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l`udienza preliminare
L’UDIENZA PRELIMINARE: IL SUO SVOLGIMENTO, I POTERI INTEGRATIVI DEL GIUDICE E GLI STANDARD PROBATORI PER IL RINVIO A GIUDIZIO L’U D I E N Z A PRELIMINARE L’udienza preliminare, insieme con la cross-examination dibattimentale, è uno degli elementi emblematici del nuovo processo penale introdotto nel 1988. Nell’idea del legislatore il rilievo dell’udienza preliminare era assolutamente centrale e questo sia per motivi di ordine sistematico che per altri di natura funzionale, tutti comunque strettamente collegati alla pratica attuazione dell’intero sistema processuale penale. L’udienza preliminare è collocata all’esito delle indagini preliminari anzi, ad essere precisi, è fuori da questa fase procedimentale poiché con la richiesta di rinvio a giudizio il P.M. esercita l’azione penale dichiarando, sostanzialmente, che quanto acquisito fino a quel momento in via preliminare è sufficiente perché si celebri il dibattimento a carico di una persona che da questo momento non è più solo indagata, ma imputata di uno o più reati. In concreto, dunque, l’udienza preliminare viene a trovarsi fra le indagini preliminari ed il dibattimento e rappresenta un passaggio “normale”, anche se non sempre necessario, verso un processo destinato a concludersi con una sentenza di merito. Va subito detto che, ad onta degli accostamenti con istituti processuali presenti in ordinamenti stranieri, l’udienza preliminare prevista nel codice del 1988 ha delle peculiarità che la rendono, per certi versi, un unicum. La funzione dell’udienza preliminare e il suo scopo, in una parola il suo significato all’interno del sistema, nonché la sua struttura e le modalità di funzionamento dei 1 meccanismi che la regolano possono essere compresi appieno solo se rapportati all’intera struttura processuale penale. In linea di massima si può dire che il legislatore del 1988 previde lo svolgimento, per dir così, “normale” del processo in due fasi. Una prima parte, cosiddetta procedimentale, nella quale il P.M. svolge nella segretezza, ma spesso senza spazio per una successiva utilizzabilità processuale, un’attività di acquisizione di fonti probatorie che avviene sotto il controllo di un giudice solo quando vi è un’importante compressione dei diritti fondamentali dell’individuo ed una fase processuale che, in pienezza di contraddittorio fra accusa e difesa, è destinata alla formazione delle prove ed in conseguenza di questa alla decisione definitiva sulla responsabilità o meno di una persona in ordine ad un fattoreato. Giova comunque precisare che se questo era lo spirito originario che informava il nuovo codice, vuoi per riforme legislative, vuoi per gli interventi della Corte Costituzionale, vuoi per l’applicazione di particolari prassi giudiziarie, c’è stato un certo annacquamento del rigore iniziale sia in tema di inutilizzabilità (fisiologica) nella fase dibattimentale degli atti raccolti dal P.M. nella fase delle indagini preliminari che per quanto riguarda la segretezza di questa fase. Resta in ogni caso inalterata l’impostazione di fondo e cioè la contrapposizione netta fra i due momenti come descritti in precedenza. L’udienza preliminare è l’istituto previsto per il “traghettamento” fra le due fasi; un “traghettamento” normalmente necessario ma certo non indispensabile e vediamo subito il perché. Innanzitutto va detto che l’udienza preliminare non è prevista per tutti i processi. L’art. 550 c.p.p. indica i reati per i quali l’esercizio dell’azione penale da parte del P.M. avviene attraverso la citazione diretta a giudizio. Si tratta delle contravvenzioni e dei delitti di competenza “monocratica” puniti con pena massima inferiore ai quattro anni di reclusione nonché di una serie di reati elencati dal II co. dell’art. 550 c.p.p.. 2 La scelta del legislatore del 1999 è in qualche modo direttamente collegata a quella operata nel 1988 con riferimento ai reati di competenza pretorile e si spiega con motivazioni di ordine meramente pratico: sono stati esclusi dal passaggio attraverso l’udienza preliminare processi aventi ad oggetto reati di scarsa rilevanza sociale o particolarmente diffusi la cui eventuale presenza in questa fase avrebbe determinato un intasamento dei ruoli dei G.U.P. rendendo praticamente impossibile la gestione della giustizia penale. L’assenza dell’udienza preliminare può anche essere conseguenza di una scelta delle parti maturata nell’ambito dei c.d. riti speciali. Una prima ipotesi è quella del decreto di giudizio immediato su richiesta del P.M. (ex art. 453 c.p.p.) o su richiesta dell’imputato (art. 419 V e VI co. c.p.p.). In entrambi i casi una delle parti chiede che si faccia luogo direttamente al dibattimento. Questi due istituti hanno in comune solo il nome ed il salto dell’udienza preliminare, le procedure in realtà sono diverse: quella ex art. 453 c.p.p. è una richiesta del P.M. basata sull’evidenza della prova e quindi sull’inutilità di sottoporre il processo al controllo di legittimità dell’azione penale anche attraverso il contraddittorio della controparte che, se viene accolta dal G.U.P., non preclude comunque alla difesa la possibilità di ricorrere a riti alternativi; l’istituto previsto dall’art. 419 co. V e VI c.p.p. più che una richiesta di giudizio immediato è una rinuncia all’udienza preliminare (già richiesta dal P.M.) della quale il G.U.P. non può che prendere atto emanando il relativo decreto. Vale la pena sottolineare queste differenze perché dimostrano che il legislatore ha sì visto l’udienza preliminare come un imbuto necessario ad evitare i dibattimenti superflui, ma sempre in un’ottica di concreta garanzia per i diritti della difesa come è evidenziato dal fatto che proprio in tema di salto dell’udienza preliminare vengono assicurati all’imputato ampi spazi di discrezionalità nella scelta della strategia processuale, laddove il P.M. può agire solo in presenza di certi presupposti e sotto il controllo del G.U.P.. L’eliminazione dell’udienza preliminare senza farsi luogo al dibattimento può poi realizzarsi attraverso il ricorso ad altri riti c.d. alternativi. 3 Fra le caratteristiche che accomunano questi procedimenti, peraltro diversissimi per tanti aspetti, vi è quella di determinare il salto totale o parziale dell’udienza preliminare quasi sempre con il consenso precedente o successivo o almeno senza l’opposizione della controparte alla definizione del processo tramite il rito speciale. Nel giudizio direttissimo vi è una situazione per alcuni versi analoga a quella del giudizio immediato ed anche se non vi è un intervento del G.U.P. resta salva la possibilità per l’imputato di avanzare richiesta di riti alternativi. Nel decreto penale il P.M. chiede direttamente la condanna dell’imputato, ma questi può opporsi e determinare l’instaurazione di un giudizio immediato o chiedere la definizione del processo tramite patteggiamento o rito abbreviato. Il patteggiamento può essere chiesto o proposto da entrambe le parti sia nel corso della fase delle indagini preliminari (art. 447 III co. c.p.p.) che prima e durante l’udienza preliminare, nei primi due casi la decisione rende del tutto superflua la celebrazione dell’udienza nel terzo ci sarà ovviamente una riduzione dei tempi solo parziale. Per quanto riguarda il rito abbreviato (richiedibile dal solo imputato e per il quale non è più previsto il consenso del P.M.), presupposto indispensabile per la sua instaurazione è l’avvenuto esercizio da parte del P.M. dell’azione penale. La scelta del legislatore, evidenziata dall’espressione imputato (e non indagato) che figura all’inizio dell’art. 438 c.p.p. è del tutto logica dal momento che per esprimere un giudizio completo e responsabile su una vicenda processuale è necessaria, quanto meno, l’ipotesi di una completezza dell’attività investigativa e una contestazione chiara e precisa degli addebiti. Vi sarebbe un altro caso di eliminazione dell’udienza preliminare ed è la particolare ipotesi di proscioglimento ex art. 129 c.c.p., ma la possibilità che il G.U.P. pronunci una sentenza di questo genere è molto contestata in giurisprudenza. L’elemento comune a tutte le fattispecie processuali ora descritte, con l’eccezione della particolarissima situazione che si viene a creare con il rito direttissimo per motivi del tutto peculiari, è che la scelta del tipo di procedimento deve ricevere l’avallo del G.U.P. il quale, avendo a disposizione prima della decisione tutti gli atti 4 di indagine, ha la possibilità di esprimersi tenendo conto di tutte le acquisizioni investigative mentre la difesa è messa sempre in condizione di attuare strategie processuali diverse. Non inganni la mancata previsione della procedura di cui all’art. 415 bis c.p.p. nell’ipotesi di richiesta di emissione di decreto di giudizio immediato, in questo caso, infatti, successivamente all’emissione del decreto di giudizio immediato l’imputato viene messo subito nelle condizioni di prendere conoscenza degli atti già depositati dal P.M. al fine di esercitare prontamente le necessarie scelte di strategia processuale (leggi avanzare richiesta di riti alternativi). In concreto, dunque, nessun aggiramento dell’udienza preliminare è consentito contro la volontà della difesa o comunque in maniera pregiudizievole per l’imputato. Il G.U.P. svolge appunto, fra le altre, una funzione di controllo quando l’iniziativa del “salto” dell’udienza non proviene dall’imputato. Combinando queste affermazioni si deve ritenere che l’udienza preliminare è un momento di riferimento importantissimo per l’instaurazione di quel contraddittorio pieno che manca nella fase delle indagini preliminari e che l’imputato vi può “rinunciare” proprio perché la sua principale funzione è di garantire alla difesa il diritto alla prova attraverso un intervento diretto sulla decisione del giudice. LA RICHIESTA DI RINVIO A GIUDIZIO L’atto introduttivo dell’udienza preliminare è normalmente la richiesta di rinvio a giudizio (è anche possibile che l’udienza preliminare sia instaurata a seguito di formulazione coatta dell’imputazione imposta dal G.I.P. dopo aver rigettato una richiesta di archiviazione), i cui requisiti sono indicati dall’art. 417 c.p.p. e con la quale il P.M. esercita l’azione penale chiedendo che il G.U.P. valuti la necessità di celebrare a carico dell’imputato un processo in ordine ad una determinata imputazione. La richiesta di rinvio a giudizio precede l’udienza preliminare, ma ovviamente ne condiziona tutto lo svolgimento. In questa sede preme sottolineare alcune di quelle 5 situazioni attinenti a questo atto che riverberano i propri effetti sull’udienza preliminare o che comunque impongono al G.U.P. di intervenire in qualche modo. Il co. I dell’art. 416 c.p.p. stabilisce che la richiesta di rinvio a giudizio è nulla se non è preceduta dall’avviso previsto dall’art. 415 bis, nonché dall’invito a presentarsi per rendere interrogatorio ai sensi dell’art. 375 co. III qualora la persona sottoposta alle indagini abbia chiesto di essere sottoposta ad interrogatorio entro il termine di cui all’art. 415 bis co. III. La norma nella sua attuale formulazione è stata introdotta con la l. 479/99. Si tratta di una disposizione fondamentale e veramente innovativa. Ciò che in particolare appare rilevante non è tanto l’obbligo dell’avviso all’indagato ed al difensore della conclusione delle indagini preliminari, quanto il deposito degli atti di indagine e la facoltà per la difesa di estrarne copia, di chiedere il compimento di atti di investigazione, di rilasciare dichiarazioni e la possibilità per l’indagato di essere interrogato. Per comprendere appieno la portata dell’innovazione si deve ricordare che in origine tutta la fase delle indagini preliminari era avvolta nella segretezza e che spesso accadeva che il primo momento in cui l’imputato aveva notizia dell’esistenza di un procedimento (a quel punto meglio sarebbe dire un processo) a suo carico era quello della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare con la relativa richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal P.M.. In conseguenza di questa costruzione la prima funzione assolta dall’udienza preliminare era proprio quella di introdurre per la prima volta un contraddittorio pieno fra le parti. Con l’introduzione del 415 bis questo momento viene anticipato alla fase finale delle indagini preliminari: il P.M., non intenzionato a chiedere l’archiviazione del procedimento, deve “scoprire” le sue carte, la difesa può contestarle anche chiedendo nuove indagini, ma il P.M. resta il dominus dell’attività investigativa vera e propria e può restare indifferente alle richieste di supplemento istruttorio con l’eccezione dell’interrogatorio dell’indagato che, se lo richiede, deve essere sentito. La descrizione dell’operazione, come si vede, non è particolarmente complicata, ma il significato nel sistema non è irrilevante. 6 L’anticipo della discovery e la possibilità per l’imputato e i suoi difensori di intervenire sul completamento istruttorio sono i primi indizi della volontà del legislatore di pretendere che il materiale sul quale si dovrà fondare la valutazione del G.U.P. sia il più completo possibile sotto tutti i profili. L’attuazione scorretta da parte del P.M. del complesso meccanismo previsto dall’art. 415 bis c.p.p. è sanzionata a pena di nullità della richiesta di rinvio a giudizio anche se più propriamente sarebbe stato meglio parlare non di vizio dell’atto, ma dell’assenza di un presupposto o di una condizione di procedibilità. Va poi detto che non è chiaro il tipo di nullità scaturente dalla violazione dell’obbligo. C’è chi ha parlato di invalidità ex art. 178 lett. B) c.p.p. e chi ha invece ritenuto che, essendo la richiesta di rinvio a giudizio un atto che comunque appartiene alla fase delle indagini preliminari, la norma applicabile sarebbe l’art. 181 II co. c.p.p.. L’art. 417 c.p.p. elenca i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, il più importante è certamente quello di cui alla lett. B) dell’art. 417 c.p.p.. In concreto la norma impone al P.M. di definire in fatto ed in diritto ed in forma chiara e precisa la contestazione mossa all’imputato. L’inadempimento di quest’obbligo però non comporta alcuna sanzione diretta (reiteratamente la Suprema Corte ha ritenuto abnorme il provvedimento con il quale il G.U.P. restituisce gli atti al P.M. per genericità della contestazione), ma non è privo di conseguenze. Ed invero la riproposizione nel decreto che dispone il giudizio di una contestazione confusa o generica determina la nullità del decreto ex art. 429 II co. c.p.p., ma il rimedio non manca. Come si vedrà successivamente, il G.U.P., in sede di definizione dell’udienza preliminare, ha un ampio e autonomo potere di qualificazione giuridica dei fatti contestati, ma qui si discute d’altro. Nel corso dell’udienza si può verificare la necessità di intervenire sull’imputazione costruita dal P.M.. Le ragioni possono essere molteplici, ma in concreto i casi sono quelli previsti dall’art. 423 c.p.p. ai quali può sicuramente aggiungersi quello di una contestazione in forma non chiara e precisa; la procedura da applicare è quella 7 indicata in detta norma ed è costruita sull’iniziativa del P.M., ma cosa succede se è il G.U.P. ad accorgersi della necessità di precisare o modificare il fatto enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio? Ad offrire una soluzione è stata la Corte Costituzionale che ha individuato fra i poteri del G.U.P. quello di “invitare” il P.M. a descrivere diversamente il fatto contestato anche alla luce di eventuali nuove emergenze processuali. Con la richiesta di rinvio a giudizio il P.M. deve depositare “tutto” ( sia il fascicolo contenente la notizia di reato che la documentazione relativa alle indagini espletate) e non gli è consentito di limitarsi a depositare solo ciò che egli ritiene sufficiente per ottenere il rinvio a giudizio. Fino all’entrata in vigore della l. 479/99 la norma era di fondamentale importanza poiché era questa la prima discovery completa dunque il primo passo per la realizzazione concreta del contraddittorio fra le parti; l’introduzione dell’art. 415 bis c.p.p. ha indubbiamente svalutato la rilevanza della disposizione. L’art. 419 c.p.p. disciplina il meccanismo degli avvisi di fissazione dell’udienza preliminare. E’ il caso qui di limitarsi a segnalare che la richiesta di rinvio a giudizio va notificata all’imputato ed alla parte offesa, ma non al difensore. LO S V O L G I M E N T O D E L L’ U D I E N Z A PRELIMINARE Il confronto diretto fra le ragioni dell’accusa e quelle della difesa viene assicurato dallo svolgimento stesso dell’udienza preliminare nel corso della quale le parti espongono ad un giudice le loro prospettazioni; pertanto se le indagini preliminari sono il regno dell’accusa, l’udienza preliminare è il luogo in cui per la prima volta, la difesa può rappresentare le proprie richieste, anche istruttorie come vedremo, ad un giudice la cui posizione di terzietà è garantita anche dal fatto di non aver mai emesso provvedimenti nel corso delle indagini preliminari ( art. 34 co. 2 bis c.p.p.). 8 Qualche cosa su questa norma va detto. L’art. 34 c.p.p. è una disposizione che ha subito una vita alquanto travagliata. Basta scorrere le pagine di un qualsiasi codice per verificare che si tratta della norma che forse ha “subito” il maggior numero di interventi da parte della Corte Costituzionale. E’ probabile che il tutto dipenda dal fatto che il legislatore continua a sottostimare il valore della terzietà del giudice in rapporto al ruolo o alle funzioni che lo stesso può svolgere all’interno del processo. A tutto questo deve aggiungersi che non sempre introducendo reiterate novelle legislative si è tenuto nel debito conto delle conseguenze che le innovazioni producono, inevitabilmente, in quest’ambito. In sostanza il Giudice delle Leggi ha reiteratamente affermato l’incompatibilità a celebrare il giudizio per il giudice che avesse compiuto rilevanti atti di valutazione nell’ambito del procedimento. Due punti sono stati però sempre tenuti fermi dalla Corte: Innanzitutto il meccanismo dell’incompatibilità si produce solo quando uno dei soggetti coinvolti è delegato a prendere una decisione a carattere sostanziale e, pertanto, restano fuori da ogni ipotesi di incompatibilità gli organi delegati al compimento di attività destinate a concludersi con provvedimenti a carattere meramente processuale e poi la disciplina non è applicabile con riferimento a provvedimenti da prendersi nell’ambito della stessa fase processuale. Il legislatore del 1999, applicando i principi enunciati dal Giudice delle Leggi, ha integrato la vecchia formulazione dell’art. 34 c.p.p. con disposizioni, i commi 2 bis, 2 ter e 2 quater, che incidono direttamente sul giudice dell’udienza preliminare. La prima norma sancisce l’incompatibilità fra chi ha svolto le funzioni di G.I.P.e chi deve tenere l’udienza preliminare. La seconda disposizione esclude dal meccanismo delle incompatibilità atti di scarsa o nulla rilevanza processuale il cui contenuto non presuppone in alcun modo la compromissione del giudice che decide nella valutazione della posizione processuale dell’indagato, la terza restringe ulteriormente il campo di applicazione del co. 2 bis in relazione ad una situazione particolarmente significativa (l’incidente probatorio) e sarà valutata in seguito. 9 Non vi sono particolari difficoltà di interpretazione delle norme ora indicate che hanno avuto, se non altro, il merito di impedire il verificarsi di situazioni di difficile gestione durante l’udienza preliminare. Infatti in virtù delle decisioni della Corte non di rado accadeva che il G.U.P. delegato alla celebrazione dell’udienza preliminare si trovasse in una condizione di incompatibilità a seguito di richiesta dell’imputato di applicazione di pena o di rito abbreviato con intuibili difficoltà organizzative. Ma nonostante l’impegno del legislatore anche la nuova formulazione dell’art. 34 c.p.p. non è sfuggito alla mannaia della Corte Costituzionale che con una sentenza, della quale si parlerà in seguito più diffusamente, preceduta da decisioni che, in qualche modo, lasciavano già prevedere una conclusione di questo genere, ha dichiarato l’illegittimità della norma nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice dell’udienza preliminare con quella del giudice che abbia pronunciato un decreto che dispone il giudizio che sia stato successivamente annullato. E’ chiaro dunque che solo la presenza di un giudice-terzo consente di realizzare appieno nell’udienza preliminare quel principio generale al quale si è ispirato il legislatore secondo cui il pieno e libero confronto fra le parti è lo strumento naturale per la gestione di interessi contrapposti quali quello dell’accusa e della difesa, questo però, sia detto per inciso, non vuol dire che nel nostro sistema sia stata accolta la c.d. concezione “ludica” del processo per la quale, in sostanza, l’obbiettivo che le parti devono porsi è semplicemente quello di avere ragione ed è quindi consentito un uso strumentale delle norme processuali. La scelta “etica” del costituente e quindi del legislatore è stata diversa e precisamente quella di “costruire”, comunque, un processo che avesse come scopo l’accertamento della verità e si noti che la Corte Costituzionale è reiteratamente intervenuta per uniformare dettato ed interpretazione delle leggi a questo principio. Trasportando questi concetti nell’ambito dell’udienza preliminare, si può dire che questo è il luogo dove si realizza appieno per la prima volta in ambito processuale un contraddittorio pieno e paritario fra le parti perché diretto e gestito da un soggetto assolutamente imparziale. 10 Naturalmente perché tutto ciò possa avvenire è necessario che vi sia una regolare costituzione delle parti. Le norme che disciplinano quest’aspetto dell’udienza sono gli artt. 420 e, a seguire, bis, ter, quater e quinquies c.p.p. che, a mio avviso, non presentano particolari problemi di interpretazione anche perché le innovazioni introdotte dalla l. 479/99 hanno in pratica parificato sotto questo profilo udienza preliminare e dibattimentale. Va solo ricordato che la legge del 1999 ha introdotto, con tutte le conseguenze del caso, l’istituto della dichiarazione di contumacia anche nell’udienza preliminare ed ha reso applicabili anche all’udienza preliminare le ipotesi di impossibilità a comparire per legittimo impedimento del difensore che avevano in precedenza una loro disciplina solo nell’udienza dibattimentale e che erano ritenute, pacificamente, inapplicabili all’udienza preliminare. Se è vero che i problemi di applicazione delle norme in esame non si differenziano per nulla da quelli che da sempre si sono presentati nell’ambito della stessa materia in dibattimento e, pertanto, non vale in questa sede soffermarcisi troppo, è comunque opportuno sottolineare l’importanza “politica” della decisione del legislatore di “costruire” il sistema della costituzione delle parti in udienza preliminare in maniera del tutto analoga a quello previsto per il dibattimento anzi, a voler essere pignoli, oggi la situazione è addirittura inversa poiché sono le norme del dibattimento che richiamano quelle dell’udienza preliminare. Qual è la ragione di questa scelta? A mio avviso solo superficialmente si può parlare di traduzione in norme positive di istanze pseudogarantiste; c’è in realtà molto di più. Se l’udienza preliminare è il luogo in cui si deve in tutti i modi completare l’acquisizione degli elementi di prova e cercare, se ce n’è la volontà, di definire il processo, perché ciò avvenga è necessario concedere a tutti i soggetti processuali maggiori poteri di intervento e diventa allora indispensabile che la presenza della difesa (sia personale che tecnica) sia garantita ai massimi livelli previsti dal sistema. 11 Lo sviluppo naturale dell’udienza preliminare prevede, dopo l’accertamento sulla regolare costituzione delle parti, la discussione. L’ordine previsto dalla legge è il seguente: P.M., imputato ( che può tacere, rendere dichiarazioni spontanee, chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio ), difensore della parte civile, del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato. La discussione è il momento limite per avanzare richieste di rito alternativo (art. 438 II co e 446 co. I c.p.p.). Le norme non sono chiarissime e si discute se il limite massimo per avanzare la richiesta di rito alternativo sia l’inizio della discussione o il momento precedente alla prospettazione delle conclusioni da parte del difensore. Sul punto non sembra decisivo il dato letterale che appare comunque ambiguo, piuttosto deve rilevarsi che le stesse modalità di svolgimento dell’udienza preliminare sembrano far propendere per la tesi più favorevole alla concessione del più ampio spazio alla difesa. In particolare il fatto che l’intervento dell’imputato sia previsto dopo le conclusioni del P.M. ( art. 421 II co. c.p.p. ) e che sia ammesso il diritto di replica rende del tutto ragionevole la possibilità di una scelta di rito alternativo successiva alle conclusioni del P.M.. Non v’è dubbio che i problemi più rilevanti ed interessanti in relazione allo svolgimento dell’udienza preliminare sorgono quando si deve affrontare il verificarsi di situazioni che il legislatore del 1989 ritenne del tutto accidentali e che oggi, per effetto di prassi e di introduzioni legislative, possono considerarsi aspetti fisiologici dell’udienza preliminare. Parliamo ovviamente delle INTEGRAZIONI PROBATORIE Non è detto che il materiale che dovrà essere oggetto della valutazione del G.U.P. nel corso dell’udienza preliminare sia limitato a quanto depositato dal P.M. con la sua richiesta di rinvio a giudizio. 12 Esistono svariate possibilità di integrazione delle fonti probatorie. In qualche caso l’iniziativa è lasciata alle parti ( art. 419 co. II e III c.p.p., incidente probatorio ), in altri (artt. 421 e 421 bis c.p.p. ), almeno formalmente, è il G.U.P. ad attivarsi. L’ART. 419 CO. II c.p.p. ( presentazione di memorie e produzione di documenti ) Una prima possibilità di integrazione probatoria è riservata alle parti dall’art. 419 co. II c.p.p. che consente a difesa ed accusa di presentare memorie e soprattutto documenti. L’integrazione del fascicolo avviene però solo dopo che il G.U.P. si sia pronunciato sull’ammissibilità della documentazione presentata (art. 421 co. III ult. parte c.p.p.). Non sembrano esservi limiti per quanto riguarda i documenti purchè essi abbiano attinenza con la causa. Questi atti possono anche avere ad oggetto situazioni che in linea di principio non hanno nulla a vedere con il controllo di correttezza dell’esercizio dell’azione penale che, come si è visto, rappresenta solo uno degli scopi dell’udienza preliminare, ma poiché il loro deposito avviene prima delle conclusioni, non si può impedire alla difesa di presentare una documentazione che abbia un qualsiasi rilievo processuale anche in previsione di un possibile giudizio abbreviato (v. ad es. prova del risarcimento del danno). L’ART. 419 III co. c.p.p. ( le indagini suppletive ) La chiusura delle indagini preliminari non significa tout court l’impossibilità per il P.M. di proseguire nella sua attività d’investigazione. La stessa natura interlocutoria 13 della decisione presa all’esito dell’udienza preliminare impone al contrario che, se necessario, l’acquisizione di altri elementi probatori prosegua; in questo caso il problema centrale è quello della utilizzabilità del risultato di questa attività e cioè delle modalità attraverso le quali gli atti conseguenti alle indagini svolte successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio possano entrare nel processo. Le norme che disciplinano questa situazione sono gli artt. 419 III co. e 430 c.p.p.. La prima delle due disposizioni si riferisce alle c.d. indagini suppletive cioè a quegli atti di investigazione compiuti dal P.M. dopo la richiesta di rinvio a giudizio ed è quella che ci riguarda; l’ultima norma disciplina le attività svolte dopo il decreto di rinvio a giudizio ( c. d. indagini integrative ) ed è fuori dall’argomento odierno. Come si è visto una delle principali funzioni dell’udienza preliminare è quella di realizzare attraverso la discovery un contraddittorio fra le parti che sia pieno che cioè permetta alla difesa di conoscere in maniera completa non solo quale sia l’accusa, ma anche su cosa essa sia basata e, conseguenzialmente, di poter finalmente reagire davanti ad un giudice. L’art. 419 III co. c.p.p. è il risultato del tentativo del legislatore di contemperare la duplice esigenza di non bloccare l’attività investigativa e, nello stesso tempo, di garantire il pieno diritto alla prova della difesa, sennonchè la sua concreta attuazione comporta la necessità di affrontare una serie di problemi connessi al sistema nel quale la disposizione è inserita. Il primo di questi problemi riguarda l’individuazione degli atti d’indagine possibili dopo la richiesta di rinvio a giudizio. La norma non dice nulla, ma il raffronto con l’art. 430 c.p.p. (indagini integrative) che invece i limiti li pone, fa ritenere insussistente qualsiasi divieto. Una soluzione di questo genere trova una ragionevole spiegazione nel fatto che le investigazioni in questione sono finalizzate, come quelle svolte in precedenza, ad ottenere il rinvio a giudizio laddove quelle acquisite ex art. 430 c.p.p. giungono in un momento successivo allo svolgimento dell’udienza preliminare, quando il rinvio 14 a giudizio c’è già stato e tutta l’attività delle parti è ormai prodromica al dibattimento. La lettera della norma e la riforma del 1999 escludono la possibilità di applicare la disciplina in esame alle indagini effettuate in un momento antecedente alla richiesta di rinvio a giudizio, ma depositate successivamente. Ed invero, qualora il P.M. avesse svolto le sue investigazioni prima di esercitare l’azione penale su di lui sarebbe caduto l’obbligo, a pena di nullità, di attivare il meccanismo di cui all’art. 415 bis c.p.p.. Va evidenziato che l’art. 416 parla di nullità della richiesta di rinvio a giudizio se la stessa non è preceduta dall’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p. e non menziona l’omissione totale o parziale del deposito degli atti di indagine, ma dal momento che a seguito dell’avviso sono previste per la difesa una serie di facoltà, impraticabili correttamente in assenza di una discovery completa, non sembra possa dubitarsi dell’inammissibilità della presentazione in udienza preliminare del risultato di indagini effettuate prima della richiesta di rinvio a giudizio e non depositate in precedenza e, comunque, dell’inutilizzabilità delle stesse. In applicazione di questo principio un provvedimento del G.U.P. che, sic et simpliciter, consentisse al P.M. di depositare i risultati dell’attività investigativa di cui sopra sarebbe illegittimo. Tornando alle indagini effettuate dal P.M. dopo la richiesta di rinvio a giudizio, ci si domanda se l’espletamento di questa attività investigativa sia possibile dopo la scadenza dei termini di durata delle indagini preliminari. Anche in questo caso la norma tace ed è agevole rinvenire la spiegazione di questo silenzio nel limite temporale (ordinatorio) che il legislatore, a suo tempo, ipotizzò per la celebrazione dell’udienza preliminare. Deve premettersi che, al di là di qualche isolato tentativo di una giurisprudenza assolutamente minoritaria, è ormai un dato acquisito che con la richiesta di rinvio a giudizio, e quindi con l’esercizio dell’azione penale, la fase delle indagini preliminari debba ritenersi conclusa. Questo significa che l’udienza preliminare è 15 fuori dalla fase delle indagini preliminari. Questa tesi trova ulteriori conferme proprio nelle norme che dettano i tempi di celebrazione dell’udienza. Nel progetto dei compilatori del codice l’udienza preliminare doveva seguire rapidamente la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal P.M. (30 gg. ex art. 418 c.p.p. ); ad essere precisi l’ipotesi prevista dal legislatore era che l’udienza preliminare fosse celebrata comunque entro i termini di scadenza delle indagini preliminari, il che può dedursi dal disposto dell’art. 422 V co. c.p.p. che, nella sua vecchia formulazione, prevedeva questa scadenza temporale come quella “normale” anche nel caso che fosse necessaria un’ulteriore udienza ai fini della decisione. Peraltro nello stesso comma, ma al capoverso successivo, era previsto, nel caso non potesse essere rispettato il limite temporale suindicato, un termine ulteriore di 60 giorni. Tutti questi termini, e la cosa è fuori discussione, sono, a differenza di quelli previsti per la durata delle indagini preliminari, “ordinatori” il che vuol dire che lo stesso legislatore si prospettò comunque l’ipotesi che non fosse possibile rispettarli e non previde per questo alcuna sanzione. Alla luce di quanto ora evidenziato, deve ritenersi che non sia corretta l’applicazione alle indagini suppletive, che vengono svolte dopo l’esercizio dell’azione penale e quindi al di fuori delle indagini preliminari, dei limiti temporali previsti dagli artt. 405-407 c.p.p.. Peraltro dal punto di vista razionale e sistematico si deve osservare che la ragione dell’imposizione di termini di durata alle indagini preliminari è direttamente connessa alla segretezza prevista per questa fase. Con l’introduzione dei limiti citati si volle, in sostanza, evitare che una persona rimanesse indefinitamente sottoposta ad un’indagine della quale non aveva, o meglio poteva non avere, alcuna conoscenza. Sennonchè la richiesta di rinvio a giudizio con il contestuale deposito degli atti pone termine a questo stato di cose mettendo l’imputato a conoscenza del fatto che sul suo conto sono state fatte, e possono essere ancora svolte, indagini e quella tutela specifica finisce col non avere più ragione d’essere. Un’ulteriore precisazione s’impone. 16 Nella sua previsione normale l’udienza preliminare non dovrebbe durare granché, ma lo stesso legislatore ha ipotizzato la necessità di un supplemento di acquisizione di fonti probatorie. In questo caso fra l’inizio dell’udienza preliminare e la decisione del G.U.P. potrebbe trascorrere un tempo non breve. Durante questo periodo è possibile per il P.M. acquisire ulteriori elementi probatori diversi da quelli indicati dal G.U.P. ed utilizzarli a sostegno della sua richiesta? La risposta non è semplice. La norma che prevede la trasmissione della documentazione relativa alle indagini suppletive è collocata nell’articolo che si occupa degli atti introduttivi all’udienza preliminare il che potrebbe far pensare che il momento antecedente alla costituzione delle parti o per lo meno all’inizio della discussione ex art. 421 c.p.p. sia il momento ultimo utile per la trasmissione (rectius il deposito) degli atti in questione. Questa affermazione è solo parzialmente condivisibile. E’ vero che l’inizio della discussione indica il limite oltre il quale non può essere prodotto alcun elemento probatorio senza incidere in maniera intollerabile sull’attuazione del pieno contraddittorio fra le parti, ma questo non esclude che se la discussione debba essere rinnovata il P.M. e/o la difesa , medio tempore, possano svolgere indagini e possano depositarle al fine di utilizzarle per sostenere le proprie tesi. Alle considerazioni già svolte deve poi aggiungersi che non si comprenderebbe per quale motivo, dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, sarebbe possibile per il P.M. svolgere investigazioni (art. 430 c.p.p.), sia pure con alcuni limiti, anche al di fuori dei termini previsti per le indagini preliminari e sarebbe, invece, interdetta alle parti questa possibilità nel periodo di tempo compreso fra la richiesta di rinvio a giudizio e l’inizio della discussione durante l’udienza preliminare. In realtà il nodo centrale del problema è la necessità che non venga alterata quella che è una delle funzioni essenziali dell’udienza preliminare: garantire alla difesa il diritto alla prova attraverso la conoscenza completa degli elementi sui quali si fonda l’accusa. Sotto questo profilo il deposito della documentazione relativa all’indagine suppletiva non risolve il problema della concreta attuazione del contraddittorio, 17 resta infatti in piedi il problema di come la difesa debba avere conoscenza dell’attività effettuata dal P.M. e del tempo che deve esserle concesso per esaminarla ed attrezzarsi a contestarla. La soluzione può dirsi già compresa nel sistema. Il termine previsto dal IV co. dell’art. 419 c.p.p. ha la funzione di consentire l’attuazione concreta del corretto contraddittorio fra le parti ed è quindi del tutto ragionevole che, come per il resto della documentazione, anche per quella risultante dalle indagini suppletive sia previsto un avviso di deposito ed un termine per esaminarla. Questa interpretazione ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte Costituzionale che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della norma in esame nella parte in cui non prevedeva l’assegnazione di un termine alla difesa per dar modo alla stessa di esaminare i risultati delle indagini suppletive effettuate dal P.M., ha precisato che il termine va comunque assegnato e deve essere congruo. In concreto la difesa deve essere messa in condizione di esercitare i suoi diritti e perché ciò possa avvenire è necessario che sia informata, o abbia comunque conoscenza, del deposito degli atti e che abbia il tempo per esaminarli. Un tempo che certamente va rapportato alla complessità della situazione nascente dalla presenza di queste nuove indagini, ma che non è necessario sia superiore a quello previsto dal co. IV che è di dieci giorni. GLI ARTT. 392 e ss. del c.p.p. (l’incidente probatorio) Una terza possibilità è lasciata alle parti ed è quella prevista dagli artt. 392 e ss del c.p.p.. A dire il vero nell’impianto originario del codice l’incidente probatorio era un istituto riservato alle indagini preliminari. La ragione di questo limite era assai facilmente rinvenibile nel ruolo attribuito dai compilatori codice all’udienza preliminare. Infatti, stabilito che l’unico scopo dell’udienza preliminare era quello 18 di controllare il corretto esercizio dell’azione penale, non aveva senso consentire che in quella fase si potessero porre in essere attività destinate, col rilevante contributo del giudice, ad un’ulteriore acquisizione istruttoria. La Corte Costituzionale rilevò che la disposizione finiva con impedire l’effettiva attuazione del diritto alla prova delle parti nello spazio temporale che andava dalla richiesta di rinvio a giudizio alla pronuncia del decreto che dispone il giudizio e che tale normativa era del tutto irragionevole come dimostrato, fra l’altro, dal fatto che l’art. 467 c.p.p. consentiva al presidente del collegio di acquisire le prove non rinviabili nella fase degli atti preliminari al dibattimento. La decisione della Corte apparve ai più assolutamente razionale, ma non si potette evitare di sottolineare come venisse introdotto nell’udienza preliminare un elemento spurio rispetto al ruolo destinato dal sistema a questo istituto. La nuova “strutturazione” dell’udienza preliminare come emerge all’esito della riforma del 1999 spazza via ogni problema teorico. Peraltro a sottolineare una volta di più che la gestione delle modalità di acquisizione della prova non incide in alcun modo con l’imparzialità del giudice vi è l’art. 34 co. II quater che esplicitamente nega l’incompatibilità fra giudice dell’udienza preliminare e giudice che abbia avuto un qualsiasi ruolo in un incidente probatorio. I POTERI INTEGRATIVI DEL GIUDICE L’oggetto della decisione emessa dal G.U.P. all’esito dell’udienza preliminare è, normalmente, il controllo, in contraddittorio fra le parti, sull’acquisizione probatoria effettuata dal P.M. e sulla pretesa di questi di celebrare un dibattimento nei confronti di un imputato. Paradossalmente si può dire che nell’udienza preliminare ad essere sotto processo è l’accusa perché è la sua attività che deve essere esaminata. La base della decisione è dunque di solito la documentazione allegata dal P.M. alla richiesta di rinvio a giudizio, sennonché lo sviluppo dell’udienza preliminare può 19 presentare una serie di variabili e di eventualità all’esito delle quali il materiale da valutare può risultare sostanzialmente arricchito. Come si è già evidenziato in precedenza, fino a prima della discussione le parti possono presentare memorie e documenti (art. 419 II co. c.p.p.) che il G.U.P. dovrà però ammettere (art. 421 III co. c.p.p.) e possono essere svolte indagini suppletive. Anche l’interrogatorio dell’imputato, che inframezza la discussione di P.M. e difensori e che è possibile svolgere nelle forme di cui agli artt 498 e 499 c.p.p., è naturalmente idoneo a portare un suo contributo probatorio. Ma gli istituti più significativi in tema di integrazione probatoria sono quelli introdotti con la l. 479/99 dagli artt. 421 bis e 422 c.p.p.. Si tratta di norme che non è eufemistico definire rivoluzionarie rispetto al sistema processuale così come era strutturato in precedenza. E’ il caso di ricordare che i compilatori del codice avevano il timore, meglio sarebbe dire l’ossessione, che un’acquisizione probatoria in contraddittorio fra le parti, ma condotta in qualche modo da un giudice e realizzata in una fase predibattimentale, potesse essere il “cavallo di Troia” attraverso il quale una nuova figura di giudice istruttore potesse entrare nel processo. Il disfavore del legislatore era evidente ed emergeva dal diniego di poter effettuare un incidente probatorio nel corso dell’udienza preliminare nonchè dalla lettura della rubrica dell’unica norma ( il vecchio art. 422 c.p.p.) destinata a consentire un intervento autonomo del G.U.P.. “Sommarie informazioni ai fini della decisione” recitava infatti il titolo della disposizione quasi a voler sottolineare la marginalità dell’intervento consentito e la volontà di relegare a casi eccezionali e ben delimitati l’applicazione della norma. In pratica però, sia pure in maniera non sempre ortodossa, l’istituto veniva utilizzato non tanto, o per lo meno non solo, per mettere in condizioni il G.U.P. impossibilitato a decidere ad emettere uno dei provvedimenti di cui al I co. dell’art. 424 c.p.p. quanto allo scopo di realizzare quelle che erano comunque le finalità che avevano indotto il legislatore ad introdurre un istituto come l’udienza preliminare (evitare udienze dibattimentali inutili sia rigettando le richieste non fondate di rinvio 20 a giudizio che attraverso un completamento dell’istruttoria idoneo a permettere l’adozione di riti alternativi). L’adozione di queste prassi era la risposta pratica ad un problema che si presentava con notevole frequenza e che vale la pena ricordare. Un non indifferente numero di P.M. chiedeva il rinvio a giudizio sulla base degli elementi iniziali presenti nell’indagine e con il dichiarato proposito di completare il processo nel luogo istituzionalmente destinato alla formazione della prova, cioè il dibattimento. Le conseguenze di questa (discutibile) scelta erano sotto gli occhi di tutti: 1) Notevolissima difficoltà di accedere ai riti alternativi, abbreviato e patteggiamento, per impossibilità di decidere allo stato degli atti essendo questi ultimi spesso assenti o comunque incompleti, 2) intasamento dibattimentale per la difficoltà di prosciogliere in presenza di oggettive possibilità di un’acquisizione della prova non avvenuta (spesso per scelta del P.M.) in istruttoria. Anche la Corte Costituzionale non aveva mancato, soprattutto con riferimento ai presupposti e alle condizioni per l’accesso al rito abbreviato, di censurare la situazione ed aveva invitato il potere legislativo ad intervenire. La risposta del Parlamento è stata la l. 479/99 che ha introdotto gli artt. 421 bis, 422 c.p.p. per l’udienza preliminare e 438 V co. e 441 V co. c.p.p., per il rito abbreviato. In questa sede ci si occupa delle prime due norme. L’ART. 421 bis c.p.p. (l’integrazione delle indagini) Prima di affrontare in maniera specifica il meccanismo di attuazione di questa disposizione si impone un chiarimento. Il giudizio prognostico sull’esistenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio non può e non deve essere una valutazione astratta sul futuro di un processo, ma deve essere conseguenza di una ragionevole e concreta previsione nascente innanzitutto dall’attività istruttoria svolta dal P.M.. 21 Non v’è dubbio che le prove in quanto tali vanno raccolte in dibattimento, ma il motivo per cui viene svolta un’istruttoria è appunto quello di verificare la percorribilità reale di una certa strada processuale. Che questa fosse la (ragionevole) opinione del legislatore emerge con chiarezza da alcune delle norme dettate in tema di indagini preliminari. L’art. 326 c.p.p. indica nello svolgimento delle indagini necessarie per le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale la finalità essenziale delle indagini preliminari e chiarisce che gli organi deputati a detto svolgimento sono il P.M. e la P.G.. La direzione dell’attività investigativa spetta al P.M. (art. 327 c.p.p.). Ma in cosa consistono queste indagini preliminari? La risposta viene da una serie di norme. L’art. 55 c.p.p. prescrive alla polizia giudiziaria di…. compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire all’applicazione della legge penale; anche dopo la comunicazione di reato, la P.G. (art. 348 c.p.p.) deve raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole svolgendo tutte le attività di indagine necessarie per accertare i reati e assicurare le fonti di prova; l’art. 358 c.p.p. prescrive al P.M. di compiere ogni attività necessaria per raggiungere il fine di cui all’art. 326 c.p.p. anche con riguardo agli elementi favorevoli all’indagato. La lettura complessiva e coordinata di queste norme consente di comprendere con chiarezza che l’attività istituzionale del P.M. è (o dovrebbe essere) quella di rinvenire o coordinare l’acquisizione di tutti gli elementi probatori necessari per la ricostruzione del fatto e per l’eventuale individuazione del colpevole, compresi quelli favorevoli alla difesa. Completata l’acquisizione di tutti gli elementi sopra descritti, il P.M. può compiere la sua valutazione sull’idoneità degli stessi a sostenere l’accusa in giudizio. Attraverso l’udienza preliminare viene effettuato dal G.U.P. il controllo di legittimità sull’esercizio dell’azione penale, inteso questo come verifica dell’idoneità degli elementi probatori a sostenere l’accusa in giudizio, ma perché ciò avvenga correttamente è necessario che l’attività investigativa di cui sopra, cioè le indagini preliminari, sia completa. 22 La “completezza” delle indagini preliminari nel senso sopra indicato è dunque il presupposto necessario per consentire al G.U.P. di effettuare il proprio lavoro. L’introduzione dell’art. 421 bis c.p.p. ha avuto il grande merito di chiarire una volte per tutte che il rapporto fra gli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio e le prove della responsabilità non è quantitativo, ma qualitativo, nel senso che la differente dizione usata dal legislatore attiene non a realtà ontologicamente diverse, ma semplicemente alla diversa valutazione, ed anche efficacia, giuridica che si compie in relazione al contesto processuale nel quale un certo dato storico viene valutato. E’ chiaro dunque che l’art. 421 bis c.p.p. attribuisce al G.U.P. un potere che in realtà è corollario dell’obbligo (indispensabile) a suo carico di controllare l’esistenza del presupposto per l’esercizio corretto della sua funzione di valutazione del legittimo esercizio dell’azione penale. Se il G.U.P. verifica che le indagini preliminari sono incomplete perché non tutte le possibilità istruttorie sono state esplorate deve intervenire con i poteri che l’art. 421 bis c.p.p. gli concede e che ora si analizzeranno. Il suo intervento consentirà da un lato la realizzazione del presupposto di cui prima, e dall’altro renderà più agevole l’accesso ai riti alternativi (altra funzione dell’udienza preliminare) poiché le parti avranno della vicenda processuale in esame il quadro più completo possibile. La collocazione (immediatamente dopo l’art. 421 c.p.p.) e le parole iniziali (quando non provvede…) della norma in esame ci fanno chiaramente intendere che il G.U.P. deve, se necessario, prendere questo provvedimento subito dopo il completamento della discussione nel corso della quale le parti avranno modo di evidenziare anche le carenze dell’istruttoria e i modi per sanarla. In pratica è da escludersi che l’ordinanza possa essere pronunciata dal G.U.P. in via preliminare, dopo essersi letto il fascicolo e comunque senza sentire accusa e difesa. La scelta, peraltro, è pienamente coerente con il ruolo del G.U.P. che è giudice fra parti e dimostra ancora una volta la volontà del legislatore di privilegiare il confronto dialettico. Verificata l’incompletezza istruttoria nei sensi di cui sopra, il G.U.P. indica le ulteriori indagini. 23 Viene qui in rilievo il problema dell’individuazione dei destinatari del provvedimento. Considerato il contesto nel quale viene emessa l’ordinanza (contraddittorio assoluto e paritario) deve ritenersi che il G.U.P. indirizzi la propria decisione ad entrambe le parti le quali sono ambedue legittimate, e negli stessi termini, ad adempiere alla richiesta del G.U.P.. In conseguenza di quanto affermato deve ritenersi la sussistenza del pieno diritto della difesa di svolgere anche nel corso dell’udienza preliminare le attività di cui all’art. 38 disp. att. c.p.p. oggi disciplinate dal titolo VI bis del libro V (investigazioni difensive). E’ da escludersi invece che il G.U.P. possa disporre direttamente della P.G.. A dire il vero non ostano ad una soluzione di questo genere ragioni sistematiche o principi generali, ma semplicemente il dato letterale della norma: il giudice indica (alle parti) e non dispone. Ma che cosa può indicare il giudice? Temi di indagine o atti specifici? Ritengo che la soluzione del problema non possa essere quella adottata dalla giurisprudenza con riferimento all’art. 409 co. IV c.p.p. in tema di archiviazione. Non v’è dubbio che fra le due procedure vi siano analogie significative, ma mai come in questo caso sembra opportuno esaltare le differenze fra i due istituti. Nell’archiviazione viene sottoposto a controllo la legittimità dell’omesso esercizio dell’azione penale; nell’udienza preliminare il controllo è sull’avvenuto esercizio dell’azione penale; il contraddittorio che si instaura nella camera di consiglio tenuta a seguito del II co. dell’art. 409 c.p.p. è ben diverso da quello previsto nel corso dell’udienza preliminare; nell’archiviazione siamo ancora nella fase delle indagini preliminari (il dominus resta il P.M. che non può ritenersi in alcun modo “costretto” ad un’attività da chi non è a lui sovraordinato) , mentre nell’udienza preliminare i rapporti fra difesa ed accusa sono paritari. A quanto ora detto si aggiungono due dati testuali: il primo attiene alla intrinseca formulazione della norma (si parla di indagini con riferimento ad una condizione di incompletezza), il secondo al rapporto con la vecchia formulazione del 422 c.p.p. nel quale si faceva riferimento a temi nuovi o incompleti sui quali si rende necessario acquisire nuove informazioni e che non è stata riprodotta. 24 Anche qui la scelta del legislatore non sembra casuale, è chiaro l’intento di offrire al G.U.P., di fronte alla accertata carenza di attività del P.M., uno strumento incisivo per il raggiungimento degli scopi che giustificano l’esistenza dell’udienza preliminare. Ma quale deve, o può, essere lo scopo delle indagini? Certamente in via principale le investigazioni saranno dirette ad acquisire elementi che consentano di valutare la correttezza dell’esercizio dell’azione penale. Ma io ritengo che si possa allargare il campo di intervento del G.U.P. e questo sia facendo riferimento alla lettera della norma che al sistema nel quale è inserita. Quanto al primo aspetto, va evidenziato che la disposizione indica come presupposto solo la generica incompletezza delle indagini preliminari e se è vero che l’art. 326 c.p.p. descrive in maniera riduttiva gli scopi delle indagini preliminari è pur vero che il già citato art. 55 c.p.p. obbliga la polizia giudiziaria (“deve”) a raccogliere quant’altro possa servire all’applicazione della legge penale e non solo ciò che è utile all’esercizio dell’azione penale. Considerando poi che la ristrutturazione dell’udienza preliminare è stata pensata anche allo scopo di agevolare la celebrazione di riti alternativi non si può escludere che le indagini possano avere ad oggetto non solo la sussistenza degli elementi idonei a giustificare l’esercizio dell’azione penale, ma anche dati che consentano di applicare in maniera corretta attenuanti ed aggravanti nonché di calcolare secondo i parametri di legge la congruità della pena. Dunque il G.U.P. può indicare specifici atti di indagini e, in assenza di qualsiasi indicazione, non vi sono limiti al tipo di attività che egli può richiedere purchè vi sia ovviamente attinenza con il processo. E’ possibile che il G.U.P. di sua iniziativa rilevi l’incompletezza delle indagini ed individui le attività che le parti dovrebbero svolgere per sanare il “buco”, ma non si può escludere che siano le stesse parti, che con la discussione sollecitino il giudice ad utilizzare i suoi poteri. 25 Quanto al termine per il compimento delle indagini, in assenza di specifiche disposizioni di legge sanzionatorie, lo stesso deve ritenersi ordinatorio. Piuttosto è il caso di segnalare che nulla dice la norma in tema di deposito degli atti. In concreto il problema è di garantire a tutte le parti la piena ed effettiva conoscenza di quanto è stato svolto. Ritengo che la garanzia del contraddittorio possa essere correttamente osservata attraverso il deposito degli atti in un tempo ragionevole antecedente all’udienza preliminare oppure attraverso la concessione alle parti di termini ragionevoli per lo studio delle nuove investigazioni svolte. Occorre domandarsi se l’adempimento dell’ordinanza del giudice sia per le parti un obbligo se cioè le parti, ed in particolare il P.M., siano in qualche modo costrette a compiere le indagini indicate dal G.U.P.. In realtà vi è per le parti un onere di attivazione. Il P.M. ha un interesse a completare l’istruttoria per non correre il rischio di vedersi rigettata la domanda. La difesa potrebbe anche non attivarsi contando sull’incompletezza istruttoria per ottenere il rigetto della domanda del P.M. o magari per chiedere un rito alternativo in condizioni di vantaggio, ma potrebbe anche darsi da fare allo scopo di acquisire elementi favorevoli da utilizzare subito o in un eventuale rito alternativo. Naturalmente all’esito dello svolgimento dell’attività investigativa le parti dovranno discutere nuovamente, peraltro la nuova discussione dovrà avvenire anche se, indifferenti all’indicazione del giudice, le parti non si siano in alcun modo attivate. Resta da domandarsi quali siano i poteri del G.U.P. di fronte all’inattività delle parti. La risposta è che nessuna soluzione vi è all’interno del 421 bis c.p.p.. Il G.U.P. di fronte all’indifferenza dei suoi interlocutori non avrà che da decidere allo stato degli atti a meno che non sia nelle condizioni di cui all’art. 422 c.p.p.. ART. 422 c.p.p. 26 (integrazione probatoria del giudice) Una situazione diversa e residuale è stata disciplinata nell’art. 422 c.p.p.. L’ipotesi apparente è quella dell’esistenza di un’istruttoria completa, ma nel contempo della possibilità di acquisire attraverso ulteriori atti di indagine un elemento di prova decisivo per una pronuncia ex art. 425 c.p.p.. Quando la situazione ora descritta emerge con evidenza il G.U.P. può disporre anche d’ufficio, ma nulla vieta alle parti di sollecitarlo, l’assunzione della prova (rectius degli elementi di prova). Si tratta di una disposizione che incide in maniera evidente sulla natura accusatoria del processo, ma si inquadra perfettamente nella scelta del legislatore di favorire in ogni modo la riduzione dei processi in dibattimento anche forzando i principi ispiratori del sistema. Alcuni aspetti del procedimento vanno sottolineati. Innanzitutto l’adozione di un precedente provvedimento ex art. 421 bis c.p.p. non è ostativo all’emissione di un’ordinanza ex art. 422 c.p.p.. Le parole usate dal legislatore (quando non provvede…) stanno a significare l’impossibilità di un duplice provvedimento contemporaneo e non ad escludere che, esaurita la procedura ex art. 421 bis c.p.p., si possa ricorrere all’ordinanza in esame. Peraltro ben può accadere che proprio il completamento dell’istruttoria imponga la soluzione in oggetto. Nella valutazione preliminare che il G.U.P. compie, l’adozione della sentenza ex art. 425 c.p.p. a seguito dell’assunzione della prova deve emergere con evidenza, deve essere cioè del tutto chiaro che l’esito positivo dell’attività di integrazione probatoria non può che produrre la dichiarazione ex art. 425 c.p.p. a favore dell’imputato; per converso sarebbe contraddittoria e incomprensibile la pronuncia di un decreto che dispone il giudizio dopo l’assunzione positiva dell’elemento di prova. Ci si domanda se sia possibile dopo l’espletamento dell’attività di integrazione chiedere un rito alternativo. La risposta non può che essere positiva. Il III co. dell’art. 422 c.p.p. precisa l’esigenza di nuove conclusioni e nulla vieta che prima di queste la difesa richieda il rito alternativo che può avere una sua utilità sia se l’acquisizione della prova non è stata favorevole all’imputato, ma anche se il risultato è stato per lui 27 positivo. In questo caso infatti con il rito abbreviato egli renderebbe definitivo il proscioglimento a suo favore. E’ da escludersi invece la praticabilità del “patteggiamento” in caso di esito positivo dell’indagine poiché anche di fronte ad una richiesta di tal genere difficilmente il G.U.P. potrebbe evitare una pronuncia ex art. 129 c.p.p.; un caso limite potrebbe essere rappresentato da un precedente errore del G.U.P. nell’adozione dell’ordinanza errore del quale parti e giudice si rendono consapevoli. Quali indagini può disporre il G.U.P.? Tutte. L’interpretazione restrittiva, vigente il precedente testo dell’art. 422 c.p.p. che conteneva un elenco tassativo di indagini esperibili non può essere accolta. Vi ostano la lettera della norma (… il giudice può disporre …. L’assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività …), ma anche lo spirito della riforma e della disposizione in particolare tutta tesa a ridurre i dibattimenti inutili. L’indicazione delle prove dichiarative di cui al II ed al III co. è finalizzata esclusivamente a disciplinare le modalità di assunzione di detti elementi probatori. Nella “sua” attività di indagine il G.U.P. potrà, ovviamente avvalersi della P.G.. Dopo quanto detto è impossibile non pensare alle analogie esistenti fra la figura del giudice istruttore esistente nel vecchio codice ed il G.U.P. nel momento in cui esercita i poteri di cui agli artt. 421 bis e 422 c.p.p.. In particolare colpisce la possibilità che egli ha di attivarsi d’ufficio, l’ampia discrezionalità delle sue scelte istruttorie, il potere di indicare e in alcuni casi di disporre, atti specifici di indagine. Le buone intenzioni del legislatore sono chiare e le si è già evidenziate, ma non vi è dubbio che le innovazioni introdotte con la l. 479/99 rompono il tabù del divieto di acquisizione delle prove ad iniziativa del giudice ed in via pre-dibattimentale. A ridurre i rischi nascenti da un’attuazione “disinvolta” soprattutto dell’art. 422 c.p.p. che in pratica autorizza il G.U.P. ad acquisire direttamente qualsiasi tipo di prova vi è il limite connesso allo scopo della norma. La procedura può essere usata solo a favore 28 dell’imputato e sarebbe grave un’utilizzazione distorta dell’istituto magari allo scopo di completare un’istruttoria senza nemmeno passare per l’attività delle parti. Solo l’esperienza dei prossimi anni ci dirà se si riuscirà a fare di questi istituti un uso coerente con le finalità che hanno indotto il legislatore ad introdurli. In ogni caso proprio l’introduzione di queste due norme, unitamente all’aggiunta dei co. 2, 3 e 4 all’art. 425 c.p.p., ha rivoluzionato, almeno in parte la regola di giudizio che dovrebbe presiedere la decisione da prendere all’esito dell’udienza preliminare. L’UDIENZA PRELIMINARE COME “FILTRO” e LO STANDARD PROBATORIO PER IL RINVIO A GIUDIZIO Come si è visto, quello della prima instaurazione di un libero e completo confronto fra le parti davanti ad un giudice imparziale è la prima funzione che il legislatore ha attribuito all’udienza preliminare e si è già evidenziato che lo svolgimento di un contraddittorio pieno è stato considerato dal legislatore lo strumento migliore per consentire alle parti ed al giudice di prendere le decisioni più consapevoli. Sotto questo profilo, per quanto riguarda la difesa, lo svolgimento in contraddittorio dell’udienza preliminare permette di esercitare le proprie funzioni sotto svariati profili. Innanzitutto può dire la sua per la prima volta sulla validità degli atti compiuti o acquisiti dal P.M.; poi può incidere sul completamento dell’investigazione anche con attività dirette ex art. 391 octies c.p.p., ha la possibilità di eccitare i poteri di intervento del G.U.P. ed infine può scegliere, quasi senza salti nel buio, una definizione anticipata ed alternativa del processo. D’altro canto anche al P.M. sono riservati poteri tutto sommato analoghi in rapporto alla funzione svolta. Esaurita ogni attività investigativa ed esclusa da parte della difesa la scelta di un rito alternativo, alle parti non resta che concludere prospettando al giudice le proprie determinazioni. A questo punto la scelta del G.U.P. è limitata alle ipotesi previste dal I co. dell’art. 424 c.p.p.: sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio. 29 Ma quali sono i parametri ai quali si deve uniformare il giudice per operare correttamente? In altre parole qual è la “regola di giudizio” alla quale deve obbedire il G.U.P.? Nulla dice la norma per quanto riguarda il decreto che dispone il giudizio, mentre l’art. 425 c.p.p. elenca le situazioni che impongono la dichiarazione di improcedibilità. La scelta legislativa, a mio modo di vedere, costringe l’interprete a compiere la doverosa operazione ermeneutica seguendo un criterio preciso: individuare le ipotesi in cui si deve pronunciare la sentenza ex art. 425 c.p.p. e, ovviamente per esclusione, accertare le situazioni che impongono l’emissione del decreto che dispone il giudizio. Anche in questo caso un passo indietro può essere utile soprattutto perché proprio in quest’ambito hanno inciso maggiormente le innovazioni legislative introdotte dalla l. Carotti alle quali hanno fatto seguito reiterati interventi della Corte Costituzionale. E’ opportuno dunque partire dall’inizio. Già durante i lavori preparatori del nuovo codice ci si rese conto che le possibilità di successo o, se si preferisce, di concreta attuazione, di un sistema processuale che aveva il suo fulcro nella celebrazione di un dibattimento particolarmente complesso e farraginoso erano legate da un lato all’eventuale salto di alcune fasi processuali e dall’altro proprio alla riduzione dei dibattimenti da tenere: si può dire in maniera paradossale che il nuovo processo avrebbe potuto funzionare nella misura in cui di fasi dibattimentali se ne fossero celebrate ben poche. C’era dunque la necessità di approntare strumenti idonei ad evitare che si seguissero passaggi scontati (casi nei quali la prova a carico dell’indagato è tale da rendere inutile un passaggio intermedio fra la fase investigativa e quella dibattimentale) o si instaurassero processi “inutili” intendendo per tali sia quelli destinati a concludersi sicuramente con il proscioglimento dell’imputato che quelli nei quali la completezza dell’attività investigativa svolta dal P.M. consentisse una serena anticipazione della decisione. 30 Occorreva dunque improntare a criteri di “economicità di gestione” l’intera struttura processuale. La questione si presentava particolarmente delicata perché nel nostro ordinamento anche se il buon andamento della P.A. va considerato un principio costituzionale (art. 97 I co. Cost.) al quale deve adeguarsi tutta l’attività amministrativa in senso lato, è anche vero che detto principio non può ledere altri interessi che trovano tutela nella Carta fondamentale ed in particolare il principio di eguaglianza (art. 3), l’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24), la funzione rieducativa della pena (art. 27 III co.), il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112). La scelta del legislatore si orientò perciò verso la creazione di istituti che consentissero un’accelerazione delle procedure o un’anticipata definizione del processo sotto il costante controllo di un giudice. Il problema del rapporto fra l’esigenza di instaurare processi “inutili” e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale venne innanzitutto risolto con la normativa che disciplina l’archiviazione (artt. 408-414 c.p.p. e 125-126 disp. att. c.p.p.). Il P.M., quando ricorrono le condizioni di cui agli artt. 408 I co., 411 c.p.p. e 125 disp. att. c.p.p., chiede l’archiviazione del procedimento ed un giudice (in questo caso quello delle indagini preliminari), valuta e decide fra varie possibilità: la richiesta può essere accolta de plano e viene pronunciato il relativo decreto oppure le indagini sembrano incomplete ed allora, con ordinanza, il G.I.P. dispone nuove investigazioni; ancora può succedere che il G.I.P. ritenga che ci siano sufficienti elementi perché venga celebrata l’udienza preliminare ed allora pronuncerà un’ordinanza con la quale impone al P.M. di formulare l’imputazione (art. 409 V co. c.p.p.). In concreto quello dell’archiviazione è un procedimento che presenta particolarissime analogie strutturali e funzionali con l’udienza preliminare che la brevità di queste note non consente di analizzare, ma che non sarà inutile all’occasione evidenziare. Furono poi introdotti i c.d. riti alternativi sul presupposto che l’obiettivo di una gestione “economica” del sistema processuale potesse e dovesse essere, almeno in 31 parte, raggiunto in via mediata attraverso la discovery precedente l’udienza preliminare. La difesa, messa a conoscenza degli elementi a suo carico, dovrebbe potersi orientare nella scelta dei riti alternativi, ed evitare dibattimenti che sono destinati senza ombra di dubbio a concludersi con una condanna o nei quali la trasformazione delle “fonti di prova” in “prove” nulla potrebbe modificare. Sennonché la necessità dell’eliminazione dei dibattimenti “inutili” va vista anche, e soprattutto, sotto l’altro versante, nel senso cioè della necessaria previsione di uno strumento idoneo a bloccare anticipatamente la celebrazione di processi il cui esito non potrebbe essere altro che un giudizio di non colpevolezza nei confronti dell’imputato. Guardando all’intero sistema ci si accorge che le soluzioni scelte a suo tempo dal legislatore per affrontare e risolvere questo problema furono tre: 1) Archiviazione del procedimento (artt. 408, 411 c.c.p. e 125 e 126 disp. att. c.p.p. ); 2) Declaratoria in ogni stato e grado del processo di determinate cause di non punibilità (art. 129 c.p.p.); 3) Sentenza di Non Luogo a Procedere all’esito dell’udienza preliminare (art. 425 c.p.p.). In questa sede ci interessa essenzialmente questo terzo strumento anche se, come si vedrà, il riferimento agli altri due ed in particolare al primo, sarà necessità costante. Non v’è dubbio che nell’idea originaria dei compilatori del codice l’udienza preliminare doveva essere lo strumento idoneo a realizzare il solo controllo di legittimità sull’azione penale inteso questo come verifica dell’esercizio corretto da parte del P.M. del suo potere. In sostanza l’idea era quella di demandare al G.U.P. il compito di verificare l’esistenza di elementi sufficienti per il rinvio a giudizio senza entrare in alcun modo nel merito della responsabilità dell’imputato cosa che avrebbe comportato un rischio di condizionamento per i giudici del dibattimento. L’analisi della norma così come risultava scritta prima dell’ultima riforma confermava senza alcun dubbio questa ipotesi e vale la pena ripercorrere l’iter 32 dimostrativo, a suo tempo seguito dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, per giungere alle conclusioni sopra indicate anche perché, in fin dei conti, il I co. dell’art. 425 c.p.p. riproduce integralmente la disposizione precedentemente in vigore ed anche perché quel ragionamento, a ben vedere, ha ancora una sia pur parziale validità. Innanzitutto si evidenziò che solo una lettura affrettata del I co. dell’art. 425 c.p.p. poteva far pensare che la norma in questione riproducesse pedissequamente il combinato disposto fra gli artt. 529 e 530 c.p.p. (proscioglimento all’esito del dibattimento) o che fosse la sostanziale ripetizione di quanto previsto dagli artt. 408 e 411 c.c.p. e 125 disp. att. c.c.p. (archiviazione). La realtà non era questa e l’analisi delle differenze che vi sono fra le disposizioni citate fu di sicuro aiuto nella comprensione del meccanismo di attuazione della norma in oggetto. In ogni caso ancor più delle distinzioni letterali fra le disposizioni, l’interpretazione sistematica e teleologica della disposizione ne consentì una corretta chiave di lettura. Il confronto fra l’art. 425 co. I c.p.p e la coppia 529-530 c.p.p. fece emergere subito la differente articolazione del contenuto. Più sintetico l’art. 425 I co. c.p.p., più analitico l’art. 530 c.p.p.. Fu altresì evidenziato che se la dizione usata per le cause di improcedibilità e per la mancata previsione del fatto come reato era identica nelle due disposizioni, non avveniva altrettanto per le cause di proscioglimento in ordine alle quali il 425 disponeva che dovessero risultare, mentre per il 530 era necessario che esse sussistessero. Quanto ai rapporti con le norme sull’archiviazione, fu precisato che l’espressione infondatezza della notizia di reato nell’art. 408 c.p.p. ed il dettato dell’art. 409 c.p.p. comprendevano essenzialmente tutte le ipotesi previste letteralmente nell’art. 425 I co. c.p.p., ma doveva altresì considerarsi che l’art. 125 disp. att. c.p.p. faceva riferimento all’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Queste differenze imponevano idonee valutazioni. 33 La diversità del verbo usato per alcune formule di proscioglimento (meglio sarebbe dire di dichiarazione di improcedibilità) secondo dottrina e giurisprudenza non andava considerato come un mero dato nominalistico, ma era un elemento che evidenziava ancor più la diversità delle due norme alla luce del sistema nel quale erano inserite. L’art. 530 c.p.p. è la disposizione che fa’ riferimento alla conclusione del dibattimento in un momento in cui il processo si chiude con l’accertamento della verità processuale. Non c’è nulla che possa mutare; non si tratta di valutare fonti di prova, cioè elementi suscettibili di essere considerati in maniera diversa perché potenzialmente idonei ad essere sviluppati in vario modo e perchè comunque non ancora cristallizzati attraverso il contraddittorio delle parti. Alla fine del processo tutto viene fermato e la decisione che ne consegue è la verità (processuale) destinata ad essere, col passaggio in giudicato della sentenza, naturalmente immutabile quand’anche si traduca in una dichiarazione di impossibilità di accertamento della giustezza della pretesa punitiva avanzata dal P.M.. Di tutt’altro stampo veniva considerata la decisione emessa dal G.U.P. all’esito dell’udienza preliminare. Il provvedimento in questione veniva emanato valutando elementi (fonti di prova) naturalmente destinati ad essere messi in discussione e riconsiderati in una nuova (eventuale) attività processuale attraverso quello che il legislatore ha considerato come il migliore dei sistemi per accertare la verità e cioè il confronto fra le parti; ed anche quando la decisione del G.U.P. non era un decreto, ma era una sentenza ex art. 425 c.p.p. si trattava pur sempre di un provvedimento intrinsecamente interlocutorio e sempre suscettibile, sia pure a certe condizioni (art. 434 c.p.p.), di essere revocato. In concreto la decisione del G.U.P. veniva ritenuta non la verità processuale, ma una decisione a carattere processuale che veniva emessa allo stato degli atti cioè sulla base di quanto, ecco il motivo della richiamata distinzione terminologica, risultava essere stato acquisito ed essa era naturalmente incapace di pregiudicare in via definitiva qualsiasi posizione. 34 In questo senso il verbo risulta sottolineava appunto questa mancanza di verità processuale definitiva nella sentenza emessa ex art. 425 I co. c.p.p. e, per certi versi, la precarietà di una decisione che attiene a ciò che risulta oggi, ma che domani (ex art. 434 c.p.p.) potrà essere valutato diversamente alla luce di nuovi elementi acquisiti. Si era poi sottolineato che il termine usato nella formula prevista nel 425 c.p.p. indicava una sorta di relativa passività del G.U.P. che doveva considerare ciò che emergeva dagli atti, mentre la valutazione ex art. 530 c.p.p. impone una diversa, e ovviamente approfondita, indagine sui dati processuali. Quest’ultima opinione trovava un certo conforto nel contenuto della lett. d) dell’art. 426 c.p.p. nel quale, fra i requisiti della sentenza emanata ex art. 425 c.p.p, si indica l’esposizione sommaria dei motivi della decisione: la sommarietà della motivazione sembrerebbe infatti compatibile solo con la mancanza di necessità di particolare approfondimento delle argomentazioni. Accertata la natura processuale della sentenza ex art. 425 c.p.p., a maggior ragione non v’era alcuna discussione sulla natura giuridica del provvedimento che disponeva il giudizio il quale, non a caso, aveva la forma del decreto e non era (secondo alcuni non doveva risultare) motivato per ragioni apparentemente piuttosto ovvie: se il dibattimento è il luogo di formazione della prova e tutte le attività compiute in precedenza sono affette da inutilizzabilità (fisiologica), ogni valutazione di queste attività trascritta su un documento destinato ad introdurre il dibattimento sarebbe stato inevitabilmente capace di condizionare quel giudice che invece doveva essere vergine di ogni informazione e/o valutazione proveniente da quella fase che, tranne che in qualche caso raro ed eccezionale, doveva restare a lui nascosta nell’oscurità più totale. Individuata la differenza strutturale fra la sentenza ex art. 425 I co. c.p.p. e quella ex artt. 529 e 530 c.p.p., occorreva fare un ulteriore sforzo per delimitare con esattezza l’ambito di applicazione dell’art. 425 I co. c.p.p. cioè la regola di giudizio che doveva indirizzare la decisione del G.U.P.. 35 E’ chiaro che in tutti i casi in cui emergeva con chiarezza, oggettivamente, l’innocenza dell’imputato e in tutti quelli nei quali non fosse possibile nemmeno la costruzione di un’ipotesi accusatoria la decisione non presentava particolari difficoltà. Ma che fare quando vi era un’insufficiente acquisizione probatoria o vi era contrasto fra gli elementi di prova acquisiti? Era sempre vero che si doveva in questi casi procedere al rinvio a giudizio? La risposta di giurisprudenza e dottrina prevalenti era venuta all’esito di un elaborato percorso interpretativo il cui punto di partenza fu la disamina comparata fra questa norma e le disposizioni in tema di archiviazione e che vale la pena riassumere. Va subito premesso che prima della soppressione della parola evidente dal corpo dell’art. 425 avvenuta con la l. 105/93 vi era stato un animato dibattito in dottrina e giurisprudenza sul rapporto fra decreto di archiviazione e sentenza ex art. 425 c.p.p.. All’epoca era prevalente la tesi di coloro che, interpretando rigorosamente la lettera della norma in esame, ritenevano che il G.U.P. avesse in questa fase possibilità meno ampie di quante ne avesse a sua volta, ex art. 125 disp. att. c.p.p., il P.M. in tema di richiesta di archiviazione e, ovviamente, lo stesso giudice nell’emanazione del relativo decreto. In pratica mentre si poteva “archiviare” anche quando, a prescindere dalle risultanze investigative, gli elementi di prova acquisiti nelle indagini preliminari non erano idonei a sostenere l’accusa in giudizio, questo non poteva avvenire all’esito dell’udienza preliminare nel corso della quale, per procedere ad un’eventuale sentenza di di N.L.P., doveva comunque emergere o la prova piena della mancanza di responsabilità o la assoluta palese carenza di prova in ordine alla colpevolezza. Un’interpretazione di questo genere, peraltro incidentalmente censurata dalla Corte Costituzionale, portava con sé alcune conseguenze: una prima, paradossale, era che il P.M. poteva arbitrariamente decidere se l’azione penale non dovesse essere esercitata o se nei confronti dell’indagato dovesse essere celebrato il dibattimento. D’altra parte, però, proprio l’assenza di un penetrante potere di controllo da parte del G.U.P. garantiva che il decreto di rinvio a giudizio non fosse pregiudizievole, sia 36 pure solo psicologicamente, per l’imputato. Dal punto di vista pratico poi la conseguenza più rilevante era che solo le imputazioni azzardate o fantasiose (per vero piuttosto rare) potevano essere “eliminate” dal G.U.P., con buona pace della funzione di “filtro” per il dibattimento che l’udienza preliminare, secondo i compilatori del codice, doveva svolgere. Con l’abolizione dell’aggettivo evidente dal testo dell’art. 425 c.p.p. avvenuto con la riforma del 1993 si impose certamente al G.U.P. un controllo più approfondito delle fonti di prova acquisite dal P.M. nel corso delle indagini preliminari perché, quantunque la sua ricerca fosse “allo stato degli atti” e rivolta a verificare le potenzialità dell’accusa, egli non poteva più limitarsi alla sola ricezione di ciò che appariva con immediatezza, ma, fermi i limiti già indicati, doveva anche attivarsi nella valutazione dei fatti. Qualora dagli atti fosse emersa con chiarezza la prova dell’innocenza o mancasse la prova della colpevolezza dell’imputato non vi erano ovviamente problemi di sorta e altrettanto doveva dirsi qualora sussisteva la prova della responsabilità. Restava in piedi il problema della valutazione delle situazioni di incertezza. Che fare in questi casi? L’aiuto veniva dall’art. 125 disp. att. c.p.p.. La norma in questione che, ricordiamolo, si riferisce alla richiesta di archiviazione avanzata dal P.M., parla genericamente di elementi acquisiti ed inidonei a sostenere l’accusa in giudizio, questo significa che qualche elemento di prova deve essere stato comunque trovato, ma che non sia da solo idoneo ad ipotizzare per l’indagato, allo stato, né un giudizio di responsabilità né di innocenza e che non è prevedibile per l’ipotesi accusatoria alcuno sviluppo positivo anche all’esito di un ipotetico dibattimento (si pensi a testimonianze confuse che per il tempo trascorso o per la definitiva assenza del testimone non possono più essere sottoposte a verifica, oppure alla necessità di sottoporre ad indagini tecniche oggetti distrutti ecc.). La Corte Costituzionale con la sent. n.88 del 91 operò un accostamento fra insostenibilità dell’accusa in giudizio (ex art. 125 disp. att.) ed evidenza dell’innocenza (ex art. 425 c.p.p.) nel senso indicato in precedenza e la strada segnata dal Giudice delle leggi sembrò a tutti quella più ragionevole. 37 In concreto l’accertata insufficienza o la contraddittorietà degli elementi di prova può determinare due situazioni: una di stallo che non ha alcuna possibilità di soluzione e un’altra, sempre di incertezza, in ordine alla quale si può ipotizzare che il dibattimento riesca a sciogliere i dubbi e/o a colmare le lacune. Naturalmente è chiaro che tutto il giudizio in questo caso è incentrato non sulla situazione esistente all’esito dell’udienza preliminare, la cui incertezza costituisce proprio il presupposto di una situazione di questo genere, ma sulla prospettiva dibattimentale (non astratta, ma concreta e basata sugli atti acquisiti) di giungere ad una condanna dell’imputato. A questo punto l’ambito di applicazione dell’art. 425 c.p.p., e, per converso e in maniera speculare, quello del decreto di rinvio a giudizio, poteva essere definito in maniera più precisa. La decisione in questione doveva essere emanata ogni qualvolta l’insufficienza o la contraddittorietà delle fonti di prova non fosse suscettibile di essere sanata in dibattimento. Tutte le volte che il verdetto pronunciabile era “aperto” la verifica dibattimentale si imponeva; in questo caso il G.U.P., prescindendo dalle proprie convinzioni e da quella che sarebbe stata la sua valutazione se fosse stato officiato avendo i pieni poteri di valutazione del giudice del rito abbreviato, doveva sempre acconsentire alla richiesta del P.M. di rinvio a giudizio dell’imputato. Quando, però, il contrasto e l’insufficienza non avevano speranza concreta di essere, con maggiore o minore difficoltà, chiariti e/o integrati in dibattimento allora non vi era spazio per un (inutile) rinvio a giudizio. In considerazione di quanto finora detto dottrina e giurisprudenza anche della Corte Costituzionale non avevano alcun dubbio: il G.U.P. era in realtà un giudice del rito e non del merito; l’oggetto dell’udienza preliminare era la valutazione, interlocutoria e “allo stato degli atti”, delle acquisizioni investigative effettuate dall’accusa nel corso delle indagini preliminari o nel corso dell’udienza preliminare; la funzione specifica dell’udienza preliminare all’interno del sistema processuale era quella di introdurre il contraddittorio pieno fra accusa e difesa davanti ad un giudice e, nello stesso tempo, di impedire l’instaurazione di attività processuali superflue attraverso il controllo della legittimità dell’azione penale. 38 Queste certezze sono state messe in crisi dalla riforma del ’99. Innanzitutto i nuovi poteri di integrazione probatoria attribuiti al G.U.P. impongono a questi di avere un ruolo attivo nell’acquisizione degli elementi di prova ed in qualche maniera gli consentono di “governare” il completamento istruttorio secondo logiche che possono essere anche estranee al mero controllo di legittimità dell’azione penale e finalizzate quindi ad un accertamento, magari interlocutorio, ma comunque relativo alla responsabilità dell’imputato. A tutto questo deve aggiungersi il contenuto dei co. 2 e 4 dell’art. 425 c.p.p.. La prima disposizione impone l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere anche in conseguenza dell’estinzione del reato per effetto del giudizio di comparazione fra aggravanti ed attenuanti ex art. 69 c.p.. La seconda norma è costruita in maniera singolare: si tratta di un divieto di pronuncia di una sentenza di N.L.P. nel caso in cui dovesse essere applicata una misura di sicurezza (confisca esclusa). Il caso pratico è questo: si è in presenza di un imputato totalmente incapace di intendere e di volere al momento della commissione del fatto (le ipotesi di cui agli artt. 49 e 115 c.p. sono casi quasi “di scuola”). La Corte Costituzionale aveva escluso la possibilità di una decisione del G.U.P. che, sia pure attraverso una sentenza di N.L.P., affermasse comunque l’attribuibilità del fatto all’imputato. Il legislatore ha disciplinato il caso prevedendo, in concreto, la possibilità di una pronuncia di questo genere solo quando, per assenza di pericolosità sociale, non debba essere applicata alcuna misura di sicurezza. Effettivamente in entrambe le situazioni sembra inevitabile che il proscioglimento segua una dichiarazione di attribuibilità dei fatti il che sarebbe del tutto incomprensibile in un sistema processuale che in questa fase dovrebbe prevedere questa possibilità solo su richiesta dell’imputato o in assenza di una sua contraria volontà (riti alternativi). Il fatto è che, come è accaduto per gli artt. 421 e 421 bis c.p.p., i co. 2 e 3 dell’art. 425 c.p.p. sono stati introdotti per ragioni pratiche dettate dall’esigenza di inserire 39 nel sistema meccanismi che in ogni modo riducessero l’invio in dibattimento di processi destinati a concludersi con un “nulla di fatto”. Insomma queste decisioni sono state adottate in una logica di buon senso, ma senza andare troppo per il sottile e, soprattutto, senza che ci si rendesse conto delle situazioni di rottura che si creavano nel sistema. Una frattura puntualmente rilevata dalla Corte Costituzionale che con una recente decisione (Sent. 335/02), peraltro largamente preannunciata da altre sentenze, pronunciandosi sulla costituzionalità dell’art. 34 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che fosse incompatibile a tenere l’udienza preliminare il G.U.P. che aveva a suo tempo emesso un decreto che dispone il giudizio annullato, ha definitivamente chiarito che la decisione che il G.U.P. prende all’esito dell’udienza preliminare non può più essere considerata una decisione meramente processuale. Il Giudice delle Leggi innanzitutto rileva che “l’udienza preliminare e le decisioni che la concludono sono venute oggi a caratterizzarsi per la completezza del quadro probatorio di cui il giudice deve disporre e per il potenziamento dei poteri riconosciuti in materia di prove alle parti” e, attraverso gli strumenti previsti dagli artt. 421 e 421 bis c.p.p., allo stesso G.U.P.; la Corte sottolinea che in questo rinnovato “quadro normativo le valutazioni di merito affidate al giudice dell’udienza preliminare sono state private di quei caratteri di sommarietà che erano tipici di una decisione orientata soltanto allo svolgimento (o alla preclusione dello svolgimento) del processo”. Risolta la querelle sul carattere del provvedimento definitivo emesso dal G.U.P., la Corte si è lanciata, sia pure per poche righe, nell’analisi dei contenuti delle decisioni che concludono l’udienza preliminare individuando nell’introduzione dei co. 1, 2, 3 dell’art. 425 c.p.p. la riprova della “diversa e maggiore pregnanza” assunta dal provvedimento finale del G.U.P.. Ovviamente la decisione del Giudice delle Leggi va rispettata per quello che è, ma non può non suscitare qualche perplessità sia l’iter argomentativo seguito che le 40 conclusioni in ragione anche degli scenari che a questo punto, inevitabilmente, si aprono. Innanzitutto l’invocazione del co. 3 dell’art. 425 c.p.p. come di una norma che conferma la natura di merito della decisione del G.U.P. appare non felice. In effetti la semplice lettura della disposizione consente di verificare che si tratta della trasposizione in una norma positiva dettata in tema di udienza preliminare di un principio del quale si è parlato in precedenza e che la stessa Corte aveva contribuito ad individuare con una decisione nella quale di tutto si dubitava meno che della natura processuale della scelta del G.U.P.. Peraltro è agevole evidenziare come la lettera della disposizione si riferisca con chiarezza ad elementi acquisiti … insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio ( attenzione non è stata usata un’espressione del tipo “inidonei a dimostrare la responsabilità dell’imputato” ); si tratta di un’affermazione relativa alla mancata acquisizione di elementi suscettibili di trasformarsi in prova nel dibattimento il che implica un giudizio sul passato, inteso con riferimento all’attività del P.M. nelle indagini preliminari, ma è anche una valutazione prognostica sulla possibilità concreta che le fonti probatorie, nel naturale sviluppo del processo, siano idonee a raggiungere l’esito sperato dal P.M. e mi sembra, francamente, evidente che questo tipo di valutazione sia proprio di un provvedimento a carattere processuale. C’è da domandarsi poi se forma e contenuto degli atti conclusivi dell’udienza preliminare siano compatibili con la natura degli stessi come individuata dalla Corte e non debbano a questo punto essere rivisti. Se infatti è discutibile che la sentenza emessa ex art. 425 c.p.p. debba essere sommariamente motivata, appare in ogni caso inaccettabile per contrasto col VI co. dell’art. 111 Cost che il decreto che dispone il giudizio, provvedimento che secondo la Corte implica un giudizio di merito sulla responsabilità dell’imputato, sia privo di motivazione. Altre conseguenze si vanno poi delineando nei campi più svariati: basti pensare che recentemente la S.C., recepita la decisione della Consulta, ha affermato l’inammissibilità di istanza di revoca di misura cautelare per mancanza di indizi una 41 volta emesso il decreto che dispone il giudizio. E sembra a questo punto inevitabile che la decisione ex co. 4 dell’art. 425 c.p.p. possa essere presa anche di fronte alla mancanza di consenso da parte dell’imputato. In realtà la Corte, chiamata a decidere su una questione tutto sommato circoscritta, ha preferito risolverla non dichiarando l’incostituzionalità della norma “nella parte in cui…”, ma offrendo un’interpretazione delle disposizioni codicistiche coinvolte che consentisse di salvare la legittimità della norma di legge censurata. Sennonché un’attenta lettura della motivazione della sentenza permette di capire che in fin dei conti il Giudice delle Leggi è intervenuto essenzialmente sulla base di valutazioni quantitative più che qualitative: si afferma che “le valutazioni di merito affidate al Giudice dell’Udienza Preliminare sono state private di quel carattere di sommarietà……” ed il loro contenuto si caratterizza per una “maggiore pregnanza”. Insomma sembra chiaro che con la sua decisione la Corte abbia voluto sottolineare più che altro che esiste la possibilità concreta che la decisione finale del G.U.P. sia presa secondo logiche “di merito” e non “processuali” il che è indiscutibilmente vero sotto alcuni profili, ma non sotto tutti. In particolare tornando all’interpretazione prevalente anche vigente la l. Carotti ed accettata dalla Corte prima della venuta alla luce della riforma, si deve riconoscere che quando la decisione del G.U.P.è di proscioglimento ex art. 425 I co. c.p.p. essa, proprio in considerazione di quanto già espresso in precedenza in tema di completezza istruttoria e di poteri integrativi del giudice e delle parti, non può non avere le caratteristiche di una decisione di merito. Altrettanto deve dirsi per la situazione speculare e opposta che porta al rinvio a giudizio dell’imputato. Emerge invece, inevitabilmente, la natura processuale della decisione del G.U.P. sia nell’ipotesi di cui al III co. dell’art. 425 c.p.p. sia in quella di rinvio a giudizio in caso di elementi contraddittori suscettibili di chiarificazione in dibattimento (i casi insomma di “verdetto aperto”). In queste situazioni la regola di giudizio non può che essere la stessa di quella a suo tempo individuata prima dell’entrata in vigore della l. 42 Carotti ed il completamento istruttorio nel corso dell’udienza preliminare ha il solo significato di mettere in condizioni il G.U.P. di decidere “con cognizione completa”, ma senza che questo significhi in alcun modo l’affermazione o la negazione della responsabilità dell’imputato. Come si vede il contesto teorico all’interno del quale si deve muovere il G.U.P. è ancor oggi alquanto confuso, ma il fatto non deve meravigliare. Occorre riconoscere infatti che l’impianto originario del nuovo codice di procedura penale aveva prodotto come unico risultato la completa paralisi dell’apparato giudiziario e così i continui interventi del legislatore, della Consulta, della giurisprudenza e l’adozione di prassi giudiziarie hanno avuto inevitabilmente come scopo costante quello di “mettere la macchina in condizioni di andare avanti” con poca attenzione per il “sistema” nel quale le innovazioni andavano ad inserirsi. Ne ha sofferto certamente la purezza della scelta legislativa originaria, ma in compenso, questo lo si deve riconoscere, qualche risultato pratico è stato raggiunto ed è sotto gli occhi di tutti: si sono ridotte le imputazioni azzardate e/o prive di un minimo di riscontro istruttorio e, soprattutto, sono aumentate le definizioni dei processi all’udienza preliminare con conseguente riduzione dell’ingolfamento del dibattimento. C’è solo da domandarsi se questo sarà l’ultimo degli interventi normativi in questo campo perchè se così non dovesse essere e la scelta del legislatore dovesse essere quella di accentuare ulteriormente le potenzialità istruttorie del G.U.P. comincerebbe a porsi in maniera pressante la necessità di riscrivere l’intero sistema. 43 Luigi Picardi Giudice per le Indagini Preliminari nel Tribunale di Napoli 44