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CAPITOLO 52 MATERIALI INTELLIGENTI

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CAPITOLO 52 MATERIALI INTELLIGENTI
TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01
CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
CAPITOLO
52
52 MATERIALI INTELLIGENTI
quei materiali smart che esibiscono le proprietà funzionali
opportune.
Sinossi
P
artendo dal concetto di intelligenza in senso lato si
introdurrà una particolare classe di materiali che
oltre alle intrinseche caratteristiche meccaniche,
fisiche, chimiche che contraddistinguono in genere
ciascuna tipologia di materiale, presentino delle
proprietà di carattere “funzionale”. Con il termine
funzionale si intende indicare la capacità di reagire ad
opportuni stimoli compiendo ben determinate azioni:
ad esempio un materiale magneto-strittivo sottoposto
ad un campo elettromagnetico si deforma, un
piezoelettrico sottoposto a deformazione produce una
differenza di potenziale, il germanio esposto alla luce
ne assorbe i fotoni generando corrente elettrica, altri
sono in grado di compiere più funzioni
contemporaneamente. Tutti questi materiali sono stati
raggruppati sotto il nome di Smart Materials.
Si comprende fin da subito che una questione cruciale
nella progettazione di tali strutture è la scelta dei materiali.
Si porrà quindi attenzione ai criteri che necessariamente
devono guidare nella selezione degli attuatori e trasduttori
ottimali. Non si tratta esclusivamente di operare un
confronto in termini prestazionali: fondamentale
importanza assumono i requisiti tecnologici laddove non
si può prescindere dalla conformità strutturale delle Smart
Structures nel loro complesso.
52.1 Introduzione
L
e linee di evoluzione del settore aeronautico
evidenziano il ruolo sempre più importante che va
assumendo l’innovazione tecnologica come elemento di
vantaggio competitivo. Gli operatori commerciali del
settore tendono sempre più ad evidenziare l’importanza di
alcuni fattori come il risparmio energetico, la
compatibilità ambientale, l’affidabilità, la sicurezza ed il
comfort del trasporto. Questi chiamano in causa in modo
prioritario problematiche specifiche come la riduzione
delle emissioni nocive e il contenimento dei livelli di
emissione acustica rispetto alle quali sono necessari
sensibili avanzamenti tecnologici ad esempio nelle aree
della propulsione, dell’aerodinamica e dei materiali.
D’altra parte incidono sempre più i fattori prettamente
economici, da tradurre sia in riduzione dei costi di
produzione sia di contenimento degli oneri di gestione e
Dopo una breve e sommaria classificazione di tali
materiali si parlerà poi di intelligenza connessa alle
strutture. Strutture particolari che, grazie ad una
architettura complessa, siano in grado di monitorare
l’ambiente fisico operativo, raccoglierne ed
interpretarne le informazioni per poi rispondere ai
cambiamenti dello stesso in modo appropriato ovvero
strutture dotate di un’intelligenza artificiale, che
possano percepire, sentire, attuare e reagire, adattarsi e
persino auto-ripararsi. Per assolvere questi compiti tali
Smart Structures devono essere dotate di un sistema di
sensori e di attuatori integrando al loro interno proprio
Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza
autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.
G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini
1
Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano
TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01
CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
E’ in questo contesto che si inseriscono le attività di
ricerca sulle smart structures che, inglobando al loro
interno opportune tipologie di sensori e attuatori (smart
materials), sono in grado di monitorare l’ambiente fisico
operativo (grazie ai sensori), raccoglierne ed interpretarne
le informazioni (attraverso un centro di elaborazione dati)
per poi rispondere ai cambiamenti dello stesso in modo
appropriato (con gli attuatori). In tal modo le smart
structures cercano di emulare i sistemi biologici e si
pongono l’obbiettivo di aumentare l’efficienza strutturale
esibendo proprietà funzionali senza aggravio di peso, di
costo, senza la riduzione dei livelli di affidabilità e
mantenendo inalterate, nel contempo, le elevate
prestazioni dei materiali compositi. Rispetto ai sistemi di
trasduzione e attuazione convenzionali, esse offrono
molteplici vantaggi. Sensori e attuatori sono anzitutto
protetti dagli effetti ambientali e possono essere più
facilmente collocati negli hot spots della struttura, sia per
il monitoraggio delle zone soggette a condizioni di carico
particolarmente critiche, sia per l’attuazione ed il controllo
di superfici aerodinamiche e di componenti per cui è
difficile, se non impossibile, l’accesso dall’esterno. Altra
caratteristica peculiare è quella di poter effettuare un
monitoraggio della struttura from the cradle to the grave,
ovvero a partire dalle fasi di produzione dei laminati e
fino alla messa fuori servizio dei velivoli. Oltre ad avere
strutture sempre strumentate con una conseguente
riduzione dei tempi di ispezione, questo significa avere la
possibilità di ottimizzare i processi produttivi valutando,
ad esempio, la nascita di sforzi residui o monitorando
l’infusione della resina in tecnologie quali l’RTM (Resin
Transfer Moulding) e l’RFI (Resin Film Infusion).
manutenzione corrente delle flotte, per le quali si
prospetta un incremento delle ore di volo ed una
conseguente riduzione dei tempi di sosta. Ciò
comporta sviluppi delle ricerche e delle applicazioni
orientate verso lo studio di architetture strutturali di
nuova concezione, la diffusione di metodologie di
analisi più accurate, la razionalizzazione dei metodi e
delle procedure di ispezione, l’ottimizzazione dei
processi produttivi, nonché verso l’impiego di nuovi
materiali. Sulla base di questi temi risultano
strategiche le linee di ricerca che coinvolgono i
materiali compositi e, più nello specifico, i materiali
intelligenti.
Per fronteggiare questa sfida tecnologica fondamentale
importanza assumono lo sviluppo e la messa a punto di
sistemi multifunzionali che possano consentire di
rilevare
la
difettologia
e
gli
stati
di
danneggiamento/degrado della struttura durante la sua
vita operativa, minimizzare gli effetti dovuti a
condizioni di carico inusuali, ridurre gli effetti della
fatica, compensare condizioni locali gravose, ridurre i
livelli di vibrazione. L’attenzione per tali
problematiche, che sono già di ampio interesse
indipendentemente dai materiali utilizzati, diventa a
maggior ragione prioritaria in materiali multistrato
come i compositi per i quali la meccanica del danno e
del cedimento è più complessa e per certi versi non
ancora completamente conosciuta.
A tal proposito la comunità scientifica sta sempre più
investigando differenti tipi di tecniche e di strumenti
capaci di effettuare il monitoraggio dello stato di salute
delle strutture (Structural Health Monitoring – SHM).
Il danneggiamento strutturale potrà essere individuato
e identificato per mezzo di dispositivi integrati nella
struttura stessa, in grado poi di trasmettere queste
informazioni ad un dispositivo esterno così da valutare
lo stato di degrado in tempo reale. Se efficientemente
implementate, queste metodologie potranno garantire
la sicurezza strutturale riducendo al minimo i tempi di
fermo del velivolo per le operazioni di ispezione.
Molti sforzi vengono profusi altresì nello studio del
comportamento vibro-acustico dei compositi, con il
duplice obbiettivo di definire sistemi in grado di
migliorare il comportamento a fatica delle strutture e
ridurre, nel contempo, i livelli di rumore acustico in
cabina, assicurando a passeggeri e membri degli
equipaggi elevati livelli di comfort. Altri studi sono
rivolti al miglioramento dell’efficienza dei velivoli
agendo direttamente sulla forma delle superfici
aerodinamiche così da poterne modificare la
distribuzione di portanza ed aumentare il controllo
della stabilità aeroelastica. Si parla in tal caso di
morphing delle strutture che potrà essere realizzato, ad
esempio, integrando micro-attuatori all’interno di
architetture strutturali di nuova concezione (chiral
honeycomb) in grado di esibire grandi spostamenti
mantenendo bassi i livelli di deformazione locale.
52.2 L’intelligenza
I
n generale, il concetto di intelligenza si definisce come
la capacità mentale, dovuta alle funzioni integrative e
adattative del cervello, di fornire una risposta complessa,
finalizzata ed adeguata ad una situazione nuova ed
inaspettata. Esistono in letteratura una pluralità di
definizioni con svariate sfaccettature, ciascuna che riflette
la filosofia di pensiero dello studioso che l’ha formulata.
In tutte si riconoscono, come parametri distintivi di
intelligenza, la capacità di un sistema (biologico o non) di
raccogliere informazioni dall’ambiente in cui si trova,
interpretarle e saperne trarre decisioni che possano
permettergli di adattarsi meglio ad esso, di renderlo meno
ostile, allo scopo di prolungare e migliorare la propria
“esistenza”. Questa descrizione è estremamente
confacente alle forme biologiche in senso lato: non a caso,
anche in ambito ingegneristico, esse rappresentano dei
modelli se non da imitare quanto meno da osservare per
trarne utili indicazioni.
In Giappone, tra il luglio 1987 e il novembre 1989 il
“Council for Aeronautics, Electronics, and Other
Advanced Technologies of the Science and Technology
Agency” promosse una serie di convegni internazionali
sui materiali intelligenti con l’obiettivo primario di
Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza
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raggiungere una definizione e una classificazione il più
univoca possibile degli stessi. In quella sede
l’intelligenza nei materiali fu classificata in tre
categorie:
materiali compositi innalzandone la resistenza e/o la
rigidezza in punti opportuni della struttura.
2.
Materiali con strutture/composizioni variabili.
Sono materiali che hanno in sé aspetti d’intelligenza tipici
dei materiali a proprietà variabili. Essi hanno la possibilità
di essere usati non solo come materiali strutturali, ma
anche come materiali specializzati per impianti nucleari,
aeroplani e veicoli spaziali. Questa classe include:
1.
Intelligenza
nei
materiali
a
livelli
estremamente
primitivi
cui
sono
affidate
essenzialmente tre funzioni basilari (funzione di
sensore, funzione di attuatore, funzione di processore
(inclusa la funzione di memoria));
a.
materiali la cui composizione chimica varia in
accordo con l’ambiente e le condizioni operative così da
essere in grado di decomporsi o ripristinare le proprie
caratteristiche autonomamente;
2.
Intelligenza connessa ai materiali intesa come
proprietà unica dei materiali e dunque in tal senso
indipendente da una qualsiasi valutazione umana;
3.
Intelligenza “umana” dal punto di vista delle
relazioni con l’ambiente in cui il materiale è in uso.
b.
materiali la cui struttura varia in accordo col
grado di danno dovuto a radiazione, corrosione, tensione
di rottura, così da raggiungere una resistenza molto
elevata a tali processi nocivi;
A seguito di questa classificazione dell’intelligenza
nella stessa sede fu data anche la seguente
classificazione di materiali intelligenti:
c.
materiali i cui diagrammi di fase variano in
accordo con l’ambiente affinché possano essere impiegati
in un vasto range di temperature, pressioni ecc.
1.
Materiali con proprietà variabili. Le proprietà
dei materiali variano in accordo con i cambiamenti
dell’ambiente a seconda delle condizioni operative che
si possono realizzare. Essi possono avere funzioni
intellettive incorporate, come l’auto-diagnosi, l’autoapprendimento, la previsione e la notifica, la capacità
di attendere, la capacità di riconoscere e discriminare. I
materiali con queste proprietà hanno un potenziale
futuro come materiali strutturali. Seguono alcuni
esempi:
3.
Materiali con funzioni variabili. Le funzioni di
tali materiali possono variare in conseguenza dei
cambiamenti dell’ambiente. In questo caso, i materiali
potrebbero possedere un’intelligenza incorporata con la
capacità di auto-diagnosi, di auto-apprendimento, di
previsione e di notifica, con la capacità di attendere, di
riconoscere e discriminare. Questi materiali hanno la
possibilità di essere usati come materiali elettrici, ottici ed
elettronici. Esempi di questa categoria sono:
a.
materiali la cui soglia elettrica varia in accordo
col potenziale applicato o con le condizioni di carico, così
da poter aprire e chiudere automaticamente un circuito;
a.
materiali che variano il colore della superficie
a seconda dei carichi applicati. In questo modo è
possibile evidenziare condizioni di carico gravose e
preannunciare
eventuali
e
conseguenti
danneggiamenti;
b.
materiali la cui soglia elettrica varia in accordo
col tipo di segnale e con la sua origine, così da
discriminare più segnali all’interno di un medesimo cavo
elettrico di trasmissione;
b.
materiali che modificano il proprio aspetto
morfologico a seconda del grado di danno interno
causato da deformazioni permanenti o da fenomeni di
fatica. Anche in questo caso il vantaggio che è
possibile ottenere dal loro impiego è quello di
monitorare il degrado delle loro proprietà;
c.
materiali la cui soglia ottica varia in accordo con
la lunghezza d’onda e con la quantità di luce incidente,
così da adattare la luce da trasmettere all’optimum del
campo visivo umano;
c.
materiali le cui proprietà meccaniche o
elettriche variano in accordo con l’ambiente operativo
così da facilitare il progetto e la costruzione di una
struttura; questo esempio potrebbe includere un
materiale le cui caratteristiche e proprietà, come il
comportamento alla fatica meccanica, il punto di
Curie, il punto di isteresi, ecc. potrebbero modificarsi
in funzione dei cambiamenti dell’ambiente;
d.
materiali la cui permeabilità a particolari gas
varia in accordo coi materiali circostanti così da ottenere
l’optimum di permeabilità del gas.
4.
Materiali con funzioni sistematizzate. Sono
materiali al cui interno possono svolgersi funzioni
sistematizzate, come ad esempio un trasferimento
sistematico di informazioni. Esempi:
a.
materiali circondati da sensori atti a scoprire
molte varietà di segnali contemporaneamente; i materiali
poi mandano in uscita dei segnali simili a quelli dei cinque
sensi umani;
d.
materiali le cui proprietà meccaniche e
elettriche variano in accordo con il carico applicato.
Essi possono essere utilizzati per realizzare interruttori
con contatti fissi, commutatori on-off il cui tempo di
commutazione potrebbe variare secondo il carico
applicato. Tale tipologia di materiali potrebbe essere
impiegata anche per incrementare le prestazioni dei
b.
materiali sensori in grado di modificare la propria
sensibilità ai cambiamenti circostanti;
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c.
materiali tessili in grado di adattarsi alle
condizioni ambientali in modo da ottenere comodità
nell’abbigliamento.
fotonica delle radiazioni luminose attraverso salti
energetici degli atomi del materiale cui è associato un
flusso di elettroni. Se questi materiali si mettono a
contatto con dei semiconduttori in grado di catturare
l’energia elettrica prodotta si ottiene la cella elementare di
un comune pannello fotovoltaico. A questa categoria
appartengono anche materiali (quali i piezoelettrici,
elettrostrittivi, magnetostrittivi) che oltre ad avere la
capacità di trasformare energia da una forma ad un’altra
possiedono la particolare caratteristica di essere
bidirezionali ovvero è possibile scambiare l’input
energetico con l’output. Pensando all’utilizzo degli smart
materials come sensori e attuatori di una struttura più
complessa ciò dà l’evidente vantaggio di deputare ad un
unico dispositivo sia la funzione di trasduzione sia la
funzione di attuazione. Un caso esemplificativo è quello
dei piezoelettrici che, applicati ad una superficie, possono
monitorarne lo stato di sollecitazione trasformando
l’energia di deformazione in tensione elettrica oppure,
viceversa, sono in grado di generare una sollecitazione
meccanica quando vengono attivati elettricamente (Figura
52.1).
5.
bio-materiali con funzioni di self-healing.
Sono materiali che oltre a possedere tutte le
caratteristiche proprie della categoria di intelligenza
connessa ai materiali illustrata precedentemente
consentono di ottenere sistemi auto-riparanti. Esempi
sono:
a.
biomateriali capaci di promuovere la crescita
delle ossa nel corpo umano;
b.
biomateriali capaci di sostituirsi a organi del
corpo umano;
c.
biomateriali capaci di funzionare
sistemi di distribuzione di farmaci.
come
52.3 Smart Materials e loro classificazione
I
ntelligenza e materiali intelligenti possono quindi
essere suddivisi in molteplici sottocategorie ed un
processo di catalogazione come quello appena
descritto può apparire comunque limitato e
incompleto.
L’evoluzione
esponenziale
delle
tecnologie produttive nei settori più disparati porta
inoltre alla nascita ed allo sviluppo continuo di
materiali innovativi rendendone di fatto ancor più
ardua una loro classificazione.

Input
V
Stress
Pur tuttavia, partendo dalla definizione generica di
Smart Materials secondo la quale si considera smart
ogni materiale che associ ad un input un ben
determinato output, ovvero che reagisca ad uno
stimolo manifestando una specifica risposta, è
possibile effettuare una suddivisione in due soli grandi
gruppi che, pur con qualche eccezione, identificano i
due elementi essenziali di una struttura intelligente: i
sensori e gli attuatori.
Output
F>0
Stimolo
V
Al primo di questi gruppi appartengono tutti i materiali
in grado di modificare una o più delle loro proprietà
(chimiche, termiche, meccaniche, magnetiche, ottiche,
elettriche) in risposta a variazioni delle condizioni al
contorno che possono essere sia di natura ambientale
sia direttamente introdotte da una fonte energetica. Un
esempio sono i materiali che cambiano colore in
funzione della capacità di assorbimento superficiale o
molecolare di radiazione elettromagnetica. Così i
termo-cromici
dipendono
dalla
temperatura
superficiale, i foto-cromici cambiano colore in
funzione dell’incidenza della radiazione, gli elettrocromici subiscono il campo elettrico che li attraversa.

Risposta
Strain
Figura 52.1 – Concetto di Smart Material. Esempio di
un sensore/attuatore piezoelettrico bidirezionale.
In Tabella 52.1 e Tabella 52.2 sono elencati i principali
smart materials appartenenti a questi due gruppi
limitandosi ad indicare per ciascuno le proprietà o le
forme di energia su cui è basato il loro principio di
funzionamento1.
Si può notare che sono collocati nella prima categoria
anche i materiali elettro-reologici e magneto-reologici
ovvero una particolare classe di fluidi in grado di variare
la propria viscosità (e quindi una proprietà intrinseca del
materiale) in funzione rispettivamente del campo elettrico
e magnetico a cui sono sottoposti.
I materiali che rientrano nel secondo gruppo sono
spesso chiamati anche First Law Materials in quanto si
basano su una trasformazione energetica in accordo
con la prima legge della termodinamica. Un classico
esempio è quello dei materiali fotovoltaici che, come è
noto, trasformano l’energia solare in energia elettrica.
Essi infatti sono in grado di assorbire l’energia
1
Per una descrizione dettagliata di tutti gli Smart Materials riportati
nonché per una panoramica delle principali applicazioni industriali si
rimanda all’allegato.
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Tabella 52.1 – Elenco dei principali Smart Materials il
cui principio di funzionamento è basato sul
cambiamento di una delle proprietà del materiale a
seguito di una variazione delle condizioni al contorno
agenti sullo stesso.
In base al loro principio di funzionamento essi rientrano
quindi di diritto in questo gruppo benché siano
principalmente utilizzati per l’attuazione in organi
meccanici quali freni, frizioni, assorbitori e smorzatori.
D’altro canto, come pocanzi anticipato, questa è da
considerarsi una delle rare eccezioni di un gruppo di
materiali with sensing capabilities. Analogamente, i
materiali del secondo gruppo possono essere definiti
materiali with actuation capabilities.
SMART MATERIALS: tipologia 1
TIPO
INPUT
OUTPUT
Thermo-chromic
Gradiente
termico
Variaz. di colore
Photo-chromic
Radiazione
(luce)
Variaz.di colore
Chemo-chromic
Variaz.
concentrazione
chimica
Variaz.di colore
Electro-chromic
Differenza di
potenz. elettrico
Variaz.di colore
Mechano-chromic
Deformazione
Variaz.di colore
Liquid crystal
Differenza di
potenz. elettrico
Variaz.di colore
Suspended particle
Differenza di
potenz. elettrico
Variaz.di colore
Electro-rheological
Differenza di
potenz. elettrico
Variaz.di viscosità
Magneto-rheological
Campo
magnetico
Variaz.di viscosità
Fibers Optic
Deformazione
Variaz. Di segnale
ottico
52.4 Le strutture intelligenti
Una struttura intelligente si può definire tale qualora sia in
grado di monitorare l’ambiente fisico operativo,
raccoglierne ed interpretarne le informazioni per poi
rispondere ai cambiamenti dello stesso in modo
appropriato. Per assolvere questi compiti la struttura deve
essere dotata di un sistema di sensori, di un sistema di
acquisizione ed elaborazione dati e di un sistema di
attuazione.
Centro decisionale
(cervello)
Struttura
(corpo)
Tabella 52.2 – Elenco dei principali Smart Materials il
cui principio di funzionamento è basato sulla
trasformazione di energia.
SMART MATERIALS: tipologia 2
TIPO
INPUT
OUTPUT
Thermo-luminescent
Energia termica
(T)
Emissione di luce
Photo-luminescent
Radiazione
(luce)
Emissione di luce
Chemo-luminescent
Energia chimica
Emissione di luce
Electro-luminescent
Energia elettrica
(V)
Emissione di luce
Light-emitting-diode
Energia elettrica
(V)
Emissione di luce
Photovoltaic
Radiazione
(luce)
Energia elettrica
Shape Memory Alloy
E. termica
(T)/E.
meccanica
Energia meccanica
(strain)
Piezoelectric*
Energia elettrica
(V)
Energia meccanica
(strain)
Pyroelectric*
Energia termica
(T)
Energia elettrica (V)
Thermoelectric*
Energia termica
(T)
Energia elettrica (V)
Electro-restrictive*
Energia elettrica
(V)
Energia meccanica
(strain)
Magneto-restrictive*
Energia
magnetica
Energia meccanica
(strain)
Attuatori
(muscoli)
Sensori
(nervi)
Fonte di energia
Figura 52.2 – Schema di un sistema biologico.
Osservando la Figura 52.2 appare evidente l’analogia con
le strutture biologiche capaci di adattarsi in modo efficace
alle mutevoli condizioni ambientali del loro habitat grazie
alla presenza di sensori incorporati (i nervi), attuatori
interconnessi tra loro (i muscoli) ed un processore o
centro decisionale (il cervello). Esse sono in grado di
sentire o percepire, attuare, adattarsi ed inoltre autoripararsi e replicarsi da sole. Nonostante sia chiaramente
impossibile replicare artificialmente organismi così
complessi le Smart Structures provano ugualmente ad
emularne il comportamento. L’obbiettivo è dunque quello
di ottenere componenti strutturali molto efficienti che,
associando proprietà di carattere funzionale (effetto della
presenza di trasduttori e attuatori) a prestazioni
meccaniche elevate siano capaci di minimizzare gli effetti
di condizioni di carico inusuali, ridurre i fenomeni di
fatica, compensare condizioni locali gravose, rilevare stati
di danneggiamento e degrado.
*materiali che esibiscono la caratteristica di bi direzionalità.
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
Storicamente fu l’industria aerospaziale, spinta
dall’esigenza di contenere sempre di più i costi
mantenendo nel contempo alti livelli di sicurezza
operativi, a dare un forte impulso ad una soluzione
progettuale così innovativa. Si comprende facilmente
che la realizzazione di strutture più efficienti significa
riduzione di peso in favore del carico pagante ovvero
che il monitoraggio dello stato di salute del velivolo
durante la vita operativa equivale ad un risparmio di
risorse per le ispezioni delle flotte aeree. In ambito
spaziale, laddove l’intervento dell’uomo risulta
estremamente difficile, l’impiego di strutture con
capacità di auto-diagnosi, auto-manutenzione e autoriparazione può offrire evidentemente vantaggi
incommensurabili. L’evoluzione che stanno vivendo in
questi ultimi anni le Smart Structures è guardata ora
con sempre più interesse anche da altri settori
soprattutto quelli laddove la competizione spinge verso
architetture strutturali estreme cui si richiede
prestazioni sempre più esasperate. E’ chiaro infatti che
anche la fase di progettazione di una qualsivoglia
struttura può divenire meno complessa quando si ha la
possibilità di modificarne la rigidezza, la resistenza,
persino la geometria in funzione delle condizioni al
contorno.
Benché il ruolo delle smart structures non sia ancora tale
da prevederne a breve un impiego diffuso nelle
costruzioni, l’interesse per tali strutture è testimoniato
dalla sempre crescente produzione scientifica. In
letteratura numerose sono, ad esempio, le applicazioni di
attuatori piezoelettrici per il controllo attivo delle
vibrazioni. Un efficiente controllo della stabilità
aeroelastica ed in particolare di fenomeni di flutter può
essere ottenuto sfruttando sistemi di controllo retroazionati. La stessa logica si può applicare alle strutture
spaziali. Ne è un esempio il caso HYPSEO (HYPer
spectral Satellite Earth Observation): un piccolo satellite
progettato da CGSpace il cui carico pagante è costituito da
un sistema tecnologicamente avanzato per osservazioni
iperspettrali del globo terrestre. Il sistema di
movimentazione (Attitude Control System) produce,
mediante una ruota di reazione, delle vibrazioni in un
range di frequenze da 1Hz a 500Hz che si propagano in
tutta la struttura del satellite causando un jitter indotto sul
carico pagante stesso superiore ai valori limiti consentiti
dai requisiti di missione. Questo problema fu risolto
impiegando per la ruota un supporto in lega d’allumino
accoppiato a un dispositivo di smorzamento passivo ma
estensivi studi dimostrarono che una soluzione
potenzialmente migliore è la realizzazione di un
supporto/smorzatore
attivo
basato
su
attuatori
piezoelettrici in quanto capace di ridurre i disturbi su tutto
il range di frequenze. Un’altra tipica applicazione è il
controllo attivo del rumore acustico (acoustic noise
control). In ambito elicotteristico è risaputo che il rotore
introduce in cabina alti livelli di rumore a discapito del
comfort dei passeggeri. Attuatori dinamici vengono
predisposti sugli elementi di supporto del rotore per
produrre interferenza distruttiva generando onde sonore di
eguale ampiezza ma sfasata di 180 gradi rispetto a quelle
prodotte dal rotore stesso.
La definizione di struttura intelligente pocanzi
enunciata prescinde, com’è logico che sia, dalla
modalità con cui i componenti siano connessi tra loro.
Nella sua accezione più amplia si considera smart
anche una struttura convenzionale strumentata
mediante sensori ed attuatori (ad esempio incollandoli
sulla superficie della struttura stessa). Il concetto di
laminati intelligenti si basa invece sulla possibilità di
inglobare trasduttori ed attuatori all’interno di un host
material in composito. Grazie alla sua intrinseca
eterogeneità l’utilizzo del composito consente di
effettuare l’inglobamento direttamente in fase di
laminazione2. Ciò comporta evidentemente delle
difficoltà tecnologiche aggiuntive (di cui si parlerà
ampliamente in seguito) ma consente di ottenere una
serie di benefici altrimenti irraggiungibili: si pensi alla
possibilità di avere attuazione anche in punti
inaccessibili dall’esterno; sensori ed attuatori sono in
tal modo al riparo da qualsiasi effetto ambientale che
possa alterarne il corretto funzionamento; si possono
impiegare strutture attive anche laddove vincoli
aerodinamici impediscono l’utilizzo di dispositivi
esterni; non ultimo l’inglobamento di sensori consente
di adottare tecniche from the cradle to the grave,
ovvero permette di effettuare sia il monitoraggio
tecnologico durante la produzione sia il monitoraggio
strutturale durante la vita operativa. Tramite lo stesso
set di sensori e la medesima elettronica possono così
essere rilevati sia eventuali difetti di produzione sia
danni dovuti all'utilizzo.
I velivoli ad ala rotante rappresentano per altro uno dei
principali campi di interesse delle Smart Structures. I
componenti strutturalmente più significativi (mozzo e
pale) sono infatti realizzati con i materiali compositi; nel
contempo la variabilità dell'ambiente operativo (livelli
estremi di temperatura e umidità), la tipologia dei carichi
di progetto (statici, fatica) ed accidentali (dinamica, crash,
balistica), la necessità di non alterare altre funzionalità
(aerodinamica), l'obbligo di contenere massa e volume dei
sensori e dell'elettronica di acquisizione-controllo e, non
ultimo,
l'esasperata
convenienza
di
gestire
contemporaneamente numerosi segnali (multiplexing) ben
motivano la scelta di adottare sensori ed attuatori
inglobati. E non a caso aziende leader del settore spingono
sempre più in questa direzione. Fra tutti possono essere
menzionati lo studio avviato dall’AgustaWestland per
l’Health Monitoring di pale di elicottero mediante sensori
a fibra ottica inglobati e quello di Eurocopter sull’Active
Rotor Twist Blades mediante attuatori PZT.
2
Laminazione: è la fase di deposizione delle lamine che
costituiscono un laminato in composito.
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quindi che il materiale dei sensori/attuatori abbia
caratteristiche meccaniche in grado di sopportare
sollecitazioni di carico gravose e che sia tale da garantire
un’adesione della matrice del composito paragonabile a
quella che si ottiene fra le lamine dello stesso.
52.5 La scelta dei materiali: requisiti
tecnologici e funzionali
Nella progettazione di una struttura o, più
semplicemente, di un singolo componente strutturale
un passo fondamentale ed obbligato è costituito dalla
scelta dei materiali. È necessario innanzitutto
analizzare in dettaglio le condizioni al contorno, dai
carichi alle condizioni ambientali operative. La scelta
influenza ed è influenzata anche da una serie di altri
fattori quali le tecnologie produttive, le tecniche di
collegamento, i costi, l’impatto ambientale ed altro
ancora. Fattori dai quali non si può prescindere e che,
nell’insieme, costituiscono i requisiti di progetto.
Benché al livello di sviluppo attuale non sia possibile
dettare rigorosamente i requisiti di progetto di una
struttura intelligente, nel corso della presente attività di
ricerca sono emersi alcuni aspetti fondamentali di cui è
importante tener conto già a livello della scelta di
sensori, attuatori ed host materials. Partendo da questi
aspetti, che verranno affrontati in dettaglio nei capitoli
successivi, si vuole qui definire dei criteri di scelta che
possano guidare il progetto preliminare di una Smart
Structure.
Quest’ultimo aspetto assume un’importanza cruciale
perché dalle prestazioni dell’interfaccia dipendono
fortemente non solo le prestazioni meccaniche della
struttura ma anche e soprattutto le sue caratteristiche
funzionali. L’accuratezza della misura dei sensori ed il
livello di autorità degli attuatori non possono prescindere
infatti dalla load transfer capability, la capacità di
trasferimento dei carichi da e verso il materiale ospite. E’
fondamentale quindi che la loro superficie sia adeguata a
promuovere un’adesione che preferibilmente non sia di
natura esclusivamente meccanica (dipendente dalla
rugosità superficiale). Un incremento delle prestazioni
dell’interfaccia può essere ottenuto laddove si riesca a
ingenerare con la matrice un vero e proprio legame
chimico durante il processo di polimerizzazione.
Non si può poi prescindere dalle tecniche di inglobamento
alle quali si richiede che non rendano ancora più critici
tutti questi aspetti. L’esigenza di isolare elettricamente i
due elettrodi di un attuatore piezoelettrico inglobato in un
materiale conduttivo (quale è il carbonio) oppure quella di
proteggere le fibre ottiche nella zona di uscita dai laminati
sono due esempi che possono aiutare a comprendere
meglio questo concetto. In entrambi i casi le tecniche di
inglobamento comportano l’adozione di un elemento
aggiuntivo, rispettivamente una patch di materiale isolante
e una guaina protettiva che vanno anch’esse inglobate. Un
tecnologo potrebbe dire che “si è introdotta una potenziale
difettosità attraverso l’introduzione di una seconda
potenziale difettosità”. Benché una simile affermazione
possa apparire esagerata non va dubbio che l’invasività di
sensori e attuatori è, e continuerà ad esserlo anche nel
prossimo futuro, un punto cruciale nello sviluppo delle
Smart Structures. Tornando a parlare della scelta dei
materiali si comprende quindi l’importanza di operare una
selezione che, in qualche modo, possa facilitare e
assecondare lo sviluppo di tecniche di inglobamento
efficaci e poco invasive.
52.5.1 I requisiti tecnologici
Focalizzando l’attenzione sulle Smart Structures intese
come strutture che inglobano sensori ed attuatori si
può innanzitutto osservare che la scelta dei materiali
compositi, come pocanzi accennato, appare come la
più naturale. Per di più che i laminati in fibra di
carbonio o vetro sono materiali altamente prestanti in
termini di rigidezza e resistenza specifiche, di
tolleranza al danno, di resistenza alla corrosione e di
una serie di proprietà che incontrano i requisiti delle
moderne costruzioni aeronautiche e spaziali.
Ciò detto, non va dubbio che sensori e attuatori,
comunque essi siano inglobati, introducano delle
discontinuità nel materiale (sacche di resina, variazioni
di spessore) e costituiscano essi stessi una
discontinuità che, al pari di un difetto qualsiasi, può
degradare le caratteristiche meccaniche dello stesso
finanche ad innescare l’enucleazione di un danno. Per
ridurne l’invasività, primaria importanza assumono la
forma e le dimensioni dei sensori/attuatori: è
ragionevole supporre che elementi filiformi con
diametro tale da poter essere inglobati direttamente a
livello della singola lamina siano meno invasivi di altri
per il cui inglobamento sia necessario operare un cutout della lamina stessa. Fermo restando quanto appena
detto il discorso sull’invasività è tuttavia ben più
complesso. Un difetto può propagare infatti
indipendentemente dalle sue dimensioni iniziali e le
cause possono essere molteplici: possono intervenire
rotture in seno al sensore/attuatore oppure
all’interfaccia con il materiale ospite; le rotture
possono essere dovute a carichi esogeni o endogeni
oppure alla combinazione di entrambi. E’ necessario
Vi è infine la questione legata alle tecnologie produttive.
L’uso di materiali compositi con qualificazione
aeronautica o spaziale richiede cicli tecnologici ad alte
temperature (tipicamente 130÷170°C) che possono
comportare problemi di compatibilità termo-elastica fra i
sensori/attuatori ed il materiale ospite. Ciò deve
indirizzare verso componenti la cui integrità e funzionalità
non venga compromessa durante i cicli di produzione ma
che, nel contempo, abbiano temperature operative
sufficientemente
basse
da
non
danneggiare
(all’attivazione) la matrice polimerica dell’host material.
Forma,
dimensioni,
tecniche
di
inglobamento,
compatibilità con i cicli produttivi sono dunque aspetti
cruciali nella scelta dei materiali. Il completo
soddisfacimento di questi requisiti tecnologici è una
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condizione essenziale per l’ottenimento di strutture
affidabili e sicure, che possiedano caratteristiche
meccaniche elevate e che garantiscano un buon
comportamento a fatica, che siano, in sintesi,
strutturalmente conformi alle strutture convenzionali.
Tutto ciò però non basta. L’essenza delle Smart
Structures rimangono quelle proprietà funzionali che
hanno motivato e che spingono la ricerca scientifica al
loro sviluppo. Proprietà funzionali che devono sempre
essere considerate in ciascuna fase della progettazione
e che quindi giocano un ruolo importante anche nella
scelta dei materiali. Di questi requisiti funzionali si
parlerà nel paragrafo seguente.
modalità diverse, più sensori. I dati provenienti dal
sistema sensore devono essere interpretati ed elaborati al
fine di rappresentare lo stato in cui la struttura si trova e
fornire i comandi al sistema di controllo. Spesso i dati in
ingresso sono sovrabbondanti e complessi, il che rende
necessaria una procedura di riduzione o di selezione degli
stessi. Da ciò risulta evidente l’importanza di una scelta
oculata nel posizionamento dei sensori, collegata anche ad
una buona conoscenza preventiva delle proprietà della
struttura.
Come i sensori, gli attuatori ideali devono avere il minor
peso possibile, essere relativamente non intrusivi e avere
il minor effetto possibile sulla dinamica del sistema. Il
meccanismo di azione dell’attuatore deve essere adeguato
all’applicazione: per esempio in molte applicazioni
aerospaziali oppure nel settore automotive si richiedono
attuatori dal basso peso e con risposte su una larga banda
di frequenze mentre nella progettazione di stabilizzatori
per macchinari industriali sono richiesti attuatori in grado
di fornire grandi deformazioni senza limitazioni troppo
restrittive sulle frequenze d’attuazione. E’ inoltre
fondamentale che gli attuatori siano rapidi tanto da
rispondere con minimi ritardi di tempo per non
destabilizzare il sistema. Spesso gli attuatori sono
sottoposti ad elevati campi elettrici oppure a forti carichi
meccanici indotti dalla struttura ospite (ad esempio sforzi
di trazione elevati a causa della forza centrifuga sulle pale
di un rotore). In tali condizioni il materiale piezoelettrico,
ad esempio, mostra un comportamento fortemente non
lineare; di conseguenza, per sviluppare un efficiente
sistema strutturale con attuatori piezoceramici, è
necessario prevedere la risposta degli attuatori in termini
di ampiezza e fase della deformazione indotta; la potenza
assorbita; l’integrità degli stessi sotto differenti eccitazioni
e livelli di carico. La potenza elettrica richiesta da tutti gli
attuatori dipende dalla deformazione da indurre, dalla
frequenza alla quale deve essere sottoposta la struttura e
dalla temperatura di funzionamento. Devono essere tenute
in considerazione anche l’efficienza e la stabilità del
materiale quando esso è sottoposto a tensioni di
funzionamento polari e bipolari, oppure la sua resistenza
alla depolarizzazione.
52.5.2 I requisiti funzionali
La scelta della tipologia, della quantità e della
posizione di sensori e attuatori all’interno di una
struttura dipende innanzitutto dall’applicazione per la
quale la struttura è progettata e le soluzioni ottimali
vanno ricercate e valutate volta per volta
contestualmente alle strategie di monitoraggio e di
attuazione che si intendono adottare. E’ possibile
tuttavia fare alcune considerazioni di carattere
generale.
Lo scopo dei sensori è quello di monitorare la risposta
del sistema compatibilmente con le leggi di controllo
fornendo misurazioni utili a ricostruire lo stato del
sistema stesso. A prescindere dal tipo di grandezza che
si intende misurare, siano esse misure meccaniche
(carichi, deformazioni, vibrazioni, ecc), termiche (per
individuare i gradienti di temperatura) o misure
chimiche (per l’analisi di fenomeni quali la corrosione
e la erosione) è fondamentale effettuare sempre
un’indagine preliminare per configurare una griglia di
sensori che, opportunamente posizionata, provochi le
minori variazioni possibili alla dinamica della struttura
in esame. Un errato posizionamento può inoltre portare
alla difficoltà di lettura dei dati o alla lettura di dati
non interessanti. Le diverse tipologie di sensori
possono suddividersi in due principali categorie:
sensori locali, e sensori distribuiti. Un sensore locale
misura un particolare parametro in un punto definito
dalla sua posizione. Il valore puntuale misurato risulta
quindi attendibile quando si ritiene sufficientemente
regolare il campo di indagine. Un sensore distribuito
viceversa permette la misura del parametro di interesse
lungo la sua stessa geometria. Sensori di questo genere
sono in grado di coprire, tramite opportune griglie di
posizionamento, superfici molto ampie. Essi non sono
generalmente in grado di fornire valori puntuali. Pur
tuttavia, tramite un’analisi dei dati forniti, è possibile
ottenere un andamento qualitativo e a volte anche
quantitativo dei parametri di interesse lungo la
struttura in esame. La presenza di un elevato numero
di sensori porta inevitabilmente alla necessità di
organizzarli in un sistema multiplexing dotato della
capacità di interrogare contemporaneamente, con
Per offrire un’efficienza ottimale è necessario che anche le
leggi di controllo siano messe a punto in modo da
accordarsi perfettamente ai sensori e agli attuatori con cui
devono operare, tenendo conto di fattori come
discontinuità nelle rilevazioni dei sensori, non linearità del
fenomeno, fenomeni di isteresi, e altre proprietà degli
smart materials in modo da ottenere le prestazioni
desiderate.
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ottica geometrica. La riflessione è il fenomeno per cui un
fascio di luce che colpisce una superficie di separazione
tra due mezzi prosegue in parte il suo percorso,
deviandolo oltre la superficie, e in parte torna nella
direzione di provenienza. In particolare, con riferimento
alla Figura 52.4-a, detto I l’angolo di incidenza del
raggio luminoso e detto R l’angolo formato dal raggio
riflesso con la normale alla superficie, si ha che I = R.
52.6 Principio di funzionamento di sensori
e attuatori
52.6.1 Fibre Ottiche
La fibra ottica è una particolare struttura capace di
fornire un’opportuna guida d’onda alla luce:
vincolando il segnale luminoso a seguire un
determinato percorso ne limita le perdite di potenza
consentendone la trasmissione a lunga distanza.
Generalmente costituite di materiale vetroso o
polimerico le fibre ottiche hanno una struttura
coassiale, come si può osservare in Figura 52.3.
(a)
Figura 52.3 – Struttura concentrica di una tipica fibra
ottica.
Al centro vi è un filamento a sezione circolare detto
core, del diametro tipico di 8µm per la fibra monomodale3 e 50÷62,5µm per quelle multi-modali4.
Attorno ad esso vi è uno strato chiamato cladding, del
diametro esterno di 125µm. Core e cladding
costituiscono la guida d’onda vera e propria e si
differenziano per avere indice di rifrazione
leggermente diverso: il cladding deve avere un indice
di rifrazione minore (n0 = 1, 475) rispetto al core (n0
= 1, 5). Per offrire una maggiore resistenza e
protezione alla fibra, in fase di realizzazione viene
aggiunto uno strato detto buffer o coating, di spessore
variabile dai 7µm per i rivestimenti in poli-imide ai
75µm per quelli in poli-acrilato.
(b)
Figura 52.4 – Rappresentazione del principio di
funzionamento della fibra ottica.
Chiamando T l’angolo formato dal raggio trasmesso o
rifratto con la normale alla superficie, secondo la legge di
Snell, si ha che
52.6.1.1 Principio di funzionamento
La fibra ottica si comporta come un conduttore che
confina la luce al suo interno attraverso il fenomeno
della riflessione totale, descrivibile con un modello di
(
3
)
(
)
(52.1)
dove n1 e n2 sono i rispettivi indici di rifrazione dei due
mezzi.
La fibra mono-modale permette la trasmissione di un solo raggio
luminoso o modo di propagazione al suo interno, poichè grazie al
diametro ridotto del core, circa 9µm, e alla riflessione totale su di un
diametro cosi ridotto si ottiene una propagazione del raggio
luminoso all’interno di fatto quasi rettilinea (mono-modo o singlemode). Tale fibra permette di ottenere delle dispersioni cromatiche
molto limitate e quindi garantisce le più elevate caratteristiche di
trasmissione.
4
Le fibre multi-modali permettono la trasmissione di centinaia di
modi di propagazione.
La riflessione totale avviene quando l’angolo T raggiunge
l’ampiezza di /2, cioè se non esiste più onda rifratta.
Questo fenomeno può avvenire nel passaggio da un mezzo
più denso a uno meno denso (quando n1 > n2); l’angolo T
tale per cui non esiste onda rifratta è detto angolo critico:
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( )
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vantaggi fra i quali si sottolineano la bassa attenuazione
del segnale trasmesso, la capacità di veicolare
informazioni ad alta velocità, la capacità di multiplexare le
informazioni sulla stessa fibra, l’immunità da interferenze
elettromagnetiche, l’alta resistenza elettrica, il peso e
l’ingombro ridotti, la bassa potenza contenuta nei segnali
e non ultima l’ottima resistenza a condizioni climatiche
avverse.
(52.2)
Quando crit non appare alcun raggio rifratto,
quindi la luce incidente subisce una riflessione interna
totale ad opera dell’interfaccia. Si genera un’onda di
superficie, onda evanescente (leaky wave), che decade
esponenzialmente all’interno del mezzo con indice di
rifrazione n2, il cladding, nel caso delle fibre ottiche.
Nelle comunicazioni ottiche, lo spettro viene normalmente
descritto in funzione della sua lunghezza d’onda, piuttosto
che della sua frequenza (anche se le due informazioni
sono intercambiabili). Combinando i diversi fenomeni di
attenuazione, rifrazione e dispersione vi sono tre finestre
spettrali, rappresentate in Figura 52.6, particolarmente
adatte all’uso nelle telecomunicazioni:
In Figura 52.4-b sono rappresentati due raggi luminosi
che incidono l’interfaccia tra core e cladding
all’interno della fibra ottica. Il fascio A incide con un
angolo A superiore a crit e rimane intrappolato nel
core ossia è totalmente riflesso mentre il fascio B
incide con un angolo B minore di crit, viene pertanto
rifratto nel cladding e perso. Si capisce quindi che
solamente i fasci luminosi entranti nella fibra
all’interno del cosiddetto cono di accettazione riescono
a percorrerla (Figura 52.5).
PRIMA FINESTRA: 850nm, molto usata nei laser a diodo
con luce multimodale, permette di realizzare collegamenti
fino a poche centinaia di metri.
SECONDA FINESTRA: 1310nm, usata con laser
multimodali o monomodali, permette la realizzazione di
collegamenti dell’ordine dei 5-10km.
TERZA FINESTRA: 1550nm, usata con laser
monomodali, permette di coprire le distanze maggiori,
compresi collegamenti superiori ai 100km.
(a)
Figura 52.6 – Finestre di utilizzo della fibra ottica.
(b)
Figura 52.5 – Legame tra l’angolo di accettazione (a),
la propagazione e l’intensità della luce all’interno di
una fibra ottica (b).
52.6.1.2 Sensori a reticolo di Bragg
I sensori a reticolo di Bragg o FBG (Fiber Bragg
Gratings) sono sensori intrinseci a modulazione spettrale
capaci di misurare diverse grandezze fisiche tra cui
deformazione e temperatura. In un sensore intrinseco il
parametro fisico da misurare interagisce direttamente con
la fibra ottica e modifica le caratteristiche della luce che
rimane sempre confinata all’interno della fibra. In un
sensore di tipo spettrale l’interazione del sensore con la
grandezza da misurare modula la distribuzione spettrale
dell’intensità della luce. I sensori a reticolo di Bragg sono
dei particolari sensori inscritti all’interno di una fibra
ottica opportunamente drogata per renderla fotosensibile.
La particolarità di questa fibra è la capacità di poter
modificare il valore locale dell’indice di rifrazione del
Ciò porta a dei limiti nell’utilizzo della fibra stessa che
non può essere sottoposta ad angoli di curvatura troppo
stretti pena la fuoriuscita parziale o totale del fascio
luminoso dal cladding.
L’impiego diffuso di fibre ottiche iniziò dopo la
seconda guerra mondiale per costruire una rete di
comunicazione che fosse immune alle interferenze
elettromagnetiche e quindi potesse essere usata anche
a seguito di un’esplosione nucleare. Oggi costituiscono
la struttura portante delle principali arterie di
telecomunicazione grazie ad una serie molteplice di
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della luce ad una specifica lunghezza d’onda, B. Lo
spettro di riflessione si ottiene sommando i contributi di
ogni singola frangia, che nel caso siano tutte uguali
restituisce uno spettro che presenta un picco centrato a B.
core attraverso l’esposizione dello stesso ad
un’opportuna fonte di energia, come può essere un
fascio di luce laser. Modulando in maniera appropriata
la sorgente laser è possibile inscrivere nel core un
reticolo costituito da una serie di frange aventi un
indice di rifrazione differente.
Figura 52.8 – Riflessione delle frange di un reticolo di
Bragg.
Ogni effetto che provoca una variazione della lunghezza
L, del periodo  o dell’indice di rifrazione neff del reticolo
determina un mutamento della lunghezza d’onda di Bragg
e quindi può essere misurato. Misurando la variazione
della B dello spettro, come mostrato in Figura 52.9, si
risale alla misura della grandezza osservata attraverso
opportune costanti foto-termo elastiche.
Figura 52.7 – Reticolo di Bragg a spaziatura uniforme.
Nel caso in cui la sollecitazione sia uniforme su tutto il
reticolo si osserva che lo spettro di riflessione manifesta
una traslazione rigida lungo l’asse delle lunghezze d’onda,
(Figura 52.10-a). Nel caso di misura di deformazioni
meccaniche si ha uno spostamento verso le lunghezze
d’onda maggiori nel caso di sollecitazione a trazione e
viceversa verso le lunghezze d’onda inferiori nel caso di
compressione. Analogamente avviene anche per le misure
di temperatura. Nel caso la sollecitazione presenti un
andamento lineare lungo il reticolo si osserva un aumento
della larghezza dello spettro e una riduzione del suo valore
di picco, come mostrato in Figura 52.10-b.
Il dispositivo si comporta da filtro ottico in
trasmissione e da riflettore selettivo della lunghezza
d’onda  in riflessione. La variazione dell’indice di
rifrazione core altera infatti il percorso ottico del fascio
luminoso consentendo solo ad una parte della luce
attraversare il reticolo mentre la restante parte viene
riflessa. Lo spettro di riflessione presenta delle
caratteristiche ben specifiche, che sono legate alla
struttura del reticolo, in particolar modo alla
periodicità e all’intensità di modulazione dell’indice di
rifrazione delle sue frange. I parametri che
caratterizzano ogni FBG sono:
 periodo del reticolo;
L lunghezza del reticolo;
neff indice di rifrazione efficace del reticolo;
B lunghezza d’onda di Bragg;
n variazione dell’indice di rifrazione del reticolo;
R riflettività del reticolo R = tanh2 (kL);
k parametro di modulazione k = n/B.
L’equazione fondamentale per l’utilizzo degli FBG è
quella di Bragg, che lega la spaziatura del reticolo e la
lunghezza d’onda centrale dello spettro riflesso,
chiamata lunghezza d’onda di Bragg B, definita come
segue:
Figura 52.9 – Variazione dello spettro di riflessione di
un reticolo FBG sottoposto a una sollecitazione
uniforme. La misura della B permette di ricavare
l’entità della sollecitazione attraverso il legame fotoelastico.
(52.3)
Come si può osservare in Figura 52.8 ogni coppia di
frange del reticolo riflette una piccola percentuale
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 La misura del solo  fornisce quindi una
valutazione del valore medio della grandezza in
esame lungo il sensore. Nel caso di sollecitazione
arbitraria lo spettro può subire notevoli
deformazioni (Figura 52.10-c), presentando anche
sdoppiamenti del picco, e la lunghezza d’onda
associata al picco dello spettro non è sufficiente a
determinare neanche il valore medio della
grandezza osservata.
 è possibile ottenere sia sistemi di misura quasipuntuali sia quasi-distribuiti;
 un reticolo FBG può funzionare come trasduttore di
temperatura, deformazione o altre grandezze;
elevata sensibilità.
52.6.1.3
Caratteristiche geometrico-ottiche del reticolo
di Bragg
La risposta di un reticolo di Bragg è fortemente legata alla
sua struttura ed in particolar modo alla sua lunghezza, alla
sua spaziatura e alla sua apodizzazione, caratteristiche che
sono ottenute durante la fase di produzione del sensore. La
prima determina l’estensione la zona sensibile della fibra
ottica, la seconda riguarda la successione geometrica delle
diverse frange, mentre la terza determina il profilo di
variazione dell’indice di rifrazione.
Lunghezza
La lunghezza del reticolo determina le dimensioni della
zona sensibile della fibra ottica, la tipologia ed il campo di
utilizzo del sensore. Esistono reticoli con lunghezze
comprese in un range di 2÷50mm; quelli più corti sono
più adatti ad una misurazione puntuale della grandezza in
esame specie su oggetti di piccole dimensioni, mentre
quelli più lunghi permettono di mediare la misura su una
maggiore lunghezza. Oltre alle dimensioni che dipendono
da ciò che si deve misurare, bisogna tenere in
considerazione che, a parità di modulazione dell’indice di
rifrazione sulle singole frange, un reticolo più lungo
garantisce una maggiore riflettività ed uno spettro
migliore, ossia con un picco ben marcato e facilmente
identificabile, come mostrato in Figura 52.11.
Figura 52.10 – Variazioni dello spettro di riflessione di
un reticolo soggetto a deformazioni che presentano
diversi andamenti ma uguale valore di deformazione
media, pari a 2000µ.
Il sensore di Bragg permette quindi di ricavare sia
informazioni quantitative che qualitative della
grandezza misurata. Oltre alle già citate proprietà delle
fibre ottiche, i sensori a reticolo di Bragg si
distinguono per una serie di caratteristiche:
 la B ha un andamento lineare rispetto alle
sollecitazioni termiche e meccaniche in un ampio
range di misura;
 la grandezza misurata è codificata attraverso lo
spettro e il sensore risulta quindi non affetto da
disturbi esterni o perdite di potenza;
Figura 52.11 – Spettri di reticoli uniformi e non
anodizzati di diversa lunghezza.
 i sensori in fibra ottica hanno dimensioni limitate e
possono essere inglobati all’interno di una struttura
in materiale composito;
Si può osservare in Figura 2.10-a come all’aumentare
della lunghezza del reticolo aumenti il valore di picco
della riflettività fino ad arrivare alla riflessione completa
della luce avente lunghezza d’onda pari alla lunghezza
d’onda di Bragg  e di un suo ristretto intorno.
Un’ulteriore osservazione riguarda l’ampiezza dello
spettro che al contrario della riflettività tende a diminuire
 è possibile inserire sulla stessa fibra ottica più di un
reticolo alla volta attraverso le diverse tecniche di
multiplexing;
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all’aumentare della lunghezza del reticolo fino a
raggiungere un valore asintotico, come mostrato in
Figura 52.12-b.
danno luogo ad uno spettro di riflessione di tipo allargato
in quanto, a differenza dei reticoli uniforme, ogni frangia i
ha un periodo i diverso e quindi riflette la luce ad una
differente lunghezza d’onda Bi . La somma dei contributi
di riflessione di tutte le frange restituisce uno spettro a
banda larga, come mostrato in Figura 52.14-b.
Una caratteristica unica di questi reticoli nell’ambito
sensoristico è la possibilità di associare una perturbazione
in un preciso punto dello spettro ad una perturbazione (sia
termica che meccanica) in un punto preciso del reticolo.
Esiste quindi una relazione bi-univoca tra la posizione
geometrica di un punto sullo spettro e sul reticolo. Lo
spettro di riflessione può essere espresso in funzione della
posizione lungo il reticolo. Tipicamente i reticoli chirpati
hanno una lunghezza di 30÷50mm e riflettono uno spettro
con un’ampiezza di circa 4,5÷5nm. Le caratteristiche dei
reticoli chirpati permettono di usarli come sensori capaci
di misurare sia le variazioni medie sull’intera lunghezza
del reticolo che individuare possibili danneggiamenti
localizzati in uno o più punti dello stesso. A livello
operativo bisogna ricordare la notevole differenza di costo
tra le due tipologie di reticoli. I reticoli chirpati costano
circa 10 volte quelli uniformi a causa della loro struttura
più complessa e della maggiore lunghezza.
Figura 52.12 – Andamento della potenza riflessa e
dell’ampiezza dello spettro al variare della lunghezza di
un reticolo standard.
Spaziatura
Esistono diverse tipologie di reticoli di Bragg che si
differenziano per la disposizione geometrica delle
frange. Le geometrie maggiormente usate in ambito
sensori stico sono quelle del reticolo uniforme e di
quello chirpato.
Apodizzazione
Lo spettro di riflessione di un reticolo di Bragg di
lunghezza finita e con le frange aventi tutte lo stesso
indice di rifrazione genera uno spettro di riflessione che
presenta un picco centrale associato ad una serie di lobi
laterali. Per migliorare la lettura dello spettro e di
conseguenza la bontà della misura è fondamentale ridurre
tali lobi il più possibile eliminando la riflettività alle
lunghezze d’onda esterne a quelle del picco principale. Per
fare ciò si ricorre all’uso di particolari reticoli, detti
apodizzati, che presentano una variazione della
modulazione dell’indice di rifrazione lungo il reticolo.
Figura 52.13 – Geometria (a) e spettro (b) di un FBG a
reticolo uniforme.
Il reticolo uniforme presenta una costante periodicità
delle frange di interferenza, definita attraverso la
relazione di Bragg. Questa uniformità permette alle
singole frange di riflettere la luce alla stessa lunghezza
d’onda e quindi di ottenere uno spettro molto stretto
centrato in corrispondenza della B, come si vede dalla
Figura 52.13.
Figura 52.15 – Confronto tra lo spettro di un reticolo
FBG non apodizzato ed uno apodizzato.
52.6.1.4 Tecniche di multiplexing
L’utilizzo della fibra ottica permette di utilizzare più
sensori sullo stesso canale di acquisizione sfruttando le
diverse possibilità di multiplexing offerte dai sistemi
ottici. I principali metodi di multiplexing ottico si basano
sulla suddivisione dei segnali associati ai singoli canali
attraverso una diversificazione della lunghezza d’onda,
Figura 52.14 – Geometria (a) e spettro (b) di un FBG a
reticolo Chirpato.
Un reticolo chirpato presenta una variazione monotona
delle sue caratteristiche, come mostrato in Figura
52.14-a e può essere ottenuto sia modificando la
spaziatura  delle singole frange che la variazione
dell’indice di rifrazione del core n. I reticoli chirpati
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Wavelength Division Multiplexing (WDM), o del
tempo, Time Division Multiplexing (TDM).
sistema è possibile acquisire un numero limitato di
reticoli.
Wavelength Division Multiplexing (WDM)
La più semplice tecnica di multiplexing dei sensori
FBG si basa sulla suddivisione dei reticoli in base alla
differente B di ognuno e alla possibilità di suddividere
lo spettro della sorgente luminosa in opportune
finestre. Su un’unica fibra ottica vengono foto-incisi in
successione diversi reticoli ognuno dei quali ha una
propria periodicità  e una B associata che differisce
da un reticolo all’altro. Lavorando nel campo delle
lunghezze d’onda la spaziatura tra i diversi reticoli può
essere scelta a piacimento, all’interno dello spettro
della sorgente luminosa. In Figura 52.16 è mostrato il
classico schema WDM in cui un array di reticoli FBG
è scritto su un’unica fibra e illuminato con una
sorgente laser a banda larga. I segnali ottici riflessi dai
singoli reticoli sono inviati al sistema di rilevamento
WDM . Tra i possibili metodi di separazione del
segnale WDM vi è la suddivisione dell’intero spettro
luminoso in finestre di osservazione tramite opportuni
filtri ottici di tipo passabanda. Ad ogni finestra è
associato un singolo reticolo, la cui  ricade
all’interno della finestra di osservazione, e un
interrogatore ottico.
(a)
Figura 52.16 – Schema di un sistema di misura
Wavelength Division Multiplexing.
(b)
Solitamente si usa un sistema di interrogazione
simultanea in parallelo di tutti i sensori WDM, come
mostrato in Figura 2.15-a. Si usa uno splitter ottico
1xNfibre per suddividere lo spettro di riflessione negli
N reticoli monitorati. Nello schema in parallelo ogni
foto-rilevatore riceve solo 1/2N della potenza ottica a
causa dell’uso dello splitter 1xN e degli N coupler,
richiedendo quindi una notevole potenza luminosa
erogata dalla sorgente. Un migliore sfruttamento della
potenza luminosa rispetto allo schema in parallelo si
ha con lo schema in serie, mostrato in Figura 2.15-b.
La maggiore riduzione di potenza si ha a causa degli N
coupler necessari, ma grazie all’eliminazione dello
splitter 1xN si ha un risparmio di 6dB sulla potenza
ottica richiesta alla sorgente.
Figura 52.17 – Schema in parallelo (a) ed in serie (b)
per il de-multiplexing di sistemi WDM.
Time Division Multiplexing (TDM)
Nello schema TDM, mostrato in Figura 52.18, si usa una
sorgente laser di tipo pulsato e questo permette di
acquisire gli impulsi di riflessione dei diversi reticoli in
tempi diversi. L’intervallo temporale di acquisizione tra
un segnale e l’altro è determinato dalla distanza tra i vari
reticoli. La durata dell’impulso della sorgente deve avere
una lunghezza inferiore o pari alla distanza tra i diversi
sensori. Gli impulsi riflessi da ogni reticolo sono separati
nel tempo e vengono elaborati da un interferometro di tipo
Mach-Zender che misura la variazione di lunghezza
d’onda B.
Il vantaggio di uno schema WDM è la possibilità di
acquisizione in continuo e contemporanea di tutti i
reticoli indipendentemente dalla distanza tra di essi
all’interno della fibra ottica. Di contro con questo
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dell’effetto delle precipitazioni che induriscono la matrice
metallica. Tipicamente la deformazione pseudoelastica
recuperabile per questo materiale è stata misurata da
Saburi (1986) ed è dell’ordine del 8%.
Alla base del comportamento di tutte le leghe a memoria
di forma vi è la proprietà delle leghe stesse di cambiare
fase al variare della temperatura: questo fenomeno è stato
denominato
trasformazione
martensitica.
Le
trasformazioni martensitiche sono generalmente divise in
due gruppi: termoelastiche e non termoelastiche. Le
trasformazioni
non
termoelastiche
avvengono
principalmente nelle leghe ferrose e sono associate ad una
interfaccia non mobile tra la martensite e la fase genitrice;
queste ultime sono vincolate da difetti permanenti e
procedono mediante successive enucleazioni e crescite. A
causa della enucleazione della austenite durante la
trasformazione martensitica all’indietro (da martensite ad
austenite), le trasformazioni non termoelastiche sono a
livello cristallografico non reversibili ovvero la martensite
non può riconvertirsi nella fase genitrice con
l’orientazione originale. Le trasformazioni martensitiche
termoelastiche viceversa sono associate ad una interfaccia
mobile tra la fase genitrice e quella martensitica chiamata
habit plane. Questa interfaccia è in grado di effettuare
movimenti “all’indietro” durante la trasformazione inversa
mediante uno stiramento delle placche martensitiche senza
subire né rotazioni né distorsioni rendendo così reversibile
dal punto di vista cristallografico la trasformazione stessa
(Figura 52.19).
Figura 52.18 – Schema di un sistema di misura Time
Division Multiplexing.
Il vantaggio principale di uno schema TDM è quello di
poter utilizzare reticoli a bassa riflettività, con lo stesso
periodo ed in numero elevato sulla stessa fibra ottica
(riducendo i costi di produzione). Con questa tecnica è
possibile acquisire fino a 100 reticoli inscritti nella
stessa fibra. Lo svantaggio principale è la necessità di
separare spazialmente i reticoli per dare il tempo
all’interrogatore di distinguere gli impulsi di ciascun
sensore nonché l’acquisizione sequenziale degli stessi.
52.6.2 Leghe SMA
Le leghe a memoria di forma (Shape Memory Alloys,
SMA) sono particolari leghe che, se deformate entro
certi limiti, hanno la capacità di recuperare la loro
forma originale mediante il riscaldamento al di sopra
di una temperatura caratteristica di trasformazione. Se
il recupero di forma è completamente o parzialmente
impedito dalla presenza di vincoli, il materiale può
generare sforzi notevoli, detti sforzi di recupero, sui
vincoli stessi. Le proprietà termo-meccaniche di queste
leghe
dipendono
principalmente
dalla
loro
composizione chimica, dal lavoro a freddo effettuato
durante le fasi di produzione, dai trattamenti termici e
dai cicli termo-meccanici cui vengono sottoposti
durante la vita operativa. La più nota lega a memoria
di forma è senza dubbio il NiTiNOL (Nickel-TitaniumNaval-Ordnance-Laboratory, dal nome del laboratorio
statunitense dove fu scoperta agli inizi degli anni
sessanta): si tratta di una lega equi-atomica di NickelTitanio e nonostante il costo abbastanza elevato, è
molto utilizzata in virtù sia delle rilevanti
deformazioni di recupero che può esibire (dell’ordine
del 5-8%). Inoltre essa possiede un range elevato di
temperature di attivazione (tipicamente da -30°C a
+170°C) che la rende versatile a molteplici impieghi.
La natura a grani fini e la bassa anisotropia di questa
lega ne permette la produzione in forma di fili, strisce,
fogli e tubi. Il NiTiNOL presenta anche una elevata
resistenza alla corrosione ed è biocompatibile (ciò ne
spiega il vasto utilizzo in applicazioni biomediche). Le
leghe NiTi arricchite con maggior quantità di Titanio
(Ti) differiscono dalle leghe NiTi equi-atomiche nel
fatto che la presenza di maggior Titanio incrementa le
temperature di trasformazione. Le leghe NiTi
arricchite con maggior quantità di Nickel (Ni), oltre ad
avere temperature di trasformazione inferiori,
esibiscono una pseudo-elasticità estesa a causa
Figura 52.19 – Deformazione reticolare nel passaggio
martensite-austenite; vengono indicati sia gli sforzi di
taglio che si generano, sia l’interfaccia mobile habit
plane.
Per una trattazione più completa delle trasformazioni
martensitiche termoelastiche di fase si rimanda alle teorie
cristallografiche della trasformazione martensitica
sviluppate da Wechsler (1953) e da Bowles e MacKenzie
(1954).
52.6.2.1 Comportamento microscopico
Nel NiTiNOL esistono due fasi stabili della struttura
cristallina chiamate austenite (o fase genitrice) e
martensite (o fase prodotto). L’austenite rappresenta lo
stato stabile ad alta temperatura e possiede una struttura
cristallina cubica B2 a corpo centrato ad elevata simmetria
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La trasformazione all’indietro avviene perché i cristalli si
orientano nuovamente secondo la configurazione originale
(reversibilità cristallografica).
a cui corrisponde un elevato modulo elastico; la
martensite, invece, rappresenta lo stato stabile a bassa
temperatura e possiede una struttura monoclina B19’
alla quale corrisponde un modulo elastico inferiore.
Dal momento che la struttura cristallina della
martensite presenta una minor simmetria, possono in
tale fase coesistere diverse orientazioni chiamate
varianti. Le varianti martensitiche sono ventiquattro ed
in uno stato privo di sforzo sono tutte presenti; in
questo caso si dice che lo stato è di martensite twinned,
perché le orientazioni dello stesso tipo sono accoppiate
tra loro. Invece, quando esiste uno stato di sforzo, la
lega si deforma e permangono solo le varianti che
meglio si adattano allo sforzo; in tal caso la martensite
prende il nome di martensite detwinned (martensite
indotta da sforzo, SIM, oppure martensite riorientata).
In alcune leghe NiTi arricchite al Nickel, dopo alcuni
trattamenti termici, può inoltre comparire una terza
fase chiamata fase-R caratterizzata da una struttura
cristallina di tipo romboedrica R; questa fase è una
distorsione romboedrica del reticolo B2 dell’austenite
nella direzione (111)A ed è quindi una ulteriore fase in
competizione con quella martensitica durante la
trasformazione.
(a)
I cambiamenti della struttura cristallina che le leghe a
memoria di forma presentano corrispondono ad un
passaggio di fase da austenite a martensite
(trasformazione in avanti) e viceversa (trasformazione
all’indietro). La trasformazione in avanti si sviluppa a
seguito di un raffreddamento attraverso enucleazione e
propagazione di microscopici piani di interfaccia che
si muovono parallelamente. Il continuo abbassamento
della temperatura non accresce la dimensione delle
placchette di martensite, ma ne enuclea di nuove. Gli
atomi della struttura genitrice austenitica si muovono e
si riordinano in modo da ottenere la struttura prodotto;
il moto cooperativo degli atomi causa di fatto una
deformazione del reticolo cristallino.
(b)
La configurazione ideale (Figura 52.20-a) non è
raggiungibile perché la matrice austenitica vincola la
deformazione costringendo il reticolo a mantenere la
posizione originale del cristallo. Si genera in questo
modo uno stato di sforzo che porta ad una
deformazione
locale
secondo
due
possibili
meccanismi: scorrimento (slip) e geminazione
(twinning), come illustrato in Figura 52.20-b. Con lo
scorrimento si ha una deformazione plastica per moto
delle dislocazioni che quindi è irreversibile, mentre
con la geminazione si ha la formazione di placchette
con orientazione differente rispetto alla matrice. In
quest’ultimo caso non si ha rottura di legami atomici,
quindi la deformazione è reversibile. Applicando uno
sforzo di taglio alla martensite ottenuta per
geminazione è possibile far scorrere il bordo dei
geminati ottenendo una netta variazione di forma ed
una martensite allineata in una unica direzione.
(c)
Figura 52.20 – Orientazione ideale del reticolo durante
la trasformazione martensitica (a); Processo di slip e
processo di twinning (b) e Curva dell’energia libera di
Gibbs per la trasformazione martensitica di fase del
NiTiNOL (c).
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( )
La driving force che guida la trasformazione
martensitica, è il salto energetico che deve essere
superato per passare dalla fase genitrice alla fase
prodotto, ovvero la differenza tra l’energia libera di
Gibbs delle due fasi. Dalla Figura 52.20-c si può
notare che esiste una temperatura T 0 alla quale la
differenza di energia libera di Gibbs ∆G è nulla; a
temperature inferiori la fase a minor G è quella B19’
martensitica, mentre a temperature superiori quella a
minor G è la fase B2 austenitica.
Sforzo
Raffreddamento
Sforzo
Riscaldamento
Figura 52.22 – Passaggio da austenite a martensite a
seconda della temperatura e dello sforzo applicati.
Riportando i dati sperimentali di cicli termici condotti a
sforzo costante in un grafico sforzo-temperatura, si ottiene
il diagramma di fase riportato in Figura 52.23. Nel
diagramma di fase si possono individuare quattro grandi
regioni dette zone morte (in colore grigio) e due regioni
dette strisce di trasformazione (in bianco). Nelle zone
morte la trasformazione non può avvenire e prendono
rispettivamente il nome di zona A, nella quale è presente
100% austenite, zona Md, in cui è presente martensite
allineata nella direzione dello sforzo (detwinned), zona
Mt,d dove possono coesistere martensite non allineata
(twinned) e martensite detwinned, ed infine zona Mt,dA
nella quale possono coesistere martensite twinned,
detwinned e austenite. Nelle strisce di trasformazione [A],
[M], [t], [d] possono avvenire o la trasformazione
martensitica o la riorientazione della martensite,
esclusivamente seguendo i versi indicati dalle frecce nA,
nM, nt, nd. Facendo riferimento al percorso di Figura 52.23
con partenza dal punto E, quando la lega nel suo processo
attraversa la striscia [M] con verso concorde alla freccia
nM avviene la trasformazione in avanti; quando la lega
attraversa la striscia [A] con verso concorde alla freccia n A
avviene la trasformazione all’indietro. Occorre notare che
l’andamento di MS, MF, AS, AF, è lineare per bassi e alti
valori di sforzo, mentre si presenta non regolare nel tratto
intermedio. Ciò dipende dal fatto che in base al livello di
sforzo applicato si possono avere diverse configurazioni
di martensite.
Frazione
martensitica
0.5
AF
Temperatura
Figura 52.21 – Evoluzione della frazione martensitica al
variare della temperatura.
Associate alla trasformazione martensitica in avanti e
all’indietro, vi sono quattro temperature caratteristiche
di inizio e fine trasformazione forward e reverse
(Figura 52.21): AS, AF, MS, MF. A queste possono
essere aggiunte talvolta altre due temperature associate
alla fase-R: Rs , Rf.
Le interazioni di carichi termici e meccanici con le
leghe a memoria di forma sono le cause del passaggio
da una fase all’altra.
La caratteristica cruciale delle leghe a memoria di forma è
la presenza di una trasformazione martensitica di fase tra
la fase austenitica e le varianti della fase martensitica. Ciò
che rende queste leghe profondamente differenti, dal
punto di vista macroscopico, dagli altri materiali sono
principalmente l’effetto di memoria di forma (SME,
Shape Memory Effect) e la pseudo-elasticità che si
verificano a seconda del modo in cui avviene la
trasformazione di fase.
Le temperature di trasformazione dipendono quindi
dallo stato di sforzo presente nel materiale secondo
leggi di tipo lineare:
( )

( )
Martensite
detwinned
Riscaldamento
AS
MS
Martensite
twinned
Austenite
1.0
0.0
(52.5)
con AS0, AF0, MS0, MF0 temperature di trasformazione a
sforzo nullo, σ è lo sforzo applicato, C A e CM coefficienti
che per il NiTiNOL possono variare rispettivamente tra
4,5 e 13,8 MPa/°C e tra 7 e 11,3 MPa/°C.
52.6.2.2 Comportamento macroscopico
Il passaggio di fase da austenite a martensite è
chiamato trasformazione in avanti (forward
transformation) , mentre il passaggio da martensite ad
austenite è chiamato trasformazione all’indietro
(reverse transformation). Le principali variabili
macroscopiche che permettono di caratterizzare il
comportamento del NiTiNOL sono la temperatura, lo
sforzo, la deformazione e la frazione martensitica. La
frazione martensitica, ossia il volume della martensite
presente nella lega rispetto al volume totale, può essere
impiegata come un indicatore dello stato di
avanzamento della trasformazione martensitica,
considerando insieme tutte le varianti di martensite.
Essa assume un valore che può variare tra 0, caso in
cui esiste solo austenite, ed 1, caso in cui il materiale è
tutto in fase martensitica.
MF
( )

(52.4)
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
twinned (tratto AB) fino a quando non inizia una
riorientazione dei grani nella direzione dello sforzo stesso
con il conseguente passaggio dalla martensite twinned alla
martensite detwinned (tratto BC corrispondente al plateau
della SIM-martensite indotta da sforzo).
Figura 52.23 – Diagramma delle fasi del NiTiNOL in
funzione dello sforzo e della temperatura.
Effetto memoria di forma: recupero di grosse
deformazioni mediante una combinazione di processi
meccanici e termici.
Effetto pseudoelastico: recupero di grosse
deformazioni durante cicli di carico e scarico a
temperature sufficientemente elevate.
(a)
A seconda della temperatura a cui avviene un
determinato ciclo meccanico si può verificare l’effetto
a memoria di forma, l’effetto superelastico o entrambi.
Se il materiale si trova ad una temperatura inferiore ad
AS, si ottiene effetto a memoria di forma; se il
materiale si trova ad una temperatura superiore ad A F,
effetto superelastico; se invece la lega si trova ad una
temperatura compresa tra AS ed AF i due effetti si
combinano tra loro ed il comportamento del materiale
risulta complicato. L’effetto a memoria di forma può
essere suddiviso in effetto ad una via ed effetto a due
vie; nel seguito viene dedicato a ciascuno di essi una
analisi dettagliata.
Effetto memoria di forma ad una via
La definizione di memoria di forma ad una via (one
way memory effect) indica che il materiale è in grado
di recuperare una sola deformazione imposta a bassa
temperatura, in condizione di 100% martensite,
mediante la trasformazione martensitica in austenite
(Figura 2.23).
(b)
Figura 52.25 – Grafico sforzo, deformazione,
temperatura del comportamento ad effetto di memoria
di forma ad una via (a) ed a due vie (b).
Terminata la riorientazione ci si trova nella situazione
100% martensite detwinned e quindi al crescere ulteriore
dello sforzo si percorre il tratto elastico della martensite
detwinned stessa (tratto CD). Giunti ad un livello di sforzo
elevato si entra infine nel campo plastico della martensite
detwinned (tratto DE). Annullando lo sforzo si ha il
recupero elastico competente alla martensite detwinned
che porta il materiale ad uno stato di deformazione
individuato dal punto F. A questo punto, aumentando la
temperatura interviene l’effetto a memoria di forma,
ovvero superando la temperatura AS (tratto FG) si ha
l’inizio della trasformazione martensitica all’indietro
Figura 52.24 – Esempio di una molla in NiTiNOL;
comportamento al variare della temperatura.
Il grafico di Figura 52.25-a mostra il comportamento
completo del NiTiNOL con effetto di forma ad una
via. Partendo da una temperatura al di sotto di M F
(100% martensite) ed applicando uno sforzo crescente,
il materiale percorre il tratto elastico della martensite
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
(reverse) che si completa con il raggiungimento di una
temperatura superiore ad AF (tratto GH). Durante
questo ciclo termo meccanico si è così recuperata tutta
la deformazione indotta al materiale in fase
martensitica tranne la deformazione plastica (tratto
DE), comunque irrecuperabile. Una volta raffreddato,
il materiale effettua una trasformazione di fase
martensitica in avanti (forward) da austenite a
martensite, durante la quale, mantenendo uno sforzo
nullo, non si ottiene alcuna variazione di forma.
passaggio da parzialmente detwinned a twinned. A questo
punto, raffreddando il materiale fino ad una temperatura
inferiore a MS si impone l’inizio della trasformazione
martensitica forward, durante la quale si ha il passaggio
da martensite twinned a martensite parzialmente
detwinned, ossia alla condizione di partenza.
Comportamento superelastico o pseudo-elastico
Il comportamento superelastico si verifica quando il
materiale a memoria di forma viene sollecitato, a
temperatura superiore ad AF, con uno sforzo critico che
può indurre la trasformazione martensitica (martensite
indotta da sforzo, SIM). Quest’ultima produce una grande
deformazione nel materiale che può essere interamente
recuperata con lo scarico quando il materiale si mantiene
sopra la temperatura AF.
Effetto memoria di forma a due vie
La definizione di memoria di forma a due vie (two way
memory effect) indica che il materiale è in grado di
cambiare forma non solo durante la fase di
riscaldamento (trasformazione martensitica reverse),
come nel caso precedente, ma anche durante la fase di
raffreddamento (trasformazione martensitica forward).
Nel grafico di Figura 52.25-b si può osservare il
comportamento del NiTiNOL dotato di effetto a
memoria a due vie nel caso più generale. Il materiale,
terminato il processo di allenamento, si trova in forma
martensitica parzialmente orientata; in questo modo
allo stato iniziale coesistono una percentuale di
martensite twinned ed una percentuale di martensite
detwinned. Applicando uno sforzo crescente si
percorre il tratto elastico del materiale nella forma
mista (tratto AB), fino a quando lo sforzo è tale da
orientare tutti i grani della fase martensitica (tratto BC)
ed ottenere solamente martensite detwinned (punto C).
Al crescere ulteriore dello sforzo si percorre tutto il
tratto elastico della martensite detwinned (tratto CD).
Annullando lo sforzo si ha il recupero elastico della
deformazione che porta il materiale ad uno stato di
deformazione individuato dal punto E. Aumentando la
temperatura fino ad AS (tratto EF) si impone l’inizio
della trasformazione martensitica reverse, ossia il
materiale inizia a trasformarsi in austenite.
(a)
Figura 52.26 – Esempio di una molla in NiTiNOL;
effetto di memoria a due vie.
(b)
Figura 52.27 – Comportamento superelastico del
NiTiNOL.
Una volta raggiunta una temperatura superiore ad AF,
la trasformazione martensitica è completa e si è
ottenuto il recupero di deformazione che si è generato
in precedenza dal passaggio da martensite twinned
(non orientata) a martensite detwinned (totalmente
orientata). Questa deformazione recuperata è composta
dal tratto FG, ossia dalla deformazione ottenuta dal
passaggio da detwinned a parzialmente detwinned, e
dal tratto GH, ossia dalla deformazione ottenuta dal
Nel grafico di Figura 52.27-a si nota che, all’aumentare
dello sforzo, dopo un iniziale tratto elastico austenitico
(tratto AB), il materiale continua a deformarsi a sforzo
quasi costante durante la trasformazione da austenite a
martensite (tratto BC), per poi proseguire con un tratto
elastico in fase martensitica (tratto CD). Annullando lo
sforzo si ottiene il recupero elastico della fase martensitica
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(tratto DF), la transizione di fase da martensite indotta
da sforzo ad austenite (tratto FG) ed infine il recupero
elastico della fase austenitica (tratto GH). In Figura
52.27-a si evidenzia il comportamento superelastico
nel caso in cui il materiale non sia giunto in campo
plastico della martensite indotta da sforzo cosicché il
punto H finale coincida esattamente con il punto A di
partenza. In Figura 52.27-b, al contrario, la
deformazione plastica generata in fase martensitica
indotta da sforzo risulta irrecuperabile ed il punto H
finale non coincide con quello iniziale A.
esibire effetti piezolelettrici di ben più elevata intensità.
Ne rappresentano un tipico esempio le ceramiche
policristalline. Esse sono costituite da microdomìni, cioè
zone di piccole dimensioni, i cui momenti di dipolo
elettrici sono orientati casualmente a risultante nulla. Tali
ceramiche non possiedono quindi intrinsecamente una
polarità che può tuttavia essere loro conferita attraverso un
processo di polarizzazione sfruttandone la natura
piroelettrica e ferroelettrica5 . Investendo il materiale con
un campo elettrico costante si provocano mutue
interazioni di tipo elettrico fra le sue molecole che
tendono ad allinearsi secondo direzioni preferenziali in
accordo con il campo elettrico applicato.
52.6.3 Piezoelettrici
La piezoelettricità è la capacità di alcuni materiali
cristallini di manifestare una carica elettrica se
sottoposti a stress meccanico oppure di deformarsi se
sottoposti ad un campo elettrico. L’effetto
piezoelettrico fu scoperto dai fratelli Curie nel 1880
osservando la presenza di un campo elettrico su
cristalli di quarzo soggetti a sforzi di tipo meccanico. I
Curie notarono che il livello di polarizzazione del
quarzo era proporzionale allo sforzo applicato. Lo
stesso materiale, inoltre, si deformava se soggetto ad
un campo elettrico in accordo con quanto predetto da
Lippmann e con i fondamenti della termodinamica. Si
tratta in generale di un fenomeno elettromeccanico che
accoppia il campo elastico con quello elettrico.
(a)
Il requisito fondamentale affinché esistano interazioni
piezoelettriche in un cristallo è che alcuni dei suoi assi
posseggano intrinsecamente una polarità. Il fenomeno
è spiegabile a livello cristallografico con distorsioni
del reticolo cristallino simili, per certi versi, ai
meccanismi martensitici che regolano le tempre
dell’acciaio. Il reticolo dei cristalli piezoelettrici è una
struttura metastabile cubica a facce centrate in cui
l’atomo centrale si trova confinato in una posizione
circondata da spazi ottaedrici a minor energia. Sotto
l’azione del campo elettrico, l’atomo centrale supera la
soglia di potenziale e si sposta in uno dei due spazi
ottaedrici realizzando una configurazione a minore
energia ma causando una distorsione del reticolo.
Viceversa se il reticolo viene deformato per effetto di
una sollecitazione meccanica si verifica uno squilibrio
nelle cariche elettriche che si estrinseca nella
formazione di un dipolo elettrico. Questi due
comportamenti sono definiti rispettivamente effetto
dielettrico diretto ed effetto dielettrico inverso. Ciò
rende i piezoelettrici materiali che godono della
proprietà di bi-direzionalità e quindi, come già
discusso nel precedente capitolo, essi possono essere
utilizzati sia come sensori (sfruttandone l’effetto
diretto) sia come attuatori (effetto inverso).
(b)
Figura 52.28 – Processo di polarizzazione nei materiali
piezoelettrici (a) e loro struttura cristallina elementare
prima e dopo la polarizzazione (b).
Grazie alla sua elevata costante dielettrica al termine del
processo la ceramica esibisce un momento di dipolo
permanente. Per superare il salto energetico esistente fra
uno stato direzionale e l’altro è necessario che l’intero
La piezoelettricità è manifestata da un certo numero di
cristalli presenti in natura quali il quarzo, la tormalina,
il sodio potassio tartrato o il sale di Rochelle.
Oggigiorno, grazie ai progressi tecnologici degli ultimi
decenni, sono disponibili materiali avanzati in grado di
5
La piroelettricità consiste nella comparsa di cariche sulla superficie di
un materiale se sottoposto a riscaldamento uniforme.
La ferroelettricità è la capacità di un cristallo polare di rovesciare il
proprio dipolo elettrico sotto l’applicazione di un campo elettrico di
intensità opportuna.
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
(dell’ordine di 2GPa) ciò che li rende poco adatti ad essere
utilizzati come attuatori.
processo avvenga ad una temperatura superiore alla
“temperatura d’inversione della struttura”, più
comunemente nota come temperatura di Curie.
52.6.3.1
Proprietà ed equazioni di stato delle ceramiche
piezoelettriche
La costante di carica piezoelettrica, indicata con dij (con
i=1, 2, 3 e j=1, 2, …, 6), è definita come la polarizzazione
elettrica indotta in un materiale per unità di stress
meccanico applicato. Di conseguenza nell’effetto
piezoelettrico diretto si ottiene che lo spostamento
elettrico D è direttamente proporzionale allo sforzo
applicato T:
Dopo il trattamento di polarizzazione, il ceramico
policristallino è assimilabile, agli effetti del
comportamento elettrico, ad un cristallo piezoelettrico
che presenta un momento di dipolo netto in grado di
rispondere linearmente al campo elettrico applicato o
alla pressione meccanica. E’ da osservare che a livello
microstrutturale la ceramica piezoelettrica è costituita
da un insieme di grani a loro volta costituiti da
cristalliti; all’interno di un grano vi sono più domini
orientati in direzioni diverse (prima della
polarizzazione) e le pareti dei grani sono relativamente
mobili, dipendentemente dalla presenza di difetti
reticolari, vacanze, dislocazioni, da cui dipende la
“rigidità” del materiale. A livello dei grani è possibile
notare, nel materiale polarizzato, un’orientazione
preferenziale nei vari domini, più o meno accentuata, e
che, nel complesso, ha variato la forma del
piezoelettrico allungandola lievemente nel senso della
polarizzazione. Ad una applicazione di voltaggio
concorde con il verso di polarizzazione si osserverà
una dilatazione sull’asse parallelo e una strizione
sull’asse perpendicolare a quello di polarizzazione.
(52.6)
Nel caso dell’effetto inverso, la proporzionalità vale
ugualmente e lega il campo elettrico E alla deformazione
S attraverso la relazione:
(52.7)
La costante di proporzionalità risulta numericamente
identica a quella dell’effetto diretto e viene indicata di
nuovo con dji, ma ora denota lo deformazione meccanica
subita dal materiale per unità di campo elettrico applicato.
Una semplice analisi dimensionale permette di indicare
l’unità di misura di dij:
Oltre alle ceramiche policristalline, fra le quali le più
note sono i PZT (piombo zirconio titanato) ed i PMN
(piombo magnesio niobio), l’effetto piezoelettrico può
essere conferito anche ad una classe particolare di
polimeri, chiamati piezopolimeri quali il PVDF o
PVF2 (polivinilidene fluoride) ed il PVDF-TFE
(polivinildene fluoride – trifluoroetilene).
[d]=[D/T]=[S/E]=coulomb/newton=metri/volt=[C/N]=[m/
V]
Un’altra costante piezoelettrica è gij, detta costante di
tensione piezoelettrica, definita come il campo elettrico
prodotto nel materiale da uno sforzo meccanico unitario
(nell’effetto diretto), oppure come deformazione
meccanica subita dal materiale per unità di spostamento
elettrico applicato. Dimensionalmente si ha:
A causa della loro natura ceramica, gli elementi in
PZT mostrano rigidità comparabile se non superiore a
quella delle strutture a cui vengono applicati con il
risultato di una più efficiente conversione dell’energia
elettrica in meccanica rispetto ai piezopolimeri; ciò li
rende ottimi in svariati campi per la realizzazione di
attuatori ad alta efficienza con ottime risposte in
frequenza. Il loro effetto reversibile è sfruttabile per la
realizzazione di attuatori self-sensing o elementi di
controllo in cui è richiesta la simultanea presenza di
sensori e attuatori localizzati. Di contro le principali
problematiche riguardano l’intrinseca fragilità dei
materiali ceramici ed un elevato fenomeno di isteresi
per campi elettrici elevati. Il loro effetto piezoelettrico
inoltre decade per invecchiamento con conseguente
degrado delle prestazioni a causa della polarizzazione
che tende ad annullarsi nel tempo. Alternativamente i
film di PVDF presentano la consistenza di film
polimerici e quindi possono essere virtualmente
adattati a qualsiasi geometria, potendo essere
facilmente tagliati e adattati alle più svariate superfici
ed è quindi possibile la realizzazione di
sensori/attuatori distribuiti su tutta la struttura, cosa
impensabile con i PZT. Ad una marcata tenacità si
contrappone tuttavia una rigidezza molto bassa
[g]=[E/T]=[S/D]=metri2/coulomb=[m2/C]
Le costanti gij e dij sono messe in relazione da eij, che
indica il componente del tensore permettività:
(52.8)
Le altre costanti da definire per una migliore descrizione
delle caratteristiche di un materiale piezoelettrico sono:
eij
costante che lega lo stress meccanico al campo
elettrico
hij
costante che lega il campo elettrico alla
deformazione
Tutte le costanti piezoelettriche definite possono essere
ricavate mediante le equazioni di un corpo solido e la
prima legge della termodinamica; in particolare:
(
)
(
)
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(
)
(
)
(
)
(
)
(
)
(
)
CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
L’effetto piezoelettrico governato dal coefficiente d33 è
chiamato effetto primario in virtù del fatto che si ha
deformazione nella stessa direzione di applicazione del
campo elettrico mentre tutti gli altri sono chiamati effetti
secondari. I sensori/attuatori piezoelettrici vengono
generalmente classificati sulla base del coefficiente di
accoppiamento d che viene sfruttato.
Oltre alle costanti piezoelettriche definite, ci sono
coefficienti che danno una stima “globale” del
fenomeno piezoelettrico; tra questi si ricorda il fattore
di accoppiamento elettromeccanico efficace
che
indica la frazione di energia elettrica convertita in
energia meccanica o viceversa:
Si ipotizza che il piezoelettrico sia dotato di un
“carico”, cioè compia del lavoro imprimendo una
forza, ad esempio, su di una membrana (è il caso di un
attuatore), oppure che carichi, ad esempio, un
condensatore (è il caso di un generatore).
(a)
poiché non è possibile la totale conversione
energetica.
Valori tipici di
sono 0.01 per il quarzo; 0.4 per il
titanato di bario; 0.5-0.7 per le ceramiche PZT.
Le equazioni del legame costitutivo di un materiale
piezoelettrico possono essere scritte in forma sintetica
nel seguente modo:
Effetto piezoelettrico diretto:
Effetto piezoelettrico inverso:
dove i, l=1, 2, 3; j=1, 2, …, 6
(b)
Considerando la Figura 52.29 si possono fare delle
osservazioni per esplicitare meglio le equazioni
soprascritte.
Figura 52.29 – Esempio degli effetti d33 e d31 in una
ceramica PZT (a) e designazione degli assi e delle
direzioni di deformazione (b).
Per convenzione l’asse di polarizzazione scelto è l’asse
3 o asse z. I piani di taglio indicati dai pedici 4, 5, 6,
sono normali rispettivamente agli assi 1, 2, 3. Ogni
elemento delle varie costanti avrà due indici, di cui il
primo indicherà l’asse (o il piano di taglio) lungo il
quale si misura il coefficiente e il secondo l’asse (o il
piano di taglio) dell’azione che influisce su di esso. Ad
esempio, d33 è la deformazione in direzione dell’asse 3
per unità di campo elettrico applicato in direzione 3,
mentre d13 è la deformazione in direzione 1 per unità
di campo elettrico applicato in direzione 3.
52.6.3.2 Evoluzione degli attuatori piezoelettrici
I primi attuatori piezoceramici furono sviluppati a partire
dagli anni cinquanta. Costituiti da una struttura monolitica
a forma di piastra sulle cui facce è elettrodepositato un
sottile strato uniforme di materiale metallico essi sfruttano
l’effetto piezoelettrico secondario accoppiando uno stato
di deformazione nel piano ad un campo elettrico normale
alla piastra stessa. Naturalmente nel corso degli anni, con
il miglioramento delle tecniche di sinterizzazione e di
produzione in genere, i piezoceramici hanno subito via via
notevoli cambiamenti. Oggigiorno sono disponibili in
commercio più tipologie che differiscono principalmente
nella composizione della ceramica e nella forma.
L’introduzione del concetto di elettrodo interdigitato
Le azioni di taglio avvengono solo quando il campo
elettrico viene applicato perpendicolarmente all’asse di
polarizzazione e quindi sono non nulli solamente d 15 e
d24, che sono, inoltre, uguali tra loro per simmetria.
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(InterDigitated Electrodes- IDE) ha consentito un netto
miglioramento delle prestazioni. Applicati in modo
esattamente speculare sulle due facce principali della
piastra ceramica essi sono formati da rami di polarità
alternata così da garantire, rispetto ad elettrodi
uniformi, una maggiore porzione di campo elettrico
allineato nel piano della piastra (Figura 2.29-b).
quello che avviene nei materiali compositi (dovuto alla
combinazione di fibre sottili e matrice tenace).
Figura 52.31 – Attuatore in fibra piezoceramica con
elettrodi interdigitati (AFC).
(a)
Pur tuttavia l’elevata differenza dielettrica tra matrice e
fibre causava una forte diminuzione del campo elettrico a
disposizione delle fibre per l’attuazione; l’applicazione di
alte tensioni per mantenere alti livelli di campo elettrico
causavano inoltre la nascita di fortissime concentrazioni di
campo elettrico nella matrice provocando, come per la
generazione di attuatori precedente, rotture dielettriche già
durante la fase di polarizzazione.
Il problema è stato risolto con l’introduzione di fibre a
sezione rettangolare. Brevettati dalla Nasa al Langley
Research Center nel 2000 i Macro Fiber Composites
(MFC) hanno molte analogie in comune con i loro
predecessori essendo costituiti anch’essi da un fascio
parallelo di fibre piezoceramiche inglobate in una matrice
epossidica e dotati di elettrodi interdigitati. La differenza
sostanziale risiede proprio nella sezione rettangolare delle
fibre che consente di aumentare notevolmente la zona di
contatto con gli elettrodi (che costituiva il punto critico
delle fibre circolari) come si può osservare in Figura
52.32. Il particolare processo produttivo con cui vengono
realizzati permette inoltre di incrementare notevolmente il
contenuto di materiale ceramico che è pari all’80%.
(b)
Figura 52.30 – Piezoceramica monolitica con elettrodi
uniformi (a) e struttura degli elettrodi interdigitati (b).
Il principale vantaggio nell’utilizzo di questi elettrodi è
quello di consentire lo sfruttamento dell’effetto
piezoelettrico primario d33 il quale risulta essere di
circa due volte l’effetto secondario d31 nonché di
ottenere attuazioni anisotrope. Le prime applicazioni
degli IDE non ebbero tuttavia particolare successo per
problemi legati ai processi di polarizzazione. La loro
morfologia infatti porta a concentrazioni di campo
nelle vicinanze dei rami dell’elettrodo originando una
intensificazione dello stato di sforzo nella così detta
“zona morta” dell’attuatore. I valori in gioco durante la
polarizzazione, normalmente superiori a quelli di
funzionamento, inducevano spesso danni e rotture nel
materiale ceramico.
Entrambi questi due aspetti consentono di ottenere
prestazioni attuative migliori rispetto agli AFC. Se
confrontati con i PZT monolitici la densità di energia è
ben più elevata grazie all’uso del campo elettrico nel
piano dell’attuatore (si sfrutta in altre parole l’anisotropia
dell’attuazione) riuscendo ad ottenere quasi 2 volte la
deformazione per attuazione e quasi 4 volte la densità di
energia di deformazione.
Qualche anno più tardi si modificò la geometria della
ceramica andando ad estrudere delle fibre dello stesso
materiale ed inglobandole allineate in una matrice
epossidica.
Gli elettrodi interdigitati sono ottenuti per foto-tranciatura
chimica di un sottile strato di rame incollato ad un film di
poly-imide con ottime proprietà di resistenza alle alte
temperature, all’ossidazione, ai solventi e con un
coefficiente di espansione termica molto ridotto. Tutto ciò
assume particolare importanza in considerazione del fatto
che questo strato (assente nelle ceramiche con elettrodi
uniformi) costituisce l’interfaccia del sensore/attuatore
con l’esterno ovvero ad esso è deputato il compito di
Una tale configurazione consentiva di ovviare, in linea
teorica, a molti dei limiti che affliggono le piastre
monolitiche:
esibivano
un’ottima
conformità
(adattabili anche a superfici curve), un’attuazione
anisotropa più marcata e, non ultimo, una elevata
resistenza al danno grazie ad un meccanismo di
trasferimento dei carichi in presenza di rotture simile a
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blocking force assume valori massimi dell’ordine dei
4KN/cm2 relativamente all’area attiva delle fibre che
costituiscono l’attuatore (per l’M2814 si ottengono ad
esempio circa 100N). [43]-[45].
trasferire le sollecitazioni tra il materiale ceramico
interno e la struttura alla quale il sensore/attuatore è
applicato (Figura 2.32). Nel caso delle strutture
intelligenti, come si spiegherà meglio in seguito,
l’interfaccia con l’host material gioca un ruolo
fondamentale influenzando direttamente non solo le
proprietà funzionali della struttura ma incidendo anche
sulle sue prestazioni meccaniche e sul comportamento
a fatica.
(a)
(a)
(b)
Figura 52.32 – Confronto delle sezioni di un AFC (a) e
di un MFC (b). Si evidenzia il maggior contenuto in
volume di fibra e la maggior area di contatto dell’MFC.
Discorso analogo va fatto anche per la matrice
utilizzata per inglobare le fibre piezoceramiche cui è
deputato il compito di trasferire il carico alle fibre e di
fungere da legante strutturale. Essa deve inoltre
possedere proprietà elettriche tali da consentire il
trasferimento del campo elettrico alle fibre
dell’attuatore ovvero una costante dielettrica elevata,
un basso fattore di dissipazione e una elevata forza
dielettrica (così da evitare cortocircuiti).
(b)
Figura 52.33 – Componenti di un attuatore MFC (a) e
immagine al microscopio di elettrodi e fibre (b).
52.7 Tecniche di inglobamento
I principali vantaggi degli MFC rispetto ai tradizionali
attuatori monolitici sono quindi le prestazioni attuative
(a fronte però di una maggiore tensione da fornire), la
flessibilità (o “conformability”) e la durevolezza (sono
molto meno fragili rendendone più agevole
l’installazione o inglobamento).
Lo sviluppo di tecniche di inglobamento efficienti che
garantiscano
il
corretto
funzionamento
dei
sensori/attuatori, ne preservino le caratteristiche di
accuratezza ed autorità e nel contempo mantengano entro
limiti accettabili l’invasività degli stessi sul materiale
ospite è una condizione necessaria e un aspetto cruciale
nello sviluppo delle Smart Structures. Separatamente per
ciascuna delle tipologie di Smart Materials prese in
esame, verranno qui presentate le tecniche di
inglobamento sviluppate presso il laboratorio Smart
Materials del Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale del
Politecnico di Milano. Come si vedrà in alcuni casi si è
giunti ad utilizzare le medesime soluzioni per criticità
specifiche differenti offrendo delle procedure di
inglobamento più trasversali.
Due sono le grandezze importanti degli attuatori
piezoceramici: la deformazione (il “free strain”) e la
forza di blocco (blocking force). Per quanto riguarda il
free strain, un MFC al massimo si espande di circa
4500 ppm (parti per milione o microstrains) in
rapporto alla sua lunghezza. Viceversa, quando lo
spostamento è impedito si sviluppa una forza di
‘blocco’, la cosiddetta “blocking force”, la quale è a
tutti gli effetti una misura della rigidezza dell’attuatore
e di conseguenza degli sforzi. Nel caso degli MFC la
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massimizzare l’efficienza strutturale del componente in
esame.
52.7.1 L’inglobamento di sensori a fibra ottica
Le criticità connesse all’inglobamento di fibre ottiche
dipendono anzitutto dalla necessità di preservare
l’integrità del coating polimerico, condizione
necessaria per assicurare il corretto trasferimento delle
sollecitazioni dal materiale ospite al sensore.
Altrettanto importante è poi evitare al sensore FBG
distorsioni di forma che possano comprometterne il
funzionamento o comunque portare a misure non
accurate. Da questo punto di vista è cruciale evitare un
eccessivo disallineamento delle frange del reticolo che
porterebbe alla riflessione di segnali perturbati di
difficile se non impossibile interpretazione pur con le
tecniche di analisi dello spettro più raffinate. Entrambi
questi aspetti sono influenzati dalla sequenza di
laminazione del laminato in cui la fibra ottica (FO) si
trova inglobata. Fin dalle prime esperienze di
inglobamento fu evidenziato infatti che la presenza di
fibre di rinforzo diversamente orientate rispetto alla
FO originava sulla stessa fenomeni di micro-bending
con riduzione dell’intensità del segnale ottico. Se nelle
telecomunicazioni ciò comportava limitazioni nella
capacità di trasmissione del segnale ottico a lunghe
distanze per cui si richiedeva potenze molto elevate in
grado di sopperire alle perdite di segnale lungo il
cammino ottico, con l’introduzione dei sensori FBG
inscritti nel core questi fenomeni non possono più
essere tollerati. Le fibre di rinforzo infatti inducono sul
reticolo pericolosi stati di sollecitazione locali che
possono portare ad alterazioni di forma permanenti
finanche alla completa perdita di funzionalità del
sensore.
(a)
(b)
Ragionando in termini di invasività sul materiale
ospite gli effetti di un mutuo disallineamento tra FO e
fibre di rinforzo potrebbero essere ancor più gravi
mettendo a rischio non solo le proprietà funzionali del
laminato intelligente ma anche e soprattutto le sue
proprietà meccaniche. E’ lecito presupporre infatti che,
al pari della FO, anche le fibre di rinforzo vengano
deviate dalla loro giacitura più naturale ed ottimale
originando in tal modo difettosità più o meno
pronunciate in termini di vuoti e sacche di resina con
un conseguente decadimento delle prestazioni del
laminato.
(c)
Da queste considerazioni preliminari emerge
chiaramente che la condizione di inglobamento meno
pericolosa sia dal punto di vista della FO che da quello
del materiale ospite, dovrebbe essere una sequenza di
laminazione con tutte le lamine orientate in un’unica
direzione, coincidente con l’asse della FO. Ciò tuttavia
precluderebbe la possibilità di progettare laminati
angle ply oppure quasi isotropi od altri ancora. Più in
generale si può affermare che una siffatta soluzione è
in netta contrapposizione con la peculiarità più
importante che contraddistingue i materiali compositi
che hanno il loro punto di forza proprio nella
possibilità di progettare sequenze ad hoc per
(d)
Figura 52.34 – Meccanismo di deformazione del reticolo
per azione delle fibre di rinforzo che attraversano il
cammino della FO (a, b) e confronto dello spettro di un
FBG inglobato in un laminato angle-ply (c) con quello di
un FBG inglobato in un laminato UD a [0°] (d).
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
Nel caso di tessuti, infine, il soddisfacimento del
vincolo di parallelismo tra FO e fibre di rinforzo
sarebbe addirittura impossibile. Con l’obbiettivo di
confermare o meno queste criticità e per guidare al
meglio lo sviluppo di una tecnica di inglobamento
efficiente è stata condotta un’approfondita analisi
microscopica sull’influenza delle sequenze di
laminazione i cui risultati principali sono sintetizzati
nel prossimo paragrafo.
di schiacciamenti e distorsioni del reticolo. Anche il
coating non presenta segni di danneggiamento. In
particolare l’integrità di quello in poli-acrilato, nonostante
la transizione vetrosa subita, attesta l’assenza di
condizioni di carico gravose ad opera delle fibre di
rinforzo (Figura 52.35).
Un ultimo importante aspetto che si vuole qui
introdurre è quello legato alla protezione e
connettorizzazione della FO all’uscita dal laminato.
Benché attualmente non siano disponibili in
commercio terminali miniaturizzati e resistenti ad alte
temperature da consentirne il parziale inglobamento
nei laminati, il loro sviluppo è una condizione
necessaria per conferire ad una struttura intelligente
nel suo complesso un sufficiente grado di robustezza e
maneggiabilità. Pur non essendo fra gli obbiettivi della
presente attività, le soluzioni che è stato necessario
mettere in atto per garantire la raggiungibilità dei
sensori verranno brevemente riportate per evidenziare
ancor di più le criticità connesse a questa fase
dell’inglobamento.
Poli-imide
52.7.1.1
Influenza della sequenza di laminazione:
analisi microscopiche
Le analisi microscopiche sono state eseguite sulle
sezioni di 5 laminati ognuno con una sequenza di
laminazione significativa ed ognuno inglobante le 2
tipologie di FO prese in esame. Tutti i laminati sono
costituiti da 8 lamine in fibra di vetro tipo S2
impregnate con matrice epossidica. Le specifiche del
materiale sono riportate in Tabella 52.3.
Poli-acrilato
Figura 52.35 – Analisi microscopica laminato [0°]4S.
Laminato [± 45°]2S
Le tabelle che seguono riportano un sommario di
alcuni fra i metodi più usati nel controllo non
distruttivo e loro peculiarità.
Le fibre ottiche sono inserite tra due lamine a 45°. Sono
evidenti le sacche che si creano attorno alle fibre, in cui si
ha accumulo di resina e presenza di vuoti in particolare ai
lati della FO in poli-imide. Il coating in poli-acrilato
risulta deformato, mentre quello in poli-imide non sembra
aver subito danni. Non si rilevano deformazioni evidenti
al cladding che conserva la sua sezione circolare (Figura
52.36).
Tabella 52.3 – Proprietà del pre-impregnato CYCOM
Glass Fiber UD Rigidite 5216.
Tipo di fibra
S2
Tipo di matrice
Epoxy
Contenuto di resina
43% Weight
Laminato [0°,90°]2S
Spessore nominale ply
0,21÷0,25mm
Le lamine che inglobano le fibre ottiche sono a 90°
rispetto ad esse. Le dimensioni delle sacche di resina sono
confrontabili al caso precedente mentre si riscontra una
percentuale inferiore di vuoti. Nella FO in poli-acrilato
sono ben visibili le deformazioni sia del coating sia del
cladding che esibisce una sezione leggermente ovalizzata.
Viceversa la FO in poli-imide sembra ancora
perfettamente integra (Figura 52.37).
Laminato [0°]4S
Le FO sono inserite nella stessa direzione delle fibre di
rinforzo in un laminato con lamine tutte orientate a 0°.
Le immagini al microscopio confermano che questa è
la sequenza di laminazione migliore per ospitare una
FO. Le fibre di rinforzo si scostano per effetto della
pressione esercitata sul laminato durante il ciclo di
polimerizzazione disponendosi attorno alla FO stessa.
Il mantenimento di una pressoché perfetta sezione
circolare di quest’ultima lascia presupporre l’assenza
Laminato [90°]4S
Tutte le fibre di rinforzo del laminato sono orientate a 90°
rispetto alla FO. E’ la condizione peggiore con difettosità
molto marcate. La FO in poli-imide appare
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completamente inglobata in una sacca di resina: non
c’è contatto tra fibre di rinforzo e FO ai lati della quale
sono inoltre molto evidenti due grosse bolle d’aria
analogamente a quanto registrato per la sequenza a
[±45°]. La FO in poli-acrilato evidenzia deformazioni
sia del coating sia del cladding (Figura 52.38).
Poli-imide
Poli-imide
Poli-acrilato
Figura 52.38 – Analisi microscopica laminato [90°]4S.
Laminato [90°,0°]2S
La sequenza di laminazione è tale da avere le FO inserite
tra due lamine a 0°. Nella zona attorno alla FO si verifica
una condizione molto simile a quella del laminato [0°] 4s e
l’effetto delle fibre esterne a 90° è molto contenuto sia in
termini di difettosità sia in termini di deformazione del
coating e del cladding.
Poli-acrilato
Figura 52.36 – Analisi microscopica laminato [±45°]2S.
Poli-imide
Poli-imide
Poli-acrilato
Figura 52.39 – Analisi microscopica laminato [90°,0°]2s.
Dalle analisi microscopiche emerge dunque la conferma di
quanto precedentemente ipotizzato: la condizione di
inglobamento migliore è in assoluto quella che garantisce
l’allineamento tra FO e fibre di rinforzo evitando cioè la
mutua intersezione (chiaramente su piani differenti) tra di
esse. Tale condizione non può che essere verificata con la
sequenza di laminazione a [0°]. Pur tuttavia l’ultimo caso
dimostra come possano essere sufficienti 2 lamine per
Poli-acrilato
Figura 52.37 – Analisi microscopica laminato [0°,90°]2S.
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preservare, almeno visivamente, l’integrità della FO e
mantenere entro limiti contenuti le difettosità
introdotte nel composito. Rimane il fatto che per tutte
le altre sequenze di laminazione si evidenziano sacche
di resina e vuoti di dimensioni assolutamente
inaccettabili: l’invasività della FO è palese ed un suo
inglobamento diretto, così come è stato per questi
laminati, non può essere consentito.
inglobando la FO fra due film di adesivo con spessore
nominale di 0,1mm. L’incollaggio di 2 laminati in fibra di
carbono è stato realizzato in pressa a piani caldi assistita
da vuoto. L’ausilio di speciali cuscini elastomerici ha
garantito una pressione uniforme sull’intera superficie dei
provini affetti da uno spessore non costante in larghezza a
causa della presenza della FO. Sono state inglobate
entrambe le tipologie di FO in esame.
L’inglobamento negli incollaggi: analisi
microscopiche
Alla luce dei risultati appena riscontrati,
l’inglobamento di una FO fra due film di adesivo
strutturale che incollano due laminati in composito già
polimerizzati appare improponibile. Esso può essere
considerato infatti un caso limite dei precedenti in cui
la FO si trova sottoposta a sollecitazioni ancor più
gravose in virtù della maggior rigidezza dell’host
material all’interno del quale non c’è alcuna
possibilità di movimento per le fibre di rinforzo
indipendentemente dalla sequenza di laminazione
adottata per la realizzazione dei 2 aderendi.
Le immagini in Figura 52.40 evidenziano l’effetto
benefico dell’adesivo che potendo fluire con maggiore
libertà rispetto alla resina dei pre-impregnati riduce la
percentuale di vuoti. Per contro i danni sul coating in poliacrilato sono estremamente marcati: il cladding è rimasto
pressoché privo della sua protezione al punto che
l’adesivo ha potuto penetrare negli interstizi creatisi fra le
due parti. Anche in questo caso la FO in poli-imide non
mostra danneggiamenti evidenti.
52.7.1.2
52.7.1.3 Analisi DSC del coating
Le rilevanti deformazioni del coating in poli-acrilato
possono trovare una giustificazione dal superamento della
temperatura di transizione vetrosa del materiale durante i
cicli di polimerizzazione della resina. Oltre questa
temperatura infatti si ha la rottura dei legami
intermolecolari tra le catene polimeriche e quindi la
possibilità della comparsa di deformazioni permanenti a
seguito di sollecitazioni meccaniche, quali ad esempio le
pressioni del ciclo produttivo dei compositi.
D’altro canto le motivazioni che giustificano
l’attenzione ad un caso così critico sono molteplici.
Innanzitutto gli incollaggi costituiscono la tecnica di
collegamento più naturale per i laminati compositi il
cui impiego nelle moderne costruzioni aeronautiche è
sempre più diffuso. Le giunzioni sono per altro zone
ad alta concentrazione di sforzi che non possono essere
trascurate nell’ottica di realizzare un sistema di
monitoraggio strutturale efficiente. In ultimo sempre
più spesso la produzione di componenti complessi e ad
elevato spessore si basa sull’incollaggio di sotto
laminati elementari.
Le analisi al DSC condotte su campioni di FO con
entrambe le tipologie di coating hanno effettivamente
confermato tale ipotesi. La Figura 4.8 e la Figura 4.9
mostrano i grafici ottenuti. La temperatura di transizione
vetrosa è individuata dal flesso della curva del flusso di
calore fornito al campione. Si può notare come il coating
in poli-imide abbia TG pari a 187°C, mentre per il poliacrilato si ha un valore di 86°C. Questi risultati
dimostrano perciò anche quantitativamente come i
rivestimenti in poli-acrilato siano molto più vulnerabili
alle sollecitazioni meccaniche rispetto a quelli in poliimide che viceversa non subiscono danni.
Poli-imide
Poli-acrilato
Figura 52.40 – Analisi microscopica incollaggio.
Le prove tecnologiche e le successive analisi
microscopiche sono state condotte su provini realizzati
Figura 52.41 – Analisi DSC del coating in poli-acrilato.
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Pur tuttavia, quando la temperatura torna a valori
ambientali, i legami intermolecolari si riformano. Se le
deformazioni rimangono entro valori accettabili è
comunque possibile ipotizzare l’uso di FO con coating
in poli-acrilato. Queste infatti presentano alcuni
vantaggi. I costi della FO risultano inferiori e la
maneggiabilità è meno critica, proprio grazie ai
maggiori spessori del rivestimento ed alla minore
fragilità. Inoltre sempre lo spessore più abbondante e
la maggiore deformabilità, seppur giudicati
negativamente in alcuni frangenti, potrebbero
considerarsi favorevoli proprio per limitare le
deformazioni trasversali di cladding/core in caso di
inglobamenti per esempio in tessuti.
seconda polimerizzazione non necessita di attenzioni
particolari e tantomeno di modifiche al ciclo di
polimerizzazione fornito dal produttore del preimpregnato. In sostanza, realizzato che sia il primo
inglobamento si dispone di un sensore a FO robusto,
maneggevole e facilmente inglobabile da cui la
denominazione “Quick-Pack”. Naturalmente le difficoltà
sono tutte ora concentrate nella produzione di questo
laminato, ma la differenza fondamentale rispetto
all’inglobamento diretto sta nel fatto che il Quick-Pack
può essere progettato ad hoc avendo libertà d’azione su
tutti i principali parametri connessi alla sua realizzazione a
partire dalla scelta del materiale, della sequenza di
laminazione, delle pressioni di polimerizzazione finanche
alla tecnologia produttiva. Il ciclo tecnologico ottimale
deve tenere sempre in considerazione la forte influenza
della pressione sul livello di deformazioni indotte sul
coating in poliacrilato, ciò che non accade per il coating in
poli-imide.
Figura 52.42 – Analisi DSC del coating in poli-imide.
Figura 52.43 – Quick-Pack prodotto in forno con sacco
da vuoto a 0,7 bar.
52.7.1.4 Tecniche di inglobamento
Le analisi microscopiche hanno confermato ancor di
più la necessità di dotarsi di tecniche di inglobamento
capaci di prescindere dalla sequenza di laminazione
del materiale ospite. Appare chiaro a questo punto che
ciò si traduce nell’ introduzione di un dispositivo di
protezione della FO che possa garantirne la completa
funzionalità ma che, nel contempo, sia ad invasività
estremamente ridotta e consenta un adeguato
trasferimento delle sollecitazioni al sensore FBG. Con
questi obbiettivi è stata originalmente sviluppata una
tecnica denominata “inglobamento mediante QuickPack” per la descrizione della quale è dedicato il
prossimo paragrafo.
Nella sua versione definitiva il Quick-Pack consta di 2
lamine in tessuto di fibra di vetro bilanciato ad alto
contenuto di resina (66% in peso) e spessore molto ridotto
(circa 0,05mm) la cui polimerizzazione viene eseguita in
forno con l’ausilio del sacco da vuoto ad una pressione
relativa di -0,7bar. La fase di laminazione mediante
tecnica dell’hand-lay-up avviene su apposito stampo
piano in lega leggera di alluminio sul quale sono deposti
in successione un pad elastomerico ed un film di teflon®
microforato. Specularmente questi stessi strati vengono
deposti anche sopra il laminato inglobante la FO prima di
effettuare la chiusura del sacco (Figura 52.44). Le 2
lamine di pre-impregnato sono orientate a 0°. La scelta di
un pre-impregnato in fibra di vetro a grammatura fine
fornisce alle lamine la capacità di aderire alla FO
nonostante la presenza di fibre di rinforzo ortogonali ad
essa (peraltro fondamentali per ottenere una distribuzione
uniforme della resina nel laminato). L’elevato contenuto
di resina congiuntamente all’utilizzo dei due film di teflon
microforati (il cui compito è quello di controllare e
limitare il rilascio della resina in eccesso) ed a una ridotta
pressione di polimerizzazione garantiscono inoltre la
presenza di un quantitativo di resina tale da evitare la
presenza di vuoti soprattutto in prossimità della FO. Il
Inglobamento mediante Quick-Pack
Il concetto su cui si basa questa tecnica è quello di
effettuare l’inglobamento della FO in 2 fasi mediante 2
cicli di polimerizzazione distinti. Nella prima fase
l’inglobamento è eseguito in un laminato le cui
caratteristiche unitamente
ad un ciclo di
polimerizzazione appositamente studiato siano in
grado di soddisfare tutti i requisiti tecnologici . Nella
seconda fase si effettua l’inglobamento del laminato
così prodotto all’interno del materiale ospite vero e
proprio. Il punto di forza di questa tecnica è che la
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ridotto spessore delle lamine è infine motivato dalla
necessità di limitare l’invasività del Quick-Pack.
La tecnica di inglobamento mediante QP consente di
effettuare l’inglobamento della FO anche nello strato di
adesivo che unisce due aderendi come mostrano le
immagini di Figura 52.45 ove è riportato il confronto fra
le sezioni di 2 provini incollati inglobanti una FO in poliacrilato inglobata con e senza QP. Si può notare che,
benché deformato, il coating protetto dal QP rimane
perfettamente integro.
Inglobamento diretto
(a)
La presenza del QP in seno al materiale ospite, per quanto
si tratti di 2 sole lamine a spessore molto ridotto, ne
modifica la sequenza di laminazione e ciò può riflettersi
sulle caratteristiche meccaniche globali della struttura.
Inoltre questa tecnica di inglobamento innovativa
ancorché promettente deve essere ancora ampliamente
validata soprattutto nelle condizioni più critiche per il QP.
Si pensi ad esempio all’inglobamento in un laminato in
fibra di carbonio sottoposto a forti gradienti termici: il
differente comportamento delle fibre di carbonio rispetto a
quelle di vetro con cui è realizzato il QP potrebbe
innescare pericolosi effetti termo-elastici. Per questi ed
altri motivi l’inglobamento diretto della FO potrebbe
essere comunque preferibile laddove consentito. Le analisi
microscopiche hanno evidenziato che la condizione
migliore è quella di laminati UD con sequenza di
laminazione [0°]n. Si è altresì notato che potrebbero essere
sufficienti poche lamine a 0° in una sequenza di
laminazione qualsivoglia. Indagini successive hanno
permesso di verificare che la presenza di lamine a 0° può
essere limitata ad un lato della sequenza di laminazione
rispetto all’interfaccia in cui si ingloba la FO. Ciò perché
in una simile condizione le fibre disallineate rispetto alla
FO, essendo tutte da una parte, “costringono” la FO stessa
a penetrare fra le fibre di rinforzo parallele ad essa e
posizionate dal lato opposto. La Figura 4.14 sottostante
evidenzia come le fibre di rinforzo delle lamine disposte a
0° si dispongano omogeneamente attorno alla FO
minimizzando la presenza di difettosità attorno al sensore.
(b)
(c)
Figura 52.44 – Fasi di produzione del QP.
Posizionamento sensori FBG (a), pad elastomerico (b) e
Quick-Pack polimerizzato prima dell’operazione di
contornatura (c).
(a)
(b)
Figura 52.45 – Confronto fra le sezioni di un provino
incollato con una FO in poli-acrilato inglobata nello
strato di adesivo con (a) e senza (b) QP.
Figura 52.46 – Inglobamento diretto della FO
nell’interfaccia 45°/0° di un laminato in fibra di vetro.
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uno speciale stampo che consenta di ottenere una buona
finitura superficiale (Figura 4.16).
Protezione della zona di uscita della FO dal laminato
A differenza di altri smart materials che possono
essere collegati ai sistemi di alimentazione ed
interrogazione esterni al laminato mediante
connessioni elettriche (per le quali è richiesto un grado
di attenzione nettamente inferiore) in questo caso deve
essere necessariamente la FO stessa a fungere da
elemento di collegamento del sensore FBG con
l’esterno. Il punto di uscita più naturale è sicuramente
il bordo del laminato stesso. Ciononostante è proprio
in questa zona che l’intrinseca fragilità delle fibre
ottiche si manifesta in tutta la sua criticità. Qui la FO è
infatti soggetta ad una netta discontinuità e ad un
conseguente stato di concentrazione di sforzi . La
resina del materiale ospite che per effetto della
temperatura è resa estremamente fluida nella fase
precedente alla polimerizzazione tende inoltre a
risalire per capillarità lungo la fibra stessa provocando,
a reticolazione avvenuta, la nascita di pericolosi sforzi
residui di compressione.
(a)
(c)
Figura 52.48 – Speciale diga con inserti elastomerici per
garantire la protezione della FO all’uscita dal laminato.
(b)
52.7.2 L’inglobamento di attuatori PZT
Le specifiche criticità connesse all’inglobamento di
attuatori piezoceramici dipendono fondamentalmente da
due fattori. Il primo di questi è l’intrinseca fragilità delle
ceramiche per cui è cruciale evitare concentrazioni di stati
di sforzo locali durante ogni fase del processo produttivo
fin dalle operazioni preliminari all’inglobamento
necessarie per il collegamento degli attuatori con la
strumentazione di alimentazione e controllo. A differenza
delle FO essi sono infatti completamente inglobati nel
materiale ospite e la loro raggiungibilità dall’esterno
richiede l’adozione di fili elettrici di connessione. Il
secondo fattore deriva dalla necessità di garantire
l’isolamento elettrico fra gli elettrodi dell’attuatore stesso
il che si traduce nell’impossibilità di effettuare un
inglobamento diretto fra lamine di composito che
presentino conducibilità elettrica. Entrambi questi
problemi possono essere superati pre-inglobando
l’attuatore PZT fra due speciali films costituiti da uno
strato di materiale isolante (kapton) ed uno conduttivo
(rame). Lasciando all’esterno il kapton è garantito
l’isolamento elettrico dal materiale ospite mentre la
presenza del rame consente di posizionare i fili elettrici
nella parte finale dei due films esternamente al PZT
evitando così possibili danneggiamenti allo stesso. Questa
soluzione, peraltro adottata dalla maggior parte delle
tecniche di inglobamento proposte in letteratura, comporta
(d)
Figura 52.47 – Aspetto critico della fibra ottica all’uscita
dal laminato (a e b), sistema di protezione mediante
tubetto in PTFE (c) e sua applicazione al QP (d).
La soluzione a questi problemi consiste nell’adozione
di un tubo in PTFE di ridotte dimensioni (in cui viene
inserita la fibra ottica) anch’esso inglobato nel
laminato per circa 10mm e che si estende, all’altro
capo, fino alla zona in cui viene collegato il connettore
ottico. Al fine di evitare che la resina fluisca per
capillarità all’interno del tubo, l’intercapedine viene
sigillata con resina epossidica a freddo (Figura 52.47).
L’intera operazione, che viene eseguita durante la fase
di laminazione, è necessaria sia per l’inglobamento
diretto sia per l’inglobamento mediante Quick-Pack. In
questo caso però essa viene compiuta solamente
durante la produzione del QP in quanto durante il
successivo inglobamento nel laminato è il QP stesso a
proteggere la FO (Figura 52.47-d). Essendo
impossibile eseguire la contornatura del laminato sui
lati interessati dalla FO è infine opportuno utilizzare
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tuttavia l’introduzione nel materiale ospite di ulteriori
2 materiali differenti, ciascuno con le proprie
caratteristiche fisiche, chimiche e meccaniche.
Analizzando in dettaglio la sequenza di laminazione di
un laminato intelligente realizzato in questo modo ed
escludendo le interfacce fra le lamine di composito si
contano esattamente nella zona del PZT 6 interfacce
fra materiali diversi, 3 per ciascun lato dell’attuatore
(Tabella 4.2), oltre alla presenza di due strati di
adesivo necessari per unire il rame sia al film di poliimide sia all’attuatore. Ciò implica la nascita di sforzi
di taglio di natura termo-elastica con conseguente
aumento della probabilità di innesco di delaminazioni.
film di rame alla poli-imide da un lato ed all’attuatore
dall’altro. Per poter realizzare il QP dei PZT rimane però
da risolvere il problema legato alla connessione dei fili
elettrici.
Tabella 52.4 – Interfacce in corrispondenza del PZT
secondo la tecnica più comunemente utilizzata per
isolare elettricamente l’attuatore.
(a)
1a interfaccia
Composito / poli-imide
2a interfaccia
Poli-imide / rame con adesivo
a
Rame / PZT
a
PZT / rame
a
5 interfaccia
Rame / poli-imide
6a interfaccia
Poli-imide / composito
3 interfaccia
4 interfaccia
Questo ragionamento trova conferma proprio in
letteratura dove non sono rari i casi in cui si
denunciano rotture del laminato in seguito allo
scollamento di una delle interfacce del sistema di
protezione del PZT. Paget e Levin riscontrarono il
cedimento dell’adesivo fra PZT e rame su provini
sollecitati staticamente a trazione (Figura 52.49), Mall
e Coleman [62] monitorarono la nucleazione e
propagazione di una delaminazione analoga su provini
a fatica. Altri autori evidenziarono delaminazioni fra
poli-imide e composito.
(b)
Figura 52.49 – Esempio di inglobamento di attuatore
PZT mediante sistema di protezione in poli-imide (a) e
indagine al microscopio ottico della delaminazione
occorsa durante i tests fra PZT e strato di rame (b).
Cablaggio dell’attuatore PZT
Nelle applicazioni comuni gli attuatori PZT vengono
collegati ai fili elettrici mediante saldatura a stagno. E’ in
apparenza la soluzione più semplice e per tale motivo fu
quella adottata fin dalle prime esperienze di inglobamento.
L’operazione invero comporta delle difficoltà legate alla
necessità di non superare la Temperatura di Curie del
materiale ceramico pena la depolarizzazione dello stesso.
Ciò che richiede l’esecuzione della saldatura in tempi
rapidi ed ai limiti della temperatura di fusione dello stagno
nonché l’impiego di flussanti in grado di promuovere
l’adesione dello stesso allo strato metallico elettrodepositato sulla ceramica. Tali difficoltà aumentano
proporzionalmente alla riduzione delle dimensioni sia
della saldatura sia dei componenti da collegare,
condizione imprescindibile nel caso di attuatori inglobati.
La tecnica di inglobamento qui presentata si pone
dunque l’obbiettivo di migliorare l’adesione
PZT/materiale ospite riducendo nel contempo il
numero di interfacce fra materiali diversi.
52.7.2.1 Inglobamento mediante Quick-Pack
Grazie alle caratteristiche isolanti delle fibre di vetro, è
apparso evidente fin da subito che un sistema
efficiente per isolare elettricamente i PZT fosse
proprio il Quick-Pack originariamente sviluppato per
le fibre ottiche. Esso infatti essendo costituito della
stessa matrice epossidica del materiale ospite è
potenzialmente in grado di esibire un’adesione
superiore a quella di altri materiali. L’inglobamento
del PZT direttamente fra le lamine in fibra di vetro del
QP consentirebbe inoltre di ridurre il numero di
interfacce presenti limitandosi a quella fra PZT e
lamine in fibra di vetro ed a quella fra queste ultime ed
il materiale ospite. Inoltre non vi sarebbe più la
presenza dei due strati di adesivo necessari per unire il
Pur tuttavia, il vero problema è qui legato alla nascita di
concentrazioni di sforzo deleterie dovute proprio alla
presenza di tale saldatura. Nonostante il suo spessore
possa essere estremamente ridotto (anche inferiore al
decimo di millimetro) ed il materiale d’apporto possa
essere distribuito uniformemente così da ottenere una
superficie priva di asperità si è verificato che le pressioni
di polimerizzazione del materiale ospite ingenerano sforzi
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locali elevati che causano frequenti rotture
dell’attuatore inglobato. In Figura 52.50-b sono
evidenti le cricche sull’attuatore che hanno come
punto di partenza comune la zona della saldatura.
Benché questi non possano essere considerati fragili come
le FO la resina che tende ad accumularsi attorno ad essi
induce anche in questo caso pericolosi sforzi di
compressione che, unitamente alle loro ridotte dimensioni
(il diametro dei fili è circa 40m) possono provocare
rotture accidentali. La presenza delle patches consente di
assorbire la resina in eccesso rilasciata dal preimpregnato
mantenendo però nel contempo un’invasività ridotta
durante la successiva fase di inglobamento del QP nel
materiale ospite. Questo materiale infatti è estremamente
sottile (spessore inferiore ai 20m) ed esibisce un’elevata
drappabilità e bagnabilità, caratteristiche che ne
permettono l’utilizzo proprio nelle zone di accumulo di
resina all’interno dei laminati in composito. La Figura
4.19-c mostra il QP al termine della polimerizzazione. Si
può notare come le dimensioni siano leggermente più
grandi del PZT al fine di garantirne l’isolamento elettrico
richiesto su tutti i lati. In particolare l’attuatore
nell’immagine ha dimensioni 30x30x0,127mm mentre il
QP misura 50x40x0,25mm.
Traendo spunto dai casi di letteratura pocanzi
presentati è stata messa a punto una tecnica che in
maniera analoga consentisse di eliminare la saldatura
dal PZT. Essa consiste nell’adozione di piccole strisce
di adesivo conduttivo che si posizionano solo
parzialmente sull’attuatore. In questo modo è possibile
portare la zona di saldatura al di fuori dell’attuatore
laddove
evidentemente
non
può
indurre
danneggiamenti sullo stesso come si può vedere
chiaramente in Figura 52.51-a. Tale film adesivo, di
spessore 50m, è costituito da una pellicola di
materiale conduttivo su cui è applicata una resina
epossidica contenente particelle di argento che ne
assicurano la conducibilità elettrica.
(a)
(a)
(b)
(b)
(c)
Figura 52.50 – Saldatura eseguita su di un attuatore
PZT Piezo Inc (a) e rottura di un attuatore PZT
Ferroperm inglobato a causa di sforzi locali elevati nella
zona della saldatura durante il ciclo di polimerizzazione
del materiale ospite.
Figura 52.51 – Fasi di produzione del QP per attuatori
PZT. Cablaggio (a), laminazione (c) e QP a produzione
ultimata (b).
Tecniche di inglobamento del QP
Produzione del Quick-Pack
La fase di inglobamento del QP nel materiale ospite può
essere eseguita seguendo le tecniche proposte in
letteratura. Sostanzialmente se ne individuano due:
l’inglobamento diretto e l’inglobamento mediante cut-out.
La prima è certamente più semplice ma introduce nel
materiale ospite evidenti difettosità sotto-forma di sacche
di resina e vuoti in corrispondenza dei bordi dell’attuatore,
La produzione del QP può essere eseguita seguendo le
stesse procedure sviluppate per le fibre ottiche.
L’unica differenza degna di nota è l’adozione di 4
patches in fibra di vetro non impregnate (Nexus®)
posizionate a protezione dei fili elettrici nella zona di
fuoriuscita dal QP (Figura 52.51-c).
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laddove le fibre di rinforzo non riescono a seguire
perfettamente l’improvvisa variazione di spessore del
laminato. La seconda tecnica è stata sviluppata con
l’obbiettivo primario di ridurre questo effetto.
Operando il cut-out di una o più lamine con
orientazione a 90° rispetto alla direzione di
applicazione del carico è possibile ricavare un’apposita
sede in cui posizionare l’attuatore. Si ottiene un
laminato con giacitura delle fibre di rinforzo invariata
o comunque modificata in misura minima rispetto alla
configurazione ottimale. Di contro anche questa
tecnica non è esente da problemi introducendo
difettosità, seppur di dimensioni più contenute, nella
zona in cui le lamine che muoiono incontrano il PZT.
Inoltre proprio queste lamine costituisco esse stesse
elemento di discontinuità nella sequenza di
laminazione. Che questa tecnica sia più efficiente e
meno invasiva rispetto all’inglobamento diretto non è
quindi affatto scontato. Lo confermano peraltro i
numerosi studi con conclusioni spesso contrastanti
presenti in letteratura. Min e Seng, Gli stessi Paget e
Mall hanno conseguito risultati talvolta favorevoli ad
una tecnica e talvolta favorevoli all’altra. In particolare
Mall eseguì una campagna di tests di confronto su
provini con laminazione quasi-isotropa i cui risultati
mostrarono non esserci particolari differenze di
resistenza e rigidezza. Diversamente il comportamento
a fatica di provini analoghi testati in condizioni di
carico R=0,1 evidenziarono una riduzione della
velocità di propagazione della cricca in direzione
trasversale alla direzione di applicazione del carico nei
provini con PZT inglobati mediante cut-out. Vizzini e i
suoi colleghi partirono dalla considerazione che, pur
con modalità diverse, entrambe le tecniche inducono in
ogni caso alla nucleazione e propagazione prematura
di delaminazioni a causa della nascita di
concentrazioni di sforzo troppo elevate in
corrispondenza delle discontinuità introdotte. Con
l’obbiettivo di ridurre tali sforzi interlaminari Vizzini
modificò la tecnica di inglobamento mediante cut-out
cercando di distribuire sullo spessore le discontinuità
introdotte. Questa tecnica si rifà a quelle sviluppate per
i laminati rastremati laddove un certo numero di
lamine che muoiono all’interno del laminato vengono
preferibilmente distribuite nella sequenza di
laminazione. La deposizione alternata di lamine che
muoiono e di lamine continue consente infatti di
distribuire il carico evitando pericolose concentrazioni
di sforzo. Attraverso analisi numeriche e prove
sperimentali Vizzini dimostrò che la resistenza a
rottura a trazione in condizioni statiche di provini con
cut-out distribuito è superiore di un fattore 2 rispetto a
quelli con cut-out concentrato. Come si può notare in
Figura 52.52, questa tecnica può essere ritenuta
preferibile laddove requisiti funzionali legati alla
prestazione dell’attuatore richiedessero l’adozione di
PZT con spessori elevati per il cui inglobamento
sarebbe necessario operare il cut-out di un numero
molteplice di lamine. Benché la disponibilità di attuatori
sempre più prestanti e di dimensioni sempre più contenute
renda questa evenienza assai remota la tecnica di Vizzini
evidenzia in ogni caso l’importanza di ridurre le
concentrazioni di sforzo in corrispondenza dell’attuatore.
Del resto le peculiarità del QP dovrebbero consentire di
migliorare le prestazioni complessive del laminato.
Figura 52.52 – Tecnica di inglobamento di un attuatore
PZT mediante cut-out distribuito.
Nel seguito della trattazione i PZT sono stati inglobati sia
mediante inglobamento diretto sia mediante cut-out come
illustrato in Figura 52.53. Operativamente le due tecniche
si equivalgono. Le difficoltà principali sono legate anche
in questo caso alla necessità di distribuire il più
uniformemente possibile la pressione sul laminato in fase
di polimerizzazione ed alla protezione dei fili elettrici
nella zona di fuoriuscita dal laminato stesso. Le soluzioni
messe in atto sono, analogamente a quanto già descritto
per le FO, l’ausilio di cuscini elastomerici e di tubi in
PTFE. Rispetto ai sensori FBG tuttavia gli attuatori PZT
non risentono della sequenza di laminazione adottata: la
ceramica resiste a pressioni anche elevate purché
uniformi. L’unico inconveniente è una sua parziale
depolarizzazione se soggetta a carichi di compressione
particolarmente gravosi.
(a)
(b)
Figura 52.53 – Tecniche di inglobamento del QP.
Inglobamento diretto (a) e inglobamento mediante cutout (b).
Per quanto riguarda nello specifico l’inglobamento dei fili
elettrici e la modalità con cui farli uscire dal laminato,
Ghasemi-Nejhad e i suoi collaboratori proposero 3
differenti soluzioni confrontandole sulla base di opportuni
indici fra cui l’invasivity, la durability e la reparability.
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
52.7.3 L’inglobamento di attuatori in NiTiNOL
L’inglobamento di attuatori in lega a memoria di forma
può apparire in prima analisi meno critico rispetto agli
smart materials visti in precedenza per i quali i problemi
erano connessi principalmente alla loro intrinseca fragilità.
In realtà il grado di complessità di questa operazione è
strettamente correlato agli obbiettivi che si intende
raggiungere, ovvero alle caratteristiche meccaniche e
funzionali che si richiedono ad un laminato inglobante
questo tipo di attuatori.
Benché essi abbiano sviluppato e brevettato una
tecnica in grado di consentire la sostituzione dei fili in
caso di rottura, i test dimostrarono che la soluzione in
assoluto migliore resta il loro inglobamento diretto
insieme all’attuatore disponendo i fili, per quanto
possibile, fra le fibre di rinforzo del materiale ospite
per poi farli uscire, nella maniera più naturale
possibile, dai bordi dello stesso.
La Figura 52.54-a e la Figura 52.54-b evidenziano il
diverso grado di difficoltà nel posizionamento dei fili
elettrici su di una lamina di tessuto e una di UD con
fibre orientate a 90° rispetto ai fili stessi. Si può notare
la presenza dei tubetti in PTFE che, come per le FO,
vengono utilizzati per proteggere i fili nella zona di
uscita dal laminato.
Sulla base del suo principio di funzionamento l’effetto a
memoria di forma di un attuatore SMA può essere
sfruttato in due modi. Nel primo caso, previo
inglobamento in uno stato pre-deformato ovvero in fase di
martensite orientata, l’autorità sul materiale ospite è
associata alla trasformazione reverse della lega durante la
quale l’attuatore tende a recuperare la forma che gli è
propria in fase di austenite. In questo caso si sfrutta
dunque l’effetto a memoria di forma ad una via
(OWSME). Al termine dell’attivazione è necessaria
l’applicazione di un carico esterno che riporti l’attuatore
nella sua condizione iniziale pre-deformata. Ciò che può
avvenire in fase di raffreddamento grazie alla rigidezza
del materiale ospite ed al suo ritorno elastico verso la
configurazione iniziale. Nel secondo caso viene sfruttato
l’effetto a memoria di forma a due vie (TWSME):
l’attuatore può essere inglobato sia in fase di austenite sia
in fase di martensite detwinned ed il passaggio dalla prima
forma alla seconda e viceversa avviene attraverso cicli di
raffreddamento e riscaldamento.
Le immagini in Figura 52.55 illustrano infine alcune
fasi dell’inglobamento. Si può osservare la diga
elastomerica di cui è dotato lo stampo per permettere
ai fili elettrici di fuoriuscire dal sacco da vuoto
proteggendoli sia dalla pressione di polimerizzazione
sia dalla resina rilasciata dal pre-impregnato. L’ultima
immagine mostra il laminato posizionato fra due
cuscini
elastomerici
che
garantiscono
una
distribuzione uniforme della pressione.
(a)
(b)
La differenza sostanziale di queste due modalità di
funzionamento sta nella forza che l’attuatore può
sviluppare. E’ noto infatti che la deformazione ed il
conseguente sforzo di recupero associato all’effetto a due
vie sia nettamente inferiore rispetto a quello ad una via. La
caratterizzazione sperimentale presentata nel capitolo 3 ha
confermato che un filo di NiTiNOL allenato a due vie è in
grado di recuperare deformazioni dell’ordine del 2÷2,5%
mentre con l’effetto ad una via è possibile progettare
l’attuatore su deformazioni fino al 6÷7%. In questo caso
infatti il limite sulla pre-deformazione iniziale della lega è
principalmente legato all’insorgere della plasticità nel
materiale nonché al grado di ripetibilità ed al numero di
attivazioni che si richiede all’attuatore.
(c)
Figura 52.54 – Fili elettrici inseriti fra trama e ordito di
una lamina di tessuto (a) e loro posizionamento su di
una lamina UD con le fibre di rinforzo orientate
trasversalmente ai fili stessi (b). Maschera per il cut-out
(c).
Da questa considerazione se ne deduce che un attuatore
SMA può essere efficientemente impiegato a due vie solo
se inglobato in un laminato al quale non sono richieste né
rigidezze elevate né grandi variazioni di forma. E’ ovvio
che tali vincoli appaiono fortemente limitanti, soprattutto
nell’ottica di sviluppare smart structures altamente
performanti, motivo per il quale la ricerca scientifica è
principalmente orientata alla messa a punto delle
tecnologie produttive di laminati inglobanti attuatori ad
una via.
Figura 52.55 – Inglobamento del QP con attuatori PZT.
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52.7.3.1 Tecniche di inglobamento
Una fra le prime tecniche sviluppate per introdurre fili
SMA nei laminati in composito prevedeva il loro
inglobamento mediante manicotti (Figura 4.24-a).
Sperimentata da Thompson e J. Loughlan [41]-[42], da
Birman [71] e altri ricercatori nella seconda metà degli
anni novanta questa tecnica consente l’inserimento dei
fili a polimerizzazione avvenuta attraverso manicotti in
gomma vulcanizzata o materiale plastico inglobati nel
laminato in fase di laminazione. Il trasferimento del
carico era garantito da una struttura esterna montata
sul laminato che vincolava le estremità dei fili al
laminato stesso. In questo modo si evitavano i
problemi di adesione all’interfaccia attuatore/materiale
ospite con il risultato di ridurre il decadimento delle
prestazioni conseguente ad un numero elevato di cicli
di attivazione. D’altro canto la presenza sia di questa
struttura esterna sia soprattutto dei manicotti in seno al
laminato era apparsa fin dall’inizio troppo invasiva e la
tecnica non ebbe molto seguito. Lo step successivo fu
quello di effettuare l’inglobamento diretto di fili già
allenati e pre-deformati polimerizzando il materiale a
temperature inferiori a quella di attivazione (AS).
Poiché le temperature di inizio della trasformazione in
austenite sono generalmente inferiori ai 50÷60°C ciò
implica sostanzialmente l’utilizzo di sistemi di resine a
freddo ed a tecniche di laminazione wet-lay-up. Le
prestazioni dei laminati che se ne ottengono sono
modeste e di scarso interesse per la maggior parte delle
applicazioni. La mancanza di pre-impregnati complica
la fase di inserimento dei fili ed il loro mantenimento
nella posizione desiderata (Figura 4.24-b). In ultimo, la
necessità di utilizzare resine a basse temperature di
reticolazione e, conseguentemente, basse temperature
di transizione vetrosa limita la scelta delle tipologie di
lega che è possibile inglobare. Queste infatti devono
avere temperature di trasformazione (AF) inferiori alla
Tg della matrice al fine di evitare un prematuro
degrado dell’interfaccia filo/materiale ospite.
(a)
laminazione. In questo modo infatti è possibile utilizzare
pre-impregnati ad alta temperatura essendo impedito ai fili
il recupero di forma associato alla trasformazione in
austenite. Durante il ciclo di polimerizzazione del
materiale ospite si induce sulla lega uno stato di sforzo
temporaneo che permane fino alla successiva ritrasformazione in martensite detwinned che avviene nella
fase di raffreddamento conclusiva del ciclo. Dal punto di
vista della compatibilità termica fra materiale ospite e
attuatore, l’unico vincolo che permane è quello sulla Tg
della matrice anche se i sistemi di resina epossidica più
evoluti garantiscono temperature di funzionamento
superiori ai 150°C. La Figura 52.57 illustra la fase di
inglobamento di 6 fili in uno dei pannelli prodotti. Le
caratteristiche principali di tale pannello sono riportate in
Tabella 52.5.
Tabella 52.5 – Caratteristiche principali di un laminato in
fibra di carbonio inglobante attuatori in fili di NiTiNOL.
ID PROVINO
Dimensioni
Host Material
Spessore lamina
003
260x100x1.27mm
Carbon fabric pre-preg
SEAL CC90 ET443
0.12mm
Sequenza di laminazione
[90°/(0°)2/90/45°/-45°]s
Tipologia attuatore
Fili Dynalloy – diametro
0.381mm
Numero attuatori
Posizione attuatori
6
Inglobati fra la 10a e la 11a
lamina
Per rendere più agevole il posizionamento dei fili si
applica ad essi un leggero pre-tensionamento mediante lo
stesso sistema di afferraggio che vincola i fili durante la
polimerizzazione del laminato. Si può notare la presenza
delle ormai consuete dighe elastomeriche in
corrispondenza dei lati del pannello da cui fuoriescono i
fili necessarie sia per ottenere una buona finitura
superficiale ai bordi del pannello stesso sia per proteggere
appositi terminali che facilitano il successivo
collegamento degli attuatori al sistema di alimentazione
(Figura 52.57-a). Per l’attivazione dei fili infatti, benché
essa possa essere eseguita mediante convezione o
irraggiamento termico, è generalmente preferibile sfruttare
l’effetto Joule che permette attivazioni più rapide oltre che
la possibilità di attivare separatamente ogni attuatore
inglobato. Il vantaggio di attivazioni parziali può essere
facilmente compreso se si pensa ad una struttura più
complessa di un semplice pannello in cui la presenza di un
numero molteplice di fili opportunamente distribuiti
potrebbe consentire di realizzare un sistema di attuazione
in grado di introdurre sia carichi localizzati sia diversi
livelli di sollecitazione.
(b)
Figura 52.56 – Tecniche di inglobamento di attuatori in
fili di NiTiNOL. Inglobamento mediante manicotti (a) e
inglobamento mediante tecnica wet lay-up con ciclo di
polimerizzazione inferiore ad AS (b).
Tecnica di inglobamento sviluppata presso il DIA
Per superare i limiti denunciati da entrambe queste
tecniche di inglobamento una via perseguibile è quella
di inglobare gli attuatori in fase di martensite
detwinned vincolandoli allo stampo su cui si effettua la
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
essere quella di effettuare un pre-inglobamento in un
materiale che risponda a tali requisiti, seguendo dunque la
medesima filosofia adottata per gli altri smart materials
presi in esame: l’inglobamento mediante Quick-Pack.
La fibra di vetro, che già ha consentito di effettuare
efficacemente l’isolamento elettrico fra gli elettrodi dei
PZT, è nota anche per le sue proprietà di isolamento
termico e potrebbe dunque rispondere anche ai requisiti
richiesti per l’inglobamento degli attuatori in NiTINOL.
Non di meno, non possono essere trascurate le
caratteristiche peculiari del Quick-Pack che consente di
poter prescindere dalla sequenza di laminazione dell’host
material. A tal proposito, Zhou ottenne sui fili di
NiTiNOL risultati analoghi a quelli qui presentati per le
FO: il loro inglobamento comporta la nascita di difettosità
soprattutto se inglobati con orientazione differente rispetto
alle fibre di rinforzo. Egli verificò inoltre il grado di
invasività di tali fili inglobati evidenziando nelle modeste
caratteristiche dell’interfaccia filo/host material la
principale causa di cedimento dei laminati.
(a)
(b)
Figura 52.57 – Tecnica di inglobamento diretto
vincolato di attuatori in fili di NiTiNOL.
Una siffatta filosofia progettuale introduce però una
serie di problemi legati all’attivazione degli attuatori. I
tempi di attivazione sono legati esclusivamente alla
diffusione del calore nel materiale essendo la
trasformazione martensitica una trasformazione non
diffusiva. L’attivazione di un filo non inglobato
richiede tempi minimi; se inglobato nel laminato può
impiegare anche tempi dell’ordine di 100÷200
secondi. Questo perché molto dipende dalla
conducibilità termica ed elettrica del materiale ospite.
Tempi di attivazione così elevati sono fortemente
penalizzanti anche in applicazioni dove non è richiesta
una risposta immediata del sistema di attivazione.
Pur tuttavia, l’attivazione dei fili durante il processo
produttivo e la conseguente necessità di effettuare un
“inglobamento vincolato” dei fili stessi così come
l’esecuzione di 2 cicli termici di polimerizzazione per
produrre il QP e successivamente effettuarne
l’inglobamento nel materiale ospite sono tutti elementi
che non possono escludere a priori la nascita di difficoltà
nell’adozione di una tale tecnica.
Alla luce di queste considerazioni, la tecnica del QP è
stata applicata anche ai fili di NiTiNOL. La Figura 4.26
illustra alcune fasi del processo produttivo. Nonostante il
livello di complessità della procedura di inglobamento, la
presenza del QP ha agevolato il posizionamento degli
attuatori nel laminato ospite. Si è notato infatti che a
seguito del primo inglobamento dei fili fra le due lamine
in fibra di vetro questi diventino più maneggevoli, il QP
impedisce loro di muoversi e l’operazione di
inglobamento successiva si limita ad una normale
procedura di laminazione. L’analisi al microscopio di
alcune sezioni del laminato prodotto (Figura 4.26-c)
evidenziano un soddisfacente livello di compattazione e
un’apparente assenza di difettosità attorno al filo. Ciò
lascia presupporre che l’interfaccia attuatore/materiale
ospite possa esibire buone prestazioni.
Ancor più importante è poi l’influenza dell’attivazione
sullo stato di salute della struttura. Oltre alle
sollecitazioni meccaniche, che un qualsiasi tipo di
attuatore introduce per definizione, potenzialmente
pericolose sono da considerarsi anche le sollecitazioni
termiche associate agli attuatori SMA. Il riscaldamento
per effetto Joule introduce nel materiale ospite forti
gradienti termici con la nascita di tensioni interne fra
le zone in corrispondenza dei fili e quelle più lontane.
Questo aspetto può influenzare fortemente le
prestazioni del laminato, soprattutto il suo
comportamento a fatica.
Alla luce di questi ragionamenti, confermati per altro
da analisi termografiche condotte durante le prove di
attivazione dei pannelli prodotti, è di seguito
presentata una tecnica di inglobamento che
potenzialmente potrebbe sia migliorare le prestazioni
degli attuatori sia limitarne l’invasività.
Inglobamento mediante Quick-Pack
I problemi legati alla conducibilità termica ed elettrica
del materiale ospite inducono a considerare la
possibilità di isolare termicamente ed elettricamente
gli attuatori dallo stesso. Una soluzione potrebbe
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l'ingegneria in tale campo, seppur ancora agli albori,
possiede tutti i presupposti per importanti sviluppi.
52.8.1 Tipologie di materiali autoriparanti
Il concetto di damage management è il principio
fondamentale dei materiali autoriparanti. Negli ultimi anni
sono stati condotti differenti studi che hanno portato allo
sviluppo di tecnologie diverse nell'ambito della ricerca e
della produzione di materiali self healing.
(b)
(a)
E’ possibile distinguere due diversi approcci: uno riguarda
tutti quei materiali e quelle tecnologie in cui
l'autoriparazione viene innescata autonomamente senza
alcun bisogno di interventi esterni quali, ad esempio,
riscaldamento o pressione; il secondo, riguarda quelle
tecniche per cui è necessario, affinché il processo di
autoriparazione possa aver luogo, un controllo attivo che
si accorga dell'avvenuto danno e attivi la riparazione.
(c)
Figura 52.58 – Tecnica di inglobamento mediante
Quick-Pack (a) laminato prodotto (b) e analisi al
microscopio di una sezione(c).
Nel seguito, vengono, richiamati brevemente tre diversi
meccanismi di autoriparazione che, insieme agli ionomeri,
sono quelli attualmente di maggior interesse nel campo
della ricerca scientifica.
Potenzialmente quindi il QP applicato ai fili di
NiTiNOL potrebbe portare ad una serie molteplice di
vantaggi:
52.8.1.1 Microcapsule
Il primo meccanismo self healing che viene qui discusso
basa il proprio funzionamento nel verificarsi di una
opportuna reazione chimica che porta ad un processo di
polimerizzazione.
1.
riduzione dell’invasività passiva degli
attuatori grazie alla diminuzione delle difettosità e ad
un conseguente miglioramento del livello di adesione
all’interfaccia;
All'interno di un materiale composito vengono inserite
delle microcapsule contenenti una resina particolare che
funge da agente riparante. Quando si manifesta una rottura
all'interno del materiale, le capsule presenti nella regione
interessata si rompono lasciando fuoriuscire la resina. Tale
resina fluisce all'interno della matrice polimerica dove
trova il catalizzatore grazie al quale riesce a polimerizzare
andando, quindi, a riempire la cricca e a restaurare le
proprietà meccaniche originarie. In Figura 52.59 è
riportata una rappresentazione schematica di quanto
appena descritto. Sebbene, per un certo punto di vista,
l'invenzione delle microcapsule sia uno dei progressi più
innovativi nell'ambito dello sviluppo dei materiali
autoriparanti, d'altro canto anch'esse non sono la soluzione
a tutte le casistiche di frattura e danneggiamento. Danni di
dimensioni grandi, come quelli causati dall'impatto con un
proiettile, non possono, infatti, essere riparati con l'utilizzo
delle microcapsule e, inoltre, questo tipo di soluzione non
consente una ripetibilità di funzionamento in quanto, una
volta rotte, le capsule possono adempire al proprio
compito esclusivamente una sola volta.
2.
riduzione dell’invasività attiva grazie
all’adozione
di
materiale
elettricamente
e
termicamente isolante nella produzione del QP;
3.
incremento delle prestazioni dell’attuatore sia
in termini di autorità che di velocità di risposta.
52.8 Self Healing materials
Le strutture comunemente esistenti sono concepite
secondo un concetto ormai largamente assodato che è
quello di prevenzione del danno, per cui si cerca di
realizzare strutture il più possibile resistenti in grado di
sopportare, senza danni, i carichi per le quali sono
state progettate.
Per parlare di materiali autoriparanti (self healing)
occorre introdurre un nuovo concetto che è quello di
“damage management”, ovvero gestione del danno. Si
studiano, quindi, materiali in grado di ripararsi
automaticamente e autonomamente senza bisogno di
alcun intervento esterno o, comunque, senza la
necessità di sostituire il pezzo danneggiato.
52.8.1.2 Fibre contenenti cave
La seconda tipologia di materiali autoriparanti riguarda i
laminati in composito rinforzati da fibre contenenti resina.
In quest'ottica, la nascita di una cricca non sarebbe più
un problema se seguita da un processo autonomo di
rimozione e riparazione del danno. Gli attuali sforzi
compiuti in tale ambito hanno condotto a risultati
ancora ben lontani dal permettere di realizzare
strutture capaci di autorigenerarsi in seguito a
danneggiamenti più o meno importanti, ma
Si tratta di fibre di vetro o di carbonio; esse sono in certi
casi preferite all'utilizzo delle microcapsule perché
presentano,
contemporaneamente,
due
vantaggi:
contengono la resina autoriparante (come le microcapsule)
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e, allo stesso tempo, costituiscono un rinforzo per il
laminato.
Le fibre autoriparanti possono essere introdotte come
strati addizionali tra una lamina e l'altra, oppure nelle zone
più soggette a danno. In Figura 52.60 viene rappresentata
la disposizione delle fibre all'interno di un composito.
52.8.1.3 Riparazione tramite riscaldamento
Questo meccanismo rientra nella seconda casistica di
materiali self healing, ovvero necessita di un intervento
esterno che inneschi la riparazione, in questo caso di
calore. Il chimico Wool ha osservato che esistono alcuni
polimeri (ad esempio il polistirene e il polietilene) che, se
messi a contatto al di sopra della propria temperatura di
transizione vetrosa si legano tra loro. Preso, quindi, un
campione di polistirene e prodotta al suo interno una
cricca, affinché la riparazione avvenga, è necessario che le
due facce della cricca vengano tenute vicine tra loro (per
esempio con una morsa) e la temperatura venga fatta
aumentare. In questo modo il materiale, scaldandosi, si
espande, le due superfici entrano in stretto contatto tra
loro e si risaldano. E' evidente che una soluzione di questo
tipo ha un interesse modesto, proprio perché la riparazione
non viene innescata autonomamente nel materiale, ma
necessita di un intervento esterno e, inoltre, richiede un
tempo piuttosto lungo (da pochi minuti a qualche ora).
Figura 52.59 – Processo di autoriparazione mediante
microcapsule.
Come nel caso precedentemente trattato, quando si
verifica un danneggiamento le fibre rotte lasciano
fuoriuscire la resina e il catalizzatore, essi reagiscono
tra loro e riempiendo la cricca danno inizio ad un
processo di autoriparazione e di arresto del danno.
Anche in questo caso, quindi, il funzionamento si basa
su una reazione chimica.
52.8.1.4 Ionomeri
Gli Ionomeri costituiscono una classe di polimeri che
presentano una certa percentuale (20%) di ioni al loro
interno. Questi ioni formano degli aggregati che giocano
un ruolo determinante nella definizione delle proprietà
fisiche e meccaniche di tali materiali. Negli ultimi
quarant'anni sono stati condotti molti studi circa il legame
esistente tra la struttura di questi polimeri e le loro
proprietà, in modo tale da utilizzarli e sfruttarli a livello
commerciale in diverse applicazioni. Il fenomeno di
autoriparazione esibito da tali materiali è di particolare
interesse scientifico, esso deve essere attribuito alla loro
particolare struttura chimica. Seppure gli ionomeri si
conoscano da parecchio tempo, la ricerca condotta su di
essi come materiali self healing risale a non più di dieci
anni fa e la letteratura disponibile è ad oggi ancora al
quanto scarsa.
Il fenomeno di autoriparazione si manifesta
spontaneamente senza alcun intervento esterno a seguito
di impatti in cui le energie in gioco sono sufficientemente
elevante da consentire all'oggetto impattante di
attraversare il materiale in un tempo molto breve.
Le potenzialità applicative di tali materiali sono, come è
facile immaginare, numerose ed è pertanto comprensibile
il forte interesse nel voler studiare e comprendere il
meccanismo di autoriparazione, in modo tale da sfruttarlo
ed, eventualmente, produrre nuovi materiali con il
medesimo comportamento.
Figura 52.60 – Esempio della disposizione delle _bre
autoriparanti in un laminato.
L'autoriparazione dipende da diversi fattori:
1.
la natura e la zona in cui si verifica il danno;
2.
la tipologia di resina scelta;
3.
l'influenza dell'ambiente in cui si opera.
Ciò che è chiaro fino ad ora è che il fenomeno si osserva a
seguito del passaggio di un proiettile ed è un evento molto
rapido che si compie in una frazione di secondo. Pare
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CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
assodato che le ragioni di tale comportamento
risiedano nei gruppi ionici presenti in questi materiali.
norma hanno capacità autosigillante contro proiettili di
calibro 7.62, 12.7, 20 e 23.
Durante l'impatto con un proiettile, l'energia cinetica di
quest'ultimo viene trasferita al materiale sotto forma di
calore e di energia elastica, sembra essere proprio il
giusto bilanciamento tra queste due ad attivare il
processo di autoriparazione.
In Figura 52.61 è schematizzata la struttura multistrato di
un serbatoio flessibile auto-sigillante.
52.8.2
Soluzioni applicative
52.8.2.1
Serbatoi autosigillanti per applicazioni
aeronautiche
Da quanto emerso fino ad ora si può affermare che le
possibilità applicative degli ionomeri e delle loro
miscele, per quanto ancora siano necessari studi più
approfonditi, siano molto interessanti.
Per il loro utilizzo occorre pensare a tutte quelle
situazioni in cui determinate strutture o parti di esse
possano essere a rischio di impatto contro corpi piccoli
ad una certa velocità e in cui è necessario un intervento
di riparazione immediato. Situazioni simili si
riscontrano sia in ambito aeronautico che spaziale.
Figura 52.61 – Struttura multistrato di un serbatoio
autosigillante. 1) Rivestimento anti-ozono, 2) Strato
esterno di tessuto gommato, 3) Strato intermedio di
tessuto gommato, 4) Strato autosigillante, 5) Strato
interno di tessuto gommato, 6) Strato autosigillante, 7)
Barriera di nylon, 8) Strato interno di tessuto gommato.
Nel campo aeronautico una possibile applicazione
riguarda i serbatoi dei velivoli militari soggetti
all'impatto contro proiettili. Uno studio sugli incidenti
di volo, condotto nell'arco di molti anni, ha dimostrato
che, in molti casi, la principale causa di morte o di
lesioni gravi è il fuoco che si sviluppa a causa delle
enormi quantità di carburante fuoriuscito dalla rottura
dei serbatoi. E', quindi, importante prevedere l'utilizzo
di serbatoi capaci di resistere all'impatto e impedire la
dispersione di carburante.
52.8.2.2 Strutture multistrato per applicazioni spaziali
In ambito spaziale lo sviluppo di materiali autoriparanti è
un settore oggi di grande interesse. Negli ultimi anni si
stanno compiendo ingenti sforzi per lo sviluppo di nuove
tecnologie in vista di future missioni lunari che possano
consentire di allungare i tempi della missione. Tale
progetto richiede la necessità di installare sul territorio
lunare delle strutture per l'alloggio dell'equipaggio e delle
attrezzature.
Esistono diverse tipologie di serbatoi:
•
Serbatoi integrali impiegati per lo più nelle
ali, sono ricavati nella struttura stessa, sigillando
completamente il vano utilizzato a tale scopo;
I primi studi avanzati dalla NASA (National Aeronautics
and
Space
Administration)
hanno
sottolineato
l'importanza di realizzare degli ambienti sufficientemente
grandi per far fronte ai bisogni sia fisici che psicologici a
cui gli astronauti dovranno rispondere. L'idea è quella di
realizzare delle strutture innovative che siano pieghevoli,
in modo tale da poter essere facilmente stivate e
trasportate, e gonfiabili una volta giunte a destinazione.
Per poter rispondere a tali esigente, è evidente che occorre
fare uso di materiali diversi rispetto agli usuali metalli e
compositi rigidi che devono, quindi, essere sostituiti da
tessuti, schiume e materiali polimerici elastici.
•
Serbatoi flessibili sono serbatoi di materiale
sintetico, non attaccabile chimicamente dal
combustibile, montati in un vano e fissati attraverso un
certo numero di punti di attacco. I serbatoi flessibili
consentono un certo movimento rispetto alla struttura e
quindi non interferiscono conla rigidezza strutturale.
•
Serbatoi rigidi utilizzati principalmente
all'interno delle fusoliere, hanno il vantaggio di
costituire un componente isolato, indipendente dalla
struttura, con la quale interferiscono solo attraverso gli
attacchi.
Le strutture pieghevoli e gonfiabili risultano attualmente
la soluzione migliore per future missioni lunari almeno
per quattro ragioni:
In commercio sono già disponibili serbatoi che
utilizzano una struttura multistrato in cui viene incluso
anche uno spessore di gomma naturale che provvede
all'autosigillazione a seguito del passaggio di un
proiettile.
•
Elevato
rapporto
volume
abitabile/peso
strutturale: è evidente che strutture pieghevoli e gonfiabili
consentano di massimizzare il volume abitabile rispetto a
strutture costituite da moduli predefiniti. Si è
indicativamente stabilito che per ciascun membro
dell'equipaggio debbano essere garantiti 120 di spazio
Lo spessore complessivo può variare da 3,5 a 6 mm, a
seconda del livello di protezione balistica richiesta. Di
Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza
autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.
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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01
CAP. 52 – MATERIALI INTELLIGENTI
praticabile: per equipaggi numerosi ottenere spazi così
ampi risulta difficile utilizzando soluzioni diverse.
di detriti costituito da strati di kevlar alternati a schiuma di
poliuretano (MMOD multi-shock micrometeoroid and
orbital debris).
•
Ottima efficienza di imballaggio: strutture di
questo tipo possono essere facilmente stivate e
trasportate occupando il minimo spazio necessario.
In Figura 52.63 è rappresentata in modo schematico la
struttura multistrato descritta.
•
Minima necessità di disporre di materiale
costruttivo in loco: la struttura con tutti i suoi
componenti costituisce un unico blocco. Il passo
successivo sarà quello di utilizzare pietre lunari per
realizzare strutture fisse capaci di proteggere
l'equipaggio e le attrezzature dalle radiazioni termiche,
dall'impatto contro micrometeoriti e dagli sbalzi
termici.
L'idea è, quindi, di aggiungere all'interno dei diversi strati
protettivi un sistema per monitorare costantemente
l'integrità della struttura ed, eventualmente, segnalare
danni subiti e un sistema di autoriparazione. Per l'impatto
con piccoli detriti sarebbe, infatti, vantaggioso disporre di
un sistema autoriparante in modo che l'equipaggio non
debba preoccuparsi di intervenire personalmente.
Attualmente le soluzioni maggiormente prese in
considerazione per lo strato autoriparante prevedono
l'utilizzo di polimeri contenenti capsule di resina, l'utilizzo
di ionomeri è ancora in fase di studio.
•
Minori effetti secondari dovuti alle radiazioni:
utilizzando materiali non metallici si riduce il
deterioramento della struttura dovuta alle radiazioni
subite.
A questi aspetti positivi propri delle
pieghevoli e gonfiabili si aggiungono anche
costi di produzione e installazione rispetto
richiesti per moduli prefabbricati o strutture
direttamente sul suolo lunare. In Figura
riportato un possibile prototipo.
strutture
i minori
a quelli
costruite
52.62 è
Figura 52.63 – Schematica vista in sezione di una
struttura multistrato.
Bibliografia
[1]
P. Bettini
“LAMINATI COMPOSITI INTELLIGENTI: Problematiche
tecnologiche e valutazione dell’invasività dell’inglobamento di
sensori e attuatori”, Tesi di dottorato, Politecnico di Milano, 2009
Figura 52.62 – Struttura gonfiabile per suolo lunare.
Uno dei problemi principali è quello di riuscire a
mantenere l'integrità di tali strutture, che hanno il
compito di proteggere l'ambiente interno pressurizzato
in un contesto in cui si verifica, a causa della
mancanza di un'atmosfera lunare, un continua pioggia
di detriti di diverse dimensioni che impattano a
velocità molto elevate (dell'ordine di alcuni chilometri
al secondo). L'architettura di tali strutture è quindi
pensata in modo da preservare tale integrità; esse si
compongono di una struttura rigida interna e da una
copertura esterna gonfiabile multistrato in cui ciascun
componente ha una determinata funzione.
[2]
E.J. Brandon, M. Vozo, E. Kolawa, G.F. Studor, F. Lyons, M.W.
Keller, B. Beiermann, S.R. White, N.R. Sottos, M.A. Curry, D.L.
Banks, R. Brocato, L. Zhou, S. Jung, T.N. Jackson e K.
Champaigne
“Structural health management technologies for inflatable/
deployable structures: Integrating sensing and self-healing.”
Acta Astronautica, 68, 2011
[3]
R.J. Varley e S. van der Zwaag
“Autonomous damage initiated healingin a thermo-responsive
ionomer. ”
Wiley Interscience, April 2010.
La copertura prevede una serie di strati ridondanti per
il contenimento dell'atmosfera interna, uno strato di
tessuto di kevlar e uno scudo esterno contro l'impatto
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