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la diagnosi dei disturbi di personalità nel dsm-5

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la diagnosi dei disturbi di personalità nel dsm-5
temi di politica professionale
ALCUNE RIFLESSIONI
SULLA PRIMA PROPOSTA DELL’APA
POI MODIFICATA A GIUGNO
LE OSSERVAZIONI DELL’ORDINE
ALL’AMERICAN PSYCHIATRIC
ASSOCIATION
LA DIAGNOSI DEI DISTURBI
DI PERSONALITÀ NEL DSM-5
di Vittorio Lingiardi e Francesco Gazzillo, Dipartimento
di Psicologia Dinamica e Clinica, Facoltà di Medicina
e Psicologia, Sapienza, Università di Roma
H
a suscitato scalpore nella comunità scientifica internazionale il fatto che la prima proposta del DSM5 dell’American Psychiatric Association (APA) prevedesse l’esclusione dal manuale di alcuni importanti disturbi di personalità, quali quello narcisistico, paranoide, istrionico, schizoide e dipendente.
Sulla questione, allo scopo di promuovere un dibattito all’interno della comunità professionale,il nostro
Ordine ha organizzato, nel mese di febbraio scorso,
presso la Biblioteca Nazionale di Roma, una giornata
di studio dal titolo “I disturbi di personalità dal DSMIV al DSM-5: che cosa succederà ai pazienti narcisistici?” con la partecipazione del prof. Jonathan Shedler
e del prof. Vittorio Lingiardi.
Successivamente, l’Ordine ha ritenuto opportuno inviare all’APA le proprie osservazioni in merito alla pro-
a nuova proposta di revisione della valutazione dei disturbi di personalità in vista del DSM-5, pubblicata sul sito www.dsm5.org lo scorso giugno (vedi anche Skodol, 2011), presenta novità sostanziali rispetto al for-
L
posta del DSM-5 che potrete leggere di seguito.
Nel mese di giugno 2011, l’APA ha proposto una nuova versione delle diagnosi di personalità, che prevede
il re-inserimento, nel Manuale diagnostico, del disturbo narcisistico di personalità, in tal modo accogliendo,
anche se parzialmente, le osservazioni dei numerosi
clinici, ricercatori e psicoterapeuti che vedevano nell’eliminazione di tale disturbo l’affacciarsi di un pericoloso contrasto tra la realtà clinica e le categorie diagnostiche previste dal DSM-5.
Abbiamo chiesto al Professor Vittorio Lingiardi e al
dott. Francesco Gazzillo, della Facoltà di Medicina e
Psicologia della Sapienza, un contributo scientifico sull’argomento che troverete pubblicato nelle prossime pagine.
mat dell’Asse II del DSM-IV-TR (APA,
2000) e differisce in parte anche dalla prima proposta di revisione, pubblicata nel febbraio 2011 e già commentata sulle pagine del sito dell’Ordine.
Per porre diagnosi di personalità seguendo le nuove indicazioni dell’American Psychiatric Association, il clinico dovrebbe seguire una sorta di percorso guidato, che riportiamo nel box
qui di seguito:
UN APPROCCIO STANDARD ALLA VALUTAZIONE DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ CON IL DSM-5 POTREBBE ESSERE IL SEGUENTE:
1. È presente una compromissione del funzionamento (nell’ambito del sé e in quello interpersonale) della personalità?
2. Se è presente, valutare il livello di compromissione del soggetto nell’ambito del sé e in quello interpersonale sulla Scala dei
Livelli del Funzionamento di Personalità.
3. È presente uno dei sei tipi di disturbi di personalità (PD) contemplati dal DSM-5?
4. Se è presente, valutare il tipo e la gravità di compromissione e disturbo.
5. In caso contrario, è presente un PD-Trait Specified (PDTS)?
6. Se è presente un PDTS, identificare e elencare i tratti/domini che caratterizzano il soggetto e valutare la gravità della compromissione.
7. Se, in presenza di un PDTS, si desidera stilare un profilo di personalità dettagliato e utile per la formulazione del caso clinico
si proceda con la valutazione dei sottodomini.
8. In assenza sia di un tipo specifico di PD sia di un PDTS, valutare la presenza dei tratti/domini specifici e dei relativi sottodomini qualora fossero utili nella formulazione del caso clinico.
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temi di politica professionale
i disturbi della personalità nel dsm 5
In primo luogo, si tratterebbe dunque
di valutare la gravità dei disturbi del Sé
e del funzionamento interpersonale presentati dal paziente su una Scala dei
Livelli di Funzionamento della Personalità. Ma come avviene la valutazione della gravità dei disturbi del Sé?
Viene raccomandato di tener conto di
due dimensioni:
(1) l’identità, intesa come l’esperienza di se stessi come soggetti unici e dotati di confini definiti, la stabilità della propria autostima, l’accuratezza della propria auto-valutazione e la capacità di regolare
una vasta gamma di emozioni;
(2) l’autodirezionalità, intesa come
capacità di perseguire obiettivi a
breve termine e scopi di vita coerenti e significativi, l’utilizzo di
standard di comportamento interni costruttivi e prosociali e la capacità di riflette in modo produttivo su di sé.
Anche la gravità dei disturbi del funzionamento interpersonale, che confluisce nella già citata Scala dei Livelli di Funzionamento della Personalità deve essere valutata tenendo conto di due dimensioni:
(1) l’empatia, intesa come comprensione delle esperienze e motivazioni altrui, tolleranza di prospettive diverse e comprensione degli
effetti del proprio comportamento sugli altri;
(2) l’intimità, intesa come profondità
e durata delle relazioni positive
con gli altri, desiderio e capacità
di intimità e rispetto reciproco.
Questo primo step della valutazione
sembra tener conto, pur con qualche
macchinosità e senza un razionale teorico ben definito, dell’importanza attribuita in ambito diagnostico al concetto
di livello di organizzazione della per16
sonalità (come, per esempio, ampiamente indicato dal PDM, 2006) (vedi anche Bender et al., 2011; Morey et al.,
2011).
Successivamente il clinico dovrebbe
valutare la possibilità di attribuire al proprio paziente uno dei 6 disturbi della
personalità previsti dal manuale: schizotipico, antisociale, borderline, narcisistico, evitante e ossessivo compulsivo. Ognuno di questi disturbi viene descritto da un set di cinque criteri (in verità più articolati di quelli del DSM-IV)
che indicano la presenza di compromissioni significative nel funzionamento (Sé
e relazioni interpersonali) e di specifici
tratti patologici di personalità relativamente stabili, che non sono riconducibili alla fase evolutiva e alle condizioni
socio-culturali dell’individuo, né a una
condizione medica generale o all’uso di
sostanze.
A differenza del precedente draft, questa revisione “riabilita” il disturbo di personalità narcisistico (la cui eliminazione aveva effettivamente suscitato illustri proteste, vedi Shedler et al., 2010)
e abbandona l’idea di descrivere i disturbi per mezzo di un approccio prototipico. Al centro dei criteri dei disturbi di questa nuova revisione del DSM-5
vi è infatti una descrizione della personalità articolata secondo 5 grandi tratti/domini: Affettività Negativa (AN), Distacco (D), Antagonismo (A), Disinibizione vs Compulsività (DS vs C) e Psicoticismo (P). Questi 5 domini, che possono essere valutati anche su una scala
dimensionale (0-4) di descrittività sono
ulteriormente articolabili in un totale di
28 sottodomini o “trait-facets”. E siamo
così arrivati ai punti 3 e 4 del “percorso
guidato”.
Laddove un paziente presenti un livello di funzionamento della personalità
patologico, ma non soddisfi i criteri per
uno dei 6 disturbi di personalità, il clinico viene invitato a procedere alla valutazione secondo i 5 grandi domini appena elencati, per mezzo dei quali vengono descritti una serie di Personality
Disorders Trait Specified (PDTs) che
prendono il posto dei famosi disturbi di
personalità Non Altrimenti Specificati
del DSM-IV-TR. Un clinico particolarmente amante dei dettagli può elaborare una formulazione del caso ancora più
articolata e valutare (quindi anche senza aver formulato una diagnosi di Disturbo della personalità) anche i 28 sottodomini elencati nel manuale. E così si
completa il “percorso” diagnostico (punti 5-8).
In sintesi, per quanto riguarda la valutazione della personalità e dei suoi disturbi, il DSM-5 prevede in primo luogo
una valutazione dimensionale del livello di compromissione del Sé e delle relazioni interpersonali lungo un continuum a 5 livelli (Self and Interpersonal Functioning Continuum). Ogni livello fornisce una descrizione del funzionamento del Sé (identità e autodirezionalità) e delle capacità interpersonali (empatia e intimità). Successivamente, il clinico deve vedere se la presentazione del paziente corrisponde a uno dei
6 disturbi presi in considerazione dal manuale (schizotipico, antisociale, borderline, narcisistico, evitante e ossessivocompulsivo); qualora le condizioni di
personalità del paziente non siano riconducibili ad alcuno di questi disturbi
di personalità, ma comunque mettano
in evidenza una compromissione del Sé
e delle relazioni interpersonali, il clinico può utilizzare i grandi tratti/domini
di personalità (Affettività Negativa, Distacco, Antagonismo, Disinibizione vs
Compulsività e Psicoticismo). La descrittività di ogni trait-domain può essere ulteriormente valutata in modo dimensionale per mezzo di una scala a 4
temi di politica professionale
i disturbi della personalità nel dsm 5
punti (da 0 a 3). Questa descrizione può
essere approfondita prendendo in considerazione le 28 trait-facets associate
ai vari domini. Le informazioni derivate
da domini e sottodomini possono essere quindi utilizzate per la formulazione
del caso anche se nessuno dei criteri dei
disturbi della personalità è soddisfatto.
La complessità e la scarsa maneggevolezza di questo sistema di valutazione
sono evidenti. Esso chiede al clinico di
prendere in considerazione un numero
assai elevato di dimensioni (circa un cinquantina). Considerando che si tratta di
un manuale diagnostico e non di uno
strumento di assessment della personalità, è facile immaginare che pochi clinici, soprattutto se impegnati nei servizi
pubblici, avranno la pazienza, la perseveranza e soprattutto il tempo necessari a elaborare una valutazione completa.
Il tentativo di coniugare una diagnostica categoriale con un sistema di valutazione dimensionale che funga anche
da guida per la formulazione del caso
(per valutare una certa “novità” dell’approccio descrittivo al paziente si vedano per esempio gli “esempi clinici” proposti) è sicuramente un contributo interessante da parte della psichiatria americana. Può essere tuttavia ragionevolmente sollevata l’obiezione per cui un
sistema nosografico dovrebbe favorire
diagnosi relativamente semplici e comprensive. Inoltre, come notano giustamente Shedler et al. (2010), l’attenzione di un buon sistema diagnostico non
dovrebbe concentrarsi sulle scale Likert
che concorrono al labelling, quanto sul
contenuto descrittivo degli item selezionati per descrivere il paziente e delle etichette diagnostiche riassuntive. Nonostante le modifiche rispetto alla precedente proposta, la domanda che ci si pone è sempre la stessa: perché non adot-
tare un sistema prototipico, come sono
per esempio la SWAP-200 (Westen, Shedler, 1999a, 1999b; Westen, Shedler, Lingiardi, 2003) e il PDM (PDM Task Force, 2006)?
I modelli di valutazione dei tratti che
sono alla base del DSM-5 – in primo luogo i Big Five – non sono nati per la valutazione della patologia di personalità,
bensì per descrivere il carattere di popolazioni non cliniche servendosi di aggettivi del linguaggio quotidiano, non
specialistico. Ciò implica la difficoltà a
cogliere dimensioni del funzionamento
della personalità che sono invece centrali per la descrizione e la comprensione
dei disturbi (basti pensare ai meccanismi di difesa, le motivazioni implicite, le
rappresentazioni consce e inconsce di
sé e degli altri, le credenze patogene, i
conflitti principali, ecc). Inoltre, le prove empiriche a favore dell’applicazione
di questi modelli a popolazioni cliniche
sono finora poche e contraddittorie.
Infine, escludere da una nomenclatura internazionale disturbi come lo schizoide, il paranoide, l’istrionico, il dipendente (trascurando anche i disturbi storicamente proposti “per ulteriori approfondimenti”, molto diffusi nella pratica reale, come il depressivo o l’autofrustrante/masochistico), significa non
tenere conto delle esigenze dei clinici e
delle informazioni accumulate in più di
un secolo di ricerche sulla personalità e
i suoi disturbi. Allo stesso tempo, ci sembra che un sistema diagnostico che non
tenga conto delle risorse dei pazienti e
delle loro capacità di buon funzionamento (il riferimento alla dimensione
“high-functioning” della SWAP è d’obbligo) significa privare i clinici di informazioni essenziali per la pianificazione
degli interventi, che poi dovrebbe costituire il passo, necessario e obbligato,
successivo alla diagnosi.J
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