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Ha ancora senso vedere i film in sala?

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Ha ancora senso vedere i film in sala?
cinema espanso
Il fantasma dell'invisibile
nella Biennale d'Arte
Focus
Il cinema della Corea del Sud
INNOVAZIONI
Low budget/no budget
tendenze
Le estetiche del drone
novembre
2013
5,50 €
A pochi giorni dal passaggio al digitale
Ha ancora senso
vedere i film in sala?
numero
11
EDITORIALE
diGianni Canova
Quando il cinema si rivela
"
V
olevamo ringraziarla…"
Si avvicinano timidi. Meno di 40 anni in due.
Lui, il ragazzo, ha un’aria un po’ da nerd,
occhiali spessi e capelli scompigliati.
“Non pensavamo che il cinema fosse anche questo…”,
sussurra con tono circospetto e quasi titubante.
“…che potesse essere così sorprendente!”, aggiunge lei,
la ragazza, nascosta dietro un trucco dark decisamente eccessivo.
“…e così coinvolgente…”, sibila di nuovo lei.
Succede sempre così, da qualche anno a questa parte. Dopo le prime due
o tre lezioni di cinema all’Università, c’è sempre qualcuno che mi avvicina e ringrazia.
Non me, il cinema. Per essersi svelato, mostrato, concesso.
L’anno scorso accadde dopo la proiezione
di Vertigo di Hitchcock, quest’anno dopo
La dolce vita di Fellini. Il cinema appare, e subito rapisce.
Il problema è che ai ragazzi che arrivano all’Università nessuno, prima, il cinema l’aveva fatto vedere.
Nessuno gliel’aveva offerto, proposto, suggerito.
Lo vedono una volta, e restano abbagliati:
quasi una folgorazione, una di quelle senza ritorno.
In barba a tutti i discorsi sull’obsolescenza del dispositivo filmico, o sulla
presunta
disaffezione dei “nativi digitali” dai vecchi media novecenteschi, il cinema ha
ancora un potere di incantamento sorprendente.
Palpabile.
Il che però – paradossalmente – rende ancora più grave
la responsabilità di chi – da troppi decenni a questa parte –
ha sottratto il cinema alle nuove generazioni.
Di chi l’ha nascosto, occultato, secretato, esorcizzato.
Via dalla tv pubblica. Via dalle scuole (dove, per la verità,
non è mai entrato).
Via – in alcuni casi – anche dalle sale (da certe sale…),
trasformate in popcornifici cinici, inospitali e maleolenti.
Sappiamo tutti chi sono i responsabili.
Non hanno commesso un reato, certo.
Ma hanno fatto di peggio. Hanno prodotto la desertificazione culturale per accaparrarsi
qualche punto di share (o qualche suddito…) in più. Forse l’hanno fatto scientemente,
sapendo che dalle folgorazioni del cinema non si torna indietro.
Dopo che ti sei emozionato per La dolce vita, difficile che ti accontenti
di Maria De Filippi, o delle risse e delle chiacchiere inconcludenti
di un qualsiasi talk show.
1
SOMMARIO
07
08
EDITORIALE
01
QUANDO IL
CINEMA SI RIVELA
di Gianni Canova
10
11
SCENARI
13
04
Ex tenebris vita
di Gianni Canova
Per i più piccoli, 18 Fino all’ultimo
rischio di
spettacolo
strangolamento
di Franco Marineo
di Franco Montini
20 VARIARE IL MENù
Lionello Cerri:
PER SOPRAVVIVERE
“Ma noi non
E SPERIMENTARE
COSA MI PIACE
siamo in via
di Andrea Guglielmino
DEL CINEMA
d’estinzione”
ITALIANO
22 Nell’era del film
di Cristiana Paternò
on demand,
26 karel och
Un Ulisse
recuperiamo
Eva Zaoralová
moderno seduto
le fabbriche
di Rossella Rinaldi
in poltrona
dei sogni
di Vincenzo Trione
di Stefano
Stefanutto Rosa
È il web la mia
24 Unica certezza:
Biblioteca
di Babele
i pop corn
di Alberto Pezzotta
non fanno
rumore
La forza dei
di Valerio Orsolini
“piccoli”
INNOVAZIONI
di Chiara Gelato
30 Il low budget
non è di serie B
di Andrea Guglielmino
32
34
Perchè in Italia
l’autarchico
non funziona?
di Corrado Adamo
partire da zero
per produrre
un film
di Nicole Bianchi
36
7 interviste ad
autori "a costo
zero"
Alessio Fava
e l’esperienza
di Biennale
College
di Marilena Vinci
37
Andrea Caccia e il
crowdfunding:
sulle montagne
russe con Bugo
di Ang
38
Stefano Bessoni,
dal basso all’alto
di M.V.
41
Massimiliano
Verdesca:
“Ho convinto
anche Sandra
Milo”
di M.V.
42
Il prezzo
della paura
di Paolo Pizzato
INNOVAZIONI 2
La leggenda
43 FLY CAM:
di Davide Manuli
QUELL’INVENZIONE
di M.V.
ANNUNCIATA CHE
RIVOLUZIONA
39 William Carrer:
IL LINGUAGGIO
“Venezia imposdi Roberto Provenzano
sibile grazie al
social network”
di Ang
38
40
Massimo D’Anolfi
e Martina
Parenti:
“Noi facciamo
tutto da soli”
di M.V.
8½
NUMERI, VISIONI
E PROSPETTIVE
DEL CINEMA ITALIANO
Mensile d’informazione
e cultura cinematografica
Iniziativa editoriale realizzata
da Istituto Luce-Cinecittà
in collaborazione con ANICA
e Direzione Generale Cinema
Direttore Responsabile
Giancarlo Di Gregorio
Direttore Editoriale
Gianni Canova
In Redazione
Carmen Diotaiuti
Andrea Guglielmino
Vice Direttore Responsabile
Cristiana Paternò
Coordinamento redazionale
DG Cinema
Andrea Corrado
Capo Redattore
Stefano Stefanutto Rosa
Coordinamento editoriale
Nicole Bianchi
2
Hanno collaborato
Corrado Adamo, Alberto Crespi,
Federica D'Urso, Chiara Gelato,
Iole Maria Giannattasio, Kyung
Hyun Kim, Stefano Locati, Franco
Marineo, Francesca Medolago
Albani, Paolo Mereghetti, Franco
Montini, Valerio Orsolini, Alberto
Pezzotta, Giovanni Marco
Piemontese, Paolo Pizzato, Roberto
Provenzano, Rossella Rinaldi,
Emanuele Sacchi, Roberto Silvestri,
Vincenzo Trione, Daniele Vicari,
Marilena Vinci
SOMMARIO
NUMERI
diUnità di Studi
congiunta
DG Cinema/ ANICA
46
RICORDI
52
LE FRONTIERE
DELLA MULTIPROGRAMMAZIONE
di Iole Maria
Giannattasio, Federica
D’Urso, Francesca
Medolago Albani
DISCUSSIONI
Carlo Lizzani,
Giuliano Gemma
Fuori dal coro
di Gianni Canova
63
64
Ho scoperto
che è un finto
“stracultista”
di Alberto Crespi
OCCHI IMPLACABILI
COME AMANTI
DELUSI
di Roberto Silvestri
CINEMA ESPANSO
54
YURI ANCARANI,
“ALTRE” FORME
DI PRODUZIONE
SONO POSSIBILI
di Rossella Rinaldi
56
il palazzo
dell'invisibile
di Gianni Canova
58
SPEED DATE
COL PRODUTTORE.
CARO PRODUTTORE,
TI SCRIVO
di G.C.
Progetto Creativo
19novanta communication partners
Creative Director
Bruno Capezzuoli
Designer
Giulia Arimattei, Matteo Cianfarani,
Valeria Ciardulli, Tommaso Dal Poz,
Lorenzo Mauro Di Rese,
Simona Merlini
Stampa ed allestimento
Arti Grafiche La Moderna
Via di Tor Cervara, 171
00155 Roma
Distribuzione in libreria
Joo Distribuzione
Via F.Argelati,35
Milano
GEOGRAFIE
FOCUS
65
IL CASO
corea del sud
66
Dove il
blockbuster
è di casa
di Stefano Locati
e Emanuele Sacchi
70
La strategia di
localizzazione
globale del
cinema sud
coreano
di Kyung Hyun Kim
Registrazione
presso il Tribunale
di Roma n° 339/2012
del 7/12/2012
72
74
Autunno a...
di Nicole Bianchi
PUNTI DI VISTA
76
Svegliamoci!
Basta ballare
il foxtrot
in un rave party
di Daniele Vicari
78
la critica
del critico
di Paolo Mereghetti
80
BIOGRAFIE
INTERNET E NUOVI
CONSUMI
Rivoluzione
streaming:
dal possesso
alla libertà
di accesso
di Carmen Diotaiuti
Direzione, Redazione,
Amministrazione
Istituto Luce-Cinecittà Srl
Via Tuscolana, 1055 - 00173 Roma
Tel. 06722861 fax: 067221883
[email protected]
Chiuso in tipografia il 30/10/2013
3
SCENARI
Le sale cinematografiche.
Problemi e prospettive
Ex tenebris vita
diGianni Canova
Lo switch off digitale e la rilocazione dell’esperienza filmica offrono l’occasione di ripensare la sala
cinematografica come luogo impagabile di piacere e di socializzazione emozionale.
P
rima di tutto c’è il buio. Quel buio amniotico, avvolgente e assoluto da cui – come per incanto
– sgorgano la vita e la luce: Ex tenebris vita, come ricorda la scritta gigantesca che campeggia
nella sala grande di quello che un tempo era il Cinema Odeon di Milano. In nessun altro “luogo” trovi un buio così. Così elettrico, così profondo, così eccitante. Se un film lo vedi in tv, o sul
computer, o su un tablet qualsiasi, tutt’al più lo vedi in penombra, non nel buio. Fuori della sala
cinematografica i film – piaccia o no – diventano diurni. Non profumano di notte. Non ti danno mai quel
senso di essere altrove che ti dà invece, sempre, l’esperienza della visione in sala.
Poi c’è la grandezza. In sala le immagini che vedi sullo schermo sono
più grandi di te. Molto più grandi. Ti soggiogano. Ti dominano. Tu
non sei come loro. Senti che loro sono più forti. Con loro non puoi
interagire. Non decidi tu come e dove andare. Guidano loro. Ma proprio questo aspetto - che molti giudicano un limite - costituisce uno
dei punti di forza della visione di un film in sala: il cinema in sala non
ti dice mai “Fai tu!”, “Scegli tu!”, “Decidi tu!” (come iniziare, quando
smettere, dove interrompere, cosa ingrandire, e così via…). In sala il
cinema non è un tuo strumento di piacere onanistico. Al contrario,
proprio in sala il cinema rivendica (e trova…) la sua identità e la sua
necessità. Come dire: la differenza che c’è fra vedere un film in sala o
su un altro dispositivo è simile a quella che intercorre fra un amplesso
e una masturbazione. In sala si è sempre almeno in due, in tv o sul
computer ci sei solo tu, illuso di poter bastare a te stesso. Beninteso:
entrambe le esperienze (l’amore a due e l’amore solitario) producono
piacere. Ma sono piaceri diversi. E sarebbe opportuno quanto meno
che tutti fossero consapevoli della differenza.
4
E poi - oltre al buio e all’amore a
due con le immagini - in sala ci
sono gli altri. C’è il pubblico. Chi
non ha mai provato l’esperienza
di trovarsi seduto vicino a una
sconosciuta (o a uno sconosciuto) in una sala cinematografica,
chi non sa cosa sia l’esperienza
di sentire il calore di quel corpo
anonimo, di lasciarsi contagiare
dalle sue risate o dalle sue paure,
chi non ha mai percepito il brivido che si prova quando un corpo
collettivo vibra all’unisono per la
medesima emozione e i singoli
corpi si contagiano l’un l’altro, si
passano sensazioni e piaceri, chi
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Lo storico proiettore Prevost, all’old cinema Rossi, Mentana (Roma)
non ha mai provato questo - in
tutta franchezza - non sa cos’è il
cinema. Perché la sala è questo.
È stata tutto questo. Non è vero
che il cinema in sala è più bello
perché – banalmente – si vedono meglio le immagini. O perché
le immagini sono come le ha
volute l’autore. Nessuno comprerebbe un biglietto per questo.
Ma per il buio, per l’amore con
lo schermo e per il piacere collettivo forse sì. Senz’altro sì. Ma
allora dobbiamo avere l’onestà
intellettuale di riconoscere che
abbiamo sbagliato tutto quando
abbiamo cominciato a considerare le sale come luoghi in via
di estinzione, come specie da
proteggere, o nel migliore dei
casi come fortilizi dentro cui organizzare la resistenza contro le
insidie della tecnologia nell’era
dei new media.
L’imminente switch off determinato dal passaggio al digitale
dovrebbe fornire a tutti l’occasione di una rivoluzione culturale:
ripensare alla sala e rilanciarla
come luogo impagabile di piacere collettivo. Uscire dalla logica
piccola e miope della “resistenza” e offrire - soprattutto ai giovani, ai ragazzi, anche ai bambini
- un’ esperienza diversa. Certo i
multiplex non aiutano: spesso
anzi - con la loro sfacciataggine
bottegaia - sono i primi responsabili della rottura della magia.
Quando mi capita, ad esempio,
di vedere un film in una sala del
circuito “The Space” e sono costretto - se va bene - a sorbirmi
20 minuti di pubblicità non richiesta prima dell’inizio del film
per cui ho pagato il biglietto e poi
altri cinque minuti di intervallo (e
di luce accecante) per i pop corn,
ho la sensazione di non essere
più al cinema ma in un bazaar
in cui - più che uno spettatore sono un pollo da spennare. Mi
è capitato personalmente più di
una volta, ad esempio, di andare
al cinema con mia figlia a vedere
un film per bambini, di chiedere
alla cassa l’ora esatta di inizio,
di entrare in sala a quell’ora e di
dover tollerare comunque, ancora, sette o otto minuti di trailer
assolutamente non richiesti e soprattutto inadatti (assolutamente, vergognosamente inadatti…)
a un pubblico di bambini. Chi
fa così, il cinema lo uccide. Lo
rende una succursale della tv.
Dei suoi linguaggi, dei suoi ritmi,
delle sue luci, dei suoi consumi. Della sua cialtroneria. Se la
sala funziona così, se dev’essere
solo una brutta copia del dispositivo televisivo, allora davvero
non c’è differenza e tanto vale
scaricare film o vederli su uno
degli schermi di casa. Ma se vogliamo che ci sia un futuro per
il cinema in sala, pur nell’epoca
dell’inevitabile rilocazione, allora
davvero dobbiamo ripartire da
qui: il buio, il piacere, gli altri. E
il rispetto per chi esce di casa e
compra un biglietto per vedere
un film.
5
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
6
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
U
agli esercenti che programmano
film in formato digitale, obbligando a teniture che le piccole
sale difficilmente riescono a raggiungere e garantire. Il tax credit
prevede una tempistica relativa
al recupero del credito di imposta, molto rapida per le grandi
strutture, che infatti ne hanno abbondantemente approfittato, ma
che per le piccole sale necessita
di periodi lunghissimi, annullando di fatto il beneficio. Ed anche
le risorse pubbliche che molte
Regioni hanno messo a disposizione dei cinema per il sostegno
alla digitalizzazione impongono
all’esercente di sostenere prioritariamente
l’investimento,
prevedendo un successivo rimborso, ma non tutte le imprese
d’esercizio, soprattutto quelle a
gestione familiare
o volontaristica,
come nel caso di
numerose
sale
della comunità,
sono in grado di
anticipare le spese. E allora la soluzione potrebbe
essere consentire
ai cinema, almeno a quelli caratterizzati da particolari situazioni
diFranco Montini
di difficoltà e impegnati a svolgere un’attività non
Entro fine anno tutte le sale dovrebbero essere digitalizzate, attualmente solo 2000 hanno potuto esclusivamente
commerciale, la
sostenere il passaggio, ancora 1800 le rimanenti: rischio di chiusura o “ipotesi blu-ray”.
possibilità di proiettare film anche
come eventi live di spettacolo e completato il processo, gli scher- - la digitalizzazione, che avrebbe in formato blu-ray, avvalendosi
di sport e, grazie al collegamento mi digitalizzati sono circa 2000, dovuto favorire principalmente di strumentazioni tecnologiche
via etere, organizzazione di vide- poco più del 60% del totale, ed proprio l’esercizio più piccolo, per la proiezione del digitale
oconferenze e lezioni di cinema è irrealistico pensare che i re- debole e periferico, rischia invece professionale. La qualità delle
proiezioni con questi impianti
in simultanea ed apertura ad stanti 1800 possano provvedere di strangolarlo.
altre funzioni, come quelle ri- alla trasformazione entro la fine I meccanismi finora messi in non consentirebbe di raggiungechieste dalle imprese per attività dell’anno, quando le società di campo per sostenere la tra- re gli stessi standard di qualità
di comunicazione, promozione distribuzione non forniranno più sformazione delle sale si sono della pellicola o del digitale, ma
e formazione. Il passaggio alla film in pellicola. Se non vi saran- rivelati inadeguati nei confron- eviterebbe una disastrosa deciproiezione digitale non è solo no proroghe, il destino di questi ti dell’esercizio più debole. Il mazione.
una mera sostituzione di tec- cinema appare segnato: sem- Virtual Print Fee (VPF), ovvero il nologia, ma qualcosa che muta plicemente spariranno. Sarebbe contributo che le distribuzioni, in profondamente l’identikit della un danno enorme, non solo dal quanto soggetti maggiormente
sala, non più intesa come luogo punto di vista culturale, a causa beneficiari del passaggio al dideputato esclusivamente al con- della desertificazione dei centri gitale, grazie al risparmio nella
sumo di film, ma come arena storici e delle città di provincia, stampa delle copie e nelle spese
tecnologica aperta ai prodotti più già oggi carenti di strutture, ma di trasporto, dovrebbero versare
na grande opportunità di sviluppo e
rilancio per i cinema
o la pietra tombale
per centinaia di sale?
È fra questi due estremi che si
gioca la partita del digitale per
ciò che riguarda l’esercizio. I
vantaggi della nuova tecnologia sono evidenti ed innegabili:
contenimento delle spese gestionali; maggiore elasticità nella
programmazione, con proiezioni
di film diversi nella stessa giornata, fino ad ipotizzare il coinvolgimento del pubblico nella
scelta e nella selezione, grazie
alla possibilità di creare una piattaforma di film on demand su
grande schermo; proiezioni di
contenuti extra cinematografici,
svariati. Insomma, il digitale trasforma i cinema in veri centri di
aggregazione sociale e impone
agli esercenti di trasformarsi da
negozianti ad operatori culturali.
La sala digitale non pone più al
centro il film, bensì lo spettatore.
Ma tutto ciò si scontra con l’ostacolo dei costi: l’installazione
di un impianto digitale richiede
fra i 40 e i 70mila euro a schermo e nel nostro paese un preoccupante numero di aziende, già
in sofferenza, non sembra nelle
condizioni di sostenere la spesa necessaria. La deadline per il
passaggio alla nuova tecnologia
è fissata al prossimo 31 dicembre, ma attualmente in Italia,
contrariamente alla realtà di altri
paesi europei che hanno quasi
anche dal punto di vista economico, perché la chiusura di tante
sale danneggerebbe gli incassi di
tutta la filiera: dalla produzione
alla distribuzione. In particolare
ad essere penalizzato sarebbe
soprattutto il cinema di qualità, che proprio nel segmento di
esercizio attualmente non digitalizzato ha il proprio principale referente. Il paradosso è evidente:
grazie ad una maggiore facilità
nell’accesso al prodotto e alla
possibilità di creare offerte di nicchia per pubblici specializzati in
orari diversi nella stessa giornata
- di fatto moltiplicando la varietà
dell’offerta, elemento che può
essere decisivo in bacini d’utenza dotati di poche strutture e in
qualche caso di un unico cinema
Per i più piccoli,
rischio di
strangolamento
A sinistra: il proiettore e la scala. Il passato tangibile all'old cinema Cinecittà, Levico (Trento)
7
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Lionello Cerri:
"Ma noi non
siamo in via
d'estinzione"
diCristiana Paternò
“L
’
Anteo è nato nel ’79, avevo
23 anni. Occupandomi di sociale, con una passione per la
politica, lavorare nello spettacolo era per me un modo
per portare avanti i miei sogni. Da subito con
i miei soci ho pensato a una sala polivalente,
dove fare non solo film, ma anche musica e
teatro. Per me la scelta del prodotto andava di
pari passo con la ricerca di un pubblico, la stessa esigenza che mi spinge anche oggi, anche
come produttore”. A parlare è Lionello Cerri,
esercente milanese ormai storico, anche se non
viene da una famiglia del settore, produttore
dal ’94 con la Lumière & Co. (Soldini, Piccioni,
Diritti in scuderia), presidente dell’Anec e vicepresidente dell’Agis. Con lui abbiamo cercato di
capire cosa accadrà dal 31 dicembre prossimo
e con la sparizione della pellicola, un tema che
è stato al centro di un convegno sul futuro della
sala, nell’ottobre scorso a Roma.
A che punto è lo switch off?
Per i distributori dovrebbe essere totale al 31
dicembre, noi esercenti pensiamo di arrivare
al 70% e questo comporta che molte strutture
avranno dei seri problemi. Il ministro Massimo Bray ha proposto un piccolo intervento di
2 milioni di euro che sarà rivolto alle sale che
ne hanno più bisogno, ma il regolamento è ancora allo studio. Comunque dei 4.000 schermi
totali un migliaio saranno in sofferenza. Le più
a rischio sono le monosale dei piccoli centri, in
una metropoli è più facile essere competitivi
anche perché c’è maggiore popolazione.
Che investimento richiede la digitalizzazione?
50/60 mila euro che si possono recuperare al
30% attraverso il tax credit in 6/7 anni. Ma gli
esercenti dei piccoli centri hanno più difficol-
8
tà a recuperare questo investimento. Anche
il business altro (la vendita di pop corn o il
merchandising) dipende sempre da quanti
spettatori frequentano la sala.
Quali sono gli aiuti che vengono messi in
campo e da chi?
C’è il Virtual Print Fee (VPF), il contributo
che i distributori versano agli esercenti che
programmano il film in digitale, anche questo per i piccoli è poco efficace. Poi ci sono
gli interventi regionali e le agevolazioni delle
banche tramite credito diretto o attraverso il
fondo di garanzia del Ministero dello Sviluppo Economico. Se Stato, Regioni e Comuni
vogliono salvaguardare e rilanciare la sala
non devono fare interventi a pioggia ma aiutare direttamente l’esercente.
Il digitale può essere anche un’opportunità
di innovazione per la sala tradizionale.
Certamente il digitale offre occasioni che la
pellicola non offre, una maggior flessibilità,
altri contenuti. La sala da tempo è in grande
trasformazione, la sala polivalente esiste da
trent’anni. Il cinema può dare spazio anche
al teatro, alla musica, cercare un pubblico sul
territorio e aggregarlo. I pubblici di cinema,
teatro e musica sono contigui e col digitale è
possibile programmare uno spettacolo teatrale o un’opera lirica in diretta dalla Scala o dal
Metropolitan di New York.
La sala di città, quella che sta scontando
maggiormente la crisi e non da ora, è anche
un luogo simbolico che contribuisce a far vivere un centro storico.
Il ruolo della sala è di aggregazione. Serve a
creare comunità, identità nazionale o territo-
riale, alimenta i nostri centri storici e può farli
vivere anche di notte anziché spegnerli.
Eppure le sale continuano a chiudere. Nel
2012 sono 60 le sale chiuse per un totale
di 77 schermi. Nello stesso periodo sono
state solo 13 le sale aperte (o riaperte dopo
un periodo di chiusura) per complessivi 19
schermi.
Indubbiamente i multiplex hanno rappresentato una concorrenza forte, per l’ovvio appeal
esercitato da un luogo dove si può scegliere
fra 10 film diversi anziché uno solo. Sicuramente la monosala deve trasformarsi in piccola multisala. I primi multiplex sono del ’94
e già allora chiusero molte monosale. Ma il
problema vero è che, negli ultimi vent’anni,
non è cambiato sostanzialmente il numero
degli spettatori, attestato sui 100 milioni di
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Il presidente dell’Anec alla soglia dello switch off. Dal 31 dicembre circa 1.000 schermi saranno in
sofferenza. “Il problema vero è però che, negli ultimi vent’anni, non è cambiato sostanzialmente il numero
degli spettatori, attestato sui 100 milioni di persone. E per le realtà più piccole diventa difficile sostenere
l’innovazione che pure sarebbe un’opportunità di crescita”.
Il terzo tempo, cartello all’old cinema Rossi, Mentana (Roma)
Il terzo tempo all'old cinema Rossi, Mentana (Roma)
persone, che possono arrivare a 110 l’anno
in cui c’è un film forte come Avatar nel 2010
o Checco Zalone o Titanic. Quindi occorre
soprattutto formare un nuovo pubblico. Con
una crisi di numeri e di costi, come quella attuale, se devi anche investire per l’innovazione tecnologica, non ce la fai.
Il pubblico della sala è invecchiato, mentre le nuove generazioni hanno abitudini di fruizione completamente diverse.
Cosa si può fare?
Occorre far crescere nuovi spettatori. Noi
lavoriamo molto con le scuole e col Miur
per formare il pubblico dei giovani. Ci sono
iniziative di approfondimento culturale per
insegnanti e ragazzi, lezioni di cinema, in-
contri con registi e attori. Gli esercenti devono saper essere operatori culturali, saper
dialogare col pubblico anche attraverso internet, ad esempio.
Lei ha parlato più volte di uscire dalla logica dei "Cinema Paradiso", della sala come
panda da proteggere. Come vede il futuro
del settore?
La sala non ha solo un problema di programmazione, ma di identità, di ricerca di pubblici,
di radicamento sul territorio. Siccome tutto
questo è più facile se hai più schermi, è opportuno creare consorzi di sale che usino
servizi comuni, come ad esempio la comunicazione web, magari dando lavoro a giovani
operatori culturali.
Lei a che pubblico si rivolge?
Non a una cerchia ristretta in via di estinzione per generazione e per interessi. Il degrado
culturale di questi anni che, tra le molte cause, discende sicuramente da una certa televisione, richiede un colpo di coda per andare
verso una dimensione di maggior profondità.
La cultura non è gratuita, è qualcosa per cui
bisogna sudare, specialmente se uno nasce in
una famiglia meno attrezzata. Ed è importante dare ai giovani questi stimoli.
9
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Punti di vista opposti sulla fruizione: pro e contro il film sul grande schermo.
Un Ulisse moderno seduto
in poltrona
diVincenzo Trione
C
onfesso di non riuscire a vedere i film sullo
schermo del televisore di casa. Forse, perché detesto la fruizione distratta. E non mi appartiene
la pratica contemporanea del
multitasking: ovvero, il gesto che
ti porta a essere
sempre deconcentrato, a transitare
ininterrottamente
tra territori lontani. Guardi un film
e insieme consulti
le email, mandi un
tweet, vai su Facebook e fai mille
altre cose ancora.
un film - ti senti a disagio. Poi,
ti fai avvolgere da un mondo fittizio, dalla sua forza visiva e dai
suoi meccanismi narrativi. Sei
coinvolto, ma non perdi il senso
dell’orientamento. Sai sempre
dove ti trovi; ti senti al sicuro;
puoi limitarti ad assecondare il
A queste consuetudini preferisco il
gesto quasi sacrale
che, settimanalmente, mi porta a
entrare nella sala
buia. È un rito laico che conserva
ancora, per me,
un potere simbolico straordinario.
Entri nell’oscurità.
Ti consegni alla
fermezza. Lì, in
quella sorta di caverna platonica,
La cassa dell'old cinema Cinecittà, Levico (Trento)
si modella ogni
nostra proiezione immaginaria. succedersi dei fatti. Non vieni
Sei in un’assenza di luce, vuota mai sommerso. Passi da un poma colma di visioni possibili. sto a un altro; osservi una cosa
Del resto, come ricordava Albert da lontano, da vicino, dall’alto,
Camus, al cinema “non c’è sole dal basso, attraverso una finestra, da destra, da sinistra. Ma
senz’ombra”.
non sei costretto a spostarti. Sei
Nella sala buia ti senti un Ulis- come un contemplatore solitase moderno. Seduto in poltrona, rio di spettacoli che ti ignorano.
puoi compiere un viaggio nei Vieni immesso nel cuore di alluoghi e negli avvenimenti che cuni eventi, ma conservi semsono proiettati sullo schermo. pre una distanza di sicurezza:
Dapprima - quando comincia non ti smarrisci mai. È un po’
10
come quando nel vortice della
folla sappiamo sempre bene chi
siamo, dove ci troviamo e dove
stiamo andando.
Abiti una soglia che non puoi
mai varcare. Come “dice” anche
la tua postura, resti seduto, fer-
mo. Solo con te stesso. Non sei
chiamato a prendere parte alla
messa in scena. Puoi solo lasciare che i fatti si svolgano indipendentemente da te. Resti immobile. Mentre puoi leggere un libro
o guardare un quadro passando
liberamente da un dettaglio a un
altro o da una pagina a un’altra,
dentro una sala cinematografica
sei costretto a restare “incollato”
alla poltrona, in una prolungata
attesa. Poi, d’incanto, il cinema-
al-cinema ti porta altrove. Ti
conduce da geografie note a imprevisti spaesamenti. Dischiude
finestre su altri mondi. Dentro
l’oscurità avviene un’avventura sempre nuova. A differenza
della pittura, infatti, il cinema
non impone immagini statiche
o immutabili. Non
mostra solo quel che
è “qui e ora”: ma va a
“prendere” il mondo
e lo riporta dentro la
nostra casa. Suggerisce tensioni, azioni.
È puro movimento: ci
porta dentro le scene.
È come “un servizio
navetta tra luoghi ed
epoche diverse”, ha
affermato John Berger. Implica sempre
uno spostamento. Restiamo qui ma, mentre osserviamo, la nostra immaginazione è
trascinata fuori. Appena si spengono le luci,
la superficie piatta si
trasforma. Non più
muro, ma “cielo pieno di avvenimenti e di
personaggi”.
Tornano alla memoria
le parole di Italo Calvino nell’Autobiografia di uno spettatore. Il cinema,
ricordava, serve a “soddisfare
un bisogno di spaesamento, di
proiezione della mia attenzione
in uno spazio diverso, (…) una
tappa indispensabile di ogni formazione”. Si tratta di un bisogno
che determina inattesi passaggi.
All’improvviso, varchiamo frontiere e abbandoniamo paradigmi: modelli stabili, percorsi certi.
Il “nostro” mondo finisce. Se ne
dischiudono altri.
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Old cinema Vittoria, Mori (Trento)
È il web la mia
Biblioteca di Babele
diAlberto Pezzotta
Q
uando ero un ragazzino le sale di quartiere e i cineclub stavano
morendo e il boom delle tv private trasformava il piccolo schermo
nella più grande e selvaggia cineteca immaginabile. Poco dopo non
potei che applaudire Truffaut quando dichiarò: “In quanto cinefilo,
non posso che amare le vidéo.” Oggi la stessa funzione di accesso
alla Biblioteca di Babele è svolta dal web, in forme legali e non. E non mi lamento.
Il percorso, in sé, potrebbe appartenere alla mera nostalgia autobiografica e non
avere rilevanza che non sia di feticismo generazionale. Il fatto, però, è che il cinema
e il mercato, nel frattempo, hanno subito mutazioni enormi e ben note, di cui la
digitalizzazione delle proiezioni è l’ultima. E un percorso da spettatore come il mio
diventa inevitabile. Piaccia o no.
Invocare il purismo della pellicola, ieri era snobismo da privilegiati giramondo; oggi
è semplice mancanza di senso della realtà. Difendere la sala come luogo ideale della
visione significa invece dimenticare che cosa sono diventati i cinema: non-luoghi
in cui si consuma qualcosa spesso pagato in anticipo, in una posizione spesso
assegnata da un computer. I multiplex non solo hanno tolto all’andare al cinema
ogni piacere legato al flâner e alla libera scelta ma hanno anche de-socializzato e
atomizzato lo spettatore, rendendolo un prolungamento di quello stesso utente
domestico che fruisce i film in pay per-view o in qualsiasi altra modalità. Davanti
al grande schermo oggi non c’è un pubblico, ma tanti
consumatori. Il senso di comunità spettatoriale può
resistere altrove, certo. Nei festival, magari; in Piazza
Grande a Locarno, a “Bimbi belli” di Nanni Moretti.
Ma sono sempre esperienze di nicchia per fortunati o
addetti ai lavori. Il cinema vero si vede e si vende altrove.
Al momento, potrei dire che solo un quarto delle mie
visioni si svolgono in sala. Ma se parliamo di sale vere e
non di anteprime per la stampa, il rapporto diventa uno
a trenta... Certo, mi perdo qualcosa e dalle reazioni della
gente (ricordo le sciure che commentavano allibite Noi
credevamo) si impara sempre. Ma della sala in sé non ho
alcuna nostalgia. Tra l’altro, il film che amo di più nella
storia del cinema non l’ho mai visto su grande schermo.
E allora? Cambia qualcosa? Non so se il cinema sia
un’arte del passato. Di certo, da tempo vive nei DVD e
nei file .avi sul nostro pc. E se non li vediamo dall’inizio
alla fine e li sbocconcelliamo, cambia qualcosa? Non
facciamo lo stesso con i libri?
11
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
12
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
La forza dei “piccoli”
diChiara Gelato
Un viaggio attraverso sei esperienze storiche – da Melzo a Bari - esempio di spazi che salvaguardano, con
grande fatica, una propria identità senza aver ceduto all’omologazione e all’anonimato del multiplex nei
centri commerciali.
ANTONIO SANCASSANI
CINEMA MEXICO, MILANO
Monosala (285 posti)
“I
l Mexico è uno dei
pochissimi
monoschermi rimasti a
Milano: in tutto tre. È
un cinema abbastanza decentrato, autofinanziato e
autogestito, che non è legato ad
alcun circuito e ha fatto di necessità virtù, cercando di dotarsi
di una sua identità, ritagliandosi uno spazio per un pubblico
d’essai. Una sala che i film se li
deve cercare, spesso “piccoli”,
dialogando con le distribuzioni
indie (che oggi sono agevolate
dall’assenza di copie da stampare) o direttamente con gli autori che hanno prodotto il loro
film, perché un cinema come il
nostro ha difficoltà ad accedere
alle distribuzioni canoniche. Un
esempio per tutti: Il vento fa il
suo giro di Giorgio Diritti, prodotto dall’Arancia Film (la società di
produzione del regista), è stato programmato per due anni:
una tenitura unica in Italia. L’esperienza del Mexico dimostra
come una piccola impresa possa
dare risultati.
Noi abbiamo inventato il progetto dell’Independent Movie tutti i
lunedì all’ultimo spettacolo per
fidelizzare il pubblico, dando la
possibilità ai nuovi autori di essere distribuiti in sala. Ci muoviamo molto su questo tipo di
titoli. Da trentadue anni proiettiamo The Rocky Horror Picture
Show, che è stato visto al Mexico
da tre generazioni di spettatori.
RICCARDO BIZZARRI
CINEMA ZENITH, PERUGIA
Monosala (216 posti)
“I piccoli cinema devono proporre modalità differenti, non fare
concorrenza ai multiplex. Da noi si tengono lezioni, rassegne,
incontri, proiettiamo film d’autore, in molti casi attinti dai festival, e
su ogni titolo costruiamo un evento; c’è anche un piccolo ristorante.
Proponiamo un’idea di slow cinema che combatte i fast food e la
fruizione da multiplex. Qualche tempo fa ci siamo inventati “Il
cinema che ci pare”: quella volta sono stati i liceali a decidere la nostra
programmazione. Ma non sempre la sperimentazione viene ripagata.
E il processo di digitalizzazione in atto non ha dato un contributo in
questa direzione, perché i cambiamenti sono stati marginali. Nella
realtà siamo ben lontani dalla possibile applicazione di un modello
di multiprogrammazione, perché si continuano ad adottare strategie
conservative. Esistono condizioni prestabilite che l’esercente si trova
a dover accettare senza negoziazioni. E questo vale per tutte le case
di distribuzione che hanno un peso. A farne le spese sono soprattutto
i piccoli esercizi, strutture che non hanno potere contrattuale. In
questi nuovi equilibri le distribuzioni indipendenti giocano un ruolo
interessante, che andrebbe monitorato. In molti casi non prevedono
VPF e abbassano le percentuali di noleggio. Acquisiscono i diritti di
E il giovedì proponiamo insieme
ad altri locali di Milano i film in
lingua originale, aprendo a nuove fasce di pubblico. Bisognerebbe prolungare la vita media
di un film, dare maggior respiro
alla programmazione, perché
alcuni titoli hanno una longevità che va testata. In estate le
arene che propongono i film
della passata stagione sono affollatissime e questo dimostra
che a monte si è fatto qualche
errore di valutazione. Al cinema
il passaparola è determinante,
vale più di qualsiasi flano. E per
attivare questi meccanismi è necessario far passare almeno due
week-end. Poi il film deve farsi
da solo, perché è il pubblico a
decretarne il successo.
L’ideale sarebbe poter programmare due o tre titoli al giorno
per fasce di pubblico diverse,
ma bisognerebbe che il noleggio
concedesse nella pratica la multiprogrammazione, perché finora
è rimasta una parola vuota, più
sulla carta che reale. I vantaggi
derivanti dalla digitalizzazione li
ha avuti soltanto il noleggio. La
nostra è una sala digitalizzata
da tre anni con un proiettore 2K,
fruendo di un’agevolazione del
30% a fondo perduto messa a
bando dalla Regione Lombardia.
Ma ad oggi non c’è stato alcun
ritorno dal passaggio al digitale”.
piccoli film che altrimenti non sarebbero mai distribuiti. A questo tipo
di lavoro si potrebbe legare l’attività di mk locale gestita dalla sala.
Noi la facciamo da tempo: oggi si lavora sul web, con i social network
la comunicazione del film è cambiata.
Questa è una fase di transizione, dobbiamo darci del tempo per
sperimentare e definire le politiche future, anche correndo qualche
rischio. Vedo quello che fanno in altre parti d’Europa, dove nell’arco
della giornata si programmano minimo tre film, dando spazio anche
al cinema indie e ai nuovi autori. Lo Zenith ha un suo pubblico
definito, disposto ad andare al cinema anche due o tre volte alla
settimana, se l’offerta esiste. Per me la varietà della programmazione
è un arricchimento. E comunque rendo un servizio alla comunità. Ora
sto provando a fare un ulteriore passo, restando aperto tutto l’anno.
Per creare abitudine al consumo cinematografico anche in estate
bisogna tenere aperte le sale, possibilmente dal mattino alla notte.
Uno sforzo che andrebbe ripagato con una riduzione delle percentuali
di noleggio nella stagione estiva.
Non siamo una sala assistita: fatta eccezione per gli ‘Schermi di
qualità’, non percepiamo alcun finanziamento. Lo trovo un motivo
di orgoglio, in quanto ci consente una grande libertà. Allo Zenith
siamo in tre e tutti fanno tutto. Ma l’atteggiamento di resistenza
non lo condivido, perché ritengo, al contrario, che il nostro sia un
andamento controcorrente. Il mio cinema rappresenta un modello di
imprenditoria che riesce a vivere attraverso la cultura”.
A sinistra in alto: old cinema Manzoni di Trento, oggi biblioteca. A sinistra in basso: l'insegna dell'old cinema Dolomiti, Pinzolo (Trento)
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SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
GEORGETTE RANUCCI
CINEMA ALCAZAR, ROMA
Monosala (210 posti)
“L’Alcazar è stata tra le prime sale ad
offrire spettacoli senza intervallo e in
versione originale. Siamo nati nell’89,
quando i presupposti di mercato erano
completamente differenti perché il numero
di cinema era inferiore, non esistevano
multisale e multiplex, si facevano ancora le
esclusive. E in tanti anni non abbiamo mai
programmato un film commerciale, anzi ne
abbiamo proiettato solo uno: Terminator,
però in versione originale! In quel periodo era
il film che incassava di più, ma da noi è andato
malissimo, non è entrato nessuno. L’identità
è l’unica forza che possano vantare i piccoli
cinema, frequentati da spettatori che sanno
di potersi fidare, perché la programmazione
è all’insegna della qualità. All’Alcazar hanno
visto la luce ‘Cannes a Roma’ e ‘Venezia a
Roma’, il dibattito tra cineasti e pubblico è
sempre stato vivo e da qualche tempo si fa
sempre più strada nella programmazione
il documentario, che ha una sua nicchia di
appassionati; forse non amplissima ma
presente. E in crescita. Quest’anno, poi,
ho fatto un esperimento: ho iniziato con la
Festa del Cinema a 3 euro e l’ho proseguita,
proponendo film che nessuno voleva, come
Bellas Mariposas, che ho programmato
– unica su Roma – per un mese e poi è
passato anche a Milano e in altre città. Una
scommessa vinta.
Fino a 15 anni fa i film venivano selezionati
sulla base della sala, mentre adesso la scelta
ricade sul film spalmato nei diversi cinema,
per cui si tende a privilegiare il quartiere
di riferimento. Trastevere, nonostante le
diverse chiusure (il Garden, che adesso è un
bingo, l’America, la Sala Troisi e il Roma),
è ancora una zona cinematograficamente
fertile, con una connotazione forte sul
cinema d’autore, dal Sacher all’Intrastevere.
Quello che è certo, è che si sopravvive con
difficoltà. Si resiste solo grazie alla passione.
Del resto, Alcazar significa fortezza. Lo
scorso anno ho introdotto il digitale,
tentando di accedere ai contributi della
CE tramite bando Media, ma alla fine non
sono rientrata per numero di film. Una cosa
scontata, trattandosi di una monosala.
L’Alcazar è una struttura completamente
indipendente, direttamente proporzionale
all’età del nostro pubblico, che va morendo.
L’augurio è che il pubblico che si sta
esaurendo abbia messo al mondo figli e
nipoti illuminati. Ma il problema dei giovani
non me lo pongo, perché ho una specie di
barriera nei confronti di spettatori che non
ritengo ancora maturi per un certo tipo di
film, a meno che non li tocchi direttamente.
Bisognerebbe spendere un lungo periodo ad
educare il pubblico, per mantenere in vita
quello che è un bene della città e dei centri
storici. Ma quando si è con l’acqua alla gola
questi ragionamenti non sono possibili. La
mia proposta è che il Comune, la Regione
o istituzioni come il CSC – supportati dalle
scuole e dalle università – prendano a cuore
la situazione di alcune sale, perché questo
significherebbe costruire quel famoso
pubblico del futuro che oggi vedo a rischio”.
In alto: old cinema Iris, all'interno del Casinò municipale, Arco (Trento)
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GIANCARLO CASTELLANO
CINEMA ABC, BARI
Monosala (130 posti)
“L’ABC nasce come sala gestita dall’Agis
di Puglia e Basilicata oltre trent’anni fa e da
allora è rimasta un punto di riferimento
per il cinema di qualità. Siamo i capofila del
Circuito d’Autore gestito dall’Apulia Film
Commission e finanziato dalla Comunità
Europea, e riceviamo sovvenzioni dal Mibact
per la programmazione come sala d’essai.
Se dovessimo vivere dei soli incassi di sala
probabilmente avremmo già chiuso da
tempo, perché l’offerta esclusiva di titoli di
estrema qualità non ci consentirebbe di stare
sul mercato. Organizziamo retrospettive,
eventi, incontri con gli autori, molti dei quali
in collaborazione con la Cineteca di Bologna e
quella lucana. Nel 2012, per fare solo qualche
esempio, si è svolta la seconda rassegna di
cinema israeliano indipendente ‘Cinematov’,
mentre in estate abbiamo programmato ‘Le
vacanze intelligenti’, una selezione di film in
35mm provenienti dalla Cineteca lucana. Il
nostro target di pubblico? Aderendo ai progetti
targati Agiscuola operiamo anche con le
fasce giovanili, ma in massima parte la sala è
frequentata da un pubblico di 40-60enni (circa
30-32 mila spettatori l’anno), più maturo dal
punto di vista culturale oltre che anagrafico. I
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
ragazzi vanno sollecitati, solleticati. Spingendo
sui contenuti, ma anche sui prezzi. Come Agis
regionale proponiamo una carta universitaria
(Showcard) che consente di vedere film a 2,90
euro. Particolarmente innovativa l’idea degli
ultimi mesi di dedicare una speciale scontistica
agli amici di Facebook. Se sono interessati
ad uno specifico titolo, i giovani vengono. Il
consumo di cinema è un’abitudine, se la si
perde abbiamo perso tutti.
Ma l’ABC non è solo un cinema: è anche,
e soprattutto, un Centro di Cultura
Cinematografica. Oggi i locali che si trovano
sopra la sala sono in restauro. Contengono
un archivio con manifesti d’epoca, una
biblioteca specializzata, sceneggiature e
copioni originali, una cineteca con oltre 200
film e una raccolta - probabilmente unica in
Italia e rimasta in ottime condizioni perché in
b/n - di Cinegiornali dal 1975 al 1983. Stiamo
cercando di trovare i fondi per digitalizzarli.
Quando abbiamo fatto la Festa del Cinema
in Puglia li abbiamo proiettati gratuitamente
nelle sale: è stato un grande successo. L’ABC
è il braccio operativo del Centro culturale
cinematografico, è nato con questa mission.
Ora vorremmo valorizzarlo e, soprattutto,
restituirlo al suo pubblico”.
STEFANIA MEDDA
SPAZIO ODISSEA, CAGLIARI
2 sale (da 150 e 50 posti)
“Quando abbiamo cominciato, nel 2001,
qualcosa stava iniziando a cambiare: era l’anno dell’avvio dei multiplex a Cagliari, ben tre
aperture nello stesso periodo. Così abbiamo
assistito alla nascita di un pubblico giovane
che cominciava allora a frequentare strutture
diverse dalla nostra, per identità e programmazione. Un processo che ci ha portato fino
ad oggi alla tendenza sempre più diffusa di
una fuga giovanile dai piccoli cinema di città.
Dal nostro osservatorio la difficoltà dei ragazzi a fruire il film in una sala piccola, e senza
rituali come quello di pop corn e Coca-Cola,
è tangibile: sono spettatori nati dentro al centro commerciale. E questo è un problema
che riguarda tutto il piccolo esercizio che fa
delle precise scelte di qualità. Come attrarre
i giovani? Creando eventi attorno al film, invitando ospiti, inventando ogni volta qualcosa di nuovo. Come la rassegna dei ‘Diritti al
cinema’, un progetto nato in collaborazione
con l’Associazione Magistrati per parlare di
cittadinanza e legalità, o quella su ‘Cinema e
Psichiatria’. Nel 2012 Nanni Moretti è stato
nel nostro cinema tre giorni per gli ‘Assaggi
di Sacher’, senza contare i moltissimi interventi di diversi altri registi. Sono i momenti
che il nostro pubblico ama di più.
Da sempre siamo impegnati nella formazione di una cultura cinematografica, perché gli
spettatori crescono con te. L’Odissea ha un
pubblico specifico che ama le sale come la nostra, dove c’è un contatto umano, si esce dal
cinema e si parla, le dimensioni sono ridotte
e la programmazione ha una connotazione
forte. Normalmente programmiamo film di
prima visione, legati a Circuito Cinema. Tutti i
giorni proponiamo due o tre spettacoli, spesso
a tariffe agevolate perché l’attenzione ai costi è
prioritaria: dal lunedì al giovedì l’ingresso è a 4
euro e con le campagne abbonamenti è possibile acquistare 10 biglietti a 40 euro. Lo scorso anno la domenica abbiamo proposto l’ingresso all’ultimo spettacolo a 3 euro e questo
ha contribuito ad avvicinare alla sala un altro
pubblico. Un altro tentativo è stato di scegliere
un giorno della settimana (il giovedì) per programmare la sera i film in lingua originale con
sottotitoli in italiano, un’iniziativa che ha richiamato tanti giovani. Poi lavoriamo molto con le
scuole di tutte le fasce, anche quella primaria.
Per molti anni abbiamo fatto un percorso di
costruzione di progetti laboratoriali, collaborando con gli addetti ai lavori, allo scopo di
far comprendere ai ragazzi come si costruisce un film, per affascinarli, perché l’altro
grande pericolo è che i giovani si allontanino
dalle sale, abituandosi a vedere il film a casa
sull’iPhone o sull’iPad, isolati. Ora, con il digitale, si aprono nuove possibilità. Entro la
fine dell’anno anche l’Odissea si doterà di
proiettori digitali e questo, forse, allargherà
le prospettive. Però sarà necessario comprenderne le potenzialità e, soprattutto,
tessere nuove relazioni tra le parti”.
Poltrone in cerca di spettatore, old cinema Cinecittà, Levico (Trento)
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SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
LAURA FUMAGALLI
CINEMA ARCADIA, MELZO (MI)
5 sale (1 da 630 posti e 4 da 220)
“Da sempre abbiamo cercato un rapporto
diretto con il pubblico, tra chi gestisce la sala
e chi la frequenta. All’Arcadia il tentativo di
coinvolgere gli spettatori in un’esperienza
cinematografica a tutto tondo è andato oltre
i contenuti, abbracciando la progettazione
architettonica delle sale, il disegno degli
spazi. Un esempio per tutti: le cabine di
regia trasparenti. Un dettaglio all’apparenza
insignificante ma che coinvolge il pubblico
in qualcosa che normalmente gli è precluso,
svelando i meccanismi del cinema. Fin
dall’inizio l’Arcadia ha rappresentato un
esercizio all’avanguardia per tecnologie, un
modo per educare lo spettatore all’evoluzione
tecnica che sottende alla settima arte.
Proiettiamo in digitale dal 2000: in questi
tredici anni abbiamo testato gli aspetti
positivi e quelli negativi di essere pionieri.
Abbiamo cambiato proiettori almeno
quattro volte e siamo stati precursori nella
multiprogrammazione, offrendo contenuti
alternativi già nel 2002. Nel corso degli anni
abbiamo continuato a proporre contenuti
altri, ma sempre nella direzione di eventi in
linea con il nostro target di pubblico.
A ciascuno schermo il suo cinema: l’Energia è
il punto di riferimento per il film spettacolare
e di genere fantascientifico, che esalta le
caratteristiche tecniche della sala, mentre
A destra: old cinema Dante, Pieve di Bono (Trento)
16
le quattro sale gemelle (Aria, Acqua, Terra,
Fuoco) proiettano i principali film in uscita,
con un’attenzione particolare al cinema
d’autore. Tante le rassegne proposte, spesso
in collaborazione con la Cineteca di Milano.
Da quella sui film in 70mm alla retrospettiva
‘Film Legend’ dedicata ai grandi titoli della
storia del cinema rimasterizzati in digitale,
fino all’evento ‘Come siamo messi sulle
regole?’ dello scorso ottobre, rivolto agli
studenti delle scuole superiori e trasmesso in
diretta satellitare alla presenza di Gherardo
Colombo e Claudio Bisio. Un esempio
importante di multiprogrammazione perché
contribuisce nel contempo all’educazione del
pubblico e alla frequentazione delle sale.
Gli spettatori dell’Arcadia non sono quelli dei
multiplex fuori città. Nell’atrio del cinema
c’è una libreria multi tematica, oltre a uno
spazio dedicato all’allestimento di mostre.
L’abbiamo connotato come un luogo dove
poter trascorrere del tempo, offrendo una
serie di stimoli culturali.
I primi anni abbiamo raggiunto picchi di
affluenza di 800mila presenze annuali: era il
periodo del Titanic e all’epoca eravamo l’unica
multisala presente nell’hinterland milanese.
Ora la concorrenza sul territorio è altissima e
le presenze si sono ridimensionate. Facciamo
sforzi quotidiani per far tornare la gente al
cinema. In quest’ottica, l’annosa questione
della programmazione spalmata lungo i 12
mesi è prioritaria, perché è indubbio che in
estate, data la scarsa offerta di film, lavoriamo
pochissimo”.
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
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SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Fino all’ultimo spettacolo
diFranco Marineo
Le storie della chiusura delle sale sono un soggetto che il cinema stesso ha spesso ripreso, sempre con un
tono di nostalgia e quasi come se il momento dell’agonia coronasse il senso più intimo di quel luogo. Da
Vertov a Carax, da Scola a Wenders: viaggio nella mistica del cinematografo.
E
siste una sorta di ossessione distruttiva, quasi obbligatoriamente
malinconica, forse involontariamente nostalgica, nel modo in cui
il cinema ha raccontato e racconta la vita di una sala cinematografica. Quando un film ruota intorno a un cinema, il più
delle volte assistiamo alla rappresentazione
degli ultimi giorni, delle ultime ore di vita di
quel luogo: un canto nostalgico che racconta L’ultimo spettacolo (Bogdanovich, 1971),
la chiusura definitiva (Goodbye Dragon Inn,
Tsai Ming Liang, 2003), la resistenza contro
18
la chiusura di una sala (l’irrisolto Splendor,
1988, di Ettore Scola), la dissoluzione di un
surrogato d’identità legata a un cinema di
provincia (The Majestic, 2001, di Frank Darabont). Come se la vita di un cinema raccontata dentro un film trovasse la propria mistica
solo nella dimensione terminale dell’assenza
di un domani. Come se una sala cinematografica potesse trarre forza iconica, valore
narrativo, dentro l’agonia. Questa tendenza
è certamente legata a quel particolare rapporto con la dimensione del tempo che il cinematografo intrattiene sin dal momento in
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
cui è stato inventato: preservare
il tempo, immobilizzare il passato in una dimensione ambrata, protetta, è stato il destino del
cinema nel corso del Novecento.
Così è stato quasi spontaneo che
lo spazio designato di questa liturgia, tempio pagano e ganglio
della socializzazione, venisse
raccontato nel momento del
commiato, come a voler stabilire un ponte tra le immagini che
trattengono ciò che è stato e lo
spazio in cui questo passato è
stato riesumato ciclicamente.
Questo atteggiamento è ancor
più lampante oggi, nel frangente storico in cui le sale chiudono
una dopo l’altra, in cui l’“andare
al cinema” finisce per essere
solo un pezzo di un’esperienza
del consumo che si pratica nei
mall; oggi, nel transito storico in
cui il cinema si consuma ovunque, l’esperienza dello spettatore si riarticola in una serie di
pratiche che possono anche
non contemplare la visione collettiva e condivisa.
Però l’epica dei cinema ha una
sua densità anche fuori dal perimetro funereo delle chiusure: un
vero inno al cinema e alla centralità del luogo-sala sembra essere
L’uomo con la macchina da presa
(1929) di Vertov, uno dei primi
meta-film concettuali che si apre
e si chiude dentro lo spazio di un
cinema che a tratti sembra vivere di vita propria e che si offre
come epicentro della riflessione
vertoviana sulle immagini e sulla
percezione umana. Il passaggio
narrativo ambientato dentro un
cinema si connota per la propria
valenza simbolica ma anche per
il suo offrirsi allo sguardo come
momento di risoluzione del plot
o di inquadramento allegorico:
prendiamo, per esempio, il finale di Il seme della follia (1995) di
John Carpenter, vertiginoso viaggio dentro i territori della metanarrazione che si chiude dentro
un cinema in cui il protagonista
ri-assiste alla propria “avventura” proiettandosi in una zona
incerta tra la mise en abyme e
la risoluzione impossibile di un
plot incentrato sulla paradossale veridicità dei mondi inventati,
anche di quelli più terrorizzanti.
Il cinema funziona come uno
dei varchi di accesso da/a un’altra dimensione anche in Paprika
(2006) di Satoshi Kon, visionario
viaggio animato dentro la presenza dei sogni nel mondo reale:
in questo passaggio fortemente
simbolico, lo spazio del cine-
ma diventa una soglia tra due
mondi, tra due assetti percettivi,
offrendosi come una sorta di attualizzazione di una visione un
po’ romantica e passatista del
luogo buio in cui i sogni possono diventare parte integrante
della realtà. Così come lampante
pare il riferimento con cui si apre
Holy Motors (2012) di Leos Carax, interessantissima riflessione sul gesto del rappresentare e
sull’esplosione di un cinema che
è, letteralmente, ovunque: il film
comincia con un uomo (impersonato dallo stesso regista) che
si ritrova in una stanza da cui
accede a una sala cinematografica in cui gli spettatori dormienti
stanno guardando sullo schermo La folla di King Vidor.
Completamente sganciato dal
tempo, anche questo fuori da
qualsiasi collocazione cronologica e da ogni esigenza simbolica, è il vecchio cinema in cui si
ambienta Serbis (2008) di Brillante Mendoza: un fatiscente
cinema per adulti in cui si snodano le vicende che della famiglia che lì abita e i cui legami si
sbriciolano come la struttura di
questa sala di Angeles City, nelle Filippine, che è anche luogo di
incontro per umanità disparata,
agorà occulta e marginale di un
mondo sommerso e invisibile.
Il cinema diventa sintesi, spazio
agito e vissuto in cui, dal concepimento alla morte, ruotano
le fasi dell’esistenza, in una sovrapposizione tra luogo della vita
e spazio della rappresentazione.
Ma forse il film che lambisce e
tocca con più delicatezza narrativa e senza l’urgenza del simbolo
resta Nel corso del tempo (1976)
di Wim Wenders, un viaggio lungo il confine tra la due Germanie
compiuto da un aspirante suicida e da un riparatore di vecchi
proiettori: senza la retorica e i
moralismi della seconda parte
della sua carriera, Wenders affronta la crisi del cinema senza
trincerarsi dietro inutili nostalgie,
con un trasporto e una partecipazione emotiva rara. Nel corso
del tempo restituisce la densità
materiale del cinema, con un
pellegrinaggio lungo le sale di
provincia che ci fanno sentire il
rumore di un proiettore, le patine
sbrecciate di un muro o di una
poltrona, il buio di un teatro ancora chiuso, l’odore e il peso di
una pellicola.
A sinistra: secondo tempo all'old cinema Cinecittà, Levico (Trento). In questa pagina: le vecchie sedie all’old cinema Rossi, Mentana (Roma) 19
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
A
ll’estero la si applica già da parecchi
anni. In Italia, in un
momento di crisi
generalizzata che
vede progressivamente in calo
il numero di biglietti staccati,
la multiprogrammazione suona
come un invito a sperimentare,
superando le vecchie abitudini,
di pari passo con la selezione
di contenuti nuovi e diversi che
non si limiti soltanto a pellicole di fiction. È notizia recente il
grande successo di One Direction: This is Us 3D, concert-movie di Morgan Spurlock (quello
bravo di Super Size-me e Che
fine ha fatto Osama Bin Laden?) con protagonista la boyband britannica più in voga del
momento. Tema superficiale?
Può darsi: ma intanto, in Italia,
l’incasso del primo week-end di
programmazione è di 1.498.848
euro, con 4.222 di media per copia e primo posto in classifica.
Insomma, la sala, per sopravvivere, ha bisogno di varietà. Se ne
è parlato approfonditamente durante le Giornate Professionali
di Cinema di Riccione, grazie
all’interessante workshop “Spinte e contrappesi della multipro-
grammazione”, che ha analizzato, con uno sguardo a ciò che
avviene all’estero, un modo per
noi italiani relativamente nuovo
di distribuire contenuti in sala,
affidando allo stesso schermo
più contenuti a seconda della fascia oraria. E non si tratta,
appunto, solo di film in prima
visione: ottimi risultati arrivano
anche da riedizioni (come quella di C’era una volta in America,
con l’aggiunta di scene inedite,
o semplicemente riproponendo
classici così come erano, magari
con un master un po’ ripulito,
come nel caso di Ritorno al Fu-
turo), o da contenuti particolari
come proiezioni (in diretta via
satellite o differita) di concerti
e spettacoli teatrali. Secondo
uno studio condotto dal professor Bruno Zambardino de
La Sapienza, almeno in Italia è
la digitalizzazione degli schermi
a fare da spinta propulsiva per
la sperimentazione della multiprogrammazione, dato che
rende estremamente agevole
il cambio di contenuti sul medesimo schermo senza dover
provvedere allo spostamento
fisico delle copie. Naturalmente
molto sta alla capacità strategica
VARIARE IL MENù
PER SOPRAVVIVERE
E SPERIMENTARE
diAndrea Guglielmino
dell’esercente: nel conoscere il suo pubblico e nel saper sfruttare i
momenti migliori per questo genere di esperimenti. “Ad esempio –
spiega – il concerto dei Led Zeppelin o la riprogrammazione di The
Rocky Horror Picture Show negli scorsi mesi hanno offerto buoni introiti soprattutto nei giorni più deboli, il martedì e mercoledì”. “In
verità – specifica Elisabetta Brunella, segretario generale di MEDIA
Salles - in Europa non si tratta di una novità. In Francia e Regno
Unito la multiprogrammazione era già una pratica diffusa prima
dell’arrivo del digitale, anche se naturalmente ora si fa tutto molto
più facilmente e rapidamente. Non parliamo solo di multiplex, ma
anche di strutture monosala, e non solo di mercati enormi. Risultati
interessanti si sono ottenuti ad esempio anche nei Paesi Bassi, in Romania, in Danimarca e in Finlandia. Il Portogallo invece, un po’ come
l’Italia, ha atteso la digitalizzazione per iniziare qualche tentativo. Ma
multiprogrammazione non significa anarchia. L’esercente può scegliere cosa proiettare, su che schermo e a che ora, a quali tariffe, ma
naturalmente a patto che si attenga alle clausole concordate con la
distribuzione. Le possibilità sono svariate e si negoziano al momento del noleggio, adattando e modificando, eventualmente, quando
poi il film entra nella terza o quarta settimana di tenitura. Si può scegliere di programmare un film solo la mattina o la sera, o addirittura
20
a un certo orario di un certo giorno. Nel Regno Unito i cartoon vanno
forte il sabato mattina o nelle proiezioni delle 18, quando i bambini
sono liberi dalle scuole. Altri sono più adatti a un pubblico adulto e
si può scegliere di programmarli solo la sera. Ottimi risultati in questo senso sono stati dati da uno spettacolo organizzato dal British
Museum, proiettato in diretta satellite, che ha portato a un guadagno
complessivo di 420mila sterline in due giorni di programmazione, di
cui uno era mercoledì, in fascia mattiniera”. Anche l’esercente e distributrice finlandese Elise Brandt conferma
che il metodo funziona. Lei arriva a programmare fino a nove film su
uno schermo il medesimo giorno e garantisce sui risultati, “a patto
che tra esercente e distributore viga un assoluto rapporto di fiducia. L’esercente deve sapere che il distributore gli fornirà ogni mezzo necessario per svolgere il lavoro al meglio, e il distributore deve
confidare nell’assoluta capacità dell’esercente di conoscere il proprio
pubblico e sapere cosa funziona e quando”. “Questa fiducia in Italia
in realtà già c’è – commenta Richard Borg, in veste di ad di Universal
Pictures – dato che tutti vogliamo guardare al futuro e sperimentare.
Non si tratta solo di guadagno, ma di contribuire allo sviluppo del
mercato, massimizzando lo sfruttamento dei contenuti che hanno
sbocco e aiutando quelli che invece hanno maggiori problemi”.
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Si può scegliere di
programmare un film
solo la mattina o la sera,
o addirittura a un certo
orario di un certo giorno.
In Francia e Regno Unito
la multiprogrammazione
era già diffusa prima
dell’arrivo del digitale,
anche se naturalmente
ora si fa tutto molto
più facilmente e
rapidamente.
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SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Nell’era del film
on demand,
recuperiamo
le fabbriche dei sogni
diStefano Stefanutto Rosa
In Italia in un decennio hanno chiuso 761 sale.
Il network Old Cinema invita a segnalare il “cinema
perduto” del cuore, a salvarlo dall’oblio su Facebook
con post, clip e immagini. E oltre a registrare il
mutamento con due docufilm sugli schermi chiusi
in Trentino e nella Sabina, il progetto intende anche
riaprire 20 sale, una per regione. “Noi agiamo
per riaffermare il loro valore di bene artistico, ma
anche il nuovo ruolo di incubatori culturali”, spiega
la founder Roberta Bonazza.
22
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
“A
lfio se ne andò al cinema
con un suo compare trovato per caso da quelle parti,
da Gara o al Bar Flamengo.
Al cinema Due Allori. Il pidocchietto. Che c’aveva ancora di qua e di là
dello schermo, il sipario rosso tirato, ridotto
a uno straccio con un palmo di polvere secca.
La platea era fatta di seggiolette di quelle d’una volta, tutte rotte…”. Non solo Pier Paolo
Pasolini, nel romanzo Alì dagli occhi azzurri,
ma anche la regista Lina Wertmüller ci parla
di un "pidocchietto", durante la sua infanzia
romana: “Ce n’era uno che era delizioso, il
Regina, ai piedi dell’Hotel Plaza, adesso è
un magazzino, ma noi ci andavamo sempre.
Quello era il sapore del cinema”.
Gusto del cinema che è andato perso con la
progressiva e inarrestabile scomparsa di sale
cinematografiche in città e paesi. Dal 2001 ai
primi mesi del 2012, in Italia hanno chiuso
761 cinema, per lo più monosala, per un totale di 889 schermi spenti. E le piccole sale
rimaste sono in crisi per la digitalizzazione
obbligatoria dal 2014.
Per avere memoria di quanto accaduto, la fotoreporter Ambra Craighero e la cultural manager Roberta Bonazza si sono impegnate,
come primo momento del progetto Old Cinema da loro fondato, a costruire una mappa
delle sale perdute, ritrovate, trasformate del
nostro paese. E in aiuto di questo network che vede coinvolte istituzioni pubbliche e private, università, aziende, artisti e cittadini - è
partita anche la campagna social che invita a
segnalare il cinema perduto del cuore, a salvarlo dall’oblio su www.facebook.com/oldcinema con post, clip e immagini.
Le due founders hanno cominciato la loro
mappatura del territorio in cui vivono da 280
faldoni conservati nel Museo Storico del Trentino, a Trento, contenenti le licenze di apertura
di cinema trentini dal 1945 al 1987, tra sale “industriali”, parrocchiali, aziendali o estive. Dalle
300 sale trentine nel dopoguerra, si è passati
alle 129 sopravvissute nel 1987, ai 48 cinema,
per un totale di 63 schermi, attivi nel 2012.
Old Cinema vuole così colmare “uno scippo
della memoria”, come lo definisce Roberta
Bonazza, e restituire l’esistente, con dati, testimonianze e immagini. Innanzitutto di “cinema dormienti” cioè che hanno mantenuto
elementi specifici alla funzione di sala da cinema. Poi di “cinema ibridi” che, nello scheletro
architettonico originale sostanzialmente ben
conservato, hanno assunto nuove destinazioni d’uso: magazzini, biblioteche, laboratori,
sale espositive, librerie, ristoranti, abitazioni,
supermercati, sale da gioco. Infine ci sono
i cinema scomparsi, che hanno lasciato una
traccia nella memoria collettiva e che rivivono
Old Cinema
Le fondatrici del progetto Old Cinema sono
Roberta Bonazza - manager dell’arte e della cultura, per la Regione Trentino-Alto Adige
ha creato format e piattaforme di contenuti
culturali - e Ambra Craighero, giornalista e
fotografa, collabora con "Corriere della Sera",
"Sette", "Max", "Glamour", "GQ", "Wired" e
Wired.it, Vanity.it.
Le immagini delle pagine 5, 6, 9, 10, 11, 12, 15,
18, 19 e 22 sono di Ambra Craighero.
Le immagini delle pagine 12, 14, 17 e 22 sono
di Roberta Bonazza.
Per informazioni: Cristina Gattamorta,
responsabile comunicazione Old Cinema,
[email protected]
grazie a testimonianze orali.
Un viaggio on the road lungo un anno, tra
Trento, Arco, Riva, Pieve di Bono, Levico, Mori
e decine di altri paesi e frazioni in provincia di
Trento, ha fatto riaffiorare 35 old cinemas con
foto, testimonianze e il docufilm Alla ricerca
delle sale perdute.
Oltre al documentare il mutamento, Old Cinema intende anche riaprire 20 sale, una per
regione, puntando alla collaborazione del MiBACT, degli enti culturali, delle associazioni di
settore e delle imprese private. “Noi agiamo
per riaffermare il loro valore di bene artistico,
ma anche il nuovo ruolo di incubatori culturali”, spiega ancora Roberta Bonazza.
Un progetto pilota nazionale che può essere
cucito su misura anche per altre regioni e che
è stato presentato alla Mostra di Venezia. Con
mentore Giuseppe Tornatore e testimoni Pupi
Avati, Francesco Rosi, Giuliano Montaldo,
Silvano Agosti, Morando Morandini, Giordano Bruni Guerri e Walter Veltroni, il progetto
Old Cinema ha preso forma concreta con una
serie di eventi, tra il 2012 e il 2013, negli ex cinema Impero, ora sala consiliare, e Iris, ora
Salone delle feste, ad Arco (Trento), due sale
in stile liberty del 1912 e del 1948 che si trovano
ai lati dell’elegante Casinò municipale. In particolare l’ex cinema Impero rivive come “Lab”
permanente di Old Cinema, destinato a studi
e proiezioni a tema. E qui è stato presentato
un assaggio di un nuovo docufilm, dedicato
all’old cinema Rossi di Mentana (Roma) e alle
sale perdute della Sabina. Riaffiora la storia di
vecchi cinema "comunisti" e "fascisti" in competizione, di arene improvvisate in piazza, di
chiese convertite in sale di proiezione.
La visione integrale avverrà in occasione della
prossima riapertura dell’ex cinema Rossi, poi
Roxy, di Mentana, acquistato dal Comune nel
2009 e che entro la primavera prossima potrebbe essere restituito ai cittadini come spazio polivalente.
Forse un’utopia nell’era del cinema on demand? No, una sfida possibile che presto
potrebbe essere vinta anche dall’ex cinema
Orchidea a Milano, dal Vittoriale degli Italiani
a Gardone Riviera e dal Cinema Teatro Città
di Levico.
Nella pagina accanto, in alto: old cinema Odeon, Oporto (Portogallo)
In basso: old cinema Impero, all’interno del Casinò municipale, Arco (Trento)
23
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
Unica certezza:
i pop corn
non fanno
rumore
diValerio Orsolini
È
bene precisare una cosa: il luogo
per godere al meglio della visione
di un film è la sala cinematografica. Come in un tempio, tutto è
ottimizzato al massimo per fruire
l’esperienza: il grande schermo cattura completamente l’attenzione visiva, le sorgenti
sonore sono distribuite strategicamente
nello spazio, l’oscurità della sala si rende
complice, insomma si creano le condizioni
per il processo di liturgia e ritualità conosciuto e rispettato (tranne da quel “cretino”
seduto due file dietro che sgranocchia i pop
corn) da chi si appresta a perdersi dentro
una storia e nel carisma dei suoi interpreti.
Ma il mondo sta cambiando! La rete lo ha rivoluzionato. Magari non tanto nei contenuti,
ma sicuramente nei modi e nelle forme, modificando radicalmente la fruibilità dei prodotti audiovisivi in genere. Ad un certo punto, tra le tante parole nuove che aggiungiamo
al nostro vocabolario, è comparsa la parola
“streaming”. Lo streaming è la fruizione di
un flusso di dati sulla rete, cioè esattamente quello che succede quando guardiamo un
contenuto audiovisivo sul nostro device attraverso il web e così dalla sala cinematografica,
luogo dove ci si reca per vedere il film, si sta
passando alla sala virtuale: è il film, magari an-
24
che un’anteprima, che ci raggiunge a casa. Senza
l’ambiente e la ritualità suddette, ma nella nostra
pigra comodità casalinga, pagando un costo, un
biglietto anch’esso virtuale, quasi sempre inferiore a quello del botteghino. Il portale Mymovies.it
propone questa opportunità già da circa tre anni:
si compra il biglietto e lo streaming avviene in
giorni ed orari prestabiliti, così come al cinema,
ma dallo scorso anno anche la Mostra del Cinema di Venezia si è dotato di una sala virtuale per
le opere in concorso nella sezione Orizzonti e
quest’anno ha ripetuto l’esperienza raddoppiando il numero di utenti. Il direttore Alberto Barbera
ci ha spiegato che, sempre fermo restando il ruolo della sala cinematografica classica, “le abitudini del pubblico stanno cambiando, la maggior
parte delle informazioni sulle nuove produzioni
che riguardano il cinema oggi passa attraverso il
web. Anche la promozione si fa più in rete che
con gli strumenti tradizionali, a parte il fenomeno deprecabile della pirateria, mentre si stanno
moltiplicando le piattaforme che offrono contenuti cinematografici legali e sono in aumento gli
utenti di queste ultime. Che il Festival rimanesse
sordo e cieco di fronte a tutto questo mi sembrava sintomo, quantomeno, di arretratezza”.
La sala virtuale non è certo il punto finale del
processo di cambiamento della fruibilità del prodotto audiovisivo. L’industria cinematografica si
SCENARI // Le sale cinematografiche. Problemi e prospettive
La sala virtuale, naturale nuova frontiera della
fruizione cinematografica al passo con il
web: il parere del direttore della Mostra
del Cinema di Venezia, Alberto
Barbera, pioniere in questo
campo. Ma anche Paolo
Virzì, neo direttore del
Festival di Torino, ha
scelto la "sala 2.0 ".
trova nella stessa situazione in cui si trovò quella
discografica alla comparsa di Napster prima e di
iTunes poi: la musica non è cambiata, ma provate a cercare un negozio di dischi! Con l’avvento
dell’mp3 il “file” ha completamente sostituito
il supporto fisico, seppur digitale come il DVD.
Anche Barbera ritiene che “tutto questo è ancora in cerca di un assestamento definitivo, di un
paradigma di funzionamento che ancora non esiste” e infatti è difficile cogliere la sfumatura tra
sala virtuale e un normale streaming on demand.
La vera differenza consiste nel fatto che la sala
virtuale propone eventi in orari e contenuti non
completamente decisi dall’utente, mentre l’on
demand è, per definizione, a richiesta. La sala
virtuale trova quindi la sua migliore applicazione in occasione di anteprime o eventi particolari,
come appunto i festival. “ Più di due terzi dei film
presenti quest’anno a Orizzonti erano nella sala
virtuale, vuol dire che la maggioranza ormai riconosce nella rete una possibilità concreta a cui accedere. Ci sono solo alcuni problemi da affrontare
e risolvere nei prossimi anni, legati alla gestione
dei diritti e alla compravendita dei film stessi”.
Dalla parte dell’utente la sala virtuale offre la possibilità di assistere ad eventi particolari, magari
fisicamente collocati dall’altra parte del mondo, e
di poter interagire con tutta la platea (virtuale) che
assiste a quello stesso evento in quel momento,
grazie all’interattività peculiarmente offerta dal
web. Magari in futuro sarà possibile partecipare ad un forum con gli autori stessi dell’opera,
prima e dopo la proiezione, oppure “socializzare” parte di questa esperienza interagendo con
gruppi di ascolto o eventi dedicati a fan club.
Il prossimo Festival di Venezia offrirà ancora
la possibilità di accedere alla sala virtuale, ma
non sarà più un’esperienza unica nel panorama
delle manifestazioni italiane legate al cinema. Il
nuovo direttore artistico Paolo Virzì ha dotato
anche il Torino Film Festival, in corso dal 22 al
30 novembre, di una “sala 2.0”. Dopo essersi
registrati si possono scaricare e vedere gratuitamente alcune delle opere in concorso, ma non
più di una al giorno. La platea virtuale, cioè il
massimo numero di spettatori che possono accedere alla visione di ogni film, viene decisa ogni
volta dai produttori e distributori dell’opera, proprio per evitare eventuali problemi di pirateria.
La sala virtuale insomma è una naturale, e ormai inevitabile, tendenza dettata dal progredire
della tecnologia, che però sembra volerci portare sempre di più verso un innaturale isolamento individuale, almeno sul piano fisico. Non è
ancora chiaro se questo sia un bene o un male,
ma almeno "il signore dei pop corn” potrà
mangiare tranquillamente a casa sua, senza disturbare nessuno.
25
COSA MI PIACE
DEL CINEMA ITALIANO
Karel Och
Eva Zaoralová
diRossella Rinaldi
Intervista a Karel Och, direttore
artistico del Karlovy Vary
International Film Festival,
e ad Eva Zaoralová,
consulente artistica.
26
COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO
Q
uest’anno la presenza italiana
al Karlovy Vary è stata corposa,
erano presenti ben 9 titoli
e quasi altrettanti talent: un
anno particolarmente proficuo
per un festival che ha sempre amato il
nostro cinema.
Secondo voi stiamo passando “cinematograficamente” un buon periodo?
KO: Un paese che è capace di produrre
dei capolavori come La grande bellezza e
dei film estremamente coinvolgenti come
L’intervallo o Miele non può non passare
un buon periodo. L’attesissima opera prima
di Emma Dante presentata a Venezia, Alice
Rohrwacher che sta girando il suo nuovo film:
vedo promettente anche il futuro prossimo.
EZ: Ci sono stati nell´ultimo periodo alcune
opere prime particolarmente riuscite e
interessanti, come L´intervallo e Miele.
Aspetto con curiosità il riscontro dell´esordio
cinematografico di Emma Dante a Venezia.
Viva la libertà è stato presentato in concorso
al Karlovy Vary, in anteprima internazionale:
ha riscosso un grande interesse tra i
buyer. Il Festival non ha un vero e proprio
mercato ma la sezione “industry” funziona
benissimo e ci sono molte occasioni di
vendita, soprattutto per il mercato dell’Est
Europa. Cosa può portare ai film italiani la
partecipazione a questo Festival?
KO: Lavorando per il festival di cinema più
importante dell’Europa centrale e dell’Est
stiamo cercando di attirare il maggior
numero di buyer della nostra zona, offrendo
una selezione di film che secondo noi hanno
un buon potenziale per la distribuzione,
senza rinunciare alle qualità artistiche.
EZ: Al Karlovy Vary ci sono ogni anno i
maggiori distributori internazionali, europei
e americani, che arrivano in numero sempre
più consistente: buyer russi, polacchi,
ungheresi, croati, sloveni e, ovviamente,
cechi e slovacchi. Oltre la possibilità di
trovare un distributore ceco o straniero,
la partecipazione al Karlovy Vary può far
conoscere un autore italiano al pubblico
internazionale. Al Festival ci sono moltissimi
giovani e ogni anno è visitato da oltre 125mila
persone, di cui circa 600 giornalisti.
27
COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO
Il “Premio Lux” del Parlamento Europeo,
“Variety”, European Film Promotion: importanti istituzioni internazionali decidono di lanciare i propri progetti al Karlovy
Vary, come mai?
KO: Durante gli ultimi vent’anni il KVIFF
è riuscito a diventare un evento di estesa
visibilità e ultimamente si è concentrato anche
nel favorire gli incontri tra le cinematografie
europee e il mondo del film nordamericano.
EZ: Karlovy Vary è un festival riconosciuto
come uno dei più importanti al mondo. È
nato nel 1946, nello stesso anno di Cannes
e Locarno, ma per motivi politici a partire del
1958 si è alternato con il festival di Mosca,
perciò e arrivato solo quest’anno alla 47ma
edizione. Comunque dal ‘94 ha una cadenza
annuale regolare e grazie alla direzione
in questi ultimi vent´anni ha guadagnato
una posizione di rispetto. Credo sia questa
la motivazione della presenza di queste
importanti istituzioni.
Cosa amate del cinema italiano di oggi?
Quali sono i vostri autori preferiti e in che
direzione sta andando il nostro cinema?
KO: Tra i giovani stimo molto Alice Rohrwacher, Michelangelo Frammartino e Pietro
Marcello. Negli ultimi anni ho provato sensazioni fortissime mentre guardavo film come
La grande bellezza, Reality, Viva la libertà, Mio
fratello è figlio unico, Nuovomondo, La doppia
ora, Tutta colpa di Giuda … L’elenco sarebbe
veramente lungo. Il cinema italiano sta andando in una direzione che personalmente
trovo molto piacevole da seguire.
EZ: I miei autori preferiti restano sempre
Fellini, Antonioni e Visconti, i “grandi” del
cinema italiano. Comunque apprezzo molto
il cinema di Sorrentino, che con la sua imma-
28
ginazione fuori dal comune potrebbe diventare una personalità pari a quella di Fellini. Ma
stimo molto anche i cineasti che seguono le
tendenze del cinema politico, come facevano
Francesco Rosi o Elio Petri. L’anno scorso
abbiamo avuto in concorso Romanzo di una
strage di Marco Tullio Giordana, che ha vinto
il Premio della Giuria. Mi piace anche il cinema di tendenza documentaristica di Giorgio
Diritti.
Frequentate i festival italiani? Quali?
KO: Sono andato a Venezia regolarmente
negli ultimi 10 anni. Ho molto rispetto per il
Festival di Torino e un debole per il Festival
dei Popoli di Firenze.
EZ: Vado a Venezia, ma negli ultimi anni
anche a Roma. Ho partecipato saltuariamente
a Torino, un Festival dove è possibile trovare
molto cinema italiano indipendente. Ogni
tanto visito anche festival minori, come quello
di Bari, che per me è una buona occasione per
conoscere autori italiani più “nascosti”, come
quest’anno Elisa Fuksas.
Italia e Repubblica Ceca: più affinità o
differenze?
KO: Avendo sposato un’italiana posso dire
che è un mix interessante. Comunque i cechi
potrebbero imparare dagli italiani a essere
più spontanei e a sorridere di più, mentre ai
giovani italiani non farebbe male adottare dai
cechi un po’ più di voglia di scoprire il mondo
e imparare le lingue.
EZ: Direi che ci sono affinità su un certo
tipo di commedie: per esempio i film della
commedia all´italiana piacciono a tutte le
generazioni di pubblico, Habemus Papam
di Nanni Moretti è stato un grande successo
l’anno scorso.
Cosa consigliereste ai registi e ai produttori italiani per internazionalizzare il nostro cinema?
KO: Non mi pare che il cinema italiano soffra di un’insufficiente internazionalizzazione.
Mi sento molto fortunato per aver conosciuto
di persona vari produttori e registi italiani. Le
conversazioni con loro sono state una grande
scuola per me.
EZ: È importante parlare della realtà italiana,
non importa se in chiave fiction o documentaristica. Sono questi i film che interessano
il pubblico dei festival internazionali. Invece
non mi sembra giusta la strada di fabbricare
dei prodotti presumibilmente pensati “per un
pubblico internazionale”.
INNOVAZIONI
Low budget/no budget
Il low budget
non ' e di serie B
diAndrea Guglielmino
30
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
Una produzione cinematografica
possibile con poco denaro,
quando non senza fondi, non è
necessariamente sinonimo di bassa
qualità del prodotto. Molti sono i casi
di film che hanno ottenuto grande
successo di pubblico, apprezzamento
e lodi dalla critica, assurgendo allo
status di veri e propri cult.
presunto (come il mockumentary di The Blair
Witch, appunto), che non richiede l’impiego
di grosse troupe o di effetti di post-produzione
invasivi, viene considerato sempre più spesso
un investimento relativamente “sicuro”.
Scorrendo la lista che abbiamo appena tracciato, emerge un dato interessante: si tratta
nella maggior parte dei casi di film che non
solo hanno ottenuto un gran successo di
pubblico, ma sono stati apprezzati e lodati anche dalla critica, generando spesso dei
franchise e assurgendo allo status di veri e
propri cult. Il che significa che, ormai, è forse
superata la concezione per la quale un film
prodotto con budget limitato debba necessariamente essere un film di serie B. Negli Anni
‘30 la categoria dei B-Movie era nata proprio
per contrastare il calo di spettatori nelle sale,
magari invitandoli a una doppia proiezione
pagando il prezzo di un solo biglietto. Nell’Italia di oggi la situazione sembra più radicale:
chi si autoproduce o sceglie la strada dello
zero budget – specie tra i giovani – non lo
T
ecnicamente, il termine “low
budget” non ha connotazioni
qualitative. Si tratta semplicemente di una produzione realizzata con poco denaro, o addirittura senza fondi. A volte sono i registi stessi
ad autofinanziare prodotti limitatamente
costosi al fine di mostrare le loro capacità,
con l’intento di farne veicolo di promozione
o di inserirsi nel circuito dei festival. Ciò che
spesso si dimentica è che low budget è un
concetto relativo: una commedia girata negli
Usa con 20 milioni di dollari può essere considerata di medio budget, ma se invece, con
la stessa cifra, si gira un film d’azione, o di
fantascienza, allora si parlerebbe di low budget considerando quanto di solito gli studios
investono per questi generi.
A volte, è l’idea stessa del plot a essere pen-
sata per poter funzionare con un capitale di
basso profilo. Pensiamo al successo dell’imitatissimo The Blair Witch Project: girato nel
1999 con appena 60mila dollari, ha fruttato al
botteghino 249 milioni, generando libri, una
trilogia di video-game, fumetti e perfino un
sequel, più costoso ma molto meno famoso.
Di altri esempi celebri nel cinema americano
se ne contano parecchi: La notte dei morti viventi, Rocky, Halloween o i più recenti Juno
e Napoleon Dynamite. Quando si scende
sotto i 10.000 dollari si comincia a parlare di
micro-budget: in questo senso, El Mariachi
di Robert Rodriguez, co-produzione MessicoUsa, è forse uno dei casi più lampanti degli
ultimi anni. Certi generi sono considerati low
budget per definizione, magari anche con un
grado eccessivo di generalizzazione: tutto ciò
che ha a che fare con il documentario, vero o
fa per una scelta artistica, difficilmente pensa
che quello sia il suo futuro. Insomma, non
si pensa di produrre a costi bassi seguendo
l'intuizione di uno specifico piano d'investimento. Lo si fa perché, in molti casi, non si
ha altro modo d'esprimersi. Ciò non significa che non si possa fare di necessità virtù:
Fabio Guaglione, sceneggiatore, produttore
e fondatore insieme a Fabio Resinaro della
società Mercurio Domina, che ha realizzato
di recente con budget ristretto il thriller True
Love, lo spiegava in un'intervista che 8 ½ gli
ha dedicato in aprile: low-budget non significa solo fare film con meno soldi, ma concepire idee che, di base, rendano bene se realizzate a basso costo. Un po’ il concetto su cui
Roger Corman in America ha costruito la sua
fortuna. Proprio Corman, in una lezione tenuta un paio d’anni fa al Centro Sperimentale
di Cinematografia di Roma, proponeva agli
studenti italiani soluzioni interessanti: “Suggerisco ai giovani cineasti di associarsi in
cooperative investendo ciascuno una piccola
somma di denaro”. Lui, del resto, è diventato
famoso proprio per la sua “factory”, che dagli
Anni ‘70 agli ‘80 produceva una media impressionante di pellicole l’anno.
Fatto sta che produrre con costi limitati nel
nostro paese è normalità per moltissimi autori. Et in terra pax di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è costato circa 100mila euro.
Fin qui tutto bene, di cui Roan Johnson sta
completando la lavorazione, ne costa circa
200mila. Costanza Quatriglio, per il suo
Con il fiato sospeso, autofinanziato con circa
30mila euro (per 35 minuti di film), è riuscita
a coinvolgere Alba Rohrwacher, uno dei volti
più noti del cinema italiano di oggi. In questo
caso, come nella migliore delle ipotesi possibili, il limite di budget rappresenta non una
diminuzione di possibilità ma uno stimolo a
sperimentare forme nuove di comunicazione, sospese tra la fiction e il documentario.
31
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
Perche’ in Italia
l’autarchico
non funziona?
diCorrado Adamo
Q
uattro anni fa nelle sale cinematografiche italiane veniva proiettato un horror
americano poco più che amatoriale, con un budget stimato di circa quindicimila dollari, intitolato Paranormal Activity. Distribuito in tutto il mondo, il film
scalava a sorpresa il box office arrivando a incassare qualcosa come 163 milioni
di dollari.
Un discorso molto simile vale anche per altre pellicole, realizzate in maniera totalmente indipendente e “a costo zero”, diventate se non grossi casi commerciali (oltre al suddetto Paranormal Activity va ricordato almeno anche il caso di The Blair Witch Project) per lo meno film
cult, che tutt’oggi vengono ancora fruiti e ammirati da schiere di fan: parliamo di lavori come
Clerks (Kevin Smith, 27mila dollari, incasso 3milioni), El Mariachi (Robert Rodriguez, 15.000
dollari, incasso 2 milioni) o Pink Flamingos (John Waters, 12.000 dollari, incasso 7 milioni).
Stiamo ovviamente parlando di film che, realizzati produttivamente in modo indipendente,
hanno poi trovato l’appoggio di case di produzione affermate che hanno contribuito a finanziare le spese di marketing necessarie per diffondere capillarmente le pellicole nelle sale.
La cosa più significativa è che queste compagnie hanno avuto interesse per questo tipo di
prodotto. Ci hanno creduto, hanno investito e hanno rischiato. Paranormal Activity senza
Spielberg alle spalle probabilmente non sarebbe uscito dai confini americani.
32
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
E in Italia? I motivi principali per cui i
film di questo tipo realizzati nel nostro paese non hanno né successo né distribuzione
sono essenzialmente due.
Il primo è che in Italia non sono mai stati realizzati film no budget con un “appeal” tale
da meritarsi almeno un interesse specifico
da parte di un eventuale produttore curioso
e desideroso di sperimentare. Le storie che
vengono raccontate, il modo in cui vengono
raccontate, e le strategie di marketing adottate sembrano non avere alcuna presa sul pubblico, nemmeno su quello italiano.
trovano. Non moltissimi, ovviamente, ma ce
ne sono.
All’estero la situazione è diversa in quanto
prima di tutto c’è una tradizione più forte
verso questo tipo di film, basti pensare a
case di produzione come la Troma, che da
quarant’anni fa circolare film di exploitation e
horror demenziali spesso semi amatoriali, o
la American International Pictures (poi New
World) di Roger Corman, che girava film uno
dopo l’altro utilizzando le stesse scenografie
ed attrezzature per ottimizzare le risorse e
ridurre i costi.
Il secondo motivo è che non ci sono da noi
veri imprenditori del cinema, né distributori
interessati a innovare, disposti a rischiare
discrete somme per finanziare la diffusione
di questo tipo di pellicole: l’italiano medio è
attaccato a ciò che gli è familiare, ha paura
di tentare strade diverse e preferisce andare
a vedere film che abbiano per lo meno attori
conosciuti, di cui ha visto il trailer in televisione o letto la recensione.
ll punto è che anche in Italia a volte si viene a
sapere di esperienze analoghe, solo che ad interessarsi al fenomeno sono davvero in pochi
e gli stessi media non amano occuparsene.
Difficile poi trovare siti e riviste cinematografiche che trattino, se non sporadicamente, il caso
del cinema no budget italiano, come se in Italia
di film a costo zero non ne venissero prodotti.
Perché all’estero, invece, molti di questi piccoli film vengono distribuiti in DVD con un
buon riscontro di pubblico. Uno è il film di
Gabriele Albanesi, Il Bosco fuori (2005), con
un budget di 45.000 euro: il film in Italia
venne proiettato solo in una sala a Roma e
poi uscì direttamente in DVD, mentre faceva il giro del mondo vincendo diversi premi
(Buenos Aires Rojo Sangre e Philadelphia
Eppure se si va a cercare tra blog, portali dedicati al cinema indipendente e di genere, o
in quelli delle gazzette locali, di film realizzati
con mezzi esigui e tanta buona volontà se ne
Da noi il “genere no budget” più esportato
è l’horror. Si può dire grosso modo che ogni
anno gli horror no budget italiani siano una
ventina, molti dei quali tuttavia sono condannati all’invisibilità. In Italia.
Film Festival) ed era nella top ten giapponese dei DVD più venduti; proprio per questo
motivo venne notato da Sam Raimi, che lo
distribuì attraverso la sua, all’epoca neonata, Ghost House.
Un altro caso piuttosto interessante è quello
di Lidris Cuadrade di Tre (Lorenzo Bianchini,
2001), che aveva addirittura un budget di soli
350 euro (senza contare l’attrezzatura presa
in prestito dall’Università di Udine): è riuscito
ad andare nelle sale udinesi battendo addirittura gli incassi di Il favoloso mondo di Amélie,
per poi venire distribuito in DVD solo cinque anni dopo, ma sempre con un discreto
riscontro di pubblico (quasi 2.000 copie nei
primi sei mesi).
Il cinema no budget resta comunque un’ottima palestra per i giovani autori ed è stato
fondamentale per diversi registi oggi affermati, da Nanni Moretti a Eros Puglielli. È bene
ricordare che proprio il primo film di Moretti,
Io sono un Autarchico (1976), può essere considerato il caso più eclatante di film no budget ad avere in un certo modo “sfondato”, divenendo il trampolino di lancio per la carriera
del regista: con i suoi scarsi quattro milioni
di lire dell’epoca (circa 20.000 euro di oggi),
il film è divenuto un cult, proiettato e amato
non solo in Italia ma anche a Berlino, a Parigi
e in tutta Europa. Il problema è capire cosa il
cinema no budget può raccontare oggi, andando a riempire spazi su cui le grandi produzioni italiane ormai non si muovono più.
33
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
diNicole Bianchi
34
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
I
l cinema italiano quando si parla di
regione Trentino-Alto Adige sembra godere di un impeccabile stato
di salute: viene spontaneo pensare
alla sua Film Commission, indubbiamente una delle più benestanti e dinamiche del panorama nazionale, cosa
che induce a considerare questo territorio come una chimera nordica capace di
rendere ancora possibile l’avverarsi del
sogno del cinema. Forse anche per il drastico e inversamente proporzionale approccio all’economia e per la comunanza
di luogo, il Trentino appunto, riluce ancor
di più l’esperienza di cinemaZERO. Un
concorso rigorosamente per produzioni
no-budget e opere esclusivamente autoprodotte dove il concetto di autonomia
assoluta è la parola chiave per essere parte integrante di un progetto che non ha
a che fare con il denaro ma con il solo
valore dell’impegno, umano e professionale. Un progetto, dunque, capace di
scomporre e/o rafforzare certe convinzioni popolari (che come tali, si sa, han
sempre un fondo di verità): “il tempo è
denaro”? Si certo, quello mancante, per
via dello stato generale di crisi, e allora
“mater artium necessitas” ovvero “fare
di necessità, virtù”.
cinemaZERO - 4 /6 dicembre - che spegne a Trento le sue prime sei candeline
e che con orgoglio può sfoggiare anche
“altri numeri” oltre lo zero - 200 opere in
concorso e 150 autori nell’edizione 2012
- è l’altro volto del rapporto del cinema
con la regione Trentino-Alto Adige. Infatti, abbracciando la filosofia del poter
fare cinema senza forme di dipendenza
produttiva - tendenza in dichiarata oppo-
sizione con la prassi industriale e commerciale che del cinema è parte fondante
- l’autore, nella propria declinazione di
essere artigiano della creatività, maestro
del produrre con il solo uso di mezzi di
base (telecamere digitali non professionali, macchine fotografiche, webcam, telefoni cellulari), è il cuore dell’opera.
cinemaZERO, che quasi per non venire
meno alla propria identità quest’anno
è possibile solo per l’enorme sforzo di
tutte le persone e le forze a disposizione, perché la crisi ha segnato lo zero
anche per l’organizzazione il Funanbolo, si distingue non solo per l’onorevole
impegno, per altro di molti e trasversale ad ogni settore socio-produttivo,
ma come reale “scopritore di talenti”:
esplora le più importanti produzioni
autonome del cinema contemporaneo,
cinemaZERO di Trento, un festival in sintonia con la faticosa
situazione produttiva generale che detta una radicale riduzione
di costi: no-budget e autoproduzione sono le caratteristiche
imprescindibili per essere parte di questo progetto che annovera
tra le sue presenze alcune delle personalità più interessanti del
nostro cinema, tra cui Pippo Delbono, Daniele Gaglianone, Davide
Manuli, Pietro Marcello, Alina Marazzi e Cosimo Terlizzi.
rinnova un concorso che permette a tutti gli autori di partecipare rispondendo
esclusivamente a condizioni che siano
di “very low/no budget” e offre uno spazio disponibile alla sperimentazione e
all’incontro fra creatori di immagini che
condividono una visione non preconfezionata del proprio mestiere.
L’omogeneità del Festival cinemaZERO
non è coerente soltanto per l’aspetto
strettamente creativo e della produzione,
ma anche nelle modalità di promozione
e comunicazione del progetto. Il Festival,
infatti, viene promosso tramite un bando
nazionale diffuso a inizio ottobre con un
comunicato stampa indirizzato alle testate giornalistiche ma non meno tramite
lo sfruttamento di canali più contemporanei: siti, blog e riviste dedicate, infine
attraverso la mailing list. Nel mese di novembre poi viene presentato alla stampa
con locandine e volantini, facendo promozione su testate giornalistiche locali,
ma moltissimo anche sul sito, oltre che
sull’account Facebook dedicato, attraver-
so l'acquisto di banner e la comunicazione diretta con i 2.000 contatti della sua
list. Lo “zero” che è sinonimo di minimo
sovverte qui il proprio valore, ricordando anche come autori della levatura di
Lynch o Herzog abbiano dichiaratamente preso in considerazione, nonostante
avessero a disposizione l’opportunità di
accedere a grandi produzioni, le possibilità concrete della tecnologia digitale,
indubbiamente capaci di far scendere
costi di produzione e distribuzione: senza però necessariamente patire di esterofilia, come purtroppo spesso accade,
e dunque celebrare solo grandi maestri
stranieri, come se fossero i soli capaci
di una visione a lungo raggio ed ampio
respiro, cinemaZERO annovera tra le sue
presenze alcune delle personalità più interessanti del nostro cinema, tra cui Pippo Delbono, Daniele Gaglianone, Davide
Manuli, Pietro Marcello, Alina Marazzi e
Cosimo Terlizzi.
www.festivalcinemazero.it
35
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
7 INTERVISTE
ad autori "a costo zero":
Alessio Fava,
Andrea Caccia,
Stefano Bessoni,
Davide Manuli,
William Carrer,
Massimo D'Anolfi e Martina Parenti,
Massimiliano Verdesca
Alessio Fava e l’esperienza
di Biennale College
diMarilena Vinci
L'
opera prima di Alessio Fava, Yuri Esposito, realizzata con 150mila euro conferiti da Biennale
College grazie al contributo di Gucci e MiBAC
dopo la vittoria di un bando internazionale, ha
ottenuto ottimi consensi a livello internazionale, con citazioni sul “New York Times” e sul “San Francisco Chronicle”.
Quali sono le difficoltà maggiori del fare un film con pochi soldi?
Più che le difficoltà oggettive sono state quelle legate al
tempo. Abbiamo girato in tre settimane, senza la possibilità di straordinari. Ti mette alla prova, devi avere idee
molto chiare perché sul set non c'è la possibilità di prendersi un’ora per pensare. Un budget così deve presupporre una preparazione perfetta, un imprevisto diventa
un grande problema. Il low budget in se non è un problema, deve soltanto trovare il modo di essere visibile.
Quindi la difficoltà sta nella distribuzione?
Dipende. Il mio film per esempio ha ottenuto un’accoglienza entusiastica a livello internazionale ma non ha
ancora una distribuzione italiana. Mi ha contattato una
società francese che forse lo distribuirà a livello mondiale.
36
Il problema è che magari non c'è un attore famoso che
recita oppure che nel nostro paese non c'è un mercato di
cinema indipendente come in Francia o in America.
Per quanto riguarda la realizzazione invece come se
l'è cavata?
Sono stato fortunato. La Post Atomic di Milano ci ha aiutato nella post-produzione, poi il cast è stato pagato con
contributi al minimo sindacale. Lo scenografo ha fatto un
buon lavoro, si è fatto prestare del materiale, e il direttore
della fotografia ha economizzato sfruttando molto la luce
naturale. È un lavoro che coinvolge tutti e per cui si deve
essere disposti a lavorare il triplo alla metà dei soldi.
Pensa che il suo prossimo film sarà di nuovo un low
budget?
Io scrivo delle storie, le presento a un produttore e si cerca
di capire quanto costerà. La cosa che m'interessa è fare un
altro film, non importa con che tipo di budget.
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
Andrea Caccia
e il crowdfunding:
sulle montagne russe
con Bugo
diAng
A
ndrea Caccia è un esperto di low-budget, come
ha dimostrato con Vedozero, nel 2009, e con La
vita al tempo della morte,
nel 2010. Adesso è alle prese con la
sua opera più difficile, in termini produttivi. Si tratta di un docu-film, Ora
respiro, basato sulla vita e sulla carriera di Bugo, uno dei più inafferrabili e
originali musicisti degli anni 2000.
I soldi non ci sono e così si ricorre al
crowdfunding, grazie alla piattaforma
Musicraiser (www.musicraiser.com).
La campagna è partita il 9 settembre,
ma al momento della nostra intervista,
17 settembre, i grossi risultati tardano
ad arrivare.
Innanzitutto, ci parli del progetto,
come nasce e perché ha scelto Bugo
come protagonista?
Lo conosco da molto tempo. Suonavo anch’io e frequentavamo gli stessi
ambienti. Un giorno mi mandò il suo
cd d’esordio, mi resi subito conto che
aveva fatto molta strada. Mi è sempre
piaciuto il rockumentary, così ho iniziato a seguirlo e la frequentazione si
è incrementata quando si è trasferito
vicino casa mia.
Ha provato a proporre il progetto a
qualche produttore?
Ho provato timidamente con la Universal, per sondare il terreno, ma le
vendite di Bugo non sono considerate
abbastanza forti. Allora ho chiamato
in causa direttamente i fan. Da anni
studio il crowdfunding che in America
funziona già da un po’: ho pensato che
questo progetto potesse essere l’ideale
per testare il sistema in Italia. È l’unico
modo in cui il film può vedere la luce.
Se i soldi non arrivano, non si fa. La
fan-base c’è: Bugo ha 26mila fan su facebook e 12mila su twitter.
E come sta andando?
Onestamente, mi aspettavo di più, o
almeno una risposta più celere. Siamo a 1.500 euro quindi molto lontani
dall’obiettivo finale. Non sono così ingenuo da pensare che tutti i fan contribuiscano, ma soprattutto mi sono
reso conto che c’è una diffidenza generalizzata dovuta alla scarsa conoscenza
del mezzo. La cosa più difficile da far
capire è che non si tratta solo di una
donazione benefica e misericordiosa,
è un investimento che consente la realizzazione di un film in cambio di una
ricompensa: chi partecipa sarà nei titoli
di testa e canterà con Bugo. Ma purtroppo la risposta, per ora, è stata tiepida. I fan sono disorientati. Gli pare alta
la cifra di 20.000 euro, non sanno che
è appena ciò che ci vuole per un lavoro
di questo tipo. Un giorno arrivano 600
euro e ti sembra che vada tutto bene,
quello dopo ne arrivano 15. Sembra di
essere sulle montagne russe. Speriamo
di non scendere vomitando.
37
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
Stefano Bessoni,
dal basso all’alto
diM.V.
S
tefano Bessoni ha lavorato low
budget per Krokodyle, mentre
Imago Mortis è costato 3,2 milioni di euro: esce ora in libreria
con il corto I canti della forca, parzialmente realizzato a passo-uno, costato
40mila euro e ispirato alle poesie di Christian Morgenstern.
Ha lavorato con produzioni sia ad alto
che a basso budget: per lei quest'ultimo
è una scelta?
Mi piacerebbe poterlo dire, in realtà è una
necessità perché nessuno mi mette in
mano dei soldi per fare un film. Naturalmente ci sono dei vantaggi: c'è più libertà.
Fai quello che ti pare anche se non è del
tutto vero, dato che devi auto limitarti in
virtù di un basso budget. Ci sono problemi
in entrambi i casi, quello del budget alto è
dover avere a che fare con persone che devono semplicemente vendere un prodotto
e ti dicono “si fa così e basta”, spesso andando contro la stessa commercialità del
prodotto. Arriva una persona che ti dice
che facendo in un certo modo il film venderà e spesso nemmeno è vero. Però il regista
non può fare nulla perché da contratto non
ha il final cut e quindi si ritrova con prodotti
ibridi e imbastarditi.
Come inizia a lavorare ad un prodotto low
budget da indipendente?
Prima di tutto parto con un sondaggio dei
vari reparti in causa e chiedo dei fondi.
Generalmente le varie figure chiave della
realizzazione decidono di investire su loro
stessi e diventano anche produttori della
parte che li riguarda. Io, come regista e produttore, pago le spese vive sul set.
Quali sono le difficoltà maggiori che incontra lavorando con un low budget?
Mantenere una troupe compatta e coesa
per un periodo relativamente lungo, perché
potendo offrire solo rimborsi spesa e compartecipazioni è chiaro che quando le persone trovano un altro lavoro ti mollano. Poi
ci sono i bollini Siae, la post-produzione.
Sono dei costi che gravano completamente
su chi lavora da indipendente. Se ci fossero
agevolazioni da questo punto di vista, forse
si riuscirebbe a lavorare meglio anche con
un basso budget.
La leggenda
di Davide Manuli
diM.V.
D
avide Manuli ha realizzato
Beket a no budget e il successivo La leggenda di Kaspar
Hauser con basso budget.
Quali sono le principali difficoltà di girare un film con pochi soldi?
La storia va scritta per il low-budget.
Quando si mette una storia nero su bianco si diventa sia regista che produttore
perché si pensa: “questo costa? Allora
non lo metto”. Bisogna essere in pochi
e girare nel minimo tempo possibile, 10
persone e al massimo 2 settimane.
Come si mette in piedi un film no budget?
38
La cosa fondamentale è il rapporto con il
produttore esecutivo. Non è consigliabile
affidarsi ad un esecutivo su commissione.
Il no budget richiede conoscenza, sacrificio, eccezioni, va discusso e organizzato
mille volte di più. Quando si gira 10 giorni
se si perde un’ora di riprese è un incubo, se
arriva una pioggia salta tutto.
Qual è la cosa su cui è più “facile” poter
tagliare?
Il cachet di regista, sceneggiatori e attori,
poi vanno molto ridimensionati tutti i reparti che devono essere comunque pagati.
Se regista e sceneggiatore coincidono si
paga una sola volta. Gli attori si prestano di più: per un buon progetto sono ben
disposti a fare salti mortali. Un film non
è mai davvero a zero costo perché il cinema è in assoluto la macchina più cara di
tutti i mezzi di espressione, perciò quando si parla di no budget ci si dimentica
sempre che è una mazzata a livello di
spese, anche se fatto con pochi soldi. Un
lungometraggio a 10, 30 o 50mila euro è
considerato un no budget. I low budget
sono cifre un po’ più alte, si parla di circa
200mila euro.
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
William Carrer:
“Venezia Impossibile grazie
al social network”
diAng
V
enezia Impossibile di William
Carrer, presentato al Venice Film Market, immagina
come sarebbe stata la città
lagunare se Napoleone non
l’avesse conquistata nel 1979, con un canovaccio noir-surreale che ricorda il concetto fumettistico di “What If?”.
Come nasce l’idea?
Da un romanzo omonimo di Marco Toso
Borella. Inizialmente volevo trarne un cortometraggio. Poi si sono sviluppati i social
network, che ci hanno permesso di mettere su un gruppo di 200 persone appassionate, tutte volontarie, tra professionisti
e semi-professionisti, che hanno messo a
disposizione le attrezzature coprendo anche i costi, i viaggi, il vitto e le altre spese.
Così abbiamo “gonfiato” il film.
Definite voi stessi il progetto “nobudget”. Specifichiamo i termini della
questione…
Non abbiamo chiesto finanziamenti di
alcun tipo né alle istituzioni né ai privati.
Abbiamo coperto le spese in prima linea
io e il mio socio Giulio Pizzato. Abbiamo
messo a disposizione le nostre attrezzature coprendo anche i costi dei materiali
di consumo: sono stati 60 giorni di riprese, più pre-produzione e post-produzione. Alla fine 200mila euro comunque ci
sono voluti.
Puntate a distribuire in sala? Secondo lei
cosa dovrebbe spingere un distributore a
scegliere questo film?
Non vorrei insistere troppo sul no-budget. Per un distributore quel che conta è
il risultato e il film deve essere appetibile.
Pubblico e stampa per ora ci hanno dato
un buon riscontro, è comunque un film
girato da professionisti e non da dilettanti,
con una qualità medio-alta.
Le location sono tutte venete. Siete stati
supportati dalle istituzioni locali?
Le Film Commission Venice e Veneto ci
hanno appoggiato con patrocini, come
del resto l’Assessorato alla Cultura. Il film
è riconosciuto come progetto culturale
quindi non abbiamo avuto problemi a
ottenere i permessi per girare. Anche alla
Mostra del Cinema la Regione ci ha supportati: abbiamo ottenuto una sala extra
perché c’era più gente del previsto. Alcuni
degli interni sono stati girati in importanti
ville storiche del ‘500, fornite direttamente
in via gratuita dai proprietari.
39
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
Massimo D’Anolfi
e Martina Parenti:
“Noi facciamo
tutto da soli”
diM.V.
M
assimo D’Anolfi e Martina
Parenti, coppia sul set e
nella vita, si sono distinti
con il pluripremiato documentario Il castello, sull’aeroporto di Malpensa.
Come producete un film con pochi soldi?
Facciamo tutto da soli: filmiamo, montiamo
e curiamo la fotografia, però ci teniamo a
precisare che da un punto di vista tecnico
e di metodo noi opereremmo così anche se
avessimo più soldi.
Quindi la vostra è una scelta?
Massimo: Il fatto di lavorare in questo modo
e di fare film low budget lo è, quello di farlo
sottopagati no. Siamo anche produttori dei
nostri lavori, non abbiamo bisogno di figure come il produttore esecutivo, l’assistente
alla regia, l’operatore, il montatore o il direttore della fotografia.
Martina: Noi non difendiamo l’idea di low
budget ma la libertà creativa. Se per avere
40
tanti soldi una persona è costretta ad ascoltare tutte le voci che intervengono è meglio
avere un po’ soldi ma più libertà.
Come vi muovete quando decidete di iniziare a lavorare a un film?
Scriviamo un soggetto, lo sottoponiamo a
delle persone che possono darci dei finanziamenti. L’anno scorso per esempio abbiamo vinto il piano Media per lo sviluppo.
Ora stiamo cercando i soldi per il prossimo documentario, Rai Cinema è coinvolta,
proveremo di nuovo col bando Media e col
Ministero, cercheremo degli sponsor e tax
credit. Per l’ultimo film Materia oscura abbiamo vinto 10mila euro per la produzione
con il premio Corso Salani.
Di film low budget si può vivere?
No. I nostri film hanno venduto bene e circolano a livello internazionale ma non è una
situazione ideale e neanche giusta. Ci tocca
stringere i denti. Ci dovrebbe essere un sistema di raccolta fondi più variegato.
INNOVAZIONI // Low budget/no budget
Massimiliano Verdesca:
“Ho convinto
anche Sandra Milo”
diM.V.
M
assimiliano Verdesca con il
visionario Viva Zappatore
mette in scena la parabola
low-budget di un chitarrista metal satanista realmente esistente.
Qual è stata la difficoltà principale nel fare
un film a basso budget?
Più la distribuzione che la realizzazione:
oggi se hai voglia di fare un film riesci a farlo, basta adattarsi ai mezzi che hai. Ma poi
deve avere una vita, bisogna farlo vedere. Se
dovessi fare un altro film penserei prima a
quest’aspetto, dato che fondamentalmente
nel nostro paese non c'è spazio per il cinema indipendente vero e proprio. Con Viva
Zappatore io stesso ho temporeggiato rimandando per anni. Difficoltà pratiche non
ne ho avute. Quello che volevo fare l’ho fatto, anche con pochi soldi. Avevo un circuito
di gente con cui lavoravo da tempo che si è
prestata a collaborare a determinate condizioni. Sono stato fortunato.
La realizzazione low budget è stata una scelta?
No, ma se mi avessero dato 5 milioni sarei
stato più contento.
Qual è il primo costo su cui tagliare in una
produzione con pochi soldi?
Lo stipendio del regista e/o dello sceneg-
giatore, che reinserisci immediatamente nel
budget del film.
E gli attori? Nel suo film c’era anche Sandra
Milo…
Sandra non ha preso quasi una lira, né fatto
capricci da star. Comunque l'importante è
mettere subito in chiaro come stanno le cose
e non millantare per ottenere partecipazioni,
per non trovarsi nella situazione di dover disattendere promesse che non si è in grado di
mantenere.
In fase di scrittura come ci si muove pensando ad un film “povero”?
Noi siamo partiti da un soggetto che avevo
scritto anni fa e ci ha aiutato il fatto che non
richiedesse chissà che tipo di location o avesse esigenze particolari. Comunque abbiamo
lavorato in totale libertà, cosa che credo non
mi ricapiterà mai più e che l’80% delle persone non riesce a fare.
Per il suo prossimo film come pensa di
muoversi?
Ancora non lo so ma spero che me lo produca qualcuno senza dovermi preoccupare
di trovare i soldi.
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INNOVAZIONI // Low budget/no budget
Il prezzo
della paura
diPaolo Pizzato
F
ilm a basso costo, ovvero l’arte
(squisitamente italiana) di arrangiarsi applicata al cinema, in
questo caso all’horror. Questione
intrigante, se si pensa che il cinema italiano, pur senza vantare particolari allori nel genere, ha trovato comunque, grazie
soprattutto all’estro dei suoi protagonisti,
il modo di esprimersi, e in qualche caso di
farsi ricordare. Mestiere, inventiva e creatività sono stati e sono i principali antidoti alla
scarsità di fondi, che hanno caratterizzato il
lavoro di registi, maestranze e attori fin dagli esordi con I vampiri di Riccardo Freda
(1956), che annoverava come direttore della
fotografia e responsabile dei trucchi (termine poi sostituito dal più blasonato “effetti
speciali”, che ha tuttavia il torto di cancellare il romantico richiamo all’artigianalità
proprio del nostro cinema) nientemeno che
Mario Bava, maestro riconosciuto dell’horror italiano. Personalità artistica multiforme,
Bava firmò, all’esordio dietro la macchina
da presa, quello che è considerato un piccolo gioiello di genere, La maschera del demonio (1960), di cui fu anche direttore della
fotografia: la pellicola tra i suoi molti meriti
ebbe quello di fare dell’attrice protagonista,
42
È un rapporto segnato da grande scarsità di mezzi ma compensato
da notevole creatività e indiscutibile talento quello che lega il cinema
italiano al genere horror. Un matrimonio d’amore, e non certo d’interesse,
che malgrado le difficoltà ha saputo dare buoni frutti.
Barbara Steele, qui nei panni di una strega,
un’autentica star del genere. In seguito Bava
sperimentò con successo anche la contaminazione (con la fantascienza in Terrore nello
spazio, fonte d’ispirazione per Alien di Ridley
Scott, e con il thriller in Reazione a catena).
Il 1980 vide, in un’ideale passaggio di testimone, Bava (che morì proprio quell’anno)
curare gli effetti speciali di Inferno di Dario
Argento, a quei tempi autore affermato e
non più alle prese con problemi di budget,
che tuttavia avevano segnato anche i suoi
inizi, come dimostrano le difficoltà incontrate nella realizzazione del suo primo lungometraggio, L’uccello dalle piume di cristallo,
che oltre a sceneggiare e dirigere, non senza
difficoltà dovette anche finanziare. Comunque, fu proprio grazie al successo delle
storie di Argento che il decennio 1980-1990
vide un’eccezionale fioritura di “horror movie”, film che si richiamavano, spesso con
citazioni al limite del plagio, a blockbuster
d’oltreoceano; così, ecco comparire nelle
sale L’ultimo squalo di Enzo G. Castellari
(quasi identico al capolavoro di Spielberg),
Zombi 2 e Zombi 3 diretti da Lucio Fulci, “figliocci” del capolavoro di Romero, e persino
Non aprite quella porta 3, di Fragasso, se-
quel apocrifo della saga di “Faccia di cuoio”
apertasi con il film diretto da Tobe Hooper
nel 1974; tutti lavori realizzati con scarsissimi mezzi e tanta inventiva, zoppicanti certo,
ma a loro modo coraggiosi. In quello stesso
periodo il cinema horror italiano, pur guardando per esigenze di cassetta a Hollywood,
riuscì anche a sviluppare prodotti originali,
scomodi e disturbanti: è il caso del “filone
cannibalesco”, nato nel 1972 con Il paese del
sesso selvaggio di Umberto Lenzi e cresciuto
fino a diventare provocatoria riflessione sulla violenza e sui modi della sua espressione
pubblica con Ruggero Deodato e il suo ferocissimo Cannibal Holocaust. Uno sguardo,
infine, al panorama dei giorni nostri, spesso
nobilitato da produzioni indipendenti come
Il bosco fuori (2006) di Gabriele Albanesi,
realizzato con soli 45.000 euro, o come
quelle del filmaker friuliano Lorenzo Bianchini, raffinato regista e sceneggiatore di inquietanti horror d’atmosfera, che dopo aver
sorpreso pubblico e critica con le sue prime
opere (Radice quadrata di tre, Custodes Bestiae), è tornato a far parlare di sé quest’anno con Oltre il guado, prodotto da Gianluigi
Perrone per Collective Pictures.
INNOVAZIONI 2
Nuove estetiche
del drone
FLY CAM:
QUELL’INVENZIONE
ANNUNCIATA CHE RIVOLUZIONA
IL LINGUAGGIO
diRoberto Provenzano
43
INNOVAZIONI 2// Nuove estetiche del drone
G
li Anni ’30 erano ancora in fasce
e il sonoro era un infante quando Busby Berkeley sorprendeva e
deliziava gli occhi degli spettatori
statunitensi con le sue fantasmagoriche coreografie che, spacciate nella diegesi
dei musical, come allestimenti teatrali filmati
erano invece (e potevano essere solo) frutto di
un uso magistrale delle possibilità spettacolari
del linguaggio cinematografico. Celeberrime
e mitiche sono ancora le immagini in cui fotografando le sue ballerine (e ballerini) in plongée
costruiva corolle di fiori in 42nd Street (1933) o,
ancor più, quelle di Footlight Parade (Viva le donne, 1933) in cui, in collaborazione con la regia di
Lloyd Bacon, utilizza il punto di vista dall’azimut
finanche per “disegnare” corpi antropomorfi
(come l’aquila dello stemma yankee,) e sorprendenti figurazioni astratte degne di Jean Mirò. Da
allora le inquadrature in plongée hanno ispirato i
più grandi registi per la loro capacità descrittiva,
ma soprattutto per la suggestività delle immagini che quel punto di vista dall'azimut permette.
Chi non ricorda, ad esempio, l'inquietudine che
Kubrick riesce a creare nello spettatore in The
Shining con la ripresa dall’azimut che schiaccia
il bambino sul suo triciclo contro il geometrico
carpet dell’Overllook Hotel o quella (in soggettiva di Nicholson) sul modellino del labirinto,
oppure le più divertenti e irriverenti immagini
postmoderne in plongée che costellano la diegesi di molti film dei fratelli Coen (soprattutto,
The Big Lebowski, 1998)? Gli esempi potrebbero
continuare ad libitum, ma qui preme
maggiormente rilevare come queste
immagini in passato richiedessero
una lunga, laboriosa e costosa organizzazione del set, poiché erano realizzabili solo per mezzo di ingombranti
gru che potessero sostenere il peso di
una voluminosa cinepresa 35mm e del
suo operatore o, in esterni, con l’uso
di elicotteri. Oggi, invece, grazie alla
rivoluzione informatica, alla miniaturizzazione di tutti i tipi di attrezzature e ai nuovi
strumenti
di
teleazione (Manovich, 2001), è
tutto molto più
semplice grazie
all’avvento dei
drone.
Infatti
questo tipo di
immagini stanno
invadendo ogni
UNA MACCHINA DA PRESA
VOLANTE DI PICCOLE
DIMENSIONI: UN’OPPORTUNITÀ
PER LE PRODUZIONI A BASSO
COSTO E LA SPERANZA CHE
QUALCHE REGISTA SAPPIA
USARE QUESTO “GINGILLO”
CON LA SAPIENZA ESPRESSIVA
DI KUBRICK O SIA CAPACE DI
EMULARE LE MERAVIGLIE DI
BUSBY BERKELEY.
1 dronewars.net/aboutdrone/
2 www.microdrones.com/index.php
44
INNOVAZIONI 2// Nuove estetiche del drone
aspetto della nostra vita sociale.
“Inventato” per scopi militari il
drone [nome del maschio dell’ape associato agli “Unmanned
Aerial Vehicles” (UAVS)]1 ha subito un processo di miniaturizzazione e i mini drone stanno
trovando inaspettate e sorprendenti applicazioni in tantissimi
aspetti della vita sociale: dalla
sorveglianza di vaste aeree (funzione che esplica, ad esempio,
quasi in qualità di "personaggio"
nel recente romanzo Inferno di
Dan Brown, inseguendo Robert
Langdon nel giardino di Boboli
a Firenze) ai rilievi territoriali per
la ricerca di giacimenti di idrocarburi2 e di incidenti stradali, dalla
sorveglianza e documentazione
edilizia, alla consegna di pizze a
domicilio3 e, ovviamente, anche
nell’universo delle riprese audiovisive, campo in cui potrebbero produrre una vera e propria rivoluzione per il possibile
eccesso di immagini in plongée
che potrebbero invadere i nostri
schermi. Rivoluzione, del resto,
doppiamente “annunciata” poiché - già tre lustri or sono la RAI
aveva sperimentato all'interno
del Teatro Ariston di Sanremo
(e poi riutilizzato negli anni varie
volte) un piccolo aerostato teleguidato che volteggiava mollemente sopra le teste degli spettatori – capaci di fornire suggestive
e inusitate plongée sul palco o
totali della sala molto descrittivi,
considerando che i modellini di
aerei radiocomandati esistevano
già oltre trent’anni fa. Quello che
mancava erano una telecamera di ridottissime dimensioni e di grandi prestazioni sensitometriche e di risoluzione e uno strumento
di teleazione, come il tablet, più affidabile e
più duttile degli antichi radiocomandi. I nostri cieli rischiano quindi di essere presto invasi da piccoli e medio-piccoli “ragni” volanti
telecomandati, chiamati FLY-CAM (o spider-
web è invaso da siti che offrono (e dimostrano su YouTube) modelli di vario prezzo e di varie dimensioni. Si
va da quelli professionali a
sei-otto eliche (con costi
variabili da 23.000 a 32.000
euro5), ai piccoli e agili quadricotteri AR.DRONE 2.0
con videocamera HD, il
cui costo scende fino a 300
euro. Sembra un giocattolo
per gli amatori di aeromodellini, ma si dimostra anche una piccola meraviglia
poiché è facilmente telecomandabile da iPad e iPhone. Una telecamera quindi
alla portata delle borse di
(quasi) chiunque (ma con il
grosso limite di soli 10 minuti di autonomia per ogni
batteria) e che certamente
troverà migliaia di applicazioni nelle produzioni low
cost. In particolare in quelle
concernenti l'universo dello
sport. Ma fra le decine di
migliaia di utilizzatori che
probabilmente nasceranno nel mondo, ci sarà mai
qualche giovane regista di
fiction capace di utilizzare
questo "gingillo" con la sapienza espressiva di Stanley
Kubrick o qualche regista
televisivo capace di emulare
le meraviglie di Busby Berkeley?
cam), che sorvoleranno città, monti, coste
marine e campagne, per offrirci immagini
azimutali (fisse o in movimento) di ogni centimetro quadrato del mondo e di ogni evento. Varie emittenti stanno già abbandonando
in molti casi le costose riprese dagli elicotteri4 e piccoli drone stanno sostituendo i vecchi
aerostati all’interno degli studi televisivi. Il
3 video.repubblica.it/tecno-e-scienze/la-pizza-a-dpmicilio-arriva-con-%20il-drone/130574/129085?ref=HRTESS-19
4 www.cbsnews.com/8301-205_162-57575637/will-tv-news%20-helicopters-be-replaced-by-drones/
5 www.service-drone.com/en-gb/shop/uav
45
Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
LE FRONTIERE DELLA MULTIPROGRAMMAZIONE
La digitalizzazione degli schermi influenza sempre più i modelli di business, modificando progressivamente
il ruolo della sala, soprattutto come luogo fisico di aggregazione e fruizione del prodotto. Il fenomeno
favorisce infatti una maggiore autonomia di gestione del palinsesto quotidiano da parte dell’esercente,
ampliando e diversificando l’offerta della sala grazie ai cosiddetti "contenuti alternativi":
spettacoli live o registrati di eventi musicali, sportivi, teatrali, televisivi e museali.
diIole Maria Giannattasio, Federica D’Urso, Francesca Medolago Albani *
Con la cessazione della proiezione di film in pellicola annunciata per la
fine del 2013, le sale cinematografiche sono chiamate ad adeguare la
propria attrezzatura adottando le nuove tecnologie digitali di proiezione.
Secondo una ricerca di Anem (Associazione nazionale esercenti
multiplex), a giugno 2013 gli schermi digitalizzati in Italia sfioravano il
70% del totale: 2.035 schermi digitali distribuiti in 651 strutture.
Il fenomeno della digitalizzazione degli schermi sta influenzando
in modo sempre più marcato i modelli di business, andando
* Unità di studi congiunta DG Cinema e ANICA
46
progressivamente a modificare il ruolo della sala, non solo come
fase cruciale della filiera tradizionale, ma anche e soprattutto come
luogo fisico di aggregazione e fruizione del prodotto. Il passaggio
al digitale, infatti, abbatte le spese logistiche di stampa, trasporto e
assicurazione delle copie e, grazie alla facilità di gestione del “file”
(sia esso contenuto in una copia fisica digitale o trasmesso tramite
segnale satellitare), favorisce una maggiore autonomia di gestione
del palinsesto quotidiano da parte dell’esercente, ampliando e
diversificando l’offerta della sala.
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
Lug12
Numero schermi digitali
Ago12
Set12
Ott12
Nov12
Percentuale schermi complessivi
Dic12
Gen13
Feb13
Mar13
Apr13
Mag13
1.399
68,7
68,2
1.382
1.348
67,4
66,8
1.323
1.281
65,4
64,2
1.251
1.220
63,1
61,6
1.181
1.159
60,7
60,4
1.138
59,2
57,7
56,6
Giu12
1.100
Mag12
1.057
1.013
Apr12
1.023
986
56.3
54.9
Evoluzione digitalizzazione in Italia Virtual Print FEE
(al 18.06.2013)
Giu13
Penetrazione
Fonte elaborazione su dati RID-Cinetel: indagine “Quale digitalizzazione, quale programmazione” di Bruno Zambardino, per ANEM, realizzata
con il sostegno di DG Cinema-MiBAC.
DALLA DIGITALIZZAZIONE
AI CONTENUTI ALTERNATIVI
La multiprogrammazione è dunque lo strumento attraverso il quale gli esercenti possono innovare la proposta di contenuti adattando i singoli spettacoli a pubblici diversi nelle
varie fasce orarie. Questo processo, già in
atto ma ancora in fase embrionale in Italia, ha
introdotto nuovi prodotti nella sala cinematografica, i cosiddetti “contenuti alternativi”,
ossia spettacoli live o registrati di eventi mu-
sicali, sportivi, teatrali, televisivi, museali, etc.
Lo scorso giugno a Barcellona, in occasione
di CinEurope (convention annuale di UNIC,
International Union of Cinemas), sono stati
presentati dati sulla performance dei contenuti alternativi, risultato di una ricerca realizzata da IHS Screen Digest e The Event
Cinema Association, l’associazione europea
di settore, costituita nel settembre 2012 con
la mission di sostenere e promuovere i contenuti alternativi oltre che raccogliere i dati di
box office. I risultati dello studio indicano che
i contenuti alternativi sono l’unica area in
crescita nell’offerta della sala, che si prevede
possa arrivare a valere 1 miliardo di dollari nel
2020, rappresentando un’importante fonte
di ricavo per i gestori delle sale.
Nella varietà di contenuti proposti in Europa
nel 2012, l’opera lirica è il genere dominante
coprendo di media il 36,7% degli spettacoli,
la danza segue con il 13% mentre la musica
pop realizza l’11,7% e la musica classica il 5%.
47
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
Contenuti alternativi in Italia: 2012 vs. 2011
2800
320
93
28
140
Contenuti alternativi
+115%
2011
1300
Spettatori (.000)
2012
Incasso (.000)
Fonte: indagine “Quale digitalizzazione, quale programmazione” di Bruno Zambardino, per ANEM, realizzata con il sostegno di DG Cinema MiBAC. Elaborazioni su dati Cinetel.
Nota: Cinetel classifica come “eventi” tutti i titoli che non siano film in “uscita classica” e le “uscite tecniche”.
Quote di mercato per generi dei contenuti alternativi, Europa 2012
19%
13%
5%
balletto
musica classica
8%
7%
documentari
opera
musica popolare concerti
11%
teatro
altro
37%
Fonte: elaborazione su dati Screen Digest
48
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
PRIMI TENTATIVI DI CLASSIFICAZIONE
La quota che questo tipo di intrattenimento
andrà progressivamente ad assorbire nell’offerta complessiva della sala rende necessaria
una corretta e condivisa classificazione dei
prodotti, per valutarne i risultati e distinguerli da quelli dei prodotti cinematografici
tradizionali (lungometraggi, cortometraggi,
documentari e film di animazione). L’argomento è attualmente oggetto di confronto
tra gli organi che nei vari paesi europei si occupano di monitorare e analizzare il mercato audiovisivo anche allo scopo di fornire ai
policymaker elementi obiettivi di valutazione
per l’intervento sul settore.
La classificazione proposta dall’associazione
The Event Cinema include i seguenti eventi,
dal vivo o registrati: opera, teatro, balletto,
sport, eventi speciali (es. Olimpiadi), ma anche documentari e film di finzione.
Ciò che distingue queste ultime due categorie dalle uscite tradizionali è in questo caso il
modello di distribuzione. L’“event cinema”,
infatti, ha abitualmente un’uscita in sala molto limitata nel tempo, con una sola proiezione se in diretta o due proiezioni se registrate
e con eventuali ulteriori repliche.
Altre caratteristiche proprie del modello economico di commercializzazione di questa tipologia di prodotto sono gli accordi di vendita
spesso diretti tra il fornitore e l’esercente, che
quindi tendono a superare il ruolo classico
del distributore. Le spese di promozione
sono in genere ridotte e affiancate a strategie
di marketing messe in atto dalla sala stessa
allo scopo di raggiungere un pubblico altamente segmentato, anche in considerazione
del fatto che per questo genere di prodotti il
local marketing è più efficace delle campagne
su base nazionale.
Il fatto che l’associazione The Event Cinema
includa quindi tra i contenuti alternativi alcuni film “tradizionali”, distinguendoli dagli
altri film in uscita basandosi sui modelli di
distribuzione applicati, è un’ulteriore criticità
per una coerente classificazione dei prodotti.
Il tema è evidentemente ancora da chiarire
anche per dare risposta ad altri interrogativi.
Come inquadrare, ad esempio, gli spettacoli
- concerti, lirica, eventi sportivi - intervallati
da interviste, immagini di repertorio, etc., che
prevedono quindi un intervento autoriale che
rende il contributo assimilabile a quello di un
documentario?
Può essere d’aiuto nell’operare una distinzione tra le due tipologie di prodotto l’attribuzione della regia?
In genere, infatti, la regia dei contenuti alternativi è individuata nel regista della trasmissione tecnica e non del lavoro originale.
Questa attribuzione rappresenta una netta
distinzione rispetto al concetto di autorialità
adottato nel cinema tradizionale.
EFFETTI COLLATERALI
MA RIVOLUZIONARI
La riflessione sulla tassonomia, evidentemente tutta in evoluzione e in cerca di sistematizzazione, mette anche in luce alcuni
elementi retrostanti interessanti per la comprensione dei nuovi modelli che l’industria
sta attivando. È chiaro che il rapporto diretto
tra fornitore di contenuti (i.e. produttore) e il
gestore della sala apre scenari critici (rischi e
opportunità) per i soggetti indipendenti o di
minori dimensioni.
In Paesi dove la proprietà delle sale è molto
concentrata e l’esercizio ha capacità di investimento nell’approvvigionamento (scouting
e buying) di contenuti in esclusiva, si può
prevedere che il modello di assenza d’intermediazione avrà sviluppo rapido e metterà
probabilmente in crisi le società di distribuzione indipendenti. Anche in ragione del fatto
che il flusso dei ricavi da sala non è in questo
caso ovviamente soggetto a ripartizione tra
diversi aventi diritto (con ricadute negative
anche per i produttori che si servono abitualmente di quel tipo di distribuzione). Viceversa, si possono aprire nuove strade di uscita
in sala per i produttori indipendenti (di film,
spettacoli, eventi), se in grado di attivare relazioni commerciali dirette con l’esercizio, anche in territori diversi dal proprio di origine.
Nei Paesi, invece, dove la concentrazione
dell’esercizio è elevata, ma la presenza e il
peso di sale indipendenti sono molto rilevanti, si può pensare che, a medio termine,
il mercato si differenzi e si divida in base alle
scelte strategiche sul tipo di prodotto e quindi di pubblico prediletto.
Le dimensioni, come sempre, contano: la
grande distribuzione-produzione internazionale non vedrà messo in crisi il proprio
modello, anche se sta subendo da tempo assestamenti sul piano organizzativo; il grande
esercizio vede aprirsi opportunità inedite di
selezione editoriale e ha tutto da guadagnare
dall’evoluzione dell’offerta; i piccoli e medi,
soprattutto se attivi solo su scala nazionale
(siano essi produttori, distributori o esercenti) vedono profilarsi a breve termine scelte di
posizionamento molto impegnative: generalisti o specialisti? La multiprogrammazione
aiuterà in entrambi i casi, ma solo avendo
costruito un retroterra di conoscenza del
proprio pubblico non ovvio, in Italia in particolare.
49
NUMERI // Il dossier economico di DG Cinema e ANICA
IL CASO ITALIA
La definizione di una metodologia basata su
criteri congrui e condivisi è quindi fondamentale per una corretta analisi del mercato. In
Italia, quando si analizza la produzione nazionale cinematografica, ad esempio, convenzionalmente si circoscrive l’indagine ai film che
hanno ottenuto il nulla osta per la visione in
pubblico rilasciato dal MiBACT. Se da un lato i
contenuti alternativi live trasmessi in sala in diretta non necessitano di nulla osta perché soggetti ad altri vincoli, quelli registrati seguono
invece la stessa procedura dei film tradizionali
e ottengono lo stesso tipo di “visto censura”,
a differenza di quanto accade in Francia, ad
esempio, dove viene rilasciato un visto specifico. L’analisi dei soli visti censura, quindi, non
costituisce uno strumento per individuare i
contenuti alternativi e scorporarli dalla totalità
della produzione cinematografica.
Elementi di discernimento potrebbero essere
derivati dalle metodologie adottate per il rilevamento dei risultati in sala dalle due società
italiane che si occupano di raccolta dei dati di
box office e incassi.
Cinetel, società partecipata da ANICA e
ANEC che raccoglie dati su un vasto campione di sale, attualmente individua i contenuti alternativi in base al modello distributivo
(in genere eventi unici o con ridottissime
50
repliche) e all’impresa di distribuzione. Se
il modello dovesse sensibilmente evolvere,
si immagina un adeguamento conseguente
che sarà interessante osservare. I contenuti
alternativi vengono quindi classificati come
eventi e distinti da quelli classificati come
edizione speciale (film restaurati, director’s
cut, in edizione 3D etc.) o come riedizioni
(film usciti in sala nel passato che vengono
proiettati nell’ambito di rassegne).
SIAE, la Società Italiana degli Autori ed Editori, che tutela il diritto d’autore amministrando la corresponsione agli aventi diritto dei
compensi derivanti dallo sfruttamento delle
opere dell’ingegno, distingue invece i contenuti alternativi dai prodotti cinematografici
tradizionali sulla base del rilascio o meno del
nulla osta per la visione in pubblico. Sono
quindi distinti solo gli eventi trasmessi live
che, come detto precedentemente, non sono
subordinati al “visto censura” del MiBACT,
mentre le repliche registrate hanno lo stesso
status dei film.
DA DOVE (RI)PARTIRE
L’esigenza di individuare un soddisfacente
metodo di classificazione dei contenuti alternativi non riguarda soltanto le mere attività
di studio e analisi del mercato, ma coinvolge
in modo più profondo e strutturale l’intero
settore, a partire dai presupposti stessi su
cui si fondano gli apparati normativi e regolamentari, nel momento in cui definiscono il
perimetro del prodotto cinematografico e di
conseguenza i confini dell’intervento pubblico in materia. La definizione stessa di opera
cinematografica contenuta nel decreto legislativo 28/2004, la cosiddetta Legge Urbani,
ovvero la norma di riferimento del settore,
rischia di non essere più adeguata alla futura
morfologia del settore:
“Ai fini del presente decreto, per film si intende
lo spettacolo realizzato su supporti di qualsiasi
natura, anche digitale, con contenuto narrativo o documentaristico, purché opera dell’ingegno, ai sensi della disciplina del diritto d’autore, destinato al pubblico, prioritariamente
nella sala cinematografica, dal titolare dei
diritti di utilizzazione”. (D. Lgs. n. 28/2004,
Art. 2. Definizioni, comma 1)
Una riflessione su questi temi da parte sia
delle istituzioni pubbliche sia dei soggetti
privati protagonisti dell’industria cinematografica è quindi opportuna e auspicata, oltre
che urgente, alla luce della rapidità con cui
il fenomeno della moltiplicazione dell’offerta
di contenuti per la sala cinematografica sta
pervadendo il mercato, modificando la natura stessa di alcuni segmenti fondamentali
della filiera.
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RICORDI
Fuori dal coro
diGianni Canova
Carlo
Lizzani
S
e ne sono andati a
pochi giorni di distanza. Ma ad unire Carlo Lizzani e
Giuliano Gemma
non c’è solo la singolare
vicinanza della loro morte.
C’è anche e soprattutto il
fatto che tutti e due – nel
panorama complessivo del
cinema italiano – sono stati
soprattutto degli eretici:
entrambi non canonici, non
allineati, non omologati.
Quasi tutti i “coccodrilli”
pubblicati in morte di
Lizzani – a cominciare da
52
quello di Francesco Rosi su
“la Repubblica” del 6 ottobre – lo ricordano come l’ultimo erede del Neorealismo,
dignitoso – lo scrive
Goffredo Fofi su “Il Sole 24
ORE” sempre del 6 ottobre
– nonostante qualche compromesso con l’industria
culturale. Non è vero. Non
è così. Lizzani è stato un
grande – tra l’altro – anche
perché ha capito prima di
tanti altri che con l’industria
culturale era necessario fare
i conti. Perché ha frequentato i generi. Perché si è
RICORDI
Giuliano
Gemma
posto – a differenza di quasi tutta
la generazione neorealista – la
questione del pubblico. Perché si
è reso conto per tempo che non
bastava fare film “sul popolo”,
ma che “al popolo” bisognava
offrire attrezzi per fantasticare,
adeguati alla complessità del nostro tempo. Invece che accodarsi
alla retorica buonista dominante,
Lizzani è sempre stato attratto
dagli outlaw, dai loser, dai banditi. Da quelli che vivono ai bordi,
da quelli che infrangono i protocolli. Quando si è misurato con
la letteratura, ha scelto di farlo
con romanzi poco “politicamente corretti” come La vita agra di
Luciano Bianciardi.
Un po’ come Giuliano Gemma:
attore di grande cultura e sensibilità, ma disposto a giocare fino in
fondo il suo physique du role in-
terpretando gialli, western e film
d’avventura. Tutti e due appartengono alla corrente minoritaria del
cinema italiano: quella che è stata
sconfitta dall’idolatria (e dall’ipertrofia…) del cinema d’autore, dal
disprezzo per i meccanismi dello
spettacolo e dell’entertainment,
dall’astio (spesso pregiudiziale)
nei confronti del cinema americano. Lizzani e Gemma lo amavano, il cinema di Hollywood. E
non temevano di dirlo e di rivendicarlo. Nei quattro anni in cui ha
guidato la Mostra del cinema di
Venezia (dal 1979 al 1982) Lizzani
non è stato un direttore come gli
altri. È stato colui che ha reinventato un’istituzione che tutti
davano per spacciata. E l’ha fatto
aprendo le porte del tempio al
cinema-cinema: a E.T., a Indiana
Jones, a Guerre stellari. Ai critici e
ai soloni della sua generazione,
che lo accusavano di fomentare
e legittimare il “bambinismo
di massa”, Lizzani rispondeva
aprendo il Palazzo del cinema
anche a mezzanotte e facendo
irrompere la notte – per la prima
volta – negli austeri palinsesti
della Mostra.
Se ne sono andati tutti e due in
modo tragico. Diversamente tragico. Ma proprio per questo, con
rispetto e con affetto, bisognerebbe avere il coraggio di ricordarli
per quello che sono stati davvero.
Niente monumenti, niente retorica. Carlo e Giuliano cantavano
fuori dal coro. A noi piace ricordarli così. E siamo quasi certi che
piacerebbe anche a loro.
53
CINEMA ESPANSO
YURI ANCARANI,
“ALTRE” FORME
DI PRODUZIONE SONO
POSSIBILI
diRossella Rinaldi
Y
uri Ancarani come è nata l’idea della
trilogia conclusa con Da Vinci?
È nata per caso con Il capo. Sono
partito dal mio interesse per il
lavoro e per il rapporto uomo/
macchina. Dovevo girare un film industriale,
su una cava di marmo a Carrara: dopo
una serie di sopralluoghi ho conosciuto il
capo cantiere, chiamato da tutti “il capo”.
Mi aveva così catturato che proposi al
54
proprietario della cava di realizzare un film
su di lui. Sono riuscito a trasmettergli il
mio entusiasmo e alla fine ha prodotto lui
il film. Piattaforma Luna è nato in un bar
di periferia, vicino ad un porto. Ho sentito
parlare della vita dei sommozzatori, che
vivono in una camera iperbarica a 200
metri sott’acqua. Da Vinci è un film di
fantascienza, girato al Dipartimento di
chirurgia robotica di Cisanello di Pisa: è un
viaggio all’interno del corpo umano. L’idea è
nata discutendo con un amico medico.
Che tipo di distribuzione è prevista? La
trilogia sarà presentata in un corpus unico?
I tre lavori durano 65 minuti in totale. Hanno
avuto una vicenda produttiva originale: il
primo è stato prodotto dal proprietario della
cava e i successivi da collezionisti del mondo
dell’arte, mio ambiente di formazione. La
CINEMA ESPANSO
Nato a Ravenna, classe 1972,
si forma nella video arte e passa
al cinema nel 2010 con Il capo,
cortometraggio di cinema
industriale scoperto da Marco
Müller e presentato alla Mostra
di Venezia, primo capitolo di
una trilogia che con i successivi
Piattaforma Luna e Da Vinci ha
registrato un fortunato tour nei
festival internazionali.
E trova finanziatori nel mondo
dell’arte contemporanea.
preziosità risiede nella fatica impiegata per
realizzarli: i collezionisti che mi seguono
comprano il film a scatola chiusa, così da
permettermi di produrre il lavoro, possono
entrare a far parte del film, poi ottengono
5 copie in 35mm. I miei lavori vengono
proiettati nelle sale dei musei e nei festival,
dove giungono grazie al passaparola dei
selezionatori. Il capo in questo modo ha
girato più di 150 festival! Non essendoci più
distributori che si occupano di questo tipo
di film in Italia, gestisco autonomamente
la distribuzione dei miei lavori.
Video arte o cinema? Sono due strade
parallele o si possono incrociare?
Definisco i miei lavori immagini in
movimento. Ho studiato video arte
e durante gli studi amavo il cinema
cyber punk Anni ’80-‘90. Prima il ritmo
del video era differente da quello della
narrativa del cinema. Oggi non c’è più
distinzione, entrambi i campi hanno gli
stessi strumenti digitali.
Quali sono i suoi modelli d’ispirazione,
quali autori italiani le piacciono?
Alberto Grifi e Michelangelo Antonioni.
Due sguardi diversi, ma entrambi proiettati
nel futuro. Inoltre Antonioni è di Ferrara e
io di Ravenna, proveniamo dalla stessa
valle e dalla stessa atmosfera. Sono
cresciuto guardando la fabbrica di Deserto
rosso. Era uno sperimentatore che amava
cavalcare la novità. È stato uno dei primi
registi a essere esaltato dalle videocamere,
perché la sua ossessione era il colore, l’idea
di poter intervenire sulle cromie durante la
fase di ripresa. Allo stesso modo potrei
anche parlare delle motivazioni che hanno
spinto Grifi a utilizzare la telecamera al
posto della cinepresa.
I suoi lavori sono stati presentati a Venezia e
a Roma, poi ha ottenuto visibilità e premi nei
maggiori festival internazionali. Ha riscontrato
accoglienza e interesse differenti all’estero?
All’estero hanno un gran desiderio di vedere
cinema italiano, soprattutto negli USA, ma
si lamentano che non arrivano proposte. Io
ci sono arrivato attraverso il passaparola dei
selezionatori dei festival europei e il sostegno che
mi ha dato Marco Müller con il suo staff. Inserire
il “fuori formato” all’interno del Festival, senza
ghettizzarlo nel mondo del cortometraggio di
fiction, è stata una grandissima intuizione e per
me un trampolino di lancio.
Al Festival Visions du Réel di Nyon ha parlato
dei metodi produttivi “alternativi”. Lei è un
unicum nel panorama italiano: completamente
prodotto da privati e da nomi come Maurizio
Cattelan. L’arte produce il cinema?
Ho subito intuito che non volevo aspettare
anni per attendere le prevendite televisive. Ho
trovato entrate diverse. Cattelan ha coprodotto il
mio secondo film, convincendo altri finanziatori
privati. Così sono diventato un filmaker
“normale”: produco un film all’anno, come i
miei colleghi del Nord Europa. A Nyon i relatori
francesi e tedeschi spiegavano come richiedere
i fondi statali: io ho parlato di come produrre un
film senza fondi. E come capita quando passa
la parola all’italiano... tutti ridono! Comunque
ho spiegato come la qualità dei miei film sia
generata anche dalla difficoltà produttiva.
Ha utilizzato un montatore del suono
d’eccezione, Mirco Mencacci: quanto sono
importanti gli aspetti tecnici?
I collaboratori sono importanti, la mia regola è
scegliere l’eccellenza.
Se l’immagine appaga la vista e il cervello,
credo siano le vibrazioni sonore a fare scattare
le emozioni. Mencacci è un grandissimo
tecnico: è stato il mio trait d’union con il
mondo del cinema.
Si cimenterà nel lungometraggio o questo non
rientra nei suoi piani creativi?
Farò un progetto di 60 minuti, di produzione
francese: quello successivo sarà svizzero, ma
non posso dire molto di più. Mi dispiace molto
che non sia il regista a dare la paternità al film,
mi appartiene un forte senso d’italianità.
55
CINEMA ESPANSO
diGianni Canova
55esima esposizione internazionale d’arte di venezia, curata
da massimiliano gioni , è un affascinante tentativo di costruire
la
una cosmologia universale attorno al rapporto fra immagini
interiori e immagini esteriori . peccato che non tenga
sufficientemente conto del contributo che anche il cinema
– soprattutto – continua a dare al tema nevralgico
del nostro rapporto con ciò che non si vede .
ha dato e
I
l 2013, a Venezia, è stato l’anno degli
outsider. Da un lato i freaks, i loser e
i marginali che hanno fatto vincere
il Leone d’oro al film di Gianfranco
Rosi Sacro GRA, dall’altro quelli che
popolano il Palazzo Enciclopedico allestito
da Massimiliano Gioni fra i Giardini e
l’Arsenale per la 55esima Biennale d’Arte.
Singolare coincidenza: quasi rifiutando
simultaneamente ciò che è canone, norma
e metodo, tanto l’arte quanto il cinema
privilegiano ciò che sta ai bordi, ciò che è
appena appena oltre i margini. Inseguono
l’eccentrico. Sono sedotti dall’anomalo.
Così, attorno a una sala che espone Il Libro
56
Rosso di Carl Gustav Jung, e ne fa la matrice
concettuale e ispiratrice di tutta la Mostra,
Gioni raccoglie, colleziona ed esibisce una
sorprendente quantità di opere realizzate,
appunto, da artisti “dilettanti” nel senso
nobile del termine: mistici e folli, sciamani e
visionari, posseduti e profeti, spesso anche
anonimi. E ancora: collezionisti di rarità e
di bizzarrie, feticisti di giocattoli e bambole,
anacoreti dell’object trouvé, fanatici del
bricolage. Passando da una sala all’altra,
si ha un po’ una sensazione analoga a
quella che prova lo spettatore di fronte al
film di Rosi: una successione di mirabilia
teratologiche, di attrazioni antropologiche,
di programmatiche eccentricità. Come se
l’artista – per fare canone, per insediarsi al
centro dell’istituzione, per vincere il Leone
d’oro o per entrare nel Palazzo dell’Arte –
dovesse essere uno stalker dell’anomalia o
un cacciatore di tutto ciò che canonico non è.
Massimiliano
Gioni
scrive
che
il
tema centrale della sua Mostra è “la
rappresentazione
dell’invisibile”,
così
come esso viene “illustrato da pittori e
mistici di inizio Novecento e da giovani
artisti contemporanei”. Ed è proprio questa
dichiarazione programmatica a richiedere
o a suggerire un qualche approfondimento
di ordine – per così dire – teorico. L’idea di
CINEMA ESPANSO
invisibile che guida Gioni nelle sue scelte
curatoriali sembra ancora quella praticata,
perseguita e rappresentata dalle avanguardie
della prima metà del secolo scorso, a
cominciare da dadaisti e surrealisti. C’è l’idea
che l’arte sia la pratica creativa e produttiva
capace di rendere visibile ciò che in genere
non lo è (allucinazioni ipnagogiche, visioni
estatiche, immagini mentali, fantasie…). O di
trasformare in esteriori (cioè visibili da tutti) le
immagini interiori (cioè non visibili nemmeno
dal soggetto che le percepisce) che risiedono
nell’inconscio, e sgorgano da lì. È una visione
nobile e senz’altro suggestiva, ma che non
tiene in alcun conto il contributo dato dalle
immagini filmiche alla rappresentazione
dell’invisibile: il cinema – come sanno bene
sia i cineasti che gli studiosi di filmologia –
ha l’invisibile iscritto nel suo codice genetico.
Lo presuppone. Ne ha bisogno per dar senso
al visibile. Una delle differenze di fondo fra
immagine filmica e immagine pittorica è
che la prima presuppone un fuoricampo,
la seconda no. Mentre l’immagine pittorica
è costitutivamente centripeta, e chiama
l’occhio di chi la guarda su di sé, e su sé solo,
l’immagine filmica è invece notoriamente
centrifuga, rinvia a ciò che sta oltre i suoi
bordi, cioè a ciò che non si vede (ma la cui
esistenza è fondamentale per dar senso
all’immagine stessa). Come dire: solo nella
misura in cui non vedo qualcosa (che pure
c’è, è lì), posso vedere quel qualcos’altro
che è il cinema e sono i film. Peccato che
Gioni abbia sottovalutato la questione. Nel
suo Palazzo Enciclopedico, certo, il cinema
c’è, e non poteva non esserci, a cominciare
dal bellissimo Heaven and Earth Magic
di Harry Smith (che, per inciso, non era
solo un cineasta in bilico fra surrealismo
e psichedelia, ma anche – di nuovo – un
compulsivo collezionatore di aeroplanini di
carta, di tessuti indiani Seminole, di uova di
Pasqua ucraine, e così via): ma i film che Gioni
ha selezionato (ricordiamo anche i lavori di
Tacita Dean e di Melvin Moti) sono lì più
perché rinviano a una visione para-surrealista
dell’invisibile che perché esprimono
l’ontologica necessità del non visibile di
cui il cinema è espressione. Il problema è
che il nostro sistema delle arti continua a
lavorare a compartimenti stagni: i cultori
delle varie discipline non comunicano fra la
loro, non conoscono lo stato di elaborazione
teorica a cui sono arrivate le arti parallele,
o se lo conoscono lo snobbano, ciascuno
preso nel suo tendenziale solipsismo (o
dalla sua ambizione all’autarchia?). Un
discorso analogo si potrebbe fare, è ovvio,
anche per la sordità di tante istituzioni
cinematografiche ad accogliere dentro i
Palazzi del Cinema le elaborazioni dell’arte
contemporanea. O dell’arte tout court. Ma
è proprio questa visione feudale delle arti
(teoricamente, concettualmente feudale)
a frenare lo sviluppo di quelle pratiche di
arte totale e cross-mediale di cui oggi – in
un mondo smarrito e disorientato, ma
ossessionato dall’idea di “rete” – avremmo
tutti tanto bisogno.
57
SPEED DATE
COL PRODUTTORE
CARO PRODUTTORE,
TI SCRIVO
diGianni Canova
Sono arrivati un po’ da tutta Italia i dieci finalisti del
progetto “Speed Date col produttore”. Selezionati
dalle redazioni di 8 ½ e di Cinecittà News fra più di
120 candidati, i dieci finalisti si sono ritrovati al Lido
di Venezia, nello spazio di Istituto Luce Cinecittà,
per presentare il loro progetto ad alcuni dei più
autorevoli produttori italiani.
58
Foto di Futura Tittaferrante
C
'è chi ha immaginato un mondo distopico e l’ha raccontato in un progetto
di film di fantascienza da girare tutto
in un solo ambiente (Laura Tonini, Il
compound) e chi invece ha progettato
una web-serie su bullismo e amicizia ai tempi della
rete (Dario Bonamin e Francesca De Lisi, The Social
Netwar). C’è chi ha proposto un film che ha per protagonista Pier Paolo Pasolini nei giorni dei sopralluoghi lucani per il Vangelo secondo Matteo (Alessandro Rota, Gli angeli di Craco) e chi ha messo a
punto un progetto multimediale a partire da una
lunga ricerca sulle lettere d’amore (Matilde De Feo,
Letter from an Imaginary Man). Sono arrivati un po’
da tutta Italia i dieci finalisti del progetto “Speed
Date col produttore”. Selezionati dalle redazioni di 8
½ e di Cinecittà News fra più di 120 progetti inviati,
il 31 agosto i dieci finalisti si sono ritrovati al Lido di
Venezia, nello spazio di Istituto Luce Cinecittà, per
presentare il loro progetto ad alcuni dei più autorevoli produttori italiani.
All’incontro hanno partecipato Lionello Cerri (Il
comandante e la cicogna, Un giorno devi andare),
Tilde Corsi (Le fate ignoranti, La finestra di fronte),
Gregorio Paonessa (Le quattro volte, Via Castellana
Bandiera) e Luciano Massa (esperto di web-series,
sviluppatore di un progetto cult come Freaks!). Ogni
giovane autore ha avuto 5 minuti a disposizione
per illustrare il proprio progetto ai produttori. Velo-
cità, sintesi, concretezza: tutti i partecipanti hanno
apprezzato il carattere assolutamente innovativo
dell’iniziativa (almeno per l’Italia) e hanno sottolineato come offra un’opportunità ai giovani talenti
che intendono misurarsi con il mondo della produzione audiovisiva. Ogni produttore ha allacciato un
contatto con gli autori dei progetti che ha ritenuto
più interessanti. L’auspicio è che alcuni di questi diventino qualcosa di più che un semplice progetto.
Tutti hanno convenuto sull’opportunità che l’iniziativa venga ripetuta in futuro nella prospettiva di
attivare e rafforzare il processo di rinnovamento del
cinema italiano.
59
SPEED DATE CON IL PRODUTTORE
Ecco le sinossi dei
progetti selezionati,
suddivisi in film
e web-series:
Film
GLI ANGELI DI CRACO
LETTER FROM AN
IMAGINARY MAN
di Alessandro Rota
di Matilde De Feo
“Io sono una forza del Passato. Solo nella
tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi,
dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati…”: questo è lo spunto del soggetto del film, l’introduzione a un famoso componimento di Pier Paolo Pasolini. Attraverso
gli occhi di un gruppo di ragazzi che difendono le proprie origini e la storia dei loro luoghi,
assistiamo all’incedere della nuova società
che distrugge il passato per instaurare solo il
presente. Allora come oggi, solo la sensibilità
di chi capisce il vero valore dei ‘ruderi’ della
memoria potrà dare fondamenta al futuro.
Letter from an imaginary man è un breve
documentario sull’amore: sulle lettere
d’amore. A ciascuno sarà chiesto di leggere
le proprie lettere personali. Un’indagine sui
sentimenti di profonda intimità, che partendo
dalla lettura della scrittura privata precede il
momento dell’intervista. Ma c’è “un voile de
mystère”, l’illusione necessaria di cui parla
Nietzsche a proposito dell’amore e dell’arte,
dell’illusione come bisogno. È tutto un gioco:
mescolare la finzione con la realtà, la letteratura con la vita, per chiederci, come al solito,
se questo amore l’abbiamo vissuto veramente o solamente sognato. Per amare abbiamo
bisogno di oscillare tra realtà e fantasia.
Web – Series
60
THE SOCIAL NETWAR
S I D E R A
di Dario Bonamin e Francesca De Lisi
di A. Marchiori, D. De Bona, P. Tomaselli
Per Irene e Valentina la scuola è una trincea. Il
loro aspetto, una maschiaccio, l’altra sovrappeso, le rende bersagli dei bulli, sia in classe
che in rete, sulle pagine dei social network.
Ma è proprio il web a offrire loro una possibilità di riscatto. Unendo le forze, diventano
abili hacker e prendono d’assalto i profili dei
bulli. Minando le loro identità virtuali. Distruggendo la loro reputazione. Sovvertendo
le regole del combattimento.
Sidera è un progetto di web serie/serie tv
di ambientazione ospedaliero/psichiatrica.
La serie è modulata secondo codici, atmosfere e topòi del genere thriller/horror, pure
filtrati da una sottile sfumatura metafisica e
visionaria. Un percorso di detection che si
snoda attraverso un mondo narrativo sospeso, misterioso e pervaso di distonie e di
ambiguità, perché, come afferma Foucault,
“la psicologia non potrà mai dire la verità
sulla follia, perché è la follia che detiene la
verità della psicologia”. SPEED DATE COL PRODUTTORE
IL COMPOUND
IL MIO ULTIMO TANGO
1972
di Laura Tonini
di Francesco Del Grosso
di R. Putortì, L. Chinaglia, E. Charpentier
Ambientato in un possibile prossimo futuro,
Il Compound narra la vita su Marte di Nina
e degli altri coloni e del reality show che da
Terra ne segue le gesta. Selezionati in base a
delle videocandidature, gli otto pionieri sono
i protagonisti di una delle più importanti missioni scientifiche della storia dell’uomo, ma
non tutto va come dovrebbe. Un misterioso
suicidio innesca una spirale di violenza difficile, forse impossibile, da fermare…
La parabola esistenziale prima che professionale di Maria Schneider, una delle attrici più celebri del panorama internazionale,
la cui immagine è stampata da decenni
nell’immaginario per il ruolo di Jeanne in
Ultimo tango a Parigi, rivive in un ritratto
che ne ripercorre la vita dentro e soprattutto
fuori dai set. Una storia, la sua, che è metafora di una lenta e inesorabile discesa verso
l’abisso della dimenticanza, che passa attraverso successi, eccessi, cadute e risalite,
sino alla tragica scomparsa.
Siamo nel 1972 e Gilberto è un uomo insicuro, ma anche un bravo telecronista
sportivo RAI che aspira a diventare commentatore della nazionale di calcio. Viene
però spedito in Islanda a seguire la partita
di scacchi del secolo tra Spasskji e Fischer,
che durerà un mese, in piena Guerra Fredda. Peccato che degli scacchi Gilberto non
conosca nemmeno le regole. E che debba
anche risolvere la prima crisi con la moglie
Giovanna, rimasta in Italia a scrivere un libro sul periodo delle stragi.
STARTUPPERS
BEST CIAK
VENTICENTO
EXPERIENCE
di Luca Bedini e Gabriele Veronesi
di Eugenia Ricceri
di Matteo Bussoli
Una startup è una giovane azienda che cerca il proprio successo nel mondo del web e
dell’alta innovazione tecnologica.
Nell’Olimpo delle startup ci sono Facebook,
Twitter, Google, aziende che hanno trasformato un’idea in prodotti da miliardi di dollari
e centinaia di milioni di utenti.
Negli ultimi 2-3 anni decine di startup sono
nate anche in italia e sono al centro di un interesse massmediatico sempre più alla ricerca delle storie di “quelli che ce l’hanno fatta”.
Ma dietro ad una startup, alla sua “esplosione” o alla sua più probabile scomparsa, c’è
molto di più: sfide, rischi, fallimenti, delusioni, sogni, fatica, sacrifici personali. Dietro ad
una startup ci sono gli startuppers.
Cantanti, ballerini, cuochi, stilisti, tra i tanti
reality show che hanno conquistato il piccolo
schermo non ce n’è mai stato uno dedicato
al video-making.
Protagonisti, dunque, di Best Ciak dodici aspiranti video maker, che gareggiano per
realizzare i loro desideri, tirando fuori passione, talento e ambizione.
Obiettivo del talent: quello di individuare
nuovi talenti dell’audiovisivo e dar loro la
possibilità di entrare nel mondo delle produzioni cinematografiche e televisive.
Il progetto VENTICENTO EXPERIENCE è un
esperimento corale di digital storytelling volto a raccontare la città di Milano nel momento della sua radicale trasformazione in attesa
di EXPO 2015. L’obbiettivo è quello di raccontare una storia attraverso una rete di rimandi
in continua oscillazione tra diversi media, dal
testo scritto, al video, alla fotografia, alla musica, al web-design. Ognuna di queste forme
comunicative è parte di un processo aperto e
non lineare di narrazione interattiva.
61
DISCUSSIONI
DUE CRITICI DISSEZIONANO
IL NUOVO LIBRO DI MARCO GIUSTI
VEDO... L’AMMAZZO E TORNO
62
DISCUSSIONI
C
onfesso di avere un
rapporto ambivalente con
Marco Giusti. L’uomo mi
è molto simpatico, la sua
opera critica e televisiva
un po’ meno. Difficilmente
sono d’accordo con lui su un
film – almeno, così pensavo –
e in generale non amo quella
cinefilia lievemente trash in
base alla quale Bava è più bravo
di Hitchcock e John Ford è un
vecchio palloso (questo l’ha
detto Quentin Tarantino e forse
Giusti non sarebbe d’accordo,
ma il milieu è quello, la scuola di
pensiero anche). Spero, e credo,
di non essere nemmeno uno
di quei parrucconi con i quali
Giusti spesso polemizza, né un
clone di Nanni Moretti – idoletto
che Giusti ama evocare, sempre
con toni polemici e lievemente
sfottenti – capace di apprezzare
solo i film che escono al Nuovo
Sacher di Roma. Ovviamente
mi piacciono molte cose di
serie B e amo per questioni
anagrafiche il western italiano,
argomento sul quale Marco è
di Alberto Crespi
un’autentica miniera di aneddoti
e informazioni (il suo Dizionario
sul genere è un libro bellissimo).
Ma non condivido l’esaltazione
acritica e “stracultista” di
cose che bruttarelle erano
e
bruttarelle
rimangono.
Aggiungete che non sopporto
il gossip, non leggo le riviste e
i siti ad esso deputati e potete a
questo punto dedurre con quale
atteggiamento mi sia avvicinato
a Vedo… l’ammazzo e torno, che
raccoglie appunto gli scritti di
Giusti per il sito Dagospia (ma
anche altri materiali destinati
al cartaceo, come molti pezzi
per “il manifesto”). Ebbene, la
lettura del libro mi ha sorpreso,
al punto che mi sono trovato a
scorrerlo in modo disordinato
ma compulsivo. Raccoglie
articoli e interventi che partono
dal 16 maggio 2012 (inizio del
Festival di Cannes di quell’anno)
per
arrivare
praticamente
all’oggi. C’è un po’ di tutto, in
ordine cronologico e con una
grave mancanza: un libro del
genere senza indice dei nomi
è quasi un insulto al lettore,
come per altro la copertina, di
rara bruttezza. Ma il sospetto
è proprio che Giusti voglia
farci entrare nel suo caos
tentando di nasconderne le
coordinate, facendoci credere
che stiamo annegando in un
marasma là dove invece c’è un
progetto, un filo rosso quasi
invisibile. E questo filo rosso è
l’enciclopedica preparazione del
suo autore, il suo conoscere il
cinema dalla A alla Z (altro che
serie B!), in una sola parola: la
sua cultura. Il libro – ora Marco
si arrabbierà – trasuda cultura
ad ogni pagina: saranno anche
pezzi scritti al blackberry, come
giura nella prefazione, ma dietro
c’è una sterminata erudizione,
o padroneggiata a memoria o
abilmente evocata da ricerche
in rete computate sul blackberry
medesimo. Insomma, dopo aver
scorso Vedo… l’ammazzo e torno
siamo giunti alla conclusione
che Giusti è un finto stracultista,
come per altro azzarda
genialmente Checco Zalone
nel suo strepitoso “cammeo”
iniziale (“la sua ostentata
romanità da borgataro in realtà
stucchevolmente snob”). Certo,
il committente ha le sue regole
e per catturare in rete il lettore
di Dagospia bisogna scrivere
almeno “cazzo” o “tette” nelle
prime tre righe di ogni pezzo e
Giusti sembra avere un’insana
passione per il vocabolo
“trombare”, usato in maniera
spesso del tutto gratuita. Poi,
però, cita Italo Calvino nella
recensione di Cloud Atlas e
paragona Zero Dark Thirty
della Bigelow a Sentieri selvaggi
di Ford, idea tutt’altro che
peregrina e che vorrei aver
avuto io (e quindi, forse, non è
d’accordo con Tarantino…).
Insomma, Marco, ti abbiamo tanato: sei un critico colto, anche
se non parruccone. E hai capito
prima di molti altri che Grillo
avrebbe sbancato le elezioni (c’è
anche questo nel libro). D’ora
in poi, quando sosterrai che
Ceccherini è un genio, sapremo
che stai scherzando.
63
DISCUSSIONI
di Roberto Silvestri
“I
l cinema è un tumulto di
corpo più che di spirito”.
Appartiene alle forze
mutanti dell’evoluzione
biologica, in questo
senso è arte, in questo senso
è industria, specchio della
vita etc… Al di là del cinefilo
(idealista e inguaribilmente
moderato), al di là del cultore
di film (accademico, anche se
adora Monnezza), c’è dunque
il mangiatore di film, l’ultimo
cannibale a cui è permesso divorar corpi, purché se li ricordi tutti, che dello spettatore primitivo
di 118 anni fa mantiene la meraviglia mascherata di cinismo.
Jerry Lewis ne diede un mirabile ritratto tv, in rotta di
collusione con i quaresimali,
i vigili urbani dello sguardo.
Quando Marco Giusti, il cinefago più fanatico, estremista e antisociale di tutti (visualizzato da
una profezia del maestro Enzo
Ungari in Schermo delle mie
brame) scrive, con sarcasmo e
64
ferocia adeguati ai Pataloghi e
ai giornali e webzines Falcone
Maltese, il manifesto, L’Espresso,
Dagospia, con l’umorismo senza orpelli di un Sergej Dovlatov
o di uno Stan Lauren, che disarma ogni forma di snobismo,
si scopre che non lo fa mai per
professione (fa tv!). Né per
amor di casta (non è del Sncci). Ma per infettare con visioni
desideranti e oblique chiunque
e qualunque cosa: festival, politici, dizionari, barzellette, distributori, fanzine, spot, clip, dizionari, veline, doc politici come
quello su Genova G8, Stracult
e altri programmi tv, produttori, cineclub, Disney, iPhone…
E, rispetto ai padri della critica
mai trombona (Maurizio Grande, Michele Mancini, Vittorio
Buttafava…) Giusti fa pure molto spirito - rievocando i fantasmi
di Cinecittà - sui corpi (soprattutto femminili, ma su "il manifesto" cerca di diversificare
raggio e tono). Esplosioni virali
dedicate a chi senza il cinema
non può vivere e che è l’unico
che ha il diritto di vivere di cinema. Aristocratico? Molto. Come
l’aristocrazia operaia del cinema
che lui predilige (stuntman,
generici, macchinisti, aiuto
operatori, doppiatori, macisti,
addette al montaggio, assistenti costumisti…). Credo che la
pensi come Carmelo Bene sulla democrazia: “è quella cosa
che serve a far sì che il popolo si dia i calci in culo da solo,
invece di prenderli da altri…”.
Ai critici distaccati, pacati, logici e tiepidi, e democratici, che
Marco Giusti non sopporta
perché nascondendosi dietro
ai “capolavori” non fanno evolvere di un centimetro occhi,
sesso e stomaci (da Grazzini
a Kezich, da Bignardi a Aspesi)
queste pagine rispondono con
l’esplorazione più inquietante e
“dal basso” dei testi e dei contesti, come piaceva a Godard
e Grifi. Occhi che scoprirono
perfino un errore di centimetri
in un'inquadratura di Sergio
Corbucci, implacabili come gli
amanti delusi… Neanche Tarantino è così microscopico e
innamorato. Tutti noi, infine,
invidiamo a Giusti il suo papà,
questore negli anni eroici. Non
perché gli insegnò la cultura
della violenza macha e della
repressione antioperaia-contadina-studentesca,ma perché
gli permise di andare al cinema
gratis ogni giorno e così lui vide
tutto e di tutto senza pagare
una lira, avvantaggiandosi su
Ghezzi rispetto ai porno medievali e ai poliziotteschi. Lui era
già in epoca internet, quattro
decenni prima del tempo.
FOCUS
il caso
corea
del sud
L'INDUSTRIA
CINEMATOGRAFICA
NEL 2012
ABITANTI 48.955.203 (2013)
SUPERFICIE 100.210 Kmq
CAPITALE Seoul, popolazione 10.442.426
FORMA DI GOVERNO Repubblica
democratica presidenziale
PRESIDENTE Park Geun-hye
PRIMO MINISTRO Jung Hong-won
LINGUE Coreano
GRUPPI ETNICI Coreani 97,1%, Giapponesi 2%,
Americani 0,1%, Cinesi Han 0,1%, Altri 0,7%
VALUTA Won sudcoreano
Numero totale di cinema 314
Numero totale di schermi 2.081
- di cui digitali 1.948
- di cui in 3D 830
Numero totale di posti 358.659
Prezzo medio del biglietto 7.466 Won (5,2 € circa)
Totale spettatori 194,9 milioni (+ 21,9% rispetto 2011)
Totale incassi 1.455.000.000 Won (1.012.219 € circa)
Media ammissioni pro capite 3,9
Numero di film prodotti 229
Quota di mercato 58,8% (produzioni nazionali)
41,2% (produzioni straniere)
Fonte: Korean Film Council
65
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
Dove il
blockbuster
è di casa
diStefano Locati e Emanuele Sacchi
N
el paese in cui il prodotto nazionale riesce ancora nell’impresa impossibile di
competere con Hollywood, i blockbuster d’autore arrivano a incassare 80 milioni
di dollari. Un segreto che forse trova una spiegazione in una storia funestata da
guerre, dittature e invasioni, che non sono bastate a domare lo spirito orgoglioso
di un popolo. Al contrario, l’hanno esaltato.
È sufficiente osservare anche solo superficialmente i dati per rendersi conto della fase
di espansione in corso. In meno di vent’anni si è passati da una media annuale di 50 film
prodotti a oltre 200, con quote di mercato per le pellicole nazionali passate da circa il 25%
a quasi il 60% (tab. 1). Il caso coreano è ancor più rappresentativo se rapportato a quello
italiano: pur avendo una minor estensione territoriale e una popolazione inferiore, la Corea
del Sud vanta uno sviluppo equiparabile al nostro, con molti fattori in comune anche a livello
industriale (grosse aziende in mano a pochi gruppi familiari, alto tasso di corruzione, etc.).
Per questo è ancora più interessante constatare come lo Stato, e in particolare il Korean
Film Council (KOFIC), abbia sospinto e coadiuvato la crescita, trasformando gli investimenti
66
pubblici sulla cultura in un volano per lo
sviluppo economico.
Per comprendere l’attuale boom è necessario
tracciare un quadro delle numerose
trasformazioni che il paese ha subito. Dopo
il dominio giapponese (1910-45), la Corea è
stata divisa in due blocchi destinati a sfidarsi
all’ombra della zona demilitarizzata del 38°
parallelo. A seguito della guerra di Corea
(1950-53) il Sud è diventato nominalmente
una repubblica, rimanendo in realtà una
dittatura per oltre trent’anni. La drammatica
situazione politica si è ripercossa anche
sull’industria cinematografica, con uno
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
Il cinema sudcoreano ha sempre dovuto confrontarsi con la travagliata storia politica del paese.
Nel nuovo millennio il modello promozionale adottato dal governo nei confronti del settore,
in contrapposizione al sistema rigido precedentemente in vigore, ha reso competitivi i film
sul mercato interno ed esterno, creando le premesse per la più sorprendente delle rinascite.
stretto controllo statale che, attraverso leggi
rigide in materia di censura e investimenti,
ha esercitato forti ingerenze. Il cammino di
affrancamento è stato lungo: da un sistema
rigidamente controllato si è passati, negli
Anni ‘80 e ‘90, a un sistema misto di controllo
e liberismo, fino al modello vincente del
nuovo millennio, orientato alla promozione.
Nel 1955 il cinema è entrato sotto la ferrea
supervisione del Ministero della Cultura e
dell’Educazione, grazie al “Regolamento per
la censura degli spettacoli pubblici”. Dopo
la parentesi democratica (19 aprile 1960-16
maggio 1961), interrotta da un colpo di stato
militare, nel 1962 fu approvata la Motion
Picture Law. Al Ministero dell’Informazione
Pubblica veniva conferito un triplice potere:
censura preventiva, obbligo di registrazione
per le case di produzione e blocco
all’importazione di film (il numero di pellicole
straniere consentite era legato al numero di
titoli locali prodotti).
Dalla sua entrata in vigore, la Motion Picture
Law è stata rivista nove volte, fino alla sua
abolizione nel 1996 con l’approvazione
della nuova Film Promotion Law. Uno dei
cambiamenti fondamentali è avvenuto con la
seconda revisione, nel 1966, che ha introdotto
il sistema delle screen quota: le sale dovevano
riservare 90 giorni all’anno ai film coreani
(successivamente aumentati a 146). Il sistema
è stato ridimensionato solo nel 2006, quando
il governo ha ceduto alle pressioni degli Stati
Uniti. Nel frattempo, nel 1994 erano cadute
non solo le imposizioni sul numero di film
importabili (da una media di 20 titoli stranieri
degli Anni ‘80 a oltre 400 nei tardi ‘90),
ma anche le restrizioni sulla distribuzione
(in precedenza un film poteva uscire in
un massimo di 16 sale). Il sistema delle
quote aveva permesso di mettere al riparo il
cinema nazionale da questa liberalizzazione
e per questo gli accordi del 2006 sono stati
fortemente avversati. Nonostante le previsioni
nefaste il tracollo non c’è stato, al contrario, il
processo di promozione iniziato alla fine del
secolo scorso ha garantito un impressionante
trend di crescita.
Dal 2011 al 2012 gli spettatori sono aumentati
del 21,9% e si sono succeduti incassi da
record per titoli appartenenti a generi
diversissimi: The Thieves, un Ocean’s
Eleven action, con i suoi 83,5 milioni di
dollari; Masquerade, kolossal epico-storico
tra Hollywood e Kagemusha, 82 milioni di
dollari di incasso. Infine nel 2013 The Berlin
File, una spy story realizzata da chi la guerra
fredda la vive ancora (48 milioni di dollari),
e Snowpiercer di Bong Joon-ho, blockbuster
fanta-politico-apocalittico girato da un
regista dall’indiscutibile pedigree d’autore
(59 milioni di incasso a oggi). Proprio in
questo consiste l’altro plusvalore del cinema
sudcoreano: accanto a un sistema efficiente,
in grado di intercettare il pubblico locale e
competere con i kolossal hollywoodiani, vive
e prospera un cinema d’autore che raccoglie
consensi nei festival internazionali, senza che
le due anime entrino in conflitto. Anzi, senza
che siano vissute come distinte. Generi e
intellettualismo, spettacolo e metacinema,
in una catena che unisce idealmente Ryoo
Seung-wan a Hong Sang-soo - un po’ come
67
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
dire Tarantino a Rohmer - senza soluzione
di continuità tra elementi apparentemente
contrastanti, ma interni allo stesso sistema.
The Host (Bong Joon-ho, 2006), il maggior
successo della storia del cinema sudcoreano
con 89 milioni di dollari di incasso, è un
disaster movie, ma è soprattutto una
riflessione sul passato della Corea, sulle
sue ferite aperte, sulla sua predisposizione
all’autoritarismo. Il modello è quello della
migliore Hollywood, quella dello Spielberg
di ieri e dei Cameron, Nolan e Bay di oggi:
poetica d’autore, significato e introspezione
uniti a ricerca tecnologica, marketing spietato
e appeal presso un pubblico generalista.
Il cinema sudcoreano ha già vissuto una
Golden Age tra fine Anni ‘50 e ‘60: sono
stati gli anni gloriosi di Kim Ki-young (The
Housemaid, 1960), Yoo Hyeon-mok (The
Aimless Bullet, 1961), Kim Soo-yong (Mist,
1967) e Shin Sang-ok (A Flower in Hell, 1958),
in cui venivano prodotte centinaia di pellicole
all’anno. Negli Anni ‘70 il regime di Park
Chung-hee strinse ulteriormente le cinghie
censorie, adottando una serie di politiche
fallimentari, che distrussero l’industria. Una
prima new wave ha coinciso con il crescere
dei movimenti democratici negli Anni ‘80 e
l’esordio di una nuova generazione di registi
(come Bae Chang-ho e Park Kwang-su):
un periodo tumultuoso, in cui un’industria
indebolita non aveva armi per resistere alle
prime liberalizzazioni. La vera riaffermazione
è iniziata nella seconda metà degli Anni
‘90, una nuova new wave, in cui ha
esordito la maggior parte dei registi coreani
oggi conosciuti a livello internazionale. Il
successo del nuovo millennio è stato reso
possibile soprattutto dalla ristrutturazione
delle politiche governative. Un modello di
promozione intelligente che non si limita a
distribuire soldi pubblici, sostenendo invece
dall’esterno il business nel suo complesso:
68
Anno
Numero
film locali
prodotti
Quota di
mercato
film coreani
Quota di
mercato
film stranieri
1996
53
23,10%
76,90%
1997
59
25,50%
74,50%
1998
43
25,10%
74,90%
1999
49
39,70%
60,30%
2000
59
35,10%
64,90%
2001
65
50,10%
49,90%
2002
78
48,30%
51,70%
2003
80
53,50%
46,50%
2004
82
59,30%
40,70%
2005
87
58,70%
41,30%
2006
110
63,80%
36,20%
2007
124
50,80%
49,20%
2008
113
42,10%
57,90%
2009
138
48,70%
51,30%
2010
152
46,50%
53,50%
2011
216
51,90%
48,10%
2012
229
58,80%
41,20%
dalla pressione sui festival internazionali
alla sottotitolazione in inglese dei DVD, dai
piani di co-produzione alle scuole di cinema,
fucina inesauribile di nuovi talenti.
Le ripercussioni positive si avvertono su tutta
la filiera, fino all’istituzione di solide realtà
come il Busan International Film Festival
(BIFF) o il Jeonju International Film Festival
(JIFF). Dal JIFF, concentrato su cinema digitale
e indipendente, emergono i nuovi talenti
della cinematografia sudcoreana e asiatica
in generale, oltre all’ormai imprescindibile
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
tab. 1
2012-229
2010-152
2009-138
2008-113
2007-124
2006-110
2005-87
2004-82
2003-80
2002-78
2001-65
2000-59
1999-49
1998-43
1997-59
1996-53
2011-216
EVOLUZIONE INDUSTRIA CINEMATOGRAFICA (1996-2012)
Fonte: Korean Film Council
Jeonju Digital Project, progetto annuale
di cortometraggi in digitale “griffati” (di
qui sono passati Tsukamoto, Apichatpong
Weerasethakul, Jia Zhang-ke, Tsai Mingliang). Il BIFF, nato nel 1996, si è trasformato
da vetrina per la stagione cinematografica
sudcoreana in appuntamento internazionale,
essenziale per comprendere lo stato di
salute del cinema asiatico e cruciale per gli
investitori di tutto il mondo.
E se non è casuale che lo sforzo promozionale
sia aumentato in coincidenza del cambiamento
del colore politico, transitato dalla destra
nazionalista al centro-sinistra liberale nel
1998 - con un regista come Lee Chang-dong
(Poetry, Oasis) al Ministero della Cultura
- forse è meno scontato constatare come il
ritorno dei nazionalisti, nel 2007, non abbia
per il momento rallentato la crescita.
Del contrasto tra Nord e Sud è difficile
parlare senza che prevalga il punto di vista
occidentale, incapace di comprendere
appieno il sentimento di amore-odio che
accomuna un popolo diviso. Innumerevoli i
titoli sul tema, specie dopo la svolta liberal-
progressista, che ha cancellato l’obbligo
di dover ritrarre un cittadino del Nord con
specifiche caratteristiche negative: una
demonizzazione imposta dalla post-bellica
Anti-Communist Law.
Il primo grande successo della rinascita è
anche la prima produzione ad alto budget ad
affrontare la guerra fredda tra le due Coree:
Shiri (Kang Jae-gyu, 1999) è un action debitore
del cinema di Hong Kong, spettacolare quanto
bidimensionale, che ancora non osa molto in
termini di riabilitazione o di ripensamento
sulla situazione Nord-Sud. Ma di lì a poco
un numero sempre crescente di film insiste
sul medesimo concetto: l’uguaglianza o
quanto meno la comunanza di fondo di un
popolo diviso dalla politica, ma soprattutto da
ingerenze straniere, russo-cinesi e americane
(e la diffidenza per gli Stati Uniti è quasi
altrettanto acuta in ambedue le Coree).
Che si tratti di un’astuta operazione di
marketing (lo spirito unitario “tira”), anziché
di un sentimento realmente diffuso, in
fondo ha poca importanza per l’industria
del cinema. E più Kim Jong-un minaccia
bombardamenti, più gli script giocano
sull’unificazione coreana. Centrando il
bersaglio. JSA (Park Chan-wook, 2000),
amicizia clandestina tra soldati di opposti
eserciti costretti a vivere quotidianamente da
sentinelle; The Front Line (Jang Hoon, 2011),
storia di un massacro per la conquista di una
collina a guerra virtualmente finita, mentre i
generali disegnano confini con la matita; As
One (Moon Hyun-sung, 2012), celebrazione
della vittoria al campionato del mondo di
ping pong con una squadra unitaria; e plausi
dalla critica per Welcome to Dongmakgol
(Park Kwang-hyun, 2005), fiaba al sapore di
Miyazaki in cui i fucili di Nord e Sud per la
prima volta sparano insieme contro lo stesso
nemico. Cinema che auspica di prefigurare
l’andamento delle cose, aiutando (in)
consapevolmente a cambiarle.
69
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
La strategia
di “localizzazione
globale del cinema
sud coreano
diKyung Hyun Kim
Filo diretto da Seoul.
Il punto di vista critico.
P
oco più di cinque anni fa, la preoccupazione principale dell’industria
cinematografica sudcoreana era la
protezione del cinema nazionale
da Hollywood. Il successo internazionale ai festival non ha garantito successo
commerciale, ma ha aumentato la consapevolezza critica. Per questo registi e attori si
riunivano nelle piazze per invitare il governo
a rinnovare le screen quota. Nonostante le vibranti proteste, nel 2006 il governo ha ceduto alle pressioni della Motion Picture Export
Association statunitense e ha diminuito da
146 a 73 i giorni in cui i cinema erano tenuti
a mostrare film locali. Il governo doveva proteggere le vendite di Hyundai, LG e Samsung
negli Stati Uniti, più che assicurarsi la salute
dell’industria cinematografica.
Nei quattro anni successivi, l’industria ha
prevedibilmente mostrato alcuni segni di
assestamento. Il record di biglietti venduti
per film coreani è del 2006 (98 milioni),
crollato nel 2008 (63,5 milioni). Quell’anno
si è disperso più di un terzo del pubblico
domestico, mentre gli spettatori di film
stranieri - al 95% di origine statunitense hanno goduto di un picco senza precedenti
(87 milioni). Ciononostante, nel nuovo
decennio il cinema coreano ha mostrato
70
di essere ancora vitale. Dopo i numeri
incoraggianti al botteghino nel 2011, il 2012
si è rivelato fenomenale per numero di film
distribuiti (174), introito complessivo del box
office (114,6 milioni) e media percentuale di
ritorno degli investimenti (13,0%): si tratta
di record storici per la Corea del Sud. La
tendenza si conferma nella prima metà del
2013: fino a oggi, la maggior parte dei film ad
alto budget - Miracle in Cell Number 7 (Lee
Hwan-kyung), The Berlin File (Ryoo Seungwan), Cold Eyes (Jo Eui-seok e Kim Byungseo), The Tower (Kim Ji-hoon), Secretly Greatly
(Jang Cheol-soo), 90 Minutes of Terror (Kim
Byung-woo) e Snowpiercer (Bong Joon-ho) hanno raggiunto o superato le aspettative.
L’unico insuccesso, Mr. Go (Kim Yong-hwa),
girato interamente in 3D, si è riscattato in
altri mercati asiatici. Al botteghino cinese il
film - co-produzione tra Showbox (Corea) e
Huayi Brothers (Cina) - ha quasi raggiunto i
20 milioni di dollari d’incasso.
Il payoff di una recente pubblicità della
Hyundai Capital ammette che le compagnie
finanziarie stentano a trovare successo fuori
dai confini. Per questo, invece di “esportare
capitali”, Hyundai Capital propone di
“diventare locale”: in Cina acquisisce capitale
cinese, negli Stati Uniti capitale statunitense, e
così via. Questa campagna di “localizzazione
globale” riassume anche il paradigma dei
film coreani: piuttosto che esportare in altri
mercati, l’industria sostiene la sua crescita
trasformandosi in cinema locale. In questo
sforzo di “localizzare il cinema coreano”, non
solo i film abbandonano la lingua coreana,
ma anche attori e caratteristiche culturali.
Di coreano rimangono solo registi, membri
della troupe e sceneggiatura.
FOCUS // Dove il cinema sta meglio
A Wedding Invitation (Oh Ki-hwan, 2013) è
probabilmente il primo film in lingua cinese
con soggetto, regia e finanziamento coreani.
Frutto di una joint venture tra Huayi Brothers
(Cina) e CJ Entertainment & Media (Corea),
questa commedia lacrimevole - anacronistica
secondo gli standard coreani - è diventata
uno dei maggiori successi dell’industria
nazionale, raggiungendo 31,3 milioni di dollari
di incasso al botteghino cinese, mentre in
patria ha venduto solo 20mila biglietti; non
casualmente il soggetto è stato riscritto da un
plotone di sceneggiatori cinesi, è ambientato
in Cina ed è interpretato da attori cinesi e
taiwanesi.
L’alleanza sino-coreana crea un mercato in
grado di competere persino contro quello
anglofono. L’unione degli incassi di Corea del
Sud e Cina raggiunge i 4 miliardi di dollari
ed è previsto cresca esponenzialmente nei
prossimi due decenni. In una cultura globale
in cui la dimensione dei capitali investiti, a
causa dei costi sempre crescenti degli effetti
speciali, determina il gusto e le preferenze di
chi va al cinema, il mercato cinese non può
essere sottostimato. Questo attrae e insieme
spaventa il vicino mercato coreano, che
rischia di trasformarsi in dominio cinese.
Il nuovo capitalismo ha raggiunto un punto
tale per cui persino i prodotti culturali come i
film devono abdicare alla propria storia, pur di
sopravvivere in un mondo globalizzato? Non
ho ancora una risposta, ma, fortunatamente,
fino a quando il botteghino coreano rimarrà
saldo e i cinefili coreani continueranno a
trovare intriganti i film locali, il futuro prossimo
non è così desolante. Se la fantascienza sarà
possibile solo in lingua inglese o cinese, tutti
gli altri generi potranno continuare a essere
girati in coreano.
L’ascesa del cinema coreano nel XXI secolo
non sarà ricordata per i suoi autori - Hong
Sang-soo, Lee Chang-dong e Kim Ki-duk
non sono De Sica, Rossellini e Visconti o
Truffaut, Godard e Rohmer - quanto per
la rinascita commerciale che è arrivata a
influenzare il cinema cinese. Il legame tra
Corea e paesi limitrofi permette previsioni
positive per il cinema coreano, che fino a
pochi anni fa poteva permettersi di produrre
solo commedie di serie B, melodrammi e
horror. Considerare una minaccia la scelta
di girare film in cinese o inglese rientra in
una questione più ampia, che riguarda la
sopravvivenza di una lingua minore come il
coreano alla globalizzazione del XXI secolo.
71
72
L
a stagione autunnale (non in
senso metaforico) del cinema
italiano non ha offerto scelte
di ambientazione geografica
particolarmente
peculiari.
Il grande capoluogo di
provincia – Milano, Roma,
Torino – ricorre da settembre
a novembre come spazio
prediletto, confermando “la
grande città” come location
d’elezione: alcuni film hanno
cercato e mostrato l’unicità
di questi ventri urbani senza
qualunquismo metropolitano,
come Anni felici di Daniele
Luchetti che, a parte una "vacanza" nel
Sud della Francia, in Camargue, usa la
Capitale come spazio capace di inglobare
sia la suggestione dei vicoli trasteverini
che il razionalismo fascista dell’Eur.
Anche Moccia e Scola sono rimasti a
Roma, L’intrepido di Gianni Amelio ha
di Emma Dante e La mafia uccide solo
d’estate di Pierfrancesco Diliberto – è
apparsa due volte, con punti di vista
per nulla scontati per quella che poteva
essere la prevedibile celebrazione
frequentano meno spesso, o non
esclusivamente, il cinema o che ancora
sono in possesso di una proposta
d’immaginario
più
indipendente,
talvolta sofisticata, sono quelle che ci
hanno condotto “altrove”. Restando in
città, Palermo – Via Castellana Bandiera
dell’incantevole
barocco
siculo.
Altro film, altra isola: la Sardegna, e
nello specifico la città di Oristano,
è stata il set della piccola impresa
meridionale intrapresa da Rocco
Papaleo. Continuando a calpestare il
territorio nazionale è l’antico borgo
Le destinazioni classiche e urbane prevalgono in questi
ultimi 90 giorni: Milano, Roma e Torino sono le mete
predilette, ma fa la sua comparsa anche Palermo e non
manca l’altra isola, la Sardegna. Poco esotismo, invece,
a parte la Grande Mela e l’Oriente thriller di Hong Kong.
scelto Milano e Massimo Vernier aspira
a essere vedovo a Torino. Nessuna scelta
esotica o poco prevedibile tra i titoli più
distribuiti.
Le produzioni firmate da autori che
rinascimentale di Pergine Valsugana
(Tn) a darci la percezione di un luogo
ovattato congeniale alla narrazione
de La prima neve di Andrea Segre.
Volendo provare a spingersi davvero
oltre, precisamente oltre
confine, il cinema d’autunno
non si è contenuto e ha
scelto di mandare I soliti
idioti in vacanza a New York,
metropoli declinata anche
nella sua versione orientale
(e thriller), ovvero Hong
Kong, dove in parte è stato
girato Something Good,
diretto da Luca Barbareschi
e tratto dallo scritto di Francesco
Abate e Massimo Carlotto. Prossima
destinazione? La stagione invernale
anzitutto, che nel bagaglio dei suoi
viaggi porta un panettone, anzi i suoi
Colpi di fortuna.
diNicole Bianchi
Autunno a...
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GEOGRAFIE
73
INTERNET E
NUOVI CONSUMI
Rivoluzione streaming:
dal possesso alla libertà di accesso
diCarmen Diotaiuti
Si chiama Spotify la tendenza web del momento in fatto di ascolto musicale.
Un’enorme library di brani a disposizione, accessibile ovunque in streaming e in buona qualità.
Un’alternativa alla pirateria digitale attraverso un modello di business ispirato al consumo gratuito,
ma legale. Anche questa volta la musica è pioniera nel cogliere l’evoluzione del mercato? L
anciata in Italia lo scorso febbraio, in concomitanza col
Festival di Sanremo, è diventata subito una delle tendenze
del momento in fatto di ascolto musicale. Un milione e
mezzo di canzoni riprodotte nel primo giorno di lancio, undici milioni nella prima settimana. Questa la reazione italiana al fenomeno. Si chiama Spotify ed è un’applicazione che permette
di ascoltare musica in streaming e on demand da qualsiasi dispositivo
connesso a internet. Parliamo praticamente di qualsiasi musica - dal-
le colonne sonore ai classici, alle hit del momento - visto che la sola
library italiana vanta ben quindici milioni di brani. Nato in Svezia nel
2008, Spotify è disponibile ad oggi in ventotto paesi, con ventiquattro
milioni di utenti attivi, di cui otto milioni con profili a pagamento.
Lanciato con lo slogan “La tua musica è ovunque, basta premere play”,
per sostituire nell’immaginario il concetto di possesso con la libertà di
accesso, ennesimo segnale dell’immaterialità pervadente dell’era digitale. La sua forza è stata partire dall’assunto che l’ascolto gratuito di
INTERNET E NUOVI CONSUMI
musica digitale è diventato, da Napster in poi,
una pratica d’uso. Accettare il cambiamento
è stata la vera rivoluzione. Sfruttare il segnale
del mercato a proprio favore per generare
profitti, offrendo la ragionevole possibilità di
continuare a usufruire dei contenuti gratuiti,
ma in modo legale. Un’alternativa vera alla
pirateria digitale che punta proprio a quegli
utenti che scaricano file illegalmente. Tanto
che lo studio dell’Università di Amsterdam
“File Sharing 2©12. Downloading from
illegal sources in the Netherlands” registra
una diminuzione del 10% del download
illegale di musica in Olanda nel periodo
2008-2012, e ne attribuisce il merito alla popolarità di alternative legali come Spotify e
YouTube, e a un nuovo modello di business
più vicino alle esigenze dei consumatori.
L’applicazione è un ibrido fra
modello di business free e a pagamento. Prevede tre tipologie
di account: quello gratuito permette di ascoltare brani musicali solo da computer e intervallati
da messaggi pubblicitari. Se finora non c’erano limiti all’ascolto, dallo scorso agosto è stata
introdotta una novità: il tetto
massimo di dieci ore di musica
al mese, una volta trascorsi sei
mesi dall’iscrizione. Due, invece, le versioni a pagamento. La
più economica è consultabile
solo da pc, ma senza limiti né interruzioni;
la versione premium, in abbonamento a circa
dieci euro al mese, permette di utilizzare l’applicazione in qualsiasi momento e da qualsiasi dispositivo, dal cellulare al computer, al
tablet. Riproduce i brani in qualità migliore e
prevede anche una modalità offline, per scaricare i brani e ascoltarli in un secondo momento, senza connessione.
A quanto dichiarato, dalla sua nascita ad oggi
Spotify ha pagato cinquecento milioni di dol-
lari ai detentori di diritti musicali e conta di
arrivare a un miliardo per la fine del 2013, secondo un modello di profitto che divide con
gli aventi diritto i proventi derivati sia dalle
inserzioni promozionali, che dagli abbonamenti a pagamento. Naturalmente in maniera proporzionale agli ascolti dei singoli brani. Per l’artista questo tipo di utilizzo rientra
spesso in un più generico contratto di royalty
digitali firmato con le case discografiche, e
può arrivare a tradursi in cifre finali davvero irrisorie se non si raggiungono numeri di
ascolto da capogiro. Questo vuol dire che
per le Hit e gli artisti affermati può esserci
effettivamente un ritorno economico diretto
legato al numero di ascolti su Spotify; ma per
un artista emergente il guadagno deriva piuttosto dalla presenza stessa sulla piattaforma,
playlist di preferiti e condivisa tramite facebook, twitter, blog o via email. Le playlist
possono essere salvate, per garantire un
accesso veloce, o create in compagnia degli amici. È possibile visualizzare in ogni
momento da facebook i brani che gli amici
stanno ascoltando, o seguire personalità e
utenti comuni per scoprirne i consigli musicali. In base ai gusti mostrati e al tipo di
musica preferito, l’applicazione consiglia
di volta in volta nuovi brani da ascoltare.
Sembra risiedere, dunque, nel potenziale di
socializzazione e nel piacere della condivisione il motivo del successo di Spotify. E anche questa volta la musica potrebbe rivelarsi
pioniera nel cogliere e sfruttare l’evoluzione
del mercato digitale come già avvenuto con
gli Mp3 e il sistema di iTunes.
La tua musica è ovunque,
basta premere play
come opportunità di farsi conoscere da un
vasto pubblico di appassionati. La crescente
fidelizzazione ad opera del digital buzz diventa solo in un secondo momento fonte di
guadagno, poiché può tradursi in un maggior
numero d’ingaggi per serate dal vivo.
Spotify non è la prima applicazione ad
offrire la possibilità di ascoltare musica
in streaming, ma è quella che ha saputo
meglio sfruttare il potenziale sociale del
web 2.0. La musica può essere raccolta in
75
PUNTI DI VISTA
Svegliamoci!
Basta ballare
il foxtrot in un
rave party
diDaniele Vicari
v
76
Lo status presente del nostro cinema
tra mancanza di visione strategica
e politica da parte delle istituzioni e
scarsa programmazione industriale.
Le proposte del regista di Diaz: libertà
creativa, formazione, legge antitrust.
PUNTI DI VISTA
L
a situazione attuale del cinema
formazione per scardinare l’attuale assetto
italiano è davvero controversa
ideologico della nostra cinematografia. Il
e ha due “aree” di responcinema italiano è il più identitario dell’Occisabilità principali: la totale
dente, il profilo medio del cineasta italiano
mancanza di una visione
è: maschio, adulto, autoctono, medio-alto
strategica e politica da parte delle istiborghese (meno del 10% della popolaziotuzioni, e una scarsa e poco lucida prone italiana). Cosa può raccontare questo
grammazione industriale. Dai vari mini“idealtipo”? Il proprio ombelico, le nevrosi,
stri succedutisi negli anni, alla dirigenza
la propria mancanza di coraggio. L’unico
delle associazioni di categoria, abbiamo
modo per sventrare questo fortilizio è la
assistito alla fiera dell’indecisionismo e
formazione. Bisogna immettere nel sistedel piccolo cabotaggio. Rendite di posima aspiranti autori e tecnici appartenenti
zione, personalismi, conflitti di interesse,
alle più disparate categorie sociali, quindi
persino malversazioni come quelle delle
immigrati di prima e seconda generazione,
truffe sui “diritti cinematografici” hanno
donne e ragazzi appartenenti all’immenso
messo i bastoni tra le ruote a tutti gli
bacino delle classi sociali “disagiate”, cioè il
operatori del settore, ne hanno rallentato
90% e oltre dei cittadini italiani che restano
se non impedito un serio e tempestivo
sempre esclusi dalla produzione culturale,
adeguamento tecnologico, finanziario e
appannaggio di una misera e consunta élite.
culturale. Hanno ridicolizzato la nostra
Se qualcuno dice: a fare che? Non c’è lavocinematografia con polemiche assurde
ro!, prima di rispondergli bisogna guardarlo
sulla presenza dei film italiani nei festiin faccia e probabilmente si scoprirà che ha
val, i premi dati e non dati alla propria
qualcosa da perdere. Poi gli si potrà urlare
“scuderia”. Per non parlare dei meccanicon chiarezza: a metterti da parte, perché
smi spesso “obliqui”, che a tutti i livelli
non hai più nulla da dire né da dare.
fanno da filtro alla selezione dei progetti,
Terza proposta? Dirsi la verità attraverso un
al loro finanziamento e alla promozione.
ragionamento: siccome qui, o si rifà l’Italia
A fronte di questo caos, in Italia negli
o si muore, è evidente che la battaglia sarà
ultimi 2 anni si sono miracolosamendura, ci vogliono strumenti adeguati per vinte prodotti, in media annuale, 120 film
cerla. Il primo di questi strumenti è il disvedi finzione e 600 documentari. Alcune
lamento dell’ipocrisia corrente: è ovvio che
di queste opere, valorizzate dai festival
molti film di una certa dimensione, con gli
internazionali, da Berlino a Cannes, da
attuali meccanismi di finanziamento, non si
Venezia a Toronto, hanno convinto critipossono più fare. Dobbiamo chiedere e otteca e pubblico. La performance straordinere, con ogni mezzo, una legge antitrust. Ci
naria dei film documentari, dal Cesare dei
devono essere più soggetti che producono e
Taviani a Sacro GRA di Rosi, è sotto gli
che distribuiscono. Soprattutto più soggetocchi di tutti. Visto che dalla classe diriti che comprano i diritti in concorrenza tra
gente non possiamo attenderci nulla di
loro. Le sale devono essere più elastiche,
positivo, la mia prima proposta è: libertà!
programmare cose diverse, differenziando
Ci vuole uno slancio di libertà espressiva
gli orari: al momento sembrano perlopiù
e creativa che travolga le miserie umane
negozi in franchising, tutti uguali, tristi, nore professionali di chi decide di non demalizzati. Questa tristezza fa pendant con le
cidere o decide solo per sé. Noi dobbialagne impotenti sulla pirateria, perché prima
mo cominciare ad incazzarci seriamente:
capiamo che è cambiato il mondo, che si
sulla libertà espressiva e d’opinione non
comunica in un altro modo, che si fruisce
si scherza, basta filtri e filtrini. La libercultura in un altro modo, e prima troveremo
tà non si chiede, bisogna prendersela,
soluzioni adeguate. La pirateria si combatte
innovando il linguaggio, sperimentando
solo con strumenti adeguati a quel cambianuovi territori espressivi e raccontando
mento, non mandando la polizia a casa di
senza mediazioni costringeremo “le alte
chi scarica un film, che oltre ad essere una
sfere” a modificarsi. Se noi cineasti non
cosa orrenda è come reggere con le mani
siamo all’altezza delle sfide che il nostro
una diga che sta crollando… terza proposta
tempo necessita, non siamo niente di
quindi? Svegliamoci! Stiamo ballando il foxniente, non possiamo avere niente, non
trot con la gonna a palloncino e i tacchi a
dobbiamo avere niente.
spillo in un rave party organizzato sotto un
La seconda proposta è: utilizziamo la
bombardamento.
77
PUNTI DI VISTA
La critica
del critico
diPaolo Mereghetti
Spunti di riflessione
sul rapporto tra recensori
e recensiti a partire dallo speciale
di 8½ di luglio.
In Italia ci si rivolge al pubblico
e non agli addetti ai lavori
e sembra che a nessuno interessi
il confronto
delle idee. Forse anche
per questo il cinema italiano
se la passa così male.
78
PUNTI DI VISTA
C
onfesso che avevo aspettato con
una certa impazienza lo speciale
di 8½ sulla critica vista dalla parte dei “criticati”. Ma devo ammettere che la delusione è stata
almeno pari alle attese: il solito elenco di lamentazioni sull’impreparazione, l’incompetenza, “ma non hanno capito quello che ho
fatto”, il poco spazio, rivelando in generale
un atteggiamento di lesa maestà che francamente mi sembra non porti a niente. Serve
qualcosa lamentarsi, come facevamo da
bambini, su chi ha “cominciato per primo”
(perché anche dallo schermo sono arrivate
bordate mica male. E da una posizione decisamente “dominante”, come direbbero gli
economisti)? Direi proprio di no.
È vero però una cosa: che la critica, in Italia,
si rivolge eminentemente al pubblico e non
agli addetti ai lavori (cioè alla categoria interpellata da 8½). Non bisogna dimenticarlo. In
passato è stato diverso. “Cinema” e poi “Cinema Nuovo” in Italia, come i “Cahiers du
Cinéma” in Francia (per fare gli esempi a noi
più vicini), cercavano i loro lettori soprattutto tra chi il cinema lo faceva. O comunque:
erano i cineasti gli interlocutori privilegiati
dei loro articoli. Oggi questa cosa, almeno da
noi, si è persa totalmente. Soprattutto da parte delle riviste che sono diventate, chi più chi
meno, un veicolo per aspiranti accademici.
Così la cosiddetta “critica militante” bisogna
cercarla – se va bene – sulle pagine di chi, in
passato, svolgeva un compito più divulgativo
che critico: alcuni quotidiani, alcuni settimanali, pochissime riviste “culturali”, qualche
sito, tutti comunque indirizzati verso la parte
più curiosa degli spettatori, non certo verso
i cineasti.
Difficile in questa situazione sperare in un
dialogo vero tra critici e addetti ai lavori. Noi,
i critici (e spero di non allargarmi troppo
parlando a nome di una categoria di ultraindividualisti) dobbiamo pensare quando
scriviamo al pubblico dei nostri giornali e dei
nostri siti, formato quasi esclusivamente da
spettatori anonimi, che ci chiedono un aiuto
di fronte alle proposte del mercato (a volte
fatto anche di stelline o palline. Perché se sai
da chi vengono, sai anche quello che quei
simboli significano e sottintendono…). Il dialogo con gli “altri” - i registi, gli sceneggiatori,
gli attori, i produttori (metto tutti al maschile
plurale perché a scuola mi avevano insegnato
così. Non c’erano ancora gli eccessi del politically correct…) - bisogna essere in due a
volerlo. E non so a chi interessi davvero, in un
paese dove anche i dibattiti culturali servono
solo a stabilire un vincitore e non a cercare
di approfondire le cose…. Anche dalla piccola
inchiesta di 8½ sembra che la suscettibilità
personale venga prima di tutto.
Se conta la mia esperienza personale, tra i
molti insulti ricevuti in tanti anni (più per il
mio dizionario che per le recensioni sul “Corriere” o “Io Donna”), solo i fratelli Taviani e
Liliana Cavani mi hanno dimostrato un atteggiamento diverso: addolorati per le critiche
ricevute ma interessati comunque al lavoro
critico. Con i primi ho avuto modo di approfondire, anche se in maniera occasionale, le
nostre divergenze mentre con la seconda no
e me ne dispiaccio. Anche con Giorgio Diritti
ho discusso molto di film (suoi e non) e di
critiche (mie e non). Per il resto solo il deserto, nonostante la mia dichiarata disponibilità (penso soprattutto a certi distributori e
produttori…). L’impressione è che a nessuno
interessi davvero confrontare le idee. E forse
è anche per questo che il cinema italiano se
la passa così male…
79
BIOGRAFIE
BIOGRAFIE
ALBERTO
CRESPI
Kyung
Hyun Kim
ROBERTO
SILVESTRI
Vincenzo
Trione
DANIELE
VICARI
80
C
ritico di cinema, milanese e interista. Conduttore radiofonico della
trasmissione "Hollywood Party", è stato selezionatore della Mostra
Internazionale del Cinema di Venezia, direttore di festival, insegnante di
critica cinematografica. Primo conduttore de La valigia dei sogni, Crespi
è firma prestigiosa de “l’Unità” e direttore della rivista "Bianco & Nero".
Il suo idolo è John Ford e parafrasando il grande regista è nota la sua affermazione:
“Sono Alberto Crespi, e parlo di film”.
Il suo articolo è a pag. 63
K
yung Hyun Kim è docente di Lingue e Letterature dell’Asia dell’Est e
Director of the Critical Theory Emphasis all’Università della California,
Irvine. È co-curatore di The Korean Popular Culture Reader e autore di
Virtual Hallyu: Korean Cinema of the Global Era e The Remasculinization
of Korean Cinema, pubblicati da Duke University Press. Ha inoltre coprodotto sia il progetto di restauro di The Housemaid (Kim Ki-young, 1960) che il
suo remake, presentato al Festival di Cannes nel 2010.
Il suo articolo è a pag. 70
C
ritico de “il manifesto” e responsabile di “Alias” fino al 2012; da 10 anni
conduce il programma radiofonico “Hollywood Party”. Ha scritto Da
Hollywood a Cartoonia, Macchine da presa, Il Ciotta-Silvestri Cinema, Il
secolo del film - parlando di storia e cinema con Rossana Rossanda (in
uscita). Ha diretto i festival di Lecce, Rimini, Bellaria, Aversa, Ca’Foscari
e Sulmonacinema.
Il suo articolo è a pag. 64
I
nsegna Storia dell’arte contemporanea e Arte e nuovi media all’Università
IULM di Milano. Collabora con il “Corriere della Sera” e dirige “Valencia09”.
Ha curato mostre d’arte contemporanea in Italia e all’estero (tra le altre, El siglo
de de Chirico all’IVAM di Valencia, Sironi/Permeke, Dalí e Savinio al Palazzo
Reale di Milano, Post-classici al Foro romano e al Palatino di Roma). Oltre a
numerosi saggi su momenti e figure delle avanguardie del Novecento, ha pubblicato
monografie su Apollinaire, Soffici e de Chirico.
Il suo articolo è a pag. 10
R
egista da sempre interessato al documentario socio-politico: inizia nel
‘98 dirigendo quattro cortometraggi nello stesso anno. Nel 2002 con
Velocità massima partecipa alla Mostra di Venezia e l’anno successivo
vince il David di Donatello come miglior esordiente. L’intensa attività
cinematografica lo porta a curare due recenti titoli del nostro cinema:
Diaz vincitore del Premio del pubblico a Berlino e La nave dolce, per cui si aggiudica
il Premio Pasinetti a Venezia 2012.
Il suo articolo è a pag. 76
Sul prossimo numero in uscita
a dicembre 2013
Scenari
Possiamo fare a meno degli attori?
Tendenze
Ma i politici italiani vanno al cinema?
Cinema espanso
Bruno Bozzetto a San Francisco
Dante Ferretti a New York
Focus
Il cinema in Argentina
Gore Vidal
Il cinema è l'unica forma d'arte nella quale le opere
si muovono e lo spettatore resta immobile.
Ennio Flaiano
Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale -70% - Aut. GIPA/C/RM/04/2013
Oggi tutto è cinema. L'unica cosa che cambia
è dove e come lo si vede.
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