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Ha ancora senso vedere i film in sala?
cinema espanso Il fantasma dell'invisibile nella Biennale d'Arte Focus Il cinema della Corea del Sud INNOVAZIONI Low budget/no budget tendenze Le estetiche del drone novembre 2013 5,50 € A pochi giorni dal passaggio al digitale Ha ancora senso vedere i film in sala? numero 11 EDITORIALE diGianni Canova Quando il cinema si rivela " V olevamo ringraziarla…" Si avvicinano timidi. Meno di 40 anni in due. Lui, il ragazzo, ha un’aria un po’ da nerd, occhiali spessi e capelli scompigliati. “Non pensavamo che il cinema fosse anche questo…”, sussurra con tono circospetto e quasi titubante. “…che potesse essere così sorprendente!”, aggiunge lei, la ragazza, nascosta dietro un trucco dark decisamente eccessivo. “…e così coinvolgente…”, sibila di nuovo lei. Succede sempre così, da qualche anno a questa parte. Dopo le prime due o tre lezioni di cinema all’Università, c’è sempre qualcuno che mi avvicina e ringrazia. Non me, il cinema. Per essersi svelato, mostrato, concesso. L’anno scorso accadde dopo la proiezione di Vertigo di Hitchcock, quest’anno dopo La dolce vita di Fellini. Il cinema appare, e subito rapisce. Il problema è che ai ragazzi che arrivano all’Università nessuno, prima, il cinema l’aveva fatto vedere. Nessuno gliel’aveva offerto, proposto, suggerito. Lo vedono una volta, e restano abbagliati: quasi una folgorazione, una di quelle senza ritorno. In barba a tutti i discorsi sull’obsolescenza del dispositivo filmico, o sulla presunta disaffezione dei “nativi digitali” dai vecchi media novecenteschi, il cinema ha ancora un potere di incantamento sorprendente. Palpabile. Il che però – paradossalmente – rende ancora più grave la responsabilità di chi – da troppi decenni a questa parte – ha sottratto il cinema alle nuove generazioni. Di chi l’ha nascosto, occultato, secretato, esorcizzato. Via dalla tv pubblica. Via dalle scuole (dove, per la verità, non è mai entrato). Via – in alcuni casi – anche dalle sale (da certe sale…), trasformate in popcornifici cinici, inospitali e maleolenti. Sappiamo tutti chi sono i responsabili. Non hanno commesso un reato, certo. Ma hanno fatto di peggio. Hanno prodotto la desertificazione culturale per accaparrarsi qualche punto di share (o qualche suddito…) in più. Forse l’hanno fatto scientemente, sapendo che dalle folgorazioni del cinema non si torna indietro. Dopo che ti sei emozionato per La dolce vita, difficile che ti accontenti di Maria De Filippi, o delle risse e delle chiacchiere inconcludenti di un qualsiasi talk show. 1 SOMMARIO 07 08 EDITORIALE 01 QUANDO IL CINEMA SI RIVELA di Gianni Canova 10 11 SCENARI 13 04 Ex tenebris vita di Gianni Canova Per i più piccoli, 18 Fino all’ultimo rischio di spettacolo strangolamento di Franco Marineo di Franco Montini 20 VARIARE IL MENù Lionello Cerri: PER SOPRAVVIVERE “Ma noi non E SPERIMENTARE COSA MI PIACE siamo in via di Andrea Guglielmino DEL CINEMA d’estinzione” ITALIANO 22 Nell’era del film di Cristiana Paternò on demand, 26 karel och Un Ulisse recuperiamo Eva Zaoralová moderno seduto le fabbriche di Rossella Rinaldi in poltrona dei sogni di Vincenzo Trione di Stefano Stefanutto Rosa È il web la mia 24 Unica certezza: Biblioteca di Babele i pop corn di Alberto Pezzotta non fanno rumore La forza dei di Valerio Orsolini “piccoli” INNOVAZIONI di Chiara Gelato 30 Il low budget non è di serie B di Andrea Guglielmino 32 34 Perchè in Italia l’autarchico non funziona? di Corrado Adamo partire da zero per produrre un film di Nicole Bianchi 36 7 interviste ad autori "a costo zero" Alessio Fava e l’esperienza di Biennale College di Marilena Vinci 37 Andrea Caccia e il crowdfunding: sulle montagne russe con Bugo di Ang 38 Stefano Bessoni, dal basso all’alto di M.V. 41 Massimiliano Verdesca: “Ho convinto anche Sandra Milo” di M.V. 42 Il prezzo della paura di Paolo Pizzato INNOVAZIONI 2 La leggenda 43 FLY CAM: di Davide Manuli QUELL’INVENZIONE di M.V. ANNUNCIATA CHE RIVOLUZIONA 39 William Carrer: IL LINGUAGGIO “Venezia imposdi Roberto Provenzano sibile grazie al social network” di Ang 38 40 Massimo D’Anolfi e Martina Parenti: “Noi facciamo tutto da soli” di M.V. 8½ NUMERI, VISIONI E PROSPETTIVE DEL CINEMA ITALIANO Mensile d’informazione e cultura cinematografica Iniziativa editoriale realizzata da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con ANICA e Direzione Generale Cinema Direttore Responsabile Giancarlo Di Gregorio Direttore Editoriale Gianni Canova In Redazione Carmen Diotaiuti Andrea Guglielmino Vice Direttore Responsabile Cristiana Paternò Coordinamento redazionale DG Cinema Andrea Corrado Capo Redattore Stefano Stefanutto Rosa Coordinamento editoriale Nicole Bianchi 2 Hanno collaborato Corrado Adamo, Alberto Crespi, Federica D'Urso, Chiara Gelato, Iole Maria Giannattasio, Kyung Hyun Kim, Stefano Locati, Franco Marineo, Francesca Medolago Albani, Paolo Mereghetti, Franco Montini, Valerio Orsolini, Alberto Pezzotta, Giovanni Marco Piemontese, Paolo Pizzato, Roberto Provenzano, Rossella Rinaldi, Emanuele Sacchi, Roberto Silvestri, Vincenzo Trione, Daniele Vicari, Marilena Vinci SOMMARIO NUMERI diUnità di Studi congiunta DG Cinema/ ANICA 46 RICORDI 52 LE FRONTIERE DELLA MULTIPROGRAMMAZIONE di Iole Maria Giannattasio, Federica D’Urso, Francesca Medolago Albani DISCUSSIONI Carlo Lizzani, Giuliano Gemma Fuori dal coro di Gianni Canova 63 64 Ho scoperto che è un finto “stracultista” di Alberto Crespi OCCHI IMPLACABILI COME AMANTI DELUSI di Roberto Silvestri CINEMA ESPANSO 54 YURI ANCARANI, “ALTRE” FORME DI PRODUZIONE SONO POSSIBILI di Rossella Rinaldi 56 il palazzo dell'invisibile di Gianni Canova 58 SPEED DATE COL PRODUTTORE. CARO PRODUTTORE, TI SCRIVO di G.C. Progetto Creativo 19novanta communication partners Creative Director Bruno Capezzuoli Designer Giulia Arimattei, Matteo Cianfarani, Valeria Ciardulli, Tommaso Dal Poz, Lorenzo Mauro Di Rese, Simona Merlini Stampa ed allestimento Arti Grafiche La Moderna Via di Tor Cervara, 171 00155 Roma Distribuzione in libreria Joo Distribuzione Via F.Argelati,35 Milano GEOGRAFIE FOCUS 65 IL CASO corea del sud 66 Dove il blockbuster è di casa di Stefano Locati e Emanuele Sacchi 70 La strategia di localizzazione globale del cinema sud coreano di Kyung Hyun Kim Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 339/2012 del 7/12/2012 72 74 Autunno a... di Nicole Bianchi PUNTI DI VISTA 76 Svegliamoci! Basta ballare il foxtrot in un rave party di Daniele Vicari 78 la critica del critico di Paolo Mereghetti 80 BIOGRAFIE INTERNET E NUOVI CONSUMI Rivoluzione streaming: dal possesso alla libertà di accesso di Carmen Diotaiuti Direzione, Redazione, Amministrazione Istituto Luce-Cinecittà Srl Via Tuscolana, 1055 - 00173 Roma Tel. 06722861 fax: 067221883 [email protected] Chiuso in tipografia il 30/10/2013 3 SCENARI Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Ex tenebris vita diGianni Canova Lo switch off digitale e la rilocazione dell’esperienza filmica offrono l’occasione di ripensare la sala cinematografica come luogo impagabile di piacere e di socializzazione emozionale. P rima di tutto c’è il buio. Quel buio amniotico, avvolgente e assoluto da cui – come per incanto – sgorgano la vita e la luce: Ex tenebris vita, come ricorda la scritta gigantesca che campeggia nella sala grande di quello che un tempo era il Cinema Odeon di Milano. In nessun altro “luogo” trovi un buio così. Così elettrico, così profondo, così eccitante. Se un film lo vedi in tv, o sul computer, o su un tablet qualsiasi, tutt’al più lo vedi in penombra, non nel buio. Fuori della sala cinematografica i film – piaccia o no – diventano diurni. Non profumano di notte. Non ti danno mai quel senso di essere altrove che ti dà invece, sempre, l’esperienza della visione in sala. Poi c’è la grandezza. In sala le immagini che vedi sullo schermo sono più grandi di te. Molto più grandi. Ti soggiogano. Ti dominano. Tu non sei come loro. Senti che loro sono più forti. Con loro non puoi interagire. Non decidi tu come e dove andare. Guidano loro. Ma proprio questo aspetto - che molti giudicano un limite - costituisce uno dei punti di forza della visione di un film in sala: il cinema in sala non ti dice mai “Fai tu!”, “Scegli tu!”, “Decidi tu!” (come iniziare, quando smettere, dove interrompere, cosa ingrandire, e così via…). In sala il cinema non è un tuo strumento di piacere onanistico. Al contrario, proprio in sala il cinema rivendica (e trova…) la sua identità e la sua necessità. Come dire: la differenza che c’è fra vedere un film in sala o su un altro dispositivo è simile a quella che intercorre fra un amplesso e una masturbazione. In sala si è sempre almeno in due, in tv o sul computer ci sei solo tu, illuso di poter bastare a te stesso. Beninteso: entrambe le esperienze (l’amore a due e l’amore solitario) producono piacere. Ma sono piaceri diversi. E sarebbe opportuno quanto meno che tutti fossero consapevoli della differenza. 4 E poi - oltre al buio e all’amore a due con le immagini - in sala ci sono gli altri. C’è il pubblico. Chi non ha mai provato l’esperienza di trovarsi seduto vicino a una sconosciuta (o a uno sconosciuto) in una sala cinematografica, chi non sa cosa sia l’esperienza di sentire il calore di quel corpo anonimo, di lasciarsi contagiare dalle sue risate o dalle sue paure, chi non ha mai percepito il brivido che si prova quando un corpo collettivo vibra all’unisono per la medesima emozione e i singoli corpi si contagiano l’un l’altro, si passano sensazioni e piaceri, chi SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Lo storico proiettore Prevost, all’old cinema Rossi, Mentana (Roma) non ha mai provato questo - in tutta franchezza - non sa cos’è il cinema. Perché la sala è questo. È stata tutto questo. Non è vero che il cinema in sala è più bello perché – banalmente – si vedono meglio le immagini. O perché le immagini sono come le ha volute l’autore. Nessuno comprerebbe un biglietto per questo. Ma per il buio, per l’amore con lo schermo e per il piacere collettivo forse sì. Senz’altro sì. Ma allora dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che abbiamo sbagliato tutto quando abbiamo cominciato a considerare le sale come luoghi in via di estinzione, come specie da proteggere, o nel migliore dei casi come fortilizi dentro cui organizzare la resistenza contro le insidie della tecnologia nell’era dei new media. L’imminente switch off determinato dal passaggio al digitale dovrebbe fornire a tutti l’occasione di una rivoluzione culturale: ripensare alla sala e rilanciarla come luogo impagabile di piacere collettivo. Uscire dalla logica piccola e miope della “resistenza” e offrire - soprattutto ai giovani, ai ragazzi, anche ai bambini - un’ esperienza diversa. Certo i multiplex non aiutano: spesso anzi - con la loro sfacciataggine bottegaia - sono i primi responsabili della rottura della magia. Quando mi capita, ad esempio, di vedere un film in una sala del circuito “The Space” e sono costretto - se va bene - a sorbirmi 20 minuti di pubblicità non richiesta prima dell’inizio del film per cui ho pagato il biglietto e poi altri cinque minuti di intervallo (e di luce accecante) per i pop corn, ho la sensazione di non essere più al cinema ma in un bazaar in cui - più che uno spettatore sono un pollo da spennare. Mi è capitato personalmente più di una volta, ad esempio, di andare al cinema con mia figlia a vedere un film per bambini, di chiedere alla cassa l’ora esatta di inizio, di entrare in sala a quell’ora e di dover tollerare comunque, ancora, sette o otto minuti di trailer assolutamente non richiesti e soprattutto inadatti (assolutamente, vergognosamente inadatti…) a un pubblico di bambini. Chi fa così, il cinema lo uccide. Lo rende una succursale della tv. Dei suoi linguaggi, dei suoi ritmi, delle sue luci, dei suoi consumi. Della sua cialtroneria. Se la sala funziona così, se dev’essere solo una brutta copia del dispositivo televisivo, allora davvero non c’è differenza e tanto vale scaricare film o vederli su uno degli schermi di casa. Ma se vogliamo che ci sia un futuro per il cinema in sala, pur nell’epoca dell’inevitabile rilocazione, allora davvero dobbiamo ripartire da qui: il buio, il piacere, gli altri. E il rispetto per chi esce di casa e compra un biglietto per vedere un film. 5 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive 6 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive U agli esercenti che programmano film in formato digitale, obbligando a teniture che le piccole sale difficilmente riescono a raggiungere e garantire. Il tax credit prevede una tempistica relativa al recupero del credito di imposta, molto rapida per le grandi strutture, che infatti ne hanno abbondantemente approfittato, ma che per le piccole sale necessita di periodi lunghissimi, annullando di fatto il beneficio. Ed anche le risorse pubbliche che molte Regioni hanno messo a disposizione dei cinema per il sostegno alla digitalizzazione impongono all’esercente di sostenere prioritariamente l’investimento, prevedendo un successivo rimborso, ma non tutte le imprese d’esercizio, soprattutto quelle a gestione familiare o volontaristica, come nel caso di numerose sale della comunità, sono in grado di anticipare le spese. E allora la soluzione potrebbe essere consentire ai cinema, almeno a quelli caratterizzati da particolari situazioni diFranco Montini di difficoltà e impegnati a svolgere un’attività non Entro fine anno tutte le sale dovrebbero essere digitalizzate, attualmente solo 2000 hanno potuto esclusivamente commerciale, la sostenere il passaggio, ancora 1800 le rimanenti: rischio di chiusura o “ipotesi blu-ray”. possibilità di proiettare film anche come eventi live di spettacolo e completato il processo, gli scher- - la digitalizzazione, che avrebbe in formato blu-ray, avvalendosi di sport e, grazie al collegamento mi digitalizzati sono circa 2000, dovuto favorire principalmente di strumentazioni tecnologiche via etere, organizzazione di vide- poco più del 60% del totale, ed proprio l’esercizio più piccolo, per la proiezione del digitale oconferenze e lezioni di cinema è irrealistico pensare che i re- debole e periferico, rischia invece professionale. La qualità delle proiezioni con questi impianti in simultanea ed apertura ad stanti 1800 possano provvedere di strangolarlo. altre funzioni, come quelle ri- alla trasformazione entro la fine I meccanismi finora messi in non consentirebbe di raggiungechieste dalle imprese per attività dell’anno, quando le società di campo per sostenere la tra- re gli stessi standard di qualità di comunicazione, promozione distribuzione non forniranno più sformazione delle sale si sono della pellicola o del digitale, ma e formazione. Il passaggio alla film in pellicola. Se non vi saran- rivelati inadeguati nei confron- eviterebbe una disastrosa deciproiezione digitale non è solo no proroghe, il destino di questi ti dell’esercizio più debole. Il mazione. una mera sostituzione di tec- cinema appare segnato: sem- Virtual Print Fee (VPF), ovvero il nologia, ma qualcosa che muta plicemente spariranno. Sarebbe contributo che le distribuzioni, in profondamente l’identikit della un danno enorme, non solo dal quanto soggetti maggiormente sala, non più intesa come luogo punto di vista culturale, a causa beneficiari del passaggio al dideputato esclusivamente al con- della desertificazione dei centri gitale, grazie al risparmio nella sumo di film, ma come arena storici e delle città di provincia, stampa delle copie e nelle spese tecnologica aperta ai prodotti più già oggi carenti di strutture, ma di trasporto, dovrebbero versare na grande opportunità di sviluppo e rilancio per i cinema o la pietra tombale per centinaia di sale? È fra questi due estremi che si gioca la partita del digitale per ciò che riguarda l’esercizio. I vantaggi della nuova tecnologia sono evidenti ed innegabili: contenimento delle spese gestionali; maggiore elasticità nella programmazione, con proiezioni di film diversi nella stessa giornata, fino ad ipotizzare il coinvolgimento del pubblico nella scelta e nella selezione, grazie alla possibilità di creare una piattaforma di film on demand su grande schermo; proiezioni di contenuti extra cinematografici, svariati. Insomma, il digitale trasforma i cinema in veri centri di aggregazione sociale e impone agli esercenti di trasformarsi da negozianti ad operatori culturali. La sala digitale non pone più al centro il film, bensì lo spettatore. Ma tutto ciò si scontra con l’ostacolo dei costi: l’installazione di un impianto digitale richiede fra i 40 e i 70mila euro a schermo e nel nostro paese un preoccupante numero di aziende, già in sofferenza, non sembra nelle condizioni di sostenere la spesa necessaria. La deadline per il passaggio alla nuova tecnologia è fissata al prossimo 31 dicembre, ma attualmente in Italia, contrariamente alla realtà di altri paesi europei che hanno quasi anche dal punto di vista economico, perché la chiusura di tante sale danneggerebbe gli incassi di tutta la filiera: dalla produzione alla distribuzione. In particolare ad essere penalizzato sarebbe soprattutto il cinema di qualità, che proprio nel segmento di esercizio attualmente non digitalizzato ha il proprio principale referente. Il paradosso è evidente: grazie ad una maggiore facilità nell’accesso al prodotto e alla possibilità di creare offerte di nicchia per pubblici specializzati in orari diversi nella stessa giornata - di fatto moltiplicando la varietà dell’offerta, elemento che può essere decisivo in bacini d’utenza dotati di poche strutture e in qualche caso di un unico cinema Per i più piccoli, rischio di strangolamento A sinistra: il proiettore e la scala. Il passato tangibile all'old cinema Cinecittà, Levico (Trento) 7 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Lionello Cerri: "Ma noi non siamo in via d'estinzione" diCristiana Paternò “L ’ Anteo è nato nel ’79, avevo 23 anni. Occupandomi di sociale, con una passione per la politica, lavorare nello spettacolo era per me un modo per portare avanti i miei sogni. Da subito con i miei soci ho pensato a una sala polivalente, dove fare non solo film, ma anche musica e teatro. Per me la scelta del prodotto andava di pari passo con la ricerca di un pubblico, la stessa esigenza che mi spinge anche oggi, anche come produttore”. A parlare è Lionello Cerri, esercente milanese ormai storico, anche se non viene da una famiglia del settore, produttore dal ’94 con la Lumière & Co. (Soldini, Piccioni, Diritti in scuderia), presidente dell’Anec e vicepresidente dell’Agis. Con lui abbiamo cercato di capire cosa accadrà dal 31 dicembre prossimo e con la sparizione della pellicola, un tema che è stato al centro di un convegno sul futuro della sala, nell’ottobre scorso a Roma. A che punto è lo switch off? Per i distributori dovrebbe essere totale al 31 dicembre, noi esercenti pensiamo di arrivare al 70% e questo comporta che molte strutture avranno dei seri problemi. Il ministro Massimo Bray ha proposto un piccolo intervento di 2 milioni di euro che sarà rivolto alle sale che ne hanno più bisogno, ma il regolamento è ancora allo studio. Comunque dei 4.000 schermi totali un migliaio saranno in sofferenza. Le più a rischio sono le monosale dei piccoli centri, in una metropoli è più facile essere competitivi anche perché c’è maggiore popolazione. Che investimento richiede la digitalizzazione? 50/60 mila euro che si possono recuperare al 30% attraverso il tax credit in 6/7 anni. Ma gli esercenti dei piccoli centri hanno più difficol- 8 tà a recuperare questo investimento. Anche il business altro (la vendita di pop corn o il merchandising) dipende sempre da quanti spettatori frequentano la sala. Quali sono gli aiuti che vengono messi in campo e da chi? C’è il Virtual Print Fee (VPF), il contributo che i distributori versano agli esercenti che programmano il film in digitale, anche questo per i piccoli è poco efficace. Poi ci sono gli interventi regionali e le agevolazioni delle banche tramite credito diretto o attraverso il fondo di garanzia del Ministero dello Sviluppo Economico. Se Stato, Regioni e Comuni vogliono salvaguardare e rilanciare la sala non devono fare interventi a pioggia ma aiutare direttamente l’esercente. Il digitale può essere anche un’opportunità di innovazione per la sala tradizionale. Certamente il digitale offre occasioni che la pellicola non offre, una maggior flessibilità, altri contenuti. La sala da tempo è in grande trasformazione, la sala polivalente esiste da trent’anni. Il cinema può dare spazio anche al teatro, alla musica, cercare un pubblico sul territorio e aggregarlo. I pubblici di cinema, teatro e musica sono contigui e col digitale è possibile programmare uno spettacolo teatrale o un’opera lirica in diretta dalla Scala o dal Metropolitan di New York. La sala di città, quella che sta scontando maggiormente la crisi e non da ora, è anche un luogo simbolico che contribuisce a far vivere un centro storico. Il ruolo della sala è di aggregazione. Serve a creare comunità, identità nazionale o territo- riale, alimenta i nostri centri storici e può farli vivere anche di notte anziché spegnerli. Eppure le sale continuano a chiudere. Nel 2012 sono 60 le sale chiuse per un totale di 77 schermi. Nello stesso periodo sono state solo 13 le sale aperte (o riaperte dopo un periodo di chiusura) per complessivi 19 schermi. Indubbiamente i multiplex hanno rappresentato una concorrenza forte, per l’ovvio appeal esercitato da un luogo dove si può scegliere fra 10 film diversi anziché uno solo. Sicuramente la monosala deve trasformarsi in piccola multisala. I primi multiplex sono del ’94 e già allora chiusero molte monosale. Ma il problema vero è che, negli ultimi vent’anni, non è cambiato sostanzialmente il numero degli spettatori, attestato sui 100 milioni di SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Il presidente dell’Anec alla soglia dello switch off. Dal 31 dicembre circa 1.000 schermi saranno in sofferenza. “Il problema vero è però che, negli ultimi vent’anni, non è cambiato sostanzialmente il numero degli spettatori, attestato sui 100 milioni di persone. E per le realtà più piccole diventa difficile sostenere l’innovazione che pure sarebbe un’opportunità di crescita”. Il terzo tempo, cartello all’old cinema Rossi, Mentana (Roma) Il terzo tempo all'old cinema Rossi, Mentana (Roma) persone, che possono arrivare a 110 l’anno in cui c’è un film forte come Avatar nel 2010 o Checco Zalone o Titanic. Quindi occorre soprattutto formare un nuovo pubblico. Con una crisi di numeri e di costi, come quella attuale, se devi anche investire per l’innovazione tecnologica, non ce la fai. Il pubblico della sala è invecchiato, mentre le nuove generazioni hanno abitudini di fruizione completamente diverse. Cosa si può fare? Occorre far crescere nuovi spettatori. Noi lavoriamo molto con le scuole e col Miur per formare il pubblico dei giovani. Ci sono iniziative di approfondimento culturale per insegnanti e ragazzi, lezioni di cinema, in- contri con registi e attori. Gli esercenti devono saper essere operatori culturali, saper dialogare col pubblico anche attraverso internet, ad esempio. Lei ha parlato più volte di uscire dalla logica dei "Cinema Paradiso", della sala come panda da proteggere. Come vede il futuro del settore? La sala non ha solo un problema di programmazione, ma di identità, di ricerca di pubblici, di radicamento sul territorio. Siccome tutto questo è più facile se hai più schermi, è opportuno creare consorzi di sale che usino servizi comuni, come ad esempio la comunicazione web, magari dando lavoro a giovani operatori culturali. Lei a che pubblico si rivolge? Non a una cerchia ristretta in via di estinzione per generazione e per interessi. Il degrado culturale di questi anni che, tra le molte cause, discende sicuramente da una certa televisione, richiede un colpo di coda per andare verso una dimensione di maggior profondità. La cultura non è gratuita, è qualcosa per cui bisogna sudare, specialmente se uno nasce in una famiglia meno attrezzata. Ed è importante dare ai giovani questi stimoli. 9 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Punti di vista opposti sulla fruizione: pro e contro il film sul grande schermo. Un Ulisse moderno seduto in poltrona diVincenzo Trione C onfesso di non riuscire a vedere i film sullo schermo del televisore di casa. Forse, perché detesto la fruizione distratta. E non mi appartiene la pratica contemporanea del multitasking: ovvero, il gesto che ti porta a essere sempre deconcentrato, a transitare ininterrottamente tra territori lontani. Guardi un film e insieme consulti le email, mandi un tweet, vai su Facebook e fai mille altre cose ancora. un film - ti senti a disagio. Poi, ti fai avvolgere da un mondo fittizio, dalla sua forza visiva e dai suoi meccanismi narrativi. Sei coinvolto, ma non perdi il senso dell’orientamento. Sai sempre dove ti trovi; ti senti al sicuro; puoi limitarti ad assecondare il A queste consuetudini preferisco il gesto quasi sacrale che, settimanalmente, mi porta a entrare nella sala buia. È un rito laico che conserva ancora, per me, un potere simbolico straordinario. Entri nell’oscurità. Ti consegni alla fermezza. Lì, in quella sorta di caverna platonica, La cassa dell'old cinema Cinecittà, Levico (Trento) si modella ogni nostra proiezione immaginaria. succedersi dei fatti. Non vieni Sei in un’assenza di luce, vuota mai sommerso. Passi da un poma colma di visioni possibili. sto a un altro; osservi una cosa Del resto, come ricordava Albert da lontano, da vicino, dall’alto, Camus, al cinema “non c’è sole dal basso, attraverso una finestra, da destra, da sinistra. Ma senz’ombra”. non sei costretto a spostarti. Sei Nella sala buia ti senti un Ulis- come un contemplatore solitase moderno. Seduto in poltrona, rio di spettacoli che ti ignorano. puoi compiere un viaggio nei Vieni immesso nel cuore di alluoghi e negli avvenimenti che cuni eventi, ma conservi semsono proiettati sullo schermo. pre una distanza di sicurezza: Dapprima - quando comincia non ti smarrisci mai. È un po’ 10 come quando nel vortice della folla sappiamo sempre bene chi siamo, dove ci troviamo e dove stiamo andando. Abiti una soglia che non puoi mai varcare. Come “dice” anche la tua postura, resti seduto, fer- mo. Solo con te stesso. Non sei chiamato a prendere parte alla messa in scena. Puoi solo lasciare che i fatti si svolgano indipendentemente da te. Resti immobile. Mentre puoi leggere un libro o guardare un quadro passando liberamente da un dettaglio a un altro o da una pagina a un’altra, dentro una sala cinematografica sei costretto a restare “incollato” alla poltrona, in una prolungata attesa. Poi, d’incanto, il cinema- al-cinema ti porta altrove. Ti conduce da geografie note a imprevisti spaesamenti. Dischiude finestre su altri mondi. Dentro l’oscurità avviene un’avventura sempre nuova. A differenza della pittura, infatti, il cinema non impone immagini statiche o immutabili. Non mostra solo quel che è “qui e ora”: ma va a “prendere” il mondo e lo riporta dentro la nostra casa. Suggerisce tensioni, azioni. È puro movimento: ci porta dentro le scene. È come “un servizio navetta tra luoghi ed epoche diverse”, ha affermato John Berger. Implica sempre uno spostamento. Restiamo qui ma, mentre osserviamo, la nostra immaginazione è trascinata fuori. Appena si spengono le luci, la superficie piatta si trasforma. Non più muro, ma “cielo pieno di avvenimenti e di personaggi”. Tornano alla memoria le parole di Italo Calvino nell’Autobiografia di uno spettatore. Il cinema, ricordava, serve a “soddisfare un bisogno di spaesamento, di proiezione della mia attenzione in uno spazio diverso, (…) una tappa indispensabile di ogni formazione”. Si tratta di un bisogno che determina inattesi passaggi. All’improvviso, varchiamo frontiere e abbandoniamo paradigmi: modelli stabili, percorsi certi. Il “nostro” mondo finisce. Se ne dischiudono altri. SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Old cinema Vittoria, Mori (Trento) È il web la mia Biblioteca di Babele diAlberto Pezzotta Q uando ero un ragazzino le sale di quartiere e i cineclub stavano morendo e il boom delle tv private trasformava il piccolo schermo nella più grande e selvaggia cineteca immaginabile. Poco dopo non potei che applaudire Truffaut quando dichiarò: “In quanto cinefilo, non posso che amare le vidéo.” Oggi la stessa funzione di accesso alla Biblioteca di Babele è svolta dal web, in forme legali e non. E non mi lamento. Il percorso, in sé, potrebbe appartenere alla mera nostalgia autobiografica e non avere rilevanza che non sia di feticismo generazionale. Il fatto, però, è che il cinema e il mercato, nel frattempo, hanno subito mutazioni enormi e ben note, di cui la digitalizzazione delle proiezioni è l’ultima. E un percorso da spettatore come il mio diventa inevitabile. Piaccia o no. Invocare il purismo della pellicola, ieri era snobismo da privilegiati giramondo; oggi è semplice mancanza di senso della realtà. Difendere la sala come luogo ideale della visione significa invece dimenticare che cosa sono diventati i cinema: non-luoghi in cui si consuma qualcosa spesso pagato in anticipo, in una posizione spesso assegnata da un computer. I multiplex non solo hanno tolto all’andare al cinema ogni piacere legato al flâner e alla libera scelta ma hanno anche de-socializzato e atomizzato lo spettatore, rendendolo un prolungamento di quello stesso utente domestico che fruisce i film in pay per-view o in qualsiasi altra modalità. Davanti al grande schermo oggi non c’è un pubblico, ma tanti consumatori. Il senso di comunità spettatoriale può resistere altrove, certo. Nei festival, magari; in Piazza Grande a Locarno, a “Bimbi belli” di Nanni Moretti. Ma sono sempre esperienze di nicchia per fortunati o addetti ai lavori. Il cinema vero si vede e si vende altrove. Al momento, potrei dire che solo un quarto delle mie visioni si svolgono in sala. Ma se parliamo di sale vere e non di anteprime per la stampa, il rapporto diventa uno a trenta... Certo, mi perdo qualcosa e dalle reazioni della gente (ricordo le sciure che commentavano allibite Noi credevamo) si impara sempre. Ma della sala in sé non ho alcuna nostalgia. Tra l’altro, il film che amo di più nella storia del cinema non l’ho mai visto su grande schermo. E allora? Cambia qualcosa? Non so se il cinema sia un’arte del passato. Di certo, da tempo vive nei DVD e nei file .avi sul nostro pc. E se non li vediamo dall’inizio alla fine e li sbocconcelliamo, cambia qualcosa? Non facciamo lo stesso con i libri? 11 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive 12 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive La forza dei “piccoli” diChiara Gelato Un viaggio attraverso sei esperienze storiche – da Melzo a Bari - esempio di spazi che salvaguardano, con grande fatica, una propria identità senza aver ceduto all’omologazione e all’anonimato del multiplex nei centri commerciali. ANTONIO SANCASSANI CINEMA MEXICO, MILANO Monosala (285 posti) “I l Mexico è uno dei pochissimi monoschermi rimasti a Milano: in tutto tre. È un cinema abbastanza decentrato, autofinanziato e autogestito, che non è legato ad alcun circuito e ha fatto di necessità virtù, cercando di dotarsi di una sua identità, ritagliandosi uno spazio per un pubblico d’essai. Una sala che i film se li deve cercare, spesso “piccoli”, dialogando con le distribuzioni indie (che oggi sono agevolate dall’assenza di copie da stampare) o direttamente con gli autori che hanno prodotto il loro film, perché un cinema come il nostro ha difficoltà ad accedere alle distribuzioni canoniche. Un esempio per tutti: Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, prodotto dall’Arancia Film (la società di produzione del regista), è stato programmato per due anni: una tenitura unica in Italia. L’esperienza del Mexico dimostra come una piccola impresa possa dare risultati. Noi abbiamo inventato il progetto dell’Independent Movie tutti i lunedì all’ultimo spettacolo per fidelizzare il pubblico, dando la possibilità ai nuovi autori di essere distribuiti in sala. Ci muoviamo molto su questo tipo di titoli. Da trentadue anni proiettiamo The Rocky Horror Picture Show, che è stato visto al Mexico da tre generazioni di spettatori. RICCARDO BIZZARRI CINEMA ZENITH, PERUGIA Monosala (216 posti) “I piccoli cinema devono proporre modalità differenti, non fare concorrenza ai multiplex. Da noi si tengono lezioni, rassegne, incontri, proiettiamo film d’autore, in molti casi attinti dai festival, e su ogni titolo costruiamo un evento; c’è anche un piccolo ristorante. Proponiamo un’idea di slow cinema che combatte i fast food e la fruizione da multiplex. Qualche tempo fa ci siamo inventati “Il cinema che ci pare”: quella volta sono stati i liceali a decidere la nostra programmazione. Ma non sempre la sperimentazione viene ripagata. E il processo di digitalizzazione in atto non ha dato un contributo in questa direzione, perché i cambiamenti sono stati marginali. Nella realtà siamo ben lontani dalla possibile applicazione di un modello di multiprogrammazione, perché si continuano ad adottare strategie conservative. Esistono condizioni prestabilite che l’esercente si trova a dover accettare senza negoziazioni. E questo vale per tutte le case di distribuzione che hanno un peso. A farne le spese sono soprattutto i piccoli esercizi, strutture che non hanno potere contrattuale. In questi nuovi equilibri le distribuzioni indipendenti giocano un ruolo interessante, che andrebbe monitorato. In molti casi non prevedono VPF e abbassano le percentuali di noleggio. Acquisiscono i diritti di E il giovedì proponiamo insieme ad altri locali di Milano i film in lingua originale, aprendo a nuove fasce di pubblico. Bisognerebbe prolungare la vita media di un film, dare maggior respiro alla programmazione, perché alcuni titoli hanno una longevità che va testata. In estate le arene che propongono i film della passata stagione sono affollatissime e questo dimostra che a monte si è fatto qualche errore di valutazione. Al cinema il passaparola è determinante, vale più di qualsiasi flano. E per attivare questi meccanismi è necessario far passare almeno due week-end. Poi il film deve farsi da solo, perché è il pubblico a decretarne il successo. L’ideale sarebbe poter programmare due o tre titoli al giorno per fasce di pubblico diverse, ma bisognerebbe che il noleggio concedesse nella pratica la multiprogrammazione, perché finora è rimasta una parola vuota, più sulla carta che reale. I vantaggi derivanti dalla digitalizzazione li ha avuti soltanto il noleggio. La nostra è una sala digitalizzata da tre anni con un proiettore 2K, fruendo di un’agevolazione del 30% a fondo perduto messa a bando dalla Regione Lombardia. Ma ad oggi non c’è stato alcun ritorno dal passaggio al digitale”. piccoli film che altrimenti non sarebbero mai distribuiti. A questo tipo di lavoro si potrebbe legare l’attività di mk locale gestita dalla sala. Noi la facciamo da tempo: oggi si lavora sul web, con i social network la comunicazione del film è cambiata. Questa è una fase di transizione, dobbiamo darci del tempo per sperimentare e definire le politiche future, anche correndo qualche rischio. Vedo quello che fanno in altre parti d’Europa, dove nell’arco della giornata si programmano minimo tre film, dando spazio anche al cinema indie e ai nuovi autori. Lo Zenith ha un suo pubblico definito, disposto ad andare al cinema anche due o tre volte alla settimana, se l’offerta esiste. Per me la varietà della programmazione è un arricchimento. E comunque rendo un servizio alla comunità. Ora sto provando a fare un ulteriore passo, restando aperto tutto l’anno. Per creare abitudine al consumo cinematografico anche in estate bisogna tenere aperte le sale, possibilmente dal mattino alla notte. Uno sforzo che andrebbe ripagato con una riduzione delle percentuali di noleggio nella stagione estiva. Non siamo una sala assistita: fatta eccezione per gli ‘Schermi di qualità’, non percepiamo alcun finanziamento. Lo trovo un motivo di orgoglio, in quanto ci consente una grande libertà. Allo Zenith siamo in tre e tutti fanno tutto. Ma l’atteggiamento di resistenza non lo condivido, perché ritengo, al contrario, che il nostro sia un andamento controcorrente. Il mio cinema rappresenta un modello di imprenditoria che riesce a vivere attraverso la cultura”. A sinistra in alto: old cinema Manzoni di Trento, oggi biblioteca. A sinistra in basso: l'insegna dell'old cinema Dolomiti, Pinzolo (Trento) 13 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive GEORGETTE RANUCCI CINEMA ALCAZAR, ROMA Monosala (210 posti) “L’Alcazar è stata tra le prime sale ad offrire spettacoli senza intervallo e in versione originale. Siamo nati nell’89, quando i presupposti di mercato erano completamente differenti perché il numero di cinema era inferiore, non esistevano multisale e multiplex, si facevano ancora le esclusive. E in tanti anni non abbiamo mai programmato un film commerciale, anzi ne abbiamo proiettato solo uno: Terminator, però in versione originale! In quel periodo era il film che incassava di più, ma da noi è andato malissimo, non è entrato nessuno. L’identità è l’unica forza che possano vantare i piccoli cinema, frequentati da spettatori che sanno di potersi fidare, perché la programmazione è all’insegna della qualità. All’Alcazar hanno visto la luce ‘Cannes a Roma’ e ‘Venezia a Roma’, il dibattito tra cineasti e pubblico è sempre stato vivo e da qualche tempo si fa sempre più strada nella programmazione il documentario, che ha una sua nicchia di appassionati; forse non amplissima ma presente. E in crescita. Quest’anno, poi, ho fatto un esperimento: ho iniziato con la Festa del Cinema a 3 euro e l’ho proseguita, proponendo film che nessuno voleva, come Bellas Mariposas, che ho programmato – unica su Roma – per un mese e poi è passato anche a Milano e in altre città. Una scommessa vinta. Fino a 15 anni fa i film venivano selezionati sulla base della sala, mentre adesso la scelta ricade sul film spalmato nei diversi cinema, per cui si tende a privilegiare il quartiere di riferimento. Trastevere, nonostante le diverse chiusure (il Garden, che adesso è un bingo, l’America, la Sala Troisi e il Roma), è ancora una zona cinematograficamente fertile, con una connotazione forte sul cinema d’autore, dal Sacher all’Intrastevere. Quello che è certo, è che si sopravvive con difficoltà. Si resiste solo grazie alla passione. Del resto, Alcazar significa fortezza. Lo scorso anno ho introdotto il digitale, tentando di accedere ai contributi della CE tramite bando Media, ma alla fine non sono rientrata per numero di film. Una cosa scontata, trattandosi di una monosala. L’Alcazar è una struttura completamente indipendente, direttamente proporzionale all’età del nostro pubblico, che va morendo. L’augurio è che il pubblico che si sta esaurendo abbia messo al mondo figli e nipoti illuminati. Ma il problema dei giovani non me lo pongo, perché ho una specie di barriera nei confronti di spettatori che non ritengo ancora maturi per un certo tipo di film, a meno che non li tocchi direttamente. Bisognerebbe spendere un lungo periodo ad educare il pubblico, per mantenere in vita quello che è un bene della città e dei centri storici. Ma quando si è con l’acqua alla gola questi ragionamenti non sono possibili. La mia proposta è che il Comune, la Regione o istituzioni come il CSC – supportati dalle scuole e dalle università – prendano a cuore la situazione di alcune sale, perché questo significherebbe costruire quel famoso pubblico del futuro che oggi vedo a rischio”. In alto: old cinema Iris, all'interno del Casinò municipale, Arco (Trento) 14 GIANCARLO CASTELLANO CINEMA ABC, BARI Monosala (130 posti) “L’ABC nasce come sala gestita dall’Agis di Puglia e Basilicata oltre trent’anni fa e da allora è rimasta un punto di riferimento per il cinema di qualità. Siamo i capofila del Circuito d’Autore gestito dall’Apulia Film Commission e finanziato dalla Comunità Europea, e riceviamo sovvenzioni dal Mibact per la programmazione come sala d’essai. Se dovessimo vivere dei soli incassi di sala probabilmente avremmo già chiuso da tempo, perché l’offerta esclusiva di titoli di estrema qualità non ci consentirebbe di stare sul mercato. Organizziamo retrospettive, eventi, incontri con gli autori, molti dei quali in collaborazione con la Cineteca di Bologna e quella lucana. Nel 2012, per fare solo qualche esempio, si è svolta la seconda rassegna di cinema israeliano indipendente ‘Cinematov’, mentre in estate abbiamo programmato ‘Le vacanze intelligenti’, una selezione di film in 35mm provenienti dalla Cineteca lucana. Il nostro target di pubblico? Aderendo ai progetti targati Agiscuola operiamo anche con le fasce giovanili, ma in massima parte la sala è frequentata da un pubblico di 40-60enni (circa 30-32 mila spettatori l’anno), più maturo dal punto di vista culturale oltre che anagrafico. I SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive ragazzi vanno sollecitati, solleticati. Spingendo sui contenuti, ma anche sui prezzi. Come Agis regionale proponiamo una carta universitaria (Showcard) che consente di vedere film a 2,90 euro. Particolarmente innovativa l’idea degli ultimi mesi di dedicare una speciale scontistica agli amici di Facebook. Se sono interessati ad uno specifico titolo, i giovani vengono. Il consumo di cinema è un’abitudine, se la si perde abbiamo perso tutti. Ma l’ABC non è solo un cinema: è anche, e soprattutto, un Centro di Cultura Cinematografica. Oggi i locali che si trovano sopra la sala sono in restauro. Contengono un archivio con manifesti d’epoca, una biblioteca specializzata, sceneggiature e copioni originali, una cineteca con oltre 200 film e una raccolta - probabilmente unica in Italia e rimasta in ottime condizioni perché in b/n - di Cinegiornali dal 1975 al 1983. Stiamo cercando di trovare i fondi per digitalizzarli. Quando abbiamo fatto la Festa del Cinema in Puglia li abbiamo proiettati gratuitamente nelle sale: è stato un grande successo. L’ABC è il braccio operativo del Centro culturale cinematografico, è nato con questa mission. Ora vorremmo valorizzarlo e, soprattutto, restituirlo al suo pubblico”. STEFANIA MEDDA SPAZIO ODISSEA, CAGLIARI 2 sale (da 150 e 50 posti) “Quando abbiamo cominciato, nel 2001, qualcosa stava iniziando a cambiare: era l’anno dell’avvio dei multiplex a Cagliari, ben tre aperture nello stesso periodo. Così abbiamo assistito alla nascita di un pubblico giovane che cominciava allora a frequentare strutture diverse dalla nostra, per identità e programmazione. Un processo che ci ha portato fino ad oggi alla tendenza sempre più diffusa di una fuga giovanile dai piccoli cinema di città. Dal nostro osservatorio la difficoltà dei ragazzi a fruire il film in una sala piccola, e senza rituali come quello di pop corn e Coca-Cola, è tangibile: sono spettatori nati dentro al centro commerciale. E questo è un problema che riguarda tutto il piccolo esercizio che fa delle precise scelte di qualità. Come attrarre i giovani? Creando eventi attorno al film, invitando ospiti, inventando ogni volta qualcosa di nuovo. Come la rassegna dei ‘Diritti al cinema’, un progetto nato in collaborazione con l’Associazione Magistrati per parlare di cittadinanza e legalità, o quella su ‘Cinema e Psichiatria’. Nel 2012 Nanni Moretti è stato nel nostro cinema tre giorni per gli ‘Assaggi di Sacher’, senza contare i moltissimi interventi di diversi altri registi. Sono i momenti che il nostro pubblico ama di più. Da sempre siamo impegnati nella formazione di una cultura cinematografica, perché gli spettatori crescono con te. L’Odissea ha un pubblico specifico che ama le sale come la nostra, dove c’è un contatto umano, si esce dal cinema e si parla, le dimensioni sono ridotte e la programmazione ha una connotazione forte. Normalmente programmiamo film di prima visione, legati a Circuito Cinema. Tutti i giorni proponiamo due o tre spettacoli, spesso a tariffe agevolate perché l’attenzione ai costi è prioritaria: dal lunedì al giovedì l’ingresso è a 4 euro e con le campagne abbonamenti è possibile acquistare 10 biglietti a 40 euro. Lo scorso anno la domenica abbiamo proposto l’ingresso all’ultimo spettacolo a 3 euro e questo ha contribuito ad avvicinare alla sala un altro pubblico. Un altro tentativo è stato di scegliere un giorno della settimana (il giovedì) per programmare la sera i film in lingua originale con sottotitoli in italiano, un’iniziativa che ha richiamato tanti giovani. Poi lavoriamo molto con le scuole di tutte le fasce, anche quella primaria. Per molti anni abbiamo fatto un percorso di costruzione di progetti laboratoriali, collaborando con gli addetti ai lavori, allo scopo di far comprendere ai ragazzi come si costruisce un film, per affascinarli, perché l’altro grande pericolo è che i giovani si allontanino dalle sale, abituandosi a vedere il film a casa sull’iPhone o sull’iPad, isolati. Ora, con il digitale, si aprono nuove possibilità. Entro la fine dell’anno anche l’Odissea si doterà di proiettori digitali e questo, forse, allargherà le prospettive. Però sarà necessario comprenderne le potenzialità e, soprattutto, tessere nuove relazioni tra le parti”. Poltrone in cerca di spettatore, old cinema Cinecittà, Levico (Trento) 15 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive LAURA FUMAGALLI CINEMA ARCADIA, MELZO (MI) 5 sale (1 da 630 posti e 4 da 220) “Da sempre abbiamo cercato un rapporto diretto con il pubblico, tra chi gestisce la sala e chi la frequenta. All’Arcadia il tentativo di coinvolgere gli spettatori in un’esperienza cinematografica a tutto tondo è andato oltre i contenuti, abbracciando la progettazione architettonica delle sale, il disegno degli spazi. Un esempio per tutti: le cabine di regia trasparenti. Un dettaglio all’apparenza insignificante ma che coinvolge il pubblico in qualcosa che normalmente gli è precluso, svelando i meccanismi del cinema. Fin dall’inizio l’Arcadia ha rappresentato un esercizio all’avanguardia per tecnologie, un modo per educare lo spettatore all’evoluzione tecnica che sottende alla settima arte. Proiettiamo in digitale dal 2000: in questi tredici anni abbiamo testato gli aspetti positivi e quelli negativi di essere pionieri. Abbiamo cambiato proiettori almeno quattro volte e siamo stati precursori nella multiprogrammazione, offrendo contenuti alternativi già nel 2002. Nel corso degli anni abbiamo continuato a proporre contenuti altri, ma sempre nella direzione di eventi in linea con il nostro target di pubblico. A ciascuno schermo il suo cinema: l’Energia è il punto di riferimento per il film spettacolare e di genere fantascientifico, che esalta le caratteristiche tecniche della sala, mentre A destra: old cinema Dante, Pieve di Bono (Trento) 16 le quattro sale gemelle (Aria, Acqua, Terra, Fuoco) proiettano i principali film in uscita, con un’attenzione particolare al cinema d’autore. Tante le rassegne proposte, spesso in collaborazione con la Cineteca di Milano. Da quella sui film in 70mm alla retrospettiva ‘Film Legend’ dedicata ai grandi titoli della storia del cinema rimasterizzati in digitale, fino all’evento ‘Come siamo messi sulle regole?’ dello scorso ottobre, rivolto agli studenti delle scuole superiori e trasmesso in diretta satellitare alla presenza di Gherardo Colombo e Claudio Bisio. Un esempio importante di multiprogrammazione perché contribuisce nel contempo all’educazione del pubblico e alla frequentazione delle sale. Gli spettatori dell’Arcadia non sono quelli dei multiplex fuori città. Nell’atrio del cinema c’è una libreria multi tematica, oltre a uno spazio dedicato all’allestimento di mostre. L’abbiamo connotato come un luogo dove poter trascorrere del tempo, offrendo una serie di stimoli culturali. I primi anni abbiamo raggiunto picchi di affluenza di 800mila presenze annuali: era il periodo del Titanic e all’epoca eravamo l’unica multisala presente nell’hinterland milanese. Ora la concorrenza sul territorio è altissima e le presenze si sono ridimensionate. Facciamo sforzi quotidiani per far tornare la gente al cinema. In quest’ottica, l’annosa questione della programmazione spalmata lungo i 12 mesi è prioritaria, perché è indubbio che in estate, data la scarsa offerta di film, lavoriamo pochissimo”. SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive 17 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Fino all’ultimo spettacolo diFranco Marineo Le storie della chiusura delle sale sono un soggetto che il cinema stesso ha spesso ripreso, sempre con un tono di nostalgia e quasi come se il momento dell’agonia coronasse il senso più intimo di quel luogo. Da Vertov a Carax, da Scola a Wenders: viaggio nella mistica del cinematografo. E siste una sorta di ossessione distruttiva, quasi obbligatoriamente malinconica, forse involontariamente nostalgica, nel modo in cui il cinema ha raccontato e racconta la vita di una sala cinematografica. Quando un film ruota intorno a un cinema, il più delle volte assistiamo alla rappresentazione degli ultimi giorni, delle ultime ore di vita di quel luogo: un canto nostalgico che racconta L’ultimo spettacolo (Bogdanovich, 1971), la chiusura definitiva (Goodbye Dragon Inn, Tsai Ming Liang, 2003), la resistenza contro 18 la chiusura di una sala (l’irrisolto Splendor, 1988, di Ettore Scola), la dissoluzione di un surrogato d’identità legata a un cinema di provincia (The Majestic, 2001, di Frank Darabont). Come se la vita di un cinema raccontata dentro un film trovasse la propria mistica solo nella dimensione terminale dell’assenza di un domani. Come se una sala cinematografica potesse trarre forza iconica, valore narrativo, dentro l’agonia. Questa tendenza è certamente legata a quel particolare rapporto con la dimensione del tempo che il cinematografo intrattiene sin dal momento in SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive cui è stato inventato: preservare il tempo, immobilizzare il passato in una dimensione ambrata, protetta, è stato il destino del cinema nel corso del Novecento. Così è stato quasi spontaneo che lo spazio designato di questa liturgia, tempio pagano e ganglio della socializzazione, venisse raccontato nel momento del commiato, come a voler stabilire un ponte tra le immagini che trattengono ciò che è stato e lo spazio in cui questo passato è stato riesumato ciclicamente. Questo atteggiamento è ancor più lampante oggi, nel frangente storico in cui le sale chiudono una dopo l’altra, in cui l’“andare al cinema” finisce per essere solo un pezzo di un’esperienza del consumo che si pratica nei mall; oggi, nel transito storico in cui il cinema si consuma ovunque, l’esperienza dello spettatore si riarticola in una serie di pratiche che possono anche non contemplare la visione collettiva e condivisa. Però l’epica dei cinema ha una sua densità anche fuori dal perimetro funereo delle chiusure: un vero inno al cinema e alla centralità del luogo-sala sembra essere L’uomo con la macchina da presa (1929) di Vertov, uno dei primi meta-film concettuali che si apre e si chiude dentro lo spazio di un cinema che a tratti sembra vivere di vita propria e che si offre come epicentro della riflessione vertoviana sulle immagini e sulla percezione umana. Il passaggio narrativo ambientato dentro un cinema si connota per la propria valenza simbolica ma anche per il suo offrirsi allo sguardo come momento di risoluzione del plot o di inquadramento allegorico: prendiamo, per esempio, il finale di Il seme della follia (1995) di John Carpenter, vertiginoso viaggio dentro i territori della metanarrazione che si chiude dentro un cinema in cui il protagonista ri-assiste alla propria “avventura” proiettandosi in una zona incerta tra la mise en abyme e la risoluzione impossibile di un plot incentrato sulla paradossale veridicità dei mondi inventati, anche di quelli più terrorizzanti. Il cinema funziona come uno dei varchi di accesso da/a un’altra dimensione anche in Paprika (2006) di Satoshi Kon, visionario viaggio animato dentro la presenza dei sogni nel mondo reale: in questo passaggio fortemente simbolico, lo spazio del cine- ma diventa una soglia tra due mondi, tra due assetti percettivi, offrendosi come una sorta di attualizzazione di una visione un po’ romantica e passatista del luogo buio in cui i sogni possono diventare parte integrante della realtà. Così come lampante pare il riferimento con cui si apre Holy Motors (2012) di Leos Carax, interessantissima riflessione sul gesto del rappresentare e sull’esplosione di un cinema che è, letteralmente, ovunque: il film comincia con un uomo (impersonato dallo stesso regista) che si ritrova in una stanza da cui accede a una sala cinematografica in cui gli spettatori dormienti stanno guardando sullo schermo La folla di King Vidor. Completamente sganciato dal tempo, anche questo fuori da qualsiasi collocazione cronologica e da ogni esigenza simbolica, è il vecchio cinema in cui si ambienta Serbis (2008) di Brillante Mendoza: un fatiscente cinema per adulti in cui si snodano le vicende che della famiglia che lì abita e i cui legami si sbriciolano come la struttura di questa sala di Angeles City, nelle Filippine, che è anche luogo di incontro per umanità disparata, agorà occulta e marginale di un mondo sommerso e invisibile. Il cinema diventa sintesi, spazio agito e vissuto in cui, dal concepimento alla morte, ruotano le fasi dell’esistenza, in una sovrapposizione tra luogo della vita e spazio della rappresentazione. Ma forse il film che lambisce e tocca con più delicatezza narrativa e senza l’urgenza del simbolo resta Nel corso del tempo (1976) di Wim Wenders, un viaggio lungo il confine tra la due Germanie compiuto da un aspirante suicida e da un riparatore di vecchi proiettori: senza la retorica e i moralismi della seconda parte della sua carriera, Wenders affronta la crisi del cinema senza trincerarsi dietro inutili nostalgie, con un trasporto e una partecipazione emotiva rara. Nel corso del tempo restituisce la densità materiale del cinema, con un pellegrinaggio lungo le sale di provincia che ci fanno sentire il rumore di un proiettore, le patine sbrecciate di un muro o di una poltrona, il buio di un teatro ancora chiuso, l’odore e il peso di una pellicola. A sinistra: secondo tempo all'old cinema Cinecittà, Levico (Trento). In questa pagina: le vecchie sedie all’old cinema Rossi, Mentana (Roma) 19 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive A ll’estero la si applica già da parecchi anni. In Italia, in un momento di crisi generalizzata che vede progressivamente in calo il numero di biglietti staccati, la multiprogrammazione suona come un invito a sperimentare, superando le vecchie abitudini, di pari passo con la selezione di contenuti nuovi e diversi che non si limiti soltanto a pellicole di fiction. È notizia recente il grande successo di One Direction: This is Us 3D, concert-movie di Morgan Spurlock (quello bravo di Super Size-me e Che fine ha fatto Osama Bin Laden?) con protagonista la boyband britannica più in voga del momento. Tema superficiale? Può darsi: ma intanto, in Italia, l’incasso del primo week-end di programmazione è di 1.498.848 euro, con 4.222 di media per copia e primo posto in classifica. Insomma, la sala, per sopravvivere, ha bisogno di varietà. Se ne è parlato approfonditamente durante le Giornate Professionali di Cinema di Riccione, grazie all’interessante workshop “Spinte e contrappesi della multipro- grammazione”, che ha analizzato, con uno sguardo a ciò che avviene all’estero, un modo per noi italiani relativamente nuovo di distribuire contenuti in sala, affidando allo stesso schermo più contenuti a seconda della fascia oraria. E non si tratta, appunto, solo di film in prima visione: ottimi risultati arrivano anche da riedizioni (come quella di C’era una volta in America, con l’aggiunta di scene inedite, o semplicemente riproponendo classici così come erano, magari con un master un po’ ripulito, come nel caso di Ritorno al Fu- turo), o da contenuti particolari come proiezioni (in diretta via satellite o differita) di concerti e spettacoli teatrali. Secondo uno studio condotto dal professor Bruno Zambardino de La Sapienza, almeno in Italia è la digitalizzazione degli schermi a fare da spinta propulsiva per la sperimentazione della multiprogrammazione, dato che rende estremamente agevole il cambio di contenuti sul medesimo schermo senza dover provvedere allo spostamento fisico delle copie. Naturalmente molto sta alla capacità strategica VARIARE IL MENù PER SOPRAVVIVERE E SPERIMENTARE diAndrea Guglielmino dell’esercente: nel conoscere il suo pubblico e nel saper sfruttare i momenti migliori per questo genere di esperimenti. “Ad esempio – spiega – il concerto dei Led Zeppelin o la riprogrammazione di The Rocky Horror Picture Show negli scorsi mesi hanno offerto buoni introiti soprattutto nei giorni più deboli, il martedì e mercoledì”. “In verità – specifica Elisabetta Brunella, segretario generale di MEDIA Salles - in Europa non si tratta di una novità. In Francia e Regno Unito la multiprogrammazione era già una pratica diffusa prima dell’arrivo del digitale, anche se naturalmente ora si fa tutto molto più facilmente e rapidamente. Non parliamo solo di multiplex, ma anche di strutture monosala, e non solo di mercati enormi. Risultati interessanti si sono ottenuti ad esempio anche nei Paesi Bassi, in Romania, in Danimarca e in Finlandia. Il Portogallo invece, un po’ come l’Italia, ha atteso la digitalizzazione per iniziare qualche tentativo. Ma multiprogrammazione non significa anarchia. L’esercente può scegliere cosa proiettare, su che schermo e a che ora, a quali tariffe, ma naturalmente a patto che si attenga alle clausole concordate con la distribuzione. Le possibilità sono svariate e si negoziano al momento del noleggio, adattando e modificando, eventualmente, quando poi il film entra nella terza o quarta settimana di tenitura. Si può scegliere di programmare un film solo la mattina o la sera, o addirittura 20 a un certo orario di un certo giorno. Nel Regno Unito i cartoon vanno forte il sabato mattina o nelle proiezioni delle 18, quando i bambini sono liberi dalle scuole. Altri sono più adatti a un pubblico adulto e si può scegliere di programmarli solo la sera. Ottimi risultati in questo senso sono stati dati da uno spettacolo organizzato dal British Museum, proiettato in diretta satellite, che ha portato a un guadagno complessivo di 420mila sterline in due giorni di programmazione, di cui uno era mercoledì, in fascia mattiniera”. Anche l’esercente e distributrice finlandese Elise Brandt conferma che il metodo funziona. Lei arriva a programmare fino a nove film su uno schermo il medesimo giorno e garantisce sui risultati, “a patto che tra esercente e distributore viga un assoluto rapporto di fiducia. L’esercente deve sapere che il distributore gli fornirà ogni mezzo necessario per svolgere il lavoro al meglio, e il distributore deve confidare nell’assoluta capacità dell’esercente di conoscere il proprio pubblico e sapere cosa funziona e quando”. “Questa fiducia in Italia in realtà già c’è – commenta Richard Borg, in veste di ad di Universal Pictures – dato che tutti vogliamo guardare al futuro e sperimentare. Non si tratta solo di guadagno, ma di contribuire allo sviluppo del mercato, massimizzando lo sfruttamento dei contenuti che hanno sbocco e aiutando quelli che invece hanno maggiori problemi”. SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Si può scegliere di programmare un film solo la mattina o la sera, o addirittura a un certo orario di un certo giorno. In Francia e Regno Unito la multiprogrammazione era già diffusa prima dell’arrivo del digitale, anche se naturalmente ora si fa tutto molto più facilmente e rapidamente. 21 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Nell’era del film on demand, recuperiamo le fabbriche dei sogni diStefano Stefanutto Rosa In Italia in un decennio hanno chiuso 761 sale. Il network Old Cinema invita a segnalare il “cinema perduto” del cuore, a salvarlo dall’oblio su Facebook con post, clip e immagini. E oltre a registrare il mutamento con due docufilm sugli schermi chiusi in Trentino e nella Sabina, il progetto intende anche riaprire 20 sale, una per regione. “Noi agiamo per riaffermare il loro valore di bene artistico, ma anche il nuovo ruolo di incubatori culturali”, spiega la founder Roberta Bonazza. 22 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive “A lfio se ne andò al cinema con un suo compare trovato per caso da quelle parti, da Gara o al Bar Flamengo. Al cinema Due Allori. Il pidocchietto. Che c’aveva ancora di qua e di là dello schermo, il sipario rosso tirato, ridotto a uno straccio con un palmo di polvere secca. La platea era fatta di seggiolette di quelle d’una volta, tutte rotte…”. Non solo Pier Paolo Pasolini, nel romanzo Alì dagli occhi azzurri, ma anche la regista Lina Wertmüller ci parla di un "pidocchietto", durante la sua infanzia romana: “Ce n’era uno che era delizioso, il Regina, ai piedi dell’Hotel Plaza, adesso è un magazzino, ma noi ci andavamo sempre. Quello era il sapore del cinema”. Gusto del cinema che è andato perso con la progressiva e inarrestabile scomparsa di sale cinematografiche in città e paesi. Dal 2001 ai primi mesi del 2012, in Italia hanno chiuso 761 cinema, per lo più monosala, per un totale di 889 schermi spenti. E le piccole sale rimaste sono in crisi per la digitalizzazione obbligatoria dal 2014. Per avere memoria di quanto accaduto, la fotoreporter Ambra Craighero e la cultural manager Roberta Bonazza si sono impegnate, come primo momento del progetto Old Cinema da loro fondato, a costruire una mappa delle sale perdute, ritrovate, trasformate del nostro paese. E in aiuto di questo network che vede coinvolte istituzioni pubbliche e private, università, aziende, artisti e cittadini - è partita anche la campagna social che invita a segnalare il cinema perduto del cuore, a salvarlo dall’oblio su www.facebook.com/oldcinema con post, clip e immagini. Le due founders hanno cominciato la loro mappatura del territorio in cui vivono da 280 faldoni conservati nel Museo Storico del Trentino, a Trento, contenenti le licenze di apertura di cinema trentini dal 1945 al 1987, tra sale “industriali”, parrocchiali, aziendali o estive. Dalle 300 sale trentine nel dopoguerra, si è passati alle 129 sopravvissute nel 1987, ai 48 cinema, per un totale di 63 schermi, attivi nel 2012. Old Cinema vuole così colmare “uno scippo della memoria”, come lo definisce Roberta Bonazza, e restituire l’esistente, con dati, testimonianze e immagini. Innanzitutto di “cinema dormienti” cioè che hanno mantenuto elementi specifici alla funzione di sala da cinema. Poi di “cinema ibridi” che, nello scheletro architettonico originale sostanzialmente ben conservato, hanno assunto nuove destinazioni d’uso: magazzini, biblioteche, laboratori, sale espositive, librerie, ristoranti, abitazioni, supermercati, sale da gioco. Infine ci sono i cinema scomparsi, che hanno lasciato una traccia nella memoria collettiva e che rivivono Old Cinema Le fondatrici del progetto Old Cinema sono Roberta Bonazza - manager dell’arte e della cultura, per la Regione Trentino-Alto Adige ha creato format e piattaforme di contenuti culturali - e Ambra Craighero, giornalista e fotografa, collabora con "Corriere della Sera", "Sette", "Max", "Glamour", "GQ", "Wired" e Wired.it, Vanity.it. Le immagini delle pagine 5, 6, 9, 10, 11, 12, 15, 18, 19 e 22 sono di Ambra Craighero. Le immagini delle pagine 12, 14, 17 e 22 sono di Roberta Bonazza. Per informazioni: Cristina Gattamorta, responsabile comunicazione Old Cinema, [email protected] grazie a testimonianze orali. Un viaggio on the road lungo un anno, tra Trento, Arco, Riva, Pieve di Bono, Levico, Mori e decine di altri paesi e frazioni in provincia di Trento, ha fatto riaffiorare 35 old cinemas con foto, testimonianze e il docufilm Alla ricerca delle sale perdute. Oltre al documentare il mutamento, Old Cinema intende anche riaprire 20 sale, una per regione, puntando alla collaborazione del MiBACT, degli enti culturali, delle associazioni di settore e delle imprese private. “Noi agiamo per riaffermare il loro valore di bene artistico, ma anche il nuovo ruolo di incubatori culturali”, spiega ancora Roberta Bonazza. Un progetto pilota nazionale che può essere cucito su misura anche per altre regioni e che è stato presentato alla Mostra di Venezia. Con mentore Giuseppe Tornatore e testimoni Pupi Avati, Francesco Rosi, Giuliano Montaldo, Silvano Agosti, Morando Morandini, Giordano Bruni Guerri e Walter Veltroni, il progetto Old Cinema ha preso forma concreta con una serie di eventi, tra il 2012 e il 2013, negli ex cinema Impero, ora sala consiliare, e Iris, ora Salone delle feste, ad Arco (Trento), due sale in stile liberty del 1912 e del 1948 che si trovano ai lati dell’elegante Casinò municipale. In particolare l’ex cinema Impero rivive come “Lab” permanente di Old Cinema, destinato a studi e proiezioni a tema. E qui è stato presentato un assaggio di un nuovo docufilm, dedicato all’old cinema Rossi di Mentana (Roma) e alle sale perdute della Sabina. Riaffiora la storia di vecchi cinema "comunisti" e "fascisti" in competizione, di arene improvvisate in piazza, di chiese convertite in sale di proiezione. La visione integrale avverrà in occasione della prossima riapertura dell’ex cinema Rossi, poi Roxy, di Mentana, acquistato dal Comune nel 2009 e che entro la primavera prossima potrebbe essere restituito ai cittadini come spazio polivalente. Forse un’utopia nell’era del cinema on demand? No, una sfida possibile che presto potrebbe essere vinta anche dall’ex cinema Orchidea a Milano, dal Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera e dal Cinema Teatro Città di Levico. Nella pagina accanto, in alto: old cinema Odeon, Oporto (Portogallo) In basso: old cinema Impero, all’interno del Casinò municipale, Arco (Trento) 23 SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive Unica certezza: i pop corn non fanno rumore diValerio Orsolini È bene precisare una cosa: il luogo per godere al meglio della visione di un film è la sala cinematografica. Come in un tempio, tutto è ottimizzato al massimo per fruire l’esperienza: il grande schermo cattura completamente l’attenzione visiva, le sorgenti sonore sono distribuite strategicamente nello spazio, l’oscurità della sala si rende complice, insomma si creano le condizioni per il processo di liturgia e ritualità conosciuto e rispettato (tranne da quel “cretino” seduto due file dietro che sgranocchia i pop corn) da chi si appresta a perdersi dentro una storia e nel carisma dei suoi interpreti. Ma il mondo sta cambiando! La rete lo ha rivoluzionato. Magari non tanto nei contenuti, ma sicuramente nei modi e nelle forme, modificando radicalmente la fruibilità dei prodotti audiovisivi in genere. Ad un certo punto, tra le tante parole nuove che aggiungiamo al nostro vocabolario, è comparsa la parola “streaming”. Lo streaming è la fruizione di un flusso di dati sulla rete, cioè esattamente quello che succede quando guardiamo un contenuto audiovisivo sul nostro device attraverso il web e così dalla sala cinematografica, luogo dove ci si reca per vedere il film, si sta passando alla sala virtuale: è il film, magari an- 24 che un’anteprima, che ci raggiunge a casa. Senza l’ambiente e la ritualità suddette, ma nella nostra pigra comodità casalinga, pagando un costo, un biglietto anch’esso virtuale, quasi sempre inferiore a quello del botteghino. Il portale Mymovies.it propone questa opportunità già da circa tre anni: si compra il biglietto e lo streaming avviene in giorni ed orari prestabiliti, così come al cinema, ma dallo scorso anno anche la Mostra del Cinema di Venezia si è dotato di una sala virtuale per le opere in concorso nella sezione Orizzonti e quest’anno ha ripetuto l’esperienza raddoppiando il numero di utenti. Il direttore Alberto Barbera ci ha spiegato che, sempre fermo restando il ruolo della sala cinematografica classica, “le abitudini del pubblico stanno cambiando, la maggior parte delle informazioni sulle nuove produzioni che riguardano il cinema oggi passa attraverso il web. Anche la promozione si fa più in rete che con gli strumenti tradizionali, a parte il fenomeno deprecabile della pirateria, mentre si stanno moltiplicando le piattaforme che offrono contenuti cinematografici legali e sono in aumento gli utenti di queste ultime. Che il Festival rimanesse sordo e cieco di fronte a tutto questo mi sembrava sintomo, quantomeno, di arretratezza”. La sala virtuale non è certo il punto finale del processo di cambiamento della fruibilità del prodotto audiovisivo. L’industria cinematografica si SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive La sala virtuale, naturale nuova frontiera della fruizione cinematografica al passo con il web: il parere del direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, pioniere in questo campo. Ma anche Paolo Virzì, neo direttore del Festival di Torino, ha scelto la "sala 2.0 ". trova nella stessa situazione in cui si trovò quella discografica alla comparsa di Napster prima e di iTunes poi: la musica non è cambiata, ma provate a cercare un negozio di dischi! Con l’avvento dell’mp3 il “file” ha completamente sostituito il supporto fisico, seppur digitale come il DVD. Anche Barbera ritiene che “tutto questo è ancora in cerca di un assestamento definitivo, di un paradigma di funzionamento che ancora non esiste” e infatti è difficile cogliere la sfumatura tra sala virtuale e un normale streaming on demand. La vera differenza consiste nel fatto che la sala virtuale propone eventi in orari e contenuti non completamente decisi dall’utente, mentre l’on demand è, per definizione, a richiesta. La sala virtuale trova quindi la sua migliore applicazione in occasione di anteprime o eventi particolari, come appunto i festival. “ Più di due terzi dei film presenti quest’anno a Orizzonti erano nella sala virtuale, vuol dire che la maggioranza ormai riconosce nella rete una possibilità concreta a cui accedere. Ci sono solo alcuni problemi da affrontare e risolvere nei prossimi anni, legati alla gestione dei diritti e alla compravendita dei film stessi”. Dalla parte dell’utente la sala virtuale offre la possibilità di assistere ad eventi particolari, magari fisicamente collocati dall’altra parte del mondo, e di poter interagire con tutta la platea (virtuale) che assiste a quello stesso evento in quel momento, grazie all’interattività peculiarmente offerta dal web. Magari in futuro sarà possibile partecipare ad un forum con gli autori stessi dell’opera, prima e dopo la proiezione, oppure “socializzare” parte di questa esperienza interagendo con gruppi di ascolto o eventi dedicati a fan club. Il prossimo Festival di Venezia offrirà ancora la possibilità di accedere alla sala virtuale, ma non sarà più un’esperienza unica nel panorama delle manifestazioni italiane legate al cinema. Il nuovo direttore artistico Paolo Virzì ha dotato anche il Torino Film Festival, in corso dal 22 al 30 novembre, di una “sala 2.0”. Dopo essersi registrati si possono scaricare e vedere gratuitamente alcune delle opere in concorso, ma non più di una al giorno. La platea virtuale, cioè il massimo numero di spettatori che possono accedere alla visione di ogni film, viene decisa ogni volta dai produttori e distributori dell’opera, proprio per evitare eventuali problemi di pirateria. La sala virtuale insomma è una naturale, e ormai inevitabile, tendenza dettata dal progredire della tecnologia, che però sembra volerci portare sempre di più verso un innaturale isolamento individuale, almeno sul piano fisico. Non è ancora chiaro se questo sia un bene o un male, ma almeno "il signore dei pop corn” potrà mangiare tranquillamente a casa sua, senza disturbare nessuno. 25 COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO Karel Och Eva Zaoralová diRossella Rinaldi Intervista a Karel Och, direttore artistico del Karlovy Vary International Film Festival, e ad Eva Zaoralová, consulente artistica. 26 COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO Q uest’anno la presenza italiana al Karlovy Vary è stata corposa, erano presenti ben 9 titoli e quasi altrettanti talent: un anno particolarmente proficuo per un festival che ha sempre amato il nostro cinema. Secondo voi stiamo passando “cinematograficamente” un buon periodo? KO: Un paese che è capace di produrre dei capolavori come La grande bellezza e dei film estremamente coinvolgenti come L’intervallo o Miele non può non passare un buon periodo. L’attesissima opera prima di Emma Dante presentata a Venezia, Alice Rohrwacher che sta girando il suo nuovo film: vedo promettente anche il futuro prossimo. EZ: Ci sono stati nell´ultimo periodo alcune opere prime particolarmente riuscite e interessanti, come L´intervallo e Miele. Aspetto con curiosità il riscontro dell´esordio cinematografico di Emma Dante a Venezia. Viva la libertà è stato presentato in concorso al Karlovy Vary, in anteprima internazionale: ha riscosso un grande interesse tra i buyer. Il Festival non ha un vero e proprio mercato ma la sezione “industry” funziona benissimo e ci sono molte occasioni di vendita, soprattutto per il mercato dell’Est Europa. Cosa può portare ai film italiani la partecipazione a questo Festival? KO: Lavorando per il festival di cinema più importante dell’Europa centrale e dell’Est stiamo cercando di attirare il maggior numero di buyer della nostra zona, offrendo una selezione di film che secondo noi hanno un buon potenziale per la distribuzione, senza rinunciare alle qualità artistiche. EZ: Al Karlovy Vary ci sono ogni anno i maggiori distributori internazionali, europei e americani, che arrivano in numero sempre più consistente: buyer russi, polacchi, ungheresi, croati, sloveni e, ovviamente, cechi e slovacchi. Oltre la possibilità di trovare un distributore ceco o straniero, la partecipazione al Karlovy Vary può far conoscere un autore italiano al pubblico internazionale. Al Festival ci sono moltissimi giovani e ogni anno è visitato da oltre 125mila persone, di cui circa 600 giornalisti. 27 COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO Il “Premio Lux” del Parlamento Europeo, “Variety”, European Film Promotion: importanti istituzioni internazionali decidono di lanciare i propri progetti al Karlovy Vary, come mai? KO: Durante gli ultimi vent’anni il KVIFF è riuscito a diventare un evento di estesa visibilità e ultimamente si è concentrato anche nel favorire gli incontri tra le cinematografie europee e il mondo del film nordamericano. EZ: Karlovy Vary è un festival riconosciuto come uno dei più importanti al mondo. È nato nel 1946, nello stesso anno di Cannes e Locarno, ma per motivi politici a partire del 1958 si è alternato con il festival di Mosca, perciò e arrivato solo quest’anno alla 47ma edizione. Comunque dal ‘94 ha una cadenza annuale regolare e grazie alla direzione in questi ultimi vent´anni ha guadagnato una posizione di rispetto. Credo sia questa la motivazione della presenza di queste importanti istituzioni. Cosa amate del cinema italiano di oggi? Quali sono i vostri autori preferiti e in che direzione sta andando il nostro cinema? KO: Tra i giovani stimo molto Alice Rohrwacher, Michelangelo Frammartino e Pietro Marcello. Negli ultimi anni ho provato sensazioni fortissime mentre guardavo film come La grande bellezza, Reality, Viva la libertà, Mio fratello è figlio unico, Nuovomondo, La doppia ora, Tutta colpa di Giuda … L’elenco sarebbe veramente lungo. Il cinema italiano sta andando in una direzione che personalmente trovo molto piacevole da seguire. EZ: I miei autori preferiti restano sempre Fellini, Antonioni e Visconti, i “grandi” del cinema italiano. Comunque apprezzo molto il cinema di Sorrentino, che con la sua imma- 28 ginazione fuori dal comune potrebbe diventare una personalità pari a quella di Fellini. Ma stimo molto anche i cineasti che seguono le tendenze del cinema politico, come facevano Francesco Rosi o Elio Petri. L’anno scorso abbiamo avuto in concorso Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, che ha vinto il Premio della Giuria. Mi piace anche il cinema di tendenza documentaristica di Giorgio Diritti. Frequentate i festival italiani? Quali? KO: Sono andato a Venezia regolarmente negli ultimi 10 anni. Ho molto rispetto per il Festival di Torino e un debole per il Festival dei Popoli di Firenze. EZ: Vado a Venezia, ma negli ultimi anni anche a Roma. Ho partecipato saltuariamente a Torino, un Festival dove è possibile trovare molto cinema italiano indipendente. Ogni tanto visito anche festival minori, come quello di Bari, che per me è una buona occasione per conoscere autori italiani più “nascosti”, come quest’anno Elisa Fuksas. Italia e Repubblica Ceca: più affinità o differenze? KO: Avendo sposato un’italiana posso dire che è un mix interessante. Comunque i cechi potrebbero imparare dagli italiani a essere più spontanei e a sorridere di più, mentre ai giovani italiani non farebbe male adottare dai cechi un po’ più di voglia di scoprire il mondo e imparare le lingue. EZ: Direi che ci sono affinità su un certo tipo di commedie: per esempio i film della commedia all´italiana piacciono a tutte le generazioni di pubblico, Habemus Papam di Nanni Moretti è stato un grande successo l’anno scorso. Cosa consigliereste ai registi e ai produttori italiani per internazionalizzare il nostro cinema? KO: Non mi pare che il cinema italiano soffra di un’insufficiente internazionalizzazione. Mi sento molto fortunato per aver conosciuto di persona vari produttori e registi italiani. Le conversazioni con loro sono state una grande scuola per me. EZ: È importante parlare della realtà italiana, non importa se in chiave fiction o documentaristica. Sono questi i film che interessano il pubblico dei festival internazionali. Invece non mi sembra giusta la strada di fabbricare dei prodotti presumibilmente pensati “per un pubblico internazionale”. INNOVAZIONI Low budget/no budget Il low budget non ' e di serie B diAndrea Guglielmino 30 INNOVAZIONI // Low budget/no budget Una produzione cinematografica possibile con poco denaro, quando non senza fondi, non è necessariamente sinonimo di bassa qualità del prodotto. Molti sono i casi di film che hanno ottenuto grande successo di pubblico, apprezzamento e lodi dalla critica, assurgendo allo status di veri e propri cult. presunto (come il mockumentary di The Blair Witch, appunto), che non richiede l’impiego di grosse troupe o di effetti di post-produzione invasivi, viene considerato sempre più spesso un investimento relativamente “sicuro”. Scorrendo la lista che abbiamo appena tracciato, emerge un dato interessante: si tratta nella maggior parte dei casi di film che non solo hanno ottenuto un gran successo di pubblico, ma sono stati apprezzati e lodati anche dalla critica, generando spesso dei franchise e assurgendo allo status di veri e propri cult. Il che significa che, ormai, è forse superata la concezione per la quale un film prodotto con budget limitato debba necessariamente essere un film di serie B. Negli Anni ‘30 la categoria dei B-Movie era nata proprio per contrastare il calo di spettatori nelle sale, magari invitandoli a una doppia proiezione pagando il prezzo di un solo biglietto. Nell’Italia di oggi la situazione sembra più radicale: chi si autoproduce o sceglie la strada dello zero budget – specie tra i giovani – non lo T ecnicamente, il termine “low budget” non ha connotazioni qualitative. Si tratta semplicemente di una produzione realizzata con poco denaro, o addirittura senza fondi. A volte sono i registi stessi ad autofinanziare prodotti limitatamente costosi al fine di mostrare le loro capacità, con l’intento di farne veicolo di promozione o di inserirsi nel circuito dei festival. Ciò che spesso si dimentica è che low budget è un concetto relativo: una commedia girata negli Usa con 20 milioni di dollari può essere considerata di medio budget, ma se invece, con la stessa cifra, si gira un film d’azione, o di fantascienza, allora si parlerebbe di low budget considerando quanto di solito gli studios investono per questi generi. A volte, è l’idea stessa del plot a essere pen- sata per poter funzionare con un capitale di basso profilo. Pensiamo al successo dell’imitatissimo The Blair Witch Project: girato nel 1999 con appena 60mila dollari, ha fruttato al botteghino 249 milioni, generando libri, una trilogia di video-game, fumetti e perfino un sequel, più costoso ma molto meno famoso. Di altri esempi celebri nel cinema americano se ne contano parecchi: La notte dei morti viventi, Rocky, Halloween o i più recenti Juno e Napoleon Dynamite. Quando si scende sotto i 10.000 dollari si comincia a parlare di micro-budget: in questo senso, El Mariachi di Robert Rodriguez, co-produzione MessicoUsa, è forse uno dei casi più lampanti degli ultimi anni. Certi generi sono considerati low budget per definizione, magari anche con un grado eccessivo di generalizzazione: tutto ciò che ha a che fare con il documentario, vero o fa per una scelta artistica, difficilmente pensa che quello sia il suo futuro. Insomma, non si pensa di produrre a costi bassi seguendo l'intuizione di uno specifico piano d'investimento. Lo si fa perché, in molti casi, non si ha altro modo d'esprimersi. Ciò non significa che non si possa fare di necessità virtù: Fabio Guaglione, sceneggiatore, produttore e fondatore insieme a Fabio Resinaro della società Mercurio Domina, che ha realizzato di recente con budget ristretto il thriller True Love, lo spiegava in un'intervista che 8 ½ gli ha dedicato in aprile: low-budget non significa solo fare film con meno soldi, ma concepire idee che, di base, rendano bene se realizzate a basso costo. Un po’ il concetto su cui Roger Corman in America ha costruito la sua fortuna. Proprio Corman, in una lezione tenuta un paio d’anni fa al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, proponeva agli studenti italiani soluzioni interessanti: “Suggerisco ai giovani cineasti di associarsi in cooperative investendo ciascuno una piccola somma di denaro”. Lui, del resto, è diventato famoso proprio per la sua “factory”, che dagli Anni ‘70 agli ‘80 produceva una media impressionante di pellicole l’anno. Fatto sta che produrre con costi limitati nel nostro paese è normalità per moltissimi autori. Et in terra pax di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è costato circa 100mila euro. Fin qui tutto bene, di cui Roan Johnson sta completando la lavorazione, ne costa circa 200mila. Costanza Quatriglio, per il suo Con il fiato sospeso, autofinanziato con circa 30mila euro (per 35 minuti di film), è riuscita a coinvolgere Alba Rohrwacher, uno dei volti più noti del cinema italiano di oggi. In questo caso, come nella migliore delle ipotesi possibili, il limite di budget rappresenta non una diminuzione di possibilità ma uno stimolo a sperimentare forme nuove di comunicazione, sospese tra la fiction e il documentario. 31 INNOVAZIONI // Low budget/no budget Perche’ in Italia l’autarchico non funziona? diCorrado Adamo Q uattro anni fa nelle sale cinematografiche italiane veniva proiettato un horror americano poco più che amatoriale, con un budget stimato di circa quindicimila dollari, intitolato Paranormal Activity. Distribuito in tutto il mondo, il film scalava a sorpresa il box office arrivando a incassare qualcosa come 163 milioni di dollari. Un discorso molto simile vale anche per altre pellicole, realizzate in maniera totalmente indipendente e “a costo zero”, diventate se non grossi casi commerciali (oltre al suddetto Paranormal Activity va ricordato almeno anche il caso di The Blair Witch Project) per lo meno film cult, che tutt’oggi vengono ancora fruiti e ammirati da schiere di fan: parliamo di lavori come Clerks (Kevin Smith, 27mila dollari, incasso 3milioni), El Mariachi (Robert Rodriguez, 15.000 dollari, incasso 2 milioni) o Pink Flamingos (John Waters, 12.000 dollari, incasso 7 milioni). Stiamo ovviamente parlando di film che, realizzati produttivamente in modo indipendente, hanno poi trovato l’appoggio di case di produzione affermate che hanno contribuito a finanziare le spese di marketing necessarie per diffondere capillarmente le pellicole nelle sale. La cosa più significativa è che queste compagnie hanno avuto interesse per questo tipo di prodotto. Ci hanno creduto, hanno investito e hanno rischiato. Paranormal Activity senza Spielberg alle spalle probabilmente non sarebbe uscito dai confini americani. 32 INNOVAZIONI // Low budget/no budget E in Italia? I motivi principali per cui i film di questo tipo realizzati nel nostro paese non hanno né successo né distribuzione sono essenzialmente due. Il primo è che in Italia non sono mai stati realizzati film no budget con un “appeal” tale da meritarsi almeno un interesse specifico da parte di un eventuale produttore curioso e desideroso di sperimentare. Le storie che vengono raccontate, il modo in cui vengono raccontate, e le strategie di marketing adottate sembrano non avere alcuna presa sul pubblico, nemmeno su quello italiano. trovano. Non moltissimi, ovviamente, ma ce ne sono. All’estero la situazione è diversa in quanto prima di tutto c’è una tradizione più forte verso questo tipo di film, basti pensare a case di produzione come la Troma, che da quarant’anni fa circolare film di exploitation e horror demenziali spesso semi amatoriali, o la American International Pictures (poi New World) di Roger Corman, che girava film uno dopo l’altro utilizzando le stesse scenografie ed attrezzature per ottimizzare le risorse e ridurre i costi. Il secondo motivo è che non ci sono da noi veri imprenditori del cinema, né distributori interessati a innovare, disposti a rischiare discrete somme per finanziare la diffusione di questo tipo di pellicole: l’italiano medio è attaccato a ciò che gli è familiare, ha paura di tentare strade diverse e preferisce andare a vedere film che abbiano per lo meno attori conosciuti, di cui ha visto il trailer in televisione o letto la recensione. ll punto è che anche in Italia a volte si viene a sapere di esperienze analoghe, solo che ad interessarsi al fenomeno sono davvero in pochi e gli stessi media non amano occuparsene. Difficile poi trovare siti e riviste cinematografiche che trattino, se non sporadicamente, il caso del cinema no budget italiano, come se in Italia di film a costo zero non ne venissero prodotti. Perché all’estero, invece, molti di questi piccoli film vengono distribuiti in DVD con un buon riscontro di pubblico. Uno è il film di Gabriele Albanesi, Il Bosco fuori (2005), con un budget di 45.000 euro: il film in Italia venne proiettato solo in una sala a Roma e poi uscì direttamente in DVD, mentre faceva il giro del mondo vincendo diversi premi (Buenos Aires Rojo Sangre e Philadelphia Eppure se si va a cercare tra blog, portali dedicati al cinema indipendente e di genere, o in quelli delle gazzette locali, di film realizzati con mezzi esigui e tanta buona volontà se ne Da noi il “genere no budget” più esportato è l’horror. Si può dire grosso modo che ogni anno gli horror no budget italiani siano una ventina, molti dei quali tuttavia sono condannati all’invisibilità. In Italia. Film Festival) ed era nella top ten giapponese dei DVD più venduti; proprio per questo motivo venne notato da Sam Raimi, che lo distribuì attraverso la sua, all’epoca neonata, Ghost House. Un altro caso piuttosto interessante è quello di Lidris Cuadrade di Tre (Lorenzo Bianchini, 2001), che aveva addirittura un budget di soli 350 euro (senza contare l’attrezzatura presa in prestito dall’Università di Udine): è riuscito ad andare nelle sale udinesi battendo addirittura gli incassi di Il favoloso mondo di Amélie, per poi venire distribuito in DVD solo cinque anni dopo, ma sempre con un discreto riscontro di pubblico (quasi 2.000 copie nei primi sei mesi). Il cinema no budget resta comunque un’ottima palestra per i giovani autori ed è stato fondamentale per diversi registi oggi affermati, da Nanni Moretti a Eros Puglielli. È bene ricordare che proprio il primo film di Moretti, Io sono un Autarchico (1976), può essere considerato il caso più eclatante di film no budget ad avere in un certo modo “sfondato”, divenendo il trampolino di lancio per la carriera del regista: con i suoi scarsi quattro milioni di lire dell’epoca (circa 20.000 euro di oggi), il film è divenuto un cult, proiettato e amato non solo in Italia ma anche a Berlino, a Parigi e in tutta Europa. Il problema è capire cosa il cinema no budget può raccontare oggi, andando a riempire spazi su cui le grandi produzioni italiane ormai non si muovono più. 33 INNOVAZIONI // Low budget/no budget diNicole Bianchi 34 INNOVAZIONI // Low budget/no budget I l cinema italiano quando si parla di regione Trentino-Alto Adige sembra godere di un impeccabile stato di salute: viene spontaneo pensare alla sua Film Commission, indubbiamente una delle più benestanti e dinamiche del panorama nazionale, cosa che induce a considerare questo territorio come una chimera nordica capace di rendere ancora possibile l’avverarsi del sogno del cinema. Forse anche per il drastico e inversamente proporzionale approccio all’economia e per la comunanza di luogo, il Trentino appunto, riluce ancor di più l’esperienza di cinemaZERO. Un concorso rigorosamente per produzioni no-budget e opere esclusivamente autoprodotte dove il concetto di autonomia assoluta è la parola chiave per essere parte integrante di un progetto che non ha a che fare con il denaro ma con il solo valore dell’impegno, umano e professionale. Un progetto, dunque, capace di scomporre e/o rafforzare certe convinzioni popolari (che come tali, si sa, han sempre un fondo di verità): “il tempo è denaro”? Si certo, quello mancante, per via dello stato generale di crisi, e allora “mater artium necessitas” ovvero “fare di necessità, virtù”. cinemaZERO - 4 /6 dicembre - che spegne a Trento le sue prime sei candeline e che con orgoglio può sfoggiare anche “altri numeri” oltre lo zero - 200 opere in concorso e 150 autori nell’edizione 2012 - è l’altro volto del rapporto del cinema con la regione Trentino-Alto Adige. Infatti, abbracciando la filosofia del poter fare cinema senza forme di dipendenza produttiva - tendenza in dichiarata oppo- sizione con la prassi industriale e commerciale che del cinema è parte fondante - l’autore, nella propria declinazione di essere artigiano della creatività, maestro del produrre con il solo uso di mezzi di base (telecamere digitali non professionali, macchine fotografiche, webcam, telefoni cellulari), è il cuore dell’opera. cinemaZERO, che quasi per non venire meno alla propria identità quest’anno è possibile solo per l’enorme sforzo di tutte le persone e le forze a disposizione, perché la crisi ha segnato lo zero anche per l’organizzazione il Funanbolo, si distingue non solo per l’onorevole impegno, per altro di molti e trasversale ad ogni settore socio-produttivo, ma come reale “scopritore di talenti”: esplora le più importanti produzioni autonome del cinema contemporaneo, cinemaZERO di Trento, un festival in sintonia con la faticosa situazione produttiva generale che detta una radicale riduzione di costi: no-budget e autoproduzione sono le caratteristiche imprescindibili per essere parte di questo progetto che annovera tra le sue presenze alcune delle personalità più interessanti del nostro cinema, tra cui Pippo Delbono, Daniele Gaglianone, Davide Manuli, Pietro Marcello, Alina Marazzi e Cosimo Terlizzi. rinnova un concorso che permette a tutti gli autori di partecipare rispondendo esclusivamente a condizioni che siano di “very low/no budget” e offre uno spazio disponibile alla sperimentazione e all’incontro fra creatori di immagini che condividono una visione non preconfezionata del proprio mestiere. L’omogeneità del Festival cinemaZERO non è coerente soltanto per l’aspetto strettamente creativo e della produzione, ma anche nelle modalità di promozione e comunicazione del progetto. Il Festival, infatti, viene promosso tramite un bando nazionale diffuso a inizio ottobre con un comunicato stampa indirizzato alle testate giornalistiche ma non meno tramite lo sfruttamento di canali più contemporanei: siti, blog e riviste dedicate, infine attraverso la mailing list. Nel mese di novembre poi viene presentato alla stampa con locandine e volantini, facendo promozione su testate giornalistiche locali, ma moltissimo anche sul sito, oltre che sull’account Facebook dedicato, attraver- so l'acquisto di banner e la comunicazione diretta con i 2.000 contatti della sua list. Lo “zero” che è sinonimo di minimo sovverte qui il proprio valore, ricordando anche come autori della levatura di Lynch o Herzog abbiano dichiaratamente preso in considerazione, nonostante avessero a disposizione l’opportunità di accedere a grandi produzioni, le possibilità concrete della tecnologia digitale, indubbiamente capaci di far scendere costi di produzione e distribuzione: senza però necessariamente patire di esterofilia, come purtroppo spesso accade, e dunque celebrare solo grandi maestri stranieri, come se fossero i soli capaci di una visione a lungo raggio ed ampio respiro, cinemaZERO annovera tra le sue presenze alcune delle personalità più interessanti del nostro cinema, tra cui Pippo Delbono, Daniele Gaglianone, Davide Manuli, Pietro Marcello, Alina Marazzi e Cosimo Terlizzi. www.festivalcinemazero.it 35 INNOVAZIONI // Low budget/no budget 7 INTERVISTE ad autori "a costo zero": Alessio Fava, Andrea Caccia, Stefano Bessoni, Davide Manuli, William Carrer, Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, Massimiliano Verdesca Alessio Fava e l’esperienza di Biennale College diMarilena Vinci L' opera prima di Alessio Fava, Yuri Esposito, realizzata con 150mila euro conferiti da Biennale College grazie al contributo di Gucci e MiBAC dopo la vittoria di un bando internazionale, ha ottenuto ottimi consensi a livello internazionale, con citazioni sul “New York Times” e sul “San Francisco Chronicle”. Quali sono le difficoltà maggiori del fare un film con pochi soldi? Più che le difficoltà oggettive sono state quelle legate al tempo. Abbiamo girato in tre settimane, senza la possibilità di straordinari. Ti mette alla prova, devi avere idee molto chiare perché sul set non c'è la possibilità di prendersi un’ora per pensare. Un budget così deve presupporre una preparazione perfetta, un imprevisto diventa un grande problema. Il low budget in se non è un problema, deve soltanto trovare il modo di essere visibile. Quindi la difficoltà sta nella distribuzione? Dipende. Il mio film per esempio ha ottenuto un’accoglienza entusiastica a livello internazionale ma non ha ancora una distribuzione italiana. Mi ha contattato una società francese che forse lo distribuirà a livello mondiale. 36 Il problema è che magari non c'è un attore famoso che recita oppure che nel nostro paese non c'è un mercato di cinema indipendente come in Francia o in America. Per quanto riguarda la realizzazione invece come se l'è cavata? Sono stato fortunato. La Post Atomic di Milano ci ha aiutato nella post-produzione, poi il cast è stato pagato con contributi al minimo sindacale. Lo scenografo ha fatto un buon lavoro, si è fatto prestare del materiale, e il direttore della fotografia ha economizzato sfruttando molto la luce naturale. È un lavoro che coinvolge tutti e per cui si deve essere disposti a lavorare il triplo alla metà dei soldi. Pensa che il suo prossimo film sarà di nuovo un low budget? Io scrivo delle storie, le presento a un produttore e si cerca di capire quanto costerà. La cosa che m'interessa è fare un altro film, non importa con che tipo di budget. INNOVAZIONI // Low budget/no budget Andrea Caccia e il crowdfunding: sulle montagne russe con Bugo diAng A ndrea Caccia è un esperto di low-budget, come ha dimostrato con Vedozero, nel 2009, e con La vita al tempo della morte, nel 2010. Adesso è alle prese con la sua opera più difficile, in termini produttivi. Si tratta di un docu-film, Ora respiro, basato sulla vita e sulla carriera di Bugo, uno dei più inafferrabili e originali musicisti degli anni 2000. I soldi non ci sono e così si ricorre al crowdfunding, grazie alla piattaforma Musicraiser (www.musicraiser.com). La campagna è partita il 9 settembre, ma al momento della nostra intervista, 17 settembre, i grossi risultati tardano ad arrivare. Innanzitutto, ci parli del progetto, come nasce e perché ha scelto Bugo come protagonista? Lo conosco da molto tempo. Suonavo anch’io e frequentavamo gli stessi ambienti. Un giorno mi mandò il suo cd d’esordio, mi resi subito conto che aveva fatto molta strada. Mi è sempre piaciuto il rockumentary, così ho iniziato a seguirlo e la frequentazione si è incrementata quando si è trasferito vicino casa mia. Ha provato a proporre il progetto a qualche produttore? Ho provato timidamente con la Universal, per sondare il terreno, ma le vendite di Bugo non sono considerate abbastanza forti. Allora ho chiamato in causa direttamente i fan. Da anni studio il crowdfunding che in America funziona già da un po’: ho pensato che questo progetto potesse essere l’ideale per testare il sistema in Italia. È l’unico modo in cui il film può vedere la luce. Se i soldi non arrivano, non si fa. La fan-base c’è: Bugo ha 26mila fan su facebook e 12mila su twitter. E come sta andando? Onestamente, mi aspettavo di più, o almeno una risposta più celere. Siamo a 1.500 euro quindi molto lontani dall’obiettivo finale. Non sono così ingenuo da pensare che tutti i fan contribuiscano, ma soprattutto mi sono reso conto che c’è una diffidenza generalizzata dovuta alla scarsa conoscenza del mezzo. La cosa più difficile da far capire è che non si tratta solo di una donazione benefica e misericordiosa, è un investimento che consente la realizzazione di un film in cambio di una ricompensa: chi partecipa sarà nei titoli di testa e canterà con Bugo. Ma purtroppo la risposta, per ora, è stata tiepida. I fan sono disorientati. Gli pare alta la cifra di 20.000 euro, non sanno che è appena ciò che ci vuole per un lavoro di questo tipo. Un giorno arrivano 600 euro e ti sembra che vada tutto bene, quello dopo ne arrivano 15. Sembra di essere sulle montagne russe. Speriamo di non scendere vomitando. 37 INNOVAZIONI // Low budget/no budget Stefano Bessoni, dal basso all’alto diM.V. S tefano Bessoni ha lavorato low budget per Krokodyle, mentre Imago Mortis è costato 3,2 milioni di euro: esce ora in libreria con il corto I canti della forca, parzialmente realizzato a passo-uno, costato 40mila euro e ispirato alle poesie di Christian Morgenstern. Ha lavorato con produzioni sia ad alto che a basso budget: per lei quest'ultimo è una scelta? Mi piacerebbe poterlo dire, in realtà è una necessità perché nessuno mi mette in mano dei soldi per fare un film. Naturalmente ci sono dei vantaggi: c'è più libertà. Fai quello che ti pare anche se non è del tutto vero, dato che devi auto limitarti in virtù di un basso budget. Ci sono problemi in entrambi i casi, quello del budget alto è dover avere a che fare con persone che devono semplicemente vendere un prodotto e ti dicono “si fa così e basta”, spesso andando contro la stessa commercialità del prodotto. Arriva una persona che ti dice che facendo in un certo modo il film venderà e spesso nemmeno è vero. Però il regista non può fare nulla perché da contratto non ha il final cut e quindi si ritrova con prodotti ibridi e imbastarditi. Come inizia a lavorare ad un prodotto low budget da indipendente? Prima di tutto parto con un sondaggio dei vari reparti in causa e chiedo dei fondi. Generalmente le varie figure chiave della realizzazione decidono di investire su loro stessi e diventano anche produttori della parte che li riguarda. Io, come regista e produttore, pago le spese vive sul set. Quali sono le difficoltà maggiori che incontra lavorando con un low budget? Mantenere una troupe compatta e coesa per un periodo relativamente lungo, perché potendo offrire solo rimborsi spesa e compartecipazioni è chiaro che quando le persone trovano un altro lavoro ti mollano. Poi ci sono i bollini Siae, la post-produzione. Sono dei costi che gravano completamente su chi lavora da indipendente. Se ci fossero agevolazioni da questo punto di vista, forse si riuscirebbe a lavorare meglio anche con un basso budget. La leggenda di Davide Manuli diM.V. D avide Manuli ha realizzato Beket a no budget e il successivo La leggenda di Kaspar Hauser con basso budget. Quali sono le principali difficoltà di girare un film con pochi soldi? La storia va scritta per il low-budget. Quando si mette una storia nero su bianco si diventa sia regista che produttore perché si pensa: “questo costa? Allora non lo metto”. Bisogna essere in pochi e girare nel minimo tempo possibile, 10 persone e al massimo 2 settimane. Come si mette in piedi un film no budget? 38 La cosa fondamentale è il rapporto con il produttore esecutivo. Non è consigliabile affidarsi ad un esecutivo su commissione. Il no budget richiede conoscenza, sacrificio, eccezioni, va discusso e organizzato mille volte di più. Quando si gira 10 giorni se si perde un’ora di riprese è un incubo, se arriva una pioggia salta tutto. Qual è la cosa su cui è più “facile” poter tagliare? Il cachet di regista, sceneggiatori e attori, poi vanno molto ridimensionati tutti i reparti che devono essere comunque pagati. Se regista e sceneggiatore coincidono si paga una sola volta. Gli attori si prestano di più: per un buon progetto sono ben disposti a fare salti mortali. Un film non è mai davvero a zero costo perché il cinema è in assoluto la macchina più cara di tutti i mezzi di espressione, perciò quando si parla di no budget ci si dimentica sempre che è una mazzata a livello di spese, anche se fatto con pochi soldi. Un lungometraggio a 10, 30 o 50mila euro è considerato un no budget. I low budget sono cifre un po’ più alte, si parla di circa 200mila euro. INNOVAZIONI // Low budget/no budget William Carrer: “Venezia Impossibile grazie al social network” diAng V enezia Impossibile di William Carrer, presentato al Venice Film Market, immagina come sarebbe stata la città lagunare se Napoleone non l’avesse conquistata nel 1979, con un canovaccio noir-surreale che ricorda il concetto fumettistico di “What If?”. Come nasce l’idea? Da un romanzo omonimo di Marco Toso Borella. Inizialmente volevo trarne un cortometraggio. Poi si sono sviluppati i social network, che ci hanno permesso di mettere su un gruppo di 200 persone appassionate, tutte volontarie, tra professionisti e semi-professionisti, che hanno messo a disposizione le attrezzature coprendo anche i costi, i viaggi, il vitto e le altre spese. Così abbiamo “gonfiato” il film. Definite voi stessi il progetto “nobudget”. Specifichiamo i termini della questione… Non abbiamo chiesto finanziamenti di alcun tipo né alle istituzioni né ai privati. Abbiamo coperto le spese in prima linea io e il mio socio Giulio Pizzato. Abbiamo messo a disposizione le nostre attrezzature coprendo anche i costi dei materiali di consumo: sono stati 60 giorni di riprese, più pre-produzione e post-produzione. Alla fine 200mila euro comunque ci sono voluti. Puntate a distribuire in sala? Secondo lei cosa dovrebbe spingere un distributore a scegliere questo film? Non vorrei insistere troppo sul no-budget. Per un distributore quel che conta è il risultato e il film deve essere appetibile. Pubblico e stampa per ora ci hanno dato un buon riscontro, è comunque un film girato da professionisti e non da dilettanti, con una qualità medio-alta. Le location sono tutte venete. Siete stati supportati dalle istituzioni locali? Le Film Commission Venice e Veneto ci hanno appoggiato con patrocini, come del resto l’Assessorato alla Cultura. Il film è riconosciuto come progetto culturale quindi non abbiamo avuto problemi a ottenere i permessi per girare. Anche alla Mostra del Cinema la Regione ci ha supportati: abbiamo ottenuto una sala extra perché c’era più gente del previsto. Alcuni degli interni sono stati girati in importanti ville storiche del ‘500, fornite direttamente in via gratuita dai proprietari. 39 INNOVAZIONI // Low budget/no budget Massimo D’Anolfi e Martina Parenti: “Noi facciamo tutto da soli” diM.V. M assimo D’Anolfi e Martina Parenti, coppia sul set e nella vita, si sono distinti con il pluripremiato documentario Il castello, sull’aeroporto di Malpensa. Come producete un film con pochi soldi? Facciamo tutto da soli: filmiamo, montiamo e curiamo la fotografia, però ci teniamo a precisare che da un punto di vista tecnico e di metodo noi opereremmo così anche se avessimo più soldi. Quindi la vostra è una scelta? Massimo: Il fatto di lavorare in questo modo e di fare film low budget lo è, quello di farlo sottopagati no. Siamo anche produttori dei nostri lavori, non abbiamo bisogno di figure come il produttore esecutivo, l’assistente alla regia, l’operatore, il montatore o il direttore della fotografia. Martina: Noi non difendiamo l’idea di low budget ma la libertà creativa. Se per avere 40 tanti soldi una persona è costretta ad ascoltare tutte le voci che intervengono è meglio avere un po’ soldi ma più libertà. Come vi muovete quando decidete di iniziare a lavorare a un film? Scriviamo un soggetto, lo sottoponiamo a delle persone che possono darci dei finanziamenti. L’anno scorso per esempio abbiamo vinto il piano Media per lo sviluppo. Ora stiamo cercando i soldi per il prossimo documentario, Rai Cinema è coinvolta, proveremo di nuovo col bando Media e col Ministero, cercheremo degli sponsor e tax credit. Per l’ultimo film Materia oscura abbiamo vinto 10mila euro per la produzione con il premio Corso Salani. Di film low budget si può vivere? No. I nostri film hanno venduto bene e circolano a livello internazionale ma non è una situazione ideale e neanche giusta. Ci tocca stringere i denti. Ci dovrebbe essere un sistema di raccolta fondi più variegato. INNOVAZIONI // Low budget/no budget Massimiliano Verdesca: “Ho convinto anche Sandra Milo” diM.V. M assimiliano Verdesca con il visionario Viva Zappatore mette in scena la parabola low-budget di un chitarrista metal satanista realmente esistente. Qual è stata la difficoltà principale nel fare un film a basso budget? Più la distribuzione che la realizzazione: oggi se hai voglia di fare un film riesci a farlo, basta adattarsi ai mezzi che hai. Ma poi deve avere una vita, bisogna farlo vedere. Se dovessi fare un altro film penserei prima a quest’aspetto, dato che fondamentalmente nel nostro paese non c'è spazio per il cinema indipendente vero e proprio. Con Viva Zappatore io stesso ho temporeggiato rimandando per anni. Difficoltà pratiche non ne ho avute. Quello che volevo fare l’ho fatto, anche con pochi soldi. Avevo un circuito di gente con cui lavoravo da tempo che si è prestata a collaborare a determinate condizioni. Sono stato fortunato. La realizzazione low budget è stata una scelta? No, ma se mi avessero dato 5 milioni sarei stato più contento. Qual è il primo costo su cui tagliare in una produzione con pochi soldi? Lo stipendio del regista e/o dello sceneg- giatore, che reinserisci immediatamente nel budget del film. E gli attori? Nel suo film c’era anche Sandra Milo… Sandra non ha preso quasi una lira, né fatto capricci da star. Comunque l'importante è mettere subito in chiaro come stanno le cose e non millantare per ottenere partecipazioni, per non trovarsi nella situazione di dover disattendere promesse che non si è in grado di mantenere. In fase di scrittura come ci si muove pensando ad un film “povero”? Noi siamo partiti da un soggetto che avevo scritto anni fa e ci ha aiutato il fatto che non richiedesse chissà che tipo di location o avesse esigenze particolari. Comunque abbiamo lavorato in totale libertà, cosa che credo non mi ricapiterà mai più e che l’80% delle persone non riesce a fare. Per il suo prossimo film come pensa di muoversi? Ancora non lo so ma spero che me lo produca qualcuno senza dovermi preoccupare di trovare i soldi. 41 INNOVAZIONI // Low budget/no budget Il prezzo della paura diPaolo Pizzato F ilm a basso costo, ovvero l’arte (squisitamente italiana) di arrangiarsi applicata al cinema, in questo caso all’horror. Questione intrigante, se si pensa che il cinema italiano, pur senza vantare particolari allori nel genere, ha trovato comunque, grazie soprattutto all’estro dei suoi protagonisti, il modo di esprimersi, e in qualche caso di farsi ricordare. Mestiere, inventiva e creatività sono stati e sono i principali antidoti alla scarsità di fondi, che hanno caratterizzato il lavoro di registi, maestranze e attori fin dagli esordi con I vampiri di Riccardo Freda (1956), che annoverava come direttore della fotografia e responsabile dei trucchi (termine poi sostituito dal più blasonato “effetti speciali”, che ha tuttavia il torto di cancellare il romantico richiamo all’artigianalità proprio del nostro cinema) nientemeno che Mario Bava, maestro riconosciuto dell’horror italiano. Personalità artistica multiforme, Bava firmò, all’esordio dietro la macchina da presa, quello che è considerato un piccolo gioiello di genere, La maschera del demonio (1960), di cui fu anche direttore della fotografia: la pellicola tra i suoi molti meriti ebbe quello di fare dell’attrice protagonista, 42 È un rapporto segnato da grande scarsità di mezzi ma compensato da notevole creatività e indiscutibile talento quello che lega il cinema italiano al genere horror. Un matrimonio d’amore, e non certo d’interesse, che malgrado le difficoltà ha saputo dare buoni frutti. Barbara Steele, qui nei panni di una strega, un’autentica star del genere. In seguito Bava sperimentò con successo anche la contaminazione (con la fantascienza in Terrore nello spazio, fonte d’ispirazione per Alien di Ridley Scott, e con il thriller in Reazione a catena). Il 1980 vide, in un’ideale passaggio di testimone, Bava (che morì proprio quell’anno) curare gli effetti speciali di Inferno di Dario Argento, a quei tempi autore affermato e non più alle prese con problemi di budget, che tuttavia avevano segnato anche i suoi inizi, come dimostrano le difficoltà incontrate nella realizzazione del suo primo lungometraggio, L’uccello dalle piume di cristallo, che oltre a sceneggiare e dirigere, non senza difficoltà dovette anche finanziare. Comunque, fu proprio grazie al successo delle storie di Argento che il decennio 1980-1990 vide un’eccezionale fioritura di “horror movie”, film che si richiamavano, spesso con citazioni al limite del plagio, a blockbuster d’oltreoceano; così, ecco comparire nelle sale L’ultimo squalo di Enzo G. Castellari (quasi identico al capolavoro di Spielberg), Zombi 2 e Zombi 3 diretti da Lucio Fulci, “figliocci” del capolavoro di Romero, e persino Non aprite quella porta 3, di Fragasso, se- quel apocrifo della saga di “Faccia di cuoio” apertasi con il film diretto da Tobe Hooper nel 1974; tutti lavori realizzati con scarsissimi mezzi e tanta inventiva, zoppicanti certo, ma a loro modo coraggiosi. In quello stesso periodo il cinema horror italiano, pur guardando per esigenze di cassetta a Hollywood, riuscì anche a sviluppare prodotti originali, scomodi e disturbanti: è il caso del “filone cannibalesco”, nato nel 1972 con Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi e cresciuto fino a diventare provocatoria riflessione sulla violenza e sui modi della sua espressione pubblica con Ruggero Deodato e il suo ferocissimo Cannibal Holocaust. Uno sguardo, infine, al panorama dei giorni nostri, spesso nobilitato da produzioni indipendenti come Il bosco fuori (2006) di Gabriele Albanesi, realizzato con soli 45.000 euro, o come quelle del filmaker friuliano Lorenzo Bianchini, raffinato regista e sceneggiatore di inquietanti horror d’atmosfera, che dopo aver sorpreso pubblico e critica con le sue prime opere (Radice quadrata di tre, Custodes Bestiae), è tornato a far parlare di sé quest’anno con Oltre il guado, prodotto da Gianluigi Perrone per Collective Pictures. INNOVAZIONI 2 Nuove estetiche del drone FLY CAM: QUELL’INVENZIONE ANNUNCIATA CHE RIVOLUZIONA IL LINGUAGGIO diRoberto Provenzano 43 INNOVAZIONI 2// Nuove estetiche del drone G li Anni ’30 erano ancora in fasce e il sonoro era un infante quando Busby Berkeley sorprendeva e deliziava gli occhi degli spettatori statunitensi con le sue fantasmagoriche coreografie che, spacciate nella diegesi dei musical, come allestimenti teatrali filmati erano invece (e potevano essere solo) frutto di un uso magistrale delle possibilità spettacolari del linguaggio cinematografico. Celeberrime e mitiche sono ancora le immagini in cui fotografando le sue ballerine (e ballerini) in plongée costruiva corolle di fiori in 42nd Street (1933) o, ancor più, quelle di Footlight Parade (Viva le donne, 1933) in cui, in collaborazione con la regia di Lloyd Bacon, utilizza il punto di vista dall’azimut finanche per “disegnare” corpi antropomorfi (come l’aquila dello stemma yankee,) e sorprendenti figurazioni astratte degne di Jean Mirò. Da allora le inquadrature in plongée hanno ispirato i più grandi registi per la loro capacità descrittiva, ma soprattutto per la suggestività delle immagini che quel punto di vista dall'azimut permette. Chi non ricorda, ad esempio, l'inquietudine che Kubrick riesce a creare nello spettatore in The Shining con la ripresa dall’azimut che schiaccia il bambino sul suo triciclo contro il geometrico carpet dell’Overllook Hotel o quella (in soggettiva di Nicholson) sul modellino del labirinto, oppure le più divertenti e irriverenti immagini postmoderne in plongée che costellano la diegesi di molti film dei fratelli Coen (soprattutto, The Big Lebowski, 1998)? Gli esempi potrebbero continuare ad libitum, ma qui preme maggiormente rilevare come queste immagini in passato richiedessero una lunga, laboriosa e costosa organizzazione del set, poiché erano realizzabili solo per mezzo di ingombranti gru che potessero sostenere il peso di una voluminosa cinepresa 35mm e del suo operatore o, in esterni, con l’uso di elicotteri. Oggi, invece, grazie alla rivoluzione informatica, alla miniaturizzazione di tutti i tipi di attrezzature e ai nuovi strumenti di teleazione (Manovich, 2001), è tutto molto più semplice grazie all’avvento dei drone. Infatti questo tipo di immagini stanno invadendo ogni UNA MACCHINA DA PRESA VOLANTE DI PICCOLE DIMENSIONI: UN’OPPORTUNITÀ PER LE PRODUZIONI A BASSO COSTO E LA SPERANZA CHE QUALCHE REGISTA SAPPIA USARE QUESTO “GINGILLO” CON LA SAPIENZA ESPRESSIVA DI KUBRICK O SIA CAPACE DI EMULARE LE MERAVIGLIE DI BUSBY BERKELEY. 1 dronewars.net/aboutdrone/ 2 www.microdrones.com/index.php 44 INNOVAZIONI 2// Nuove estetiche del drone aspetto della nostra vita sociale. “Inventato” per scopi militari il drone [nome del maschio dell’ape associato agli “Unmanned Aerial Vehicles” (UAVS)]1 ha subito un processo di miniaturizzazione e i mini drone stanno trovando inaspettate e sorprendenti applicazioni in tantissimi aspetti della vita sociale: dalla sorveglianza di vaste aeree (funzione che esplica, ad esempio, quasi in qualità di "personaggio" nel recente romanzo Inferno di Dan Brown, inseguendo Robert Langdon nel giardino di Boboli a Firenze) ai rilievi territoriali per la ricerca di giacimenti di idrocarburi2 e di incidenti stradali, dalla sorveglianza e documentazione edilizia, alla consegna di pizze a domicilio3 e, ovviamente, anche nell’universo delle riprese audiovisive, campo in cui potrebbero produrre una vera e propria rivoluzione per il possibile eccesso di immagini in plongée che potrebbero invadere i nostri schermi. Rivoluzione, del resto, doppiamente “annunciata” poiché - già tre lustri or sono la RAI aveva sperimentato all'interno del Teatro Ariston di Sanremo (e poi riutilizzato negli anni varie volte) un piccolo aerostato teleguidato che volteggiava mollemente sopra le teste degli spettatori – capaci di fornire suggestive e inusitate plongée sul palco o totali della sala molto descrittivi, considerando che i modellini di aerei radiocomandati esistevano già oltre trent’anni fa. Quello che mancava erano una telecamera di ridottissime dimensioni e di grandi prestazioni sensitometriche e di risoluzione e uno strumento di teleazione, come il tablet, più affidabile e più duttile degli antichi radiocomandi. I nostri cieli rischiano quindi di essere presto invasi da piccoli e medio-piccoli “ragni” volanti telecomandati, chiamati FLY-CAM (o spider- web è invaso da siti che offrono (e dimostrano su YouTube) modelli di vario prezzo e di varie dimensioni. Si va da quelli professionali a sei-otto eliche (con costi variabili da 23.000 a 32.000 euro5), ai piccoli e agili quadricotteri AR.DRONE 2.0 con videocamera HD, il cui costo scende fino a 300 euro. Sembra un giocattolo per gli amatori di aeromodellini, ma si dimostra anche una piccola meraviglia poiché è facilmente telecomandabile da iPad e iPhone. Una telecamera quindi alla portata delle borse di (quasi) chiunque (ma con il grosso limite di soli 10 minuti di autonomia per ogni batteria) e che certamente troverà migliaia di applicazioni nelle produzioni low cost. In particolare in quelle concernenti l'universo dello sport. Ma fra le decine di migliaia di utilizzatori che probabilmente nasceranno nel mondo, ci sarà mai qualche giovane regista di fiction capace di utilizzare questo "gingillo" con la sapienza espressiva di Stanley Kubrick o qualche regista televisivo capace di emulare le meraviglie di Busby Berkeley? cam), che sorvoleranno città, monti, coste marine e campagne, per offrirci immagini azimutali (fisse o in movimento) di ogni centimetro quadrato del mondo e di ogni evento. Varie emittenti stanno già abbandonando in molti casi le costose riprese dagli elicotteri4 e piccoli drone stanno sostituendo i vecchi aerostati all’interno degli studi televisivi. Il 3 video.repubblica.it/tecno-e-scienze/la-pizza-a-dpmicilio-arriva-con-%20il-drone/130574/129085?ref=HRTESS-19 4 www.cbsnews.com/8301-205_162-57575637/will-tv-news%20-helicopters-be-replaced-by-drones/ 5 www.service-drone.com/en-gb/shop/uav 45 Il dossier economico di DG Cinema e ANICA LE FRONTIERE DELLA MULTIPROGRAMMAZIONE La digitalizzazione degli schermi influenza sempre più i modelli di business, modificando progressivamente il ruolo della sala, soprattutto come luogo fisico di aggregazione e fruizione del prodotto. Il fenomeno favorisce infatti una maggiore autonomia di gestione del palinsesto quotidiano da parte dell’esercente, ampliando e diversificando l’offerta della sala grazie ai cosiddetti "contenuti alternativi": spettacoli live o registrati di eventi musicali, sportivi, teatrali, televisivi e museali. diIole Maria Giannattasio, Federica D’Urso, Francesca Medolago Albani * Con la cessazione della proiezione di film in pellicola annunciata per la fine del 2013, le sale cinematografiche sono chiamate ad adeguare la propria attrezzatura adottando le nuove tecnologie digitali di proiezione. Secondo una ricerca di Anem (Associazione nazionale esercenti multiplex), a giugno 2013 gli schermi digitalizzati in Italia sfioravano il 70% del totale: 2.035 schermi digitali distribuiti in 651 strutture. Il fenomeno della digitalizzazione degli schermi sta influenzando in modo sempre più marcato i modelli di business, andando * Unità di studi congiunta DG Cinema e ANICA 46 progressivamente a modificare il ruolo della sala, non solo come fase cruciale della filiera tradizionale, ma anche e soprattutto come luogo fisico di aggregazione e fruizione del prodotto. Il passaggio al digitale, infatti, abbatte le spese logistiche di stampa, trasporto e assicurazione delle copie e, grazie alla facilità di gestione del “file” (sia esso contenuto in una copia fisica digitale o trasmesso tramite segnale satellitare), favorisce una maggiore autonomia di gestione del palinsesto quotidiano da parte dell’esercente, ampliando e diversificando l’offerta della sala. NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA Lug12 Numero schermi digitali Ago12 Set12 Ott12 Nov12 Percentuale schermi complessivi Dic12 Gen13 Feb13 Mar13 Apr13 Mag13 1.399 68,7 68,2 1.382 1.348 67,4 66,8 1.323 1.281 65,4 64,2 1.251 1.220 63,1 61,6 1.181 1.159 60,7 60,4 1.138 59,2 57,7 56,6 Giu12 1.100 Mag12 1.057 1.013 Apr12 1.023 986 56.3 54.9 Evoluzione digitalizzazione in Italia Virtual Print FEE (al 18.06.2013) Giu13 Penetrazione Fonte elaborazione su dati RID-Cinetel: indagine “Quale digitalizzazione, quale programmazione” di Bruno Zambardino, per ANEM, realizzata con il sostegno di DG Cinema-MiBAC. DALLA DIGITALIZZAZIONE AI CONTENUTI ALTERNATIVI La multiprogrammazione è dunque lo strumento attraverso il quale gli esercenti possono innovare la proposta di contenuti adattando i singoli spettacoli a pubblici diversi nelle varie fasce orarie. Questo processo, già in atto ma ancora in fase embrionale in Italia, ha introdotto nuovi prodotti nella sala cinematografica, i cosiddetti “contenuti alternativi”, ossia spettacoli live o registrati di eventi mu- sicali, sportivi, teatrali, televisivi, museali, etc. Lo scorso giugno a Barcellona, in occasione di CinEurope (convention annuale di UNIC, International Union of Cinemas), sono stati presentati dati sulla performance dei contenuti alternativi, risultato di una ricerca realizzata da IHS Screen Digest e The Event Cinema Association, l’associazione europea di settore, costituita nel settembre 2012 con la mission di sostenere e promuovere i contenuti alternativi oltre che raccogliere i dati di box office. I risultati dello studio indicano che i contenuti alternativi sono l’unica area in crescita nell’offerta della sala, che si prevede possa arrivare a valere 1 miliardo di dollari nel 2020, rappresentando un’importante fonte di ricavo per i gestori delle sale. Nella varietà di contenuti proposti in Europa nel 2012, l’opera lirica è il genere dominante coprendo di media il 36,7% degli spettacoli, la danza segue con il 13% mentre la musica pop realizza l’11,7% e la musica classica il 5%. 47 NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA Contenuti alternativi in Italia: 2012 vs. 2011 2800 320 93 28 140 Contenuti alternativi +115% 2011 1300 Spettatori (.000) 2012 Incasso (.000) Fonte: indagine “Quale digitalizzazione, quale programmazione” di Bruno Zambardino, per ANEM, realizzata con il sostegno di DG Cinema MiBAC. Elaborazioni su dati Cinetel. Nota: Cinetel classifica come “eventi” tutti i titoli che non siano film in “uscita classica” e le “uscite tecniche”. Quote di mercato per generi dei contenuti alternativi, Europa 2012 19% 13% 5% balletto musica classica 8% 7% documentari opera musica popolare concerti 11% teatro altro 37% Fonte: elaborazione su dati Screen Digest 48 NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA PRIMI TENTATIVI DI CLASSIFICAZIONE La quota che questo tipo di intrattenimento andrà progressivamente ad assorbire nell’offerta complessiva della sala rende necessaria una corretta e condivisa classificazione dei prodotti, per valutarne i risultati e distinguerli da quelli dei prodotti cinematografici tradizionali (lungometraggi, cortometraggi, documentari e film di animazione). L’argomento è attualmente oggetto di confronto tra gli organi che nei vari paesi europei si occupano di monitorare e analizzare il mercato audiovisivo anche allo scopo di fornire ai policymaker elementi obiettivi di valutazione per l’intervento sul settore. La classificazione proposta dall’associazione The Event Cinema include i seguenti eventi, dal vivo o registrati: opera, teatro, balletto, sport, eventi speciali (es. Olimpiadi), ma anche documentari e film di finzione. Ciò che distingue queste ultime due categorie dalle uscite tradizionali è in questo caso il modello di distribuzione. L’“event cinema”, infatti, ha abitualmente un’uscita in sala molto limitata nel tempo, con una sola proiezione se in diretta o due proiezioni se registrate e con eventuali ulteriori repliche. Altre caratteristiche proprie del modello economico di commercializzazione di questa tipologia di prodotto sono gli accordi di vendita spesso diretti tra il fornitore e l’esercente, che quindi tendono a superare il ruolo classico del distributore. Le spese di promozione sono in genere ridotte e affiancate a strategie di marketing messe in atto dalla sala stessa allo scopo di raggiungere un pubblico altamente segmentato, anche in considerazione del fatto che per questo genere di prodotti il local marketing è più efficace delle campagne su base nazionale. Il fatto che l’associazione The Event Cinema includa quindi tra i contenuti alternativi alcuni film “tradizionali”, distinguendoli dagli altri film in uscita basandosi sui modelli di distribuzione applicati, è un’ulteriore criticità per una coerente classificazione dei prodotti. Il tema è evidentemente ancora da chiarire anche per dare risposta ad altri interrogativi. Come inquadrare, ad esempio, gli spettacoli - concerti, lirica, eventi sportivi - intervallati da interviste, immagini di repertorio, etc., che prevedono quindi un intervento autoriale che rende il contributo assimilabile a quello di un documentario? Può essere d’aiuto nell’operare una distinzione tra le due tipologie di prodotto l’attribuzione della regia? In genere, infatti, la regia dei contenuti alternativi è individuata nel regista della trasmissione tecnica e non del lavoro originale. Questa attribuzione rappresenta una netta distinzione rispetto al concetto di autorialità adottato nel cinema tradizionale. EFFETTI COLLATERALI MA RIVOLUZIONARI La riflessione sulla tassonomia, evidentemente tutta in evoluzione e in cerca di sistematizzazione, mette anche in luce alcuni elementi retrostanti interessanti per la comprensione dei nuovi modelli che l’industria sta attivando. È chiaro che il rapporto diretto tra fornitore di contenuti (i.e. produttore) e il gestore della sala apre scenari critici (rischi e opportunità) per i soggetti indipendenti o di minori dimensioni. In Paesi dove la proprietà delle sale è molto concentrata e l’esercizio ha capacità di investimento nell’approvvigionamento (scouting e buying) di contenuti in esclusiva, si può prevedere che il modello di assenza d’intermediazione avrà sviluppo rapido e metterà probabilmente in crisi le società di distribuzione indipendenti. Anche in ragione del fatto che il flusso dei ricavi da sala non è in questo caso ovviamente soggetto a ripartizione tra diversi aventi diritto (con ricadute negative anche per i produttori che si servono abitualmente di quel tipo di distribuzione). Viceversa, si possono aprire nuove strade di uscita in sala per i produttori indipendenti (di film, spettacoli, eventi), se in grado di attivare relazioni commerciali dirette con l’esercizio, anche in territori diversi dal proprio di origine. Nei Paesi, invece, dove la concentrazione dell’esercizio è elevata, ma la presenza e il peso di sale indipendenti sono molto rilevanti, si può pensare che, a medio termine, il mercato si differenzi e si divida in base alle scelte strategiche sul tipo di prodotto e quindi di pubblico prediletto. Le dimensioni, come sempre, contano: la grande distribuzione-produzione internazionale non vedrà messo in crisi il proprio modello, anche se sta subendo da tempo assestamenti sul piano organizzativo; il grande esercizio vede aprirsi opportunità inedite di selezione editoriale e ha tutto da guadagnare dall’evoluzione dell’offerta; i piccoli e medi, soprattutto se attivi solo su scala nazionale (siano essi produttori, distributori o esercenti) vedono profilarsi a breve termine scelte di posizionamento molto impegnative: generalisti o specialisti? La multiprogrammazione aiuterà in entrambi i casi, ma solo avendo costruito un retroterra di conoscenza del proprio pubblico non ovvio, in Italia in particolare. 49 NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA IL CASO ITALIA La definizione di una metodologia basata su criteri congrui e condivisi è quindi fondamentale per una corretta analisi del mercato. In Italia, quando si analizza la produzione nazionale cinematografica, ad esempio, convenzionalmente si circoscrive l’indagine ai film che hanno ottenuto il nulla osta per la visione in pubblico rilasciato dal MiBACT. Se da un lato i contenuti alternativi live trasmessi in sala in diretta non necessitano di nulla osta perché soggetti ad altri vincoli, quelli registrati seguono invece la stessa procedura dei film tradizionali e ottengono lo stesso tipo di “visto censura”, a differenza di quanto accade in Francia, ad esempio, dove viene rilasciato un visto specifico. L’analisi dei soli visti censura, quindi, non costituisce uno strumento per individuare i contenuti alternativi e scorporarli dalla totalità della produzione cinematografica. Elementi di discernimento potrebbero essere derivati dalle metodologie adottate per il rilevamento dei risultati in sala dalle due società italiane che si occupano di raccolta dei dati di box office e incassi. Cinetel, società partecipata da ANICA e ANEC che raccoglie dati su un vasto campione di sale, attualmente individua i contenuti alternativi in base al modello distributivo (in genere eventi unici o con ridottissime 50 repliche) e all’impresa di distribuzione. Se il modello dovesse sensibilmente evolvere, si immagina un adeguamento conseguente che sarà interessante osservare. I contenuti alternativi vengono quindi classificati come eventi e distinti da quelli classificati come edizione speciale (film restaurati, director’s cut, in edizione 3D etc.) o come riedizioni (film usciti in sala nel passato che vengono proiettati nell’ambito di rassegne). SIAE, la Società Italiana degli Autori ed Editori, che tutela il diritto d’autore amministrando la corresponsione agli aventi diritto dei compensi derivanti dallo sfruttamento delle opere dell’ingegno, distingue invece i contenuti alternativi dai prodotti cinematografici tradizionali sulla base del rilascio o meno del nulla osta per la visione in pubblico. Sono quindi distinti solo gli eventi trasmessi live che, come detto precedentemente, non sono subordinati al “visto censura” del MiBACT, mentre le repliche registrate hanno lo stesso status dei film. DA DOVE (RI)PARTIRE L’esigenza di individuare un soddisfacente metodo di classificazione dei contenuti alternativi non riguarda soltanto le mere attività di studio e analisi del mercato, ma coinvolge in modo più profondo e strutturale l’intero settore, a partire dai presupposti stessi su cui si fondano gli apparati normativi e regolamentari, nel momento in cui definiscono il perimetro del prodotto cinematografico e di conseguenza i confini dell’intervento pubblico in materia. La definizione stessa di opera cinematografica contenuta nel decreto legislativo 28/2004, la cosiddetta Legge Urbani, ovvero la norma di riferimento del settore, rischia di non essere più adeguata alla futura morfologia del settore: “Ai fini del presente decreto, per film si intende lo spettacolo realizzato su supporti di qualsiasi natura, anche digitale, con contenuto narrativo o documentaristico, purché opera dell’ingegno, ai sensi della disciplina del diritto d’autore, destinato al pubblico, prioritariamente nella sala cinematografica, dal titolare dei diritti di utilizzazione”. (D. Lgs. n. 28/2004, Art. 2. Definizioni, comma 1) Una riflessione su questi temi da parte sia delle istituzioni pubbliche sia dei soggetti privati protagonisti dell’industria cinematografica è quindi opportuna e auspicata, oltre che urgente, alla luce della rapidità con cui il fenomeno della moltiplicazione dell’offerta di contenuti per la sala cinematografica sta pervadendo il mercato, modificando la natura stessa di alcuni segmenti fondamentali della filiera. Vai su www.miabbono.com e sottoscrivi il tuo abbonamento ad un prezzo speciale. RICORDI Fuori dal coro diGianni Canova Carlo Lizzani S e ne sono andati a pochi giorni di distanza. Ma ad unire Carlo Lizzani e Giuliano Gemma non c’è solo la singolare vicinanza della loro morte. C’è anche e soprattutto il fatto che tutti e due – nel panorama complessivo del cinema italiano – sono stati soprattutto degli eretici: entrambi non canonici, non allineati, non omologati. Quasi tutti i “coccodrilli” pubblicati in morte di Lizzani – a cominciare da 52 quello di Francesco Rosi su “la Repubblica” del 6 ottobre – lo ricordano come l’ultimo erede del Neorealismo, dignitoso – lo scrive Goffredo Fofi su “Il Sole 24 ORE” sempre del 6 ottobre – nonostante qualche compromesso con l’industria culturale. Non è vero. Non è così. Lizzani è stato un grande – tra l’altro – anche perché ha capito prima di tanti altri che con l’industria culturale era necessario fare i conti. Perché ha frequentato i generi. Perché si è RICORDI Giuliano Gemma posto – a differenza di quasi tutta la generazione neorealista – la questione del pubblico. Perché si è reso conto per tempo che non bastava fare film “sul popolo”, ma che “al popolo” bisognava offrire attrezzi per fantasticare, adeguati alla complessità del nostro tempo. Invece che accodarsi alla retorica buonista dominante, Lizzani è sempre stato attratto dagli outlaw, dai loser, dai banditi. Da quelli che vivono ai bordi, da quelli che infrangono i protocolli. Quando si è misurato con la letteratura, ha scelto di farlo con romanzi poco “politicamente corretti” come La vita agra di Luciano Bianciardi. Un po’ come Giuliano Gemma: attore di grande cultura e sensibilità, ma disposto a giocare fino in fondo il suo physique du role in- terpretando gialli, western e film d’avventura. Tutti e due appartengono alla corrente minoritaria del cinema italiano: quella che è stata sconfitta dall’idolatria (e dall’ipertrofia…) del cinema d’autore, dal disprezzo per i meccanismi dello spettacolo e dell’entertainment, dall’astio (spesso pregiudiziale) nei confronti del cinema americano. Lizzani e Gemma lo amavano, il cinema di Hollywood. E non temevano di dirlo e di rivendicarlo. Nei quattro anni in cui ha guidato la Mostra del cinema di Venezia (dal 1979 al 1982) Lizzani non è stato un direttore come gli altri. È stato colui che ha reinventato un’istituzione che tutti davano per spacciata. E l’ha fatto aprendo le porte del tempio al cinema-cinema: a E.T., a Indiana Jones, a Guerre stellari. Ai critici e ai soloni della sua generazione, che lo accusavano di fomentare e legittimare il “bambinismo di massa”, Lizzani rispondeva aprendo il Palazzo del cinema anche a mezzanotte e facendo irrompere la notte – per la prima volta – negli austeri palinsesti della Mostra. Se ne sono andati tutti e due in modo tragico. Diversamente tragico. Ma proprio per questo, con rispetto e con affetto, bisognerebbe avere il coraggio di ricordarli per quello che sono stati davvero. Niente monumenti, niente retorica. Carlo e Giuliano cantavano fuori dal coro. A noi piace ricordarli così. E siamo quasi certi che piacerebbe anche a loro. 53 CINEMA ESPANSO YURI ANCARANI, “ALTRE” FORME DI PRODUZIONE SONO POSSIBILI diRossella Rinaldi Y uri Ancarani come è nata l’idea della trilogia conclusa con Da Vinci? È nata per caso con Il capo. Sono partito dal mio interesse per il lavoro e per il rapporto uomo/ macchina. Dovevo girare un film industriale, su una cava di marmo a Carrara: dopo una serie di sopralluoghi ho conosciuto il capo cantiere, chiamato da tutti “il capo”. Mi aveva così catturato che proposi al 54 proprietario della cava di realizzare un film su di lui. Sono riuscito a trasmettergli il mio entusiasmo e alla fine ha prodotto lui il film. Piattaforma Luna è nato in un bar di periferia, vicino ad un porto. Ho sentito parlare della vita dei sommozzatori, che vivono in una camera iperbarica a 200 metri sott’acqua. Da Vinci è un film di fantascienza, girato al Dipartimento di chirurgia robotica di Cisanello di Pisa: è un viaggio all’interno del corpo umano. L’idea è nata discutendo con un amico medico. Che tipo di distribuzione è prevista? La trilogia sarà presentata in un corpus unico? I tre lavori durano 65 minuti in totale. Hanno avuto una vicenda produttiva originale: il primo è stato prodotto dal proprietario della cava e i successivi da collezionisti del mondo dell’arte, mio ambiente di formazione. La CINEMA ESPANSO Nato a Ravenna, classe 1972, si forma nella video arte e passa al cinema nel 2010 con Il capo, cortometraggio di cinema industriale scoperto da Marco Müller e presentato alla Mostra di Venezia, primo capitolo di una trilogia che con i successivi Piattaforma Luna e Da Vinci ha registrato un fortunato tour nei festival internazionali. E trova finanziatori nel mondo dell’arte contemporanea. preziosità risiede nella fatica impiegata per realizzarli: i collezionisti che mi seguono comprano il film a scatola chiusa, così da permettermi di produrre il lavoro, possono entrare a far parte del film, poi ottengono 5 copie in 35mm. I miei lavori vengono proiettati nelle sale dei musei e nei festival, dove giungono grazie al passaparola dei selezionatori. Il capo in questo modo ha girato più di 150 festival! Non essendoci più distributori che si occupano di questo tipo di film in Italia, gestisco autonomamente la distribuzione dei miei lavori. Video arte o cinema? Sono due strade parallele o si possono incrociare? Definisco i miei lavori immagini in movimento. Ho studiato video arte e durante gli studi amavo il cinema cyber punk Anni ’80-‘90. Prima il ritmo del video era differente da quello della narrativa del cinema. Oggi non c’è più distinzione, entrambi i campi hanno gli stessi strumenti digitali. Quali sono i suoi modelli d’ispirazione, quali autori italiani le piacciono? Alberto Grifi e Michelangelo Antonioni. Due sguardi diversi, ma entrambi proiettati nel futuro. Inoltre Antonioni è di Ferrara e io di Ravenna, proveniamo dalla stessa valle e dalla stessa atmosfera. Sono cresciuto guardando la fabbrica di Deserto rosso. Era uno sperimentatore che amava cavalcare la novità. È stato uno dei primi registi a essere esaltato dalle videocamere, perché la sua ossessione era il colore, l’idea di poter intervenire sulle cromie durante la fase di ripresa. Allo stesso modo potrei anche parlare delle motivazioni che hanno spinto Grifi a utilizzare la telecamera al posto della cinepresa. I suoi lavori sono stati presentati a Venezia e a Roma, poi ha ottenuto visibilità e premi nei maggiori festival internazionali. Ha riscontrato accoglienza e interesse differenti all’estero? All’estero hanno un gran desiderio di vedere cinema italiano, soprattutto negli USA, ma si lamentano che non arrivano proposte. Io ci sono arrivato attraverso il passaparola dei selezionatori dei festival europei e il sostegno che mi ha dato Marco Müller con il suo staff. Inserire il “fuori formato” all’interno del Festival, senza ghettizzarlo nel mondo del cortometraggio di fiction, è stata una grandissima intuizione e per me un trampolino di lancio. Al Festival Visions du Réel di Nyon ha parlato dei metodi produttivi “alternativi”. Lei è un unicum nel panorama italiano: completamente prodotto da privati e da nomi come Maurizio Cattelan. L’arte produce il cinema? Ho subito intuito che non volevo aspettare anni per attendere le prevendite televisive. Ho trovato entrate diverse. Cattelan ha coprodotto il mio secondo film, convincendo altri finanziatori privati. Così sono diventato un filmaker “normale”: produco un film all’anno, come i miei colleghi del Nord Europa. A Nyon i relatori francesi e tedeschi spiegavano come richiedere i fondi statali: io ho parlato di come produrre un film senza fondi. E come capita quando passa la parola all’italiano... tutti ridono! Comunque ho spiegato come la qualità dei miei film sia generata anche dalla difficoltà produttiva. Ha utilizzato un montatore del suono d’eccezione, Mirco Mencacci: quanto sono importanti gli aspetti tecnici? I collaboratori sono importanti, la mia regola è scegliere l’eccellenza. Se l’immagine appaga la vista e il cervello, credo siano le vibrazioni sonore a fare scattare le emozioni. Mencacci è un grandissimo tecnico: è stato il mio trait d’union con il mondo del cinema. Si cimenterà nel lungometraggio o questo non rientra nei suoi piani creativi? Farò un progetto di 60 minuti, di produzione francese: quello successivo sarà svizzero, ma non posso dire molto di più. Mi dispiace molto che non sia il regista a dare la paternità al film, mi appartiene un forte senso d’italianità. 55 CINEMA ESPANSO diGianni Canova 55esima esposizione internazionale d’arte di venezia, curata da massimiliano gioni , è un affascinante tentativo di costruire la una cosmologia universale attorno al rapporto fra immagini interiori e immagini esteriori . peccato che non tenga sufficientemente conto del contributo che anche il cinema – soprattutto – continua a dare al tema nevralgico del nostro rapporto con ciò che non si vede . ha dato e I l 2013, a Venezia, è stato l’anno degli outsider. Da un lato i freaks, i loser e i marginali che hanno fatto vincere il Leone d’oro al film di Gianfranco Rosi Sacro GRA, dall’altro quelli che popolano il Palazzo Enciclopedico allestito da Massimiliano Gioni fra i Giardini e l’Arsenale per la 55esima Biennale d’Arte. Singolare coincidenza: quasi rifiutando simultaneamente ciò che è canone, norma e metodo, tanto l’arte quanto il cinema privilegiano ciò che sta ai bordi, ciò che è appena appena oltre i margini. Inseguono l’eccentrico. Sono sedotti dall’anomalo. Così, attorno a una sala che espone Il Libro 56 Rosso di Carl Gustav Jung, e ne fa la matrice concettuale e ispiratrice di tutta la Mostra, Gioni raccoglie, colleziona ed esibisce una sorprendente quantità di opere realizzate, appunto, da artisti “dilettanti” nel senso nobile del termine: mistici e folli, sciamani e visionari, posseduti e profeti, spesso anche anonimi. E ancora: collezionisti di rarità e di bizzarrie, feticisti di giocattoli e bambole, anacoreti dell’object trouvé, fanatici del bricolage. Passando da una sala all’altra, si ha un po’ una sensazione analoga a quella che prova lo spettatore di fronte al film di Rosi: una successione di mirabilia teratologiche, di attrazioni antropologiche, di programmatiche eccentricità. Come se l’artista – per fare canone, per insediarsi al centro dell’istituzione, per vincere il Leone d’oro o per entrare nel Palazzo dell’Arte – dovesse essere uno stalker dell’anomalia o un cacciatore di tutto ciò che canonico non è. Massimiliano Gioni scrive che il tema centrale della sua Mostra è “la rappresentazione dell’invisibile”, così come esso viene “illustrato da pittori e mistici di inizio Novecento e da giovani artisti contemporanei”. Ed è proprio questa dichiarazione programmatica a richiedere o a suggerire un qualche approfondimento di ordine – per così dire – teorico. L’idea di CINEMA ESPANSO invisibile che guida Gioni nelle sue scelte curatoriali sembra ancora quella praticata, perseguita e rappresentata dalle avanguardie della prima metà del secolo scorso, a cominciare da dadaisti e surrealisti. C’è l’idea che l’arte sia la pratica creativa e produttiva capace di rendere visibile ciò che in genere non lo è (allucinazioni ipnagogiche, visioni estatiche, immagini mentali, fantasie…). O di trasformare in esteriori (cioè visibili da tutti) le immagini interiori (cioè non visibili nemmeno dal soggetto che le percepisce) che risiedono nell’inconscio, e sgorgano da lì. È una visione nobile e senz’altro suggestiva, ma che non tiene in alcun conto il contributo dato dalle immagini filmiche alla rappresentazione dell’invisibile: il cinema – come sanno bene sia i cineasti che gli studiosi di filmologia – ha l’invisibile iscritto nel suo codice genetico. Lo presuppone. Ne ha bisogno per dar senso al visibile. Una delle differenze di fondo fra immagine filmica e immagine pittorica è che la prima presuppone un fuoricampo, la seconda no. Mentre l’immagine pittorica è costitutivamente centripeta, e chiama l’occhio di chi la guarda su di sé, e su sé solo, l’immagine filmica è invece notoriamente centrifuga, rinvia a ciò che sta oltre i suoi bordi, cioè a ciò che non si vede (ma la cui esistenza è fondamentale per dar senso all’immagine stessa). Come dire: solo nella misura in cui non vedo qualcosa (che pure c’è, è lì), posso vedere quel qualcos’altro che è il cinema e sono i film. Peccato che Gioni abbia sottovalutato la questione. Nel suo Palazzo Enciclopedico, certo, il cinema c’è, e non poteva non esserci, a cominciare dal bellissimo Heaven and Earth Magic di Harry Smith (che, per inciso, non era solo un cineasta in bilico fra surrealismo e psichedelia, ma anche – di nuovo – un compulsivo collezionatore di aeroplanini di carta, di tessuti indiani Seminole, di uova di Pasqua ucraine, e così via): ma i film che Gioni ha selezionato (ricordiamo anche i lavori di Tacita Dean e di Melvin Moti) sono lì più perché rinviano a una visione para-surrealista dell’invisibile che perché esprimono l’ontologica necessità del non visibile di cui il cinema è espressione. Il problema è che il nostro sistema delle arti continua a lavorare a compartimenti stagni: i cultori delle varie discipline non comunicano fra la loro, non conoscono lo stato di elaborazione teorica a cui sono arrivate le arti parallele, o se lo conoscono lo snobbano, ciascuno preso nel suo tendenziale solipsismo (o dalla sua ambizione all’autarchia?). Un discorso analogo si potrebbe fare, è ovvio, anche per la sordità di tante istituzioni cinematografiche ad accogliere dentro i Palazzi del Cinema le elaborazioni dell’arte contemporanea. O dell’arte tout court. Ma è proprio questa visione feudale delle arti (teoricamente, concettualmente feudale) a frenare lo sviluppo di quelle pratiche di arte totale e cross-mediale di cui oggi – in un mondo smarrito e disorientato, ma ossessionato dall’idea di “rete” – avremmo tutti tanto bisogno. 57 SPEED DATE COL PRODUTTORE CARO PRODUTTORE, TI SCRIVO diGianni Canova Sono arrivati un po’ da tutta Italia i dieci finalisti del progetto “Speed Date col produttore”. Selezionati dalle redazioni di 8 ½ e di Cinecittà News fra più di 120 candidati, i dieci finalisti si sono ritrovati al Lido di Venezia, nello spazio di Istituto Luce Cinecittà, per presentare il loro progetto ad alcuni dei più autorevoli produttori italiani. 58 Foto di Futura Tittaferrante C 'è chi ha immaginato un mondo distopico e l’ha raccontato in un progetto di film di fantascienza da girare tutto in un solo ambiente (Laura Tonini, Il compound) e chi invece ha progettato una web-serie su bullismo e amicizia ai tempi della rete (Dario Bonamin e Francesca De Lisi, The Social Netwar). C’è chi ha proposto un film che ha per protagonista Pier Paolo Pasolini nei giorni dei sopralluoghi lucani per il Vangelo secondo Matteo (Alessandro Rota, Gli angeli di Craco) e chi ha messo a punto un progetto multimediale a partire da una lunga ricerca sulle lettere d’amore (Matilde De Feo, Letter from an Imaginary Man). Sono arrivati un po’ da tutta Italia i dieci finalisti del progetto “Speed Date col produttore”. Selezionati dalle redazioni di 8 ½ e di Cinecittà News fra più di 120 progetti inviati, il 31 agosto i dieci finalisti si sono ritrovati al Lido di Venezia, nello spazio di Istituto Luce Cinecittà, per presentare il loro progetto ad alcuni dei più autorevoli produttori italiani. All’incontro hanno partecipato Lionello Cerri (Il comandante e la cicogna, Un giorno devi andare), Tilde Corsi (Le fate ignoranti, La finestra di fronte), Gregorio Paonessa (Le quattro volte, Via Castellana Bandiera) e Luciano Massa (esperto di web-series, sviluppatore di un progetto cult come Freaks!). Ogni giovane autore ha avuto 5 minuti a disposizione per illustrare il proprio progetto ai produttori. Velo- cità, sintesi, concretezza: tutti i partecipanti hanno apprezzato il carattere assolutamente innovativo dell’iniziativa (almeno per l’Italia) e hanno sottolineato come offra un’opportunità ai giovani talenti che intendono misurarsi con il mondo della produzione audiovisiva. Ogni produttore ha allacciato un contatto con gli autori dei progetti che ha ritenuto più interessanti. L’auspicio è che alcuni di questi diventino qualcosa di più che un semplice progetto. Tutti hanno convenuto sull’opportunità che l’iniziativa venga ripetuta in futuro nella prospettiva di attivare e rafforzare il processo di rinnovamento del cinema italiano. 59 SPEED DATE CON IL PRODUTTORE Ecco le sinossi dei progetti selezionati, suddivisi in film e web-series: Film GLI ANGELI DI CRACO LETTER FROM AN IMAGINARY MAN di Alessandro Rota di Matilde De Feo “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati…”: questo è lo spunto del soggetto del film, l’introduzione a un famoso componimento di Pier Paolo Pasolini. Attraverso gli occhi di un gruppo di ragazzi che difendono le proprie origini e la storia dei loro luoghi, assistiamo all’incedere della nuova società che distrugge il passato per instaurare solo il presente. Allora come oggi, solo la sensibilità di chi capisce il vero valore dei ‘ruderi’ della memoria potrà dare fondamenta al futuro. Letter from an imaginary man è un breve documentario sull’amore: sulle lettere d’amore. A ciascuno sarà chiesto di leggere le proprie lettere personali. Un’indagine sui sentimenti di profonda intimità, che partendo dalla lettura della scrittura privata precede il momento dell’intervista. Ma c’è “un voile de mystère”, l’illusione necessaria di cui parla Nietzsche a proposito dell’amore e dell’arte, dell’illusione come bisogno. È tutto un gioco: mescolare la finzione con la realtà, la letteratura con la vita, per chiederci, come al solito, se questo amore l’abbiamo vissuto veramente o solamente sognato. Per amare abbiamo bisogno di oscillare tra realtà e fantasia. Web – Series 60 THE SOCIAL NETWAR S I D E R A di Dario Bonamin e Francesca De Lisi di A. Marchiori, D. De Bona, P. Tomaselli Per Irene e Valentina la scuola è una trincea. Il loro aspetto, una maschiaccio, l’altra sovrappeso, le rende bersagli dei bulli, sia in classe che in rete, sulle pagine dei social network. Ma è proprio il web a offrire loro una possibilità di riscatto. Unendo le forze, diventano abili hacker e prendono d’assalto i profili dei bulli. Minando le loro identità virtuali. Distruggendo la loro reputazione. Sovvertendo le regole del combattimento. Sidera è un progetto di web serie/serie tv di ambientazione ospedaliero/psichiatrica. La serie è modulata secondo codici, atmosfere e topòi del genere thriller/horror, pure filtrati da una sottile sfumatura metafisica e visionaria. Un percorso di detection che si snoda attraverso un mondo narrativo sospeso, misterioso e pervaso di distonie e di ambiguità, perché, come afferma Foucault, “la psicologia non potrà mai dire la verità sulla follia, perché è la follia che detiene la verità della psicologia”. SPEED DATE COL PRODUTTORE IL COMPOUND IL MIO ULTIMO TANGO 1972 di Laura Tonini di Francesco Del Grosso di R. Putortì, L. Chinaglia, E. Charpentier Ambientato in un possibile prossimo futuro, Il Compound narra la vita su Marte di Nina e degli altri coloni e del reality show che da Terra ne segue le gesta. Selezionati in base a delle videocandidature, gli otto pionieri sono i protagonisti di una delle più importanti missioni scientifiche della storia dell’uomo, ma non tutto va come dovrebbe. Un misterioso suicidio innesca una spirale di violenza difficile, forse impossibile, da fermare… La parabola esistenziale prima che professionale di Maria Schneider, una delle attrici più celebri del panorama internazionale, la cui immagine è stampata da decenni nell’immaginario per il ruolo di Jeanne in Ultimo tango a Parigi, rivive in un ritratto che ne ripercorre la vita dentro e soprattutto fuori dai set. Una storia, la sua, che è metafora di una lenta e inesorabile discesa verso l’abisso della dimenticanza, che passa attraverso successi, eccessi, cadute e risalite, sino alla tragica scomparsa. Siamo nel 1972 e Gilberto è un uomo insicuro, ma anche un bravo telecronista sportivo RAI che aspira a diventare commentatore della nazionale di calcio. Viene però spedito in Islanda a seguire la partita di scacchi del secolo tra Spasskji e Fischer, che durerà un mese, in piena Guerra Fredda. Peccato che degli scacchi Gilberto non conosca nemmeno le regole. E che debba anche risolvere la prima crisi con la moglie Giovanna, rimasta in Italia a scrivere un libro sul periodo delle stragi. STARTUPPERS BEST CIAK VENTICENTO EXPERIENCE di Luca Bedini e Gabriele Veronesi di Eugenia Ricceri di Matteo Bussoli Una startup è una giovane azienda che cerca il proprio successo nel mondo del web e dell’alta innovazione tecnologica. Nell’Olimpo delle startup ci sono Facebook, Twitter, Google, aziende che hanno trasformato un’idea in prodotti da miliardi di dollari e centinaia di milioni di utenti. Negli ultimi 2-3 anni decine di startup sono nate anche in italia e sono al centro di un interesse massmediatico sempre più alla ricerca delle storie di “quelli che ce l’hanno fatta”. Ma dietro ad una startup, alla sua “esplosione” o alla sua più probabile scomparsa, c’è molto di più: sfide, rischi, fallimenti, delusioni, sogni, fatica, sacrifici personali. Dietro ad una startup ci sono gli startuppers. Cantanti, ballerini, cuochi, stilisti, tra i tanti reality show che hanno conquistato il piccolo schermo non ce n’è mai stato uno dedicato al video-making. Protagonisti, dunque, di Best Ciak dodici aspiranti video maker, che gareggiano per realizzare i loro desideri, tirando fuori passione, talento e ambizione. Obiettivo del talent: quello di individuare nuovi talenti dell’audiovisivo e dar loro la possibilità di entrare nel mondo delle produzioni cinematografiche e televisive. Il progetto VENTICENTO EXPERIENCE è un esperimento corale di digital storytelling volto a raccontare la città di Milano nel momento della sua radicale trasformazione in attesa di EXPO 2015. L’obbiettivo è quello di raccontare una storia attraverso una rete di rimandi in continua oscillazione tra diversi media, dal testo scritto, al video, alla fotografia, alla musica, al web-design. Ognuna di queste forme comunicative è parte di un processo aperto e non lineare di narrazione interattiva. 61 DISCUSSIONI DUE CRITICI DISSEZIONANO IL NUOVO LIBRO DI MARCO GIUSTI VEDO... L’AMMAZZO E TORNO 62 DISCUSSIONI C onfesso di avere un rapporto ambivalente con Marco Giusti. L’uomo mi è molto simpatico, la sua opera critica e televisiva un po’ meno. Difficilmente sono d’accordo con lui su un film – almeno, così pensavo – e in generale non amo quella cinefilia lievemente trash in base alla quale Bava è più bravo di Hitchcock e John Ford è un vecchio palloso (questo l’ha detto Quentin Tarantino e forse Giusti non sarebbe d’accordo, ma il milieu è quello, la scuola di pensiero anche). Spero, e credo, di non essere nemmeno uno di quei parrucconi con i quali Giusti spesso polemizza, né un clone di Nanni Moretti – idoletto che Giusti ama evocare, sempre con toni polemici e lievemente sfottenti – capace di apprezzare solo i film che escono al Nuovo Sacher di Roma. Ovviamente mi piacciono molte cose di serie B e amo per questioni anagrafiche il western italiano, argomento sul quale Marco è di Alberto Crespi un’autentica miniera di aneddoti e informazioni (il suo Dizionario sul genere è un libro bellissimo). Ma non condivido l’esaltazione acritica e “stracultista” di cose che bruttarelle erano e bruttarelle rimangono. Aggiungete che non sopporto il gossip, non leggo le riviste e i siti ad esso deputati e potete a questo punto dedurre con quale atteggiamento mi sia avvicinato a Vedo… l’ammazzo e torno, che raccoglie appunto gli scritti di Giusti per il sito Dagospia (ma anche altri materiali destinati al cartaceo, come molti pezzi per “il manifesto”). Ebbene, la lettura del libro mi ha sorpreso, al punto che mi sono trovato a scorrerlo in modo disordinato ma compulsivo. Raccoglie articoli e interventi che partono dal 16 maggio 2012 (inizio del Festival di Cannes di quell’anno) per arrivare praticamente all’oggi. C’è un po’ di tutto, in ordine cronologico e con una grave mancanza: un libro del genere senza indice dei nomi è quasi un insulto al lettore, come per altro la copertina, di rara bruttezza. Ma il sospetto è proprio che Giusti voglia farci entrare nel suo caos tentando di nasconderne le coordinate, facendoci credere che stiamo annegando in un marasma là dove invece c’è un progetto, un filo rosso quasi invisibile. E questo filo rosso è l’enciclopedica preparazione del suo autore, il suo conoscere il cinema dalla A alla Z (altro che serie B!), in una sola parola: la sua cultura. Il libro – ora Marco si arrabbierà – trasuda cultura ad ogni pagina: saranno anche pezzi scritti al blackberry, come giura nella prefazione, ma dietro c’è una sterminata erudizione, o padroneggiata a memoria o abilmente evocata da ricerche in rete computate sul blackberry medesimo. Insomma, dopo aver scorso Vedo… l’ammazzo e torno siamo giunti alla conclusione che Giusti è un finto stracultista, come per altro azzarda genialmente Checco Zalone nel suo strepitoso “cammeo” iniziale (“la sua ostentata romanità da borgataro in realtà stucchevolmente snob”). Certo, il committente ha le sue regole e per catturare in rete il lettore di Dagospia bisogna scrivere almeno “cazzo” o “tette” nelle prime tre righe di ogni pezzo e Giusti sembra avere un’insana passione per il vocabolo “trombare”, usato in maniera spesso del tutto gratuita. Poi, però, cita Italo Calvino nella recensione di Cloud Atlas e paragona Zero Dark Thirty della Bigelow a Sentieri selvaggi di Ford, idea tutt’altro che peregrina e che vorrei aver avuto io (e quindi, forse, non è d’accordo con Tarantino…). Insomma, Marco, ti abbiamo tanato: sei un critico colto, anche se non parruccone. E hai capito prima di molti altri che Grillo avrebbe sbancato le elezioni (c’è anche questo nel libro). D’ora in poi, quando sosterrai che Ceccherini è un genio, sapremo che stai scherzando. 63 DISCUSSIONI di Roberto Silvestri “I l cinema è un tumulto di corpo più che di spirito”. Appartiene alle forze mutanti dell’evoluzione biologica, in questo senso è arte, in questo senso è industria, specchio della vita etc… Al di là del cinefilo (idealista e inguaribilmente moderato), al di là del cultore di film (accademico, anche se adora Monnezza), c’è dunque il mangiatore di film, l’ultimo cannibale a cui è permesso divorar corpi, purché se li ricordi tutti, che dello spettatore primitivo di 118 anni fa mantiene la meraviglia mascherata di cinismo. Jerry Lewis ne diede un mirabile ritratto tv, in rotta di collusione con i quaresimali, i vigili urbani dello sguardo. Quando Marco Giusti, il cinefago più fanatico, estremista e antisociale di tutti (visualizzato da una profezia del maestro Enzo Ungari in Schermo delle mie brame) scrive, con sarcasmo e 64 ferocia adeguati ai Pataloghi e ai giornali e webzines Falcone Maltese, il manifesto, L’Espresso, Dagospia, con l’umorismo senza orpelli di un Sergej Dovlatov o di uno Stan Lauren, che disarma ogni forma di snobismo, si scopre che non lo fa mai per professione (fa tv!). Né per amor di casta (non è del Sncci). Ma per infettare con visioni desideranti e oblique chiunque e qualunque cosa: festival, politici, dizionari, barzellette, distributori, fanzine, spot, clip, dizionari, veline, doc politici come quello su Genova G8, Stracult e altri programmi tv, produttori, cineclub, Disney, iPhone… E, rispetto ai padri della critica mai trombona (Maurizio Grande, Michele Mancini, Vittorio Buttafava…) Giusti fa pure molto spirito - rievocando i fantasmi di Cinecittà - sui corpi (soprattutto femminili, ma su "il manifesto" cerca di diversificare raggio e tono). Esplosioni virali dedicate a chi senza il cinema non può vivere e che è l’unico che ha il diritto di vivere di cinema. Aristocratico? Molto. Come l’aristocrazia operaia del cinema che lui predilige (stuntman, generici, macchinisti, aiuto operatori, doppiatori, macisti, addette al montaggio, assistenti costumisti…). Credo che la pensi come Carmelo Bene sulla democrazia: “è quella cosa che serve a far sì che il popolo si dia i calci in culo da solo, invece di prenderli da altri…”. Ai critici distaccati, pacati, logici e tiepidi, e democratici, che Marco Giusti non sopporta perché nascondendosi dietro ai “capolavori” non fanno evolvere di un centimetro occhi, sesso e stomaci (da Grazzini a Kezich, da Bignardi a Aspesi) queste pagine rispondono con l’esplorazione più inquietante e “dal basso” dei testi e dei contesti, come piaceva a Godard e Grifi. Occhi che scoprirono perfino un errore di centimetri in un'inquadratura di Sergio Corbucci, implacabili come gli amanti delusi… Neanche Tarantino è così microscopico e innamorato. Tutti noi, infine, invidiamo a Giusti il suo papà, questore negli anni eroici. Non perché gli insegnò la cultura della violenza macha e della repressione antioperaia-contadina-studentesca,ma perché gli permise di andare al cinema gratis ogni giorno e così lui vide tutto e di tutto senza pagare una lira, avvantaggiandosi su Ghezzi rispetto ai porno medievali e ai poliziotteschi. Lui era già in epoca internet, quattro decenni prima del tempo. FOCUS il caso corea del sud L'INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA NEL 2012 ABITANTI 48.955.203 (2013) SUPERFICIE 100.210 Kmq CAPITALE Seoul, popolazione 10.442.426 FORMA DI GOVERNO Repubblica democratica presidenziale PRESIDENTE Park Geun-hye PRIMO MINISTRO Jung Hong-won LINGUE Coreano GRUPPI ETNICI Coreani 97,1%, Giapponesi 2%, Americani 0,1%, Cinesi Han 0,1%, Altri 0,7% VALUTA Won sudcoreano Numero totale di cinema 314 Numero totale di schermi 2.081 - di cui digitali 1.948 - di cui in 3D 830 Numero totale di posti 358.659 Prezzo medio del biglietto 7.466 Won (5,2 € circa) Totale spettatori 194,9 milioni (+ 21,9% rispetto 2011) Totale incassi 1.455.000.000 Won (1.012.219 € circa) Media ammissioni pro capite 3,9 Numero di film prodotti 229 Quota di mercato 58,8% (produzioni nazionali) 41,2% (produzioni straniere) Fonte: Korean Film Council 65 FOCUS // Dove il cinema sta meglio Dove il blockbuster è di casa diStefano Locati e Emanuele Sacchi N el paese in cui il prodotto nazionale riesce ancora nell’impresa impossibile di competere con Hollywood, i blockbuster d’autore arrivano a incassare 80 milioni di dollari. Un segreto che forse trova una spiegazione in una storia funestata da guerre, dittature e invasioni, che non sono bastate a domare lo spirito orgoglioso di un popolo. Al contrario, l’hanno esaltato. È sufficiente osservare anche solo superficialmente i dati per rendersi conto della fase di espansione in corso. In meno di vent’anni si è passati da una media annuale di 50 film prodotti a oltre 200, con quote di mercato per le pellicole nazionali passate da circa il 25% a quasi il 60% (tab. 1). Il caso coreano è ancor più rappresentativo se rapportato a quello italiano: pur avendo una minor estensione territoriale e una popolazione inferiore, la Corea del Sud vanta uno sviluppo equiparabile al nostro, con molti fattori in comune anche a livello industriale (grosse aziende in mano a pochi gruppi familiari, alto tasso di corruzione, etc.). Per questo è ancora più interessante constatare come lo Stato, e in particolare il Korean Film Council (KOFIC), abbia sospinto e coadiuvato la crescita, trasformando gli investimenti 66 pubblici sulla cultura in un volano per lo sviluppo economico. Per comprendere l’attuale boom è necessario tracciare un quadro delle numerose trasformazioni che il paese ha subito. Dopo il dominio giapponese (1910-45), la Corea è stata divisa in due blocchi destinati a sfidarsi all’ombra della zona demilitarizzata del 38° parallelo. A seguito della guerra di Corea (1950-53) il Sud è diventato nominalmente una repubblica, rimanendo in realtà una dittatura per oltre trent’anni. La drammatica situazione politica si è ripercossa anche sull’industria cinematografica, con uno FOCUS // Dove il cinema sta meglio Il cinema sudcoreano ha sempre dovuto confrontarsi con la travagliata storia politica del paese. Nel nuovo millennio il modello promozionale adottato dal governo nei confronti del settore, in contrapposizione al sistema rigido precedentemente in vigore, ha reso competitivi i film sul mercato interno ed esterno, creando le premesse per la più sorprendente delle rinascite. stretto controllo statale che, attraverso leggi rigide in materia di censura e investimenti, ha esercitato forti ingerenze. Il cammino di affrancamento è stato lungo: da un sistema rigidamente controllato si è passati, negli Anni ‘80 e ‘90, a un sistema misto di controllo e liberismo, fino al modello vincente del nuovo millennio, orientato alla promozione. Nel 1955 il cinema è entrato sotto la ferrea supervisione del Ministero della Cultura e dell’Educazione, grazie al “Regolamento per la censura degli spettacoli pubblici”. Dopo la parentesi democratica (19 aprile 1960-16 maggio 1961), interrotta da un colpo di stato militare, nel 1962 fu approvata la Motion Picture Law. Al Ministero dell’Informazione Pubblica veniva conferito un triplice potere: censura preventiva, obbligo di registrazione per le case di produzione e blocco all’importazione di film (il numero di pellicole straniere consentite era legato al numero di titoli locali prodotti). Dalla sua entrata in vigore, la Motion Picture Law è stata rivista nove volte, fino alla sua abolizione nel 1996 con l’approvazione della nuova Film Promotion Law. Uno dei cambiamenti fondamentali è avvenuto con la seconda revisione, nel 1966, che ha introdotto il sistema delle screen quota: le sale dovevano riservare 90 giorni all’anno ai film coreani (successivamente aumentati a 146). Il sistema è stato ridimensionato solo nel 2006, quando il governo ha ceduto alle pressioni degli Stati Uniti. Nel frattempo, nel 1994 erano cadute non solo le imposizioni sul numero di film importabili (da una media di 20 titoli stranieri degli Anni ‘80 a oltre 400 nei tardi ‘90), ma anche le restrizioni sulla distribuzione (in precedenza un film poteva uscire in un massimo di 16 sale). Il sistema delle quote aveva permesso di mettere al riparo il cinema nazionale da questa liberalizzazione e per questo gli accordi del 2006 sono stati fortemente avversati. Nonostante le previsioni nefaste il tracollo non c’è stato, al contrario, il processo di promozione iniziato alla fine del secolo scorso ha garantito un impressionante trend di crescita. Dal 2011 al 2012 gli spettatori sono aumentati del 21,9% e si sono succeduti incassi da record per titoli appartenenti a generi diversissimi: The Thieves, un Ocean’s Eleven action, con i suoi 83,5 milioni di dollari; Masquerade, kolossal epico-storico tra Hollywood e Kagemusha, 82 milioni di dollari di incasso. Infine nel 2013 The Berlin File, una spy story realizzata da chi la guerra fredda la vive ancora (48 milioni di dollari), e Snowpiercer di Bong Joon-ho, blockbuster fanta-politico-apocalittico girato da un regista dall’indiscutibile pedigree d’autore (59 milioni di incasso a oggi). Proprio in questo consiste l’altro plusvalore del cinema sudcoreano: accanto a un sistema efficiente, in grado di intercettare il pubblico locale e competere con i kolossal hollywoodiani, vive e prospera un cinema d’autore che raccoglie consensi nei festival internazionali, senza che le due anime entrino in conflitto. Anzi, senza che siano vissute come distinte. Generi e intellettualismo, spettacolo e metacinema, in una catena che unisce idealmente Ryoo Seung-wan a Hong Sang-soo - un po’ come 67 FOCUS // Dove il cinema sta meglio dire Tarantino a Rohmer - senza soluzione di continuità tra elementi apparentemente contrastanti, ma interni allo stesso sistema. The Host (Bong Joon-ho, 2006), il maggior successo della storia del cinema sudcoreano con 89 milioni di dollari di incasso, è un disaster movie, ma è soprattutto una riflessione sul passato della Corea, sulle sue ferite aperte, sulla sua predisposizione all’autoritarismo. Il modello è quello della migliore Hollywood, quella dello Spielberg di ieri e dei Cameron, Nolan e Bay di oggi: poetica d’autore, significato e introspezione uniti a ricerca tecnologica, marketing spietato e appeal presso un pubblico generalista. Il cinema sudcoreano ha già vissuto una Golden Age tra fine Anni ‘50 e ‘60: sono stati gli anni gloriosi di Kim Ki-young (The Housemaid, 1960), Yoo Hyeon-mok (The Aimless Bullet, 1961), Kim Soo-yong (Mist, 1967) e Shin Sang-ok (A Flower in Hell, 1958), in cui venivano prodotte centinaia di pellicole all’anno. Negli Anni ‘70 il regime di Park Chung-hee strinse ulteriormente le cinghie censorie, adottando una serie di politiche fallimentari, che distrussero l’industria. Una prima new wave ha coinciso con il crescere dei movimenti democratici negli Anni ‘80 e l’esordio di una nuova generazione di registi (come Bae Chang-ho e Park Kwang-su): un periodo tumultuoso, in cui un’industria indebolita non aveva armi per resistere alle prime liberalizzazioni. La vera riaffermazione è iniziata nella seconda metà degli Anni ‘90, una nuova new wave, in cui ha esordito la maggior parte dei registi coreani oggi conosciuti a livello internazionale. Il successo del nuovo millennio è stato reso possibile soprattutto dalla ristrutturazione delle politiche governative. Un modello di promozione intelligente che non si limita a distribuire soldi pubblici, sostenendo invece dall’esterno il business nel suo complesso: 68 Anno Numero film locali prodotti Quota di mercato film coreani Quota di mercato film stranieri 1996 53 23,10% 76,90% 1997 59 25,50% 74,50% 1998 43 25,10% 74,90% 1999 49 39,70% 60,30% 2000 59 35,10% 64,90% 2001 65 50,10% 49,90% 2002 78 48,30% 51,70% 2003 80 53,50% 46,50% 2004 82 59,30% 40,70% 2005 87 58,70% 41,30% 2006 110 63,80% 36,20% 2007 124 50,80% 49,20% 2008 113 42,10% 57,90% 2009 138 48,70% 51,30% 2010 152 46,50% 53,50% 2011 216 51,90% 48,10% 2012 229 58,80% 41,20% dalla pressione sui festival internazionali alla sottotitolazione in inglese dei DVD, dai piani di co-produzione alle scuole di cinema, fucina inesauribile di nuovi talenti. Le ripercussioni positive si avvertono su tutta la filiera, fino all’istituzione di solide realtà come il Busan International Film Festival (BIFF) o il Jeonju International Film Festival (JIFF). Dal JIFF, concentrato su cinema digitale e indipendente, emergono i nuovi talenti della cinematografia sudcoreana e asiatica in generale, oltre all’ormai imprescindibile FOCUS // Dove il cinema sta meglio tab. 1 2012-229 2010-152 2009-138 2008-113 2007-124 2006-110 2005-87 2004-82 2003-80 2002-78 2001-65 2000-59 1999-49 1998-43 1997-59 1996-53 2011-216 EVOLUZIONE INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA (1996-2012) Fonte: Korean Film Council Jeonju Digital Project, progetto annuale di cortometraggi in digitale “griffati” (di qui sono passati Tsukamoto, Apichatpong Weerasethakul, Jia Zhang-ke, Tsai Mingliang). Il BIFF, nato nel 1996, si è trasformato da vetrina per la stagione cinematografica sudcoreana in appuntamento internazionale, essenziale per comprendere lo stato di salute del cinema asiatico e cruciale per gli investitori di tutto il mondo. E se non è casuale che lo sforzo promozionale sia aumentato in coincidenza del cambiamento del colore politico, transitato dalla destra nazionalista al centro-sinistra liberale nel 1998 - con un regista come Lee Chang-dong (Poetry, Oasis) al Ministero della Cultura - forse è meno scontato constatare come il ritorno dei nazionalisti, nel 2007, non abbia per il momento rallentato la crescita. Del contrasto tra Nord e Sud è difficile parlare senza che prevalga il punto di vista occidentale, incapace di comprendere appieno il sentimento di amore-odio che accomuna un popolo diviso. Innumerevoli i titoli sul tema, specie dopo la svolta liberal- progressista, che ha cancellato l’obbligo di dover ritrarre un cittadino del Nord con specifiche caratteristiche negative: una demonizzazione imposta dalla post-bellica Anti-Communist Law. Il primo grande successo della rinascita è anche la prima produzione ad alto budget ad affrontare la guerra fredda tra le due Coree: Shiri (Kang Jae-gyu, 1999) è un action debitore del cinema di Hong Kong, spettacolare quanto bidimensionale, che ancora non osa molto in termini di riabilitazione o di ripensamento sulla situazione Nord-Sud. Ma di lì a poco un numero sempre crescente di film insiste sul medesimo concetto: l’uguaglianza o quanto meno la comunanza di fondo di un popolo diviso dalla politica, ma soprattutto da ingerenze straniere, russo-cinesi e americane (e la diffidenza per gli Stati Uniti è quasi altrettanto acuta in ambedue le Coree). Che si tratti di un’astuta operazione di marketing (lo spirito unitario “tira”), anziché di un sentimento realmente diffuso, in fondo ha poca importanza per l’industria del cinema. E più Kim Jong-un minaccia bombardamenti, più gli script giocano sull’unificazione coreana. Centrando il bersaglio. JSA (Park Chan-wook, 2000), amicizia clandestina tra soldati di opposti eserciti costretti a vivere quotidianamente da sentinelle; The Front Line (Jang Hoon, 2011), storia di un massacro per la conquista di una collina a guerra virtualmente finita, mentre i generali disegnano confini con la matita; As One (Moon Hyun-sung, 2012), celebrazione della vittoria al campionato del mondo di ping pong con una squadra unitaria; e plausi dalla critica per Welcome to Dongmakgol (Park Kwang-hyun, 2005), fiaba al sapore di Miyazaki in cui i fucili di Nord e Sud per la prima volta sparano insieme contro lo stesso nemico. Cinema che auspica di prefigurare l’andamento delle cose, aiutando (in) consapevolmente a cambiarle. 69 FOCUS // Dove il cinema sta meglio La strategia di “localizzazione globale del cinema sud coreano diKyung Hyun Kim Filo diretto da Seoul. Il punto di vista critico. P oco più di cinque anni fa, la preoccupazione principale dell’industria cinematografica sudcoreana era la protezione del cinema nazionale da Hollywood. Il successo internazionale ai festival non ha garantito successo commerciale, ma ha aumentato la consapevolezza critica. Per questo registi e attori si riunivano nelle piazze per invitare il governo a rinnovare le screen quota. Nonostante le vibranti proteste, nel 2006 il governo ha ceduto alle pressioni della Motion Picture Export Association statunitense e ha diminuito da 146 a 73 i giorni in cui i cinema erano tenuti a mostrare film locali. Il governo doveva proteggere le vendite di Hyundai, LG e Samsung negli Stati Uniti, più che assicurarsi la salute dell’industria cinematografica. Nei quattro anni successivi, l’industria ha prevedibilmente mostrato alcuni segni di assestamento. Il record di biglietti venduti per film coreani è del 2006 (98 milioni), crollato nel 2008 (63,5 milioni). Quell’anno si è disperso più di un terzo del pubblico domestico, mentre gli spettatori di film stranieri - al 95% di origine statunitense hanno goduto di un picco senza precedenti (87 milioni). Ciononostante, nel nuovo decennio il cinema coreano ha mostrato 70 di essere ancora vitale. Dopo i numeri incoraggianti al botteghino nel 2011, il 2012 si è rivelato fenomenale per numero di film distribuiti (174), introito complessivo del box office (114,6 milioni) e media percentuale di ritorno degli investimenti (13,0%): si tratta di record storici per la Corea del Sud. La tendenza si conferma nella prima metà del 2013: fino a oggi, la maggior parte dei film ad alto budget - Miracle in Cell Number 7 (Lee Hwan-kyung), The Berlin File (Ryoo Seungwan), Cold Eyes (Jo Eui-seok e Kim Byungseo), The Tower (Kim Ji-hoon), Secretly Greatly (Jang Cheol-soo), 90 Minutes of Terror (Kim Byung-woo) e Snowpiercer (Bong Joon-ho) hanno raggiunto o superato le aspettative. L’unico insuccesso, Mr. Go (Kim Yong-hwa), girato interamente in 3D, si è riscattato in altri mercati asiatici. Al botteghino cinese il film - co-produzione tra Showbox (Corea) e Huayi Brothers (Cina) - ha quasi raggiunto i 20 milioni di dollari d’incasso. Il payoff di una recente pubblicità della Hyundai Capital ammette che le compagnie finanziarie stentano a trovare successo fuori dai confini. Per questo, invece di “esportare capitali”, Hyundai Capital propone di “diventare locale”: in Cina acquisisce capitale cinese, negli Stati Uniti capitale statunitense, e così via. Questa campagna di “localizzazione globale” riassume anche il paradigma dei film coreani: piuttosto che esportare in altri mercati, l’industria sostiene la sua crescita trasformandosi in cinema locale. In questo sforzo di “localizzare il cinema coreano”, non solo i film abbandonano la lingua coreana, ma anche attori e caratteristiche culturali. Di coreano rimangono solo registi, membri della troupe e sceneggiatura. FOCUS // Dove il cinema sta meglio A Wedding Invitation (Oh Ki-hwan, 2013) è probabilmente il primo film in lingua cinese con soggetto, regia e finanziamento coreani. Frutto di una joint venture tra Huayi Brothers (Cina) e CJ Entertainment & Media (Corea), questa commedia lacrimevole - anacronistica secondo gli standard coreani - è diventata uno dei maggiori successi dell’industria nazionale, raggiungendo 31,3 milioni di dollari di incasso al botteghino cinese, mentre in patria ha venduto solo 20mila biglietti; non casualmente il soggetto è stato riscritto da un plotone di sceneggiatori cinesi, è ambientato in Cina ed è interpretato da attori cinesi e taiwanesi. L’alleanza sino-coreana crea un mercato in grado di competere persino contro quello anglofono. L’unione degli incassi di Corea del Sud e Cina raggiunge i 4 miliardi di dollari ed è previsto cresca esponenzialmente nei prossimi due decenni. In una cultura globale in cui la dimensione dei capitali investiti, a causa dei costi sempre crescenti degli effetti speciali, determina il gusto e le preferenze di chi va al cinema, il mercato cinese non può essere sottostimato. Questo attrae e insieme spaventa il vicino mercato coreano, che rischia di trasformarsi in dominio cinese. Il nuovo capitalismo ha raggiunto un punto tale per cui persino i prodotti culturali come i film devono abdicare alla propria storia, pur di sopravvivere in un mondo globalizzato? Non ho ancora una risposta, ma, fortunatamente, fino a quando il botteghino coreano rimarrà saldo e i cinefili coreani continueranno a trovare intriganti i film locali, il futuro prossimo non è così desolante. Se la fantascienza sarà possibile solo in lingua inglese o cinese, tutti gli altri generi potranno continuare a essere girati in coreano. L’ascesa del cinema coreano nel XXI secolo non sarà ricordata per i suoi autori - Hong Sang-soo, Lee Chang-dong e Kim Ki-duk non sono De Sica, Rossellini e Visconti o Truffaut, Godard e Rohmer - quanto per la rinascita commerciale che è arrivata a influenzare il cinema cinese. Il legame tra Corea e paesi limitrofi permette previsioni positive per il cinema coreano, che fino a pochi anni fa poteva permettersi di produrre solo commedie di serie B, melodrammi e horror. Considerare una minaccia la scelta di girare film in cinese o inglese rientra in una questione più ampia, che riguarda la sopravvivenza di una lingua minore come il coreano alla globalizzazione del XXI secolo. 71 72 L a stagione autunnale (non in senso metaforico) del cinema italiano non ha offerto scelte di ambientazione geografica particolarmente peculiari. Il grande capoluogo di provincia – Milano, Roma, Torino – ricorre da settembre a novembre come spazio prediletto, confermando “la grande città” come location d’elezione: alcuni film hanno cercato e mostrato l’unicità di questi ventri urbani senza qualunquismo metropolitano, come Anni felici di Daniele Luchetti che, a parte una "vacanza" nel Sud della Francia, in Camargue, usa la Capitale come spazio capace di inglobare sia la suggestione dei vicoli trasteverini che il razionalismo fascista dell’Eur. Anche Moccia e Scola sono rimasti a Roma, L’intrepido di Gianni Amelio ha di Emma Dante e La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto – è apparsa due volte, con punti di vista per nulla scontati per quella che poteva essere la prevedibile celebrazione frequentano meno spesso, o non esclusivamente, il cinema o che ancora sono in possesso di una proposta d’immaginario più indipendente, talvolta sofisticata, sono quelle che ci hanno condotto “altrove”. Restando in città, Palermo – Via Castellana Bandiera dell’incantevole barocco siculo. Altro film, altra isola: la Sardegna, e nello specifico la città di Oristano, è stata il set della piccola impresa meridionale intrapresa da Rocco Papaleo. Continuando a calpestare il territorio nazionale è l’antico borgo Le destinazioni classiche e urbane prevalgono in questi ultimi 90 giorni: Milano, Roma e Torino sono le mete predilette, ma fa la sua comparsa anche Palermo e non manca l’altra isola, la Sardegna. Poco esotismo, invece, a parte la Grande Mela e l’Oriente thriller di Hong Kong. scelto Milano e Massimo Vernier aspira a essere vedovo a Torino. Nessuna scelta esotica o poco prevedibile tra i titoli più distribuiti. Le produzioni firmate da autori che rinascimentale di Pergine Valsugana (Tn) a darci la percezione di un luogo ovattato congeniale alla narrazione de La prima neve di Andrea Segre. Volendo provare a spingersi davvero oltre, precisamente oltre confine, il cinema d’autunno non si è contenuto e ha scelto di mandare I soliti idioti in vacanza a New York, metropoli declinata anche nella sua versione orientale (e thriller), ovvero Hong Kong, dove in parte è stato girato Something Good, diretto da Luca Barbareschi e tratto dallo scritto di Francesco Abate e Massimo Carlotto. Prossima destinazione? La stagione invernale anzitutto, che nel bagaglio dei suoi viaggi porta un panettone, anzi i suoi Colpi di fortuna. diNicole Bianchi Autunno a... GEOGRAFIE SARDEGNA PALERMO TORINO NEW YORK CITY ROMA MILANO HONG KONG GEOGRAFIE 73 INTERNET E NUOVI CONSUMI Rivoluzione streaming: dal possesso alla libertà di accesso diCarmen Diotaiuti Si chiama Spotify la tendenza web del momento in fatto di ascolto musicale. Un’enorme library di brani a disposizione, accessibile ovunque in streaming e in buona qualità. Un’alternativa alla pirateria digitale attraverso un modello di business ispirato al consumo gratuito, ma legale. Anche questa volta la musica è pioniera nel cogliere l’evoluzione del mercato? L anciata in Italia lo scorso febbraio, in concomitanza col Festival di Sanremo, è diventata subito una delle tendenze del momento in fatto di ascolto musicale. Un milione e mezzo di canzoni riprodotte nel primo giorno di lancio, undici milioni nella prima settimana. Questa la reazione italiana al fenomeno. Si chiama Spotify ed è un’applicazione che permette di ascoltare musica in streaming e on demand da qualsiasi dispositivo connesso a internet. Parliamo praticamente di qualsiasi musica - dal- le colonne sonore ai classici, alle hit del momento - visto che la sola library italiana vanta ben quindici milioni di brani. Nato in Svezia nel 2008, Spotify è disponibile ad oggi in ventotto paesi, con ventiquattro milioni di utenti attivi, di cui otto milioni con profili a pagamento. Lanciato con lo slogan “La tua musica è ovunque, basta premere play”, per sostituire nell’immaginario il concetto di possesso con la libertà di accesso, ennesimo segnale dell’immaterialità pervadente dell’era digitale. La sua forza è stata partire dall’assunto che l’ascolto gratuito di INTERNET E NUOVI CONSUMI musica digitale è diventato, da Napster in poi, una pratica d’uso. Accettare il cambiamento è stata la vera rivoluzione. Sfruttare il segnale del mercato a proprio favore per generare profitti, offrendo la ragionevole possibilità di continuare a usufruire dei contenuti gratuiti, ma in modo legale. Un’alternativa vera alla pirateria digitale che punta proprio a quegli utenti che scaricano file illegalmente. Tanto che lo studio dell’Università di Amsterdam “File Sharing 2©12. Downloading from illegal sources in the Netherlands” registra una diminuzione del 10% del download illegale di musica in Olanda nel periodo 2008-2012, e ne attribuisce il merito alla popolarità di alternative legali come Spotify e YouTube, e a un nuovo modello di business più vicino alle esigenze dei consumatori. L’applicazione è un ibrido fra modello di business free e a pagamento. Prevede tre tipologie di account: quello gratuito permette di ascoltare brani musicali solo da computer e intervallati da messaggi pubblicitari. Se finora non c’erano limiti all’ascolto, dallo scorso agosto è stata introdotta una novità: il tetto massimo di dieci ore di musica al mese, una volta trascorsi sei mesi dall’iscrizione. Due, invece, le versioni a pagamento. La più economica è consultabile solo da pc, ma senza limiti né interruzioni; la versione premium, in abbonamento a circa dieci euro al mese, permette di utilizzare l’applicazione in qualsiasi momento e da qualsiasi dispositivo, dal cellulare al computer, al tablet. Riproduce i brani in qualità migliore e prevede anche una modalità offline, per scaricare i brani e ascoltarli in un secondo momento, senza connessione. A quanto dichiarato, dalla sua nascita ad oggi Spotify ha pagato cinquecento milioni di dol- lari ai detentori di diritti musicali e conta di arrivare a un miliardo per la fine del 2013, secondo un modello di profitto che divide con gli aventi diritto i proventi derivati sia dalle inserzioni promozionali, che dagli abbonamenti a pagamento. Naturalmente in maniera proporzionale agli ascolti dei singoli brani. Per l’artista questo tipo di utilizzo rientra spesso in un più generico contratto di royalty digitali firmato con le case discografiche, e può arrivare a tradursi in cifre finali davvero irrisorie se non si raggiungono numeri di ascolto da capogiro. Questo vuol dire che per le Hit e gli artisti affermati può esserci effettivamente un ritorno economico diretto legato al numero di ascolti su Spotify; ma per un artista emergente il guadagno deriva piuttosto dalla presenza stessa sulla piattaforma, playlist di preferiti e condivisa tramite facebook, twitter, blog o via email. Le playlist possono essere salvate, per garantire un accesso veloce, o create in compagnia degli amici. È possibile visualizzare in ogni momento da facebook i brani che gli amici stanno ascoltando, o seguire personalità e utenti comuni per scoprirne i consigli musicali. In base ai gusti mostrati e al tipo di musica preferito, l’applicazione consiglia di volta in volta nuovi brani da ascoltare. Sembra risiedere, dunque, nel potenziale di socializzazione e nel piacere della condivisione il motivo del successo di Spotify. E anche questa volta la musica potrebbe rivelarsi pioniera nel cogliere e sfruttare l’evoluzione del mercato digitale come già avvenuto con gli Mp3 e il sistema di iTunes. La tua musica è ovunque, basta premere play come opportunità di farsi conoscere da un vasto pubblico di appassionati. La crescente fidelizzazione ad opera del digital buzz diventa solo in un secondo momento fonte di guadagno, poiché può tradursi in un maggior numero d’ingaggi per serate dal vivo. Spotify non è la prima applicazione ad offrire la possibilità di ascoltare musica in streaming, ma è quella che ha saputo meglio sfruttare il potenziale sociale del web 2.0. La musica può essere raccolta in 75 PUNTI DI VISTA Svegliamoci! Basta ballare il foxtrot in un rave party diDaniele Vicari v 76 Lo status presente del nostro cinema tra mancanza di visione strategica e politica da parte delle istituzioni e scarsa programmazione industriale. Le proposte del regista di Diaz: libertà creativa, formazione, legge antitrust. PUNTI DI VISTA L a situazione attuale del cinema formazione per scardinare l’attuale assetto italiano è davvero controversa ideologico della nostra cinematografia. Il e ha due “aree” di responcinema italiano è il più identitario dell’Occisabilità principali: la totale dente, il profilo medio del cineasta italiano mancanza di una visione è: maschio, adulto, autoctono, medio-alto strategica e politica da parte delle istiborghese (meno del 10% della popolaziotuzioni, e una scarsa e poco lucida prone italiana). Cosa può raccontare questo grammazione industriale. Dai vari mini“idealtipo”? Il proprio ombelico, le nevrosi, stri succedutisi negli anni, alla dirigenza la propria mancanza di coraggio. L’unico delle associazioni di categoria, abbiamo modo per sventrare questo fortilizio è la assistito alla fiera dell’indecisionismo e formazione. Bisogna immettere nel sistedel piccolo cabotaggio. Rendite di posima aspiranti autori e tecnici appartenenti zione, personalismi, conflitti di interesse, alle più disparate categorie sociali, quindi persino malversazioni come quelle delle immigrati di prima e seconda generazione, truffe sui “diritti cinematografici” hanno donne e ragazzi appartenenti all’immenso messo i bastoni tra le ruote a tutti gli bacino delle classi sociali “disagiate”, cioè il operatori del settore, ne hanno rallentato 90% e oltre dei cittadini italiani che restano se non impedito un serio e tempestivo sempre esclusi dalla produzione culturale, adeguamento tecnologico, finanziario e appannaggio di una misera e consunta élite. culturale. Hanno ridicolizzato la nostra Se qualcuno dice: a fare che? Non c’è lavocinematografia con polemiche assurde ro!, prima di rispondergli bisogna guardarlo sulla presenza dei film italiani nei festiin faccia e probabilmente si scoprirà che ha val, i premi dati e non dati alla propria qualcosa da perdere. Poi gli si potrà urlare “scuderia”. Per non parlare dei meccanicon chiarezza: a metterti da parte, perché smi spesso “obliqui”, che a tutti i livelli non hai più nulla da dire né da dare. fanno da filtro alla selezione dei progetti, Terza proposta? Dirsi la verità attraverso un al loro finanziamento e alla promozione. ragionamento: siccome qui, o si rifà l’Italia A fronte di questo caos, in Italia negli o si muore, è evidente che la battaglia sarà ultimi 2 anni si sono miracolosamendura, ci vogliono strumenti adeguati per vinte prodotti, in media annuale, 120 film cerla. Il primo di questi strumenti è il disvedi finzione e 600 documentari. Alcune lamento dell’ipocrisia corrente: è ovvio che di queste opere, valorizzate dai festival molti film di una certa dimensione, con gli internazionali, da Berlino a Cannes, da attuali meccanismi di finanziamento, non si Venezia a Toronto, hanno convinto critipossono più fare. Dobbiamo chiedere e otteca e pubblico. La performance straordinere, con ogni mezzo, una legge antitrust. Ci naria dei film documentari, dal Cesare dei devono essere più soggetti che producono e Taviani a Sacro GRA di Rosi, è sotto gli che distribuiscono. Soprattutto più soggetocchi di tutti. Visto che dalla classe diriti che comprano i diritti in concorrenza tra gente non possiamo attenderci nulla di loro. Le sale devono essere più elastiche, positivo, la mia prima proposta è: libertà! programmare cose diverse, differenziando Ci vuole uno slancio di libertà espressiva gli orari: al momento sembrano perlopiù e creativa che travolga le miserie umane negozi in franchising, tutti uguali, tristi, nore professionali di chi decide di non demalizzati. Questa tristezza fa pendant con le cidere o decide solo per sé. Noi dobbialagne impotenti sulla pirateria, perché prima mo cominciare ad incazzarci seriamente: capiamo che è cambiato il mondo, che si sulla libertà espressiva e d’opinione non comunica in un altro modo, che si fruisce si scherza, basta filtri e filtrini. La libercultura in un altro modo, e prima troveremo tà non si chiede, bisogna prendersela, soluzioni adeguate. La pirateria si combatte innovando il linguaggio, sperimentando solo con strumenti adeguati a quel cambianuovi territori espressivi e raccontando mento, non mandando la polizia a casa di senza mediazioni costringeremo “le alte chi scarica un film, che oltre ad essere una sfere” a modificarsi. Se noi cineasti non cosa orrenda è come reggere con le mani siamo all’altezza delle sfide che il nostro una diga che sta crollando… terza proposta tempo necessita, non siamo niente di quindi? Svegliamoci! Stiamo ballando il foxniente, non possiamo avere niente, non trot con la gonna a palloncino e i tacchi a dobbiamo avere niente. spillo in un rave party organizzato sotto un La seconda proposta è: utilizziamo la bombardamento. 77 PUNTI DI VISTA La critica del critico diPaolo Mereghetti Spunti di riflessione sul rapporto tra recensori e recensiti a partire dallo speciale di 8½ di luglio. In Italia ci si rivolge al pubblico e non agli addetti ai lavori e sembra che a nessuno interessi il confronto delle idee. Forse anche per questo il cinema italiano se la passa così male. 78 PUNTI DI VISTA C onfesso che avevo aspettato con una certa impazienza lo speciale di 8½ sulla critica vista dalla parte dei “criticati”. Ma devo ammettere che la delusione è stata almeno pari alle attese: il solito elenco di lamentazioni sull’impreparazione, l’incompetenza, “ma non hanno capito quello che ho fatto”, il poco spazio, rivelando in generale un atteggiamento di lesa maestà che francamente mi sembra non porti a niente. Serve qualcosa lamentarsi, come facevamo da bambini, su chi ha “cominciato per primo” (perché anche dallo schermo sono arrivate bordate mica male. E da una posizione decisamente “dominante”, come direbbero gli economisti)? Direi proprio di no. È vero però una cosa: che la critica, in Italia, si rivolge eminentemente al pubblico e non agli addetti ai lavori (cioè alla categoria interpellata da 8½). Non bisogna dimenticarlo. In passato è stato diverso. “Cinema” e poi “Cinema Nuovo” in Italia, come i “Cahiers du Cinéma” in Francia (per fare gli esempi a noi più vicini), cercavano i loro lettori soprattutto tra chi il cinema lo faceva. O comunque: erano i cineasti gli interlocutori privilegiati dei loro articoli. Oggi questa cosa, almeno da noi, si è persa totalmente. Soprattutto da parte delle riviste che sono diventate, chi più chi meno, un veicolo per aspiranti accademici. Così la cosiddetta “critica militante” bisogna cercarla – se va bene – sulle pagine di chi, in passato, svolgeva un compito più divulgativo che critico: alcuni quotidiani, alcuni settimanali, pochissime riviste “culturali”, qualche sito, tutti comunque indirizzati verso la parte più curiosa degli spettatori, non certo verso i cineasti. Difficile in questa situazione sperare in un dialogo vero tra critici e addetti ai lavori. Noi, i critici (e spero di non allargarmi troppo parlando a nome di una categoria di ultraindividualisti) dobbiamo pensare quando scriviamo al pubblico dei nostri giornali e dei nostri siti, formato quasi esclusivamente da spettatori anonimi, che ci chiedono un aiuto di fronte alle proposte del mercato (a volte fatto anche di stelline o palline. Perché se sai da chi vengono, sai anche quello che quei simboli significano e sottintendono…). Il dialogo con gli “altri” - i registi, gli sceneggiatori, gli attori, i produttori (metto tutti al maschile plurale perché a scuola mi avevano insegnato così. Non c’erano ancora gli eccessi del politically correct…) - bisogna essere in due a volerlo. E non so a chi interessi davvero, in un paese dove anche i dibattiti culturali servono solo a stabilire un vincitore e non a cercare di approfondire le cose…. Anche dalla piccola inchiesta di 8½ sembra che la suscettibilità personale venga prima di tutto. Se conta la mia esperienza personale, tra i molti insulti ricevuti in tanti anni (più per il mio dizionario che per le recensioni sul “Corriere” o “Io Donna”), solo i fratelli Taviani e Liliana Cavani mi hanno dimostrato un atteggiamento diverso: addolorati per le critiche ricevute ma interessati comunque al lavoro critico. Con i primi ho avuto modo di approfondire, anche se in maniera occasionale, le nostre divergenze mentre con la seconda no e me ne dispiaccio. Anche con Giorgio Diritti ho discusso molto di film (suoi e non) e di critiche (mie e non). Per il resto solo il deserto, nonostante la mia dichiarata disponibilità (penso soprattutto a certi distributori e produttori…). L’impressione è che a nessuno interessi davvero confrontare le idee. E forse è anche per questo che il cinema italiano se la passa così male… 79 BIOGRAFIE BIOGRAFIE ALBERTO CRESPI Kyung Hyun Kim ROBERTO SILVESTRI Vincenzo Trione DANIELE VICARI 80 C ritico di cinema, milanese e interista. Conduttore radiofonico della trasmissione "Hollywood Party", è stato selezionatore della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, direttore di festival, insegnante di critica cinematografica. Primo conduttore de La valigia dei sogni, Crespi è firma prestigiosa de “l’Unità” e direttore della rivista "Bianco & Nero". Il suo idolo è John Ford e parafrasando il grande regista è nota la sua affermazione: “Sono Alberto Crespi, e parlo di film”. Il suo articolo è a pag. 63 K yung Hyun Kim è docente di Lingue e Letterature dell’Asia dell’Est e Director of the Critical Theory Emphasis all’Università della California, Irvine. È co-curatore di The Korean Popular Culture Reader e autore di Virtual Hallyu: Korean Cinema of the Global Era e The Remasculinization of Korean Cinema, pubblicati da Duke University Press. Ha inoltre coprodotto sia il progetto di restauro di The Housemaid (Kim Ki-young, 1960) che il suo remake, presentato al Festival di Cannes nel 2010. Il suo articolo è a pag. 70 C ritico de “il manifesto” e responsabile di “Alias” fino al 2012; da 10 anni conduce il programma radiofonico “Hollywood Party”. Ha scritto Da Hollywood a Cartoonia, Macchine da presa, Il Ciotta-Silvestri Cinema, Il secolo del film - parlando di storia e cinema con Rossana Rossanda (in uscita). Ha diretto i festival di Lecce, Rimini, Bellaria, Aversa, Ca’Foscari e Sulmonacinema. Il suo articolo è a pag. 64 I nsegna Storia dell’arte contemporanea e Arte e nuovi media all’Università IULM di Milano. Collabora con il “Corriere della Sera” e dirige “Valencia09”. Ha curato mostre d’arte contemporanea in Italia e all’estero (tra le altre, El siglo de de Chirico all’IVAM di Valencia, Sironi/Permeke, Dalí e Savinio al Palazzo Reale di Milano, Post-classici al Foro romano e al Palatino di Roma). Oltre a numerosi saggi su momenti e figure delle avanguardie del Novecento, ha pubblicato monografie su Apollinaire, Soffici e de Chirico. Il suo articolo è a pag. 10 R egista da sempre interessato al documentario socio-politico: inizia nel ‘98 dirigendo quattro cortometraggi nello stesso anno. Nel 2002 con Velocità massima partecipa alla Mostra di Venezia e l’anno successivo vince il David di Donatello come miglior esordiente. L’intensa attività cinematografica lo porta a curare due recenti titoli del nostro cinema: Diaz vincitore del Premio del pubblico a Berlino e La nave dolce, per cui si aggiudica il Premio Pasinetti a Venezia 2012. Il suo articolo è a pag. 76 Sul prossimo numero in uscita a dicembre 2013 Scenari Possiamo fare a meno degli attori? Tendenze Ma i politici italiani vanno al cinema? Cinema espanso Bruno Bozzetto a San Francisco Dante Ferretti a New York Focus Il cinema in Argentina Gore Vidal Il cinema è l'unica forma d'arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore resta immobile. Ennio Flaiano Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale -70% - Aut. GIPA/C/RM/04/2013 Oggi tutto è cinema. L'unica cosa che cambia è dove e come lo si vede.