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Carlo Porta La vita e le opere

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Carlo Porta La vita e le opere
Carlo Porta
La vita e le opere
Nato a Milano il 15 giugno 1775 da famiglia benestante, Porta fu mandato a studiare
nel Collegio gesuita di Santa Maria degli Angeli di Monza dopo essere rimasto orfano di madre. Diplomatosi in umanità e retorica nel 1792, abbandonò gli studi per
volontà del padre Giuseppe, funzionario del governo austriaco per il quale ricopriva
l’incarico di cassiere generale presso il Monte di Santa Maria Teresa. Il giovane fu
dunque indirizzato verso la carriera paterna, ma l’amore per le lettere non venne mai
meno. Risale infatti alla fine del 1792 la stampa di un taccuino per l’anno nuovo, El
lavapiatt del Meneghin ch’è mort, comprendente poesie sui dodici mesi dell’anno,
intervallate da quattro cappelli prosastici sulle stagioni, e un sonetto monocaudato posto in chiusura. Il titolo si ricollega all’esperienza di Domenico Balestrieri,
grande poeta milanese, anche dialettale, che si faceva chiamare Meneghin; un altro
taccuino di Porta, andato perduto, era dedicato all’anno successivo. Intanto, con
l’arrivo dell’esercito napoleonico a Milano (1798-1799), la famiglia dell’autore fu costretta ad allontanarsi dagli uffici pubblici e Carlo si dovette trasferire con il fratello
Baldassarre a Venezia. Nella città lagunare fu impiegato all’Intendenza di Finanza
e frequentò i circuiti letterari e teatrali veneziani. Tornato a Milano nel 1799, vi
rimase anche dopo la proclamazione della Repubblica cisalpina (1800), pur dovendo,
tuttavia, abbandonare l’incarico pubblico che ricopriva, passando a svolgere lavori
provvisori presso ditte private. Carlo nel frattempo cominciò ad avvicinarsi ai circoli
giacobini milanesi, frequentando tra l’altro il Teatro Patriottico, di cui divenne poi
membro della commissione amministrativa. Nel 1804 riuscì a essere riassunto come
impiegato statale; in quello stesso anno si dedicò a una versione in milanese dell’Inferno di Dante, limitata a pochi canti, in cui cercò di riscrivere i versi danteschi
secondo un tono più propriamente popolare. Riprese inoltre la poesia in meneghino
anche se non pubblicò nulla; una prima sistemazione dei numerosi componimenti
scritti in questo periodo si ebbe solo tra il 1814 e il 1815 con l’allestimento di un
quaderno autografo. Nel 1806 sposò Vincenza Prevosti, vedova benestante, dalla
quale ebbe tre figli. Nel 1810, in occasione delle nozze di Napoleone e Maria Luisa
d’Austria, pubblicò, con un certo successo, il Brindes de Meneghin all’ostaria e
scrisse molti altri componimenti, che comunque non videro le stampe. Con il 1812
iniziò una stagione particolarmente feconda per Porta, che ad esempio proprio in
quell’anno compose Desgrazzi de Giovannin Bongee in sestine e, l’anno successivo,
Olter desgrazzi de Giovannin Bongee in ottave, opere che presentano le vicende del
povero Giovannino costretto a subire le angherie di personaggi crudeli e prepotenti
senza aver commesso alcuna colpa.
Crollato il regime napoleonico (1814) e ritornati gli austriaci, Porta fu promosso
cassiere generale del Monte di Santa Maria degli Angeli. Nel frattempo compose
anche molte poesie tra cui La Ninetta del Verzee (1814) in ottave, storia di una
ragazza orfana, pescivendola al mercato del Verziere, costretta a prostituirsi dopo
essere stata raggirata dal suo amante. La produzione letteraria di Porta, che va
dalla metà del 1815 al settembre del 1816, è contenuta in un secondo quaderno
1
autografo, il quale, assieme a quello del 1815 fu soggetto alla censura di Luigi Tosi,
assistente spirituale della famiglia Manzoni. Al dicembre del 1815 risale la pubblicazione del Brindes per l’ingresso a Milano dell’imperatore austriaco Francesco I,
in cui si esprime una forte esigenza di pace e tranquillità sociale. Nel 1816 cominciò a circolare la cosiddetta Prineide, satira contro l’imperatore austriaco pubblicata anonima, di cui Porta fu considerato l’autore; dopo essere stato accusato, lo
scrittore venne scagionato dall’ammissione di colpevolezza di Tommaso Grossi, ma
l’amarezza lo spinse a mettere per iscritto il proposito di non comporre più versi.
L’anno successivo, intanto, inserito nella collana «Collezione delle migliori opere
scritte in dialetto milanese», a cura del dialettologo Francesco Cherubini, uscì il
volume comprendente cinquanta poesie portiane, in una versione “purgata”, però,
dallo stesso curatore. La collana di testi poetici dialettali milanesi, nel frattempo,
era già stata severamente recensita da Pietro Giordani, nel febbraio del 1816, sulla
«Biblioteca italiana»; l’accaduto fu origine di un’aspra polemica che vide Porta reagire duramente con la scrittura di dodici aggressivi sonetti, Dodes sonitt all’Abaa
don Giavan, rivolti all’illustre avversario. In quegli anni mostrò una viva adesione al
Romanticismo in una prospettiva anticlassica sollecitata anche dal gruppo dei cosiddetti «amici della cameretta» (Berchet, Visconti, Grossi, Torti), che accoglievano le
tendenze romantiche della società milanese e le cui riunioni si svolgevano in casa
del poeta. Frutto di questi incontri è l’ampio testo in sestine di endecasillabi El romanticism, in cui l’autore esprime la sua idea del nuovo movimento culturale inteso
come difesa della spontaneità e adesione alla realtà presente nella scrittura poetica.
Nonostante la salute già malferma da qualche anno, il poeta continuò a scrivere
e a fare progetti come quello di un poema in quattro canti intitolato La guerra di
pret; morì però prematuramente, il 5 gennaio 1821, in seguito all’aggravarsi delle
sue condizioni di salute, lasciando l’opera incompiuta. Solo dopo la morte dell’autore l’opera portiana, che era sempre circolata confusamente, fu diffusa in maniera
ordinata. L’amico Tommaso Grossi, nel 1821, ne curò l’edizione in due volumi, che
comprendevano però soltanto i testi approvati dalla censura; ne apparve perciò,
nel 1826, un’altra, complementare a quella precedente. Un’edizione più recente
del “corpus” poetico di Porta è quella curata da Dante Isella, nel quale risulta che
i testi portati a termine dall’autore lombardo sono centosessantacinque.
Il profilo letterario
La scelta del poeta di utilizzare il dialetto per le proprie opere è identificabile
non tanto in una prospettiva di puro disimpegno ed evasione, quanto piuttosto
nell’esigenza di una più profonda indagine della realtà quotidiana. Il linguaggio
di Porta, che si ricollega alla tradizione colta della letteratura dialettale milanese
(ci si riferisce in particolare a Maggi, Tanzi, Balestrieri, Parini), assume dunque
un tono realistico che dà voce a un’umanità varia, sempre in fermento, che si
muove nella Milano contemporanea: i personaggi portiani sono lavoranti, umili
servitori, prostitute, emarginati di vario tipo, preti corrotti, nobili ipocriti e bigotti, soldati francesi e funzionari di polizia. Il mondo nel quale essi si muovono
è fatto di prepotenze e soprusi, di povere vittime costrette a subire le angherie
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altrui, senza possibilità di ribellarsi, e di personaggi pronti solamente a soddisfare
i propri desideri, calpestando tutto il resto. Porta accoglie quindi nelle sue pagine
personaggi fino ad allora posti ai margini della grande letteratura e li eleva a protagonisti delle vicende rappresentate. Sfortunato e in balìa della violenza altrui
è sicuramente Giovannin Bongee o, ancora, Ninetta, raggirata duramente da un
amante avido e disonesto. Un più ampio respiro assume Il lament del Marchionn
di gamb avert (1816), in mille versi, storia di un musicista sciancato innamorato
della Tetton e da lei umiliato in mille modi. Questi personaggi popolari, deboli e
sfortunati, non sono indicati, però, come modelli di sanità e integrità morale: essi
servono solo a mettere in scena la degradazione di un mondo di cui Porta non si
fa giudice in prima persona, ma che si limita a rappresentare in maniera realistica.
In questo senso è individuabile un’altra tematica molto cara al poeta: la polemica
anticlericale e antinobiliare. La sua formazione illuministica spinge infatti l’autore
a indagare e smascherare l’ipocrisia e il malcostume di due classi sociali incapaci
di mutarsi e di progredire, ancorate a vecchi privilegi e animate da un atavico
disprezzo verso le classi subalterne. Il poeta, comunque, ancora una volta non
interviene con il suo giudizio, ma lascia che la satira nasca da se stessa attraverso
la semplice rappresentazione dei fatti. Il mondo fasullo e corrotto dei nobili, inoltre, è reso ancora più evidente dalla falsità del loro linguaggio, una mescolanza
incontrollata di un italiano pieno di frasi fatte e di un dialetto, non tenuto a
freno, che diventa spia della loro malcelata volgarità. È evidente, quindi, come la
scelta della lingua dialettale non vada in una direzione puramente deformante: il
dialetto diventa, anzi, grande strumento di indagine sociale. Dietro la poesia di
Porta si nasconde la forte esigenza di mostrare un mondo che sta subendo molteplici rivolgimenti politici e sociali. In questo senso l’opera portiana, attraverso la
rappresentazione di quel mondo, vuole promuovere una serie di riflessioni morali
che spingano al cambiamento. Dietro la satira nei riguardi del clero, ad esempio,
è ben visibile l’esigenza di una religiosità più piena e sincera, come ebbe a dire,
parlando di Porta, lo stesso Manzoni. L’adesione al Romanticismo diventa allora
anche bisogno di staccarsi da una cultura, come quella classicistica, che è ormai
specchio del vecchio spirito dell’Ancien Régime, per abbracciare una rigenerazione
culturale più consona a esprimere la voglia di un rinnovamento anche civile.
Da un punto di vista stilistico, inoltre, è da evidenziare il fatto che l’autore milanese,
accanto al tradizionale utilizzo del sonetto e del capitolo, ricorre anche a scelte
metriche diverse come la sestina, l’ottava narrativa o anche a lunghe serie di endecasillabi e settenari, liberamente alternati, con cadenze regolari e distese che conferiscono maggiore naturalezza al dialetto, ben adattandolo ai vari registri sociali.
L’opera
Desgrazzi de Giovannin Bongee
In un lungo monologo, Giovannino, il protagonista dell’opera Desgrazzi de Giovannin Bongee (1812), racconta le proprie disavventure iniziate con lo scontro
notturno con una ronda, che lo sottopone a un estenuante quanto inutile inter3
rogatorio. Una volta tornato a casa, i guai continuano: vi trova infatti un soldato
francese desideroso di godersi le grazie di sua moglie e che non vuole sentire
ragioni; alle proteste del povero Giovannino reagisce in malo modo e lo picchia.
La poesia, insieme a Olter desgrazzi de Giovannin Bongee (1813), alla Ninetta
del Verzee (1814) e al Lament del Marchionn di gamb avert (1816), intende
rappresentare il mondo popolare della Milano contemporanea, dove una serie di
personaggi, sprovveduti e sfortunati, si scontra con una realtà dura e crudele, fatta
di angherie e soprusi. Porta cerca di scoprire i veli di questa realtà, indagando nelle
sue pieghe più nascoste; fondamentale strumento di quest’operazione diventa, allora, il dialetto milanese, la lingua parlata da quella massa variopinta di persone.
Il poeta opera sicuramente all’interno di una grande tradizione letteraria: già nel
secolo XVI era presente a Milano una produzione poetica dialettale sia di matrice
colta che popolare. Nel Seicento, inoltre, ebbero grande fortuna le bosinate (da Bosino, diminutivo di Ambrogio, indicante il poeta dialettale milanese), testi poetici
che traevano argomento dagli eventi quotidiani della vita cittadina e assumevano
spesso un tono polemico. Si impegnarono in una produzione di tipo dialettale
anche grandi autori come Carlo Maria Maggi e, successivamente, Carlo Antonio
Tanzi, Domenico Balestrieri e lo stesso Giuseppe Parini, i quali diedero al dialetto
una vera e propria dignità letteraria; essi, tra l’altro, poterono servirsi anche di
una precisa norma grammaticale scritta, risalente già ai primi anni del secolo XVII.
Giovannin Bongee: l’ingenua voce del popolo
Giovannino, tornando a casa dopo una giornata di duro lavoro, si ritrova addirittura a dover subire,
del tutto inaspettatamente, un inutile quanto estenuante interrogatorio fattogli per strada da un
gruppo di prepotenti soldati francesi, che poi alla fine lo lasciano andare. Il brano che segue è costituito dai primi sessanta versi dei Desgrazzi.
[Desgrazzi de Giovannin Bongee, vv. 1-60]
6
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Deggià, Lustrissem, che semm sul descors
de quij prepotentoni de Frances,
ch’el senta on poo mò adess cossa m’è occors
jer sira in tra i noeuv e mezza e i des,
giust in quell’ora che vegneva via
sloffi e stracch come on asen de bottia.
Giacché, Illustrissimo1, siamo sul discorso
di quei prepotentoni di francesi,
senta un po’ qual cosa m’è capitata
ieri sera tra le nove e mezza e le dieci,
giusto all’ora che me ne venivo
stanco morto come un asino dalla bottega.
Seva in contraa de Santa Margaritta
e andava inscì bell bell come se fa
ziffoland de per mì sulla mia dritta,
e quand sont lì al canton dove che stà
quell pessee che gh’ha foeura i bej oliv
me senti tutt a on bott a dì: Chi viv?
Ero in contrada Santa Margherita
e me ne andavo così bel bello come si usa,
fischiettando per i fatti miei,
e quando son lì al cantone dove sta
quel pizzicagnolo che ha fuori le belle olive,
mi sento dire tutt’a un tratto: Chi vive?
m
Metro: ottave di versi endecasillabi;
rime a schema ABABABCC
4
1. Illustrissimo: il protagonista si rivolge
a un ignoto personaggio di elevato rango
sociale, ribaltando così la distanza che li
separa. Anche altri componimenti di Porta
sono monologhi rivolti a indefiniti interlocutori.
Guardo avanti, e ho capito dall’infilata
di fucili2 e dallo strepito delle ciabatte
che mi ero imbattuto nella ronda, e che era
senz’altro la ronda dei Croati3
e io, vedendo la ronda che viene avanti,
mi fermo lì senza muovermi: va bene?
18
Vardi innanz, e hoo capii dall’infilera
di cardon e dal streppet di sciavatt
che seva daa in la rondena, e che l’era
la rondena senz’olter di Crovatt;
e mì, vedend la rondena che ven,
fermem lì senza moeuvem: vala ben?
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Quand m’hin adoss che asquas m’usmen el fiaa, Quando mi sono addosso che quasi mi
[annusano il fiato,
il primo di tutti che era il tamburino,
el primm de tutt, che l’eva el tamborin,
tracchete4! questo asinone porco del
traccheta! sto asnon porch del Monferaa
[Monferrato5
el me sbaratta in faccia el lanternin
mi spalanca in faccia il lanternino
e el me fa vedè a on bott sò, luna, stell,
e mi fa vedere a un tratto sole, luna, stelle,
a ris’c de innorbimm lì come on franguell.
a rischio di accecarmi lì come un fringuello.
Ero tanto arrabbiato di quell’azione
che Dio ne guardi fosse stato un altro6.
Basta: un signore che era proprio al fianco di
[questo birbone,
che sarà stato senz’altro il signor ispettore,
ch’el sarà staa el sur respettor senz’olter,
dopo avemm ben lumaa, el me dis: Chi siete? dopo avermi ben scrutato, mi dice: Chi siete?
Che mestiere fate? Dove andate? Dite!
Che mester fate? Indove andé? Dicete!
Seva tanto dannaa de quella azion
che dininguarda s’el fudess staa on olter.
Basta: on scior ch’eva impari a sto birbon,
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Foo el cavalier, vivi d’entrada, e mò!
ghe giontaravel fors quaj coss del sò?
Chi sono? rispondo franco, dove vado?
Sono galantuomo e vado per i fatti miei;
quanto poi al mestiere che faccio,
gliene viene qualcosa in tasca per volerlo
[sapere?
Faccio il cavaliere, vivo d’entrata, e allora!
ci rimette forse qualcosa di suo?
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Me par d’avegh parlaa de fioeu polid,
neel vera? Eppur fudesell ch’el gh’avess
ona gran volentaa de taccà lid,
o che in quell dì gh’andass tusscoss in sbiess,
el me fa sercià sù de vott o des
e lì el me sonna on bon felipp de pes.
Mi pare di avergli parlato da bravo figliolo,
non è vero? Eppure, fosse che egli avesse
una gran voglia di attaccar lite,
o che quel giorno gli andasse tutto di traverso,
mi fa accerchiare da otto o dieci
e mi affibbia lì una bella ramanzina7.
Chi sont? respondi franco, in dove voo?
Sont galantomm e voo per el fatt mè;
intuitù poeu del mestee che foo,
ghe ven quaj cossa de vorrel savè?
2. di fucili: letteralmente «di cardi»; la
metaforau vuole indicare una fila di fucili
con la baionetta inserita.
3. Croati: i francesi vengono chiamati così
per una forma di disprezzo nei loro confronti.
4. tracchete: riecheggia il rumore dello sportellino della lanterna; le voci onomatopeicheu sono frequenti nella scrittura portiana.
5. questo … Monferrato: tipica espressione milanese che si riferisce alla corporatura robusta
degli asini del Monferrato; potrebbe inoltre far
riferimento alla leggenda monferrina di un essere mostruoso in parte asino e in parte maiale.
6. Ero tanto … altro: Giovannino cerca
chiaramente di passare per la persona coraggiosa che in realtà non è.
7. ramanzina: l’espressione presente nella
versione dialettale «suonare un buon filippo di peso» significava dare una moneta
(il filippo era una moneta milanese-spa­
gnola) non contraffatta; in seguito la formula fu utilizzata anche con il senso di
«fare una ramanzina».
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Hoo faa mì dò o trè voeult per rebeccamm
tant per respondegh anca mì quajcoss,
ma lu el torna de capp a interrogamm
in nomo della legge, e el solta el foss,
e in nomo della legge, già se sa,
sansessia, vala ben? boeugna parlà.
Ho cercato due o tre volte di riavermi
tanto per rispondergli anche io qualche cosa,
ma lui ricomincia a interrogarmi
in nome della legge, e va per le spicce,
e in nome della legge, già si sa,
sia quel che sia, va bene? bisogna parlare.
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E lì botta e resposta, e via d’incant;
Chi siete? Giovannin. La parentella?
Bongee. Che mester fate? El lavorant
de frust. Presso de chi? De Isepp Gabella.
Indovè? In di Tegnon. Vee a spass? Voo al cobbi.
In cà de voi? Sursì. Dovè? Al Carrobbi.
E lì botta e risposta, e via d’incanto;
Chi siete? Giovannin. Il cognome?
Bongee. Che mestiere fate? Il lavorante
di frusto8. Presso di chi? Da Isepp Gabella.
Dov’è? Ai Tignoni9. Andate a spasso? Vado a casa10.
In casa vostra? Signorsì. Dov’è? Al Carrobbio.
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Al Carobbi! In che porta? Del piattee.
Al numer? Vottcent vott. Pian? Terz, e inscì?
El sattisfaa mò adess, ghe n’hal assee?
Fusse mò la franchezza mia de mì,
o ch’el gh’avess pù nient de domandamm,
el va, e el me pienta lì come on salamm.
Al Carrobbio! In che portone? Del piattaio.
Al numero? Ottocento otto. Piano? Terzo, e così?
Soddisfatto adesso, ne ha abbastanza?
Fosse ora la mia propria franchezza,
o che non avesse più niente da domandarmi,
se ne va, e mi pianta lì come un salame.
8. lavorante di frusto: sta a indicare un lavoro presso un sellaio (lavorante di fruste)
o presso un rigattiere (lavorante di cose
fruste, usate).
9. Gabella …Tignoni: siamo di fronte a
dei “nomi parlanti”: il nome del datore di
lavoro riecheggia, infatti, il termine gabellare (imbrogliare), mentre l’indicazione
topografica dell’esercizio richiama il concetto di taccagneria.
10. casa: il termine dialettale cobbi sta per
«covile»: forma gergale per indicare la casa.
Leggere e interpretare
Porta fa in modo che la realtà in cui è calato il protagonista si rappresenti da sé, come in
una fotografia. Il poeta raffigura il mondo delle povere vittime di una società dove l’ingiustizia regna incontrastata e dove, per sopravvivere, ogni illusione deve essere abbandonata. Giovannino, invece, con la propria ingenuità, è incapace di essere coraggioso e di
contrastare chi l’opprime, subendo inesorabilmente ogni sorta di angheria, pur se cerca di
far mostra al proprio interlocutore di una certa temerarietà, di stampo prettamente illusorio
e burlesco. Porta comunque rinuncia a farsi giudice in prima persona di una realtà degradata;
egli, piuttosto, lascia che la riflessione morale nasca dalla semplice rappresentazione oggettiva
di quel mondo, in cui, è chiaro, il poeta non scorgeva alcuna speranza di progresso e miglioramento. In questo senso Giovannino, vittima proprio di quella realtà, non diventa però l’emblema
di nuovi valori umani e non si fa portavoce, da parte dell’autore, di una rinnovata morale, laica
o religiosa che sia.
La rappresentazione di
una società
ingiusta
L’impronta
realistica del
dialetto
6
Il dialetto di Porta è strumento fondamentale per rappresentare al meglio la realtà delle
classi subalterne. Con un linguaggio spoglio e senza artifici, il poeta crea un clima di naturalezza e immediatezza, che conferisce alla composizione una forte impronta realistica.
Le sestine sono formate da endecasillabi piuttosto regolari, dal timbro lirico pacato, che
contribuiscono a conferire disinvoltura al testo.
Dal testo alla produzione
1. Di chi diventa simbolo il povero Giovannino?
2. Sapresti indicare i passaggi in cui Giovannino cerca di mostrarsi coraggioso agli occhi di chi lo
ascolta, e dove invece traspare la sua vigliaccheria?
3. Dalla lettura del testo ti sembra che il poeta intraveda una possibilità di miglioramento per le classi
subalterne?
4. Ricerca le metafore, le interrogazioni, le esclamazioni e le onomatopee presenti nel monologo di
Giovannino.
5. Descrivi quelle che per te sono le forme di ingiustizia sociale oggi.
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