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Luoghi e Non-Luoghi Places and Non-Places
32 Projects LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Nel radicale processo di trasformazione che caratterizza il nostro tempo, l’architettura è chiamata a progettare i “luoghi” storici, fissati dalla tradizione, e i “non-luoghi” emergenti dalla crisi della modernità. Nascono nuovi spazi, nuovi modelli di relazione, nuove immagini, nuovi linguaggi visivi. As part of the radical process of transformation characterizing the age in which we live, architecture is called upon to design historical “places” as handed on by tradition and “non-places” emerging from the crisis in modernity. This has led to the emergence of new spaces, new models for relationships, new images, and new visual idioms. Luoghi e Non-Luoghi Places and Non-Places Ripensare lo spazio urbano Re-thinking urban space Maurizio Vitta* È a Marc Augé, come è noto, che si deve la riflessione sui “luoghi” e sui “non-luoghi” che da qualche tempo appassiona architetti e urbanisti. Ma su queste nozioni bisogna intendersi: esse sono affiorate nell’ambito di studi di natura etnologica e antropologica, e hanno toccato i territori delle discipline progettuali solo in quanto queste ci hanno dato alcune tra le rappresentazioni più vivide di un mutamento sociale di dimensioni planetarie, sul quale è ancora difficile pronunciarsi. Ciò impone dunque di riferirle a universi culturali più ampi, partendo dalla percezione del mondo che attualmente domina la nostra società per arrivare ai modelli di comportamento collettivo che ne conseguono. Augé, che insegna Logica simbolica e Ideologia all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, è uno studioso di antropologia delle società complesse. Nel suo libro Non-lieux, uscito in Francia nel 1992 e tradotto in Italia un anno dopo da Elèuthera col titolo Non-luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, egli ha sviluppato un’analisi del “luogo antropologico” partendo da due idee: la prima sostiene la centralità dell’individuo nell’analisi antropologica; la seconda sottolinea come lo “sguardo antropologico” sia oggi sollecitato non più da fenomeni “esotici”, ma dal mondo contemporaneo nel quale noi stessi viviamo. Questo mondo è però soggetto a radicali trasformazioni. È mutata la percezione del tempo, oppressa da una “sovrabbondanza di avvenimenti” che provoca una “accelerazione della storia”; è mutato il concetto di spazio, che si riduce a un punto nel momento stesso in cui il mondo ci si spalanca dinanzi; ed è mutata infine la “figura dell’ego”, dell’individuo, che sempre più “si considera un mondo a sé”. Viviamo dunque, per Augé, una situazione di “eccesso” – di tempo, di spazio, di individualità – grazie alla quale la “modernità” novecentesca si è trasformata in una surmodernité – tradotta in italiano col termine “surmodernità” – che esige nuovi modelli d’analisi antropologica. È evidente che queste “tre figure dell’eccesso” tendono a condizionarsi reciprocamente; ed è altrettanto chiaro che tanto quella del “tempo” quanto quella dell’“ego” finiscono col convergere nella figura dello “spazio”, nella quale esse si trovano rappresentate, definite da situazioni concrete e composte in immagini omogenee e coerenti. È a questo punto che, nell’analisi di Augé, affiora la nozione di “luogo”, o meglio di “luogo antropologico”, vale a dire lo “spazio” socialmente e culturalmente organizzato sulla base delle relazioni, del- le percezioni e delle immagini che definiscono la natura del gruppo che lo abita. Per comprendere una identità collettiva, l’antropologo deve dunque compiere un “percorso essenzialmente ‘culturale’, poiché, passando attraverso i segni più visibili, più istituiti e più riconosciuti dell’ordine sociale, esso ne disegna simultaneamente il luogo”. In altri termini, lo spazio abitato rispecchia i caratteri sociali del gruppo nella misura in cui questi lo trasformano in luogo antropologico. Ma che accade nella surmodernità, quando l’eccesso cancella i tratti distintivi dell’esistenza, li confonde, li rende fluidi e inafferrabili? È qui che affiora il concetto di “non-luogo” come “spazio” tipico della nostra condizione contemporanea. “I non-luoghi”, scrive Augé, “sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti) quanto i mezzi di trasporto stesso o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta”. Di questi “non-luoghi” sappiamo pochissimo. In essi, infatti, le strutture sociali storicamente codificate si dissolvono, i concetti di “tempo” e di “individuo” si contraggono o si espandono secondo ritmi imprevedibili, e la stessa nostra percezione del mondo si fa incerta. È lo stesso Augé a precisarlo: “Il mondo della surmodernità non si commisura esattamente a quello in cui crediamo di vivere; viviamo, infatti, in un mondo che non abbiamo ancora imparato a osservare. Abbiamo bisogno di re-imparare a pensare lo spazio”. Pensare lo spazio è però compito istituzionale dell’architettura; e non è un caso che negli ultimi decenni la crisi dell’urbanistica e l’emergere dell’artefatto architettonico come solitario protagonista del panorama urbano siano stati i segnali più urgenti e immediati del passaggio dalla modernità novecentesca alla situazione attuale, attraverso la mediazione, in verità alquanto effimera, della cultura “postmoderna”, preludio – in prima approssimazione – alla surmodernità additata da Augé come nuova condizione del mondo. L’architettura, in effetti, è stata costretta a rivedere in profondità – e non certo da oggi – il suo statuto tecnico e culturale, la sua funzione sociale e i canoni formali destinati a fissarla come immagine icastica della nostra rappresentazione collettiva. In pratica, le sono stati affidati nuovi compiti, primo tra i quali quello di governare il mutamento disegnandone gli spazi nel momento stesso della trasformazione: compito ingrato, che fa dell’innovazione, in mancanza di solidi presupposti funzionali, un linguaggio destinato a usurarsi rapidamente e comunque a dichiararsi fin dall’inizio soggettivo e autoreferenziale. Non per nulla le maggiori sfide poste all’architettura contemporanea sono venute proprio dai nonluoghi indicati da Augé come figure dell’eccesso surmoderno: aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, cinema multiplex, musei – tutti spazi che rispecchiano, nella loro mobilità continua, nel loro flusso amorfo di presenze e significati, una realtà più ampia, segnata soprattutto da quella che l’antropologo francese definisce “la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso”. In questa sfida, la posta in gioco non è tanto il valore culturale dell’architettura, ovvero la sua capacità di rispondere a richieste sociali precise, quanto la possibilità di definire una griglia di lettura dei fenomeni dalla quale ricavare una normativa di governo del mutamento. Nell’immediato, ciò che si ricava dall’esperienza quotidiana è un processo che si avvita su se stesso. Sulla base di sollecitazioni fondate su basi incerte, si realizzano opere che si impongono come modelli immediati di interpretazione delle nuove condizioni di vita: musei spettacolari che innovano antichi panorami urbani, trasformazione delle stazioni ferroviarie in àmbiti di consumo e di transito commerciale, moltiplicazione del negozio in enormi complessi polifunzionali e così via. Ma la stessa presenza di queste strutture finisce col modellare i comportamenti di chi ne fruisce, il che moltiplica l’accelerazione delle esperienze e conferma lo stato di incertezza iniziale. Se infatti è vero che il senso dell’esistenza del nostro tempo si identifica sempre più nel movimento e nella sua velocità, è altrettanto vero che di esso ignoriamo non solo la direzione, ma anche l’orientamento. La distinzione tra luogo e non-luogo coglie per l’appunto questa condizione. “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico”, osserva Augé, “uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non-luogo”. Ma questo mutamento avviene in un contesto planetario che è fittamente storicizzato, e che conserva dovunque il retaggio del suo passato, spesso tuttora vivo. È il caso, soprattutto, degli edifici del culto: poli d’attrazione di una religiosità intrinsecamente estranea al mutamento, essi si propongono spontaneamente come luoghi la cui identità architettonica rispecchia quella storica e relazionale del- la liturgia che vi si svolge e della fede che ne è ispiratrice, il che ne farebbe dei luoghi in grado di equilibrare la proliferazione dei non-luoghi. Augé non è sicuro di questo, e ritiene al contrario che la surmodernità non integri in se stessa i luoghi antichi, i quali invece, “repertoriati, classificati e promossi ‘luoghi della memoria’, vi occupano un posto circoscritto e specifico”. Il problema è però aperto, almeno per ciò che riguarda le chiese. Per un verso si può sostenere che la stabilità del culto impone una sostanziale invariabilità delle strutture e degli spazi, appena intaccata dal mutamento delle forme e delle immagini di cui può farsi carico la cultura architettonica; il che darebbe conto della presenza, nel panorama occidentale, di chiese che si richiamano a linguaggi progettuali tipici della modernità e oltre, a partire da quelle realizzate da Michelucci, Quaroni e Spadolini, per finire alla recente fatica di Richard Meier a Roma. Per un altro, però, non sono da ignorare spinte tendenti ad accogliere nel seno della tradizione sollecitazioni provenienti da realtà nuove e in ebollizione, come il mondo giovanile o le culture non occidentali, che premono per una maggiore elasticità – e molteplicità – del rapporto tra rito, fedele e spazio sacro. Il discorso è destinato, evidentemente, a restare aperto. In effetti, non solo, come osserva Augé, “i non-luoghi rappresentano l’epoca”, ma costituiscono anche lo spazio entro il quale noi stessi ci muoviamo, trasformandoci con il loro stesso ritmo. Solo che, invece che essere euclideo, questo spazio ci si presenta come un iperspazio, il cui senso è afferrabile solo nella moltiplicazione dei collegamenti, nello sterminato intreccio delle relazioni, nella moltiplicazione delle identità. Si potrebbe pensare allora allo “spazio” come non-luogo e all’iperspazio come luogo antropologico della surmodernità? Per quanto prematura, l’ipotesi è allettante. In ogni caso, varrebbe la pena di approfondirla. * Maurizio Vitta è laureato in filosofia, è docente di Teorie e Storia del Disegno industriale presso la III Facoltà di Design e Architettura del Politecnico di Milano. E’ autore di numerosi articoli, saggi e libri sull’arte, la letteratura, l’architettura e il design contemporanei. Collabora con il supplemento domenicale de “Il Sole24ore” ed è vicedirettore de “l’Arca”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001. 33 34 A s we know it was Marc Augé who first studied the phenomenon of “places” and “non-places,” that architects and town-planners have become so interested in over recent times. But we need to clarify these notions properly: they first emerged in the realms of ethnological and anthropological studies, and have only really been incorporated in design because it has provided us with some of the most vivid representations of social change on a planetary scale, whose consequences are still uncertain. This means they really ought to be referred to much wider fields of culture, starting with the way the world is perceived in present-day society and eventually progressing to the collective behavioural patterns they entail. Augé, who teaches Symbolic Logic and Ideology at the École des Hautes Études en Sciences Sociales in Paris, is a scholar of the anthropology of complex societies. In his book called Non-lieux, which was first published in France in 1992 and translated into English in 1995 under the title Non-Places: Introduction to an Anthropology of Supermodernity, he analyzed the concept of “anthropological place” based on two ideas: firstly placing the individual at the focus of anthropological analysis; and secondly underlining that our “anthropological eyes” are no longer attracted to “exotic” phenomena but rather to the contemporary world in which we ourselves live. But this world is undergoing radical changes. Our perception of time has changed after being bombarded by an “overabundance of events” causing an “accelerating of history;” the concept of space has changed, being reduced to a point at the very moment when the world opens up before us; and finally the “figure of the ego” has also changed, the individual who increasingly “considers he is a world of his own.” Augé thinks we are living in an “excess” of time, space and individuality, resulting in twentieth-century “modernity” being turned into surmodernité (translated into English as supermodernity) calling for new forms of anthropological analysis. It is obvious that these “three figures of excess” tend to reciprocally influence each other; and it is equally evident that the figures of both “time” and the “ego” end up converging into the figure of “space” in which they are represented, defined by concrete situations and composed of smooth and coherent images. This is the point where the notion of “place” or rather “anthropological place” emerges in Augé’s analysis, or in other words “space” which is socially and culturally organized around relations, perceptions and images defining the nature of the group inhabiting it. In order to grasp collective identity, an anthropologist must follow an “essentially ‘cultural’ path, because, through the most visi- ble, established and widely-acknowledged signs of the social order, it simultaneously designates the place in which it unfolds.” In other words, the inhabited space mirrors the social traits of the group to the extent that they turn it into an anthropological place. But what happens in supermodernity when sheer excess cancels out the distinctive features of existence, mixes them up, and makes them fluid and ungraspable? This is where the concept of a “non-place” emerges as a typical “space” of our modern-day condition. Augé writes that “non-places are the installations required for the accelerated circulation of people and goods (fast-running roads, turn-offs, airports), as well as the means of transport themselves, big shopping malls or even refugee camps where the planet’s homeless are parked away.” We know very little about these “non-places.” The historically coded structures of society fade away here, the concepts of “time” and “individual” contract or expand at unexpected rates and our very perception of the world grows uncertain. As Augé points out: “The world of supermodernity does not correspond precisely to the world in which we think we live; we actually live in a world that we have not yet learnt to observe. We need to re-learn to think space.” But thinking about space is architecture’s official task; and it is no coincidence that the crisis in town-planning and emergence of the architectural artifact as the only leading player on the cityscape over the last few decades have become the most pressing and urgent signs of the transition from twentieth-century modernity to the current state of affairs, mediated (rather transiently it must be admitted) by “postmodern” culture as a prelude—as a first approximation—to the supermodernity Augé talks about as the world’s new condition. Architecture has in fact been forced to profoundly revise—and not just starting now—its own technical-cultural by-laws, its social functions, and the stylistic canons designed to make it an icastic image of our collective representation. In actual fact it has been given new tasks, most significantly to control change by designing its spaces as change actually occurs: a thankless task which, in the absence of firm practical premises, makes innovation a language soon destined to fade or, in any case, openly avow its subjective, selfreferential nature right from the start. It is no coincidence that the greatest challenges facing modern-day architecture have come from those very non-places Augé pointed out as being figures of supermodern excess: airports, railway stations, shopping malls, multiplex film theatres, museums—all places reflecting reality on a much wider scope and scale through their constant motion and shapeless flow of presences and meanings; reality marked above all by what the French anthropologist describes as “an intricate skein of cabled or wireless networks mobilizing extra-terrestrial space for means of communication peculiar enough to often bring individuals into contact with just another image of themselves.” The stakes in play in this challenge are not so much the cultural value of architecture (i.e. its ability to meet specific social needs) as the possibility of setting up a grid for reading the phenomena setting the normative regulations for controlling change. The initial result of daily experience is a process that twists around itself. Based on input grounded on uncertain foundations, works are constructed that provide instant guidelines for interpreting new living conditions: spectacular museums innovating old cityscapes, the transformation of railway stations into trading and consumer sites, the multiplying of shops into huge multipurpose complexes and so on. But the very presence of these structures ends up shaping the behavior of their users, speeding up experience even more, and confirming the initial state of uncertainty. Even though our modern-day sense of life is increasingly identified with motion and speed, it is equally true that we do not know either their direction or orientation. Distinguishing between places and non-places grasps this state of affairs: “If a place can be defined as relational, historical, and concerned with identity,” so Augé points out, “then a space which cannot be defined as relational, or historical, or concerned with identity will be a non-place.” But this change is taking place in a planetary context that is densely historicized and hence still holds onto the heritage of its past, that is still very much alive. This is particularly true in the case of places of worship: by attracting religious feeling that is intrinsically alien to change, they spontaneously present themselves as places whose architectural identity mirrors the historical/relational identity of the worshipping that goes on inside and the faith that inspires it, making them places capable of counterbalancing the proliferation of nonplaces. Augé is not so sure of this and, on the contrary, believes that supermodernity does not integrate the earlier places, which instead are “listed, classified, promoted to the status of ‘places of memory’, and assigned to a circumscribed and specific position.” This is an open issue, however, at least as far as churches are concerned. On one hand, it may be claimed that the stable nature of worship calls for basically invariant structures and spaces hardly affected at all by any change in forms and images associated with architectural design; this would account for the presence in the West of churches designed along the typical lines of modernity and beyond, such as those designed by Michelucci, Quaroni and Spadolini, not to mention Richard Meier’s recent work in Rome. But on the other hand there can be no ignoring a certain tendency to try and incorporate into tradition fresh input from new enthusiastic sources, like the world of young people and non-western cultures, all calling for greater elasticity—and multiplicity—between ritual, faith, and religious space. Of course this is destined to remain an open question. Indeed, not only (as Augé points out) do “non-places represent our age,” they are also the space in which we ourselves move, transforming us at their own rhythm and rate. The difference is that this is not Euclidean space, it is a hyperspace, whose meaning can only be grasped through a multiplicity of links in an endless web of relations, and in a multiplication of identities. Does this mean “space” may be thought of as a non-place and hyperspace as the anthropological place of supermodernity? This is a tempting hypothesis, however premature it might seem. In any case, it is certainly worth looking into. * Maurizio Vitta, graduated in philosophy, is professor of Theories and History of Industrial Design at the III Faculty of Design and Architecture at the Politecnico University in Milan. He has written many articles, essays and books on contemporary art, literature, architecture and design. He writes for the Sunday supplement of “Il Sole 24 Ore”, and is deputy editor of “l’Arca.” Among his recent books: Il disegno delle cose, Napoli 1996; Il sistema delle immagini, Napoli 1999; Il progetto della bellezza. Il design tra arte e tecnica 1851-2001, Torino 2001. 35 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Nel segno della bellezza In the Name of Beauty Strasburgo, Palazzo del Parlamento Europeo Strasbourg, European Parliament Building Progetto di Architecture Studio Project by Architecture Studio 36 S e il concetto di trasparenza sta alla politica come la bellezza sta all’architettura, il complesso del Parlamento Europeo è già un’icona, un parametro di riferimento per altre costruzioni destinate a rappresentare comunità di popoli diversi. Articolazione volumetrica, varietà di piani e scala paesaggistica restituiscono il senso di un’architettura centripeta, aperta non solo alla città di Strasburgo ma anche al mondo intero. Il tutto senza enfasi monumentale, con un elegante understatement espresso attraverso l’immaterialità di ampie superfici vetrate e senza voler stupire con effetti speciali di alta tecnologia, troppo spesso, in simili contesti, risultata inadeguata poiché autoreferenziale. Tutto ciò non ha comunque impedito ai progettisti di creare una serie di luoghi ad alto tasso emozionale, di realizzare ambienti di grande suggestione, come nel caso dello spazio intorno al grande emiciclo, caratterizzato da scale elicoidali, vari ascensori a vista, da passaggi pedonali in quota in grado di creare vertiginose quanto emozionanti visioni prospettiche. Posto alla confluenza tra il fiume Ill e il canale della Marna al Reno, il complesso si pone come un vero e proprio brano urbano, un luogo in cui coesistono una piazza, varie strade ornate da giardini e una passerella in vetro che attraversa il canale nel bacino del fiume Ill, collegando il Parlamento al Palazzo d’Europa, un edificio senza particolari attributi, realizzato negli anni Settanta. La necessità di costruire un nuovo complesso per accogliere il Parlamento Europeo si evidenzia verso la fine degli anni Ottanta, quando gli spazi del Palazzo d’Euro- pa divengono insufficienti ad accogliere nuove strutture burocratiche. Una preselezione, che vede la partecipazione di circa cento studi di architettura, individua tra i possibili progettisti, per l’Italia il gruppo coordinato da Pierluigi Spadolini, per la Gran Bretagna Powell e Moya e per la Francia Jourda et Perraudin e Architecture Studio. Vince su tutti – forse avvantaggiato poiché ancora nella lunga scia di fama acquisita come autore (insieme a Jean Nouvel, Soria e Lézènes) dell’Istituto del Mondo Arabo, realizzato a Parigi fra il 1981 e il 1987 – il gruppo composto da Martin Robain, Rodo Tisnado, JeanFrançois Bretagnolle, René-Henry Arnaud, LaurentMarc Ficher e Gaston Valente. L’obiettivo principale del progetto era di realizzare un’architettura di forte impatto, un’icona che, attraverso un linguaggio pregnante di allusioni e rispecchiamenti al passato, traducesse in forme contemporanee archetipi – come sostengono i progettisti – del Classico e del Barocco. La classicità come portatrice dell’ordine delle proporzioni, della simmetria, dell’importanza della funzione pedagogica dell’arte e dell’architettura; del Barocco, come controcanto, si è recuperato il movimento quale trasgressione ideologica e il capriccio come espressione di geometrica follia. Il tutto mixato con una tecnologia non invasiva, affinché non fossero oscurati altri segnali, altre sonorità in sintonia con la città. La maglia, infatti, su cui è organizzato il sistema planimetrico del complesso riprende le coordinate con cui è stato concepito il reticolo viario di Strasburgo. I f transparency is to politics what beauty is to architecture, then the European Parliament complex is already an icon, a guideline for other constructions designed to represent communities of different people. The structural layout, variety of planes and landscape scale of the design create a sense of centripetal architecture, open not only to the city of Strasbourg but also to the world. All this without resorting to heroic-monumental forms, drawing on an elegant sense of understatement through the immateriality of wide glass surfaces and refusing to try and astound us with high-tech special effects, which far too often in this kind of context turn out to be unsatisfactory due to their self-referential nature. Nevertheless, all this has not stopped the architects from creating a series of highly emotive spaces and evocative surroundings, as epitomized by the space around the large hemicycle featuring spiral staircases, a variety of exposed lifts and high-level walkways creating head-spinning and striking views. Situated where the River Ill and the Marne-Rhine Canal flow together, the complex looks like an authentic fragment of cityscape, a place where a square, various roads lined with gardens and a glass walkway crossing the canal in the basin of the River Ill all co-exist. This is where the new Parliament complex is connected to the rather bland Palace of Europe constructed in the 1970s. It became clear in the late 1980s that a new complex would be needed to house the European Parliament, as the Palace of Europe did not have enough room to accommodate the new bureaucratic structures. A pre-selection process picked out about one hundred architectural firms as potential designers of the new facility: a team headed by Pierluigi Spadolini for Italy, Powell and Moya for Great Britain, and Jourda et Perraudin and Architecture Studio for France. The eventual winner—perhaps exploiting the advantage of the great reputation it had earned for designing (together with Jean Nouvel, Soria and Lézènes) the Arab World Institute in Paris from 1981 to 1987—was the team composed of Martin Robain, Rodo Tisnado, Jean-François Bretagnolle, René-Henry Arnaud, Laurent-Marc Ficher and Gaston Valente. The main purpose of the project was to design a striking piece of architecture; an icon drawing on plenty of stylistic allusions and reflections of the past to translate archetypes of the Classical and Baroque periods (as the architects themselves put it) into modern-day forms. Its classical verve lends a sense of order, proportion and symmetry, focusing on the educational importance of art and architecture. In contrast, the influence of the Baroque can be seen in motion as an ideological transgression and caprice as an expression of geometric folly. All mixed with unobtrusive technology so that other signs are allowed to emerge, other sounds in harmony with the city. The basic pattern of the complex’s site plan draws on the co-ordinates used to design the Strasbourg road network. Pagina a fianco, sezione trasversale. In alto, modello del complesso; in basso, pianta del livello +3,67/+4,00 e pianta del livello +7,33/+9,17. Pagine seguenti, un particolare del sistema di passerelle pedonali, ascensori e scale mobili che conducono all’emiciclo; scala elicoidale a doppio tornante nella corsia laterale all’asse principale; il foyer dove si erge il volume dell’emiciclo rivestito di legno di quercia. Opposite page, cross section. Top, model of the complex; bottom, plan at level +3.67/+4.00 and plan at level +7.33/+9.17. Following pages, a detail of the footpaths, lifts and escalators leading to the hemicycle; double-twisting spiral staircase at the side of the main path; the foyer where the oak-clad hemicycle stands. 37 38 39 41 40 In senso orario, l’aula dell’emiciclo, dettagli degli interni e un particolare dell’asse principale. L’atmosfera solare è arricchita dall’illuminazione zenitale e dalle piante di filodendro rampicanti su cavi d’acciao inox. Clockwise, the hemicycle hall, details of the interiors and detail of the main axis. The bright atmosphere is enhanced by zenith lighting and philodendron plants climbing up the stainless steel cables. L???????????? M?????????????? Una sacralità interpersonale Interpersonal Sacredness Tokyo, Church of Christ Tokyo, Church of Christ Progetto di Fumihiko Maki + Maki Associates Project by Fumihiko Maki + Maki Associates È convinzione comune che le chiese abbiano perso il senso del sacro, che non siano più la Casa di Dio. Anche quando si tratta della Cappella di NotreDame-du-Haut, a Ronchamp, realizzata su progetto di Le Corbusier, considerata un capolavoro di architettura ma non una vera chiesa poiché concepita eludendo non poche indicazioni liturgiche. Ciò è pienamente condiviso da un noto liturgista come Klaus Gamber che considera l’architettura sacra un luogo immutabile, una struttura spaziale codificata da regole liturgiche destinate a provocare particolari stati d’animo, anch’essi immutabili. Questa visione statica del sacro appare però insostenibile poiché è innegabile che l’uomo sia intimamente legato al suo tempo storico: gli stati d’animo dell’uomo postindustriale sono profondamente diversi da quelli di chi ha vissuto prima della rivoluzione industriale. Il tempo, dunque, è un forte motore di cambiamento che coinvolge la cultura, la visione della vita e quindi anche lo spirito. Anche l’architettura sta radicalmente mutando i suoi statuti disciplinari: il mondo del progetto, nelle sue espressioni più innovative, punta su un’architettura orientata verso forme spaziali talmente estreme da capovolgere gerarchie ritenute inamovibili. Che la forma segue la funzione è ormai un assioma in via d’estinzione: si tende sempre più a realizzare architetture autoreferenziali. In alcuni casi si assiste a una sorta di ritorno alle origini, quando l’uomo non costruiva ma sceglieva un luogo, adattandolo alle proprie necessità sia simboliche sia funzionali. Zaha Hadid, architetto inglese di origine irakena di fama internazionale, descrive la sua architettura “vettoriale” idealmente di- 42 Pagina a fianco, particolare della fronte ovest, caratterizzata da una grande facciata continua di vetro a doppio strato. Lo strato esterno è trattato con una serigrafia ceramica puntinata in modo da mascherare in parte la struttura. Opposite page, detail of the west front featuring a large double-glazed curtain façade. The outside sheet of glass is treated with ceramic serigraphy to partially hide the structure. segnata dalla velocità di un ipotetico missile che, sfrecciando velocissimo davanti a volumi elementari, crea forme visionarie difficilmente catalogabili rispetto all’immaginario collettivo. Tali metodologie, che, con varianti più o meno simili, sono comuni a molti progettisti, danno vita a una serie infinita di forme archetipali, il cui valore emozionale è paritario a quello della destinazione funzionale. L’annosa diatriba fra liturgisti e progettisti sembra dunque risolversi in favore di chi crede più nell’evoluzione dell’architettura che nella staticità della fede. Qualcosa in comune per dare sacralità al luogo di culto è tuttavia rimasta. La luce, grande protagonista sia del Gotico, sia del Barocco, continua a rappresentare un elemento simbolico in grado di trasformare lo spazio fisico in un luogo dell’anima. Fumihiko Maki, nella Church of Christ, usa la luce per dematerializzare la grande parete translucida prospiciente l’altare, creando nello stesso tempo un piano luminoso come ideale interfaccia di comunicazione fra Dio e i fedeli. Anche la particolare configurazione delle pareti laterali è funzionale al linguaggio della luce: inclinandosi leggermente verso l’esterno, le pareti lasciano filtrare una lama di luce che illumina la compatta trama verticale dei pannelli di rivestimento. È quindi chiaro che nelle intenzioni del progettista più l’ambiente è dematerializzato più esprime sacralità. L’interno della chiesa, caratterizzato da rivestimenti e pavimentazioni prevalentemente realizzati in legno di betulla, risulta gradevole e distensivo, adatto non solo alle procedure rituali ma anche agli incontri e agli scambi interpersonali di chi è consapevole di appartenere a una comunità. 43 I 44 La scala di legno di betulla che collega il piano terra - dove sono ubicati gli uffici e le sale destinate alle attività parrocchiali - al primo piano in cui è situata l’aula principale; a destra, l’atrio del secondo piano. The birch wood stairs connecting the ground floor – where the offices and rooms used for parish activities are located – to the first floor where the main hall is located; right, the second-floor lobby. t is a common belief that churches are losing their sense of holiness and that they no longer feel like a House of God. Even Le Corbusier’s masterful architectural design for Notre-Dame-du-Haut Chapel in Ronchamp is not considered a “proper” church, because it was designed without paying due heed to a number of liturgical guidelines. This is certainly the view of a well-known expert in liturgy, Klaus Gamber, who believes that holy architecture should be a neverchanging place, a special structure coded according to liturgical rules designed to induce certain states of mind, that are likewise unchanging. This static vision of holiness is hard to subscribe to because there can be no doubt that man is intimately bound to the changing historical passage of time: postindustrial man’s state of mind is quite different to that of people who lived before the industrial revolution. Time is a powerful driving force behind change that encompasses culture, our view of life and hence even the human spirit. Architecture is also radically changing its disciplinary by-laws: the most innovative expressions in the world of design focus on architecture directed toward spatial forms that are so cutting-edge and extreme that even previously thought unchangeable hierarchies are being turned upside down. Form follows function is today an invalid axiom: there is now a growing tendency to design self-referential works of architecture. In certain cases there is hint of a return to our origins when man did not build anything as such, he just chose a place to live and adapted it to his own symbolic and functional needs. Zaha Hadid, a British architect of Iraqi origin renowned international- ly, describes her architecture as “vectorial” ideally designed by the velocity of a hypothetical missile flashing past simple structures that creates visionary forms hard to be classed by the collective psyche. These working methods shared by many architects (more or less similar variations on the same basic theme) bring to life an endless series of archetypal forms, whose emotional value is on a par with their functional purposes. The age-old diatribe between liturgical experts and designers tends to lean in favor of those who believe more deeply in architectural progress than the static nature of faith. Nevertheless, there is still some common ground to ensure the place of worship remains sacred. Light, the key feature of both Gothic and Baroque architecture, is still a symbolic element enabling physical space to transform into a spiritual place. Fumihiko Maki’s Church of Christ uses light to dematerialize the huge translucent wall overlooking the altar, at the same time creating a luminous plane acting as an ideal communicative interface between God and worshippers. The peculiar design of the side walls is also geared to the language of light: as they slope gently outwards the walls let in a blade of light that illuminates the closelyknit vertical pattern of cladding panels. It is obvious that the architect feels that a more dematerialized setting is inevitably more holy. The inside of the church features predominantly birch-wood claddings and floors creating a soothing and relaxing atmosphere, suitable for both religious ceremonies and also meetings and encounters between people keenly aware that they are part of a community. 45 Facciata ovest. West façade. 46 Pagina precedente, da sinistra, piante dei piani terzo, secondo e terra e la fronte sud. In questa pagina, in senso orario, l’aula principale che può contenere fino a 700 fedeli, veduta parziale del sito e planimetria generale. Previous page, from left, plans of the third, second and ground floors and the south front. This page, clockwise, the main hall, that can accommodate up to 700 worshippers, partial view of the site, and site plan. 47 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Facciata laterale e particolare della facciata a nord-est. La chiesa sorge al centro di un giardino pubblico ed è caratterizzata da un volume cubico sorretto da dodici pilastri simboleggianti i dodici Apostoli. Riti urbani Urban Rituals Side façade and detail of the north-east façade. The church stands in the middle of a public garden and features a cube-shaped structure supported by twelve columns symbolizing the twelve Apostles. Parigi, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance Paris, Notre-Dame de l’Arche d’Alliance Progetto di Architecture Studio Project by Architecture Studio L 48 Planimetria generale e l’ingresso della chiesa a quota 3,5 metri. Site plan and church entrance at a height of 3.5 meters. a chiesa di Notre-Dame de l’Arche d’Alliance sorge nel XV arrondissement, al centro di un giardino pubblico, di fronte a Piazza Falguière. Il complesso è caratterizzato da un volume cubico (contenente l’aula assembleare e il presbiterio con quattro alloggi) sorretto da dodici pilastri, che simboleggiano le dodici tribù d’Israele e i dodici Apostoli. Il volume è contenuto in un reticolo tridimensionale d’acciaio inossidabile – trasposizione spaziale del nartece – che definisce lo spazio di transizione con l’esterno. La forma cubica è un chiaro riferimento all’Arca dell’Alleanza, il contenitore in cui erano custodite le Tavole della Legge che Dio aveva consegnato a Mosé, sul Monte Sinai. Gli interni della chiesa sono, infatti, in legno d’acacia, la stessa essenza dell’Arca dell’Alleanza. L’abside del coro è di forma cilindrica, inclinata nel piano della facciata dove disegna una parabola. Al suo interno c’è il tabernacolo realizzato in legno d’acacia rivestito di foglie d’oro. Sull’asse di collegamento fra il coro e l’aula assembleare trovano posto l’altare, costruito in marmo di Tassos, l’ambone e gli altri elementi destinati alla funzione liturgica. Normalmente, il rapporto fra liturgia e architettura sacra riguarda soprattutto gli spazi interni della chiesa. Il percorso del credente prevede alcune soste ideali: la parte iniziale simboleggia la fase esistenziale di avvicinamento alla fede. Chi attende di essere battezzato è invitato a sostare nell’area presso l’ingresso, l’abside e il tabernacolo sono le mete finali del percorso. Nonostante siano presenti molti elementi simbolici riferibili alla tradizione, la nuova chiesa si propone come un’architettura in qualche modo trasgressiva, una presa di posizione per dar vita alla ricerca di un nuovo linguaggio, in altre parole rimettere in gioco il rapporto fra l’edificio sacro e lo spazio urbano. La sempre maggiore densità della città pone molti limiti al suo rinnovamento. La città invecchia, l’architettura anche: poiché la sola sperimentazione rischia di rimanere semplice teoria, architettura di carta con esigue opzioni di tradursi in spazio urbano. La valenza simbolica dell’edificio sacro può dunque porsi quale efficace strumento di riflessione critica per gettare uno sguardo verso il futuro. Il reticolo posto all’esterno della chiesa che, nelle intenzioni dei progettisti, definisce lo spazio di transizione fra spazio sacro e ambiente urbano è contemporaneamente anche una soglia, una linea virtuale che segna la divisione degli opposti e nello stesso tempo anche il luogo della loro relazione. È dunque anche attraverso l’ambiguità semantica dell’assenza/presenza che si può incidere sul linguaggio dell’architettura contemporanea. Il reticolo della chiesa, quasi fosse una Gabbia di Faraday, include il tutto e nello stesso tempo è anche una soglia virtuale che estende i confini geometrici dell’insieme. L’intorno non ha quindi più una sua identità spaziale certa, poiché intervengono effetti ottici che ne mettono in discussione la stabilità della percezione. Questa trasmutabilità virtuale diviene dunque metafora del costante mutamento del mondo attraverso una scena urbana che riproduce, in scala ridotta, la condizione d’instabilità che pervade la società contemporanea. 49 Dal basso in alto, piante dei piani primo, terzo, quinto, sesto e sezione trasversale. From bottom up, plans of the first, third, fifth and sixth floors, and cross section. 50 N otre-Dame de l’Arche d’Alliance Church stands in the 15th arrondissement, in the middle of a public garden opposite Falguière Square. The church complex features a cube-shaped structure (holding the congregation hall and the presbitery with four lodges) supported by twelve columns symbolizing the twelve tribes of Israel and the twelve apostles. The structure is encompassed in a three-dimensional web made of stainless steel—spatial rendering of a narthex—marking the area of transition to the outside environment. The cube-shaped form clearly evokes the Ark of the Covenant used to hold the Tablets of Stone inscribed with the Ten Commandments that God handed down to Moses on Mount Sinai. The interiors of the church are, like the Ark of the Covenant, made of acacia wood. The church apse is cylindrical and slopes at an angle toward the façade, where it marks a parabola. The tabernacle made of acacia covered with golden leaves is placed inside here. The altar made of Tassos marble, the ambo and other liturgical features are situated along the axis connecting the choir to the congregation hall. Religious architecture and liturgy are brought together through the interiors of a church. Worshippers follow a sort of ideal path starting with a symbolic rendering of their own approach to faith. Those awaiting baptism are expected to wait near the entrance area, while the apse and tabernacle are the final destinations. Despite plenty of references to tradition, the new church is designed around rather transgressive lines, an approach aimed at searching for a new idiom or, in other words, a way of calling into question the religious building’s relation to an urban environment. The increasing density of cities is hampering their development in many ways. The city ages and so does architecture: since experimentation alone is likely to be nothing more than mere theory, architecture on paper, with little chance of being transformed into urban reality. The building’s symbolic worth might be a useful means of casting a critical eye toward the future. The web on the outside of the church, according to the architects’ plans, represents the transition between holy space and the urban environment, suggesting a threshold; a virtual line marking the division of opposites and also the place where they are united. The semantic ambiguity between absence/presence is also a means of influencing the idiom of modern-day architecture. The church’s web, almost like a Faraday Cage, encompasses everything and at the same time marks another virtual threshold extending the geometric boundaries implying the surroundings have no definite spatial identity. Optical effects are introduced to call into question its perceptual stability. This virtual transmutability ultimately turns into a metaphor for our constantly changing world as the cityscape provides a smaller scale reproduction of the instability pervading modern-day society. Particolare della scalinata che porta all’ingresso dominata dal campanile. Il rivestimento esterno è realizzato con pannelli in resina rinforzati con fibra di legno e rivestiti con una resina acrilica serigrafata che riproduce all’infinito il testo dell’Ave Maria (Je vous salue Marie). Pagine seguenti, l’abside del coro di forma cilindrica inclinata nel piano della facciata dove disegna una parabola: al suo interno, il tabernacolo è in legno d’acacia coperto di foglie d’oro. Il battistero, situato a livello del terreno. Detail of the steps up to the entrance beneath the bell tower. The outside cladding is made of resin panels reinforced with wooden fiber and clad with a serigraphed acrylic resin featuring an endless reproduction of the Ave Marie (Je vous salue Marie). Following pages, the cylindrical-shaped choir apse in the façade plane forming a parabola: the tabernacle inside is made of acacia wood covered with gold foil. The baptistery at ground-floor level. 51 52 53 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Una volta sotto il cielo d’Oriente A Dome beneath Eastern Skies Abu Dhabi, nuovo terminal aeroportuale Abu Dhabi, new airport terminal Progetto di ADP-Paul Andreu Project by ADP-Paul Andreu N 54 Sezione trasversale e prospetto. La grande copertura a volta è stata pensata come metafora di un cielo stellato nel deserto. Cross section and elevation. The large vaulted roof is designed as a metaphor for a starry night in the desert. ell’iconografia dei complessi aeroportuali la cupola rappresenta una tipologia alquanto inusuale. Forse la sua purezza geometrica e l’intensa carica simbolica hanno il potere d’intimorire chiunque pensi di confrontarsi con un maestro come Brunelleschi, l’autore della cupola più famosa al mondo (realizzata nei primi anni del XV secolo nella chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze). Il “Module2”, come viene definito il nuovo terminal dell’aeroporto di Abu Dhabi, con la sua cupola semitrasparente e mutante, secondo l’alternarsi del giorno e della notte, potrebbe essere una sorta di omaggio-sfida lanciato da Paul Andreu verso uno dei più grandi ingegni della storia dell’architettura rinascimentale? Se così fosse, varrebbe la pena d’indagare sui possibili significati simbolici della cupola attraverso i secoli e le diverse culture che si sono avvicendate nel corso del tempo. Nel contesto culturale, temporale e geografico, la cupola è sempre stata la forma architettonica che rappresenta il cosmo, sia nell’accezione laica, sia in quella religiosa. Nel progetto del nuovo terminal si è voluto soprattutto creare in scala ridotta un cielo stellato nel deserto, una metafora che alluda alla necessità del viaggiatore di avere punti di riferimento certi per muoversi agevolmente in un luogo estremo e disorientante. L’intervento proposto da ADP-Paul Andreu riguarda il progetto di ampliamento dell’aeroporto attraverso la realizzazione di due edifici: un satellite, a pianta circolare, e una seconda unità, posta lungo la linea di raccordo con l’edificio del terminal esistente. L’edificio satellite è destinato alle operazioni d’imbarco e di arrivo e agli spazi del duty-free, nonché ad accogliere alcune strutture accessorie organizzate su due piani separati; la seconda unità comprende invece l’area dei banchi per le operazioni di check-in e gli uffici amministrativi. La cupola che fa da copertura all’edificio satellite misura cento metri di diametro ed è sostenuta da una struttura composta di cento tubi in acciaio con un diametro di venticinque centimetri e uno spessore di un centimetro. Si tratta dunque di uno spazio di notevole ampiezza, in cui la particolare conformazione strutturale crea effetti di notevole suggestione: la disposizione a raggiera dei tubi ricorda una grande sorgente i cui getti d’acqua generano una superficie parabolica simile a una monumentale fontana zampillante. Sostenuta dal cono centrale, la grande volta è rivestita da una serie di vetri caratterizzati da diversi gradi di opacità e trasparenza, con un’intensità che aumenta progressivamente dalla base verso la sommità, per poi digradare nuovamente verso la zona perimetrale. Ad altezza d’uomo, la superficie al livello di massima circonferenza è praticamente trasparente, lasciando così la possibilità di osservare il panorama a trecentosessanta gradi. Basata su complessi calcoli statici, la cupola presenta una struttura composta di elementi portanti di sezione relativamente limitata, ma ad alta resistenza al carico, un sistema simile a quello impiegato nelle costruzioni aeronautiche. Il progetto si è basato dunque su alcune affinità fra architettura e sistema di trasporto, creando un paesaggio artificiale in cui i diversi ambiti disciplinari si fondono senza però perdere le reciproche identità. T he dome certainly is not the type of stylistic feature usually associated with airport designs. Perhaps its geometric purity and powerful symbolic force are a daunting prospect for any designer daring to face up to a master like Brunelleschi, who designed the world’s most famous dome (built in the early-15th century at the Santa Maria del Fiore Church in Florence). Might “Module2” (as the new Abu Dhabi airport terminal is called), whose semi-transparent dome alters between day and night, actually be a sort of homage-challenge thrown down by Paul Andreu to one of the greatest engineers in the history of Renaissance architecture? If this were so, it would be worth investigating the various possible symbolic meanings of the dome down through the centuries and across different cultures. Through every culture, the dome has always been the architectural form chosen to represent the heavens, both from a secular and religious viewpoint. The project for the new terminal was designed to simulate a starry desert sky; a metaphor alluding to a traveler’s need to have definite bearings in order to find one’s way if faced with extreme conditions. The project designed by ADP-Paul Andreu involves extending the airport through the construction of two buildings: a circular-based satellite building and a second unit placed along the connecting line to the old terminal building. The satellite building serves boarding and disembarking procedures and accommodates duty free spaces. It also houses some ancillary facilities sited over two separate levels. The second unit houses the check-in area and administration offices. The dome over the satellite building measures one hundred meters in diameter and is held in position by a structure made of one hundred steel tubes measuring twenty-five centimeters in diameter and one centimeter thick. This is a spacious area, where the unique structural form creates striking effects: a sundial formation of tubes calls to mind spurting water creating a parabolic surface rather like a gushing monumental fountain. The large vault supported by the central cone is clad with a set of glass windows each with different degrees of opacity and transparency. The opacity increases gradually from the base up, before gradually decreasing again toward the edges. The glass surface at eye level is almost transparent providing a three hundred and sixty degree observation point. The dome, whose design is based on extremely complex static calculations, has a structure made of bearing elements with relatively small sections but high load-resistance, a system similar to that used for aeronautical constructions. The project encompasses certain similarities between the design of architecture and that of transport systems, thereby creating a sort of manmade landscape in which disciplinary boundaries break down without, however, losing their own separate identities. 55 Sezione trasversale parziale. Partial cross section. 56 Pagine seguenti, prospettiva aerea del complesso aeroportuale; sezione trasversale prospettica; particolare dell’interno con la volta di 100 m di diametro, sostenuta da una struttura composta di un centinaio di tubi d’acciaio. La volta è rivestita con pannelli di vetro con diversi gradi di trasparenza e opacità. Following pages, aerial view of the airport; perspective cross section; detail of the inside, whose vault measuring 100 meters in diameter is held up by a structure made of about one hundred steel tubes. The vault is clad with glass panels of different degrees of transparency and opacity. 57 58 59 Da porta a porta From Door to Door Roissy, Terminal 2F Roissy, Terminal 2F Progetto di Paul Andreu Project by Paul Andreu P 60 Pagina a fianco, planimetria generale e piante dei livelli partenze e arrivi. La nuova aerostazione si inserisce lungo il prolungamento est-ovest dei precedenti quattro moduli A, B, C, D e di quello di scambio con la linea ferroviaria del TGV-RER. Opposite page, site plan and plans of the departures and arrivals levels. The new airport fits in along the eastwest extension to the previous four modules (A, B, C and D) and the junction with the TGV-RER railway line. er vastità e tipo di configurazione compositiva, il complesso aeroportuale di Roissy è un vero e proprio paesaggio artificiale, un luogo in cui si confrontano, ad armi pari, architettura e territorio, ovvero: natura e artificio. Esperto di progettazione di grandi aeroporti (fra gli altri, ha progettato quelli di Giakarta, di Osaka e di Nizza), Paul Andreu, nelle sue realizzazioni, oltre alla parte ingegneristica, cura con particolare attenzione anche gli aspetti emozionali che l’architettura è in grado di creare quando punta sull’innovazione. Nell’intervento a Roissy, grazie alla particolare concezione delle “penisole” d’imbarco, l’alternarsi di materia e di luce gioca un ruolo primario. Il progetto, sviluppato da RFR quando c’era ancora Peter Rice, poi scomparso prematuramente, presenta una soluzione di raffinata fattura ingegneristica per le parti strutturali, grazie alla modellizzazione computerizzata, ma che dimostra anche grande sensibilità nel trattamento della luce naturale. Un sistema frangisole, composto di lamelle forate in grado di filtrare e attenuare i raggi solari, permette di proteggere l’interno senza precludere il passaggio della luce. La copertura è quindi una superficie mutevole, che secondo il punto di osservazione presenta diversi gradi di opacità o di trasparenza. L’intervento a Roissy riguarda la realizzazione del nuovo Terminal F2 quale ampliamento dell’aeroporto Charles De Gaulle, di cui Andreu seguì la realizzazione alcuni decenni fa. Data l’importanza dello scalo, il complesso aeroportuale si confronta con aeroporti internazionali come il Kansai Airport, progettato da Renzo Piano e con l’Hong Kong Airport, realizzato su progetto di Norman Foster. Contrariamente ai due grandi scali intercontinentali, Roissy presenta accentuate differenze, grazie a rotondità e accentuate contrapposizioni materiche che segnano le diverse destinazioni funzionali degli edifici. La parte cosiddetta land side, quella aperta a tutti, dove si effettua il check-in, è un volume in cemento dall’aspetto austero rivolto verso la città, mentre la struttura prossima alla fase d’imbarco è caratterizzata dalla leggerezza e dalla trasparenza, permettendo così ai viaggiatori l’osservazione diretta sull’area destinata al volo, una veduta in cui il mondo tecnologico si confronta con il paesaggio naturale. La differenziazione tra corpi materici e una superficie immateriale come il vetro gioca un importante ruolo, sia come orientamento per chi transita a terra, sia come percezione visiva dall’alto. In quest’ultimo caso, la connotazione planimetrica percepibile durante la fase di volo precedente l’atterraggio è il dato che definisce con maggiore completezza il ruolo dell’aeroporto quale moderna porta d’accesso alla città. In realtà i grandi aeroporti, per la loro notevole estensione e complessità, costituiscono un segno forte nel territorio in quanto, oltre al nucleo aeroportuale vero e proprio, sono spesso generatori di nuove reti infrastrutturali come ferrovie e autostrade a grande traffico. L’aumento costante dell’intensità del traffico passeggeri fa degli aeroporti, oltre che straordinarie macchine logistiche, importanti poli di scambio, quindi ottime occasioni per creare strutture che quando puntano su un’immagine forte e innovativa costituiscono grossi veicoli di “comunicazione culturale”. R 62 oissy Airport’s design layout and size make an impressive manmade landscape, a place where architecture and environment (or rather artifice and nature) face each other on an even standing. An expert in designing large airports (such as those in Jakarta, Osaka and Nice), Paul Andreu does not just focus on the engineering aspect, his designs also pay careful attention to the emotions architecture is capable of evoking when it is designed around innovation. Thanks to the unique design of the passenger boarding “peninsulas,” the Roissy project allows the alternation of material and light to play a key role. The project developed by RFR while Peter Rice was there (before his untimely death) works around elegant structural features drawing on computer modeling, and also shows great sensitivity in handling natural light. A sunblind system made of perforated shutter blades capable of filtering through and toning down the sun’s rays protect the interior without blocking out all the light. The roof is therefore an ever-changing surface with different degrees of opacity and transparency depending on the position from which it is viewed. The Roissy project concerns the construction of the new Terminal F2 as an extension to Charles De Gaulle Airport, designed by Andreu himself a few decades earlier. Given the importance of this airport, the complex must inevitably confront the likes of Kansai Airport designed by Renzo Piano and Hong Kong Airport designed by Norman Foster. In contrast with these two major intercontinental airports, Roissy differs due to its rotundity and accentuated contrasts between differing materials marking the different purposes the various buildings serve. The land side of the project, where passengers check in, is an austere-looking cement structure facing the city, while the building near the boarding area is much lighter and more transparent, providing passengers with a direct view of the flight area, a view of where technology meets nature. The distinction between material bodies and an immaterial surface like glass plays a key role in guiding passengers in transit and opening up vistas that can be viewed from above. In this latter case, the view of the building layout that can be seen just before landing is a distinctive feature of a modern airport’s role as a gateway to a city. The expansion and complexity of large airports make them important landmarks as, in addition to the airport complex itself, they also generate new infrastructure networks such as busy motorways and railways. The constantly increasing number of passengers make airports important points of interchange, as well as incredibly effective logistical mechanisms, providing excellent opportunities to create structures that, when focusing on a powerful new image, function as a major means of “cultural communication.” Pagina precedente, l’area d’attesa dei passeggeri. In questa pagina, spazi relativi alle partenze e agli arrivi. Pagine seguenti, il corpo principale dove sono organizzati i due livelli delle partenze e degli arrivi e quello intermedio destinato ai passeggeri in transito. Previous page, the passenger waiting area. This page, spaces serving the departures and arrivals areas. Following pages, the main section housing the departures and arrivals levels and the intermediate level serving passengers in transit. 63 64 65 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES L’utopia degli scambi The Utopia of Trade Amsterdam, World Trade Center Amsterdam, World Trade Center Progetto di Benthem Crouwel NACO Project by Benthem Crouwel NACO D 66 Ingresso e atrio del nuovo WTC, realizzato presso l’aeroporto internazionale di Amsterdam Schiphol come supporto logistico. Entrance and lobby of the new WTC built inside Schiphol International Airport, Amsterdam, as a logistics facility. a più parti si sostiene che nell’era delle comunicazioni di massa non esistano più regole sicure sull’etica dello spazio, ovvero l’architettura, globalizzandosi, sembra aver perso la sua originaria carica di strumento sensibile, di cartina di tornasole per misurare il tasso di bellezza dell’ambiente costruito. La perdita d’identità è il dato comune dei paesaggi urbani contemporanei, e l’omologazione è un segno dell’assenza della bellezza poiché manca la materia del confronto. In uno scenario dove tutto sembra destinato a soccombere alla non-bellezza, vi sono tuttavia alcune isole felici in cui la bellezza non ha ancora definitivamente abdicato. Il World Trade Center di Amsterdam è, infatti, un esempio di come l’architettura abbia a disposizione un efficace sistema immunitario in grado di assicurarle un minimo di decenza formale. Per ottenere un antivirus abbastanza vigoroso, a volte basterebbe affidarsi alla tecnologia delle costruzioni in metallo. Un’architettura realizzata sostanzialmente in ferro e vetro suggerisce un’idea di leggerezza e quindi di effimero, di transitorio e assicurerebbe un minimo impatto sull’ambiente. Ciò che si può facilmente smontare, sollecita il cambiamento, quindi fornirebbe l’occasione per costruire strutture con una maggiore qualità della volta precedente. La nuova struttura, realizzata fra il 1999 e il 2000, rappresenta l’ultima fase prevista per il completamento dell’Amsterdam Airport Schiphol, progettato sempre da Benthem Crouwel NACO. L’intervento consiste nella realizzazione di una struttura comprendente la stazione ferroviaria che collega la capitale olandese con Bruxelles e Parigi, un grande parcheggio, alcuni alberghi e il World Trade Center, suddiviso in otto edifici per uffici. Si tratta quindi di una porzione di città ad alto tasso di specializzazione poiché al suo interno il complesso include ambienti di ricevimento, sale conferenze, negozi, banche e aree destinate agli incontri. È dunque espressione eclatante di quella modernità che ha prodotto nuovi territori di scambio, spazi della civiltà globalizzata, ovvero i “non-luoghi”, come li ha definiti l’antropologo Marc Augé: “Il mondo della globalizzazione economica e tecnologica è il mondo del passaggio e della circolazione, e ha come sfondo il consumo. Gli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati (aggiungerei volentieri alla lista anche le basi di lancio missilistiche) sono dei non-luoghi, nella misura in cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie” (da Narrazione, viaggio, alterità, relazione al seminario presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna). Se il non-luogo è, in sintesi, uno spazio privo d’identità, la ricerca di segni identitari sembrerebbe dunque un percorso possibile per risolvere il problema. Ma da dove partire per iniziare con una minima probabilità di successo? Forse, dall’utopia? Richard Buckminster Fuller sosteneva che “il mondo è troppo pericoloso per qualsiasi cosa, meno che per l’utopia”. 67 Planimetria generale e atrio del terzo livello. Site plan and third-floor lobby. Atrio di ingresso al secondo piano. Entrance lobby on the second floor. 68 Sezione trasversale e longitudinale. Cross section and longitudinal section. M any people claim that in an age of mass communication there are no longer any defining rules governing the ethics of space or in other words architecture. As standards have globalized architecture has lost some of its original force as a yardstick for gauging the beauty of the built environment. Loss of identity is the real leitmotif of modern-day cityscapes and indistinctiveness is a sign of a certain lack of beauty due to the absence of any means of comparison. In an environment where everything seems destined to give way to non-beauty, there are still some examples of outstanding beauty that have refused to abdicate once and for all. The World Trade Center in Amsterdam is an example of how architecture is still blessed with an effective immune system capable of providing at least minimal stylistic decency. To find a reasonably strong antivirus, we need only turn to the technology used for metallic constructions. Architecture using mainly iron and glass creates a sense of lightness, impermanence and transience, with little environmental impact. What can be easily dismantled, encourages change and hence would provide the chance to build structures of a better quality than in the past. This new facility, built between 1999-2000, is the last phase envisaged in the completion of Schiphol Airport, Amsterdam, also designed by Benthem Crouwel NACO. The project involves a structure encompassing the railway station that connects the Dutch capital to Brussels and Paris, a large car park, several hotels and the World Trade Center divided into eight office buildings. This is a highly specialized corner of the city: the inside of the complex houses reception rooms, conference halls, shops, banks and meeting areas. This makes it a striking example of the kind of modernity that has produced new areas of exchange, places of globalized civilization or “non-places” as Marc Augé called them: “The world of economic and technological globalization is the world of passage and circulation, and its background is consumerism. Airports, hotel chains, motorways and supermarkets (I’d also gladly add missile launch pads to the list) are non-places in as much as their main vocation is not territorial, they are not designed to create individual identities, symbolic relations or common wealth but rather to make circulation easier (and hence consumerism) in a world of planetary dimensions.” (From Narration, voyage, altérité, a publication circulated at a seminar held at the University of Bologna's Superior School of Human Studies.) If, in brief, a non-place is a space with no identity, the quest for identifying signs would seem to be a possible means of solving the problem. But where do we start to have even a minimum chance of success? Perhaps from utopia? Richard Buckminster Fuller claimed that “the world is too dangerous for anything; except for utopia.” 69 70 Corridoio di arrivo degli ascensori. Interno della grande vetrata. Lift corridor. Inside the large glass section. Atrio del terzo piano. Grande atrio centrale a tutta altezza con le installazioni dell’artista statunitense Dale Chihuly. Third-floor lobby. Huge full-height central lobby showing the installations by the American artist Dale Chihuly. 71 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Movimento radiante Radiant Motion Pianta del terzo livello e sezione est-ovest. Plan of the third level and east-west section. Dortmund, Nuova Stazione Centrale Dortmund, New Central Station Progetto di BRT Architekten Project by BRT Architekten F 72 Sezione nord-sud. North-south section. ra le tante definizioni che tentano di esprimere sinteticamente lo spazio urbano, una delle più concise e pregnanti è: la città è umana mentre la metropoli è disumana. L’aforisma è senza dubbio efficace, ma il concetto andrebbe approfondito attraverso alcune riflessioni. Disumana, perché? Il rapido sviluppo delle metropoli sembra non coincidere con i desiderata dell’individuo, poiché l’enorme quantità di nuove costruzioni sembra sempre più orientata a soddisfare le necessità della collettività. Sembra ormai che l’habitat metropolitano si autogeneri per clonazione, obbedendo solo a leggi interne, la cui unica finalità è l’autoproduzione/autoconsumo. Insomma, la metropoli sembra ignorare le emozioni e i desideri dell’individuo. Se tutto ciò corrisponde a verità, è necessario porsi con urgenza il problema del vivere collettivo non solo per risolvere gli aspetti tecnici dell’abitare ma soprattutto per riflettere sul come gestire l’immaginario metropolitano, dal momento che è proprio l’immagine della metropoli a subire la crisi più profonda e radicale. La post-metropoli sembra, infatti, produrre un immaginario sempre più ripetitivo e di conseguenza senza qualità. L’immaginario ha un nemico inesorabile, che si evidenzia soprattutto nell’astrazione espressa dal rigore classicista della triade vitruviana utilitas, firmitas, venustas che ha in gran parte condizionato la cultura architettonica occidentale. Il progetto per la realizzazione della nuova Stazione Centrale di Dortmund propone un’astronave metropolitana per legittimarla come simbolo di architettura del futuro. Ricreando un set per film di fantascienza a scala urbana, l’astronave-stazione azzera l’immagine dell’intorno, trasformando un brano di città in un semplice accumulo di volumi, destinati a svolgere determinate funzioni ma non a essere una porzione di città. Solo il tempo potrà stabilire definitivamente se si trattava di un’operazione kitsch, oppure di un percorso capace d’innescare nuovi orizzonti progettuali. Suddivisa in otto livelli, la nuova struttura accoglie più o meno tutte le funzioni urbane: dalla residenza temporanea al commercio, dalle attività sportive e per il tempo libero a quelle culturali, dai servizi ai parcheggi interrati. Posto al di sopra del sedime ferroviario, il complesso oltre a porsi come grande scambiatore è anche un passaggio di attraversamento in grado di collegare, in direzione nord-sud, due zone urbane interrotte dalla cesura operata dai binari della ferrovia. La forma oblunga dell’atrio posto al centro dell’edificio, oltre a essere in asse con la passerella pedonale esterna che corre sulla ferrovia, è anche un segno ordinatore dei flussi interni relativi alla grande piazza coperta su cui si affacciano gli spazi e i percorsi relativi alla funzionalità degli ambienti. Simile a un gigantesco multisala Omnimax, con un diametro di 240 metri, una volta realizzata, la nuova stazione centrale – simbolo delle mutate condizioni socio-ambientali delle regioni della Rheinland e della Ruhr – diverrà uno straordinario moltiplicatore di presenze turistiche, attirate dal clamore mediatico che nasce sempre in simili occasioni. 73 A destra, planimetria generale; rendering del grande disco sospeso, del diametro di 240 m. Pagina a fianco, in alto, fotomontaggio e rendering dell’atrio. Right, site plan; rendering of the huge hanging disk measuring 240 meters in diameter. Opposite page, top, photo-montage and rendering of the lobby. 74 O ne of the most precise and concise definitions summing up urban environment reads: the city is humane, whereas the metropolis is inhumane. This is certainly an effective aphorism, but it would be worth supplementing it with a few extra remarks. Why is it inhumane? The sudden growth of metropolises does not seem to cater for people’s individual needs, as the huge quantity of new inner-city constructions appears to be increasingly geared toward the community’s requirements. It is as though the metropolitan habitat is now capable of self-reproduction through cloning, only obeying its own internal laws whose sole aim is self-production/self-consumption. In other words, the metropolis seems to ignore the feelings and desires of the individual. If this happens to be true, we need to face up to the problem of communal life on a vast scale, not just deal with the technical aspects of dwellings but also reflect on how to handle the question of its image, as it is the metropolis’s image that will likely suffer the real and most radical crisis. The imagery produced by the post-metropolis is one of repetitiveness and hence totally lacking in quality. The imagery has an unrelenting enemy that is most obvious in the abstraction expressed by the classicist rigor of the Vitruvian triad utilitas, firmitas, venustas (utility, stability, beauty), which has exercised a notable influence on western architectural culture. The project to design the new Dortmund Central Station is designed around the idea of a metropolitan spaceship to make it an authentic symbol of the architecture of the future. By re-creating a science fiction film set on an urban scale, the spaceship-station eclipses its surroundings, turning a part of the city into a simple mass of structures serving specific purposes but not constituting a portion of the city. Only time will really tell whether this is a piece of kitsch or whether it is actually a path capable of opening up new horizons for design. Divided over eight levels, the new station serves almost every imaginable urban purpose: from temporary housing to trade, from sports-leisure activities to cultural events, from utilities to underground car parks. Situated above the old railway line, the complex will be a major junction and a crossing point providing a northsouth connection between two urban zones separated by the railway tracks. As well as being on the same axis of the external pedestrian walkway running over the railway, the oblongshaped lobby in the middle of the building also helps distribute internal flows around the covered main plaza lined with zones and corridors serving the various parts of the premises. Like some huge Omnimax multi-screen film complex with a diameter of two-hundred and forty meters, once the new central station has been built— symbolizing changes in the socio-environmental conditions in the Rhineland and Ruhr regions—it will no doubt encourage tourism in the area, attracted by the media attention that surrounds such landmarks. 75 Particolare del grande atrio con la passerella pedonale che lo collega direttamente all’esterno e al centro della città. Detail of the large lobby showing the footpath connecting it directly to the outside and city center. 76 77 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Viaggio e creatività Travel and Creativity Leuven, la nuova stazione ferroviaria Leuven, the New Railway Station Progetto di Samyn & Partners Project by Samyn & Partners L’ 78 Modello: il progetto, vincitore di un concorso internazionale, fa parte di un più ampio programma di rinnovo della stazione esistente e dei suoi immediati dintorni. Model of the winning project in an international tender that is part of more extensive redevelopment plans for the old station and its surroundings. architettura è un sistema produttivo complesso, in cui è necessario far convivere armoniosamente grandi capitali, contrattazioni con le amministrazioni e istanze creative del progettista. La sfaccettata cultura di cui è permeata la proietta in situazioni dove è prevista anche l’assenza di qualità. Che fare per evitare di disseminare strutture che poco hanno da spartire con l’architettura e molto da condividere con la semplice edilizia? Se l’edilizia si identifica nella reiterazione meccanica di schemi costruttivi consolidati, il progetto per la nuova stazione di Leuven si pone completamente fuori da tale categoria, poiché, pur rispecchiando in parte l’iconografia della stazione nata a cavallo fra Ottocento e Novecento, ripropone varianti ricche di invenzioni linguistiche e di innovative soluzioni strutturali. Il tutto con la consapevolezza che è fondamentale un giusto equilibrio fra tecnica e linguaggio. L’evoluzione delle tecniche costruttive intesa come unico percorso non è in grado di assicurare un’architettura esente da quel narcisismo high-tech che in passato ha prodotto vere e proprie mostruosità tecnologiche, la cui rimozione è auspicata da più parti. Il programma di progetto prevede il recupero e la riorganizzazione di una vasta superficie intorno alla stazione ferroviaria. L’iniziativa dell’amministrazione delle ferrovie belghe offre l’occasione alla città di recuperare grandi aree da destinare a nuove funzioni per la collettività di Leuven, città fiamminga che conta circa 65.000 abitanti, cui si aggiungono 35.000 studenti, in massima parte pendolari. Una città, dunque, dove è costante la necessità di offrire ai cittadini spazi e adeguate infrastrutture. Il gruppo di progettazione coordinato da Philippe Samyn risulta vincitore di un concorso a inviti in cui sono selezionati sei progettisti, fra cui Santiago Calatrava e Richard Rogers. Raffinata nell’equilibrio compositivo, la proposta di Samyn si relaziona alla scala del contesto, una zona di elevata complessità come lo sono tutte quelle in cui grandi opere infrastrutturali creano forti cesure nel tessuto urbano. Una complessità il cui nodo fondamentale da risolvere è come organizzare due diverse identità urbane: la zona storica di Leuven e la periferia oltre il percorso ferroviario. Recuperando l’immaginario delle antiche stazioni dei primi del Novecento, con le loro strutture in ferro caratterizzate da grandi arcate, l’intervento ricorda l’essenzialità e la coerenza strutturale ottenuta dagli ingegneri del passato grazie alla perfetta conoscenza e al rigore nell’applicazione delle regole costruttive. Punto focale dell’intera composizione, la grande copertura, da realizzare attraverso una sequenza di arcate appoggiate l'una alle altre. La dimensione ragguardevole della copertura voltata diviene il rapporto di scala cui si misura l’intero complesso. Le due realtà urbane, composte dalla parte storica della città e dalla zona in divenire rappresentata dalla periferia, hanno nel ponte coperto pedonale un elemento di connessione caratterizzato da una leggerezza esemplare. Di grande raffinatezza appare anche il sistema strutturale generale attuato attraverso una serie di pilastri in acciaio che si dividono in puntoni obliqui, in grado di scaricare a terra il peso delle volte e contemporaneamente contrastare le spinte laterali. A rchitecture is a complex production system calling for a smoothly balanced combination of major capital, contracts with administration bodies, and the creative requirements of the architectural designer. Its multi-faceted cultural nature projects it into situations where quality is bound to be missing. So what can be done to prevent construction that has little or nothing to do with architecture and plenty in common with ad hoc building for its own sake? If ad hoc building were to be described as the mechanical reiteration of well-established construction schemes, then the project for the new Leuven Station is in a completely different category, since, while partly mirroring the iconography typical of railway stations built at the turn of the nineteenth-twentieth centuries, it features its own highly distinctive stylistic touches and innovative structural designs. All with a keen awareness of the need for just the right balance between technology and style. Developments in building methods are not enough on their own to produce works of architecture free from the kind of high-tech narcissism that resulted in some real technological monstrosities in the past, which many of us hope will soon be blotted off the landscape. The project brief referred to the redevelopment and reorganization of a huge area around the railway station. The Belgian Railway Board has given the city the chance to salvage large areas for fresh purposes to serve the people of Leuven, a Flemish city with a population of about 65 thousand, plus an additional 35 thousand students, mainly commuting. This makes it a city with a constant need to provide its local community with adequate space and infrastructure. The design team headed by Philippe Samyn won an invitational tender, whose six finalists included Santiago Calatrava and Richard Rogers. Samyn’s elegantly balanced design relates to the scale of its surroundings, a highly intricate area like all those where major infrastructures cause major rips in the urban fabric. The most tricky aspect of all this intricacy concerns the identity of two different urban areas: old Leuven city center and the suburbs over on the other side of the railway line. Drawing on the popular imagery surrounding the old early-20th century stations with their iron structures with wide arches, the design evokes the structural simplicity and coherence that engineers used in the past thanks to their meticulous knowledge and precision in applying construction rules. The roof, which is the focal point of the whole design, is planned to be constructed around a sequence of arches resting against each other. The sheer size of the vaulted roof sets the scale of the entire complex. The two parts of the cityscape, composed of the old city neighborhood and a developing suburban area, are connected by a covered footbridge designed with exemplary lightness. Refined elegance distinguishes also the overall structural engineering system based on a series of steel columns divided into oblique rafters capable of dispersing the weight of the vaults into the ground and, at the same time, contrasting lateral thrust. 79 Rendering degli interni con la struttura primaria di copertura sostenuta da 25 elementi tubolari formati ciascuno da quattro (parte centrale) o tre colonne inclinate (perimetro) che si incontrano a 7,13 m dal piano dei binari. 80 Rendering of the interiors showing the main roof structure supported by 25 tubular elements, each formed of four (central part) or three sloping columns (perimeter), that intersect at 7.13 m from track level. 81 Particolari della struttura secondaria, formata da travi d’acciaio paraboliche che incrociano trasversalmente gli archi primari. Details of the secondary structure formed of parabolic steel girders cutting across the main arches. 82 83 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES La scatola magica The Magic Box Modello e pianta del piano terra e sezione longitudinale. Model and plan of the ground floor and longitudinal section. Dresda, UFA Cinema Center Dresden, UFA Cinema Center Progetto di Coop Himmelb(l)au Project by Coop Himmelb(l)au L’ 84 Piante a quota +19,70 m e +5,80 m. Il complesso è formato da due corpi uniti: Cinema Block, una sala cinematografica di 2.500 posti e Crystal, uno spazio polivalente che funge sia da foyer sia da piazza pubblica. Levels +19.70 m and +5.80 m. The complex is formed of two combined units: Cinema Block, a 2,500-seat film theatre, and Crystal, a multi-purpose space acting as both a foyer and public plaza. UFA Cinema Center fa parte del concorso urbanistico Pragerstrasse Nord, una gara a partecipazione internazionale organizzata per rivalutare una zona settentrionale di Dresda destinata a essere trasformata in un centro pedonalizzato in grado di rinnovare una parte significativa della città. Quello che prima era un luogo senza particolare qualità, uno spazio destinato a una rapida perdita d’identità, sarà trasformato in percorso articolato in una sequenza di luoghi pubblici e privati, facilmente permeabili ai flussi pedonali. La tipologia della sala cinematografica, per la sua intrinseca vocazione orientata al visionario, è un tema congeniale a Coop Himmelb(l)au. Il gruppo austriaco (fondato a Vienna da Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky alla fine degli anni Sessanta) ha tra i suoi obiettivi programmatici la realizzazione di architetture di forte suggestione visiva attuata attraverso composizioni astratte, disequilibranti, opere che presuppongono una lettura non contemplativa ma partecipativa di un evento architettonico strutturato attraverso un montaggio conflittuale, instabile, consapevole delle contraddizioni e della complessità insita in ogni percorso progettuale, dunque una visione che rifiuta un’architettura ufficiale come fuga dalla realtà. Il decostruttivismo nasce, infatti, dall’istanza di ricondurre l’architettura verso territori legati alla realtà, verso una riflessione sulla condizione conflittuale della metropoli contemporanea. Composto da due corpi distinti ma comunicanti, l’UFA Center comprende il Cinema Block, una struttura che può accogliere circa duemilacinquecento spettatori, e il Crystal, uno spazio avvolto da un grande guscio traspa- rente che funge da foyer per la sala cinematografica ma anche da piazza pubblica offerta alla città. Per la sua particolare configurazione compositiva, la nuova struttura si pone nel tessuto cittadino come un segno di forte identità, una presenza iconica quale elemento catalizzatore per la messinscena di microeventi urbani. Articolato secondo una complessa geometria e nonostante offra ampie superfici vetrate, l’UFA Center a un primo sguardo pare opporsi a qualsiasi contaminazione umana. L’intricata trama spaziale potrebbe, infatti, essere interpretata come un’aggiornata versione del pozzo dei rasoi di medievale memoria. In realtà è una sorta di moderna caverna delle meraviglie, una Wunderkammer a scala urbana capace di risucchiare al suo interno un gran numero di divoratori d’immagini, ben felici di perdersi nel grande ventre della balena. Lo spettacolo inizia già a partire dalla complessa articolazione spaziale del foyer: percorsi in quota, scale sospese e vertiginose passerelle tracciano diagrammi saettanti simili a rasoiate impazzite. Schermi giganteschi proiettano all’esterno schegge di cinema lanciate in ogni direzione, creando a ciclo continuo flussi di immagini e suoni di una Metropolis riveduta e corretta grazie alle tecnologie digitali. Ormai lontani i tempi dei progetti destinati a rimanere architettura di carta per il loro linguaggio provocatorio, il gruppo Coop Himmelb(l)au pare definitivamente entrato nel circuito dell’architettura costruita grazie ad alcune realizzazioni sparse un po’ in tutto il mondo. La cultura di massa, per non morire, divora anche i frutti più indigesti dell’avanguardia. 85 T 86 Pagina a fianco, sezione trasversale e modello. Opposite page, cross section and model. he UFA Cinema Center was incorporated at the Pragerstrasse Nord town-planning competition, an international tender organized to redevelop a northern part of Dresden earmarked for conversion into a pedestrian center regenerating a major part of the city. What was previously a rather inauspicious place of no real substance, an area destined to rapidly lose its identity, will be transformed into a series of public and private zones easily accessible to pedestrian flows. The intrinsically visionary vocation of film theatre design is a favorite theme of Coop Himmelb(l)au. The Austrian team (set up in Vienna by Wolf D. Prix and Helmut Swiczinsky in the late-1960s) bases its artistry on the creation of visually striking pieces of architecture assembled out of destabilizing abstract compositions. Pieces of architecture whose perception calls for the creative collaboration of the observer, or in other words a subject willing to participate in an architectural event structured around a conflictual, unstable assemblage, aware of the contradictions and complexity inherent in all design. A vision rejecting official architecture as a flight from reality. In this respect, Deconstructivism derives from the need to bring architecture back into the realms of reality and to an analysis of the conflictual nature of the modern-day metropolis. Composed of two separate but interconnecting sections, the UFA Center includes the Cinema Block, a facility with room for audiences of about two thousand fivehundred, and the Crystal, a space enveloped by a large transparent shell acting as a foyer for the film theatre and also as a public square at the community’s disposal. The new facility’s peculiar design incorporates the building into the urban fabric as a striking landmark, an icon acting as a catalyst for the staging of urban microevents. Despite its intricate layout and large swathes of glass surfaces, at first sight the UFA Center appears to repel any sort of human contact. Indeed, its elaborate spatial pattern could even be interpreted as a modernday version of the Medieval well of razors. However, it is almost a modern cave of wonders, an urban-scale Wunderkammer capable of swallowing up a large number of image-devourers, happy to be lost in the huge whale’s belly. The show begins with the intricate spatial layout of the foyer: high-level pathways, suspended steps and headspinning walkways trace darting graphics that look like wild razor slashes. Huge screens project film clips on the external walls, creating an endless loop of sounds and images in a Metropolis that has been updated by digital technology. Gone are the days of projects destined to remain on the drawing board because of their provocative nature. The Coop Himmelb(l)au team seems finally to have joined mainstream architecture thanks to a number of constructions built in all parts of the world. Mass culture is ready to consume even the most indigestible fruits of the avant-garde in order to survive. 87 LUOGHI E NON-LUOGHI PLACES AND NON-PLACES Sulla collina cosmopolita On a Cosmopolitan Hill Lo stile Bauhaus a Tel Aviv The Bauhaus Style in Tel Aviv di Sergio I. Minerbi by Sergio I. Minerbi cia oggi il Municipio per la conservazione degli edifici più importanti. Secondo l’architetto Szmuk non si è fatto fino ad ora quasi nulla per documentare l’influenza del Bauhaus sugli edifici di Tel Aviv. C’erano tre architetti fra i quali Arieh Sharon, il quale era stato nel kibbutz Gan Shmuel e fu il principale progettatore delle case popolari per i lavoratori. Esse furono costruite secondo il concetto che con una quota mensile pari all’affitto, ognuno si sarebbe comprato un appartamento. Sharon era stato discepolo di Meyer e fu lui a portare la denominazione del Bauhaus che, secondo Szmuk, non è uno stile poiché definendolo così gli si dà una dimensione visuale statica. Molti dei duecento architetti di Tel Aviv avevano studiato in Belgio, a Bruxelles e a Gent, mentre gli architetti di Gerusalemme provenivano in gran parte dalla Germania. Questi professionisti erano arrivati in maggioranza negli anni Trenta e alcuni, in seguito alla crisi economica, se ne andarono nel 1937 in America o tornarono in Europa. Fino al 1937 furono costruiti 3.000 edifici con l’impronta del Bauhaus e altri 1.000 fino al 1948. L’architetto Szmuk è pieno di lodi per il piano regolatore progettato dall’urbanista scozzese Sir Patrick Geddes. Questi era stato invitato dal Sindaco Meir Dizengoff ed era urbanista e biologo e produsse un rapporto affascinante negli anni 1925-1927. Nel 1927 il suo piano regolatore fu approvato dal Municipio di Tel Aviv ed erano previsti 60 giardini pubblici dei quali ne furono realizzati solo la metà, ma si può affermare che i principi stabiliti da Geddes sono applicati fino a oggi. Durante l’epoca mandatoria (1922-1948) il Municipio non permise di deturpare il Centro Storico. Oggi alcune strade sono trascurate e sporche anche perché con solamente 60 giorni di pioggia l’anno, l’acqua piovana non riesce a ripulire le facciate delle case. L’Unesco fu impressionato dalla grande quantità degli edifici presenti, dalla loro centralità e dalla sintesi di tutte le correnti moderne europee arrivate all’allora Palestina in seguito all’immigrazione ebraica. Ogni corrente architettonica diede il suo contributo e alle volte cercò un adattamento alla cultura islamica locale. Quindi piuttosto che un modello Bauhaus rigido, minimalista e alla fine noioso, si ha a Tel Aviv una situazione nella quale nessun edificio si ripete. Una delle caratteristiche è la linea dolce, la curva sinuosa orizzontale, i giochi di volumi. Secondo le norme di “Ahuzat Bayit”, il primo quartiere costruito accanto a Giaffa, le prime 66 case dovevano avere una superficie di almeno 300 mq ognuna con attorno ancora 260 mq. L’altezza era limitata a 2-3 piani. Il Municipio sta attuando un piano di conservazione che include 1.650 edifici, dei quali circa mille in Stile Internazionale. Fin dagli anni Novanta ne è stata proibita la demolizione e non si ripeterà quindi lo scempio della demolizione del ginnasio di Herzlya, il primo grande edificio pubbli- co della città. Non esiste purtroppo ancora una politica nazionale di conservazione poiché Israele non ha ancora cristallizzato una cultura propria. Viviamo in un periodo di transizione, ci sono ancora molte questioni sociali ed economiche da risolvere e l’estetica non è mai stato un valore molto apprezzato. Tel Aviv era una città esteticamente valida soprattutto nel periodo del mandato britannico. Oggi la conservazione è affidata a un consiglio formato però da non professionisti, e una proposta di legge affida la responsabilità all’ente locale. Quindi ogni ente locale dovrebbe fare delle liste e per legge includerle nel piano regolatore. A Tel Aviv la legge impone al Municipio delle misure draconiane che sono state applicate. D’altronde senza un piano di conservazione serio, l’Unesco non avrebbe mai dato il suo riconoscimento. Da quando abbiamo iniziato l’opera di conservazione negli anni Sessanta, dice Szmuk, abbiamo capito che dovremo riaprire i balconi che sono stati chiusi dagli inquilini per ricavarne un vano supplementare. In ognuno degli edifici destinati alla conservazione, si debbono quindi riaprire i suoi balconi. Questa non è una cosa facile, poiché in alcuni casi il proprietario vuole utilizzare i suoi diritti di costruzione. Per 120 edifici non abbiamo concesso nessuna modifica, ma per tutti gli altri dobbiamo approvare l’aggiunta di diritti di costruzione supplementari per evitare richieste di indennizzi che il municipio non può finanziare. È stata fatta una selezione severa degli edifici più importanti per i quali le proporzioni sono definitivamente chiuse in modo ermetico e qualsiasi aggiunta di piani superiori cambierebbe sostanzialmente il progetto architettonico. Se verranno costruite torri o grattacieli nei paraggi, il proprietario di un edificio conservato può vendere ai loro proprietari, i suoi diritti di costruzione. Quando il proprietario di una torre vuole aumentare i vani da affittare al di là del 70% egli può acquistare dei diritti di costruzione dal vicino, che così si astiene dall’apportare modifiche al suo edificio. In questo modo abbiamo salvato almeno 60 edifici storici che sono rimasti intatti. Rivisitando Tel Aviv secondo le indicazioni ricevute dall’architetto Nitza Szmuk, siamo rimasti impressionati da quelle linee orizzontali tagliate talvolta a 90 gradi da rampe di scale o addolcite da una serie di balconi a semicerchio che erano quanto di più moderno si potesse immaginare nell’architettura di allora. Costruire in quel modo pur essendo così lontani dalla civiltà, significava essere “in”, sulla cresta dell’onda del XX secolo, essere insomma in comunione spirituale con l’Europa da dove provenivano molti giovani immigranti ebrei venuti sotto la spinta del nascente ideale sionista. Tel Aviv era allora una città di giovani idealisti, gente che lavorava sodo, non aveva tempo né soldi per i fronzoli e che spesso per vivere lavorava nella costruzione di quegli stessi edifici. Oggi Tel Aviv è il centro pulsante della gioventù laica, il cuore dell’economia, la culla dell’High-Tech ormai trasferitosi nei sobborghi, la sede delle banche e dei quotidiani. È un po’ la Milano di Israele, mentre Gerusalemme, spesso paragonata a Roma, rimane una città piena di spiritualità religiosa e di brucianti problemi politici. Breve Bibliografia Nitza Metzger Szmuk, Case dalla sabbia, Architettura in stile internazionale a Tel Aviv, 1931-1940, (in ebraico), Misrad Habitahon, Tel Aviv, 1994. Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London, Batsford, 2003. Michael Lewin, La Città Bianca. Architettura in stile internazionale in Israele. Ritratto di un’epoca, (in ebraico), Sabinsky, 1984. Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New Land, Stuttgart and Tel Aviv, 1976. Nourit Melcer Padon C ome il borghese di Molière che non sapeva di parlare in prosa, così molti abitanti di Tel Aviv ignorano di risiedere in un museo vivente dello stile Bauhaus. Quattromila sono gli edifici di Tel Aviv costruiti sulla scia di questo stile ma solo recentemente il Municipio si sta occupando seriamente della loro conservazione e miglioria. Questa ricchezza unica al mondo ha convinto l’Unesco a dichiarare Tel Aviv come facente parte della “World Heritage List of Monuments”. Il fenomeno si spiega con la storia di Tel Aviv. In riva al mare c’è l’antichissima città di Giaffa, che risale all’era neolitica. Secondo la tradizione Andromeda, legata a uno scoglio di Giaffa ed esposta a un mostro marino per placarlo, venne salvata da Perseo che la sposò. Alla fine del XIX secolo cominciarono ad arrivare gli immigranti ebrei che sbarcavano nel porto di Giaffa e si disperdevano nell’allora Palestina posta sotto il regime Ottomano. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel 1909, gli ebrei cominciarono a costruire Tel Aviv, la collina della primavera, sulle dune di sabbia deserte al limite settentrionale di Giaffa. Quella sabbia vale oggi milioni di dollari. L’acquisto di quelle dune ha fatto la fortuna immobiliare di alcune famiglie come gli Chelouche, di origine marocchina. Nel 1914 il nuovo quartiere aveva già una popolazione di 2.000 abitanti per raggiungere i 34.000 nel 1925. Il costante aumento della popolazione portò gli abitanti a 120.000 nel 1931, e ci fu poi un notevole incremento dovuto all’arrivo degli ebrei dalla Germania in seguito all’avvento al potere di Hitler nel 1933, raggiungendo i 160.000 abitanti nel 1939. Fu questo periodo dal 1931 al 1939 il più fertile per lo stile Bauhaus. La possibilità di costruire una città ex-novo senza le limitazioni di edifici precedenti, diede un grande slancio ad architetti e costruttori. Ci vollero alcuni decenni per far capire al Municipio di Tel Aviv di avere in mano la gallina dalle uova d’oro senza che nessuno se ne fosse accorto. L’artista israeliano di fama internazionale Dani Karavan convinse alla fine degli anni Settanta Shlomo Lahat, allora Sindaco di Tel Aviv, dell’importanza internazionale degli edifici di stile Bauhaus. Fu così iniziato l’inventario di questi edifici e si cominciarono a raccogliere fondi per la loro conservazione e miglioria. All’inizio degli anni Novanta fu creato presso il Municipio un gruppo di conservazione diretto dall’architetto Nitza Szmuk, che ha studiato in Italia, dove ha trascorso molti anni. Nel 1994 una conferenza internazionale ebbe luogo a Tel Aviv in cooperazione con l’Unesco, e fu dedicata al Movimento Moderno in generale chiamato in Israele lo Stile Internazionale. Questa è una definizione esatta, che però non ha avuto successo. Abbiamo chiesto alla sig.ra Nitza Szmuk Metzger, Sovrintendente alla Conservazione del Municipio di Tel Aviv, come si sia arrivati al riconoscimento dell’Unesco e cosa fac- Nourit Melcer Padon 88 89 Sotto a sinistra, l’edificio progettato nel 1931 dall’architetto Richard Kaufman. Questo edificio è stato progettato come espressione di modernità con una sottile vena medio-orientale. Sotto, l’edificio progettato nel 1936 dall’architetto Dov Carmi. Le lunghe e profonde finestre sono una versione locale di quelle orizzontali di Le Corbusier. Below left, the building designed in 1931 by architect Richard Kaufman. This building was designed as a statement of modernity with subtle MiddleEastern overtones. Below, the building designed in 1936 by architect Dov Carmi. The long, sunken windows are the local version of the long, horizontal windows of Le Corbusier. identifying those whose proportions could not in any way be altered (through the addition of extra stories) without interfering with their architectural design. Owners of conserved buildings can sell their construction rights if towers or high-rise buildings are constructed in the neighborhood. When the owner of a tower wants to increase the premises for rent by over 70%, he can buy construction rights from his neighbor, who thereby pledges to not alter his own building. In this way at least 60 historical buildings have been saved and kept intact. Revisiting Tel Aviv along the guidelines provided by the architect Nitza Szmuk, we were astounded by the horizontal lines sometimes cut through at 90 degrees by flights of steps or toned down by semi-circular balconies, which were the height of modernity in architecture back then. Building in this way, despite being so cut off from civilization, meant being “in” on the crest of the wave of the 20th century. In other words, it meant being in spiritual harmony with Europe, where plenty of young Jews Nourit Melcer Padon were coming in the wake of a newly emerging Zionist ideal. Tel Aviv was then a city of young idealists. People who worked hard, had neither the time nor the money to waste and often worked on the construction of these very buildings to make a living. Nowadays Tel Aviv is the hub of secular youth, the heart of the economy, a cradle of high technology that has now been transferred to the suburbs, and the headquarters of banks and newspapers. It is rather like the Milan of Israel, whereas Jerusalem, often compared to Rome, is likewise a highly religious city with a host of political problems. Short list of bibliographical references Nitza Metzger Szmuk, Dwelling on the dunes, International-style Architecture in Tel Aviv, 1931-1940, (in Hebrew), Misrad Habitahon, Tel Aviv, 1994. Nahoum Cohen, Bauhaus Tel Aviv: An Architectural Guide, London, Batsford, 2003. Michael Lewin, The White Town, International-style Architecture in Israel. A Portrait of an Age, (in Hebrew), Sabinsky, 1984. Arieh Sharon, Kibbutz and Bauhaus: An Architect’s Way in a New Land, Stuttgart and Tel Aviv, 1976. 91 A sinistra e in basso a sinistra, l’Hotel Cinema progettato nel 1939 dagli architetti Yehuda e Rafael Megidovitz. Sorto come cinema per mille persone, è stato poi trasformato in un albergo. Sotto, l’edificio progettato nel 1934 dagli architetti Joseph e Zeev Berlin. L’ampio e libero impiego di vetrate con infissi di acciaio è controbilanciato da forti forme quadrate di stucco. Left and below left, the Hotel Cinema designed in 1939 by architects Yehuda and Rafael Megidovitz. It was bult as a cinema for 1,000 people and then transformed into a hotel. Below, the building designed in 1934 by architects Joseph and Zeev Berlin. The free and lavish use of steel-framed glass is offset by strong, square stuccoed shapes. Nourit Melcer Padon 90 wake of the economic crisis, left for America in 1937 or returned to Europe. 3,000 buildings were built in the Bauhaus style up to 1937 and another 1,000 from then till 1948. The architect Szmuk is full of praise for the master plan drawn up by the Scottish town-planner Sir Patrick Geddes. Geddes had been invited by the Mayor, Meir Dizengoff, and was actually a town-planner and biologist, who compiled a fascinating report in 1925-1927. His master plan was approved by the Tel Aviv City Council in 1927 and encompassed 60 public gardens, only half of which were actually constructed, but it would be fair to say that the guidelines set down by Geddes are still employed today. During the 1922-1948 period, the City Council refused to let the old city center be disfigured. Nowadays some of the roads are dirty and neglected, partly because only 60 days of rain a year does not provide enough water to clean the facades of the houses. UNESCO was impressed by the striking number of existing buildings, their central location and the synthesis of all modern European currents that were imported to what was then Palestine in the wake of Jewish immigration. Each architectural school made its own contribution and sometimes attempted to adapt to local Islamic culture. This meant that instead of having a rigid, minimalist and, in the end, rather boring rendition of the Bauhaus style, no two buildings in Tel Aviv are alike. One of the features is the soft lines, sinuous horizontal curves and structural interplay. According to the guidelines for “Ahuzat Bayit”, the first neighborhood to be built alongside Jaffa, the first 66 houses were to cover surface areas of at least 300 square meters with a further 260 square meters around them. Buildings were confined to a height of 2-3 stories. The City Council is implementing a conservation program encompassing 1,650 buildings, about one thousand of which are in the International Style. Ever since the 1990s there has been a ban on demolition work, so that the disastrous destruction of the Herzlya Gymnasium (the city’s first major public building) will not be repeated. Unfortunately, there is still no national conservation program, because Israel has not yet developed its own cultural heritage. We are living in a transitional period, which means plenty of socio-economic issues still need solving and, after all, aesthetics have never really received the attention they deserve. Tel Aviv was once an aesthetically notable city, particularly during the period of British rule. Nowadays conservation work is in the hands of a council composed of non-architects, and there is a bill to make it the responsibility of a local body. This means all local associations must draw up lists and, by law, incorporate them in the master plan. In Tel Aviv the law forces the City Council to take draconian measures which have duly been enforced. After all, without a proper conservation program, UNESCO would never have made its proclamation. Szmuk claims that since the conservation work began in the 1960s, people have realized that the balconies enclosed by tenants must be re-opened to create extra premises. This means the balconies must be opened up in all the buildings involved in the conservation program. This is no easy matter, because some owners are keen to impose their construction rights. Authorization for alterations has not been given for 120 of the buildings, but for all the others extra construction rights must be authorized so that the local authorities do not have to award compensation that they cannot afford. A careful inventory of all the most important buildings was drawn up, Nourit Melcer Padon J ust like Molière’s bourgeois gentleman, who was not aware he talked in prose, many inhabitants of Tel Aviv do not know their city is a living museum of the Bauhaus style. There are four thousand buildings in Tel Aviv built along these stylistic lines, but the City Council has only recently seriously started conserving and improving them. This heritage, unique of its kind, has resulted in UNESCO proclaiming Tel Aviv to be part of the “World Heritage List of Monuments.” All this can be traced back to Tel Aviv’s historical background. The ancient city of Jaffa, dating back to the Neolithic period, is built by the seaside. According to legend, Andromeda was tied to a cliff at Jaffa and attacked by a sea monster, but she was saved by Perseus who then married her. Jewish immigrants started landing in the port of Jaffa in the late-19th century, eventually dispersing into what was then Palestine under Ottoman rule. On the eve of the First World War in 1909, the Jews started to build the city of Tel Aviv, which actually means the spring hill, on desert dunes at the northernmost edge of Jaffa. That sand is now worth millions of dollars. Buying those dunes made the real-estate fortune of families like the Chelouches originally from Morocco. In 1914, the new neighborhood already had a population of 2,000, eventually rising to 34,000 in 1925. The constant increase in population reached a total of 120,000 in 1931. There was then a notable boom due to the arrival of Jews fleeing Germany when Hitler came to power in 1933, reaching a peak of 160,000 in 1939. The period of 1931-39 was the most fertile for the Bauhaus style. The possibility of building a city from scratch without the constraints of old buildings was a real stimulus for architects and builders. It took a few decades to convince the Tel Aviv City Council that, although nobody had realized it yet, they had a goose that lays golden eggs in their hands. In the late1970s the internationally famous Israeli artist, Dani Karavan, persuaded Shlomo Lahat, who was then the Mayor of Tel Aviv, that Bauhaus-style buildings were of the greatest international importance. This resulted in a list of these buildings being drawn up and funds collected to conserve and improve them. A conservation team headed by the architect Nitza Szmuk, who had lived and studied in Italy for many years, was created in the early 1990s. An international conference was then held in Tel Aviv in 1994, organized in conjunction with UNESCO, that was devoted to the Modern Movement in general, called the International Style in Israel. This is a precise definition which never really caught on. We asked Mrs. Nitza Szmuk Metzger, Superintendent for Conservation on the Tel Aviv City Council, how UNESCO came to its decision and what the City Council is now doing to conserve the most important buildings. According to the architect Szmuk, until now almost nothing has been done to examine the influence of the Bauhaus Movement on buildings in Tel Aviv. There were originally three main architects, including Arieh Sharon, who had lived in the Gan Shmuel kibbutz and was in charge of designing workers’ council houses. They were built according to the idea that everybody could buy their own flat paying the same monthly rent. Sharon, who had studied under Meyer, came up with the name Bauhaus, which, according to Szmuk, is not a style since this would inevitably load it with static-visual connotations. Many of the two-hundred architects in Tel Aviv had studied in Brussels and Gent, Belgium, while the architects in Jerusalem mainly came from Germany. Most of these professionals arrived in the 1930s and some, in