con l’Unesco, e fu dedicata al Movimento Moderno in generale chiamato in Israele lo Stile Internazionale. Questa è una definizione esatta, che però
non ha avuto successo.
Abbiamo chiesto alla sig.ra Nitza Szmuk Metzger, Sovrintendente alla Conservazione del Municipio di Tel Aviv, come si sia arrivati al riconoscimento dell’Unesco e cosa fac-
Nourit Melcer Padon
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Sotto a sinistra, l’edificio
progettato nel 1931
dall’architetto Richard
Kaufman. Questo
edificio è stato
progettato come
espressione di modernità
con una sottile vena
medio-orientale.
Sotto, l’edificio
progettato nel 1936
dall’architetto Dov
Carmi. Le lunghe e
profonde finestre sono
una versione locale
di quelle orizzontali
di Le Corbusier.
Below left, the building
designed in 1931 by
architect Richard
Kaufman. This building
was designed as a
statement of modernity
with subtle MiddleEastern overtones.
Below, the building
designed in 1936 by
architect Dov Carmi.
The long, sunken
windows are the local
version of the long,
horizontal windows
of Le Corbusier.
identifying those whose proportions could not in any way
be altered (through the addition of extra stories) without
interfering with their architectural design. Owners of
conserved buildings can sell their construction rights if
towers or high-rise buildings are constructed in the
neighborhood. When the owner of a tower wants to increase the premises for rent by over 70%, he can buy construction rights from his neighbor, who thereby pledges
to not alter his own building. In this way at least 60 historical buildings have been saved and kept intact.
Revisiting Tel Aviv along the guidelines provided by the
architect Nitza Szmuk, we were astounded by the horizontal lines sometimes cut through at 90 degrees by
flights of steps or toned down by semi-circular balconies,
which were the height of modernity in architecture back
then. Building in this way, despite being so cut off from
civilization, meant being “in” on the crest of the wave of
the 20th century. In other words, it meant being in spiritual harmony with Europe, where plenty of young Jews
Nourit Melcer Padon
were coming in the wake of a newly emerging Zionist ideal. Tel Aviv was then a city of young idealists. People who
worked hard, had neither the time nor the money to
waste and often worked on the construction of these
very buildings to make a living. Nowadays Tel Aviv is the
hub of secular youth, the heart of the economy, a cradle
of high technology that has now been transferred to the
suburbs, and the headquarters of banks and newspapers.
It is rather like the Milan of Israel, whereas Jerusalem, often compared to Rome, is likewise a highly religious city
with a host of political problems.
Short list of bibliographical references
Nitza Metzger Szmuk, Dwelling on the dunes, International-style Architecture in Tel Aviv, 1931-1940, (in Hebrew), Misrad Habitahon, Tel Aviv,
1994.
Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London,
Batsford, 2003.
Michael Lewin, The White Town, International-style Architecture in
Israel. A Portrait of an Age, (in Hebrew), Sabinsky, 1984.
Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New Land,
Stuttgart and Tel Aviv, 1976.
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A sinistra e in basso a
sinistra, l’Hotel Cinema
progettato nel 1939
dagli architetti Yehuda e
Rafael Megidovitz.
Sorto come cinema
per mille persone,
è stato poi trasformato
in un albergo.
Sotto, l’edificio
progettato nel 1934
dagli architetti Joseph
e Zeev Berlin. L’ampio e
libero impiego di vetrate
con infissi di acciaio
è controbilanciato da
forti forme quadrate
di stucco.
Left and below left, the
Hotel Cinema designed
in 1939 by architects
Yehuda and Rafael
Megidovitz. It was bult
as a cinema for 1,000
people and then
transformed into a hotel.
Below, the building
designed in 1934 by
architects Joseph and
Zeev Berlin. The free and
lavish use of steel-framed
glass is offset by strong,
square stuccoed shapes.
Nourit Melcer Padon
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wake of the economic crisis, left for America in 1937 or
returned to Europe. 3,000 buildings were built in the
Bauhaus style up to 1937 and another 1,000 from then
till 1948.
The architect Szmuk is full of praise for the master plan
drawn up by the Scottish town-planner Sir Patrick Geddes. Geddes had been invited by the Mayor, Meir Dizengoff, and was actually a town-planner and biologist,
who compiled a fascinating report in 1925-1927. His
master plan was approved by the Tel Aviv City Council in
1927 and encompassed 60 public gardens, only half of
which were actually constructed, but it would be fair to
say that the guidelines set down by Geddes are still employed today.
During the 1922-1948 period, the City Council refused to
let the old city center be disfigured. Nowadays some of
the roads are dirty and neglected, partly because only 60
days of rain a year does not provide enough water to
clean the facades of the houses. UNESCO was impressed
by the striking number of existing buildings, their central
location and the synthesis of all modern European currents that were imported to what was then Palestine in
the wake of Jewish immigration. Each architectural
school made its own contribution and sometimes attempted to adapt to local Islamic culture. This meant that
instead of having a rigid, minimalist and, in the end,
rather boring rendition of the Bauhaus style, no two
buildings in Tel Aviv are alike. One of the features is the
soft lines, sinuous horizontal curves and structural interplay. According to the guidelines for “Ahuzat Bayit”, the
first neighborhood to be built alongside Jaffa, the first 66
houses were to cover surface areas of at least 300 square
meters with a further 260 square meters around them.
Buildings were confined to a height of 2-3 stories.
The City Council is implementing a conservation program
encompassing 1,650 buildings, about one thousand of
which are in the International Style. Ever since the 1990s
there has been a ban on demolition work, so that the disastrous destruction of the Herzlya Gymnasium (the city’s
first major public building) will not be repeated. Unfortunately, there is still no national conservation program, because Israel has not yet developed its own cultural heritage. We are living in a transitional period, which means
plenty of socio-economic issues still need solving and, after all, aesthetics have never really received the attention
they deserve. Tel Aviv was once an aesthetically notable
city, particularly during the period of British rule.
Nowadays conservation work is in the hands of a council
composed of non-architects, and there is a bill to make
it the responsibility of a local body. This means all local
associations must draw up lists and, by law, incorporate them in the master plan. In Tel Aviv the law forces
the City Council to take draconian measures which
have duly been enforced. After all, without a proper
conservation program, UNESCO would never have
made its proclamation.
Szmuk claims that since the conservation work began in
the 1960s, people have realized that the balconies enclosed by tenants must be re-opened to create extra
premises. This means the balconies must be opened up in
all the buildings involved in the conservation program.
This is no easy matter, because some owners are keen to
impose their construction rights. Authorization for alterations has not been given for 120 of the buildings, but for
all the others extra construction rights must be authorized so that the local authorities do not have to award
compensation that they cannot afford. A careful inventory of all the most important buildings was drawn up,
Nourit Melcer Padon
J
ust like Molière’s bourgeois gentleman, who was not
aware he talked in prose, many inhabitants of Tel Aviv
do not know their city is a living museum of the
Bauhaus style. There are four thousand buildings in Tel
Aviv built along these stylistic lines, but the City Council
has only recently seriously started conserving and improving them. This heritage, unique of its kind, has resulted in
UNESCO proclaiming Tel Aviv to be part of the “World
Heritage List of Monuments.”
All this can be traced back to Tel Aviv’s historical background. The ancient city of Jaffa, dating back to the Neolithic period, is built by the seaside. According to legend,
Andromeda was tied to a cliff at Jaffa and attacked by a
sea monster, but she was saved by Perseus who then
married her. Jewish immigrants started landing in the
port of Jaffa in the late-19th century, eventually dispersing into what was then Palestine under Ottoman rule.
On the eve of the First World War in 1909, the Jews started to build the city of Tel Aviv, which actually means the
spring hill, on desert dunes at the northernmost edge of
Jaffa. That sand is now worth millions of dollars. Buying
those dunes made the real-estate fortune of families like
the Chelouches originally from Morocco.
In 1914, the new neighborhood already had a population
of 2,000, eventually rising to 34,000 in 1925. The constant increase in population reached a total of 120,000 in
1931. There was then a notable boom due to the arrival
of Jews fleeing Germany when Hitler came to power in
1933, reaching a peak of 160,000 in 1939. The period of
1931-39 was the most fertile for the Bauhaus style. The
possibility of building a city from scratch without the constraints of old buildings was a real stimulus for architects
and builders.
It took a few decades to convince the Tel Aviv City Council
that, although nobody had realized it yet, they had a
goose that lays golden eggs in their hands. In the late1970s the internationally famous Israeli artist, Dani Karavan, persuaded Shlomo Lahat, who was then the Mayor
of Tel Aviv, that Bauhaus-style buildings were of the
greatest international importance. This resulted in a list of
these buildings being drawn up and funds collected to
conserve and improve them. A conservation team headed by the architect Nitza Szmuk, who had lived and studied in Italy for many years, was created in the early 1990s.
An international conference was then held in Tel Aviv in
1994, organized in conjunction with UNESCO, that was
devoted to the Modern Movement in general, called the
International Style in Israel. This is a precise definition
which never really caught on.
We asked Mrs. Nitza Szmuk Metzger, Superintendent
for Conservation on the Tel Aviv City Council, how
UNESCO came to its decision and what the City Council is
now doing to conserve the most important buildings.
According to the architect Szmuk, until now almost
nothing has been done to examine the influence of the
Bauhaus Movement on buildings in Tel Aviv. There were
originally three main architects, including Arieh Sharon,
who had lived in the Gan Shmuel kibbutz and was in
charge of designing workers’ council houses. They were
built according to the idea that everybody could buy
their own flat paying the same monthly rent. Sharon,
who had studied under Meyer, came up with the name
Bauhaus, which, according to Szmuk, is not a style since
this would inevitably load it with static-visual connotations. Many of the two-hundred architects in Tel Aviv
had studied in Brussels and Gent, Belgium, while the architects in Jerusalem mainly came from Germany. Most
of these professionals arrived in the 1930s and some, in
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