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l`udienza preliminare

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l`udienza preliminare
L’UDIENZA PRELIMINARE: IL SUO SVOLGIMENTO, I POTERI
INTEGRATIVI DEL GIUDICE E GLI STANDARD PROBATORI
PER IL RINVIO A GIUDIZIO
L’U D I E N Z A
PRELIMINARE
L’udienza preliminare, insieme con la cross-examination dibattimentale, è uno degli
elementi emblematici del nuovo processo penale introdotto nel 1988.
Nell’idea del legislatore il rilievo dell’udienza preliminare era assolutamente
centrale e questo sia per motivi di ordine sistematico che per altri di natura
funzionale, tutti comunque strettamente collegati alla pratica attuazione dell’intero
sistema processuale penale.
L’udienza preliminare è collocata all’esito delle indagini preliminari anzi, ad essere
precisi, è fuori da questa fase procedimentale poiché con la richiesta di rinvio a
giudizio il P.M. esercita l’azione penale dichiarando, sostanzialmente, che quanto
acquisito fino a quel momento in via preliminare è sufficiente perché si celebri il
dibattimento a carico di una persona che da questo momento non è più solo
indagata, ma imputata di uno o più reati.
In concreto, dunque, l’udienza preliminare viene a trovarsi fra le indagini
preliminari ed il dibattimento e rappresenta un passaggio “normale”, anche se non
sempre necessario, verso un processo destinato a concludersi con una sentenza di
merito.
Va subito detto che, ad onta degli accostamenti con istituti processuali presenti in
ordinamenti stranieri, l’udienza preliminare prevista nel codice del 1988 ha delle
peculiarità che la rendono, per certi versi, un unicum.
La funzione dell’udienza preliminare e il suo scopo, in una parola il suo significato
all’interno del sistema, nonché la sua struttura e le modalità di funzionamento dei
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meccanismi che la regolano possono essere compresi appieno solo se rapportati
all’intera struttura processuale penale.
In linea di massima si può dire che il legislatore del 1988 previde lo svolgimento,
per dir così, “normale” del processo in due fasi.
Una prima parte, cosiddetta procedimentale, nella quale il P.M. svolge nella
segretezza, ma spesso senza spazio per una successiva utilizzabilità processuale,
un’attività di acquisizione di fonti probatorie che avviene sotto il controllo di un
giudice solo quando vi è un’importante compressione dei diritti fondamentali
dell’individuo ed una fase processuale che, in pienezza di contraddittorio fra accusa
e difesa, è destinata alla formazione delle prove ed in conseguenza di questa alla
decisione definitiva sulla responsabilità o meno di una persona in ordine ad un fattoreato.
Giova comunque precisare che se questo era lo spirito originario che informava il
nuovo codice, vuoi per riforme legislative, vuoi per gli interventi della Corte
Costituzionale, vuoi per l’applicazione di particolari prassi giudiziarie, c’è stato un
certo annacquamento del rigore iniziale sia in tema di inutilizzabilità (fisiologica)
nella fase dibattimentale
degli atti raccolti dal P.M. nella fase delle indagini
preliminari che per quanto riguarda la segretezza di questa fase. Resta in ogni caso
inalterata l’impostazione di fondo e cioè la contrapposizione netta fra i due momenti
come descritti in precedenza.
L’udienza preliminare è l’istituto previsto per il “traghettamento” fra le due fasi; un
“traghettamento” normalmente necessario ma certo non indispensabile e vediamo
subito il perché.
Innanzitutto va detto che l’udienza preliminare non è prevista per tutti i processi.
L’art. 550 c.p.p. indica i reati per i quali l’esercizio dell’azione penale da parte del
P.M. avviene attraverso la citazione diretta a giudizio. Si tratta delle contravvenzioni
e dei delitti di competenza “monocratica” puniti con pena massima inferiore ai quattro
anni di reclusione nonché di una serie di reati elencati dal II co. dell’art. 550 c.p.p..
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La scelta del legislatore del 1999 è in qualche modo direttamente collegata a quella
operata nel 1988 con riferimento ai reati di competenza pretorile e si spiega con
motivazioni di ordine meramente pratico: sono stati esclusi dal passaggio attraverso
l’udienza preliminare processi aventi ad oggetto reati di scarsa rilevanza sociale o
particolarmente diffusi la cui eventuale presenza in questa fase avrebbe determinato un
intasamento dei ruoli dei G.U.P. rendendo praticamente impossibile la gestione della
giustizia penale.
L’assenza dell’udienza preliminare può anche essere conseguenza di una scelta delle
parti maturata nell’ambito dei c.d. riti speciali.
Una prima ipotesi è quella del decreto di giudizio immediato su richiesta del P.M.
(ex art. 453 c.p.p.) o su richiesta dell’imputato (art. 419 V e VI co. c.p.p.). In
entrambi i casi una delle parti chiede che si faccia luogo direttamente al
dibattimento.
Questi due istituti hanno in comune solo il nome ed il salto dell’udienza
preliminare, le procedure in realtà sono diverse: quella ex art. 453 c.p.p. è una
richiesta del P.M. basata sull’evidenza della prova e quindi sull’inutilità di
sottoporre il processo al controllo di legittimità dell’azione penale anche attraverso il
contraddittorio della controparte che, se viene accolta dal G.U.P., non preclude
comunque alla difesa la possibilità di ricorrere a riti alternativi; l’istituto previsto
dall’art. 419 co. V e VI c.p.p. più che una richiesta di giudizio immediato è una
rinuncia all’udienza preliminare (già richiesta dal P.M.) della quale il G.U.P. non
può che prendere atto emanando il relativo decreto. Vale la pena sottolineare queste
differenze perché dimostrano che il legislatore ha sì visto l’udienza preliminare
come un imbuto necessario ad evitare i dibattimenti superflui, ma sempre in
un’ottica di concreta garanzia per i diritti della difesa come è evidenziato dal fatto
che proprio in tema di salto dell’udienza preliminare vengono assicurati all’imputato
ampi spazi di discrezionalità nella scelta della strategia processuale, laddove il P.M.
può agire solo in presenza di certi presupposti e sotto il controllo del G.U.P..
L’eliminazione dell’udienza preliminare senza farsi luogo al dibattimento può poi
realizzarsi attraverso il ricorso ad altri riti c.d. alternativi.
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Fra le caratteristiche che accomunano questi procedimenti, peraltro diversissimi per
tanti aspetti, vi è quella di determinare il salto totale o parziale dell’udienza
preliminare quasi sempre con il consenso precedente o successivo o almeno senza
l’opposizione della controparte alla definizione del processo tramite il rito speciale.
Nel giudizio direttissimo vi è una situazione per alcuni versi analoga a quella del
giudizio immediato ed anche se non vi è un intervento del G.U.P. resta salva la
possibilità per l’imputato di avanzare richiesta di riti alternativi.
Nel decreto penale il P.M. chiede direttamente la condanna dell’imputato, ma
questi può opporsi e determinare l’instaurazione di un giudizio immediato o
chiedere la definizione del processo tramite patteggiamento o rito abbreviato.
Il patteggiamento può essere chiesto o proposto da entrambe le parti sia nel corso
della fase delle indagini preliminari (art. 447 III co. c.p.p.) che prima e durante
l’udienza preliminare, nei primi due casi la decisione rende del tutto superflua la
celebrazione dell’udienza nel terzo ci sarà ovviamente una riduzione dei tempi solo
parziale.
Per quanto riguarda il rito abbreviato (richiedibile dal solo imputato e per il quale
non è più previsto il consenso del P.M.), presupposto indispensabile per la sua
instaurazione è l’avvenuto esercizio da parte del P.M. dell’azione penale. La scelta
del legislatore, evidenziata dall’espressione imputato (e non indagato) che figura
all’inizio dell’art. 438 c.p.p. è del tutto logica dal momento che per esprimere un
giudizio completo e responsabile su una vicenda processuale è necessaria, quanto
meno, l’ipotesi di una completezza dell’attività investigativa e una contestazione
chiara e precisa degli addebiti.
Vi sarebbe un altro caso di eliminazione dell’udienza preliminare ed è la particolare
ipotesi di proscioglimento ex art. 129 c.c.p., ma la possibilità che il G.U.P.
pronunci una sentenza di questo genere è molto contestata in giurisprudenza.
L’elemento comune a tutte le fattispecie processuali ora descritte, con l’eccezione
della particolarissima situazione che si viene a creare con il rito direttissimo per
motivi del tutto peculiari, è che la scelta del tipo di procedimento deve ricevere
l’avallo del G.U.P. il quale, avendo a disposizione prima della decisione tutti gli atti
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di indagine, ha la possibilità di esprimersi tenendo conto di tutte le acquisizioni
investigative mentre la difesa è messa sempre in condizione di attuare strategie
processuali diverse. Non inganni la mancata previsione della procedura di cui
all’art. 415 bis c.p.p. nell’ipotesi di richiesta di emissione di decreto di giudizio
immediato, in questo caso, infatti, successivamente all’emissione del decreto di
giudizio immediato l’imputato viene messo subito nelle condizioni di prendere
conoscenza degli atti già depositati dal P.M. al fine di esercitare prontamente le
necessarie scelte di strategia processuale (leggi avanzare richiesta di riti alternativi).
In concreto, dunque, nessun aggiramento dell’udienza preliminare è consentito
contro la volontà della difesa o comunque in maniera pregiudizievole per l’imputato.
Il G.U.P. svolge appunto, fra le altre, una funzione di controllo quando l’iniziativa
del “salto” dell’udienza non proviene dall’imputato.
Combinando queste affermazioni si deve ritenere che l’udienza preliminare è un
momento di riferimento importantissimo per l’instaurazione di quel contraddittorio
pieno che manca nella fase delle indagini preliminari e che l’imputato vi può
“rinunciare” proprio perché la sua principale funzione è di garantire alla difesa il
diritto alla prova attraverso un intervento diretto sulla decisione del giudice.
LA RICHIESTA DI RINVIO A GIUDIZIO
L’atto introduttivo dell’udienza preliminare è normalmente la richiesta di rinvio a
giudizio (è anche possibile che l’udienza preliminare sia instaurata a seguito di
formulazione coatta dell’imputazione imposta dal G.I.P. dopo aver rigettato una
richiesta di archiviazione), i cui requisiti sono indicati dall’art. 417 c.p.p. e con la
quale il P.M. esercita l’azione penale chiedendo che il G.U.P. valuti la necessità di
celebrare a carico dell’imputato un processo in ordine ad una determinata
imputazione.
La richiesta di rinvio a giudizio precede l’udienza preliminare, ma ovviamente ne
condiziona tutto lo svolgimento. In questa sede preme sottolineare alcune di quelle
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situazioni attinenti a questo atto che riverberano i propri effetti sull’udienza
preliminare o che comunque impongono al G.U.P. di intervenire in qualche modo.
Il co. I dell’art. 416 c.p.p. stabilisce che la richiesta di rinvio a giudizio è nulla se
non è preceduta dall’avviso previsto dall’art. 415 bis, nonché dall’invito a
presentarsi per rendere interrogatorio ai sensi dell’art. 375 co. III qualora la
persona sottoposta alle indagini abbia chiesto di essere sottoposta ad
interrogatorio entro il termine di cui all’art. 415 bis co. III.
La norma nella sua attuale formulazione è stata introdotta con la l. 479/99. Si tratta
di una disposizione fondamentale e veramente innovativa. Ciò che in particolare
appare rilevante non è tanto l’obbligo dell’avviso all’indagato ed al difensore della
conclusione delle indagini preliminari, quanto il deposito degli atti di indagine e la
facoltà per la difesa di estrarne copia, di chiedere il compimento di atti di
investigazione, di rilasciare dichiarazioni e la possibilità per l’indagato di essere
interrogato.
Per comprendere appieno la portata dell’innovazione si deve ricordare che in origine
tutta la fase delle indagini preliminari era avvolta nella segretezza e che spesso
accadeva che il primo momento in cui l’imputato aveva notizia dell’esistenza di un
procedimento (a quel punto meglio sarebbe dire un processo) a suo carico era quello
della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare con la relativa
richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal P.M.. In conseguenza di questa
costruzione la prima funzione assolta dall’udienza preliminare era proprio quella di
introdurre per la prima volta un contraddittorio pieno fra le parti.
Con l’introduzione del 415 bis questo momento viene anticipato alla fase finale
delle indagini preliminari: il P.M., non intenzionato a chiedere l’archiviazione del
procedimento, deve “scoprire” le sue carte, la difesa può contestarle anche
chiedendo nuove indagini, ma il P.M. resta il dominus dell’attività investigativa vera
e propria e può restare indifferente alle richieste di supplemento istruttorio con
l’eccezione dell’interrogatorio dell’indagato che, se lo richiede, deve essere sentito.
La descrizione dell’operazione, come si vede, non è particolarmente complicata, ma
il significato nel sistema non è irrilevante.
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L’anticipo della discovery e la possibilità per l’imputato e i suoi difensori di
intervenire sul completamento istruttorio sono i primi indizi della volontà del
legislatore di pretendere che il materiale sul quale si dovrà fondare la valutazione del
G.U.P. sia il più completo possibile sotto tutti i profili.
L’attuazione scorretta da parte del P.M. del complesso meccanismo previsto
dall’art. 415 bis c.p.p. è sanzionata a pena di nullità della richiesta di rinvio a
giudizio anche se più propriamente sarebbe stato meglio parlare non di vizio
dell’atto, ma dell’assenza di un presupposto o di una condizione di procedibilità.
Va poi detto che non è chiaro il tipo di nullità scaturente dalla violazione
dell’obbligo. C’è chi ha parlato di invalidità ex art. 178 lett. B) c.p.p. e chi ha invece
ritenuto che, essendo la richiesta di rinvio a giudizio un atto che comunque
appartiene alla fase delle indagini preliminari, la norma applicabile sarebbe l’art.
181 II co. c.p.p..
L’art. 417 c.p.p. elenca i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, il più
importante è certamente quello di cui alla lett. B) dell’art. 417 c.p.p.. In concreto la
norma impone al P.M. di definire in fatto ed in diritto ed in forma chiara e
precisa la contestazione mossa all’imputato. L’inadempimento di quest’obbligo
però non comporta alcuna sanzione diretta (reiteratamente la Suprema Corte ha
ritenuto abnorme il provvedimento con il quale il G.U.P. restituisce gli atti al P.M.
per genericità della contestazione), ma non è privo di conseguenze. Ed invero la
riproposizione nel decreto che dispone il giudizio di una contestazione confusa o
generica determina la nullità del decreto ex art. 429 II co. c.p.p., ma il rimedio non
manca.
Come si vedrà successivamente, il G.U.P., in sede di definizione dell’udienza
preliminare, ha un ampio e autonomo potere di qualificazione giuridica dei fatti
contestati, ma qui si discute d’altro.
Nel corso dell’udienza si può verificare la necessità di intervenire sull’imputazione
costruita dal P.M.. Le ragioni possono essere molteplici, ma in concreto i casi sono
quelli previsti dall’art. 423 c.p.p. ai quali può sicuramente aggiungersi quello di una
contestazione in forma non chiara e precisa; la procedura da applicare è quella
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indicata in detta norma ed è costruita sull’iniziativa del P.M., ma cosa succede se è
il G.U.P. ad accorgersi della necessità di precisare o modificare il fatto enunciato
nella richiesta di rinvio a giudizio? Ad offrire una soluzione è stata la Corte
Costituzionale che ha individuato fra i poteri del G.U.P. quello di “invitare” il P.M.
a descrivere diversamente il fatto contestato anche alla luce di eventuali nuove
emergenze processuali.
Con la richiesta di rinvio a giudizio il P.M. deve depositare “tutto” ( sia il fascicolo
contenente la notizia di reato che la documentazione relativa alle indagini espletate)
e non gli è consentito di limitarsi a depositare solo ciò che egli ritiene sufficiente per
ottenere il rinvio a giudizio. Fino all’entrata in vigore della l. 479/99 la norma era di
fondamentale importanza poiché era questa la prima discovery completa dunque il
primo passo per la realizzazione concreta del contraddittorio fra le parti;
l’introduzione dell’art. 415 bis c.p.p. ha indubbiamente svalutato la rilevanza della
disposizione.
L’art. 419 c.p.p. disciplina il meccanismo degli avvisi di fissazione dell’udienza
preliminare.
E’ il caso qui di limitarsi a segnalare che la richiesta di rinvio a giudizio va
notificata all’imputato ed alla parte offesa, ma non al difensore.
LO
S V O L G I M E N T O D E L L’ U D I E N Z A
PRELIMINARE
Il confronto diretto fra le ragioni dell’accusa e quelle della difesa viene assicurato
dallo svolgimento stesso dell’udienza preliminare nel corso della quale le parti
espongono ad un giudice le loro prospettazioni; pertanto se le indagini preliminari
sono il regno dell’accusa, l’udienza preliminare è il luogo in cui per la prima volta,
la difesa può rappresentare le proprie richieste, anche istruttorie come vedremo, ad
un giudice la cui posizione di terzietà è garantita anche dal fatto di non aver mai
emesso provvedimenti nel corso delle indagini preliminari ( art. 34 co. 2 bis c.p.p.).
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Qualche cosa su questa norma va detto.
L’art. 34 c.p.p. è una disposizione che ha subito una vita alquanto travagliata.
Basta scorrere le pagine di un qualsiasi codice per verificare che si tratta della norma
che forse ha “subito” il maggior numero di interventi da parte della Corte
Costituzionale.
E’ probabile che il tutto dipenda dal fatto che il legislatore continua a sottostimare il
valore della terzietà del giudice in rapporto al ruolo o alle funzioni che lo stesso può
svolgere all’interno del processo. A tutto questo deve aggiungersi che non sempre
introducendo reiterate novelle legislative si è tenuto nel debito conto delle conseguenze
che le innovazioni producono, inevitabilmente, in quest’ambito.
In sostanza il Giudice delle Leggi ha reiteratamente affermato l’incompatibilità a
celebrare il giudizio per il giudice che avesse compiuto rilevanti atti di valutazione
nell’ambito del procedimento.
Due punti sono stati però sempre tenuti fermi dalla Corte:
Innanzitutto il meccanismo dell’incompatibilità si produce solo quando uno dei
soggetti coinvolti è delegato a prendere una decisione a carattere sostanziale e,
pertanto, restano fuori da ogni ipotesi di incompatibilità gli organi delegati al
compimento di attività destinate a concludersi con provvedimenti a carattere
meramente processuale e poi la disciplina non è applicabile con riferimento a
provvedimenti da prendersi nell’ambito della stessa fase processuale.
Il legislatore del 1999, applicando i principi enunciati dal Giudice delle Leggi, ha
integrato la vecchia formulazione dell’art. 34 c.p.p. con disposizioni, i commi 2 bis, 2
ter e 2 quater, che incidono direttamente sul giudice dell’udienza preliminare.
La prima norma sancisce l’incompatibilità fra chi ha svolto le funzioni di G.I.P.e chi
deve tenere l’udienza preliminare. La seconda disposizione esclude dal meccanismo
delle incompatibilità atti di scarsa o nulla rilevanza processuale il cui contenuto non
presuppone in alcun modo la compromissione del giudice che decide nella valutazione
della posizione processuale dell’indagato, la terza restringe ulteriormente il campo di
applicazione del co. 2 bis in relazione ad una situazione particolarmente significativa
(l’incidente probatorio) e sarà valutata in seguito.
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Non vi sono particolari difficoltà di interpretazione delle norme ora indicate che hanno
avuto, se non altro, il merito di impedire il verificarsi di situazioni di difficile gestione
durante l’udienza preliminare. Infatti in virtù delle decisioni della Corte non di rado
accadeva che il G.U.P. delegato alla celebrazione dell’udienza preliminare si trovasse
in una condizione di incompatibilità a seguito di richiesta dell’imputato di applicazione
di pena o di rito abbreviato con intuibili difficoltà organizzative.
Ma nonostante l’impegno del legislatore anche la nuova formulazione dell’art. 34
c.p.p. non è sfuggito alla mannaia della Corte Costituzionale che con una sentenza,
della quale si parlerà in seguito più diffusamente, preceduta da decisioni che, in
qualche modo, lasciavano già prevedere una conclusione di questo genere, ha
dichiarato l’illegittimità della norma nella parte in cui non prevede l’incompatibilità
alla funzione di giudice dell’udienza preliminare con quella del giudice che abbia
pronunciato un decreto che dispone il giudizio che sia stato successivamente annullato.
E’ chiaro dunque che solo la presenza di un giudice-terzo consente di realizzare
appieno nell’udienza preliminare quel principio generale al quale si è ispirato il
legislatore secondo cui il pieno e libero confronto fra le parti è lo strumento naturale
per la gestione di interessi contrapposti quali quello dell’accusa e della difesa, questo
però, sia detto per inciso, non vuol dire che nel nostro sistema sia stata accolta la c.d.
concezione “ludica” del processo per la quale, in sostanza, l’obbiettivo che le parti
devono porsi è semplicemente quello di avere ragione ed è quindi consentito un uso
strumentale delle norme processuali. La scelta “etica” del costituente e quindi del
legislatore è stata diversa e precisamente quella di “costruire”, comunque, un processo
che avesse come scopo l’accertamento della verità e si noti che la Corte Costituzionale
è reiteratamente intervenuta per uniformare dettato ed interpretazione delle leggi a
questo principio.
Trasportando questi concetti nell’ambito dell’udienza preliminare, si può dire che
questo è il luogo dove si realizza appieno per la prima volta in ambito processuale un
contraddittorio pieno e paritario fra le parti perché diretto e gestito da un soggetto
assolutamente imparziale.
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Naturalmente perché tutto ciò possa avvenire è necessario che vi sia una regolare
costituzione delle parti.
Le norme che disciplinano quest’aspetto dell’udienza sono gli artt. 420 e, a seguire,
bis, ter, quater e quinquies c.p.p. che, a mio avviso, non presentano particolari
problemi di interpretazione anche perché le innovazioni introdotte dalla l. 479/99
hanno in pratica parificato sotto questo profilo udienza preliminare e dibattimentale.
Va solo ricordato che la legge del 1999 ha introdotto, con tutte le conseguenze del
caso, l’istituto della dichiarazione di contumacia anche nell’udienza preliminare ed
ha reso applicabili anche all’udienza preliminare le ipotesi di impossibilità a
comparire per legittimo impedimento del difensore che avevano in precedenza una
loro disciplina solo nell’udienza dibattimentale e che erano ritenute, pacificamente,
inapplicabili all’udienza preliminare.
Se è vero che i problemi di applicazione delle norme in esame non si differenziano
per nulla da quelli che da sempre si sono presentati nell’ambito della stessa materia
in dibattimento e, pertanto, non vale in questa sede soffermarcisi troppo, è
comunque opportuno sottolineare l’importanza “politica” della decisione del
legislatore di “costruire” il sistema della costituzione delle parti in udienza
preliminare in maniera del tutto analoga a quello previsto per il dibattimento anzi, a
voler essere pignoli, oggi la situazione è addirittura inversa poiché sono le norme
del dibattimento che richiamano quelle dell’udienza preliminare.
Qual è la ragione di questa scelta? A mio avviso solo superficialmente si può parlare
di traduzione in norme positive di istanze pseudogarantiste; c’è in realtà molto di
più.
Se l’udienza preliminare è il luogo in cui si deve in tutti i modi completare
l’acquisizione degli elementi di prova e cercare, se ce n’è la volontà, di definire il
processo, perché ciò avvenga è necessario concedere a tutti i soggetti processuali
maggiori poteri di intervento e diventa allora indispensabile che la presenza della
difesa (sia personale che tecnica) sia garantita ai massimi livelli previsti dal sistema.
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Lo sviluppo naturale dell’udienza preliminare prevede, dopo l’accertamento sulla
regolare costituzione delle parti, la discussione.
L’ordine previsto dalla legge è il seguente: P.M., imputato ( che può tacere, rendere
dichiarazioni spontanee, chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio ), difensore
della parte civile, del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la
pena pecuniaria e dell’imputato.
La discussione è il momento limite per avanzare richieste di rito alternativo (art. 438
II co e 446 co. I c.p.p.). Le norme non sono chiarissime e si discute se il limite
massimo per avanzare la richiesta di rito alternativo sia l’inizio della discussione o il
momento precedente alla prospettazione delle conclusioni da parte del difensore.
Sul punto non sembra decisivo il dato letterale che appare comunque ambiguo,
piuttosto deve rilevarsi che le stesse modalità di svolgimento dell’udienza
preliminare sembrano far propendere per la tesi più favorevole alla concessione del
più ampio spazio alla difesa. In particolare il fatto che l’intervento dell’imputato sia
previsto dopo le conclusioni del P.M. ( art. 421 II co. c.p.p. ) e che sia ammesso il
diritto di replica rende del tutto ragionevole la possibilità di una scelta di rito
alternativo successiva alle conclusioni del P.M..
Non v’è dubbio che i problemi più rilevanti ed interessanti in relazione allo
svolgimento dell’udienza preliminare sorgono quando si deve affrontare il
verificarsi di situazioni che il legislatore del 1989 ritenne del tutto accidentali e che
oggi, per effetto di prassi e di introduzioni legislative, possono considerarsi aspetti
fisiologici dell’udienza preliminare.
Parliamo ovviamente delle
INTEGRAZIONI
PROBATORIE
Non è detto che il materiale che dovrà essere oggetto della valutazione del G.U.P.
nel corso dell’udienza preliminare sia limitato a quanto depositato dal P.M. con la
sua richiesta di rinvio a giudizio.
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Esistono svariate possibilità di integrazione delle fonti probatorie.
In qualche caso l’iniziativa è lasciata alle parti ( art. 419 co. II e III c.p.p., incidente
probatorio ), in altri (artt. 421 e 421 bis c.p.p. ), almeno formalmente, è il G.U.P. ad
attivarsi.
L’ART. 419 CO. II c.p.p.
( presentazione di memorie e produzione di documenti )
Una prima possibilità di integrazione probatoria è riservata alle parti dall’art. 419 co.
II c.p.p. che consente a difesa ed accusa di presentare memorie e soprattutto
documenti.
L’integrazione del fascicolo avviene però solo dopo che il G.U.P. si sia pronunciato
sull’ammissibilità della documentazione presentata (art. 421 co. III ult. parte c.p.p.).
Non sembrano esservi limiti per quanto riguarda i documenti purchè essi abbiano
attinenza con la causa. Questi atti possono anche avere ad oggetto situazioni che in
linea di principio non hanno nulla a vedere con il controllo di correttezza
dell’esercizio dell’azione penale che, come si è visto, rappresenta solo uno degli
scopi dell’udienza preliminare, ma poiché il loro deposito avviene prima delle
conclusioni, non si può impedire alla difesa di presentare una documentazione che
abbia un qualsiasi rilievo processuale anche in previsione di un possibile giudizio
abbreviato (v. ad es. prova del risarcimento del danno).
L’ART. 419 III co. c.p.p.
( le indagini suppletive )
La chiusura delle indagini preliminari non significa tout court l’impossibilità per il
P.M. di proseguire nella sua attività d’investigazione. La stessa natura interlocutoria
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della decisione presa all’esito dell’udienza preliminare impone al contrario che, se
necessario, l’acquisizione di altri elementi probatori prosegua; in questo caso il
problema centrale è quello della utilizzabilità del risultato di questa attività e cioè
delle modalità attraverso le quali gli atti conseguenti alle indagini svolte
successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio possano entrare nel processo.
Le norme che disciplinano questa situazione sono gli artt. 419 III co. e 430 c.p.p..
La prima delle due disposizioni si riferisce alle c.d. indagini suppletive cioè a quegli
atti di investigazione compiuti dal P.M. dopo la richiesta di rinvio a giudizio ed è
quella che ci riguarda; l’ultima norma disciplina le attività svolte dopo il decreto di
rinvio a giudizio ( c. d. indagini integrative ) ed è fuori dall’argomento odierno.
Come si è visto una delle principali funzioni dell’udienza preliminare è quella di
realizzare attraverso la discovery un contraddittorio fra le parti che sia pieno che
cioè permetta alla difesa di conoscere in maniera completa non solo quale sia
l’accusa, ma anche su cosa essa sia basata e, conseguenzialmente, di poter
finalmente reagire davanti ad un giudice. L’art. 419 III co. c.p.p. è il risultato del
tentativo del legislatore di contemperare la duplice esigenza di non bloccare
l’attività investigativa e, nello stesso tempo, di garantire il pieno diritto alla prova
della difesa, sennonchè la sua concreta attuazione comporta la necessità di
affrontare una serie di problemi connessi al sistema nel quale la disposizione è
inserita.
Il primo di questi problemi riguarda l’individuazione degli atti d’indagine possibili
dopo la richiesta di rinvio a giudizio.
La norma non dice nulla, ma il raffronto con l’art. 430 c.p.p. (indagini integrative)
che invece i limiti li pone, fa ritenere insussistente qualsiasi divieto.
Una soluzione di questo genere trova una ragionevole spiegazione nel fatto che le
investigazioni in questione sono finalizzate, come quelle svolte in precedenza, ad
ottenere il rinvio a giudizio laddove quelle acquisite ex art. 430 c.p.p. giungono in
un momento successivo allo svolgimento dell’udienza preliminare, quando il rinvio
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a giudizio c’è già stato e tutta l’attività delle parti è ormai prodromica al
dibattimento.
La lettera della norma e la riforma del 1999 escludono la possibilità di applicare la
disciplina in esame alle indagini effettuate in un momento antecedente alla richiesta
di rinvio a giudizio, ma depositate successivamente.
Ed invero, qualora il P.M. avesse svolto le sue investigazioni prima di esercitare
l’azione penale su di lui sarebbe caduto l’obbligo, a pena di nullità, di attivare il
meccanismo di cui all’art. 415 bis c.p.p..
Va evidenziato che l’art. 416 parla di nullità della richiesta di rinvio a giudizio se la
stessa non è preceduta dall’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p. e non menziona
l’omissione totale o parziale del deposito degli atti di indagine, ma dal momento che
a seguito dell’avviso sono previste per la difesa una serie di facoltà, impraticabili
correttamente in assenza di una discovery completa, non sembra possa dubitarsi
dell’inammissibilità della presentazione in udienza preliminare del risultato di
indagini effettuate prima della richiesta di rinvio a giudizio e non depositate in
precedenza e, comunque, dell’inutilizzabilità delle stesse. In applicazione di questo
principio un provvedimento del G.U.P. che, sic et simpliciter, consentisse al P.M. di
depositare i risultati dell’attività investigativa di cui sopra sarebbe illegittimo.
Tornando alle indagini effettuate dal P.M. dopo la richiesta di rinvio a giudizio, ci si
domanda se l’espletamento di questa attività investigativa sia possibile dopo la
scadenza dei termini di durata delle indagini preliminari.
Anche in questo caso la norma tace ed è agevole rinvenire la spiegazione di questo
silenzio nel limite temporale (ordinatorio) che il legislatore, a suo tempo, ipotizzò
per la celebrazione dell’udienza preliminare.
Deve premettersi che, al di là di qualche isolato tentativo di una giurisprudenza
assolutamente minoritaria, è ormai un dato acquisito che con la richiesta di rinvio a
giudizio, e quindi con l’esercizio dell’azione penale, la fase delle indagini
preliminari debba ritenersi conclusa. Questo significa che l’udienza preliminare è
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fuori dalla fase delle indagini preliminari. Questa tesi trova ulteriori conferme
proprio nelle norme che dettano i tempi di celebrazione dell’udienza.
Nel progetto dei compilatori del codice l’udienza preliminare doveva seguire
rapidamente la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal P.M. (30 gg. ex art. 418
c.p.p. ); ad essere precisi l’ipotesi prevista dal legislatore era che l’udienza
preliminare fosse celebrata comunque entro i termini di scadenza delle indagini
preliminari, il che può dedursi dal disposto dell’art. 422 V co. c.p.p. che, nella sua
vecchia formulazione, prevedeva questa scadenza temporale come quella “normale”
anche nel caso che fosse necessaria un’ulteriore udienza ai fini della decisione.
Peraltro nello stesso comma, ma al capoverso successivo, era previsto, nel caso non
potesse essere rispettato il limite temporale suindicato, un termine ulteriore di 60
giorni. Tutti questi termini, e la cosa è fuori discussione, sono, a differenza di quelli
previsti per la durata delle indagini preliminari, “ordinatori” il che vuol dire che lo
stesso legislatore si prospettò comunque l’ipotesi che non fosse possibile rispettarli
e non previde per questo alcuna sanzione.
Alla luce di quanto ora evidenziato, deve ritenersi che non sia corretta
l’applicazione alle indagini suppletive, che vengono svolte dopo l’esercizio
dell’azione penale e quindi al di fuori delle indagini preliminari, dei limiti temporali
previsti dagli artt. 405-407 c.p.p..
Peraltro dal punto di vista razionale e sistematico si deve osservare che la ragione
dell’imposizione di termini di durata alle indagini preliminari è direttamente
connessa alla segretezza prevista per questa fase. Con l’introduzione dei limiti citati
si volle, in sostanza, evitare che una persona rimanesse indefinitamente sottoposta
ad un’indagine della quale non aveva, o meglio poteva non avere, alcuna
conoscenza. Sennonchè la richiesta di rinvio a giudizio con il contestuale deposito
degli atti pone termine a questo stato di cose mettendo l’imputato a conoscenza del
fatto che sul suo conto sono state fatte, e possono essere ancora svolte, indagini e
quella tutela specifica finisce col non avere più ragione d’essere.
Un’ulteriore precisazione s’impone.
16
Nella sua previsione normale l’udienza preliminare non dovrebbe durare granché,
ma lo stesso legislatore ha ipotizzato la necessità di un supplemento di acquisizione
di fonti probatorie. In questo caso fra l’inizio dell’udienza preliminare e la decisione
del G.U.P. potrebbe trascorrere un tempo non breve. Durante questo periodo è
possibile per il P.M. acquisire ulteriori elementi probatori diversi da quelli indicati
dal G.U.P. ed utilizzarli a sostegno della sua richiesta?
La risposta non è semplice.
La norma che prevede la trasmissione della documentazione relativa alle indagini
suppletive è collocata nell’articolo che si occupa degli atti introduttivi all’udienza
preliminare il che potrebbe far pensare che il momento antecedente alla costituzione
delle parti o per lo meno all’inizio della discussione ex art. 421 c.p.p. sia il
momento ultimo utile per la trasmissione (rectius il deposito)
degli atti in
questione. Questa affermazione è solo parzialmente condivisibile. E’ vero che
l’inizio della discussione indica il limite oltre il quale non può essere prodotto alcun
elemento probatorio senza incidere in maniera intollerabile sull’attuazione del pieno
contraddittorio fra le parti, ma questo non esclude che se la discussione debba
essere rinnovata il P.M. e/o la difesa , medio tempore, possano svolgere indagini e
possano depositarle al fine di utilizzarle per sostenere le proprie tesi.
Alle considerazioni già svolte deve poi aggiungersi che non si comprenderebbe per
quale motivo, dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, sarebbe
possibile per il P.M. svolgere investigazioni (art. 430 c.p.p.), sia pure con alcuni
limiti, anche al di fuori dei termini previsti per le indagini preliminari e sarebbe,
invece, interdetta alle parti questa possibilità nel periodo di tempo compreso fra la
richiesta di rinvio a giudizio e l’inizio della discussione durante l’udienza
preliminare.
In realtà il nodo centrale del problema è la necessità che non venga alterata quella
che è una delle funzioni essenziali dell’udienza preliminare: garantire alla difesa il
diritto alla prova attraverso la conoscenza completa degli elementi sui quali si fonda
l’accusa. Sotto questo profilo il deposito della documentazione relativa all’indagine
suppletiva non risolve il problema della concreta attuazione del contraddittorio,
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resta infatti in piedi il problema di come la difesa debba avere conoscenza
dell’attività effettuata dal P.M. e del tempo che deve esserle concesso per esaminarla
ed attrezzarsi a contestarla.
La soluzione può dirsi già compresa nel sistema.
Il termine previsto dal IV co. dell’art. 419 c.p.p. ha la funzione di consentire
l’attuazione concreta del corretto contraddittorio fra le parti ed è quindi del tutto
ragionevole che, come per il resto della documentazione, anche per quella risultante
dalle indagini suppletive sia previsto un avviso di deposito ed un termine per
esaminarla. Questa interpretazione ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte
Costituzionale che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale
della norma in esame nella parte in cui non prevedeva l’assegnazione di un termine
alla difesa per dar modo alla stessa di esaminare i risultati delle indagini suppletive
effettuate dal P.M., ha precisato che il termine va comunque assegnato e deve essere
congruo.
In concreto la difesa deve essere messa in condizione di esercitare i suoi diritti e
perché ciò possa avvenire è necessario che sia informata, o abbia comunque
conoscenza, del deposito degli atti e che abbia il tempo per esaminarli. Un tempo
che certamente va rapportato alla complessità della situazione nascente dalla
presenza di queste nuove indagini, ma che non è necessario sia superiore a quello
previsto dal co. IV che è di dieci giorni.
GLI ARTT. 392 e ss. del c.p.p.
(l’incidente probatorio)
Una terza possibilità è lasciata alle parti ed è quella prevista dagli artt. 392 e ss del
c.p.p..
A dire il vero nell’impianto originario del codice l’incidente probatorio era un
istituto riservato alle indagini preliminari. La ragione di questo limite era assai
facilmente rinvenibile nel ruolo attribuito dai compilatori codice all’udienza
preliminare. Infatti, stabilito che l’unico scopo dell’udienza preliminare era quello
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di controllare il corretto esercizio dell’azione penale, non aveva senso consentire
che in quella fase si potessero porre in essere attività destinate, col rilevante
contributo del giudice, ad un’ulteriore acquisizione istruttoria.
La Corte Costituzionale rilevò che la disposizione finiva con impedire l’effettiva
attuazione del diritto alla prova delle parti nello spazio temporale che andava dalla
richiesta di rinvio a giudizio alla pronuncia del decreto che dispone il giudizio e che
tale normativa era del tutto irragionevole come dimostrato, fra l’altro, dal fatto che
l’art. 467 c.p.p. consentiva al presidente del collegio di acquisire le prove non
rinviabili nella fase degli atti preliminari al dibattimento.
La decisione della Corte apparve ai più assolutamente razionale, ma non si potette
evitare di sottolineare come venisse introdotto nell’udienza preliminare un elemento
spurio rispetto al ruolo destinato dal sistema a questo istituto.
La nuova “strutturazione” dell’udienza preliminare come emerge all’esito della
riforma del 1999 spazza via ogni problema teorico. Peraltro a sottolineare una volta
di più che la gestione delle modalità di acquisizione della prova non incide in alcun
modo con l’imparzialità del giudice vi è l’art. 34 co. II quater che esplicitamente
nega l’incompatibilità fra giudice dell’udienza preliminare e giudice che abbia avuto
un qualsiasi ruolo in un incidente probatorio.
I POTERI INTEGRATIVI DEL GIUDICE
L’oggetto della decisione emessa dal G.U.P. all’esito dell’udienza preliminare è,
normalmente, il controllo, in contraddittorio fra le parti, sull’acquisizione probatoria
effettuata dal P.M. e sulla pretesa di questi di celebrare un dibattimento nei
confronti di un imputato. Paradossalmente si può dire che nell’udienza preliminare
ad essere sotto processo è l’accusa perché è la sua attività che deve essere
esaminata.
La base della decisione è dunque di solito la documentazione allegata dal P.M. alla
richiesta di rinvio a giudizio, sennonché lo sviluppo dell’udienza preliminare può
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presentare una serie di variabili e di eventualità all’esito delle quali il materiale da
valutare può risultare sostanzialmente arricchito.
Come si è già evidenziato in precedenza, fino a prima della discussione le parti
possono presentare memorie e documenti (art. 419 II co. c.p.p.) che il G.U.P. dovrà
però ammettere (art. 421 III co. c.p.p.) e possono essere svolte indagini suppletive.
Anche l’interrogatorio dell’imputato, che inframezza la discussione di P.M. e
difensori e che è possibile svolgere nelle forme di cui agli artt 498 e 499 c.p.p., è
naturalmente idoneo a portare un suo contributo probatorio.
Ma gli istituti più significativi in tema di integrazione probatoria sono quelli
introdotti con la l. 479/99 dagli artt. 421 bis e 422 c.p.p..
Si tratta di norme che non è eufemistico definire rivoluzionarie rispetto al sistema
processuale così come era strutturato in precedenza.
E’ il caso di ricordare che i compilatori del codice avevano il timore, meglio sarebbe
dire l’ossessione, che un’acquisizione probatoria in contraddittorio fra le parti, ma
condotta in qualche modo da un giudice e realizzata in una fase predibattimentale,
potesse essere il “cavallo di Troia” attraverso il quale una nuova figura di giudice
istruttore potesse entrare nel processo. Il disfavore del legislatore era evidente ed
emergeva dal diniego di poter effettuare un incidente probatorio nel corso
dell’udienza preliminare nonchè dalla lettura della rubrica dell’unica norma ( il
vecchio art. 422 c.p.p.) destinata a consentire un intervento autonomo del G.U.P..
“Sommarie informazioni ai fini della decisione” recitava infatti il titolo della
disposizione quasi a voler sottolineare la marginalità dell’intervento consentito e la
volontà di relegare a casi eccezionali e ben delimitati l’applicazione della norma. In
pratica però, sia pure in maniera non sempre ortodossa, l’istituto veniva utilizzato
non tanto, o per lo meno non solo, per mettere in condizioni il G.U.P.
impossibilitato a decidere ad emettere uno dei provvedimenti di cui al I co. dell’art.
424 c.p.p. quanto allo scopo di realizzare quelle che erano comunque le finalità che
avevano indotto il legislatore ad introdurre un istituto come l’udienza preliminare
(evitare udienze dibattimentali inutili sia rigettando le richieste non fondate di rinvio
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a giudizio che attraverso un completamento dell’istruttoria idoneo a permettere
l’adozione di riti alternativi).
L’adozione di queste prassi era la risposta pratica ad un problema che si presentava
con notevole frequenza e che vale la pena ricordare.
Un non indifferente numero di P.M. chiedeva il rinvio a giudizio sulla base degli
elementi iniziali presenti nell’indagine e con il dichiarato proposito di completare il
processo nel luogo istituzionalmente destinato alla formazione della prova, cioè il
dibattimento. Le conseguenze di questa (discutibile) scelta erano sotto gli occhi di
tutti: 1) Notevolissima difficoltà di accedere ai riti alternativi, abbreviato e
patteggiamento, per impossibilità di decidere allo stato degli atti essendo questi
ultimi spesso assenti o comunque incompleti, 2) intasamento dibattimentale per la
difficoltà di prosciogliere in presenza di oggettive possibilità di un’acquisizione della
prova non avvenuta (spesso per scelta del P.M.) in istruttoria.
Anche la Corte Costituzionale non aveva mancato, soprattutto con riferimento ai
presupposti e alle condizioni per l’accesso al rito abbreviato, di censurare la
situazione ed aveva invitato il potere legislativo ad intervenire.
La risposta del Parlamento è stata la l. 479/99 che ha introdotto gli artt. 421 bis, 422
c.p.p. per l’udienza preliminare e
438 V co. e 441 V co. c.p.p., per il rito
abbreviato.
In questa sede ci si occupa delle prime due norme.
L’ART. 421 bis c.p.p.
(l’integrazione delle indagini)
Prima di affrontare in maniera specifica il meccanismo di attuazione di questa
disposizione si impone un chiarimento.
Il giudizio prognostico sull’esistenza di elementi idonei a sostenere l’accusa in
giudizio non può e non deve essere una valutazione astratta sul futuro di un
processo, ma deve essere conseguenza di una ragionevole e concreta previsione
nascente innanzitutto dall’attività istruttoria svolta dal P.M..
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Non v’è dubbio che le prove in quanto tali vanno raccolte in dibattimento, ma il
motivo per cui viene svolta un’istruttoria è appunto quello di verificare la
percorribilità reale di una certa strada processuale.
Che questa fosse la
(ragionevole) opinione del legislatore emerge con chiarezza da alcune delle norme
dettate in tema di indagini preliminari.
L’art. 326 c.p.p. indica nello svolgimento delle indagini necessarie per le
determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale la finalità essenziale delle
indagini preliminari e chiarisce che gli organi deputati a detto svolgimento sono il
P.M. e la P.G.. La direzione dell’attività investigativa spetta al P.M. (art. 327 c.p.p.).
Ma in cosa consistono queste indagini preliminari? La risposta viene da una serie di
norme. L’art. 55 c.p.p. prescrive alla polizia giudiziaria di…. compiere gli atti
necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire
all’applicazione della legge penale; anche dopo la comunicazione di reato, la P.G.
(art. 348 c.p.p.) deve raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e
alla individuazione del colpevole svolgendo tutte le attività di indagine necessarie
per accertare i reati e assicurare le fonti di prova; l’art. 358 c.p.p. prescrive al P.M.
di compiere ogni attività necessaria per raggiungere il fine di cui all’art. 326 c.p.p.
anche con riguardo agli elementi favorevoli all’indagato.
La lettura complessiva e coordinata di queste norme consente di comprendere con
chiarezza che l’attività istituzionale del P.M. è (o dovrebbe essere) quella di
rinvenire o coordinare l’acquisizione di tutti gli elementi probatori necessari per la
ricostruzione del fatto e per l’eventuale individuazione del colpevole, compresi
quelli favorevoli alla difesa. Completata l’acquisizione di tutti gli elementi sopra
descritti, il P.M. può compiere la sua valutazione sull’idoneità degli stessi a
sostenere l’accusa in giudizio.
Attraverso l’udienza preliminare viene effettuato dal G.U.P. il controllo di legittimità
sull’esercizio dell’azione penale, inteso questo come verifica dell’idoneità degli
elementi probatori a sostenere l’accusa in giudizio, ma perché ciò avvenga
correttamente è necessario che l’attività investigativa di cui sopra, cioè le indagini
preliminari, sia completa.
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La “completezza” delle indagini preliminari nel senso sopra indicato è dunque il
presupposto necessario per consentire al G.U.P. di effettuare il proprio lavoro.
L’introduzione dell’art. 421 bis c.p.p. ha avuto il grande merito di chiarire una volte
per tutte che il rapporto fra gli elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio e le
prove della responsabilità non è quantitativo, ma qualitativo, nel senso che la
differente dizione usata dal legislatore attiene non a realtà ontologicamente diverse, ma
semplicemente alla diversa valutazione, ed anche efficacia, giuridica che si compie in
relazione al contesto processuale nel quale un certo dato storico viene valutato.
E’ chiaro dunque che l’art. 421 bis c.p.p. attribuisce al G.U.P. un potere che in realtà è
corollario dell’obbligo (indispensabile) a suo carico di controllare l’esistenza del
presupposto per l’esercizio corretto della sua funzione di valutazione del legittimo
esercizio dell’azione penale.
Se il G.U.P. verifica che le indagini preliminari sono incomplete perché non tutte le
possibilità istruttorie sono state esplorate deve intervenire con i poteri che l’art. 421 bis
c.p.p. gli concede e che ora si analizzeranno. Il suo intervento consentirà da un lato la
realizzazione del presupposto di cui prima, e dall’altro renderà più agevole l’accesso
ai riti alternativi (altra funzione dell’udienza preliminare) poiché le parti avranno della
vicenda processuale in esame il quadro più completo possibile.
La collocazione (immediatamente dopo l’art. 421 c.p.p.) e le parole iniziali (quando
non provvede…) della norma in esame ci fanno chiaramente intendere che il G.U.P.
deve, se necessario, prendere questo provvedimento subito dopo il completamento
della discussione nel corso della quale le parti avranno modo di evidenziare anche le
carenze dell’istruttoria e i modi per sanarla. In pratica è da escludersi che l’ordinanza
possa essere pronunciata dal G.U.P. in via preliminare, dopo essersi letto il fascicolo e
comunque senza sentire accusa e difesa. La scelta, peraltro, è pienamente coerente con
il ruolo del G.U.P. che è giudice fra parti e dimostra ancora una volta la volontà del
legislatore di privilegiare il confronto dialettico.
Verificata l’incompletezza istruttoria nei sensi di cui sopra, il G.U.P. indica le ulteriori
indagini.
23
Viene qui in rilievo il problema dell’individuazione dei destinatari del
provvedimento.
Considerato il contesto nel quale viene emessa l’ordinanza (contraddittorio assoluto e
paritario) deve ritenersi che il G.U.P. indirizzi la propria decisione ad entrambe le parti
le quali sono ambedue legittimate, e negli stessi termini, ad adempiere alla richiesta del
G.U.P.. In conseguenza di quanto affermato deve ritenersi la sussistenza del pieno
diritto della difesa di svolgere anche nel corso dell’udienza preliminare le attività di cui
all’art. 38 disp. att. c.p.p. oggi disciplinate dal titolo VI bis del libro V (investigazioni
difensive). E’ da escludersi invece che il G.U.P. possa disporre direttamente della
P.G.. A dire il vero non ostano ad una soluzione di questo genere ragioni sistematiche
o principi generali, ma semplicemente il dato letterale della norma: il giudice indica
(alle parti) e non dispone.
Ma che cosa può indicare il giudice? Temi di indagine o atti specifici?
Ritengo che la soluzione del problema non possa essere quella adottata dalla
giurisprudenza con riferimento all’art. 409 co. IV c.p.p. in tema di archiviazione.
Non v’è dubbio che fra le due procedure vi siano analogie significative, ma mai come
in questo caso sembra opportuno esaltare le differenze fra i due istituti.
Nell’archiviazione viene sottoposto a controllo la legittimità dell’omesso esercizio
dell’azione penale; nell’udienza preliminare il controllo è sull’avvenuto esercizio
dell’azione penale; il contraddittorio che si instaura nella camera di consiglio tenuta a
seguito del II co. dell’art. 409 c.p.p. è ben diverso da quello previsto nel corso
dell’udienza preliminare; nell’archiviazione siamo ancora nella fase delle indagini
preliminari (il dominus resta il P.M. che non può ritenersi in alcun modo “costretto” ad
un’attività da chi non è a lui sovraordinato) , mentre nell’udienza preliminare i rapporti
fra difesa ed accusa sono paritari. A quanto ora detto si aggiungono due dati testuali: il
primo attiene alla intrinseca formulazione della norma (si parla di indagini con
riferimento ad una condizione di incompletezza), il secondo al rapporto con la vecchia
formulazione del 422 c.p.p. nel quale si faceva riferimento a temi nuovi o incompleti
sui quali si rende necessario acquisire nuove informazioni e che non è stata riprodotta.
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Anche qui la scelta del legislatore non sembra casuale, è chiaro l’intento di offrire al
G.U.P., di fronte alla accertata carenza di attività del P.M., uno strumento incisivo per
il raggiungimento degli scopi che giustificano l’esistenza dell’udienza preliminare.
Ma quale deve, o può, essere lo scopo delle indagini?
Certamente in via principale le investigazioni saranno dirette ad acquisire elementi che
consentano di valutare la correttezza dell’esercizio dell’azione penale. Ma io ritengo
che si possa allargare il campo di intervento del G.U.P. e questo sia facendo
riferimento alla lettera della norma che al sistema nel quale è inserita.
Quanto al primo aspetto, va evidenziato che la disposizione indica come presupposto
solo la generica incompletezza delle indagini preliminari e se è vero che l’art. 326
c.p.p. descrive in maniera riduttiva gli scopi delle indagini preliminari è pur vero che il
già citato art. 55 c.p.p. obbliga la polizia giudiziaria (“deve”) a raccogliere quant’altro
possa servire all’applicazione della legge penale e non solo ciò che è utile all’esercizio
dell’azione penale.
Considerando poi che la ristrutturazione dell’udienza preliminare è stata pensata anche
allo scopo di agevolare la celebrazione di riti alternativi non si può escludere che le
indagini possano avere ad oggetto non solo la sussistenza degli elementi idonei a
giustificare l’esercizio dell’azione penale, ma anche dati che consentano di applicare in
maniera corretta attenuanti ed aggravanti nonché di calcolare secondo i parametri di
legge la congruità della pena.
Dunque il G.U.P. può indicare specifici atti di indagini e, in assenza di qualsiasi
indicazione, non vi sono limiti al tipo di attività che egli può richiedere purchè vi sia
ovviamente attinenza con il processo.
E’ possibile che il G.U.P. di sua iniziativa rilevi l’incompletezza delle indagini ed
individui le attività che le parti dovrebbero svolgere per sanare il “buco”, ma non si
può escludere che siano le stesse parti, che con la discussione sollecitino il giudice ad
utilizzare i suoi poteri.
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Quanto al termine per il compimento delle indagini, in assenza di specifiche
disposizioni di legge sanzionatorie, lo stesso deve ritenersi ordinatorio.
Piuttosto è il caso di segnalare che nulla dice la norma in tema di deposito degli atti. In
concreto il problema è di garantire a tutte le parti la piena ed effettiva conoscenza di
quanto è stato svolto.
Ritengo che la garanzia del contraddittorio possa essere correttamente osservata
attraverso il deposito degli atti in un tempo ragionevole antecedente all’udienza
preliminare oppure attraverso la concessione alle parti di termini ragionevoli per lo
studio delle nuove investigazioni svolte.
Occorre domandarsi se l’adempimento dell’ordinanza del giudice sia per le parti un
obbligo se cioè le parti, ed in particolare il P.M., siano in qualche modo costrette a
compiere le indagini indicate dal G.U.P..
In realtà vi è per le parti un onere di attivazione.
Il P.M. ha un interesse a completare l’istruttoria per non correre il rischio di vedersi
rigettata la domanda.
La difesa potrebbe anche non attivarsi contando sull’incompletezza istruttoria per
ottenere il rigetto della domanda del P.M. o magari per chiedere un rito alternativo in
condizioni di vantaggio, ma potrebbe anche darsi da fare allo scopo di acquisire
elementi favorevoli da utilizzare subito o in un eventuale rito alternativo.
Naturalmente all’esito dello svolgimento dell’attività investigativa le parti dovranno
discutere nuovamente, peraltro la nuova discussione dovrà avvenire anche se,
indifferenti all’indicazione del giudice, le parti non si siano in alcun modo attivate.
Resta da domandarsi quali siano i poteri del G.U.P. di fronte all’inattività delle parti.
La risposta è che nessuna soluzione vi è all’interno del 421 bis c.p.p.. Il G.U.P. di
fronte all’indifferenza dei suoi interlocutori non avrà che da decidere allo stato degli
atti a meno che non sia nelle condizioni di cui all’art. 422 c.p.p..
ART. 422 c.p.p.
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(integrazione probatoria del giudice)
Una situazione diversa e residuale è stata disciplinata nell’art. 422 c.p.p..
L’ipotesi apparente è quella dell’esistenza di un’istruttoria completa, ma nel contempo
della possibilità di acquisire attraverso ulteriori atti di indagine un elemento di prova
decisivo per una pronuncia ex art. 425 c.p.p.. Quando la situazione ora descritta
emerge con evidenza il G.U.P. può disporre anche d’ufficio, ma nulla vieta alle parti di
sollecitarlo, l’assunzione della prova (rectius degli elementi di prova).
Si tratta di una disposizione che incide in maniera evidente sulla natura accusatoria del
processo, ma si inquadra perfettamente nella scelta del legislatore di favorire in ogni
modo la riduzione dei processi in dibattimento anche forzando i principi ispiratori del
sistema.
Alcuni aspetti del procedimento vanno sottolineati.
Innanzitutto l’adozione di un precedente provvedimento ex art. 421 bis c.p.p. non è
ostativo all’emissione di un’ordinanza ex art. 422 c.p.p.. Le parole usate dal legislatore
(quando non provvede…) stanno a significare l’impossibilità di un duplice
provvedimento contemporaneo e non ad escludere che, esaurita la procedura ex art.
421 bis c.p.p., si possa ricorrere all’ordinanza in esame. Peraltro ben può accadere che
proprio il completamento dell’istruttoria imponga la soluzione in oggetto.
Nella valutazione preliminare che il G.U.P. compie, l’adozione della sentenza ex art.
425 c.p.p. a seguito dell’assunzione della prova deve emergere con evidenza, deve
essere cioè del tutto chiaro che l’esito positivo dell’attività di integrazione probatoria
non può che produrre la dichiarazione ex art. 425 c.p.p. a favore dell’imputato; per
converso sarebbe contraddittoria e incomprensibile la pronuncia di un decreto che
dispone il giudizio dopo l’assunzione positiva dell’elemento di prova.
Ci si domanda se sia possibile dopo l’espletamento dell’attività di integrazione
chiedere un rito alternativo. La risposta non può che essere positiva. Il III co. dell’art.
422 c.p.p. precisa l’esigenza di nuove conclusioni e nulla vieta che prima di queste la
difesa richieda il rito alternativo che può avere una sua utilità sia se l’acquisizione della
prova non è stata favorevole all’imputato, ma anche se il risultato è stato per lui
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positivo. In questo caso infatti con il rito abbreviato egli renderebbe definitivo il
proscioglimento a suo favore. E’ da escludersi invece la praticabilità del
“patteggiamento” in caso di esito positivo dell’indagine poiché anche di fronte ad una
richiesta di tal genere difficilmente il G.U.P. potrebbe evitare una pronuncia ex art.
129 c.p.p.; un caso limite potrebbe essere rappresentato da un precedente errore del
G.U.P. nell’adozione dell’ordinanza errore del quale parti e giudice si rendono
consapevoli.
Quali indagini può disporre il G.U.P.? Tutte.
L’interpretazione restrittiva, vigente il precedente testo dell’art. 422 c.p.p. che
conteneva un elenco tassativo di indagini esperibili non può essere accolta. Vi ostano
la lettera della norma (… il giudice può disporre …. L’assunzione delle prove delle
quali appare evidente la decisività …), ma anche lo spirito della riforma e della
disposizione in particolare tutta tesa a ridurre i dibattimenti inutili. L’indicazione delle
prove dichiarative di cui al II ed al III co. è finalizzata esclusivamente a disciplinare le
modalità di assunzione di detti elementi probatori.
Nella “sua” attività di indagine il G.U.P. potrà, ovviamente avvalersi della P.G..
Dopo quanto detto è impossibile non pensare alle analogie esistenti fra la figura del
giudice istruttore esistente nel vecchio codice ed il G.U.P. nel momento in cui
esercita i poteri di cui agli artt. 421 bis e 422 c.p.p..
In particolare colpisce la possibilità che egli ha di attivarsi d’ufficio, l’ampia
discrezionalità delle sue scelte istruttorie, il potere di indicare e in alcuni casi di
disporre, atti specifici di indagine.
Le buone intenzioni del legislatore sono chiare e le si è già evidenziate, ma non vi è
dubbio che le innovazioni introdotte con la l. 479/99 rompono il tabù del divieto di
acquisizione delle prove ad iniziativa del giudice ed in via pre-dibattimentale.
A ridurre i rischi nascenti da un’attuazione “disinvolta” soprattutto dell’art. 422 c.p.p.
che in pratica autorizza il G.U.P. ad acquisire direttamente qualsiasi tipo di prova vi è
il limite connesso allo scopo della norma. La procedura può essere usata solo a favore
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dell’imputato e sarebbe grave un’utilizzazione distorta dell’istituto magari allo scopo
di completare un’istruttoria senza nemmeno passare per l’attività delle parti.
Solo l’esperienza dei prossimi anni ci dirà se si riuscirà a fare di questi istituti un uso
coerente con le finalità che hanno indotto il legislatore ad introdurli.
In ogni caso proprio l’introduzione di queste due norme, unitamente all’aggiunta dei
co. 2, 3 e 4 all’art. 425 c.p.p., ha rivoluzionato, almeno in parte la regola di giudizio
che dovrebbe presiedere la decisione da prendere all’esito dell’udienza preliminare.
L’UDIENZA PRELIMINARE COME “FILTRO” e LO STANDARD
PROBATORIO PER IL RINVIO A GIUDIZIO
Come si è visto, quello della prima instaurazione di un libero e completo confronto
fra le parti davanti ad un giudice imparziale è la prima funzione che il legislatore ha
attribuito all’udienza preliminare e si è già evidenziato che lo svolgimento di un
contraddittorio pieno è stato considerato dal legislatore lo strumento migliore per
consentire alle parti ed al giudice di prendere le decisioni più consapevoli.
Sotto questo profilo, per quanto riguarda la difesa, lo svolgimento in contraddittorio
dell’udienza preliminare permette di esercitare le proprie funzioni sotto svariati
profili. Innanzitutto può dire la sua per la prima volta sulla validità degli atti
compiuti
o
acquisiti
dal
P.M.;
poi
può
incidere
sul
completamento
dell’investigazione anche con attività dirette ex art. 391 octies c.p.p., ha la possibilità
di eccitare i poteri di intervento del G.U.P. ed infine può scegliere, quasi senza salti
nel buio, una definizione anticipata ed alternativa del processo. D’altro canto anche
al P.M. sono riservati poteri tutto sommato analoghi in rapporto alla funzione svolta.
Esaurita ogni attività investigativa ed esclusa da parte della difesa la scelta di un rito
alternativo, alle parti non resta che concludere prospettando al giudice le proprie
determinazioni. A questo punto la scelta del G.U.P. è limitata alle ipotesi previste
dal I co. dell’art. 424 c.p.p.: sentenza di non luogo a procedere o decreto che
dispone il giudizio.
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Ma quali sono i parametri ai quali si deve uniformare il giudice per operare
correttamente? In altre parole qual è la “regola di giudizio” alla quale deve obbedire
il G.U.P.?
Nulla dice la norma per quanto riguarda il decreto che dispone il giudizio, mentre
l’art. 425 c.p.p. elenca le situazioni che impongono la dichiarazione di
improcedibilità.
La scelta legislativa, a mio modo di vedere, costringe l’interprete a compiere la
doverosa operazione ermeneutica seguendo un criterio preciso: individuare le
ipotesi in cui si deve pronunciare la sentenza ex art. 425 c.p.p. e, ovviamente per
esclusione, accertare le situazioni che impongono l’emissione del decreto che
dispone il giudizio.
Anche in questo caso un passo indietro può essere utile soprattutto perché proprio in
quest’ambito hanno inciso maggiormente le innovazioni legislative introdotte dalla
l. Carotti alle quali hanno fatto seguito reiterati interventi della Corte Costituzionale.
E’ opportuno dunque partire dall’inizio.
Già durante i lavori preparatori del nuovo codice ci si rese conto che le possibilità di
successo o, se si preferisce, di concreta attuazione, di un sistema processuale che
aveva il suo fulcro nella celebrazione di un dibattimento particolarmente complesso
e farraginoso erano legate da un lato all’eventuale salto di alcune fasi processuali e
dall’altro proprio alla riduzione dei dibattimenti da tenere: si può dire in maniera
paradossale che il nuovo processo avrebbe potuto funzionare nella misura in cui di
fasi dibattimentali se ne fossero celebrate ben poche.
C’era dunque la necessità di approntare strumenti idonei ad evitare che si seguissero
passaggi scontati (casi nei quali la prova a carico dell’indagato è tale da rendere
inutile un passaggio intermedio fra la fase investigativa e quella dibattimentale) o si
instaurassero processi “inutili” intendendo per tali sia quelli destinati a concludersi
sicuramente con il proscioglimento dell’imputato che quelli nei quali la completezza
dell’attività investigativa svolta dal P.M. consentisse una serena anticipazione della
decisione.
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Occorreva dunque improntare a criteri di “economicità di gestione” l’intera struttura
processuale.
La questione si presentava particolarmente delicata perché nel nostro ordinamento
anche se il buon andamento della P.A. va considerato un principio costituzionale
(art. 97 I co. Cost.) al quale deve adeguarsi tutta l’attività amministrativa in senso
lato, è anche vero che detto principio non può ledere altri interessi che trovano
tutela nella Carta fondamentale ed in particolare il principio di eguaglianza (art. 3),
l’inviolabilità del diritto di difesa (art. 24), la funzione rieducativa della pena (art. 27
III co.), il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112). La scelta del
legislatore si orientò perciò verso la creazione
di istituti che consentissero
un’accelerazione delle procedure o un’anticipata definizione del processo sotto il
costante controllo di un giudice.
Il problema del rapporto fra l’esigenza di instaurare processi “inutili” e il principio
dell’obbligatorietà dell’azione penale venne innanzitutto risolto con la normativa
che disciplina l’archiviazione (artt. 408-414 c.p.p. e 125-126 disp. att. c.p.p.).
Il P.M., quando ricorrono le condizioni di cui agli artt. 408 I co., 411 c.p.p. e 125
disp. att. c.p.p., chiede l’archiviazione del procedimento ed un giudice (in questo
caso quello delle indagini preliminari), valuta e decide fra varie possibilità: la
richiesta può essere accolta de plano e viene pronunciato il relativo decreto oppure
le indagini sembrano incomplete ed allora, con ordinanza, il G.I.P. dispone nuove
investigazioni; ancora può succedere che il G.I.P. ritenga che ci siano sufficienti
elementi perché venga celebrata l’udienza preliminare ed allora pronuncerà
un’ordinanza con la quale impone al P.M. di formulare l’imputazione (art. 409 V
co. c.p.p.). In concreto quello dell’archiviazione è un procedimento che presenta
particolarissime analogie strutturali e funzionali con l’udienza preliminare che la
brevità di queste note non consente di analizzare, ma che non sarà inutile
all’occasione evidenziare.
Furono poi introdotti i c.d. riti alternativi sul presupposto che l’obiettivo di una
gestione “economica” del sistema processuale potesse e dovesse essere, almeno in
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parte, raggiunto in via mediata attraverso la discovery precedente l’udienza
preliminare. La difesa, messa a conoscenza degli elementi a suo carico, dovrebbe
potersi orientare nella scelta dei riti alternativi, ed evitare dibattimenti che sono
destinati senza ombra di dubbio a concludersi con una condanna o nei quali la
trasformazione delle “fonti di prova” in “prove” nulla potrebbe modificare.
Sennonché la necessità dell’eliminazione dei dibattimenti “inutili” va vista anche, e
soprattutto, sotto l’altro versante, nel senso cioè della necessaria previsione di uno
strumento idoneo a bloccare anticipatamente la celebrazione di processi il cui esito
non potrebbe essere altro che un giudizio di non colpevolezza nei confronti
dell’imputato.
Guardando all’intero sistema ci si accorge che le soluzioni scelte a suo tempo dal
legislatore per affrontare e risolvere questo problema furono tre: 1) Archiviazione
del procedimento (artt. 408, 411 c.c.p. e 125 e 126 disp. att. c.p.p. ); 2) Declaratoria
in ogni stato e grado del processo di determinate cause di non punibilità (art. 129
c.p.p.); 3) Sentenza di Non Luogo a Procedere all’esito dell’udienza preliminare
(art. 425 c.p.p.).
In questa sede ci interessa essenzialmente questo terzo strumento anche se, come si
vedrà, il riferimento agli altri due ed in particolare al primo, sarà necessità costante.
Non v’è dubbio che nell’idea originaria dei compilatori del codice l’udienza
preliminare doveva essere lo strumento idoneo a realizzare il solo controllo di
legittimità sull’azione penale inteso questo come verifica dell’esercizio corretto da
parte del P.M. del suo potere.
In sostanza l’idea era quella di demandare al G.U.P. il compito di verificare
l’esistenza di elementi sufficienti per il rinvio a giudizio senza entrare in alcun
modo nel merito della responsabilità dell’imputato cosa che avrebbe comportato un
rischio di condizionamento per i giudici del dibattimento.
L’analisi della norma così come risultava scritta prima dell’ultima riforma
confermava senza alcun dubbio questa ipotesi e vale la pena ripercorrere l’iter
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dimostrativo, a suo tempo seguito dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti,
per giungere alle conclusioni sopra indicate anche perché, in fin dei conti, il I co.
dell’art. 425 c.p.p. riproduce integralmente la disposizione precedentemente in
vigore ed anche perché quel ragionamento, a ben vedere, ha ancora una sia pur
parziale validità.
Innanzitutto si evidenziò che solo una lettura affrettata del I co. dell’art. 425 c.p.p.
poteva far pensare che la norma in questione riproducesse pedissequamente il
combinato disposto fra gli artt. 529 e 530 c.p.p. (proscioglimento all’esito del
dibattimento) o che fosse la sostanziale ripetizione di quanto previsto dagli artt. 408
e 411 c.c.p. e 125 disp. att. c.c.p. (archiviazione).
La realtà non era questa e l’analisi delle differenze che vi sono fra le disposizioni
citate fu di sicuro aiuto nella comprensione del meccanismo di attuazione della
norma in oggetto. In ogni caso ancor più delle distinzioni letterali fra le disposizioni,
l’interpretazione sistematica e teleologica della disposizione ne consentì una
corretta chiave di lettura.
Il confronto fra l’art. 425 co. I c.p.p e la coppia 529-530 c.p.p. fece emergere subito
la differente articolazione del contenuto. Più sintetico l’art. 425 I co. c.p.p., più
analitico l’art. 530 c.p.p.. Fu altresì evidenziato che se la dizione usata per le cause
di improcedibilità e per la mancata previsione del fatto come reato era identica nelle
due disposizioni, non avveniva altrettanto per le cause di proscioglimento in ordine
alle quali il 425 disponeva che dovessero risultare, mentre per il 530 era necessario
che esse sussistessero.
Quanto ai rapporti con le norme sull’archiviazione, fu precisato che l’espressione
infondatezza della notizia di reato nell’art. 408 c.p.p. ed il dettato dell’art. 409
c.p.p. comprendevano essenzialmente tutte le ipotesi previste letteralmente nell’art.
425 I co. c.p.p., ma doveva altresì considerarsi che l’art. 125 disp. att. c.p.p. faceva
riferimento all’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle
indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Queste differenze imponevano idonee valutazioni.
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La diversità del verbo usato per alcune formule di proscioglimento (meglio sarebbe
dire di dichiarazione di improcedibilità) secondo dottrina e giurisprudenza non
andava considerato come un mero dato nominalistico, ma era un elemento che
evidenziava ancor più la diversità delle due norme alla luce del sistema nel quale
erano inserite.
L’art. 530 c.p.p. è la disposizione che fa’ riferimento alla conclusione del
dibattimento in un momento in cui il processo si chiude con l’accertamento della
verità processuale. Non c’è nulla che possa mutare; non si tratta di valutare fonti di
prova, cioè elementi suscettibili di essere considerati in maniera diversa perché
potenzialmente idonei ad essere sviluppati in vario modo e perchè comunque non
ancora cristallizzati attraverso il contraddittorio delle parti. Alla fine del processo
tutto viene fermato e la decisione che ne consegue è la verità (processuale) destinata
ad essere, col passaggio in giudicato della sentenza, naturalmente immutabile
quand’anche si traduca in una dichiarazione di impossibilità di accertamento della
giustezza della pretesa punitiva avanzata dal P.M..
Di tutt’altro stampo veniva considerata la decisione emessa dal G.U.P. all’esito
dell’udienza preliminare.
Il provvedimento in questione veniva emanato valutando elementi (fonti di prova)
naturalmente destinati ad essere messi in discussione e riconsiderati in una nuova
(eventuale) attività processuale attraverso quello che il legislatore ha considerato
come il migliore dei sistemi per accertare la verità e cioè il confronto fra le parti; ed
anche quando la decisione del G.U.P. non era un decreto, ma era una sentenza ex
art. 425 c.p.p. si trattava pur sempre di un provvedimento intrinsecamente
interlocutorio e sempre suscettibile, sia pure a certe condizioni (art. 434 c.p.p.), di
essere revocato.
In concreto la decisione del G.U.P. veniva ritenuta non la verità processuale, ma
una decisione a carattere processuale che veniva emessa allo stato degli atti cioè
sulla base di quanto, ecco il motivo della richiamata distinzione terminologica,
risultava essere stato acquisito ed essa era naturalmente incapace di pregiudicare in
via definitiva qualsiasi posizione.
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In questo senso il verbo risulta sottolineava appunto questa mancanza di verità
processuale definitiva nella sentenza emessa ex art. 425 I co. c.p.p. e, per certi versi,
la precarietà di una decisione che attiene a ciò che risulta oggi, ma che domani (ex
art. 434 c.p.p.) potrà essere valutato diversamente alla luce di nuovi elementi
acquisiti.
Si era poi sottolineato che il termine usato nella formula prevista nel 425 c.p.p.
indicava una sorta di relativa passività del G.U.P. che doveva considerare ciò che
emergeva dagli atti, mentre la valutazione ex art. 530 c.p.p. impone una diversa, e
ovviamente approfondita, indagine sui dati processuali. Quest’ultima opinione
trovava un certo conforto nel contenuto della lett. d) dell’art. 426 c.p.p. nel quale,
fra i requisiti della sentenza emanata ex art. 425 c.p.p, si indica l’esposizione
sommaria dei motivi della decisione: la sommarietà della motivazione sembrerebbe
infatti compatibile solo con la mancanza di necessità di particolare approfondimento
delle argomentazioni.
Accertata la natura processuale della sentenza ex art. 425 c.p.p., a maggior ragione
non v’era alcuna discussione sulla natura giuridica del provvedimento che
disponeva il giudizio il quale, non a caso, aveva la forma del decreto e non era
(secondo alcuni non doveva risultare) motivato per ragioni apparentemente piuttosto
ovvie: se il dibattimento è il luogo di formazione della prova e tutte le attività
compiute in precedenza sono affette da inutilizzabilità (fisiologica), ogni valutazione
di queste attività trascritta su un documento destinato ad introdurre il dibattimento
sarebbe stato inevitabilmente capace di condizionare quel giudice che invece doveva
essere vergine di ogni informazione e/o valutazione proveniente da quella fase che,
tranne che in qualche caso raro ed eccezionale, doveva restare a lui nascosta
nell’oscurità più totale.
Individuata la differenza strutturale fra la sentenza ex art. 425 I co. c.p.p. e quella ex
artt. 529 e 530 c.p.p., occorreva fare un ulteriore sforzo per delimitare con esattezza
l’ambito di applicazione dell’art. 425 I co. c.p.p. cioè la regola di giudizio che
doveva indirizzare la decisione del G.U.P..
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E’ chiaro che in tutti i casi in cui emergeva con chiarezza, oggettivamente,
l’innocenza dell’imputato e in tutti quelli nei quali non fosse possibile nemmeno la
costruzione di un’ipotesi accusatoria la decisione non presentava particolari
difficoltà. Ma che fare quando vi era un’insufficiente acquisizione probatoria o vi
era contrasto fra gli elementi di prova acquisiti? Era sempre vero che si doveva in
questi casi procedere al rinvio a giudizio?
La risposta di giurisprudenza e dottrina prevalenti era venuta all’esito di un
elaborato percorso interpretativo il cui punto di partenza fu la disamina comparata
fra questa norma e le disposizioni in tema di archiviazione e che vale la pena
riassumere.
Va subito premesso che prima della soppressione della parola evidente dal corpo
dell’art. 425 avvenuta con la l. 105/93 vi era stato un animato dibattito in dottrina e
giurisprudenza sul rapporto fra decreto di archiviazione e sentenza ex art. 425
c.p.p.. All’epoca era prevalente la tesi di coloro che, interpretando rigorosamente la
lettera della norma in esame, ritenevano che il G.U.P. avesse in questa fase
possibilità meno ampie di quante ne avesse a sua volta, ex art. 125 disp. att. c.p.p., il
P.M. in tema di richiesta di archiviazione e, ovviamente, lo stesso giudice
nell’emanazione del relativo decreto. In pratica mentre si poteva “archiviare” anche
quando, a prescindere dalle risultanze investigative, gli elementi di prova acquisiti
nelle indagini preliminari non erano idonei a sostenere l’accusa in giudizio, questo
non poteva avvenire all’esito dell’udienza preliminare nel corso della quale, per
procedere ad un’eventuale sentenza di di N.L.P., doveva comunque emergere o la
prova piena della mancanza di responsabilità o la assoluta palese carenza di prova in
ordine alla colpevolezza.
Un’interpretazione di questo genere, peraltro incidentalmente censurata dalla Corte
Costituzionale, portava con sé alcune conseguenze: una prima, paradossale, era che
il P.M. poteva arbitrariamente decidere se l’azione penale non dovesse essere
esercitata o se nei confronti dell’indagato dovesse essere celebrato il dibattimento.
D’altra parte, però, proprio l’assenza di un penetrante potere di controllo da parte
del G.U.P. garantiva che il decreto di rinvio a giudizio non fosse pregiudizievole, sia
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pure solo psicologicamente, per l’imputato. Dal punto di vista pratico poi la
conseguenza più rilevante era che solo le imputazioni azzardate o fantasiose (per
vero piuttosto rare) potevano essere “eliminate” dal G.U.P., con buona pace della
funzione di “filtro” per il dibattimento che l’udienza preliminare, secondo i
compilatori del codice, doveva svolgere.
Con l’abolizione dell’aggettivo evidente dal testo dell’art. 425 c.p.p. avvenuto con la
riforma del 1993 si impose certamente al G.U.P. un controllo più approfondito delle
fonti di prova acquisite dal P.M. nel corso delle indagini preliminari perché,
quantunque la sua ricerca fosse “allo stato degli atti” e rivolta a verificare le
potenzialità dell’accusa, egli non poteva più limitarsi alla sola ricezione di ciò che
appariva con immediatezza, ma, fermi i limiti già indicati, doveva anche attivarsi
nella valutazione dei fatti. Qualora dagli atti fosse emersa con chiarezza la prova
dell’innocenza o mancasse la prova della colpevolezza dell’imputato non vi erano
ovviamente problemi di sorta e altrettanto doveva dirsi qualora sussisteva la prova
della responsabilità.
Restava in piedi il problema della valutazione delle situazioni di incertezza. Che
fare in questi casi? L’aiuto veniva dall’art. 125 disp. att. c.p.p..
La norma in questione che, ricordiamolo, si riferisce alla richiesta di archiviazione
avanzata dal P.M., parla genericamente di elementi acquisiti ed inidonei a sostenere
l’accusa in giudizio, questo significa che qualche elemento di prova deve essere
stato comunque trovato, ma che non sia da solo idoneo ad ipotizzare per l’indagato,
allo stato, né un giudizio di responsabilità né di innocenza e che non è prevedibile
per l’ipotesi accusatoria alcuno sviluppo positivo anche all’esito di un ipotetico
dibattimento (si pensi a testimonianze confuse che per il tempo trascorso o per la
definitiva assenza del testimone non possono più essere sottoposte a verifica, oppure
alla necessità di sottoporre ad indagini tecniche oggetti distrutti ecc.). La Corte
Costituzionale con la sent. n.88 del 91 operò un accostamento fra insostenibilità
dell’accusa in giudizio (ex art. 125 disp. att.) ed evidenza dell’innocenza (ex art.
425 c.p.p.) nel senso indicato in precedenza e la strada segnata dal Giudice delle
leggi sembrò a tutti quella più ragionevole.
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In concreto l’accertata insufficienza o la contraddittorietà degli elementi di prova
può determinare due situazioni: una di stallo che non ha alcuna possibilità di
soluzione e un’altra, sempre di incertezza, in ordine alla quale si può ipotizzare che
il dibattimento riesca a sciogliere i dubbi e/o a colmare le lacune. Naturalmente è
chiaro che tutto il giudizio in questo caso è incentrato non sulla situazione esistente
all’esito dell’udienza preliminare, la cui incertezza costituisce proprio il presupposto
di una situazione di questo genere, ma sulla prospettiva dibattimentale (non astratta,
ma concreta e basata sugli atti acquisiti) di giungere ad una condanna dell’imputato.
A questo punto l’ambito di applicazione dell’art. 425 c.p.p., e, per converso e in
maniera speculare, quello del decreto di rinvio a giudizio, poteva essere definito in
maniera più precisa.
La decisione in questione doveva essere emanata ogni qualvolta l’insufficienza o la
contraddittorietà delle fonti di prova non fosse suscettibile di essere sanata in
dibattimento. Tutte le volte che il verdetto pronunciabile era “aperto” la verifica
dibattimentale si imponeva; in questo caso il G.U.P., prescindendo dalle proprie
convinzioni e da quella che sarebbe stata la sua valutazione se fosse stato officiato
avendo i pieni poteri di valutazione del giudice del rito abbreviato, doveva sempre
acconsentire alla richiesta del P.M. di rinvio a giudizio dell’imputato. Quando, però,
il contrasto e l’insufficienza non avevano speranza concreta di essere, con maggiore
o minore difficoltà, chiariti e/o integrati in dibattimento allora non vi era spazio per
un (inutile) rinvio a giudizio.
In considerazione di quanto finora detto dottrina e giurisprudenza anche della Corte
Costituzionale non avevano alcun dubbio: il G.U.P. era in realtà un giudice del rito e
non del merito; l’oggetto dell’udienza preliminare era la valutazione, interlocutoria
e “allo stato degli atti”, delle acquisizioni investigative effettuate dall’accusa nel
corso delle indagini preliminari o nel corso dell’udienza preliminare; la funzione
specifica dell’udienza preliminare all’interno del sistema processuale era quella di
introdurre il contraddittorio pieno fra accusa e difesa davanti ad un giudice e, nello
stesso tempo, di impedire l’instaurazione di attività processuali superflue attraverso
il controllo della legittimità dell’azione penale.
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Queste certezze sono state messe in crisi dalla riforma del ’99.
Innanzitutto i nuovi poteri di integrazione probatoria attribuiti al G.U.P. impongono
a questi di avere un ruolo attivo nell’acquisizione degli elementi di prova ed in
qualche maniera gli consentono di “governare” il completamento istruttorio secondo
logiche che possono essere anche estranee al mero controllo di legittimità
dell’azione penale e finalizzate quindi ad un accertamento, magari interlocutorio,
ma comunque relativo alla responsabilità dell’imputato. A tutto questo deve
aggiungersi il contenuto dei co. 2 e 4 dell’art. 425 c.p.p..
La prima disposizione impone l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere
anche in conseguenza dell’estinzione del reato per effetto del giudizio di
comparazione fra aggravanti ed attenuanti ex art. 69 c.p..
La seconda norma è costruita in maniera singolare: si tratta di un divieto di
pronuncia di una sentenza di N.L.P. nel caso in cui dovesse essere applicata una
misura di sicurezza (confisca esclusa).
Il caso pratico è questo: si è in presenza di un imputato totalmente incapace di
intendere e di volere al momento della commissione del fatto (le ipotesi di cui agli
artt. 49 e 115 c.p. sono casi quasi “di scuola”). La Corte Costituzionale aveva
escluso la possibilità di una decisione del G.U.P. che, sia pure attraverso una
sentenza di N.L.P., affermasse comunque l’attribuibilità del fatto all’imputato. Il
legislatore ha disciplinato il caso prevedendo, in concreto, la possibilità di una
pronuncia di questo genere solo quando, per assenza di pericolosità sociale, non
debba essere applicata alcuna misura di sicurezza.
Effettivamente in entrambe le situazioni sembra inevitabile che il proscioglimento
segua una dichiarazione di attribuibilità dei fatti il che sarebbe del tutto
incomprensibile in un sistema processuale che in questa fase dovrebbe prevedere
questa possibilità solo su richiesta dell’imputato o in assenza di una sua contraria
volontà (riti alternativi).
Il fatto è che, come è accaduto per gli artt. 421 e 421 bis c.p.p., i co. 2 e 3 dell’art.
425 c.p.p. sono stati introdotti per ragioni pratiche dettate dall’esigenza di inserire
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nel sistema meccanismi che in ogni modo riducessero l’invio in dibattimento di
processi destinati a concludersi con un “nulla di fatto”. Insomma queste decisioni
sono state adottate in una logica di buon senso, ma senza andare troppo per il sottile
e, soprattutto, senza che ci si rendesse conto delle situazioni di rottura che si
creavano nel sistema.
Una frattura puntualmente rilevata dalla Corte Costituzionale che con una recente
decisione (Sent. 335/02), peraltro largamente preannunciata da altre sentenze,
pronunciandosi sulla costituzionalità dell’art. 34 c.p.p. nella parte in cui non
prevedeva che fosse incompatibile a tenere l’udienza preliminare il G.U.P. che
aveva a suo tempo emesso un decreto che dispone il giudizio annullato, ha
definitivamente chiarito che la decisione che il G.U.P. prende all’esito dell’udienza
preliminare non può più essere considerata una decisione meramente processuale.
Il Giudice delle Leggi innanzitutto rileva che “l’udienza preliminare e le decisioni
che la concludono sono venute oggi a caratterizzarsi per la completezza del quadro
probatorio di cui il giudice deve disporre e per il potenziamento dei poteri
riconosciuti in materia di prove alle parti” e, attraverso gli strumenti previsti dagli
artt. 421 e 421 bis c.p.p., allo stesso G.U.P.; la Corte sottolinea che in questo
rinnovato “quadro normativo le valutazioni di merito affidate al giudice
dell’udienza preliminare sono state private di quei caratteri di sommarietà che
erano tipici di una decisione orientata soltanto allo svolgimento (o alla preclusione
dello svolgimento) del processo”.
Risolta la querelle sul carattere del provvedimento definitivo emesso dal G.U.P., la
Corte si è lanciata, sia pure per poche righe, nell’analisi dei contenuti delle decisioni
che concludono l’udienza preliminare individuando nell’introduzione dei co. 1, 2, 3
dell’art. 425 c.p.p. la riprova della “diversa e maggiore pregnanza” assunta dal
provvedimento finale del G.U.P..
Ovviamente la decisione del Giudice delle Leggi va rispettata per quello che è, ma
non può non suscitare qualche perplessità sia l’iter argomentativo seguito che le
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conclusioni in ragione anche degli scenari che a questo punto, inevitabilmente, si
aprono.
Innanzitutto l’invocazione del co. 3 dell’art. 425 c.p.p. come di una norma che
conferma la natura di merito della decisione del G.U.P. appare non felice.
In effetti la semplice lettura della disposizione consente di verificare che si tratta
della trasposizione in una norma positiva dettata in tema di udienza preliminare di
un principio del quale si è parlato in precedenza e che la stessa Corte aveva
contribuito ad individuare con una decisione nella quale di tutto si dubitava meno
che della natura processuale della scelta del G.U.P.. Peraltro è agevole evidenziare
come la lettera della disposizione si riferisca con chiarezza ad elementi acquisiti …
insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio
( attenzione non è stata usata un’espressione del tipo “inidonei a dimostrare la
responsabilità dell’imputato” ); si tratta di un’affermazione relativa alla mancata
acquisizione di elementi suscettibili di trasformarsi in prova nel dibattimento il che
implica un giudizio sul passato, inteso con riferimento all’attività del P.M. nelle
indagini preliminari, ma è anche una valutazione prognostica sulla possibilità
concreta che le fonti probatorie, nel naturale sviluppo del processo, siano idonee a
raggiungere l’esito sperato dal P.M. e mi sembra, francamente, evidente che questo
tipo di valutazione sia proprio di un provvedimento a carattere processuale.
C’è da domandarsi poi se forma e contenuto degli atti conclusivi dell’udienza
preliminare siano compatibili con la natura degli stessi come individuata dalla Corte
e non debbano a questo punto essere rivisti.
Se infatti è discutibile che la sentenza emessa ex art. 425 c.p.p. debba essere
sommariamente motivata, appare in ogni caso inaccettabile per contrasto col VI co.
dell’art. 111 Cost che il decreto che dispone il giudizio, provvedimento che secondo
la Corte implica un giudizio di merito sulla responsabilità dell’imputato, sia privo di
motivazione.
Altre conseguenze si vanno poi delineando nei campi più svariati: basti pensare che
recentemente la S.C., recepita la decisione della Consulta, ha affermato
l’inammissibilità di istanza di revoca di misura cautelare per mancanza di indizi una
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volta emesso il decreto che dispone il giudizio. E sembra a questo punto inevitabile
che la decisione ex co. 4 dell’art. 425 c.p.p. possa essere presa anche di fronte alla
mancanza di consenso da parte dell’imputato.
In realtà la Corte, chiamata a decidere su una questione tutto sommato circoscritta,
ha preferito risolverla non dichiarando l’incostituzionalità della norma “nella parte
in cui…”, ma offrendo un’interpretazione delle disposizioni codicistiche coinvolte
che consentisse di salvare la legittimità della norma di legge censurata.
Sennonché un’attenta lettura della motivazione della sentenza permette di capire che
in fin dei conti il Giudice delle Leggi è intervenuto essenzialmente sulla base di
valutazioni quantitative più che qualitative: si afferma che “le valutazioni di merito
affidate al Giudice dell’Udienza Preliminare sono state private di quel carattere di
sommarietà……” ed il loro contenuto si caratterizza per una “maggiore pregnanza”.
Insomma sembra chiaro che con la sua decisione la Corte abbia voluto sottolineare
più che altro che esiste la possibilità concreta che la decisione finale del G.U.P. sia
presa secondo logiche “di merito” e non “processuali” il che è indiscutibilmente
vero sotto alcuni profili, ma non sotto tutti.
In particolare tornando all’interpretazione prevalente anche vigente la l. Carotti ed
accettata dalla Corte prima della venuta alla luce della riforma, si deve riconoscere
che quando la decisione del G.U.P.è di proscioglimento ex art. 425 I co. c.p.p. essa,
proprio in considerazione di quanto già espresso in precedenza in tema di
completezza istruttoria e di poteri integrativi del giudice e delle parti, non può non
avere le caratteristiche di una decisione di merito.
Altrettanto deve dirsi per la situazione speculare e opposta che porta al rinvio a
giudizio dell’imputato.
Emerge invece, inevitabilmente, la natura processuale della decisione del G.U.P. sia
nell’ipotesi di cui al III co. dell’art. 425 c.p.p. sia in quella di rinvio a giudizio in
caso di elementi contraddittori suscettibili di chiarificazione in dibattimento (i casi
insomma di “verdetto aperto”). In queste situazioni la regola di giudizio non può che
essere la stessa di quella a suo tempo individuata prima dell’entrata in vigore della l.
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Carotti ed il completamento istruttorio nel corso dell’udienza preliminare ha il solo
significato di mettere in condizioni il G.U.P. di decidere “con cognizione completa”,
ma senza che questo significhi in alcun modo l’affermazione o la negazione della
responsabilità dell’imputato.
Come si vede il contesto teorico all’interno del quale si deve muovere il G.U.P. è
ancor oggi alquanto confuso, ma il fatto non deve meravigliare. Occorre riconoscere
infatti che l’impianto originario del nuovo codice di procedura penale aveva
prodotto come unico risultato la completa paralisi dell’apparato giudiziario e così i
continui interventi del legislatore, della Consulta, della giurisprudenza e l’adozione
di prassi giudiziarie hanno avuto inevitabilmente come scopo costante quello di
“mettere la macchina in condizioni di andare avanti” con poca attenzione per il
“sistema” nel quale le innovazioni andavano ad inserirsi. Ne ha sofferto certamente
la purezza della scelta legislativa originaria, ma in compenso, questo lo si deve
riconoscere, qualche risultato pratico è stato raggiunto ed è sotto gli occhi di tutti: si
sono ridotte le imputazioni azzardate e/o prive di un minimo di riscontro istruttorio
e, soprattutto, sono aumentate le definizioni dei processi all’udienza preliminare con
conseguente riduzione dell’ingolfamento del dibattimento. C’è solo da domandarsi
se questo sarà l’ultimo degli interventi normativi in questo campo perchè se così
non dovesse essere e la scelta del legislatore dovesse essere quella di accentuare
ulteriormente le potenzialità istruttorie del G.U.P. comincerebbe a porsi in maniera
pressante la necessità di riscrivere l’intero sistema.
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Luigi Picardi
Giudice per le Indagini Preliminari
nel Tribunale di Napoli
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