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Studi biblici – Past. Francesco Zenzale Muta il mio dolore in danza (Vivere la sofferenza con speranza) «Il piacere è spesso un visitatore; ma la sofferenza si attacca crudelmente e lungamente a noi» (John Keats). «Tu hai mutato il mio dolore in danza; hai sciolto il mio cilicio e mi hai rivestito di gioia» (Sl 30:11) Se mi chiedessero di scrivere una lettera ad una bambina che sta per nascere, lo farei così: «Cosa hai sentito finora del mondo attraverso l’acqua e la pelle tesa della pancia della mamma? Cosa ti hanno detto le tue orecchie imperfette delle nostre paure? Riusciremo a volerti senza pretendere, a guardarti senza riempire il tuo spazio di parole, inviti o divieti? Riusciremo ad accorgerci di te anche dai tuoi silenzi, a rispettare la tua crescita senza gravarla di sensi di colpa e di affanni? Riusciremo a stringerti senza che il nostro contatto sia richiesta spasmodica o ricatto d’affetto? Vorrei che i tuoi Natali non fossero colmi di doni -­‐ segnali a volte sfacciati delle nostre assenze -­‐ ma di attenzioni. Vorrei che gli adulti che incontrerai fossero capaci di autorevolezza, fermi e coerenti: qualità dei più saggi. E la consapevolezza che nel mondo in cui verrai esistono oltre alle regole le relazioni e che le une e le altre non sono meno necessarie delle altre, ma facce di una stessa luna presente. Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse a inseguire le emozioni... tutte anche quelle che sanno di dolore...».1 La cultura in cui viviamo tende ad espellere la sofferenza, a negarla, esorcizzarla (talismani, amuleti, droga, alcol, ecc.), a rimuoverla o addirittura a “ucciderla” (suicidio/omicidio). I fatti di cronaca d’inaudita violenza, come quelli di uomini e donne che pongono fine all’esistenza di un genitore, di un figlio o dell’ex fidanzata o moglie, sono l’espressione violenta di una società che non accetta più la sofferenza in qualsiasi modo si manifesti. Non ci si può permettere di essere tristi, infelici, annoiati, scontenti e quindi, se capita di esserlo, ci si rivolge ai tecnici della felicità, nella speranza che trovino la pillola giusta o la ricetta giusta, che facciano sparire quelle fastidiose emozioni che proviamo. L’attuale generazione non ha imparato o non le è stato insegnato ad affrontare la sofferenza.2 La sindrome del puer aeternus (eterno bambino), oggi così diffusa, è dovuta proprio all’incapacità di accettare la sofferenza. Non si cresce, si resta psicologicamente bambini perché invece di affrontare il dolore e la sofferenza -­‐ inevitabili in questa vita3 -­‐ si preferisce evitarli. Indubbiamente a nessuno fa piacere soffrire, e tutti vorremmo per noi e per i nostri cari, una vita facile esente da qualsiasi tipo di ombra, eppure non è la cosa fondamentale. «Ciò che è veramente importante è che ritroviamo un senso alla nostra esistenza e lo realizziamo per quanto possibile, sia agendo energicamente, sia in un’esperienza umana, sia anche con un eroico atteggiamento verso la sofferenza. Niente e nessuno può limitare la libertà spirituale della persona se non è essa stessa a farlo, e nessun destino può metterci in ginocchio se non siamo disposti a piegarci» (E. Lukas). 1
Non siamo capaci di ascoltarli -­‐ P. Crepet I bambini sono privati del valore della sofferenza, ad ogni pianto, vero o capriccioso che sia, i genitori intervengono, per sottrarli al dolore. La motivazione, che regola tale comportamento, è: “Io ho sofferto, non voglio che i miei figli soffrano”, quindi li allevano nella bambagia, come se vivessero in una campana di vetro. In questo modo i figli non acquisiscono quella giusta dose di tolleranza e di sopportazione al dolore, e rischiano di rimanere eterni bambinoni e cercheranno sempre di evitare la sofferenza creando delle dipendenze psicologiche, ecc. 3
La sofferenza non è un optional, ma «una» condizione di vita. La sofferenza è come il sale nel mare. Essa è la conseguenza logica del peccato (Genesi 3: 16-­‐19). Per non soffrire e morire non dovevamo nascere. 2
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Studi biblici – Past. Francesco Zenzale I grandi uomini devono la loro grandezza alla sofferenza, mediante la quale sono stati forgiati nel carattere. Non si sono sottratti ad essa, ma l’hanno affrontata, sopportata e superata. Hanno pianto, sofferto e vinto. Molte persone si sono temprate nel fuoco della sofferenza, e spesso la maturità interiore -­‐ e anche quella spirituale -­‐ si raggiunge solo attraverso un doloroso processo di crescita psico-­‐spirituale. Quante volte é successo, nella mia vita, di vedere di più in una lacrima negli occhi di uomini e donne, piccoli e grandi! Il dolore e la sofferenza, non sono segnali dell’ira di Dio come molta gente pensa, ma esattamente il contrario. «Alcune volte Dio lava gli occhi dei Suoi figli con lacrime, affinché questi possano vedere correttamente la Sua provvidenza ed i suoi comandamenti» (T. L. Cuyler). «La vita non è solo rose e fiori, però sappiamo di non essere lasciati soli con i nostri problemi , Dio ci è vicino per aiutarci e ci mette in condizione di andare avanti senza dubitare».4 La sofferenza nella Parola di Dio5 “L’obiezione di Ivan Karamazov, nel celebre romanzo di Dostoievski, resta per molti il più grande ostacolo alla fede in un Dio d’amore: ci si può fidare di Dio in un mondo dove dei bambini sono torturati? Se Dio è buono, come può permettere la sofferenza degli innocenti? Testimone della ricerca spirituale dell’uomo lungo i secoli, la Bibbia stessa è alle prese con questa domanda. I salmi ci presentano lo smarrimento dei fedeli di fronte alla felicità dei malvagi e all’infelicità dei giusti: «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina… Ma io a te, Signore, grido aiuto, e al mattino giunge a te la mia preghiera. Perché, Signore, mi respingi, perché mi nascondi il tuo volto?» (Salmo 73,13-­‐
14; 88,14-­‐15). Chiaramente, la vecchia spiegazione che fa della pena una conseguenza del peccato non funziona sempre, esistono innumerevoli casi in cui la sofferenza non è la conseguenza di un’esistenza lontana da Dio. Nelle Scritture ebraiche, la figura di Giobbe è l’esempio tipico che suscita questo interrogativo. Uomo giusto e pio attraversa molte prove, ma rifiuta di abbandonare sia l’affermazione della sua innocenza sia la sua relazione con il Signore. Restando unito sino alla fine a questi due poli, Giobbe vede la sua lotta con il Signore sfociare in una nuova scoperta. Non si tratta di una spiegazione intellettuale, come di una giustificazione della sofferenza, cosa mostruosa che Dio non può mai dare, ma è piuttosto la rivelazione di un contesto dove tutto cambia di prospettiva. Giobbe comprende che il tentativo di gettare su Dio la responsabilità della sofferenza porta a un vicolo cieco, all’errore più grande. Scartata questa falsa pista, il campo è ormai libero per una comprensione più vera. Infatti questa visione è presente sin dall’inizio della rivelazione biblica. Il primo innocente che incontriamo nelle pagine della Bibbia è Abele, ingiustamente ucciso da suo fratello Caino. A questo proposito l’autore della Genesi scrive delle parole stupefacenti: «Il Signore disse a Caino: Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi 4,10). Nella Bibbia il sangue è la vita (vedi Levitico 17,11.14), e questa vita annientata dalla malvagità umana ritrova paradossalmente una voce. Lungi dall’essere soffocato dalla violenza degli uomini, il desiderio di vita che abita il cuore della vittima è liberato attraverso la sua innocenza ferita. Il suo grido giunge fino a Dio e provoca il suo intervento. Questa stessa dinamica è presente nella storia della salvezza, nel racconto dell’Esodo. Quel che fa scendere Dio sulla terra non è qualche atto di prodezza o di dedizione da parte degli esseri umani, ma piuttosto il grido che nasce dalla loro oppressione. I lamenti degli schiavi mettono in moto un vasto processo di liberazione nel quale Dio si fa presente ( vedi Esodo 2,23-­‐25). 4
Comincia a vivere, p. 37 Lettera da Taizé: 2003/6 http://www.taize.fr/it_article1202.html 5
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Studi biblici – Past. Francesco Zenzale Con i profeti d’Israele, si fa un ulteriore passo in avanti. Essi sperimentano fin nella loro carne che Dio, l’Innocente per eccellenza, è rifiutato da un popolo che si crede autosufficiente. Come Osea costretto a sopportare con pazienza il tradimento della sua amata, immagine della fedeltà di Dio con il suo popolo infedele. Come Geremia esposto all’esclusione e alla persecuzione, «uomo di litigio e di contrasto per tutto il paese», condannato a rimanere solo con una «piaga incurabile» (Geremia 15,10.17-­‐18). Occorrerebbe del tempo per comprendere che quegli uomini ci danno, in effetti, un’idea del cuore stesso di Dio, quando soffrono per non essere ascoltati né capiti. Se la vita dei profeti rivela che la sofferenza degli innocenti non solo spinge Dio all’azione per ristabilire la giustizia ma è anche il luogo privilegiato in cui gli esseri umani possono entrare nel suo mistero, una figura misteriosa che troviamo in Isaia 40-­‐55 esprime questa verità molto chiaramente. Si tratta di un essere umano, descritto come l’ultimo degli ultimi, «oggetto di disprezzo», che ama e così prende su di sé tutta la malvagità degli altri trasformandola in sofferenza (vedi Isaia 53). Ed ecco che quest’uomo apparentemente respinto è effettivamente il Servo di Dio, cioè qualcuno che realizza sulla terra la volontà divina di salvezza. Se «al Signore è piaciuto prostrarlo con la sofferenza» (Isaia 53,10), è per esaltarlo davanti a tutti, affinché tutti vedano in lui l’attività di Dio stesso: Dio riconcilia a sé coloro che lo rifiutano, prendendo su di sé le conseguenze della loro infedeltà. La vita di Gesù ci dice qualcosa di più? Non è un caso che i primi cristiani si siano soffermati su questi capitoli d’Isaia, quando cercavano nelle Scritture delle luci per comprendere la sorte del loro maestro, Gesù. Le guarigioni che egli compie testimoniano già la sua volontà di prendere su di sé per amore le sofferenze degli altri (vedi Matteo 8,16.17). Però è soprattutto il suo modo d’affrontare una morte atroce che rompe il cerchio infernale del male. La condanna di un giusto che risponde con il perdono (vedi Luca 23,17.34) permette l’adempimento del disegno di Dio che è quello di rendere giuste le moltitudini (vedi Isaia 53,10-­‐11). In altre parole, la sofferenza di un innocente vissuta fino in fondo dona a tutti gli esseri umani la leggerezza di un’innocenza ritrovata. Il sangue di Gesù è «più eloquente di quello di Abele» (Ebrei 12,24) perché suscita la venuta di Dio sulla terra come sorgente inesauribile di una nuova vita. L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse di san Giovanni, presenta questo processo al capitolo 6, attraverso la sua visione sullo svolgimento della storia umana. Si tratta di un libro chiuso da sette sigilli. I primi quattro descrivono l’umanità abbandonata a se stessa, come una curva inesorabile che discende verso la morte. Con il quinto sigillo entriamo nel movimento inverso, l’attività salvatrice di Dio. E questa comincia giustamente con il grido delle «anime che furono immolate…» (Apocalisse 6:9-­‐11), in cui bisogna vedere non solo i martiri cristiani, ma «tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue dell’innocente Abele» (Matteo 23,35; vedi Apocalisse 18,24). In Dio, il sangue degli innocenti diviene portatore di un dinamismo che contrasta gli effetti distruttori della violenza. La loro apparente sconfitta inaugura un movimento di liberazione che culmina nella croce di Cristo. È ciò che è manifestato dall’apertura del sesto sigillo, dove si parla del «grande giorno dell’ira dell’Agnello» (Apocalisse 6,17). L’«ira di Dio» è la parola caratteristica utilizzata nella Bibbia per esprimere la sua risposta al peccato, risposta che tende a ristabilire la giustizia disprezzata. Qui, si riferisce all’atto con il quale Gesù prende su di sé tutto il male umano, subendone le conseguenze fino all’estremo, nel suo stesso corpo (vedi 1 Pietro 2,21-­‐24). Donando la sua vita fino in fondo, Gesù condivide la sorte di tutte le vittime innocenti e così assicura che la loro pena non è stata vana. Porta le loro sofferenze all’interno della propria relazione con colui che chiama Abbà, Padre, e poiché il Padre lo ascolta sempre (vedi Giovanni 11,42), noi abbiamo la certezza che questa sofferenza non va perduta. Essa conduce alla scomparsa dell’antico ordine mondiale segnato dall’ingiustizia, e all’apparizione «di nuovi cieli e di una nuova terra, dove la giustizia abiterà» (2 Pietro 3,13). Ecco la risposta definitiva, frutto di una vita vissuta, data a Ivan Karamazov e a Giobbe. Lungi dal 3
Studi biblici – Past. Francesco Zenzale tollerare anche solo per un istante la sofferenza degli innocenti, nel suo Figlio unigenito Dio beve con loro quel calice amarissimo e, così facendo, la trasforma in una coppa di benedizione per tutti”. Infatti, verrà il giorno in cui «Il corpo è seminato corruttibile, e risuscita incorruttibile; è seminato ignobile, e risuscita glorioso; è seminato debole, e risuscita potente; è seminato corpo naturale, e risuscita corpo spirituale […]e come abbiamo portato l'immagine del terreno, così porteremo anche l'immagine del celeste. Or questo dico, fratelli, che carne e sangue non possono eredare il regno di Dio né la corruzione può eredare la incorruttibilità. Ecco, io vi dico un mistero: non tutti morremo, ma tutti saremo mutati, in un momento, in un batter d'occhio, al suon dell'ultima tromba. Perché la tromba suonerà, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo mutati. Poiché bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità, e che questo mortale rivesta immortalità» (1 Corinzi 15, 42-­‐53). Muta il mio dolore in danza L’uomo angosciato e afflitto ha bisogno di ben altro che di parole come: «sentite condoglianze» o «coraggio vedrai che passerà», per quanto possano manifestare affettuosa vicinanza. La retorica non può lenire il nostro dolore, quando è profondo. E tuttavia abbiamo qualcuno che ci accompagna e ci guida lungo la via dolorosa della prova, capace di trasformare il nostro dolore in danza, che ci insegna a vivere la vita con speranza. Il Signore ci invita a non avere paura, perché «quando passerai per delle acque, io sarò teco; quando traverserai de' fiumi, non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco, non ne sarai arso, e la fiamma non ti consumerà. Poiché io sono l'Eterno, il tuo Dio, il Santo d'Israele, il tuo salvatore […] Perché tu sei prezioso agli occhi miei, perché sei pregiato ed io t'amo […] Non temere, perché, io sono teco; io ricondurrò la tua progenie dal levante, e ti raccoglierò dal ponente» (Is 43: 1-­‐5). Questo brano della parola ispirata contiene dei preziosi insegnamenti sulla natura di Dio e sul modo come egli si relaziona con l’uomo sofferente. Egli non è né lontano, né vicino, è con l’uomo in tutte le sue vicissitudini e lo invita a vivere il dolore come un’occasione di risanamento e la nostra afflizione come un percorso che muta il nostro dolore in danza. «Dio non vuole che il nostro animo sia angosciato da una sofferenza segreta che ci spezza il cuore; desidera che ci rivolgiamo a lui nella consapevolezza del suo amore. Molti hanno gli occhi così velati dalle lacrime che non scorgono il Salvatore che è accanto a loro. Egli sarebbe felice di prenderci per mano, se solo ci rivolgessimo a lui e ci lasciassimo guidare nella semplicità della fede. Egli è sensibile alle nostre angosce, alle nostre sofferenze e alle nostre preoccupazioni. Egli ci ama di un amore eterno e ci circonda di attenzioni. Se resteremo uniti a lui, meditando sulla sua grande bontà, egli ci aiuterà a elevare il nostro animo al di sopra delle tristezze e dei dubbi quotidiani per assicurarci la vera pace».6 «Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati» (Mt 5.4). Con questa beatitudine il Signore ci incoraggia a elaborare la nostra sofferenza nel suo amore, anziché rimuoverla, perché «accogliendo le sofferenze della vita con un atteggiamento diverso dal rifiuto potremo scoprire qualcosa di inatteso. Invitando il Signore a vivere con noi le nostre tribolazioni edificheremo la nostra vita – anche il suo lato oscuro – sul fondamento della gioia e della speranza».7 Non dimentichiamo che «tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano il Signore» e noi possiamo essere «più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati» (Rm 8:28; cfr 31-­‐39). Ciò significa che piuttosto che chiederci «come posso liberarmi dalla mia sofferenza?», dovremmo porci la seguente domanda: «come posso renderla un’occasione di crescita e di discernimento?». Con la giusta disposizione d’animo, la sofferenza può diventare nelle mani di Dio uno strumento attraverso il quale è possibile acquisire la maturità affettiva e spirituale che ci rende idonei per il cielo. L’apostolo Paolo esorta i credenti «a 6
E. G. White, Con Gesù sul monte delle beatitudini”, ed. AdV, Falciani – Impruneta -­‐ (Fi), p. Henri Nouwen, “Muta il mio dolore in Danza”, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, terza edizione 2004, p.11. 7
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Studi biblici – Past. Francesco Zenzale perseverare nella fede, dicendo loro che dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (Atti 14: 22).8 Dal dolore alla danza Come leggere la sofferenza, tale da trasformare il dolore in un’opportunità di crescita? Come primo passo è importante capire «che la guarigione inizia quando sottraiamo la nostra sofferenza al suo diabolico isolamento, e capiamo che, qualunque essa sia, noi la sopportiamo in comunione con tutta l’umanità, anzi con tutto il creato».9 L’apostolo Paolo evidenzia che «tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l'adozione, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8: 22-­‐23). Il secondo passo consiste nel valutare il nostro dolore senza avere vergogna di piangere. «Sembra un paradosso, ma guarire e danzare iniziano da qui: dal guardare a viso aperto ciò che ci causa dolore. Affrontiamo quelle perdite rimosse che ci hanno paralizzato e tenuto imprigionati nel rifiuto, nella vergogna o nella colpa […] Cercando di occultare parte della nostra storia a Dio e alla nostra coscienza, ci ergiamo da giudici del nostro passato e limitiamo la misericordia divina ai nostri timori umani [...] Quando Gesù disse: “non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mt 9:13), affermò che quanti sono coloro che sono capaci di affrontare la loro condizione ferita possono essere sanati e intraprendere una nuova vita».10 Questo training implica da una parte prendere le distanza dal nostro io sofferente, fragile e lamentoso; dall’altra l’oggettivazione del problema e una maggiore consapevolezza dei nostri reali bisogni. 11 In questo modo evitiamo la tentazione di intendere la vita come un esercizio teso a soddisfare ogni nostro bisogno, che indubbiamente accentua la sofferenza quando non si riesce ad appagare. Un terzo passo importante è la scelta di decidere come vivere la sofferenza. Nella vita ci sono delle perdite, come la morte di una cara persona o una malattia incurabile. Ad esempio: da anni soffro di una malattia degenerativa dei reni e pertanto la mia funzionalità renale si è ridotta al punto che sono stato costretto ad andare in pensione anticipatamente. Come conseguenza della disfunzione renale, per mancata ossigenazione delle teste femorali, ho subito due interventi chirurgici (due protesi femorali), oltre i primi quattro interventi alla schiena per ernia discale recidiva. Questo “incidente” di percorso ha cambiato la mia vita e il mio stato d’animo e per una persona come sono io, molto attiva, è facile cadere in depressione o nello scoraggiamento. Dopo aver elaborato il dolore, in preghiera ho chiesto al Signore: che cosa vuoi che io faccia ora? Come posso trasformare questa perdita della salute in un’opportunità per imparare qualcosa di nuovo, per far sì che questa mia “impotenza” sia di testimonianza ad altri? 8
«Le prove e gli ostacoli sono il metodo di disciplina scelto da Dio, e le condizioni da lui poste perché i suoi figli giungano al successo. Il fatto che noi siamo chiamati a sopportare la prova dimostra che il Signore vede in noi qualcosa di prezioso che Egli desidera sviluppare... É oro di valore quello che Egli raffina». (E. G. White, “The Ministry of Healing”, p. 471). “Siccome il mondo diventa sempre più malvagio, nessuno di noi ha motivo di illudersi che non avremo difficoltà. Sono proprio queste che ci porteranno fino nella sala di udienza dell’Altissimo” (Christ’s Object Lesson, p. 172). 9
Henri Nouwen, “Muta il mio dolore in Danza”, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, terza edizione 2004, p.16. 10
Idem, p. 17 11
Il bisogno è uno dei vocaboli (desiderio, impulso, motivo, esigenza, ecc.) che designano una forza localizzata nel cervello, eccitabile internamente o esternamente, soggettivamente esperita come impulso o spinta ad agire alla vita o a compiere una determinata azione. Bisogni primari: Sono tutti quelli la cui soddisfazione è indispensabile per la sopravvivenza come mangiare,bere,dormire; sono bisogni avvertiti da tutti gli esseri viventi. Bisogni secondari: Sono tutti quelli la cui soddisfazione non è indispensabile per la sopravvivenza per l'uomo come andare al cinema,ballare,leggere; sono bisogni che si avvertono dopo aver soddisfatto i bisogni primari. Bisogni indotti: Sono tutti quelli legati alla pubblicità di prodotti di consumo, giocattoli, ecc., dietro i quali ci sono le multinazionali. 5
Studi biblici – Past. Francesco Zenzale Il signore ha mutato il mio dolore in danza: continuo a fare il pastore, ma online e con la gioia di tutti coloro che mi scrivono ringraziandomi per la speranza che riesco ad infondere nei loro cuori e per la gioia di sentire che una persona ha accettato Gesù come suo personale salvatore ed altre che lo seguono da vicino. «Le perdite possono essere irreparabili. Ma a noi resta una scelta: come le vivremo? Siamo incessantemente chiamati a scoprire lo Spirito di Dio all’opera nelle nostre vite, dentro di noi, anche nei momenti più bui. Siamo invitati a scegliere la vita. Una chiave per comprendere la sofferenza sta nel non ribellarci ai problemi e alle croci che la vita ci pone di fronte».12 Indubbiamente, soffrire ci avvilisce, ci deprime; ci rammenta con straordinaria efficacia la nostra pochezza, la nostra fragilità. «Ma è proprio qui, in questo nostro strazio, o avvilimento,o disagio, che il Danzatore ci invita a rialzarci e a muove i primi passi. Perché è nella nostra sofferenza, e non a prescindere da essa, che Gesù penetra nel nostro sconforto, ci prende per mano, ci rialza dolcemente e ci invita alla danza. E noi troviamo il modo di unirci alla preghiera del salmista: «Tu hai mutato il mio dolore in danza; hai sciolto il mio cilicio e mi hai rivestito di gioia» (Sl 30:11), perché al centro del nostro dolore scopriamo la grazia di Dio».13 Il quarto passo rilevante è la gratitudine.14 Nel senso più profondo del termine significa vivere la vita come un dono che va ricevuto con riconoscenza. La vera gratitudine accetta tutti gli aspetti della vita: il bene e il male, la gioia e il dolore, perché la vita, dono di Dio, la si vive con la consapevolezza della sua dolce presenza (Ebr.13:5; Is 49:15-­‐16). Anche quando la nostra mente può essere offuscata dalla sofferenza e dal dolore, nel cuore abbiamo la certezza che il Cristo ci ama. Egli comprende le nostre debolezze e le nostre ferite, riposiamoci quindi fra le sue braccia. Impariamo ad esprimere con il cuore e le labbra le lodi a Dio per il suo amore senza limiti. Educhiamo il nostro animo ad alimentare una profonda speranza, a vivere nella luce che splende dalla croce del Calvario. Dobbiamo ricordare costantemente che siamo figli del Re del cielo, figli del Signore degli Eserciti. È un vero privilegio poter conservare una serena tranquillità. Giobbe nei momenti difficili aveva dichiarato: «Maledetto il giorno in cui sono nato...» (Giobbe 3:3; cfr. 6:2,8-­‐10; 7:11,15,16). Nonostante Giobbe fosse stanco della vita, aveva nel cuore la speranza di un avvenire migliore. Infatti, dallo scoraggiamento e dall’abbattimento più profondo, Giobbe si rialzò affidandosi completamente alla misericordia e alla potenza redentrice di Dio, gridando trionfalmente: «Io lo so, colui che mi difende è vivo; egli un giorno mi riabiliterà, e, perduta la mia pelle, distrutto il mio corpo, io stesso vedrò Dio. Lo vedrò accanto a me e lo riconoscerò. Lo sento con il cuore, ne sono certo» (19:25-­‐27; cfr. 13:15,16). «Poi il Signore stesso, avvolto da un forte vento, parlò a Giobbe...» (38:1) e fece conoscere al suo servitore la sua potenza. Quando Giobbe ricevette la rivelazione del suo Creatore si vergognò di se stesso e si pentì umiliandosi nella polvere e nella cenere. Allora il Signore poté benedirlo abbondantemente e i suoi ultimi anni furono i migliori della sua vita. «Venite a me, voi tutti che siete travagliati e aggravati, ed io vi darò riposo» (Mt 11:28). Se Gesù rivolge ai suoi figli questo invito, vuol dire che Egli è disposto ad ascoltarci e che non c’é aspetto della nostra vita che Dio non voglia interessarsi: bello o brutto che sia. Dobbiamo, veramente, dirgli tutto e con tutto il cuore. Per quanto triste sia stato il nostro passato, per quanto doloroso sia il presente se ci avviciniamo a Gesù così come siamo, deboli, avviliti, disperati, il nostro Salvatore ci accoglierà. Ci aprirà le braccia della grazia e dell’amore e saremo rafforzati e resi capaci di accettarle e di superarle. 12
Idem. p. 23 Idem, p. 24 14
Sentimento di profonda e affettuosa riconoscenza per un beneficio ricevuto e di sincera e completa disponibilità a contraccambiarla (Vocabolario della lingua italiana Devoto-­‐Oli). 13
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Studi biblici – Past. Francesco Zenzale Le nostre pene quotidiane saldamente ancorate a Gesù acquistato un nuovo significato esistenziale e con il suo aiuto possiamo ancora danzare. «Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime nell'otre tuo; non le registri forse nel tuo libro?» (Salmo 56:8). 7
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