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I maiali di re Carnevale. Una mnemotecnica
I maiali di re Carnevale. Una mnemotecnica Particolare rilievo, per l’antropologia culturale e sociale, possiede, com’è noto, l’aspetto simbolico del cibo. Ma, cosa cui si è dedicata in antropologia minor attenzione, il cibo è anche, all’interno della dimensione simbolica, strumento non secondario di costruzione della memoria. Sull’intricato legame che unisce la produzione e il consumo di alimenti, una festa (quella di cui qui ci occupiamo) e la memoria sociale mi soffermerò, dunque, oggi, con l’intento più generale di porre in evidenza alcuni dei percorsi attraverso cui le società ricordano. Cibo e memoria, innanzitutto. Sino a un passato recente i cibi erano legati al calendario e lo presentificavano. Su base stagionale (in un’alimentazione legata ancora ai prodotti freschi e, dunque, assai dipendente dall’andamento climatico), ma anche sulla base di durate cicliche più brevi, della settimana o del mese. A Roma, a esempio, la consuetudine popolare imponeva, e ancor oggi in molti rioni impone, di mangiar pesce il martedì, gnocchi il giovedì, baccalà e ceci il venerdì, trippa il sabato, brodo e carne la domenica; non occorre rimarcare la netta scansione temporale che questo avvicendamento creava e segnava. Tutte le feste, poi, in ogni parte d’Italia, erano caratterizzate da alimenti tipici e la loro comparsa (la loro vista e il loro odore), nelle botteghe, sulle bancarelle e sulle tavole, ricordava la ricorrenza e il suo clima. La festa della memoria per eccellenza, quella dei morti, era caratterizzata, da cibi peculiari e da una peculiare distribuzione del cibo, in memoria, appunto, dei defunti. In molti paesi, della Calabria a esempio, il convito dei morti prevedeva la distribuzione rituale del cibo a coloro che avevano avuto un lutto nell’anno, ai poveri, agli ammalati, ai bambini, ai viandanti. La donazione del cibo in ricordo dei defunti aveva, insomma, anche il compito di rammentare i deboli, gli infermi, i sofferenti, coloro che avevano subito una perdita o un danno, ergendo la memoria a garanzia della solidarietà sociale del gruppo. I cibi dei morti, i cibi ai morti (disposti sulle loro tombe nei giorni canonici della commemorazione), i cibi in suffragio, quelli donati ai superstiti durante il periodo del lutto, in cui non si poteva accendere fuoco nella dimora, avevano, tra le altre funzioni cui già ho fatto cenno, quella di richiamare alla mente la rinascita, la sua possibilità, il suo auspicio, attraverso una complessa simbologia allusiva1. Anche le modalità di confezione di tali cibi, in numerosi contesti etnografici dell’Europa meridionale e orientale, mettevano in evidenza una grammatica e sintassi del ricordo: la confezione poteva rammentare caratteri specifici del defunto, una sua predilezione, un dovere o un impegno dei sopravvissuti, un voto, un lascito culturale, un evento, una relazione, un conflitto. Ho sin qui adoperato il tempo imperfetto, perché le consuetudini alimentari che ho addotto a esempio, appaiono recessive. Ma ciò non vuol dire che il nesso esistente tra cibo e memoria non sia oggi ancora apprezzabile, come un caso etnografico, legato al periodo di Carnevale, può testimoniare. 1 Si veda, per il Mezzogiorno d’Italia, L. M. Lombardi Satriani, M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Milano, Rizzoli, 1982 1 Siamo a Nocera Terinese, paese di circa 5000 abitanti posto in provincia di Catanzaro. I dati etnografici che riferisco, da me raccolti sul terreno, risalgono all’ultimo decennio del secolo scorso, ma nulla ci autorizza a pensare che oggi le cose stiano in modo sostanzialmente diverso. A Nocera, dunque, flagellanti di Quaresima, attraverso una mirata offerta del loro sangue ritualmente versato, costruiscono reti sociali che assolvono a un’importante funzione politica all’interno del contesto comunitario e che contribuiscono all’edificazione del processo identitario locale nei confronti dell’esterno, sia esso rappresentato dalle realtà regionale e nazionale, sia dalla più vasta e indifferenziata arena globale. Il sangue versato durante il rito del sabato santo, distingue le reti, le ripercorre, le presentifica alla memoria locale, attraverso una ferrea logica di reciprocità: il flagellante dona il suo sangue a coloro che intende ricordare, costoro ricordano il flagellante quando ha un bisogno, una necessità, un desiderio; quando mette in cantiere un progetto di affermazione sulla scena politica locale. Anche il resto delle immagini legate al sangue e alla sua effusione, d’altro canto, si erge a garanzia della memoria e della sua efficacia sociale. Vi è, tuttavia, un’ulteriore occasione, legata al periodo precedente quello quaresimale, il periodo di Carnevale, che comporta, a Nocera un’altrettanto complessa interpretazione ed esecuzione della partitura mnestica. Appare lecito affermare che Carnevale e Quaresima, come anche le altre due occasioni rituali importanti (quella legata alla celebrazione dei defunti, il due novembre, e quella della festa equinoziale di San Giovanni Battista, il 24 giugno), contribuiscono a costruire, con diversa intensità, la memoria sociale locale e offrono occasione per una meticolosa verifica della sua permanenza e della sua utilità. Sino a un passato non remoto, il Carnevale era celebrato con modalità non dissimili da quelle di altri paesi calabresi (ed europei): farse, composte in genere da maestri, appartenenti al ceto degli artigiani o della piccola borghesia colta, che stigmatizzavano fatti riprovevoli accaduti durante lʹanno, irridevano i loro protagonisti, mettevano in berlina i ricchi e i potenti, denunciavano in modo più o meno velato adulteri o trasgressioni sessuali (particolarmente del clero), venivano recitate in piazza. La satira paesana (e, al suo interno, particolarmente, le allusioni sessuali), mentre creava un ordine del discorso teso a “dissociare le relazioni costituite, consolidate, per farne emergere altre, che spesso sono relazioni pericolose”, per ricordare Jean‐Bertrand Pontalis2, mentre metteva in scena un testo in apparenza oscuro e slegato da un’immediata e trasparente rispondenza evenemenziale, era usata come strumento di lotta politica tra ceti o fazioni diversi (chi doveva comprendere, comprendeva; chi doveva agire, agiva; chi non poteva comprendere ricorreva a interpreti‐mediatori; chi non voleva comprendere, o chi non voleva agire, rischiava di pagare pesanti conseguenze). Cortei di mascherati, composti per lo più da giovani e adolescenti, che mettevano in atto comportamenti aggressivi, soprattutto nei confronti delle ragazze, attraversavano il paese durante il giovedì grasso. Il martedì, si bruciava un pupazzo di paglia, in un clima burlesco, alimentato da grandi bevute di vino. Si suonava, infine, durante la notte di giovedì e di martedì, la vrogna J.‐B. Pontalis, Questo tempo che non passa. Roma, Borla, 1999, p. 102. 2 2 (vergogna), conchiglia dal suono cupo e poderoso, nei pressi delle case dei mariti che si diceva fossero stati traditi durante l’anno. Re Carnevale, insomma, agitava con un cenno del suo scettro le acque della vita sociale e politica, toccando gli ambiti di genere, di classe, di fazione, di famiglia. Ma, re Carnevale soleva incedere ‐ e suole incedere ancor oggi ‐ con un corteo di pingui maiali. Tutto il periodo festivo, infatti, era caratterizzato – ed è caratterizzato ancor oggi ‐ da eccessi alimentari, dovuti alla presenza dei banchetti per lʹuccisione degli animali. La relazione tra Carnevale e carne di maiale, in realtà, non appare oggi, nel contesto locale, codificata ed esplicita; sembra appartenere a quel ordine di relazioni inesplicite e non formalizzate che l’antropologia critica ha individuato: pur esistendo, non affiora che incidentalmente nel discorso. Si uccidono i maiali e si organizzano i banchetti perché è il tempo per far ciò, non perché sia Carnevale, e tuttavia l’insieme delle azioni e delle relazioni poste in essere non avrebbe senso alcuno se non fosse, appunto, Carnevale; e se la memoria di consuetudini radicate non restasse sospesa sull’agire quotidiano. La relazione tra Carnevale e carne di maiale, del resto, è intensa e biunivoca sul piano regionale. Vito Teti, in un suo saggio sullʹideologia e la cultura dellʹalimentazione popolare in Calabria, ricordava come “i cibi di tale periodo [siano] costituiti essenzialmente da carne di maiale”: frittole, sasizze, restatine, etc.3. In effetti, l’associazione Carnevale‐carne suina è attestata anche dalle fonti demologiche: penso, per fermarmi a due soli studiosi, a Raffaele Lombardi Satriani e a Giuseppe Chiapparo4. A Nocera, ricorda uno dei miei interlocutori privilegiati, “chi restava senza carne di maiale, o perché era povero e non aveva maiali, o perché lʹaveva consumata prima, era un vero infelice, non sapeva come fare. Non cʹera Carnevale senza porco”. Occorre tener presente, inoltre, come il periodo festivo inizi il 17 gennaio, nel giorno di santʹAntonio in molti luoghi della regione celebrato, proprio in rapporto al maiale che lo accompagna nellʹiconografia tradizionale, come santʹAntonio di lu puorcu. Il giovedì grasso, inoltre, è noto un po’ ovunque come juornu lardusu (giorno del lardo) e in più parti proprio allora si offrono alle chiese e ai conventi recipienti di coccio colmi di grasso di maiale5. 3 V. Teti, Il pane, la beffa e la festa, Rimini, Guaraldi, 1976, p. 240. 4 In un canto trascritto da Lombardi Satriani, lapidariamente, si legge: quantu è bella la carni du porcu/ massimamente lu Carnilivari; secondo un detto diffuso, tramandatoci da Chiapparo, il giovedì grasso, cuʹ non havi carni si ʹmpigna ʹu figghiolu. Potrei continuare a lungo, nell’ambito di una produzione folklorica assai vasta. Cfr. R. Lombardi Satriani, Canti popolari calabresi, 6 voll., vol. III, Napoli, De Simone, 1932, canto 2683, pp. 240‐242; G. Chiapparo, Da Carnevale a Pasqua in Tropea, in “Folklore della Calabria”, 7/8, 1957, pp. 127‐135, p. 127. 5 Si veda, in proposito F. Angarano, Vita tradizionale dei contadini e pastori calabresi, Firenze, Olschki, 1973, p. 303. Sulla relazione tra sant’Antonio e il maiale, con concreto riferimento all’Abruzzo, si veda inoltre A. Di Nola, Gli aspetti magico‐religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 179‐265; nel lavoro di Di Nola vi è anche una convincente linea interpretativa per quel che concerne l’uso di regalar grasso di maiale al clero, connesso, secondo l’ipotesi dello studioso, ad antiche valenze e funzioni terapeutiche dell’alimento. Ancora sull’argomento si veda 3 Nel processo di semplificazione che, a Nocera come altrove, ha caratterizzato la dimensione festiva nei tempi più recenti, le manifestazioni propriamente carnevalesche sono quasi del tutto scomparse. Eʹ sopravvissuto, però, lʹuso di “fare il maiale” e dei banchetti legati allʹuccisione e alla lavorazione delle sue carni, i quali anzi hanno subito un sensibile incremento. Ma prima di soffermarci sulla realtà dei festini di Carnevale occorre dire qualcosa sul ciclo dell’allevamento dei maiali. Questi sono acquistati, in genere, nell’anno precedente la loro uccisione, di piccola taglia, alla fiera dellʹImmacolata, lʹotto dicembre, nei pressi dellʹabitato; a volte, più adulti e di maggior peso, a quella di San Giovanni, all’inizio dell’estate. Li si alleva, dunque, per un lasso di tempo che varia da sei mesi a un anno; nel periodo della mia osservazione, in località a ridosso dellʹabitato, dopo che una vigorosa azione delle amministrazioni comunali li ha estromessi dalla cinta urbana, al cui interno vivevano a stretto contatto con gli uomini. La maggioranza della popolazione nocerese ama avere il maiale vicino casa (se non sotto casa) e non ha visto di buon occhio i provvedimenti restrittivi posti in essere dalla politica sanitaria municipale. Sino agli anni Cinquanta, il maiale era stato, a Nocera come in altri paesi calabresi, componente indispensabile dellʹalimentazione. In una dieta basata sulle erbe, e più tardi sul pane e la pasta, con scarsi apporti proteici, dovuti soprattutto ai formaggi di capra, in cui soltanto in rare occasioni festive si faceva uso di carne fresca, la provvista di carne di maiale conservata era essenziale6. Chiunque poteva permetterselo allevava, dunque, con gli scarti della produzione agricola e con quelli alimentari, integrati da crusca, sulla, ghiande e lentisco, uno o più capi. Anche i meno abbienti attingevano, a questa riserva proteica attraverso regali, consuetudinariamente previsti. Non tutti, infatti, potevano per‐ mettersi di allevare un animale: vi erano ceti poveri che restavano esclusi dalla proprietà, che richiedeva, comunque, un investimento protratto nel tempo. Il possesso del maiale, dunque, al di là dell’aspetto utilitaristico, connotava una condizione, era indicativo di uno stato. Chi possedeva un maiale poteva non esser ricco, ma non era totalmente povero; chi possedeva un maiale poteva, comunque, donare (e ricevere) qualcosa. E chi, per censo, perché aveva famiglia numerosa e perché aveva numerose relazioni, possedeva più C. Fabre‐Vassas, La bête singulière. Les juifs, les chrétiens et le cochon, Paris, Gallimard, 1994, pp. 327‐ 357. Il saggio di Fabre‐Vassas contiene, nel suo insieme, informazioni e riflessioni indispensabili per inquadrare i temi qui presi in considerazione, a partire dalle complesse valenze antiebraiche connesse alla simbologia dell’animale. Su quest’ultimo aspetto uno studio utile è quello di D. Barak‐Erez, Outlawed pigs: law, religion, and culture in Israel, Madison, University of Wisconsin Press, 2007. Per una comparazione con una regione contigua, la Basilicata, con significative convergenze etnografiche, si veda invece il saggio di F. Marano, Maiali per i discendenti. Simboli e relazioni nella “festa del maiale”, in “Archivio di Etnografia”, I, 1, 1999, pp. 31‐46. 6 Cfr. V. Teti, Il pane, la beffa e la festa, cit. Notizie sull’inderogabilità del maiale nella dieta calabrese sono in molti dei folkloristi che hanno esaminato la realtà regionale, da Padula e Dorsa, da Raffaele Lombardi Satriani ad Angarano. Più in particolare si veda L. Prato, Folklore del maiale nella zona di Cosenza, in “Folklore della Calabria”, 3‐4, 1960, pp. 105‐124. 4 animali, si distingueva nel tessuto sociale paesano. Il maiale diveniva, insomma, indice di autosufficienza, agiatezza, disponibilità a figurare sulla scena sociale e nellʹambito di una cerchia parentale più o meno allargata. Con i processi di accelerata modernizzazione, iniziati intorno alla metà degli anni Sessanta, è venuta meno lʹinderogabilità economica e alimentare del maiale, reso superfluo dallʹampio accesso al consumo di carni fresche e dal diffondersi in loco dellʹalimentazione industriale. Malgrado ciò, il maiale non ha perso terreno, né importanza: se ne alleva e uccide in numero più elevato che in passato. La perdita dell’inderogabilità alimentare dell’animale, ha però ancor più posto in rilievo la sua utilità simbolica. Il maiale continua ad avere importanza, sia come indicatore di status e marcatore simbolico, sia come strumento di relazione nell’ambito della società nocerese, sia come mezzo privilegiato di rimemorazione. L’enfasi posta sul banchetto e sulle pratiche di lavoro collettivo e di scambio sociale che esso comporta è, inoltre, cresciuta. Se nei tempi passati l’uccisione del maiale dava origine a una festicciola, importante nella vita sociale locale, ma contenuta, soprattutto indirizzata alla cerchia parentale, ristretta o allargata, oggi genera un festino, anzi un insieme di festini che coinvolgono in modo intrecciato giri assai più larghi. Inoltre, come ho prima accennato, vi è una netta, seppur inesplicita, consapevolezza del tratto festivo dell’operazione: si allevano, dunque, e uccidono maiali anche per aderire a una particolare, diffusa e atomizzata situazione festiva, che inaugura lʹanno rituale e colma il vuoto politico lasciato dalla sparizione delle forme eclatanti del Carnevale, per intraprendere una sistematica attività di relazione e scambio, complementare e interrelata con quelle che, tramite altri contesti festivi, in particolare in Quaresima, vengono create. Ho prima fatto cenno a pratiche di lavoro collettivo e di scambio sociale: vi è un “giro” del maiale, insomma. Più precisamente, occorre rilevare che, oggi come ieri, il maiale attiva due distinti circuiti solidaristici, che non posso certo, nella loro complessità, evocare in questa sede: assai sinteticamente il primo, legato allʹallevamento, unisce la famiglia dellʹallevatore con quanti donano, non occasionalmente, scarti alimentari e della produzione agricola; il secondo, legato allʹuccisione, unisce coloro che prestano, e assai spesso scambiano, manodopera più o meno specializzata per la giornata. I due circuiti hanno composizione e valore sociale differenti. E veniamo ai banchetti, la cui importanza è anche legata al diuturno investimento di risorse ed energie che l’allevamento comporta. I banchetti possono aver inizio il giorno dellʹImmacolata, lʹotto dicembre, e aver luogo sino al martedì grasso. Pur non essendo più molto rispettato il digiuno quaresimale, si ritiene buona regola che gli eccessi alimentari abbiano fine con le Ceneri, anche se qualche eccezione è possibile riscontrare. Il periodo elettivo per il loro svolgimento, però, all’interno del lasso di tempo ricordato, è quello di Carnevale. A una data stabilita con alcuni giorni dʹanticipo, dunque, ciascuna famiglia di allevatori invita un congruo numero di persone della cerchia parentale o amicale, per “fare il maiale”. 5 Le operazioni avvengono, in genere, in una casella di campagna nei pressi dellʹabitato o, al suo interno, in un magazzino separato dallʹabitazione. La giornata prevede una netta divisione di genere dei compiti. Agli uomini spetta lʹuccisione del maiale, la raccolta del sangue in un catino, la raschiatura delle setole, la sospensione e lo squartamento, la rifinitura dei pezzi, la preparazione delle budella e della vescica per la conservazione di carni e grasso; alle donne la confezione delle salse, la salatura, la lavorazione delle carni minute, del grasso, del sangue, degli scarti. Uomini e donne insieme provvedono a insaccare le carni. Occorre ricordare come ancor oggi, malgrado la perdita d’importanza sul piano alimentare già ricordata, si adoperi del maiale tutto. I prodotti di pregio, da conservare, che scaturiscono dalla lavorazione sono salami, salsicce, capicolli, soppressate, pancetta, guanciale, sanguinaccio. Ancora insieme, uomini e donne, procederanno allo stivaggio di tali materiali in locali idonei. Durante la lavorazione si mettono da parte i pezzi che devono essere donati, si affetta quanto è rimasto della produzione dellʹannata precedente, giunto al suo culmine di stagionatura, si beve vino. In corso dʹopera, i ragazzi o le ragazze recano i doni di carne fresca a chi di dovere. Le donne cucinano per l’occasione festiva. A mezzogiorno, e comunque quando il lavoro, iniziato al mattino presto, volge al termine, per lo meno per la parte maschile, ci s’interrompe per mangiare, suonare organetto, fisarmonica o zampogna, ballare e far baldoria. E’ questo il momento di più diretta adesione al regime carnevalesco che si sta attraversando, sottolineato non soltanto dall’eccesso alimentare, quanto anche, come ricordato da Yvonne Verdier per Minot7, da riferimenti sessuali, che pescano nel retroterra dell’anatomia burlesca e grottesca dell’animale, quale si era venuta delineando durante la lavorazione del mattino, da un clima di brusca e ironica galanteria nei confronti delle donne, dall’uso di un vocabolario allusivo o, a volte, spinto8. Anche a Nocera, come altrove in Calabria, si servono le restatine, costolette arrostite sulla brace o cotte in pentola con sugo di pomodoro preparato Gli scritti della studiosa sull’argomento sono apparsi in numerose sedi e in anni diversi. Faccio qui sinteticamente riferimento a Le langage du cochon, compreso in T. Jolas et alii, Une campagne voisine. Minot, un village bourguignon, Paris, Ed. de la Maison des sciences de l’homme, 1990, pp. 357‐375. Ma, notizie interessanti nella nostra prospettiva critica, soprattutto in ordine ai ruoli femminili e agli interdetti, l’autrice offre anche nel saggio Les femmes et les saloires, ivi, pp. 329‐355. Si veda, infine, Y. Verdier, Façon de dire, façon de faire. La laveuse, la couturière, la cuisinière, Paris, Gallimard, 1994, in particolare le pp. 24 e segg. 7 8 I riferimenti costanti cui il maiale rinvia nel discorso locale pertengono al basso, allo scatologico, al saturnino, al diabolico, come del resto un’ampia letteratura europea conferma (per un solo esempio, si veda J. Amades, L’origine des bêtes. Petite cosmologie catalane [traduzione e cura di M. Albert‐Llorca], Carcassonne, Garae‐Hesiode, 1988, pp. 246‐249). A conferma del regime “basso” dell’animale, a Nocera la carne di maiale conservata non deve essere benedetta dall’acqua santa, pena la sua corruzione (la credenza, da me raccolta sul terreno, è attestata in forme simili anche da Raffaele Lombardi Satriani per Polistena; cfr. Credenze popolari calabresi, Napoli, De Simone, 1951, p. 16). Sui temi specifici qui ricordati, ancora con riferimento alla cultura popolare europea, si veda M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medioevale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1979. 6 in bottiglia, con abbondanti porzioni di pasta fatta in casa, condita con ragù di carne di maiale, capicolli, soppressate, salami e salsicce, sia crude che cotte, vino rosso in grande quantità. Riprese nel pomeriggio avanzato, le operazioni vengono di solito ultimate a sera. Nel corso del periodo previsto molte famiglie organizzano festini, in un vorticoso intreccio di relazioni, lavori, doni ed eccessi alimentari che, a vario titolo, coinvolge la maggior parte della popolazione locale. Al centro della festa, oltre al possessore dellʹanimale (o degli animali) è colui che lo uccide. A volte questi è lo stesso proprietario o il capofamiglia ma, altre volte, si ricorre a una figura quasi professionale, che nel periodo trascura altre occupazioni, la quale deve garantire le fasi più delicate del processo di lavorazione, quelle della morte dellʹanimale e della divisione delle carni. Poiché tutto il sangue deve essere versato, sia perché viene raccolto e conservato, sia perché si ritiene che le carni esangui corrano meno rischi di andare a male e rendano meglio nel processo di conservazione, allʹanimale deve essere recisa con maestria, dopo essere stato legato e appeso per le zampe posteriori, la carotide, in modo che le stesse pulsioni agoniche provochino una completa emorragia. Ciò comporta una speciale abilità, un modo particolare di maneggiare il coltello e di procurare la ferita. Anche lo squartamento e la divisione delle parti richiedono maestria: tagli netti, precisi, ben fatti consentiranno una più facile lavorazione, una più proficua resa. Ben si comprende come colui che uccide lʹanimale sia un personaggio importante. Il resto della squadra è reclutato in base alle strategie sociali del gruppo che sacrifica l’animale, piuttosto che allʹabilità lavorativa di ciascuno, l’uccisore no. Gli elementi ritenuti abili in paese sono, così, ricercati: ogni fissazione di data deve tenere conto dellʹeffettiva disponibilità di tale figura. Eʹ importante ricordare che, sebbene nei mesi invernali quello del macellaio si presenti quasi come un mestiere, tenendo impegnata la persona per molti giorni, nulla gli è dovuto, al di fuori dei regali di carne, che saranno particolarmente abbondanti. Egli si pone, però, al centro di una rete di amicizie e di relazioni sociali assai estesa e costruisce, tramite la sua ars necatoria, un indiscusso prestigio. Signore della morte degli animali e della buona resa del capitale, amico di un buon numero di famiglie che, anche attraverso di lui, entrano in relazione, calendarizzando i loro banchetti e ottimizzando la sua prestazione, egli è personaggio che dona apparentemente senza ricevere. Questo modello di relazione sociale ha grande importanza a Nocera. Abbiamo visto come i banchetti s’impernino su due figure (a volte coincidenti), quella del proprietario, che porta lʹanimale, quella dellʹuccisore che lo sacrifica, versandone il sangue e manipolandone le carni. Entrambe tali figure, attraverso lʹoccasione festiva, si pongono come costruttrici di considerazione, prestigio, reti sociali. I banchetti, dunque, tenuti nel periodo che apre lʹanno rituale nocerese, hanno il compito di creare, tramite la polarità (e popolarità) di leaders, una struttura sociale; una fitta tessitura di dare e avere, di scambi d’opera, di carne, di festa, di amicizia, di vino, di musica, al loro intorno si svolge. Gruppi di famiglie, con la reciprocità instaurata attraverso i banchetti, si riconoscono come alleate, come membri di un segmento comunitario e, insieme, come membri di una comunità. Ciascuno, inoltre, familiarizza con una condizione in cui si dona senza ricevere nulla in cambio; ciascuno sperimenta come il donare crei considerazione e prestigio. Il banchetto è, inoltre, occasione privilegiata per 7 verificare la rete sociale, in rapporto con lʹintera comunità: nel memorizzare il complicato intreccio degli inviti; nel tener conto dei maiali già uccisi e di quelli ancora da uccidere, delle pantagrueliche mangiate e bevute, dei doni fatti e ricevuti; nel discutere, nominare, verificare interdetti ed esclusioni, la rete è mostrata a se stessi e alla comunità. La tessitura sociale sin qui descritta, con le necessarie omissioni, poggia sulla funzione mnestica del maiale e dei banchetti e, a sua volta, la sostiene e la promuove. Ho prima ricordato come gli animali e il loro sacrificio rituale inaugurino la sequenza celendariale dell’anno, rievochino un Carnevale assente, rammentino le prerogative di genere e i vincoli d’alleanza che ciascun gruppo ristretto o allargato mantiene, richiamino le reti e la diversa posizione dei singoli soggetti e dei singoli gruppi al loro interno. Il banchetto rituale, in particolare, si pone come momento cardine in cui i saperi e le memorie relative all’animale, vengono riattualizzate e trasferite dentro una fragile, ma tenacemente perseguita, percezione del presente: percezione che, con qualche analogia con le festa di Quaresima, si alimenta nell’aspettativa e nell’attesa: attesa di un ritorno del tempo, aspettativa per la reiterazione del potere di fondazione sociale che da tale ritorno deriva. Ben rappresenta la funzione del banchetto Marc Augé, quando scrive che “il rito è un caso esemplare di quella tensione tra memoria e attesa che caratterizza il presente”9. Ma, anche in un senso ulteriore, nuovamente legato al calendario, i banchetti possiedono una funzione mnestica, è tal senso si rinviene nella demarcazione temporale che, attraverso il varco sacrificale, stabiliscono: tra un prima e un dopo, tra un momento in cui i maiali c’erano e un altro in cui vi è soltanto la loro ecatombe e il vuoto dei recinti, tra un momento in cui l’anno precedente muore e uno nuovo s’inaugura, volgendo verso il suo acme rituale e festivo. Dunque, un’ambivalente sottolineatura di continuità e discontinuità, che si traduce nell’attività che con tutta evidenza accompagna il mangiare, il bere, il far festa, quella del ricordare. Ma quale tipo di ricordo si elabora dentro la cornice conviviale e carnevalesca? E’ un ricordo che tende a recuperare la vicenda comunitaria e quella del gruppo ristretto che si auto‐celebra, mentre mette la sordina ai grandi eventi della vita collettiva, quale si affacciano sullo scenario locale attraverso la dimensione nazionale o globale. Si ricorda, in modo insistito, divertito, allusivo o esplicito, a seconda dei casi e delle dialettiche che sono in gioco, ciò che conferma; si pone sullo sfondo, quando non si rimuove, ciò che rinvia al motore incontrollato della più ampia Storia. Si ricorda il banchetto dell’anno prima, il compare che non c’è più, il maiale appena ucciso e le sue doti singolari, il sindaco che ha appena cessato il suo incarico, il prete e una sua relazione femminile, la comunione del figlio primogenito, il raccolto eccezionale di dieci anni prima, la costruzione della casa di Nicolino, la più recente lite di vicinato; si allontanano con sufficienza gli affioranti discorsi sul governo, sulle tasse, sulle diminuzione del prezzo dell’olio per la concorrenza spagnola, sull’intrusione ambigua e pervasiva del turismo, sull’elezione del nuovo governatore regionale o del nuovo capo di Stato di una potenza politicamente vicina. M. Augé, Le forme dell’oblio. Dimenticare per vivere, Milano, il Saggiatore, 2000, p. 79. 9 8 Per meglio comprendere il discorso mnestico dei banchetti noceresi, che sembrerebbe rinviare alla nozione di intimità culturale di Michael Herzfeld10, ci viene utile la distinzione tra opzioni fredde e calde della memoria che, a partire da Lévi‐Strauss, Jan Assmann compie. L’archeologo ricorda come queste due opzioni siano presenti in tutte le società e rappresentino una risorsa concessa ai gruppi umani per meglio definire, di volta in volta, il loro rapporto con la Storia, attraverso le polarità opposte della conservazione (tradizione) e del mutamento. La memoria fredda, per Assmann, non significa “oblio di ciò che le culture ‘calde’ invece ricordano, bensì ricordare in maniera diversa; e in virtù di questo modo di ricordare”, impedire l’irruzione [irrelata] della Storia11. La memoria fredda, che si alterna alla memoria calda che compare anche a Nocera in occasioni diverse (le feste quaresimali, le elezioni nazionali, a esempio, e i consessi che tali occasioni stimolano), consente di mantenersi al riparo da ciò che continuamente disordina, accelera, scompagina. La memoria fredda consente di costruire localmente un’illusione di tradizione. La memoria dei banchetti di Carnevale mi sembra s’inscriva in questo ambito espressivo12. Le funzioni mnestiche sin qui evocate, oltre a sostenere la trama sociale locale, mettono in moto una serie di determinazioni di ordine simbolico che sostanziano quell’idea del presente di cui sopra scrivevo. In tale prospettiva, si avvicina alla realtà calabrese quella borgognona descritta da Verdier: l’uccisione dell’animale, ricorda la studiosa, “ha una grande portata sociale, perché i fatti e i gesti che mostra mettono in evidenza i principi essenziali della vita collettiva: principio dello scambio e della provvista, principio della condivisione e del reciproco aiuto, principio della divisione sessuale del lavoro; la sua cucina mette in evidenza le categorie culinarie essenziali, così come quelle del gusto e della Cfr. M. Herzfeld, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2003. 11 J. Assmann, La memoria culturale .Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi, 1997, particolarmente le pp. 39 e segg. Il riferimento puntuale è alla p. 42. 12 I riferimenti impliciti presenti in questa relazione, rispetto ai temi della memoria sociale e delle menemotecniche, sono quelli che rinviano alla grande tradizione di studi inaugurata da Frances Yates. Si vedano quantomeno Cfr. F. A. Yates, L’arte della memoria. Torino, Einaudi 1972. Per una prima verifica, si vedano D. Lowenthal, The Past is a Foreign Country, Cambridge, Cambridge University Press, 1985; P. Connerton, Come le società ricordano, Roma, Armando Editore, 1999; U. Fabietti, V. Matera, Memorie e identità. Simboli e strategie del ricordo, Roma, Meltemi, 1999; P. Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio: otto saggi di storia delle idee, Bologna, Il Mulino, 2001 [ed.or.1992]; A. Assman, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Bologna, Il Mulino, 2002; P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina, 2003; A. Margalit, L’etica della memoria, Bologna, Il Mulino, 2006; C. Severi, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Torino, Einaudi, 2004; Id, Le principe de la chimère. Une antropologie de la mémorie, Paris, Aesthetica, Rue d’Ulm/Musée du Quai Branly, 2007. 10 9 sensibilità alimentare. Insieme al maiale, si trova tagliata la realtà e rivelato tutto un corpo di immagini simboliche”13. Questo corpo d’immagini simboliche non appartiene soltanto alla dimensione festiva ma, dentro la vita quotidiana, si radica all’interno di costrutti identitari complessi e interrelati. Occorre ricordare come vi sia una estesa mitopoiesis relativa al maiale che si manifesta nelle forme più svariate (il tenere i maiali a portata di vista, i numerosi racconti relativi alla loro intelligenza, il conclamato dispiacere del parentato al momento della loro uccisione, la lode sviscerata per il sapore delle loro carni; l’ammirata e sconcertata leggendaria circa la loro fame alimentare o sessuale, etc.). Ma, in particolare, il consumo di carne suina avviene oggi allʹinsegna delle nozioni di purezza e genuinità, nozioni evocate nel discorso, nel racconto, nelle stesse pratiche cerimoniali. Il maiale è visto come parte di unʹalimentazione sana, direttamente controllata, legata alla realtà e ai valori della campagna, della terra, del paese. Contro unʹalimentazione industriale, seriale, sofisticata, transgenica, invasiva e malsana, che connota una realtà esterna, massificata, globalizzata, del tutto sgradita (anche se in parte, per necessità, subita), il maiale è “il nostro cibo genuino”. Anche in questo senso ulteriore, dunque, l’animale consente di ricordare: ricordare un tempo in cui, miticamente, il controllo delle cose era in mano comunitaria, in cui un rapporto con la natura era vivo e operante, in cui le cose avevano il sapore di una volta. Dentro quest’orizzonte condiviso che, come ho accennato, sembra dialogare con le nozioni di disemia e di intimità culturale elaborate da Herzfeld, si vanno disegnando ulteriori processi di identificazione particolare e, per così dire, di segmentazione simbolica. Direi che tali processi, nella loro apparente contraddittorietà, sono indispensabili nella costruzione di un’idea olistica di località. Pensiamo, per esempio, alla conoscenza delle tecniche divinatorie e delle possibilità d’impiego terapeutico dell’animale, che appaiono appannaggio delle donne, e in particolare delle “donne che ricordano”, delle anziane, mentre gli uomini ostentano irridente oblio per “queste cose di donne”. Pensiamo ancora alla lavorazione e alla consumazione dei resti: ieri utili nellʹambito di unʹeconomia di sussistenza, in cui nulla poteva essere scartato, essi connotano oggi un ambito alimentare tipico, distintivo della calabresità e della noceresità e, al loro interno, specialmente della virilità. Sugna, suzu, salimora, sanguinacciu, provocano nei forestieri una curiosità incredula e diffidente e, spesse volte, disgusto. Il prepararli e il consumarli divengono, allora, fatti distintivi di unʹumanità diversa, che non teme ciò che teme colui che viene da fuori; unʹumanità che, come si è visto, mangia sano e puro, ma che sa anche apprezzare gusti peculiari e sapori forti (e in questa peculiarità inscrive la demarcazione tra il fuori e il dentro e riconosce ciò che può essere agito per sottolinearla). Ma, benché preparati da mani femminili e parte di una cucina quasi interamente femminile, quasi tutti i cibi in questione (a eccezione del sanguinaccio, preparato dolce, amato anche dai bambini e dalle donne) vengono ostentati dagli uomini, da loro proposti, da loro enfatizzati: gli scarti del maiale finiscono per connotare virilmente, così, la tavola sulla quale compaiono. Mangiare Y. Verdier, Le langage du cochon, cit., p.357. 13 10 le parti forti dellʹanimale, insomma, non mostrare disgusto per il sangue, le interiora, lʹodoroso, il selvatico, lo sporco, rovesciare la nozione di purezza, sostituendo cibi inodori e dai sapori standardizzati, ma sofisticati, con altri dallʹodore marcato e dal sapore particolare, ma genuini, caratterizza il locale in rapporto al nazionale, ma anche lʹuomo rispetto alla donna14. Il simbolo, così, ulteriormente si scinde in base allʹappartenenza di genere, distinguendo ambiti assieme solidali e contrapposti e caratterizzando contesti via via più ristretti. Il sanguinaccio, così, è “nostrano”, anche se lo prediligono le donne e i bambini; il suzu, è anchʹesso “nostrano”, ma è cosa da uomini (a loro piace di più), ed è amato particolarmente da cacciatori e pastori (ne vanno matti), ed è distintivo, infine, di alcuni individui maschi, particolarmente connotati (compare Peppe non mangerebbe altro!). Il banchetto carnevalesco – il Carnevale? ‐ è il momento in cui tale insieme di idee e rappresentazioni, costantemente presente, viene richiamato e celebrato, con una elaborazione linguistica di sorprendente ricchezza, che parte dalla dettagliata denominazione di ogni parte e sottoparte del corpo dell’animale, di ogni possibile sfumatura della sua trasformazione in cibo: non è soltanto la festa di un certo gruppo allʹinterno della comunità, ma anche la festa della comunità stessa, della genuinità e della purezza di cui essa è memore e custode, della reminiscenza particolare delle donne, della generosità e della irruenza virile. La scrupolosa memoria delle regole della confezione, lʹostentata crapula, il gioioso racconto dell’età dell’oro concorrono alla formazione della sostanza festiva. Lavorare “allʹantica”, senza la contaminazione di materiali, conservanti, metodi industriali; mangiare “a crepapancia”, perché quanto è genuino non può far male, saper godere dell’amicizia e delle sue tessiture musicali e verbali: queste sono le opzioni poste in essere e ostentate nellʹoccasione. 14 Si veda, in proposito, M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Bologna, il Mulino, 1975. Analoghi atteggiamenti è possibile riscontrare nei confronti del morsello, piatto di trippa bovina, non del tutto mondata dei residui interiori, condito con abbondantissimo peperoncino, diffuso a Catanzaro e un po’ in tutta la provincia, che solletica il compiacimento virile, sia per via del pungente odore delle interiora, sia per via della forza del peperoncino. Peperoncino che, a sua volta, alimenta un continuo processo di costruzione delle retoriche virili. (Cfr. V. Teti, Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee, Roma, Donzelli, 2007). Ricordo, del resto, che la carne di pecora adulta, bollita o condita con sugo, dal sapore e dall’odore fortemente caratterizzato, funge da cibo indispensabile per l’aggregazione sociale tra pastori in tutta la regione e quasi da elemento iniziatico per i giovani o i forestieri. 11