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non si uccidono così anche i cavalli?

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non si uccidono così anche i cavalli?
Prosa
2012/2013
non si uccidono così anche i cavalli?
Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, 2012
A cura dell’Area Comunicazione
L’editore si dichiara pienamente disponibile a regolare le eventuali spettanze relative a diritti
di riproduzione per le immagini e i testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte.
mercoledì 5, giovedì 6, venerdì 7, sabato 8,
domenica 9 dicembre 2012 ore 20.30
Teatro Cavallerizza
NON SI UCCIDONO COSÌ ANCHE I CAVALLI?
di Horace McCoy
traduzione e adattamento Giorgio Mariuzzo
con Roberto Abbati, Alessandro Averone, Maurizio Camilli, Andrea
Capaldi, Cristina Cattellani, Ambra Chiarello, Laura Cleri, Andrea
Coppone, Paola De Crescenzo, Massimiliano Frascà, Francesco
Gabrielli, Luchino Giordana, Francesca Lombardo, Michela Lucenti,
Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Emanuela Serra, Giulia Spattini,
Chiara Taviani, Teresa Timpano, Nanni Tormen, Marcello Vazzoler,
Chantal Viola
adattamento musicale / pianoforte Gianluca Pezzino
clarinetto / sax Paolo Panigari, contrabbasso Francesca Li Causi
batteria Gabriele Anversa, voce Carlo Massari
costumi Marzia Paparini
luci Luca Bronzo
scrittura fisica Michela Lucenti
regia Gigi Dall’Aglio
produzione Fondazione Teatro Due
in collaborazione con Balletto Civile
foto di scena Marco Caselli Nirmal
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“Teneteli in movimento, la commozione non è una buona ragione per
fermarsi, perché gira, gira, gira, continua la girandola infernale!”
©David Ruano
Dall’incontro dei due nuclei artistici dell’Ensemble Attori Teatro
Due e di Balletto Civile, nasce la produzione di Fondazione Teatro
Due Non si uccidono così anche i cavalli?, tratta dall’omonimo
romanzo di Horace McCoy (They Shoot Horses, Don’t They?) del 1935,
nell’adattamento di Giorgio Mariuzzo. Nel 1969 Sydney Pollack ne fece
un lungometraggio, un successo di critica e pubblico, presentato fuori
concorso al Festival di Cannes nel 1970 e premiato con un Oscar per il
miglior attore non protagonista.
Sulla pista da ballo, circondati dagli spettatori (il pubblico reale) venuti
per seguire la maratona, 22 performer e un quartetto di musicisti si
esibiscono insieme in un progetto corale, in cui i corpi, con la loro fatica,
la loro sofferenza, la loro verità sono la scena. Teatro Due reagisce così
alla crisi, ai tagli, alle sfide del nuovo pubblico: immaginando uno
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spettacolo che coinvolge tutte le energie artistiche possibili, con più di
trenta persone coinvolte e con la forza di un testo mai rappresentato in
Italia.
Nella California dei primi anni ‘30, è in voga un genere crudele di
spettacolo: maratone di ballo durante le quali coppie di giovani
disperati senza lavoro ballano per giorni interi, attratti dal premio in
denaro a chi resisterà di più, dalla possibilità di farsi notare da qualche
produttore cinematografico e teatrale, dal vitto e l’alloggio assicurati
per qualche tempo (le sessioni di ballo potevano durare settimane).
Un vero e proprio gioco al massacro, che portava i concorrenti fino
ai loro estremi limiti fisici e psicologici e al completo esaurimento, al
punto da continuare in uno stato di semi-coscienza, sostenendosi l’uno
al corpo dell’altro, senza riuscire a riposare davvero durante le brevi
pause in uno squallido dormitorio, mentre i pasti venivano consumati
direttamente sulla pista da ballo.
“Ecco come la salutiamo la depressione! Dateci sotto gente, diamo il
via alle danze!” annuncia con incalzante cinismo il presentatore della
serata. Ecco come provavano i giovani americani all’inizio dello scorso
secolo a emergere dalle difficoltà economiche e a penetrare il mondo
dello spettacolo; come oggi, non avevano nient’altro che la propria
gioventù, il proprio talento, la propria vita da offrire allo sguardo,
al voyerismo del pubblico. Così, raccolti come animali nella pista
da ballo (oggi facilmente uno studio televisivo), i miseri concorrenti
cercavano di scalciare via la crisi, di salutare la depressione, provando
disperatamente ad essere più forti, più giovani, più inarrestabili di lei.
Seguendo le misere vicende di alcune coppie, lo spettacolo nello
spettacolo diviene un emblematico ritratto della contemporaneità,
uno specchio, solo un poco antichizzato, delle tendenze mediatiche
più degenerate dell’oggi. In scena si consumerà il dramma di una
generazione che non ha più nulla da perdere, sfruttata da una società
dello spettacolo in cui l’amore, la vita e la morte vissute in diretta
sono date in pasto allo sguardo avido di un pubblico senza più alcuno
scrupolo.
Un talent/reality show ante litteram, in cui i partecipanti, ieri come
oggi, inseguono l’illusorio, effimero sogno della fama, e del denaro
facili, rinunciando alla dignità e all’intimità. Nella speranza di un futuro
dorato, sacrificano sull’altare del successo i sentimenti più privati, la
genuinità delle proprie emozioni, lasciando dietro di sé chi non tiene
il passo e intralcia la lunga danza verso la notorietà e i mille dollari in
contanti. Con tutti i mezzi e le risorse possibili, leciti o meno.
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foto di Marco Caselli Nirmal
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Il cinico sfruttamento a fini spettacolari di persone senza arte né parte
che illudendosi di avere una possibilità di uscire dall’anonimato sono
pronte a tutto non è stato inventato dai moderni programmi tv, ma
esisteva già nell’America della Depressione, come raccontò nel 1935
Horace McCoy in un romanzo “Non si uccidono così anche i cavalli?”,
da cui Sidney Pollack trasse un celebre film. McCoy descriveva per la
verità una guerra tra poveri, una maratona di danza i cui organizzatori
sono poco meno spiantati dei concorrenti. Questi ultimi sono disposti a
ballare in coppia senza sosta, giorno e notte, in cambio di qualche pasto
e della speranza di arrivare fino in fondo: i due vincitori, ossia coloro
che saranno ancora in piedi dopo moltissimi giorni di abbruttimento
progressivo, riceveranno 1500 dollari al netto di spese che in realtà si
saranno mangiati quasi tutti. Nell’eccellente adattamento di Giorgio
Mariuzzo, superbamente diretto da Gigi Dall’Aglio e interpretato da
22 tra ballerini estemporanei più quattro musicisti, la pista da ballo
chiassosamente pavimentata di rosso occupa una sala intorno a cui
sediamo noi spettatori voyeurs. All’inizio i partecipanti sono reclutati
come immigrati allo sbarco, e infatti hanno provenienze svariate: la
moglie incinta ma bisognosa, il marinaio troppo vecchio, l’aspirante
starlette, l’evaso in fuga, tutti subito vessati da un volgare presentatoredomatore e dai suoi accoliti. Seguono i balli, con un entusiasmo che si
sfilaccia piano piano mentre emergono i piccoli drammi individuali. La
compagnia è magnifica per dinamismo e aderenza fisica, le coreografie
sono impeccabili quanto è commovente il dilettantismo dei poveretti
che ce la mettono tutta, le musiche d’epoca sono maneggiate con
accattivante ironia, e insomma le due ore filate offrono quanto di
meglio e di più generoso ha saputo fare finora il teatro.
Masolino D’Amico, La Stampa
Che malattia è quando in ogni storia, in qualunque epoca sia
stata scritta, leggi in allegoria la situazione italiana di oggi? Ed
è un problema mio o un punto di forza del libro? E’ l’opera a
essere “invecchiata bene” o è la realtà a riprodursi miseranda,
stagnante (anzi, stagflattiva) e ogni volta scimmiottante se stessa?
Di certo, la riedizione del romanzo più famoso di Horace McCoy ha
un timing perfetto, da nuoto sincronizzato. Nuoto nella melma,
ovviamente. Nei recessivi anni Trenta americani, McCoy (1897-1955)
attinge alla propria biografia e racconta di illusi, derelitti e illusi
derelitti, uomini e donne provenienti da ogni dove che, per le strade
di Hollywood, mendicano spiccioli di attenzione e sovente vanno
a finir male. McCoy sa di cosa parla: già eroe della Grande Guerra,
ex-dandy finito in malora, scrittore di racconti per le riviste pulp e
sceneggiatore precario di B-movies, all’età di quarant’anni ha già
fatto il pieno di frustrazioni (proprie e altrui). Fra i mestieri assurdi
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che s’è trovato a fare, anche quello di buttafuori durante le maratone
di ballo. Proprio quel mondo ispira il libro, che Simone De Beauvoir
definirà “il primo romanzo esistenzialista apparso in America”.
Le maratone di ballo: gare di resistenza a tempo di musica, antesignane
dei futuri reality. Coppie di disperati, per un premio in denaro contante,
si sfidano a chi danza più a lungo. Si balla tutto il giorno e tutta la notte,
per intere settimane, con pause di pochi minuti per fare i bisogni,
mangiare, dormicchiare.
Il pubblico pagante si gode tutto: le acrobazie per radersi in piedi senza
smettere di muoversi a tempo, gli scontri tra volontà e membra, gli
sforzi per tener duro fino al prossimo break, lo spegnersi dell’ultima
scintilla di vita nelle gambe, gli svenimenti. Con stile asciutto e
paratattico McCoy racconta di Robert, spiantato aspirante regista, e
Gloria, che non aspira nemmeno più a fare l’attrice, è spossata per la
vita che ha condotto e ha esaurito la sua quota di sogni. I due non fanno
in tempo a presentarsi che subito, per zittire lo stomaco, decidono di
iscriversi a una maratona. Mal gliene incoglie. Sadismo, claustrofobia,
pulsione di morte: l’autore non risparmia nulla al lettore, e smuove
nella mente analogie, dejà vus, dejà foutous. Nel romanzo si agitano
molti dei fantasmi che tormentano l’oggi: crisi, precarietà, assenza
di prospettive, voyeurismo di massa, marketing senza scrupoli. Ci si
avventura persino nel dibattito bioetico, quando il libro diventa una
riflessione – più che mai discreta - sul suicidio assistito. Allude proprio
a questo il titolo originale, They shoot horses, don’t they? (“I cavalli li
uccidono, no?”). Compaiono anche i comitati di bigotti, le associazioni
per la tutela della morale, i Moige che, allora come oggi, propongono
soluzioni sbagliate (la censura codina e sessuofobica) a problemi reali
(l’invadenza dei media, la riduzione a merce di ogni aspetto della vita).
Da questo romanzo, nel 1969, Sidney Pollack trasse l’omonimo film
con Jane Fonda e Michael Sarrazin. Leggendo il libro e rivedendo
la pellicola ho pensato: cos’è il tran tran degli spossessati di sogni,
dei precari in tutto, dei proletari senza rivoluzione se non una
maratona, una gara di resistenza al suono di orchestrine da quattro
soldi, un tener duro fino al prossimo break, spuntino, sonnellino
e di nuovo in pista? La tensione è repressa, è repressa ma sale, sale
e si gonfia, finché un giorno uno scoppio non costringe l’orchestra a
fermarsi, nessuno balla più, ci si riconosce mutualmente come umani.
L’ordine verrà ristabilito, il tran tran riprenderà, ma è in quelle
interruzioni che brilla la vita. È per farne esperienza che vale la pena
tener duro. Per non finire come cavalli azzoppati.
Recensione al libro da l’Unità, marzo 2008
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GRUPPO BPER
Le attività di spettacolo e tutte le iniziative per i giovani e le scuole sono
realizzate con il contributo e la collaborazione della Fondazione Manodori
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Benemeriti dei Teatri
Vanna Belfiore, Deanna Ferretti Veroni, Corrado Spaggiari, Vando Veroni
Annalisa Pellini
Luigi Bartoli, Paola Benedetti Spaggiari, Bluezone Piscine, Franco Boni, Achille Corradini, Donata Davoli Barbieri,
Anna Fontana Boni, Mirella Gualerzi, Insieme per il Teatro, Paola Scaltriti, Gigliola Zecchi Balsamo
Davide Addona, Carlo Artioli, Maurizio Bonnici, Gianni Borghi, Andrea Capelli, Umberto Cicero, Francesca
Codeluppi, Giuseppe Cupello, Emilia Giulia Di Fava, Ennio Ferrarini, Milva Fornaciari, Giovanni Fracasso, Marica
Gherpelli, Silvia Grandi, Claudio Iemmi, Luigi Lanzi, Paolo Lusenti, Franca Manenti Valli, Silvana Manfredini,
Graziano Mazza, Clizia Meglioli, Ramona Perrone, Francesca Procaccia, Teresa Salvino, Viviana Sassi, Fulvio
Staccia, Alberto Vaccari
Stampa: Grafiche San Benedetto, Castrocielo (FR)
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