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Queste dunque le tre cose che rimangono: la
RITIRO SPIRITUALE MENSILE DELLE RELIGIOSE LA SUORA E LE VIRTU’ TEOLOGALI “ Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1 Cor 23,13) Meditazione di mons. Giuseppe Rizzo Treviso, Casa Canossiana – 18 aprile 2015 1. Abbiamo accennato nel ritiro di Quaresima alle virtù cardinali le quali, secondo un’espressione di S. Agostino, sono l’arte di attraversare il mondo da cristiani nel “tempo di mezzo”, cioè nel tempo provvisorio, quello della storia umana che aspira, anche inconsapevolmente, al compimento dell’eternità. Il tempo non ha in sé un punto di appoggio: è uno scorrere continuo, in un processo irreversibile. Non vive di sé, ma dell’anima che lo ritma, lo rallenta o lo accelera secondo i propri stati interiori e le circostanze esteriori in cui è coinvolta: ha “psicologicamente “ durata diversa un’ora trascorsa con gioia in comunità o in famiglia, rispetto ad un’ora trascorsa in coda alla Posta, o in attesa di un treno in ritardo, o in una notte di insonnia. E’ l’uomo, la sua anima, la misura del tempo: questo ci ha insegnato, con profondità, S. Agostino e l’esattezza delle sue considerazioni è insuperata ancor oggi. Attraversare il tempo è un’esperienza ascetica, cioè di fatica e rinuncia: nel tempo tutto si riceve e, nel tempo, tutto ci viene tolto. Le virtù di questa ascetica, come accennavo nel ritiro precedente, sono le virtù cardinali. La vita cristianamente vissuta è un percorso di giustizia, prudenza, fortezza, temperanza. Sono “cardinali” in quanto, come i cardini sostengono la porta e le consentono di aprire e chiudere, così queste virtù reggono la vita quotidiana. E inoltre aprono la porta alle virtù teologali, della fede, della speranza, della carità. E le virtù teologali succedono alle cardinali, cioè ne prendono il posto, come dice stupendamente Dante nella Divina Commedia, nella Cantica del Purgatorio nella quale il poeta, pellegrino smarrito spiritualmente, tormentato dalla paura, come chi si ritrova “in una selva oscura ed aspra e forte” nel triduo pasquale del 1300, giunto nel suo viaggio interiore alla montagna del Purgatorio, all’alba assiste al declinare sull’orizzonte di “quattro chiare stelle” mentre al loro posto salgono le “tre facelle”: “ E ‘l duca mio : <<Figliol, che là su guarde?>> E io a lui:<<A quelle tre facelle di che ‘ l polo di qua tutto arde>>. Ond’elli a me:”<< Le quattro chiare stelle che vedevi staman, son di là basse, e queste son salite ov’eran quelle>>”. ( Purgatorio VIII, 88-93). Ora , dopo il passaggio penitenziale attraverso il proprio “ inferno”, il poeta è pronto ad entrare in una prospettiva salvifica, illuminata appunto dalle “tre facelle”, luminose e rassicuranti: le tre virtù teologali… 2. Ecco, anche noi, entrati con la Pasqua nell’alba definitiva, nel giorno che non conosce tramonto, siamo chiamati a vivere nella luce delle “tre facelle” cioè nell’esperienza di fede-speranza-carità. Che cosa ci è capitato con la risurrezione? Siamo risorti. Lo diciamo con molta sicurezza. E con ciò intendiamo, per dirla con un significato comprensibile del verbo, che “Ci siamo alzati in piedi”. E, come i bambini che finiscono di gattonare e raggiungono, mettendosi in piedi, una nuova prospettiva, noi guadagniamo un nuovo punto di vista, scopriamo nuovi orizzonti, non più limitati al breve giro degli occhi di chi è costretto a guardare da terra. Non siamo più gli “homines curvati””, di cui parlava Agostino al suo uditorio, sconcertando gli ascoltatori i quali pensavano ad una malformazione fisica, mentre il grande dottore si riferiva a deformità morali, cioè ad una redenzione/risurrezione incompiuta in tanti cristiani che erano riusciti ad alzarsi solo a metà, apparendo perciò spiritualmente piegati in due. Se vogliamo essere radicali in questa prospettiva, diciamo che è come imparare di nuovo a vivere. Come se riuscissimo a cogliere qualcosa che finora ci era sfuggito, o che avevamo dimenticato. L’abitudine alla Pasqua infatti finisce per cancellarne la novità perenne, la sua forza rivoluzionaria. Perché proprio dalla risurrezione del Signore accolta, attualizzata, resa presente dai suoi discepoli nella celebrazione eucaristica e nella vita , si è avviata la rivoluzione “cristiana” del mondo. Se oggi questo non avviene significa che o Cristo non è risorto; oppure noi non lo abbiamo incontrato e testimoniato. Certo , se siamo chiusi dentro i piccoli orizzonti, che riguardano le questioni nostre, della nostra Congregazione; o se dubitiamo interiormente che “nulla è impossibile a Dio”, la questione è già chiusa e l’Ottavo Giorno, il giorno senza tramonto, in verità è già tramontato nella nostra anima. Ma il Signore non si stanca di chiamarci alla Pasqua, per farci discepoli e poi maestri della risurrezione. Quante religiose e religiosi sono discepoli/maestri della Pasqua e ne fanno brillare la luce in luoghi in cui la luce sembra spenta, negata, oppressa! Quante suore e frati, religiosi di ogni famiglia e carisma, si sono assunti la missione di rimuovere, per tanti poveri e dannati della terra, la pietra pesante del sepolcro!. Nella mente, nel pensiero di Dio e della sua Chiesa i religiosi, uomini e donne della Pasqua, cioè degli ultimi tempi, sono i discepoli privilegiati della Pasqua, ne sono i primogeniti. La Pasqua è la nuova “Arké”, il nuovo “In Principio…”: come all’inizio della creazione Dio trasse ogni cosa dal nulla così ora ,nell’evento misterioso della risurrezione, egli pone il nuovo e definitivo “In Principio”. Solo che il “primo nulla” da cui Dio trasse il mondo era… un nulla “ buono, puro, uno schietto nulla; il semplice non esserci nulla. Ora appare il nulla maligno: della colpa, del pervertimento, della morte, dell’assurdo, del vuoto. L’uomo decaduto gli va precipitando sopra, senza peraltro poter mai raggiungerlo… Dio è andato in traccia dell’uomo nel regno dello smarrimento, nel nulla maligno spalancato sotto l’azione dell’uomo…Iddio ha voluto far giustizia ma salvando l’uomo… In uno spirito, in un cuore, in un corpo d’uomo si opera il saldo di Dio con il peccato. Ecco l’esistenza di Gesù… Nessuno è morto così come è morto Cristo, perché egli era la stessa Vita…La sua opera gli fu troncata…, i suoi amici gli furono tolti…il suo onore distrutto… Non aveva più nulla, non era più nulla… Là, da quel nulla, è sorta la nuova creazione” (R.Guardini, Il Signore, ed. VeP, 1955, p 443 ss). Il nome vero, quasi il nome segreto della risurrezione è “nuova creazione”. 3. Fede , Speranza e Carità vengono direttamente dalla Pasqua. La Pasqua è la nuova luce, come dice diffusamente la liturgia pasquale. Le virtù teologali sono “ i colori della vita spirituale”. Noi sappiamo, la scienza ce lo dice, che i colori appartengono alla luce, non alle cose. Le virtù teologali sono il segno della presenza della luce pasquale in un’anima. Esse sono il modo, la forma, lo stile con cui lo Spirito del Risorto è presente in noi e agisce attraverso di noi. Fede- speranza-carità sono il sigillo di una Presenza. Esse cambiano in noi “la visione”, di noi stessi, degli altri, del mondo, di Dio; e ci abilitano alla “missione”. Anche i voti che avete professato sono figli della fede/speranza/carità che Dio ha posto in voi con la sua risurrezione, nella quale siamo esistenzialmente entrati col Battesimo. I voti suppongono l’acquisizione di una “visione” di se stessi, del mondo, di Dio e, insieme, maturano all’assunzione di una “missione”. Queste due parole sono abbastanza astratte e potrebbero dare l’impressione di qualcosa che è più grande di noi, inaccessibile alla nostra povertà. “La visione” va ricondotta all’evento nel quale la prospettiva della consacrazione a Dio ha cambiato il senso di tutte le relazioni che avevate; ha reso marginali e insignificanti le cose prima tanto importanti. Avete così cominciato a riorganizzare il vostro mondo interiore attorno a questo “sogno”. Avete cominciato a “vedervi” nella nuova vita. E questo “sguardo” si è trasformato lentamente, progressivamente, nell’idea di “missione” che Dio vi prospettava, normalmente facendola coincidere con ciò che vi piaceva essere e fare. Umanamente, semplicemente, si è fatta strada in voi un’idea “divina”, una presenza “divina”, cioè una prospettiva, cioè che ha la sua origine in Dio. Per questo si dicono virtù “teologali”. La Pasqua entrava nella vostra vita. La vostra vita con l’esperienza di fede, speranza, carità, prendeva progressivamente i colori della Pasqua, grazie alla sua luce. Voi capite che le virtù teologali non si aggiungono alla vita, ma sono sostanza della vita. E’ il “soffio” della vita che ci viene destinato: dall’ultimo soffio della vita terrena di Gesù sulla Croce al primo soffio della nostra nuova vita: è il passaggio dello Spirito che ha iniziato a vivere in noi già dal battesimo. Veniamo a vederle più da vicino queste “luci” pasquali. Il loro numero e la loro denominazione non sono casuali o convenzionali, ma essenziali, in quanto raggiungono e normano, cioè alimentano e guidano, tutti gli aspetti e i dinamismi di una vita cristiana secondo lo Spirito. Le tre virtù declinano in noi la presenza della Grazia, cioè del Dono, che è lo stesso Spirito Santo. Esse si innestano sui dinamismi della nostra umanità e la risanano, la elevano, la fortificano (cfr. GS 38) e la rendono capace di aspirare al Regno di Dio, cioè al senso compiuto della realtà cosmica, nella luce di Dio creatore e redentore. 4. La vita religiosa nella luce teologica della fede “Io non voglio sapere dove sei …………………………………………. Eppure sempre vado verso te, completamente nel mio andare; perché chi sono io, chi sei tu se reciprocamente noi non ci capiamo?” (R.M.Rilke, Il libro d’oro, ed. Servitium, 129). Ecco, la citazione del grande poeta tedesco, intende porre il problema della fede nella sua essenza: una interrogazione, una domanda reciproca tra Dio e l’uomo. Fede è questo: l’andare dell’uomo incontro a Dio e il venire di Dio incontro all’uomo. La fede ci fa pellegrini, il credente è sempre in viaggio, non è mai arrivato. E la fede corre tutti i rischi di una relazione che può anche non riuscire, perdersi. Nella fede non è in gioco solo l’uomo, ma anche Dio si mette in gioco e accetta di non essere conosciuto, capito; addirittura sta con l’uomo anche nello spazio della negazione. Non c’è nessuno che parla tanto di Dio, come coloro che lo negano, a tal punto che H. Boll ha potuto scrivere:” Gli atei sono noiosi, non finiscono mai di parlare di Dio!”. Noi sappiamo che lo statuto del credente, la mappa del suo viaggio , è l’Esodo, come fu vissuto dai due grandi protagonisti di questa esperienza: Abramo e Mosè. “Per fede, Abramo, chiamato da Dio, partì per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava”(Hebr 11,8). E’ detto tutto della nostra…vocazione alla fede: Abramo viene chiamato, non si inventa l’avventura; piuttosto, appena chiamato, obbedisce e parte. Ma è stupefacente, fino a rasentare l’assurdo, il fatto che “partì senza sapere dove andava”. Provate a rileggere la vostra vita, nelle sue diverse tappe e vedrete quanto essa combacia con la vicenda di Abramo. Al quale non mancarono i dubbi. Come non mancarono a Mosè, di cui lo stesso testo sacro dice:” Per fede…per fede…” cinque volte è ripetuto il ritornello. E, mentre tutto vacillava e diventava difficile e incerto, egli “rimase saldo, come se vedesse l’invisibile” (ibid.v27). Abramo e Mosè compresero che tutti i problemi si risolvevano solo sul terreno della fede. E questo è vero anche per noi: le domande sospese, le inquietudini, i cedimenti, le oscurità, in merito all’essenza dei voti di povertà, obbedienza, castità, si risolvono, onestamente, cristianamente, teologalmente, solo sul piano di una costante verifica di fede. E la Lettera agli Ebrei riassume e conclude il racconto della storia della salvezza facendola approdare a Gesù: “Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Hebr 12, 1b-2a). 5. La vita religiosa nella luce teologale della speranza La speranza è definita la sorella minore nella triade teologale, forse quella più difficilmente definibile. Nella sostanza si può raccogliere l’essenza della speranza in questo principio: “ Sperare significa attendere Dio da Dio”. Il che significa: non attendere Dio dalle cose; né attendere le cose da Dio. Questi atteggiamenti alimentano “le speranze”, “le speranzielle”, non però “la Speranza”. Piuttosto la speranza è la coraggiosa uscita dai calcoli, dalle misure umane, la scommessa spropositata: “ Lega il tuo cuore ad una stella!”, come si esprime autore. Come Abramo, a cui Jahvé chiese di cercare nelle miriadi di stelle la propria stella, assicurandolo che, alla fine, avrebbe avuto una discendenza numerosa e stupefacente come un cielo stellato.(cfr. Gen. 22,17). Le stelle obbligano a tenere lo sguardo in alto, a non rinunciare alla prospettiva di un infinito a portata di mano. Le stelle conciliano i sogni: lo si crede quando una stella cadendo entra nell’atmosfera e, per un attimo, si incendia, giusto il tempo di esprimere un desiderio, un sogno. Voi, le vostre Famiglie religiose, venite da un sogno che Dio ha posto nel cuore di fondatori e fondatrici. In loro ha sognato e Dio ha sognato la Chiesa. Bisogna stare nel sogno, bisogna vivere, raccontare e tramandare il sogno. Il sogno è una speranza ad occhi chiusi, la speranza è un sogno ad occhi aperti. La memoria collettiva , di tutti i membri della vostra Famiglia religiosa, si è riempita di questo sogno, come di una responsabilità ma, prima ancora, come di un gaudio di annunciazione. Come sono stupefacenti gli inizi! Come sono evidenti gli interventi diretti della Provvidenza! Ma le benedizioni di Dio non sono finite! Poiché Dio è colui che porta a compimento le sue opere! “ Le grazie del Signore non sono finite. Non sono esaurite le sue misericordie. Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà” (Lament 3.22-23). Ecco una bella antifona con cui aprire ogni mattina la nostra giornata! Ma il sogno non è un evento passivo e passivizzante: viene donato insieme con una grande capacità di immaginazione. Oggi, guai a noi se l’unica immaginazione che sappiamo mettere in movimento sono le statistiche! Le quali danno sempre torto al sogno e spengono l’immaginazione. 6. La vita religiosa nella luce teologale della carità. Prima di perderci nell’idea complicata della carità teologale che spesso viene rivestita di concetti, terminologie, immagini distanti dalla vita, come di paramenti sacri, vi traduco in termini concreti, con un’immagine evangelica, l’idea della carità teologale: essa è il grembiule del servizio feriale, umile, non scelto ma comandato, al nostro prossimo. Quello stesso grembiule che Gesù indossò nell’ultima Cena, per il gesto più grande, cioè e più piccolo: lavare i piedi agli apostoli. Il grembiule è l’unico paramento sacro che Gesù scelse per esprimere l’amore sino alla fine, come dice S.Giovanni (cfr. 13,1), in quella “celebrazione” che anticipava e rendeva perenne il sacrificio della Croce. Egli, con quel gesto, faceva emergere la legge profonda, la struttura portante dell’essere e dell’agire umano, come ben sintetizza il Concilio Vaticano II: “Il Verbo di Dio… l’Uomo perfetto… ci rivela che <<Dio è carità>> (1Giov. 4,8) e insieme ci insegna che la legge fondamentale dell’umana perfezione, e perciò della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della Carità” (GS 38). La carità è diffusiva: “Bonum diffusivum sui”, cioè si realizza, si compie, si manifesta, trasmettendosi. Quand’è vera, cioè attinta alla sorgente di ogni amore che è Dio, essa è transitiva: costruisce una catena infinita che aspira a congiungere all’Amore eterno, a Dio Trinità. Questa diffusività appartiene in modo eminente alla vita religiosa, in quella forma che ho chiamato, in qualche incontro con le religiose, “convivialità”: si tratta di una prospettiva non banale. Non è un invito a cena, anche se non lo esclude, ma è il far partecipi altri del segreto di questa vita religiosa. Scrive una suora, Antonietta Potente, “…per troppo tempo abbiamo trasformato questo stile di vita in uno stile non condivisibile con gli altri e quando stiamo in mezzo agli altri, lo facciamo sempre con la finalità di fare qualcosa. Uno stile che ha dimenticato di essere nato con il gusto di essere vita e niente più; sogno e prassi di spiriti liberi e cuori pensanti… La Vita religiosa deve andare e stare nel mondo per essere utile. Deve recuperare nuove forze per essere ancora più utile, senza accorgersi che nessuno le sta chiedendo di esserlo” (E’ vita ed è religiosa. Una vita religiosa per tutti, ed Paoline 2015, pp 78-79 passim). La carità, come quella di Gesù che si è incarnato per amore degli uomini, ha la passione del mondo, come il sale e il lievito hanno la passione del pane. A tal punto, e in tale misura, che in un pezzo di pane non si può più avere indietro il sale o il lievito. Essi si sono immersi, si sono spesi totalmente, senza ritorno, per il pane, si sono identificati con esso: sono il pane. E, a imitazione di Gesù, divengono pane di vita eterna. Ci congediamo con S. Paolo da questa tematica delle virtù teologali. Scrive l’apostolo:” Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma di tutte la più grande è la carità”.(1 Cor 13,13). E, aprendo il cap 14, Paolo ci esorta” Aspirate alla carità”. Che significa: Aspirate a Dio, alla sua conoscenza, all’obbedienza alla sua volontà. Aspirate a diventare testimoni della carità di Dio, anziicone della sua carità verso tutti.