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Fabietti - Il debito inestinguibile. Sul sacrificio
IL DEBITO INESTINGUIBILE : SUL SACRIFICIO Ugo Fabietti Il corso di quest’anno ha inteso esplorare alcuni aspetti della relazione che intercorre tra la dimensione sacrificale e quelle del dono e del debito. Si tratta di un tema complesso e controverso. Si tratta infatti di riaprire, tra molte altre questioni, quella del sacrificio inteso come “dono di qualcosa a qualcuno”: un’idea certamente antica, presente tanto in coloro che hanno praticato e praticano sacrifici, quanto tra gli studiosi di storia di religioni e gli antropologi. Le teorie del sacrificio come dono fatto alle divinità affondano le loro radici, come del resto quelle dell’origine della religione, nel pensiero religioso e filosofico degli antichi. 1. Che cosa è realmente un sacrificio? La teoria secondo cui il sacrificio sarebbe un dono fatto alle divinità lascia di per sé aperti alcuni interrogativi che non hanno mai cessato di imporsi alla riflessione degli studiosi. Poiché il sacrificio consiste molto spesso in un atto violento (o comunque distruttivo) ecco che sorge la questione di come la violenza possa rientrare in una religione che promette (come è il caso di tutte le religioni) di sollevare gli esseri umani dalla sofferenza e dalla presenza del male. In alcuni casi ciò è particolarmente evidente. Alcune divinità di popoli del mondo antico (Fenici) o extra-europei (Aztechi) richiedevano sacrifici umani in quanto divinità “assetate di sangue”, nel senso che il sangue umano era ciò che le manteneva in vita ed era quindi in grado di far sì che tali divinità elargissero benessere agli umani. In altre religioni le divinità, pur considerate benevole e non legate agli uomini da questo “patto sanguinario”, chiedevano comunque la morte di un essere umano. E’ il caso del dio ebraico che chiede ad Abramo di sacrificare il proprio figlio, ed è il caso del dio cristiano che si sacrifica per il bene degli esseri umani. Se il sacrificio è un atti violento ed è una dimensione 2 centrale di tutte le religioni, qual è la relazione che lega tra loro sacrificio, religione e violenza? Come tutti sappiamo la parola sacrificio può essere anche usata col significato di “rinuncia”. In effetti tutti i sacrifici implicano, oltre che una dimensione di dono, anche una dimensione di rinuncia, di dono e quindi di abbandono, di rinuncia della cosa donata. La parola sacrificio sta per rinuncia soprattutto negli usi metaforici del termine, quando con essa vogliamo indicare qualcosa che non ha nulla di strettamente attinente alla sfera religiosa. Se il sacrificio è la distruzione violenta di qualcosa che viene donata a qualcuno, esso è un atto che comporta la presenza di varie “figure”, la cui rilevanza può variare in funzione di ragioni molteplici, complesse e contingenti. In quello che di solito viene definito sacrificio entrano infatti quattro elementi costitutivi. Essi sono: 1) Ciò che viene sacrificato (se è un essere vivente si tratta della vittima); 2) colui o colei che compie l’azione di sacrificare (sacrificante)1; 3) colui o coloro che traggono vantaggio dall’atto sacrificale (beneficiari) 4) l’entità a cui il sacrificio è offerto, la cui natura è invariabilmente ultraterrena: spiriti, antenati, divinità (destinatario). Queste quattro “figure” sono sempre presenti in un sacrificio, sebbene la loro importanza possa variare in base a considerazioni particolari. Queste figure sono anche sempre distinte, sebbene in alcuni casi possa esservi una “fusione” di ruoli, come nel caso in cui il sacrificante sia anche il beneficiario, o nel caso che il sacrificante sia la vittima stessa (per esempio in atti di auto immolazione, un tema su cu torneremo diffusamente più avanti). Ogni atto sacrificale presume l’esistenza di un destinatario in quanto figura che rende effettiva , con la sua intermediazione, l’efficacia del sacrificio. Questo punto appare chiaro se consideriamo l’etimologia del termine sacrificio che, derivato dal latino, si rifà a una concezione specifica della sacralità. Il sacrificium dei latini implica infatti il significato di sacer facere “rendere sacro”, per cui il termine sacrificio, così come lo usiamo in questa sede (in A volte detto anche sacrificatore, mentre con il termine sacrificante viene indicato colui o coloro che “commissionano” il sacrificio (e che è qui chiamato beneficiario) 1 3 senso cioè non metaforico) significa mettere a contatto una cosa con il sacro, “renderla sacra”. Sul significato della parola sacer Il cristianesimo ha finito per identificare la dimensione della sacralità con quella della santità, ma nel mondo latino, da cui provengono i termini sacro e santo, (sacer e sanctus), non era così. Emile Benveniste2 ci ha spiegato il significato di queste due parole che solo in circostanze speciali potevano trovarsi riunite per indicare la medesima cosa. Sacer è attributo divino ma è anche ambiguo. Significa infatti consacrato agli dèi, ma è anche caricato di una “contaminazione incancellabile, augusta e maledetta degna di venerazione e suscitante orrore”. Nell’antica Roma homo sacer era il condannato a morte che, come tale, era portatore di una vera e propria contaminazione. Esso era separato dalla società degli uomini, era “altro”. Come tale era “consacrato agli dèi” nel senso che aspettava soltanto di “essere tolto” dalla fera terrena. Benveniste dice anche che i termini che definiscono l’universo religioso latino sembrano formare delle coppie. In latino abbiamo infatti, oltre a sacer, il termine sanctus. Quest’ultimo, che col cristianesimo ha subito, come dicevamo, una identificazione con sacro, designava in origine ciò che “è proibito da una pena (sanctio, sanzione)”. Leges sanctae: leggi inviolabili. “Sancire” vuole dire infatti anche per noi circoscrivere il campo di applicazione di una disposizione e metterla sotto la protezione di una legge, una volta magari di un dio, invocando sul trasgressore la punizione divina. E’ ciò che dipende da un interdetto imposto dagli esseri umani, quindi potrebbe essere assimilato per molti aspetti al tabu polinesiano3. E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1969. Sebbene con le dovute differenze. Nell’area polinesiana tabu (tapu) può essere una proibizione che nasce da un atto formale di un capo, persona “sacra” lui stesso, secondo la concezione latina del sacer. Gli veniva attribuito infatti un potere (mana) ambiguo e pericoloso. Il capo polinesiano era tabu lui stesso. La nozione polinesiana di tabu sembra esprimere, entrambi i significati di sacer e di sanctus, ma non nel senso in cui questi due termini si trovano riuniti nella visione cristiana, bensì come una parola in grado di indicare il sacer e il sanctus così come erano intesi dai latini (pericoloso, ambiguo potente il sacer; vietato, “off limits”, il sanctus). Lo stesso Benveniste avanza l’ipotesi che la coppia sacer-sanctus possa essere derivata 2 3 4 Sancta, nel mondo latino, sono le cose che non sono né sacre né profane ma che sono confermate da una certa sanzione . Ciò che è sottoposto a sanzione è sanctus anche se non è consacrato agli dèi (cioè non è sacer di per sé). 2. Tylor: il sacrificio come dono Dovendo fissare un punto di partenza per la nostra trattazione del sacrificio abbiamo deciso di riferirci a E. B. Tylor che, nel suo Primitive Culture del 1871, dedica largo spazio alla comparsa del pensiero religioso e, all’interno di questo, si sofferma abbastanza a lungo sul tema del sacrificio. In Primitive culture del 1871 Tylor definisce la religione come “la credenza negli spiriti soprannaturali”. Si tratta dunque di stabilirne l’origine, e naturalmente l’evoluzione che, nel tempo, ha portato il selvaggio a farsi prima sacerdote e poi filosofo, dove per quest’ultimo la credenza negli esseri soprannaturali è definitivamente sostituita da una fede nelle possibilità che gli umani hanno di trascendersi e di elevarsi al di sopra delle superstizioni. Il ragionamento di Tylor, che si muove nel clima culturale dell’evoluzionismo britannico, può essere sinteticamente espresso in questo modo. Gli esseri umani sanno di avere un corpo vivo. Ma il corpo muore, la vita lo abbandona. Al tempo stesso, nei sogni, gli esseri umani hanno l’impressione che esista un loro doppio, il quale lascia il corpo temporaneamente per farvi ritorno con la ripresa dello stato di veglia. Cos’è questo doppio che si distacca dal corpo, e dove va la vita quando il corpo muore? Esso sopravvive all’essere umano perché nei sogni non è soltanto il proprio doppio che appare, ma anche quello dei defunti (Tylor lo chiama il fantasma). E’ qui che, secondo Tylor, nasce la credenza negli esseri soprannaturali: il fantasma del morto e il doppio del vivente sono alla base di ciò che noi chiamiamo anima, soffio vitale, pneuma (greco), ruh (arabo) ecc. e che deve essere stata alla base della prima credenza negli esseri sovrannaturali. L’animismo è quindi il nome da una nozione a doppia faccia: positiva (perché caricata da presenza divina) e negativa (perché è vietata agli uomini). 5 che Tylor assegna alla prima forma di religione intesa come credenza negli esseri sovrannaturali 4 Con le epoche, e con il variare delle relazioni che gli umani intrattengono con il mondo secondo un rapporto baconiano di progressiva capacità di controllo dei fenomeni naturali, l’animismo originario sarebbe andato incontro, sempre secondo Tylor, a trasformazioni che ci hanno portato verso forme sempre più evolute di religione (contenenti però ciascuna delle sopravvivenze, ossia tracce degli stadi anteriori qualificate solitamente come “superstizioni”). Non è interessante qui ripercorrere le tappe di questa evoluzione, ma è invece utile soffermarsi brevemente sul modo in cui Tylor si accostò al problema della religione. Tylor era un razionalista, non un mistico. Essere razionalisti, nello studio della religione, significa indagare il fenomeno senza nulla concedere agli aspetti fideistici che sono alla base di esso5. Tylor era anche un “intellettualista”, che significa invece prestare attenzione alle forme di ragionamento che sono alla base delle rappresentazioni religiose, mettendo in secondo piano gli aspetti sociali, linguistici, storici da cui una data rappresentazione può dipendere. Quest’ultimo punto spiega perché molte delle critiche che sono state rivolte, in seguito, all’approccio tyloriano allo studio della religione abbiano avuto a oggetto, più che la sua prospettiva evoluzionista6, il suo intellettualismo. Di queste critiche ne ricordiamo alcune: l’intellettualismo ignora la dimensione emotiva dei fenomeni religiosi; esso inoltre trascura la dimensione Questa definizione della religione, che può apparire generica e alquanto vaga, è da porsi in relazione al rifiuto, da parte di Tylor, di pensare la religione sul modello del “culto organizzato”. Egli esortava infatti a non considerare la religione come qualcosa di troppo simile all’idea che ne avevano gli europei, perché altrimenti “la maggior parte dell’umanità avrebbe potuto difficilmente essere ritenuta una umanità religiosa”. 5 Si ricorda che nello studio antropologico della religione si può essere scettici fin che si vuole sulle rappresentazioni e le pratiche di coloro che studiamo, ma che non possiamo invece esserlo affatto nei riguardi dei discorsi, dei linguaggi e delle pratiche mediante cui, coloro che studiamo, vivono la loro esperienza “religiosa”. Come dice C. Geertz nel saggio “La religione come sistema culturale” (1967), quando intraprendiamo uno studio antropologico della religione non possiamo certo impersonare la figura del “predicatore del villaggio”, ma nemmeno quella dell’ “ateo del villaggio”. 6 Le critiche all’evoluzionismo antropologico ottocentesco mosse dagli antropologi del XX secolo non implicano assolutamente una critica dell’evoluzionismo di tipo biologico così come questo è stato fondato da Charles Darwin. 4 6 collettiva, sociale della pratica religiosa, e i suoi effetti di ritorno sulla comunità; è eccessivamente speculativa, al punto che produce una sorta di sostituzione del nativo da parte dell’antropologo. Si assume cioè che l’altro ragioni come io ragionerei se fossi nelle stesse condizioni in cui io presumo che lui si trovi. L’approccio di Tylor ebbe comunque dei meriti notevoli. Nella sua prospettiva evoluzionista Tylor riteneva che le società evolvessero sulla base di un sempre maggior efficace controllo sul mondo, o che perlomeno il grado di questo controllo fosse il principale indice dello stadio evolutivo raggiunto dalla cultura. Si tratta certamente di una visione riduttiva della cultura ma, nello spirito del tempo, significò almeno introdurre l’idea che gli esseri umani si rapportano “religiosamente” al mondo in maniera diversa a seconda della possibilità che essi hanno di controllare razionalmente il mondo che li circonda. Quindi non era più questione di religioni “vere” e di religioni “false”, ma di religioni più evolute, e di religioni che lo erano meno. L’approccio intellettualistico di Tylor, ancorché etnocentrico (siamo nella Gran Bretagna dell’età vittoriana), mette inoltre l’accento sugli universali dell’esperienza e del pensiero umani, stabilendo un ponte tra quelle che per lui erano le società semplici e quelle che venivano considerate le società più “evolute”. In fin dei conti il merito vero di Tylor fu quello di porre al centro della riflessione il tema dell’agire razionale dell’umanità e della sua creatività culturale, contro quelle correnti “degenerazioniste” che assegnavano all’uomo cristiano europeo il privilegio di non essere rimasto nello stato selvaggio a cui la caduta dallo stato di grazia originario aveva condannato il resto dell’umanità7. E’ importante ricordare che la prospettiva intellettualista (almeno in materia di studio della religione) presupponeva, all’epoca di Tylor, che le azioni rituali traducessero quelle preoccupazioni intellettuali (illusorie) che erano alla base delle credenze religiose. Secondo questa prospettiva, le credenze sono ad esempio tentativi di spiegazione di fenomeni naturali che fanno riferimento all’azione di Incontreremo infatti, nel nostro percorso sul sacrificio, le acute osservazioni di un pensatore come J. de Maistre che, agli inizi dell’Ottocento, nella sua violenta polemica anti illuminista e un sostenitore delle teorie della “caduta” dell’Uomo e del “selvaggio” come essere “degenerato”. 7 7 esseri soprannaturali, per cui i riti sono molto spesso dei tentativi di controllarne la manifestazione. Tipico il caso della “danza della pioggia”, interpretata a lungo come un tentativo maldestro, perché illusorio, di manipolare la natura; o anche della preghiera con cui ci si rivolge alla divinità per ottener e da essa dei favori. Anche il sacrifico pertanto, in questa prospettiva, diventa “un dono fatto agli esseri soprannaturali”: un atto rituale cioè mirante ad ingraziarsi quelle forze che gli umani credono essere all’origine del mondo e della vita. In Primitive Culture (pp. 395-410) Taylor espone una teoria del sacrificio che prevede un’evoluzione del rito in tre fasi: dono in senso stretto, omaggio e abnegazione. “Sacrifice has its apparent origin in the same early period of culture and its place in the same animistic scheme as prayer, with which through so long a range of history it has been carried on in the closest connexion. As prayer is a request made to a deity as if he were a man, so sacrifice is a gift made to a deity as if he were a man……. The suppliant who bows before his chief, laying a gift at his feet and making his humble petition, displays the anthropomorphic model and origin at once of sacrifice and prayer. But sacrifice, though in its early stages as intelligible as prayer is in early and late stages alike, has passed in the course of religious history into transformed conditions, not only of the rite itself but of the intention with which the worshipper performs it. And theologians, having particularly turned their attention to the rite as it appears in the higher religions, have been apt to gloss over with mysticism ceremonies which, when traced ethnographically up from their savage forms, seem open to simply rational interpretation..…… In now attempting to classify sacrifice in its course through the religions of the world, it seems a satisfactory plan to group the evidence as far as may be according to the manner in which the offering is given by the worshipper, and received by the deity. At the same time, the examples may be so arranged as to bring into view the principal lines along which the rite has undergone alteration. The ruder conception that the deity takes and values the offering for itself, gives place on the one hand to the idea of mere homage expressed by a gift, and on the other to the negative view that the virtue lies in the worshipper depriving himself of something prized. These ideas may be broadly distinguished as the gift-theory, the homage-theory, and the abnegation-theory. Along all three the usual ritualistic change may be traced, from practical reality to formal ceremony. The originally valuable offering is compromised for a 8 smaller tribute or a cheaper substitute, dwindling at last to a mere trifling token or symbol. The gift-theory, as standing on its own independent basis, properly takes the first place. That most childlike kind of offering, the giving of a gift with as yet no definite thought how the receiver can take and use it, may be the most primitive as it is the most rudimentary sacrifice. Moreover, in tracing the history of the rite from level to level of culture, the same simple unshaped intention may still largely prevail, and much of the reason why it is often found difficult to ascertain what savages and barbarians suppose to become of the food and valuables they offer to the gods, may be simply due to ancient sacrificers knowing as little about it as modern ethnologists do, and caring less. Yet rude races begin and civilized races continue to furnish with the details of their sacrificial ceremonies the key also to their meaning, the explanation of the manner in which the offering is supposed to pass into the possession of the deity.”8 Importante è il fatto che Taylor sottolinei come queste differenze siano connesse non solo con la prassi rituale, ma anche con le diverse intenzioni di coloro i quali compiono i riti sacrificali. Altrettanto importante è il fatto che, secondo Taylor, gli umani si comportano con gli dèi (esseri spirituali) allo stesso modo in cui si comportano con gli umani stessi ma di rango superiore. All’atto del sacrificio come dono in senso stretto nei confronti di poteri come possono essere le forze della natura o alcuni animali particolari, atti sostenuti da un atteggiamento quasi “infantile” di dipendenza nei confronti delle forse a cui si dona, subentra l’omaggio. Questo si ha quando si elabora un sentimento di riverenza nei confronti degli esseri spirituali (dèi) a cui si dona con la stessa devozione e con le stesse aspettative che si hanno quando si dona a un capo o a un re. Scrive infatti Tylor: “..........let us now follow the question of the sacrificer’s motive in presenting the sacrifice. Important and complex as this problem is, its key is so obvious that it may be almost throughout treated by mere statement of general principle. If the main proposition of animistic natural religion be granted, that the idea of the human soul is the model of the idea of deity, then the analogy of man's dealings with man ought, inter alia, to explain his motives in sacrifice. It does so, and very fully. The proposition may be maintained in wide generality, that 8 E.B. Tylor, Primitive Culture, London 1871. Gordon Press, N. Y. 1977, vol. II, pp. 375-376. 9 the common man's present to the great man, to gain good or avert evil, to ask aid or to condone offence, needs only substitution of deity for chief, and proper adaptation of the means of conveying the gift to him, to produce a logical doctrine of sacrificial rites, in great measure explaining their purpose directly as they stand, and elsewhere suggesting what was the original meaning which has passed into changed shape in the course of ages……. It will be noticed that offerings to divinities may be classed in the same way as earthly gifts. The occasional gift made to meet some present emergency, the periodical tribute brought by subject to lord, the royalty paid to secure possession or protection of acquired wealth, all these have their evident and well-marked analogues in the sacrificial systems of the world…… We do not find it easy to analyse the impression which a gift makes on our own feelings, and to separate the actual value of the object from the sense of gratification in the giver's good-will or respect, and thus we may well scruple to define closely how uncultured men work out this very same distinction in their dealings with their deities. In a general way it may be held that the idea of practical acceptableness of the food or valuables presented to the deity, begins early to shade into the sentiment of divine gratification or propitiation by a reverent offering, though in itself of not much account to so mighty a divine personage. These two stages of the sacrificial idea may be fairly contrasted, the one among the Karen9 who offer to a demon arrack or grain or a portion of the game they kill, considering invocation of no avail without a gift,' the other among the negroes of Sierra Leone, who sacrifice an ox " to make God glad very much, and do Kroomen good." 10 La fase dell’abnegazione si ha quando il nucleo del sacrificio non riguarda più tanto la divinità, quanto piuttosto il sacrificante. Si sacrificano allora (sempre agli esseri spirituali) cose che hanno un valore “sostanzioso”, tanto di natura sociale che economica, quanto di natura affettiva. Si inserisce qui l’ “economia del sacrificio” e il principio di sostituzione, nel senso che ciò che si dona in sacrificio può essere scelto secondo le convenienze del caso, sostituendo un essere umano con un animale, un animale di valore con uno meno pregevole, un animale con un vegetale sfino a scegliere come vittima sacrificale una sua rappresentazione (immagine, simbolo ecc.). Nel cristianesimo troviamo sacrifici di animali (nella Grecia contemporanea ad esempio) e “in effigie”, come nel caso degli exvoto, e nella stessa eucarestia. 9 Popolazione del Myanmar (Birmania). Primitive Culture, 393-394. 10 10 “As for sacrificial rites most fully and officially existing in modern Christendom, the presentation of ex-votos is one. The ecclesiastical opposition to the continuance of these thank-offerings was but temporary and partial. In 5th century it seems to have been usual to offer silver or gold eyes, feet, etc., to saints in acknowledgment of cures they had effected. At the beginning of the 16th century, Polydore Vergil, describing the classic custom, e s on to say : " In the same manner do we now offer up our churches sigillaria, that is, little images of wax, and oscilla. As oft as any part of the body is hurt, as the hand, foot, breast, we present1y make a vow to God, and his saints, to whom upon our recovery we make an offering of that hand or foot or breast shaped in wax, which custom has so far obtained that this kind of images have passed to the other animals. Wherefore so for an ox, so for a horse, for a sheep, we place puppets in the temples. In which thing any modestly scrupulous person may perhaps say he knows not whether we are rivalling the religion or the superstition of the ancients." In modern Europe the custom prevails largely, but bas perhaps somewhat subsided low levels of society, to judge by the general use of mock silver and such like worthless materials for the dedicated effigies. In Christian as in pre-Christian temples, clouds of incense rise as of old. Above all, though the ceremony of sacrifice did not form an original part of Christian worship, its prominent place in the ritual was obtained in early centuries. In that Christianity was recruited among nations to whom the conception of sacrifice among the deepest of religious ideas, and the ceremony of sacrifice among the sincerest efforts of worship, there arose an observance suited to supply the vacant place. This result was obtained not by new introduction, but by transmutation. The solemn eucharistic meal of the primitive Christians in time assumed the name of the sacrifice of the mass, and was adapted to a ceremonial in which an offering of food and drink is set out by a priest on an altar in a temple, and consumed by priest and worshippers. The natural conclusion of an ethnographic survey of sacrifice, is to point to the controversy between Protestants and Catholics, for centuries past one of the keenest which have divided the Christian world, on this express question whether sacrifice is or is not a Christian rite”. (pp. 409-10 vol. II). Tylor sembra comunque far capire che ogni fase del sacrificio porta con sé aspetti della fase precedente, aspetti che, nella prospettiva di questo autore, dovrebbero costituire delle “sopravvivenze”, sebbene esse mantengano pur sempre una loro “funzionalità” anche in epoche successive della storia umana. 11 3. Robertson Smith: il sacrificio come rito comunitario Vari anni dopo la pubblicazione di Primitive Culture in cui Tylor aveva esposto la propria idea circa l’origine della religione e la natura del sacrificio, un altro studioso britannico adottò una prospettiva per alcuni importanti aspetti opposta a quello del suo contemporaneo. Lo scozzese William Robertson Smith illustrò le sue idee in materia di religione soprattutto in Lectures on the Religion of the Semites (1889), dove raccolse la sintesi dei sui studi dedicati al rapporto tra società e religione tra i popoli antichi, gli ebrei e gli arabi preislamici. Benché evoluzionista come Tylor, Robertson Smith partì da premesse diametralmente opposte a quelle di molti suoi contemporanei, Tylor compreso. Al contrario di Tylor, che aveva individuato la fase aurorale della religione in un’ attitudine riflessiva dell’individuo (la spiegazione del doppio e del fantasma), Robertson Smith si concentrò sulla dimensione sociale e collettiva della religione, e in particolare sull'attività rituale che, secondo lui, costituiva il dato essenziale da cui partire. Alla teoria della religione come risultato di uno sforzo intellettuale teso a comprendere la realtà, Smith contrappose l'idea secondo cui il dato primario di ogni esperienza religiosa sono i riti e i simboli ad essi correlati. Tali riti e simboli sono condivisi dai membri di una determinata comunità i quali, nascendo all’interno di una determinata società, li trovano già presenti ed attivi. Proprio perché mirò a elaborare una teoria dei rapporti tra religione e società, Smith privilegiò nettamente la dimensione dell'azione sociale su quella della rappresentazione intellettuale. E in effetti non c’è azione, nella religione, che non si esprima essenzialmente nei riti. La derivazione del mito dal rito E’ in questa prospettiva che va intesa la discussione del rapporto tra rito e mito, considerati da molti studiosi di allora (ma non solo) l’ uno come l’effetto dell’altro, cioè il rito come prodotto del mito. Per Smith il rapporto doveva essere rovesciato. Il rito non era una traduzione del mito, perché mentre un certo rito appare costante, il 12 mito che lo spiega può essere diverso da luogo a luogo. Questo non voleva affatto dire che per Smith gli esseri umani compivano riti come gesti meccanici, indipendentemente cioè dal loro significato, ma che, essendo la religione antica (pre-monoteista) priva di veri e propri dogmi della fede, la religiosità si concretizzava innanzitutto nell’adempimento di atti di culto ritenuti appropriati dalla comunità intera.11 (v. anche più avanti nota n. 7). Scrive Smith: “Commetteremmo un errore assai grave se dessimo per scontato che ciò che è per noi l’aspetto più importante e rilevante della religione lo fosse stato anche nella società antica di cui stiamo trattando. In relazione ad ogni società, antica o moderna che sia, troviamo la presenza da un lato di certe credenze e, dall’altro, di certe istituzioni, pratiche rituali e regole di condotta. L’abitudine di noi moderni è di guardare alla religione dal punto di vista delle credenze piuttosto che da quello delle pratiche […..] Di conseguenza lo studio della religione è coinciso con lo studio delle credenze cristiane, dove l’istruzione religiosa ha d’abitudine inizio con la professione di fede, e nella quale i doveri religiosi sono presentati al discepolo come se discendessero dalle verità dogmatiche che gli si insegna ad accettare [….] Le antiche religioni erano per lo più prive di fede. Consistevano interamente di istituzioni e di pratiche. Certamente gli uomini non seguivano d’abitudine alcune pratiche senza collegare ad esse un qualche significato; ma di regola constatiamo che mentre la pratica era rigorosamente fissata, il significato ad essa connesso era estremamente vago, e il medesimo rito era spiegato da persone diverse in maniera differente, senza che di conseguenza venisse sollevata una questione di ortodossia o eterodossia in materia. Nell’antica Grecia, ad esempio, certe cose venivano fatte in un tempio, e la gente concordava sul fatto che sarebbe stato empio non farle. Ma se aveste chiesto perché erano fatte, avreste probabilmente ricevuto molte diverse risposte contraddittorie da individui differenti, e nessuno avrebbe pensato che il fatto di sceglierne una piuttosto che un’altra avrebbe avuto un significato religioso E’ però molto importante introdurre delle precisazioni. A volte il rito serve a riattualizzare il mito, se per mito si intende una narrazione “sacra” dotata di un potere di significazione attuale. Qui riattualizzare significa “riportare all’attenzione agendo” la rappresentazione centrale del mito. Per esempio i rituali orgiastici dionisiaci con consumo di carni animali crude, che rimettevano in scena lo smembramento del corpo di Dioniso da parte dei Titani; l’Eucaristia cristiana dove i fedeli assumono il corpo di Cristo in memoria dell’ultima cena; il rito musulmano dello sgozzamento del montone nel giorno dello ‘Id al Kabir (X giorno del mese di Pellegrinaggio) in “ricordo” del sacrificio (poi non compiuto grazie all’intervento divino) di Isacco (Ismaele per i musulmani) da parte del padre Abramo. Si tratta di riattualizzazioni così come le abbiamo definite. Tuttavia anche quanti compiono una riattualizzazione rituale di un mito difficilmente conoscono una versione unica del mito, a meno che questo non sia codificato in un testo scritto (e anche in questo caso molti fedeli hanno una conoscenza diversificata e ineguale del testo). 11 13 inferiore. La verità è che le diverse spiegazioni avanzate non erano di quelle che suscitano sentimenti particolarmente forti; poiché in molti casi esse sarebbero coincise con storie diverse riguardanti semplicemente le circostanze in cui il rito venne stabilito per la prima volta per un ordine o un esempio direttamente dato dalla divinità. Il rito, insomma, non era connesso con un dogma, ma con un mito.[…..] In certe serie di miti la credenza non era considerata obbligatoria in quanto parte della vera religione, né si riteneva che, per il fatto di credere, un uomo acquistasse un qualche merito religioso e si conciliasse il favore degli dèi. Obbligatorio e meritorio era l’espletamento preciso di certi atti sacri previsti dalla tradizione religiosa. Stando così le cose, ne consegue che la mitologia non doveva avere quel posto preminente che le è così spesso assegnato nello studio scientifico delle antiche religioni. Sebbene i miti consistano in spiegazioni del rituale, il loro valore è tuttavia secondario, e si può affermare con sicurezza che in quasi tutti i casi il mito era derivato dal rituale, e non il rituale dal mito; questo perché il rito era fisso e il mito variabile; il rito era obbligatorio mentre la credenza nel mito era a discrezione del credente. Ora, la grandissima maggioranza dei miti delle religioni antiche era connesso coi riti di certi santuari, o con i comandamenti religiosi di tribù e regioni particolari. In tutti i casi del genere è probabile, e nella maggior parte di essi è sicuro, che il mito è la semplice spiegazione dell’usanza religiosa; e che di solito si tratta di una spiegazione tale che non avrebbe potuto emergere finché il significato originario della pratica non fosse più o meno caduto nell’oblio. Di regola il mito non costituisce la spiegazione dell’origine del rituale per chiunque non creda che si tratti del racconto di fatti realmente accaduti, e il più temerario studioso di mitologia non lo crederà di certo. Ma se non è vero, il mito stesso richiede una spiegazione, e qualunque principio della filosofia e del senso comune richiede che la spiegazione vada ricercata non in arbitrarie teorie allegoriche, ma nei fatti reali riguardanti il rito o le pratiche religiose a cui il mito è collegato. La conclusione è che nello studio delle religioni antiche dobbiamo cominciare non con il mito, ma con il rito e con la pratica tradizionale”12. La dimensione collettiva e pubblica del fenomeno religioso, che Smith antepone anche storicamente alla dimensione individuale, riflessiva e sistematica13, si rivela negli atti di devozione che coinvolgono l’intera società, e cioè in quelli che egli chiama riti comunitari. Attraverso lo studio del materiale biblico, rivelatore Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp. 16-18. Per Robertson-Smith, come per altri evoluzionisti suoi contemporanei, i processi di individualizzazione in ogni campo (matrimonio, economia, religione ecc.) erano il frutto di un processo di progressiva affermazione della persona in quanto entità giuridicamente distinta dalla comunità, riflesso asua volta della “maturazione” delle facoltà intellettuali degli esseri umani. 12 13 14 dell'esistenza di una religione a tinte fortemente comunitarie (“nazionali”), Smith giunse a sostenere l'esistenza di una sostanziale omologia tra attività religiosa e rituale da un lato e identità politica e sociale dall'altro. Affermando che, nella società arcaica, "la religione di un uomo è un elemento integrante delle sue relazioni politiche" (1889:36), Smith sottolineava come il fatto di conformarsi o meno ai rituali pubblici fosse il segno dello stato dei rapporti tra gli individui e tra l’individuo e la comunità. Ciò era rivelatore della natura "sociale" della religione e della sua funzione di elemento coesivo della società. La religione appariva così un fattore regolativo dei rapporti sociali in quanto, attraverso l'adesione ai rituali pubblici, spingeva gli individui a conformarsi agli standard di comportamento collettivi. Al tempo stesso, però, la religione rappresentava un elemento coesivo poiché, riunendo periodicamente gli individui a scopi rituali, rafforzava nei partecipanti, mediante i riti stessi, il senso di appartenenza ad un unico corpo sociale. In tal modo la religione non appariva più come il prodotto di un atteggiamento speculativo, ma neppure come il frutto di un bisogno spirituale dell’individuo in quanto tale. Per Smith le credenze erano sì qualcosa di illusorio (come in Tylor), ma non coincidevano con delle preoccupazioni intellettuali: esse erano piuttosto chiamate a rispondere alle necessità pratiche della vita. La religione, sostenne Smith, è qualcosa che esiste "non per la salvezza delle anime, ma per la conservazione e il benessere della società" (1889: 29). Il sacrificio Smith, cercò di fortificare queste sue ipotesi attraverso lo studio dell'istituzione del sacrificio tra i popoli semitici, presso i quali egli riteneva di poter rintracciare le “sopravvivenze” (egli le chiamava relics) di fasi ancora anteriori. L'istituzione del sacrificio in favore della divinità non era, sostenne Smith, un dono rivolto ad una potenza sovrastante allo scopo di ingraziarsela. Contro Tylor che aveva avanzato l’idea che il sacrifico fosse un dono agli esseri spirituali, Smith propose la teoria secondo 15 la quale il sacrificio era un rituale di comunione tra gli esseri umani e la divinità. 14 Egli infatti scrive: “Qualunque atto di culto, per essere veramente completo – un semplice voto non poteva essere considerato tale finché non veniva pronunciato accompagnandolo con un sacrifico – aveva un carattere pubblico o quasi pubblico. La maggior parte dei sacrifici venivano offerti a periodi fissi, nelle grandi feste collettive o di carattere nazionale, ma anche un’offerta privata era considerata incompleta senza la presenza di ospiti e senza che i resti delle carni sacrificali, anziché essere vendute, fossero distribuite con grande generosità. Pertanto qualunque atto di culto esprimeva l’idea secondo cui l’individuo non vive per sé stesso ma solo per i suoi simili, e che questa comunanza di interessi è la sfera su cui vegliano le divinità e a cui queste ultime dispensano la loro benedizione. Il significato etico che va dunque attribuito al pasto sacrificale, considerato come un atto sociale, ricevette un’enfasi particolare per via di certe abitudini e di certe idee connesse con gli atti del mangiare e del bere. Secondo le idee anticamente connesse con tali atti, coloro che mangiano e bevono insieme sono, per il fatto stesso di compiere tali atti in comune, legati da amicizia e obbligazione reciproca. Di conseguenza, quando troviamo, nelle religioni antiche, che tutte le funzioni ordinarie di culto sono riassunte nel pasto sacrificale, e che il normale rapporto tra gli dei e gli uomini non riveste altra forma che questa, dobbiamo ricordarci che l’atto di mangiare e di bere insieme è l’espressione solenne e riconosciuta del fatto che coloro che condividono il pasto sono fratelli, e che i doveri dell’amicizia e della fratellanza sono implicitamente riconosciuti nella loro comune azione. Accogliendo l’uomo alla sua tavola, il dio lo accoglie come amico; ma questo favore è esteso non ad un uomo in quanto individuo privato; egli è ricevuto, piuttosto, come un membro della comunità, a mangiare e a bere con i suoi compagni, e nella stessa misura Questa idea della divinità come “nume tutelare” del gruppo era già presente negli studi dello storico francese N. D. Fustel de Coulanges (1830-1889). Ne la La cité antique del 1864, uno studio comparato sull’origine delle istituzioni politico-religiose di Atene e di Roma, Fustel de Coulanges sostenne che la società era all’inizio fondata su basi teocratiche. La discendenza comune e la co-territorialità, sebbene elementi fondamentali nella costituzione della comunità politica (la città), erano tuttavia secondarie rispetto al culto comune delle divinità tutelari. Gli stessi legami parentali, primo vincolo «politico» tra gli esseri umani, erano ciò che consentiva di assicurare la continuità del culto domestico, ed erano pertanto secondari (benché funzionali) rispetto a quest’ultimo. Si era “parenti” innanzitutto perché si tributava un culto ad un antenato comune. Tali idee, unitamente a quelle di Smith sul sacrificio, sarebbero confluite poi ne Le forme elementari della vita religiosa di Émile Durkheim. In questo libro del 1912, fondato in larga misura sull’etnografia allora disponibile, Durkheim presentò la sua teoria del culto del totem come celebrazione dell’unità del clan e forma aurorale di religione, facendo del rapporto tra il totem e il clan il punto di partenza della sua visione dei rapporti tra società e religione. 14 16 in cui l’atto di culto cementa il legame tra lui e il suo dio, tale atto cementa anche il legame tra lui e i suoi fratelli in una fede comune. Abbiamo così raggiunto un punto della nostra discussione a partire dal quale è possibile tentare una stima generale del valore etico del tipo di religione che è stato descritto. Il potere della religione sulla vita è duplice: da un lato tale potere consiste nella associazione di essa con particolari norme di condotta a cui assegna delle sanzioni sovrannaturali; ma soprattutto tale potere consiste nel determinare il tono generale e la tempra delle menti degli individui, che in tal modo vengono spronate al coraggio e a più alti ideali, e le eleva al di sopra della brutale servitù nei confronti dei istinti fisici insegnando agli uomini che la loro vita e la loro felicità non sono il semplice trastullo delle cieche forze della natura, ma che un potere più alto li sorveglia e si prende cura di loro. In quanto fonte ispiratrice di comportamento, questa influenza è più potente della paura nelle sanzioni sovrannaturali, dal momento che funge da stimolo, mentre quest’ultima è semplicemente regolativa15”. Il rituale di comunione per eccellenza era il sacrificio nel quale il dio era chiamato a partecipare, come commensale, alla tavola degli uomini che, nell’atto comune del mangiare e del bere, trovavano l’occasione per rinsaldare la propria alleanza, tra loro e con la divinità rappresentativa dell’unità stessa (il prototipo di questa divinità è lo Yahvé, degli antichi israeliti). Come molti suoi contemporanei, Smith non poté sottrarsi al problema di ricostruire le origini del sacrificio. Benché partito da posizioni “sociologiche” e non “intellettualistiche”, Smith ragionò molto spesso come il suo collega Tylor. Ciò è chiaramente visibile nella ricostruzione che egli fa dell’origine del totemismo e delle sue relazioni con il sacrificio inteso come rito collettivo. Smith riteneva infatti, come altri (ma non Tylor, come abbiamo visto), che la prima forma di religione fosse il totemismo, cioè il culto tributato da un gruppo a un essere animale o vegetale con il quale il gruppo stesso si autoidentificava.16 Questa identificazione era una conseguenza dell’usanza dell’orda primitiva di consumare un cibo in comune, pianta o animale che fosse. Consumando ad esempio la carne dello stesso animale, gli esseri umani ebbero la sensazione di essere partecipi della medesima sostanza e quindi di essere non solo Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp. 264-66. L’idea del totemismo come prima forma di religione gli veniva da un altro studioso scozzese, J. F. Mc Lennan che, nel 1869, aveva pubblicato un importante lavoro proprio su questo argomento. 15 16 17 “parenti” tra loro, ma anche “parenti” dell’animale. Poiché un pasto comune non può mantenere per un tempo indeterminato questa comunanza tra uomini da un lato, e tra questi ultimi e l’animale dall’altro, il consumo della sostanza comune doveva essere ripetuto periodicamente per rinnovare nel tempo il legame comunitario tra gli umani stessi e tra questi ultimi e l’animale. L’idea che tutti partecipavano, per incorporazione, della stessa sostanza, rafforzava l’idea di comunione e, al tempo stesso, consolidava l’identificazioni degli umani con l’animale in questione. Di qui la convinzione, tipica della religione totemica, che un gruppo umano sia parente del suo totem, o animale (o vegetale), da cui prende il nome. Scrive infatti Smith: “In the course of the last lecture we were led to look with some exactness into the distinction drawn in the later ages of ancient paganism between ordinary sacrifices, where the victim is one of the animals commonly used for human food, and extraordinary or mystical sacrifices, where the significance of the rite lies in an exceptional act of communion with the godhead, by participation in holy flesh which is ordinarily forbidden to man. Analysing this distinction, and carrying back our examination of the evidence to the primitive stage of society in which sacrificial ritual first took shape, we were led to conclude that in the most ancient times all sacrificial animals had a sacrosanct character, and that no kind of beast was offered to the gods which was not too holy to be slain and eaten without a religious purpose, and without the consent and active participation of the whole clan. For the most primitive times, therefore, the distinction drawn by later paganism between ordinary and extra-ordinary sacrifices disappears. In both cases the sacred function is the act of the whole community, which is conceived as a circle of brethren, united with one another and with their god by participation in one life or life-blood. The same blood is supposed to flow also in the veins of the victim, so that its death is at once a shedding of the tribal blood and a violation of the sanctity of the divine life that is transfused through every member, human or irrational, of the sacred circle. Nevertheless the slaughter of such a victim is permitted or required on solemn occasions, and all the tribesmen partake of its flesh, that they may thereby cement and seal their mystic unity with one another and with their god. In later times we find the conception current that any food which two men partake of together, so that the same substance enters into their j flesh and blood, is enough to establish some sacred unity of life between them; but in ancient times this significance seems to be always attached to participation in the flesh of a sacrosanct victim, and the solemn mystery of its death is justified by the consideration that only in this way can the sacred cement be procured which creates or keeps alive a living bond of union between the worshippers and their god. This 18 cement is nothing else than the actual life of the sacred and kindred animal, which is conceived as residing in its flesh, but especially in its blood, and so, in the sacred meal, is actually distributed among all the participants, each of whom incorporates a particle of it with his own individual life. The notion that, by eating the flesh, or particularly by drinking the blood, of another living being, a man absorbs its nature or life into his own, is one which appears among primitive peoples in many forms […]” 17 Il sacrificio di comunione presente nelle religioni pre-monoteiste e monoteiste sarebbe dunque lo sviluppo di questa prima fase originaria in cui, comunque, al centro delle preoccupazioni umane vi era quella di rinsaldare continuamente i legami tra i membri della comunità, e tra questi e il nume tutelare (è qui che la dimensione sociologica di Smith prende il sopravvento sull’impostazione intellettualistica del ragionamento). Molti critici posteriori hanno fatto notare, come vedremo, che per quanto riguarda l’idea del sacrificio di comunione, come atto fondante e rinnovante la comunità, la prospettiva di Smith era influenzata dalla prospettiva cristiana e dal rito dell’eucaristia in particolare. Questa distorsione prospettica, certamente presente nella sua opera (dopotutto era un evoluzionista), è bilanciata tuttavia dal merito di aver posto l’accento sulla religione non solo come mera speculazione, ma come qualcosa di sociale, di collettivo, e quindi morale. Inoltre Smith diede importanza al rito come a serie di atti concreti in cui si rinnovano continuamente i principi che stanno alla base della società e del rapporto di questa con le proprie divinità tutelari. Da ultimo, Smith ha avanzato una teoria del sacrificio che superava l’idea di quest’ultimo come semplice dono alla divinità. L’idea del dono non è certamente assente dalle pratiche sacrificali, come abbiamo visto, ma ne è solo un aspetto, e talvolta nemmeno sempre il più importante. In fondo quella di Smith era una teoria che non riduceva la religione a mera speculazione, ma faceva di essa ciò che pochi anni più tardi i sociologi francesi H. Hubert, M. Mauss e E. Durkheim (che si ispirarono a Smith, pur criticandolo) avrebbero definito “un fatto sociale”18. Lectures, pp. 312-13. Vale la pena di ricordare anche come in Smith si ha un “superamento” della tesi in base alla quale il culto sarebbe stato originato dalla paura in esseri sovrumani (incarnazione delle potenze naturali) e una “frottola” architettata dai sacerdoti a scopi politici. Angoscia, paura, 17 18 19 Un ultimo punto a cui prestare attenzione, anche se certamente Smith lo enunciò in forma assai indiretta, è l’idea della violenza come atto fondativo della società e della cultura (Freud – che aveva letto Smith - in Totem e tabù del 1913 enunciò una teoria psicoanalitica dell’origine della religione, della cultura e dell’esogamia che riprendeva proprio questa idea di violenza iniziale). Per Smith infatti, nell’uccisione dell’animale, poi animaletotem, e quindi nel suo sacrificio, gli esseri umani si riconobbero per la prima volta come membri di un gruppo e come “parenti” tra loro. 4. Il sacrificio come “consacrazione”: H. Hubert e M. Mauss Ricollegandoci a quanto abbiamo visto nel paragrafo 1, e in particolare alla nozione di sacro, possiamo esaminare una delle più importanti teorie del sacrificio. Henry Hubert e Marcel Mauss dedicarono al tema un’opera specifica, il Saggio sulla natura e funzione del sacrificio, pubblicato circa dieci anni dopo il lavoro di Robertson Smith, nel 189819. Questi due autori erano allievi di Emile Durkheim, ma non c’è dubbio che molte delle idee confluite poi nell’opera più celebre del grande sociologo francese, Le forme elementari della vita religiosa (1912) provenissero dalla loro riflessione. Nello studio del 1898 Hubert e Mauss intrapresero una critica delle precedenti teorie del sacrificio, e in particolare di quella di Robertson Smith. Pur riconoscendo a Roberston Smith di aver compiuto un progresso rispetto a Tylor, essi ne criticavano la comune impostazione evoluzionistica per cui, come scrivevano, “Roberston-Smith si è soffermato a raggruppare genealogicamente i fatti secondo i rapporti di analogia che credeva scorgere fra di essi” (p. 15). L’impostazione data da Mauss e Hubert al problema consisteva invece di enucleare le forme elementari del sacrificio, ossia quei tratti fondamentali che, al di là della grande apparente diversità, potevano essere ritenuti comuni a questo tipo di rituale. Essi, si senso di inadeguatezza, così come potere autorità e manipolazione politica sono dimensioni inerenti a qualunque “religione”, ma Smith insistette, dal suo punto di vista, soprattutto sulla funzione coesiva ed etica svolta dalla religione sul piano sociale. 19 Hubert, H. e Mauss, M. Saggio sulla natura e funzione del sacrificio, Morcelliana, Brescia 2002. 20 potrebbe dire, partirono alla ricerca di una struttura comune a tutti i riti sacrificali. Mauss e Hubert iniziano con una definizione formale di sacrificio. Essi precisano a) che la cosa sacrificata è sempre consacrata, cioè rivestita di un’aura di sacralità, e che b) questa stessa cosa funge da intermediario tra colui o coloro che devono beneficiare del sacrificio e la divinità alla quale il sacrificio viene rivolto. Ma ciò non basta, secondo loro, a definire compiutamente il sacrificio. Infatti vi sono offerte di cose che non vengono distrutte e offerte di cose che vengono distrutte, in parte o totalmente. E’ solo in quest’ultimo caso che si può parlare di sacrificio, ossia quando c’è, diremmo noi, un atto violento esercitato su quella cosa che funge da intermediario tra l’uomo e la divinità. Per Mauss e Hubert il sacrificio si presenta come “un atto religioso che, mediante la consacrazione della vittima, modifica lo stato della persona morale che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa” (p. 22)20. Esistono sacrifici personali e sacrifici oggettivi. I primi sono quelli in cui è toccata la persona che officia il sacrificio stesso. I secondi sono quelli in cui sono degli oggetti,reali o ideali, a ricevere direttamente i benefici dell’azione sacrificale (un campo, una casa, un tempio ecc.). Esiste dunque un’unità dei sistemi sacrificali ma questa non può risiedere, come invece ritenevano Tylor (dono) o Smith (comunione) in qualcosa di sostanziale: essa risiede invece in qualcosa di formale, in una struttura relazionale tra termini, i cui effetti sono la modificazione dello “stato morale” del beneficiario e/o dell’officiante. Abbiamo dunque la vittima (che viene consacrata), degli officianti (il cui stato morale viene modificato) così come dei beneficiari che acquisiscono i vantaggi dell’atto sacrificale e vengono quindi modificati anch’essi “moralmente”. Il saggio di Hubert e Mauss si ispira a principi comparativi che sono differenti da quelli dei loro predecessori evoluzionisti: Anziché “raggruppare genealogicamente i fatti secondo i rapporti di analogia che si crede poter scorgere fra di essi” (come dicevano di Robertson-Smith) i due studiosi francesi si limitano ad esaminare in Il termine “morale” indica in questo caso la sua condizione sociale di fronte agli altri componenti di una comunità. 20 21 dettaglio il sacrificio vedico (India classica) e il sacrificio biblico, corredando questo nucleo di dati relativi a due grandi religioni (l’induismo e il giudaismo) e ad integrare tale nucleo con qualche osservazione proveniente dal repertorio antico-classico ed etnografico contemporaneo. La struttura fondamentale del sacrificio che essi delineano prevede la progressiva ascesa della vittima e del sacrificante dallo stato profano ad uno stato di sacralità che culmina con la distruzione della vittima stessa e con un progressivo ritorno di vittima e sacrificante allo stato profano: il sacrificante riprendendo il suo normale ruolo nella società, la vittima sotto forma di bene d’uso se viene consumata o come puro resto materiale se viene completamente distrutta. Potremmo tradurre in un grafico quanto appena detto. La vittima e il sacrificante ascendono verso il sacro percorrendo la linea curva di sinistra (il fatto che la linea sia curva indica che essi vengono accostati al sacro lentamente con rituali specifici). Raggiunto il culmine del rituale sacrificale con la distruzione della vittima, quest’ultima e il sacrificatore “precipitano” ritornando alla loro condizione profana (linea diritta di destra), ciascuno dei due tornandovi però in maniera diversa. La vittima come “cosa”, il sacrificatore come individuo che “ha qualcosa in più di prima” (il sacro) di cui si deve liberare (in quanto pericoloso) o che deve tenere su di sé “addomesticandolo” attraverso rituali particolari. La vittima diventa così un “medium” per comunicare con il sacro, un intermediario per mettere, essi dicono, in comunicazione il profano con il sacro: “Nel caso dell'offerta la comunicazione si fa ugualmente attraverso un intermediario ma non vi è distruzione. Invero, una consacrazione troppo forte può avere gravi conseguenze, anche quando non è distruttiva. Tutto ciò che è 22 profondamente inserito nell'ambito religioso è, per ciò stesso, separato dal mondo profano: più un essere è impregnato di religiosità e più si carica di interdizioni che lo isolano….. D'altro canto, tutto quanto entra in contatto troppo intimo con le cose sacre assume la loro natura e diviene ugualmente sacro. Ora, il sacrificio è compiuto da profani; l'azione che esso esercita sulle persone e sugli oggetti è finalizzata a mettere queste persone e questi oggetti nello stato di svolgere il loro ruolo nella vita temporale. Le une e gli altri possono entrare con vantaggio nel sacrificio alla sola condizione di poterne uscire. I riti di uscita servono in parte a questo scopo: essi attenuano l'effetto della consacrazione; ma da soli, non sarebbero in grado di attenuarlo sufficientemente qualora la consacrazione fosse stata troppo intensa. L’importante è quindi che il sacrificante o l'oggetto del sacrificio non la ricevano che smorzata, vale a dire in maniera indiretta. Questa è la funzione dell'intermediario: grazie al quale i due mondi presenti possono compenetrarsi l'uno l'altro, pur rimanendo distinti.” Centrale, in questo schema del sacrificio proposto da Hubert e Mauss è la coppia concettuale sacro/profano. Alla base di questa distinzione vi è l’idea, da allora e poi per molto tempo diffusa nella teoria antropologica, secondo cui il mondo – e quello dei popoli “primitivi” in particolare - sarebbe percepito come diviso concettualmente in due sfere di esperienza. Al profano appartiene l’esperienza sensibile o, si potrebbe meglio dire, il mondo della prevedibilità, della predittività naturale e della progettualità umana. Al sacro appartiene invece tutto ciò che non rientra della sfera del profano, e quindi tutto ciò che sta di là dei poteri umani.21 In base a questa visione dicotomica della realtà, ogni variazione, o passaggio, da una condizione all’altra provocherebbe un’alterazione nell’equilibrio delle forze che sono alla base della stabilità del mondo medesimo (umano e naturale). Per quanto desueta sotto molteplici aspetti (per esempio l’idea di un mondo primitivo totalmente immerso nella dimensione del sacro), questa teoria si rivelò perspicua in relazione alla struttura dei rituali che, come mise in luce Arnold Van Gennep nel suo libro I riti di Durkheim, ne Le forme elementari della vita religiosa (1912) definirà addirittura il sacro come l’insieme delle “cose separate, intedette”, le quali sono oggetto di credenze e di pratiche collettive (di qui la celebre definizione di religione come “sistema solidale di credenze e di pratiche relative a cosa sacre, cioè separate, interdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata Chiesa (nel senso di ecclesia, comunità) tutti quelli che vi aderiscono” (p.97). 21 23 passaggio (1909), si articolano in tre fasi. Tali fasi sarebbero un modo per controllare i “passaggi” di condizione (sociale o spirituale) che si hanno sempre in tutte le società: uscita da una condizione, di sospensione e di riaggregazione alla nuova condizione. Accostarsi al sacro vuol dire dunque abbandonare uno stato di prevedibilità per avvicinarsi a qualcosa di imprevedibile, vietato, pericoloso. Lo si potrà fare solo prendendo le debite misure, perché chiunque pretenda di accostarsi al sacro senza precauzioni, può essere involontariamente responsabile dello scatenamento di forze "ambigue", pericolose e diffuse capaci di mettere a repentaglio non solo la vita di chi compie l’azione, ma anche l’ordine fisico del mondo e quello “morale” della società. La teoria del sacrificio di Hubert e Mauss si fonda dunque da un lato sulla dicotomia sacro/profano e, dall’altro lato, sulla ritualizzazione che consente la sacralizzazione dell’officiante e della vittima grazie alla quale gli umani possono accostarsi senza pericoli alla divinità (sacra) per trarne un beneficio (profano). Un aspetto saliente della loro teoria è che la vittima e il sacrificante vengono quasi a fondersi per il fatto che entrambi devono essere sacralizzati. Il processo di sacralizzazione della vittima giunge al culmine nel momento in cui è distrutta, cioè quando, secondo Hubert e Mauss, il sacro che si è per così dire “accumulato” nella vittima mediante il rito di sacralizzazione, la lascia per raggiungere definitivamente la sfera che gli è propria, quella del sacro come opposto al profano. Di qui la spiegazione del fatto che gli esseri sacrificato sono, dopo distrutti, esseri profani che possono, nel caso, essere consumati dagli esseri umani. Il sacro come fatto sociale Hubert e Mauss si muovono nell’area di pensiero tipica della scuola di Durkheim. Essi condividevano tutti una teoria proiettiva della religione. La religione è secondo costoro la “proiezione” di fatti sociali in una sfera immaginaria, superna. La teoria durkheimiana della religione (Le forme elementari della vita religiosa, 1912) vede quest’ultima come una “metafora sacralizzata della società”, per cui la dipendenza che gli esseri umani elaborano nei confronti delle 24 loro divinità sono in realtà frutto della sensazione, largamente inconsapevole, che la loro esistenza in quanto singoli è possibile solo per l’esistenza di una società (altri esempi classici di teorie proiettive della religione sono quelle di Feuerbach e di Freud). Il sacro, sebbene “separato” dal profano, non è un’entità statica (per quanto le religioni lo pensino come tale), perché è la società che si trasforma, che registra dei cambiamenti. Il sacro, come la società di cui è una proiezione, è sempre in movimento, cambia cioè a seconda dell’orientamento sociale. Ciò che più conta per la società (dal punto di vista della sua coesione) diventa, secondo questi autori, sacro. Nel 1906 Hubert e Mauss., in una rivisitazione del loro saggio del 1898, scrissero: “Dicevamo che le cose sacre sono cose sociali [nel senso che ciò che è sacro è per natura condiviso in quanto riconosciuto tale da una società o da un gruppo sociale]. Ora andiamo anche oltre e diciamo che, a nostro avviso, è concepito come sacro tutto ciò che, per il gruppo e i suoi membri, qualifica la società. Man mano che gli dei escono dal tempio per diventare cose profane ecco che cose umane ma sociali come la patria, la proprietà, il lavoro, la personalità umana vi fanno ingresso una a seguito dell’altra”22 Le trasformazioni del sacrificio Benché per molti aspetti fossero lontani dalle posizioni degli evoluzionisti che li avevano preceduto, Hubert e Mauss, come tutti i durkheimiani, ritenevano possibile tracciare una linea di trasformazione delle istituzioni religiose, la quale seguiva grosso modo le trasformazioni delle società di cui erano, in fondo, la “proiezione”. Queste trasformazioni non seguivano una linea definita, ma potevano assumere aspetti diversi a seconda delle circostanze storiche e sociali specifiche. Queste “diramazioni” nell’evoluzione del sacrificio portano Hubert e Mauss a esplorarne gli aspetti più diversi ai quali sottosta non solo la struttura fondamentale di tutti sacrifici, ma sotto i quali si celano Hubert H. e Mauss M. L’origine dei poteri magici e altri saggi di sociologia religiosa, Newton Compton, Roma 1977, p. 19 (ed. or 1906). 22 25 rappresentazioni diffuse del rapporto tra umani e esseri sovrannaturali. Un tema considerato dai due autori è per esempio, quello del sacrificio come espulsione del male dalla comunità. Ricollegandosi ai riti di espiazione tra gli ebrei (il capro espiatorio), essi mostrano come i rituali che circondano nell’induismo il dio Rudra, divinità delle greggi, si basino su principi analoghi e mettano addirittura in scena i prodromi del sacrificio della divinità medesima. “Vi è però un caso in particolare in cui appare chiaro che il carattere che viene cosi eliminato è essenzialmente religioso: è quello del toro allo spiedo, vittima espiatoria del dio Rudra. Rudra il padrone degli animali, colui che ha il potere di distruggere animali e uomini con la peste e con la febbre; è dunque un dio pericoloso. Dio del bestiame, è presente entro il gregge e contemporaneamente lo circonda e lo minaccia. Per allontanarlo, lo si concentra sul più bello dei tori del gregge, che diventa esso stesso Rudra; viene allevato, consacrato come tale e gli si rende onore. Poi, almeno secondo alcune tradizioni, lo si sacrifica fuori dal villaggio, a mezzanotte, in mezzo al bosco e in tal modo Rudra è eliminato. Rudra degli animali è andato a raggiungere il Rudra dei boschi, dei campi e dei crocicchi. Lo scopo del sacrificio dunque I'espulsione di un elemento divino”. Secondo Hubert e Mauss infatti l’identificazione del toro con Rudra e la sua uccisone sembrano prefigurare l’idea, tipica di molte religioni, del sacrificio del dio. Per Hubert e Mauss l’idea del sacrificio del dio è tuttavia chiaramente individuabile, al suo stato aurorale, in alcuni riti agrari arcaici e moderni (essi fanno riferimento al folklore europeo). I riti agrari, compiuti stagionalmente, hanno un significato preciso, quello di rinnovare la fertilità della terra dispensatrice di sostentamento per gli umani. I riti agrari appartengo alla categoria dei sacrifici “oggettivi” (v. sopra). Essi non riguardano cioè gli esseri umani come tali, ma le cose, in questo caso i campi, le messi ecc. I riti agrari sono finalizzati a: 1) riprodurre la fertilità della terra e 2) superare i divieti che impediscono agli umani di prendere “impunemente” dalla terra i suoi frutti. I riti agrari infatti non hanno solo lo scopo di “aiutare” la terra a produrre, ma anche di consentire agli umani di prelevare i suoi frutti. 26 Gli umani sanno ovviamente che la terra dà i suoi frutti solo se lavorata da loro, ma sanno anche che il loro lavoro non darà frutti se la terra non sarà “consenziente”. Dietro questa idea vi è evidentemente una concezione del rapporto uomo-natura molto diversa da quella che dall’età moderna e dalla rivoluzione industriale in poi in maniera particolare, si è elaborata in Europa circa tale rapporto. 23 La terra si presenta infatti come animata da una “forza” che viene pensata in forma di “spiriti”. Questi rimangono “latenti” nelle stagioni improduttive per risvegliarsi con la stagione della fioritura. Tali spiriti, oltre che essere alla base della fruttificazione dei vegetali sono anche i loro “guardiani” che, in quanto tali, vanno “bloccati” e, al tempo stesso, “fissati” alla terra affinché quest’ultima possa dare i suoi frutti. “I sacrifici agrari hanno un duplice scopo: prima di tutto sono destinati a permettere agli uomini di lavorare la terra e di utilizzare i suoi prodotti, liberandoli dalle interdizioni che li proteggono. In secondo luogo, sono un modo di rendere fertili i campi coltivati e di conservare la loro vita quando, dopo il raccolto, appaiono spogli e come morti. La terra e i suoi prodotti, infatti, sono considerati eminentemente cose vive. Vi è in essi un principio religioso che è latente durante l'inverno, ricompare in primavera, si manifesta nel raccolto e, per tale motivo, lo rende ai mortali pericoloso da avvicinare. Talvolta, persino, questo principio lo si rappresenta come uno spirito che monta la guardia intorno alle terre e ai frutti; questi gli appartengono e tale Un caso contemporaneo potrebbe gettare un po’ di luce sull’atteggiamento che le popolazioni rurali di cui parlano Hubert e Mauss potevano aver avuto nei riguardi della terra. Le attività agricole dei contadini di Bijapur (India) sono ad esempio ancora oggi condotte nell’ osservanza di un calendario rituale che ha per oggetto la terra. L’uso della terra è guidato una serie di fattori che, combinati, sono suscettibili di assicurare il benessere alimentare dei contadini. Essi chiamano guna la qualità del suolo; hada la serie di operazioni che, in accordo con il tipo di suolo, la disponibilità di acqua, il periodo dell’anno, la varietà delle sementi ecc. devono essere eseguite in maniera appropriata; e soprattutto hulighe, o “abbondanza concessa”, ciò che si riferisce ai raccolti concessi loro, appunto, dalla terra. Hulighe (abbondanza concessa) indica dunque la produttività della terra ma non riflette un orientamento economicistico. Tale concetto incorpora infatti l’idea che la produttività ha origini “sacre”. È un concetto con forti valenze morali e sociali e che implica l’obbligo di condividere e di donare agli altri membri della comunità. Il concetto di hulighe è difatti strettamente connesso con i riti che fanno della terra la fonte di tale produttività, e della produzione un evento inscritto in un contesto sociale e morale. Tali riti confermano e rinnovano la “forza” (thakat) della terra. L’introduzione di sementi più produttive e la modernizzazione dei sistemi irrigui ha scardinato questo universo “morale” dei contadini di Bijapur. 23 27 appartenenza costituisce la loro santità; bisogna dunque eliminarlo perché il raccolto o l’uso dei frutti diventino possibili. Ma, nello stesso tempo, esso è vita stessa del campo, e, dopo averlo espulso, è indispensabile ricrearlo e fissarlo nella terra di cui costituisce la fertilità. I sacrifici di semplice desacralizzazione possono adempiere al primo di questi scopi, non al secondo. I sacrifici agrari hanno dunque, per maggior parte, effetti molteplici e vi si trovano riunite forme di sacrifici diversi. Essi rappresentano uno dei casi in cui meglio si osserva questa complessità fondamentale del sacrificio sulla quale non insisteremo mai abbastanza”. Affinché lo spirito venga bloccato, cioè messo nell’impossibilità di reagire di fronte al prelievo dei frutti della terra, quest’ultima va “desacralizzata”, ossia resa profana. Invece, per fissare lo spirito alla terra affinché questa continui a produrre, bisogna “sacralizzarla”. E’ quindi necessario compiere due atti opposti: da un lato fare offerte allo spirito (al dio ecc.) per allontanarlo da ciò che gli uomini voglio prendere per sé (desacralizzazione); dall’altro lato bisogna invece aspergere i campi del sangue delle vittime e distribuire i resti della vittima trai coltivatori (sacralizzazione). Spesso un medesimo rito può assolvere ai due scopi. In tal caso lo spirito viene simbolicamente eliminato e al tempo stesso fatto simbolicamente rivivere. Hubert e Mauss citano un caso dal folklore europeo, dove vi era, e in parte ancora vi è, l’usanza di celebrare riti e feste stagionali che simboleggiano la fine dell’anno e l’inizio dell’anno nuovo, oppure il ritorno della primavera. In certe regioni d’Europa un manichino ricoperto di una camicia e simboleggiante lo spirito della vegetazione, veniva interrato al sopraggiungere della primavera. La camicia però era tolta e posta su un albero in fiore simboleggiate l’anno nuovo. Sotterrando il manichino lo si “uccideva”, ma la sua “forza” (o spirito) veniva fatta rivivere ponendo la camicia che lo ricopriva sull’albero. La continuità della vita della vegetazione era in tal modo assicurata, e la morte dello spirito dell’anno agrario vecchio era la condizione per l’arrivo di quello nuovo.24 Questo tema della continuità della vita nonostante la morte si ricollega a quello della morte come condizione per poter pensare la vita e la rinascita, un tema che, come vedremo più avanti, tutte le religioni elaborano indistintamente ancorché in forme anche molto diverse tra loro. 24 28 A giudizio di Hubert e di Mauss l’evoluzione del sacrificio agrario è alla base della concezione del sacrificio del dio. Quest’ultimo infatti è il risultato finale di una evoluzione, e non il punto di partenza dell’evoluzione del sacrifico medesimo. Robertson Smith aveva posto come primo atto sacrificale il sacrificio del totem, quindi il sacrificio della prima forma di divinità : per Hubert e Mauss invece il sacrificio del dio è posteriore al sacrificio al dio. “In ogni sacrificio vi è, un atto di abnegazione, dal momento che il sacrificante si priva di qualche cosa e ne fa dono. Questa abnegazione gli viene spesso persino imposta come un dovere. Il sacrificio infatti non sempre è facoltativo; gli dèi lo esigono. Agli dèi si deve il culto, il servizio, come dice il rituale ebraico; si deve la loro parte, come dicono gli Indù. Tuttavia questa abnegazione, questa sottomissione non sono senza contropartita. Se il sacrificante dona qualche cosa di sé, non dona se stesso; la sua persona la riserva prudentemente. Poiché il motivo per cui dona è, in parte, per ricevere. Il sacrificio si presenta dunque sotto un duplice aspetto: è un atto utile ed è anche un obbligo. Il disinteresse si mescola all'interesse. Questo rende ragione del fatto di averlo spesso inteso sotto forma dì contratto. In ultima analisi, non esiste forse sacrificio che non contenga un qualche cosa di contrattuale. Le due parti in causa scambiano i loro servizi ed ognuna trova il proprio tornaconto. Perché gli dèi, anch'essi, hanno bisogno della profanità. Se non gli fosse riservata una parte delle messi, il dio del grano morirebbe; perché Dioniso possa rinascere, bisogna che, al tempo della vendemmia, il capro di Dioniso venga sacrificato; è il soma che gli uomini offrono da bere agli dèi che li rende forti contro ì démoni. Perché l'essere sacro sussista bisogna lasciargli la sua parte, ed è sulla parte dei profani che viene prelevata la parte per la divinità. Tale ambiguità è insita nella natura stessa del sacrificio e dipende indubbiamente dalla presenza dell'intermediario, e noi sappiamo che senza intermediario non può esservi sacrificio. Questo perché la vittima è distinta dal sacrificante e dal dio, essa li mantiene separati pur unendoli; sacrificante e divinità si avvicinano, ma non si concedono totalmente l'uno all'altra. Vi è un caso tuttavia, nel quale ogni calcolo egoistico è assente. Si tratta del sacrificio del dio. Perché il dio che si sacrifica si dona senza contropartita. Questa volta ogni intermediario è scomparso. Il dio che è nello stesso tempo il sacrificante fa un tutt'uno con la vittima e talvolta anche con il sacrificatore. Tutti i diversi elementi che entrano in gioco nei sacrifici ordinari, in questo caso si integrano gli uni negli altri e si fondono. Inevitabilmente, una tale compenetrazione non è possibile se non per esseri miti ci, vale a dire per esseri ideali. Questo spiega come la concezione di un dio che si sacrifica per il mondo abbia potuto prodursi e sia divenuta, anche per i popoli più civilizzati, più alta e quasi il vertice ideale dell'abnegazione totale. 29 Ma, come il sacrificio del dio non esce dalla sfera immaginaria della religione, così si potrebbe credere che l'intero sistema sia soltanto un gioco di immagini. Le potenze alle quali il fedele si rivolge e per le quali sacrifica i suoi beni più preziosi sembrano essere nulla di positivo. Coloro che non credono vedono in questi riti soltanto vane e costose illusioni e si stupiscono che l'intera umanità si sia accanita a dissipare le proprie forze per fantomatiche divinità”.(pp. 88-90) In realtà Hubert e Mauss vedono in questa idea di abnegazione incorporata nel sacrificio del dio qualcosa che ha a che vedere con il fondamento stesso della società. Innanzitutto le divinità, per quanto fantomatiche esse siano, sono perché credute, e quindi sono dei fatti sociali insieme alla credenze relative. In secondo luogo la credenza nelle divinità esprime una esigenza “sociale” che in una società priva di divinità non scompare. Di seguito al brano sopra citato ecco infatti la conclusione del Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio: “Ma vi sono forse autentiche realtà alle quali si può riferire l'istituzione nella sua integralità. Le nozioni religiose, poiché sono credute, sono; esse esistono oggettivamente come fatti sociali. Le cose sacre, in riferimento alle quali funziona il sacrificio, sono cose sociali e questo basta per spiegare il sacrificio. Perché il sacrificio abbia un fondamento che lo giustifichi sono necessarie due condizioni. Prima di tutto bisogna che al di fuori del sacrificante vi siano delle cose che lo facciano uscire da se stesso e alle quali debba ciò che sacrifica. In secondo luogo, bisogna che tali cose si trovino vicine a lui, in modo che egli possa entrarne in rapporto, riceverne la forza e la sicurezza di cui ha bisogno e trarre dal contatto che stabilisce con esse quei benefici che attende dai suoi riti. Ora, tale carattere di intima penetrazione e di separazione, di immanenza e di trascendenza è, nel suo più alto grado, peculiare delle cose sociali. Anch'esse esistono contemporaneamente, secondo il punto di vista dal quale si guardano, dentro e fuori l'individuo. Si comprende allora quella che può essere la funzione del sacrificio, a prescindere dalle espressioni simboliche con le quali il credente lo esprime a se stesso. Tale funzione è una funzione sociale perché il sacrificio si riferisce a delle cose sociali. Da una parte, questa rinuncia personale degli individui o dei gruppi ai loro beni alimenta le forze sociali. Ovviamente, non che la società abbia bisogno di quelle cose che costituiscono la materia del sacrificio; tutto qui avviene sul piano delle idee e si tratta unicamente di energie morali e mentali. Ma l'atto di abnegazione implicito in ogni sacrificio, richiamando frequentemente alle coscienze singole la presenza delle forze collettive, alimenta precisamente la loro, esistenza ideale. Quelle espiazioni e purificazioni generali, quelle comunioni, quelle sacralizzazioni di gruppi, le creazioni di geni dei centri abitati, conferiscono o rinnovano periodicamente alla collettività, rappresentata 30 dai suoi dèi, quel carattere buono, forte, grave e terribile, che è uno dei tratti essenziali di qualsiasi personalità sociale. - Da un'altra parte, in questo stesso atto, gli individui trovano la loro convenienza: essi conferiscono a sé e alle cose, delle quali vivono abitualmente, la forza sociale tutta intera. Essi rivestono di una autorità sociale i loro voti, i loro giuramenti, i loro matrimoni. Circondano di un alone di santità che li protegge i campi che hanno lavorato, le case che hanno costruito. Nello stesso tempo, essi ritrovano nel sacrificio il modo di ricomporre gli equilibri rotti; mediante l'espiazione, si riscattano dalla maledizione sociale, conseguenza della colpa, e rientrano nella comunità; con la spartizione che compiono delle cose delle quali la società si è riservata l'uso, essi ne acquisiscono il diritto di godimento. La norma sociale viene così mantenuta senza pericolo per gli individui, senza diminuzione per il gruppo. In tal modo è assolta la funzione sociale del sacrificio, tanto per i singoli, quanto per l’intera collettività. E poiché la società è composta non soltanto di uomini bensì di cose e di avvenimenti, è facile intuire come il sacrificio possa seguire e riprodurre contemporaneamente il ritmo della vita umana e quello della natura; come abbia potuto divenire periodico secondo le scadenze dei fenomeni naturali, occasionale come i bisogni momentanei degli uomini, e come infine abbia potuto adattarsi a mille funzioni. Si è del resto potuto constatare, cammin facendo, quante credenze, quante pratiche sociali, che non sono propriamente religiose, si trovano in relazione con il sacrificio. Si è parlato via via del contratto, del riscatto, della pena, del dono, dell'abnegazione, delle concezioni relative all'anima e all'immortalità che sono elementi che stanno ancora alla base della morale comune. Questo sta a significare quale importanza ha per la sociologia la nozione di sacrificio. Ovviamente, in questo lavoro, non ci eravamo proposti di seguire la nozione del sacrificio nel suo sviluppo e attraverso le sue molteplici ramificazioni: l'obiettivo che ci siamo prefissi era semplicemente di cercare di costituirla, di darle un fondamento” (pp. 90-91). 5. L’illusione sacrificale e il ”cristianocentrismo” Al termine di questa rivisitazione di tre celebri teorie del sacrificio (Tylor, Robertson-Smith, Hubert e Mauss) è venuto adesso il momento di trattare quelli che, secondo alcuni autori recenti, sarebbero i loro limiti e i loro pregi rispettivi. La prima di queste critiche è quella avanzata dall’antichista Marcel Detienne che, a partire dal caso del sacrificio greco, ritiene di respingere la teoria di Hubert e Mauss del sacrificio in quanto “atto 31 di consacrazione”.25 Come abbiamo visto, infatti, i due autori avevano sostenuto che l’essenza del sacrificio consistesse nel mettere in contatto la vittima e il sacrificante con la sfera del sacro. Secondo Detienne, tuttavia, nel sacrificio greco né la vittima né il sacrificante abbandonano mai il mondo profano per il mondo sacro. E’ però difficile valutare questa affermazione. Detienne si fonda su testi che probabilmente non affermano effettivamente nulla in direzione delle tesi di Hubert e Mauss, ma il fatto è che non ci si può fermare alle “apparenze”, bensì superarle come fanno Hubert e Mauss e come dovrebbe fare ogni indagine di tipo antropologico. Il fatto insomma che nei testi antichi non ci sia alcuna affermazione esplicita al riguardo di un “allontanamento dal mondo” di vittima e sacrificante non implica necessaramente che non vi sia sacralizzazione, che non vi sia cioè intenzione di compiere un accostamento al sacro. Se dovessimo negare l’idea che esiste un accostamento sacro sulla base del fatto che nessuno degli interessati lo afferma, commetteremmo una ingenuità diametralmente opposta, ma nella sostanza simile, a quella che Geertz ammette di aver commesso chiedendo a un balinese se pensasse che Rangda fosse vera……26 Partendo da questa premessa, Detienne cerca di demolire non solo l’idea della sacralizzazione come caratteristica dell’atto sacrificale (da lui considerato come atto che autorizza la partecipazione ad una comunità politica)27, ma anche quella secondo cui il sacrificio si presenterebbe come un fenomeno unitario. Secondo Detienne infatti, proprio come il totemismo è stato il frutto di un’ immaginazione antropologica che ha riunito sotto una stessa rubrica fatti etnologici eterogenei ritenendo che avessero una natura comune28, anche il sacrificio è stato il prodotto di una illusione. Per Detienne infatti, la visione del sacrificio sviluppata dalle scienze religiose ( storia delle religioni e antropologia della religione) Tutti i riferimenti a detienne riguardano il saggio “Pratiche culinarie e spirito di sacrificio” in Detienne, M. e Vernant, J-P. (a cura) La cucina del sacrificio in terra greca, Boringieri, Torino 1982 (ed. or. 1979). 26 Cfr. C. Geertz, La religione, ecc. p. 149. 27 In questo Detienne ricalca la teoria di Robertson-Smith relativa al sacrificio come rito comunitario, e quindi politico, che tuttavia egli critica per i motivi che ora vedremo. 28 La critica radicale del totemismo venne sviluppata da Lévi-Strauss nel volume Il totemismo oggi (1962). 25 32 dipende da una serie di “mosse” derivanti dalla inconsapevole assunzione della teoria del sacrificio cristiano come ispiratrice dello sguardo storico e antropologico sul fenomeno.29 Il sacrificio infatti, con lo sviluppo delle scienze religiose, assume uno statuto teorico preciso consentendo ad esempio di connettere sacrificio stesso e totemismo in quanto prima forma di religione. “Ma la teoria di Mauss è soltanto un episodio della grande impresa che, da Robertson Smith [in poi], elabora la categoria culturale del sacrificio collocandola al centro di quello che si decide allora di chiamare la religione. L'illusione suscitata dal totemismo negli stessi anni, tra il 1885 e il 1920, non sarebbe stata così totale se la figura del totem non avesse portato con sé, insieme al problema della divisione tra l'uomo e il mondo animale e vegetale, una preoccupata domanda sul potere, attribuito a certi riti sacrificali, di mantenere tra l'uomo e l'animale una forma di comunanza. Oscillante tra la bestia e l'aspetto umano, all'incrocio tra l'antico fondo agrario del Vicino Oriente e le nuove attese suscitate dalle religioni di salvezza, un dio come Dioniso ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione di questa teoria, condivisa, alla fine del secolo scorso, da intellettuali preoccupati di tracciare un confine tra i rituali selvaggi e ripugnanti, lasciati al "popoli allo stato di natura" (Naturvólker), e quelle forme il cui valore morale e la cui tensione spirituale non lasciavano dubbi sulla loro appartenenza alla sfera della religione. Con Robertson Smith e la sua analisi antropologica della religione dei semiti s'inaugura un percorso che parte dal mondo biblico per arrivare ai margini del cristianesimo, fino al cuore del razionalismo occidentale. Senza dubbio, il sacrificio è da sempre, in ambito cristiano, l'atto di culto che serve alla religione come pietra di paragone, la cui efficacia è continuamente verificata dal resoconti dei viaggiatori. "Esso - osserva il missionario gesuita Joseph-François Lafitau nel 1724 - è antico come la religione stessa, ed esteso quanto le nazioni sottomesse alla religione, poiché non ce n'è una sola in cui il sacrificio non sia stato in uso, e in cui non sia stato nello stesso tempo una prova della religione." Ma solo con l'avvento di una "scienza delle religioni", in pieno diciannovesimo secolo, il sacrificio assume uno statuto teorico preciso. Domina una prospettiva, l'evoluzionismo, e nell'indagine aperta per scrivere una storia delle forme elementari della religione, il totemismo, accreditato di un carattere universale, appare come il prototipo di ogni atto sacrificale. Nella manducazione dell'animale totem immolato dal clan, Robertson Smith riconosce le due componenti essenziali del sacrificio: il pasto in comune e l'alleanza per mezzo del sangue……(pp. 20-21) Già ai primi del Novecento era stato fatto osservare per esempio come Robertson-Smith, parlando del sacrificio di comunione fosse influenzato dal rito dell’Eucarestia. 29 33 Oggi, col distacco reso possibile dalle analisi raccolte in questo volume, ci pare importante rilevare che la nozione di "sacrificio" è una categoria del pensiero di ieri, altrettanto arbitraria quanto quella di "totemismo", denunciata di recente da Lévi-Strauss: una categoria costruita in modo artificiale per mettere insieme elementi di diversa provenienza etnologica, e che ben dimostra l'egemonia sotterranea esercitata dalla visione cristiana su storici e sociologi convinti d'inventare una nuova scienza” (p. 26). Sebbene inconsapevolmente, Hubert e Mauss avrebbero dunque, secondo Detienne, messo ancora una volta il sacrificio al centro della teoria religiosa. Prova ne è la loro considerazione del sacrificio del dio come culmine non tanto storico, ma logico dell’intera evoluzione sacrificale (in realtà questo culmine logico sarebbe dettato in loro da un pregiudizio cristianocentrico). Detienne dice che se per Hubert e Mauss il sacrificio al dio può venire a fondare l’ordine sociale in quanto contiene in sé l’idea di abnegazione (come in Tylor), il sacrificio del dio sarebbe l’espressione più alta di questa abnegazione medesima e resterebbe alla fine nella teologia cristiana in forma sublimata. L’agnello pasquale sarebbe l’equivalente di Cristo…….30 Il sacrificio del dio cristiano sarebbe insomma, per Hubert e Mauss, il trionfo dell’abnegazione e la fine dell’aspetto contrattuale e comunitario del sacrificio. Per Detienne tuttavia, ciò sarebbe un falso punto di arrivo, in quanto è, in realtà il punto di partenza del ragionamento dei due autori, punto di partenza che consente di leggere il sacrificio in maniera unitaria, in una società in cui la religione è pensata entro i termini del cristianesimo, alla luce cioè di una inconsapevole teoria locale della religione (il cristianesimo) “preso per” una scienza. Questa stessa “precomprensione” del sacrificio derivante dall’inconsapevole adozione del punto di vista cristiano, avrebbe condotto E. Durkheim, per il quale il sacrificio era comunione, rinuncia e abnegazione al tempo stesso, a vedere il sacrificio “ più semplice” come già pervaso da una “forza morale”, cioè come Secondo Detienne lo schema di Hubert e Mauss non funziona perché nel sacrificio del dio cristiano le “figure” del sacrificante e della vittima di sovrapporrebbero. Verrebbe quindi meno il termine intermedio che è ciò “a cui si sacrifica” (un dio). Ma non si vede perché tali figure non potrebbero sovrapporsi. Anzi, c’è di più. Infatti il sacrificio di Cristo può apparire come un evento che, oltre alla due precedenti figure, cumula anche quella del beneficiario e dell’intermediario, visto che Cristo redime, come uomo, gli uomini, e si sacrifica a Dio Padre. 30 34 abnegazione e rinuncia dal momento che non può esserci comunione (società) senza rinuncia. Durkheim si opponeva in realtà a quegli autori vicini al pensiero cristiano (per lo più i missionarietnologi) che attaccavano Robertson Smith per aver voluto vedere una sostanziale unità storica ( in quanto evolutiva) nel rito sacrificale. Per quegli autori mitologia e religione segnavano nettamente la differenza tra primitivi e civilizzati rispettivamente, per cui l’idea di tracciare una linea di continuità tra costumi giudicati barbari e il sacrificio di Cristo ( o comunque le idee sublimate del sacrificio presenti anche in altre grandi religioni) sembrava voler accomunare un rito aberrante e un mistero spirituale. Così scrive Detienne: “Siamo invitati [da Durkheim] allo spettacolo dell'Intichiuma . Ci viene presentato il clan del Bruco. E’ già un gruppo rispettabile, non più un'orda, una "massa instabile di individui", ….. Il clan del Bruco forma un gruppo organizzato; è una società che presenta caratteri civili; ha la sua bandiera, un emblema animale, il bruco, con il quale il clan s'identifica emotivamente. E ancora, il clan del Bruco ha una sua festa che, fissata dal capo, si svolge in due fasi. La prima è occupata da riti destinati ad assicurare da proibizioni e contrassegnati da proibizioni e da pratiche ascetiche: gli uomini del clan fanno scorrere il loro sangue per rianimare le virtù del totem e, nello stesso tempo, si fanno assoluto divieto di mangiare i rappresentanti della loro specie totemica. L'annullamento dei divieti caratterizza la seconda fase: grande raccolta di bruchi, e tutti ne mangiano in abbondanza; al centro, il pasto del capo, a cui si offre qualche esemplare che egli incorpora solennemente allo scopo di ricreare la specie. Quali sono gli elementi essenziali dello schema sacrificale iscritto in questo spettacolo primitivo? Durkheim rende ampio omaggio alla chiaroveggenza di Robertson Smith, che, da Aberdeen in Scozia, e senza aver mai assistito all'Intichiuma, aveva riconosciuto nel sacrificio originario un atto di comunione alimentare, cioè un pasto che permette a un gruppo umano e a una potenza divina di entrare in comunione in una stessa carne, commemorando la loro parentela naturale. Il pasto totemico, scoperto in seguito, permette di precisare questo modello, mostrando che la comunione alimentare avviene attraverso l'incorporazione del principio vitale del clan, della sua anima personificata. Durante il pasto totemico si mangia l'essere sacro, immolato solo dai suoi adoratori. Ma Durkheim va più lontano. Il sacrificio non è solo comunione: esso è anche, come mostra la sua forma primitiva, rinuncia e abnegazione. Nell'Inchiuma, il gesto decisivo non è l'atto del mangiare, ma l'offerta; e l'oblazione obbedisce a una ragione superiore: l'atto dell'offrire implica l'idea di 35 un soggetto morale che l'offerta è destinata a soddisfare. Grazie al clan del Bruco, il dubbio non è più permesso: non può esserci comunione senza rinuncia. Il sacrificio più rozzo, il più primitivo, è già ispirato da una forza morale. In quegli stessi anni, molti storici delle religioni, obbedendo a intenzioni -erse, mettono a confronto il sacramento dell'eucarestia, in cui il cristiano mangia il corpo del Signore e ne beve il sangue, con la pratica molto antica degli adoratori di Dioniso che dilaniano e divorano vittime animali credendo di mangiare la carne del dio. Gli apologeti della fede cristiana, come il domenicano Marie-Joseph Lagrange, reagiscono con fermezza e denunciano ‘l’aberrazione del senso religioso in clan di civiltà molto inferiore’ in cui si praticano riti ‘carnali e disgustosi’. Per evitare la confusione tra i rozzi riti dei popoli allo stato di natura e il mistero spirituale dell'eucarestia che caratterizza la religione cristiana, cioè l'unica vera, si opera una distinzione all'interno del sacrificio tra un istinto degenerato fino alla pratica abbietta di divorare carni crude e sanguinanti, e la nobile tendenza a una comunione puramente spirituale, in cui l'atto del mangiare è irrilevante, e gli aspetti alimentari sono sviliti e come negati. Uno dei maggiori rimproveri che l'esegesi cattolica muove a Robertson Smith è proprio di aver confuso la frontiera tra quella che Lagrange chiama insieme ad altri Mitologia, e in cui imperversa l'animismo, riconoscibile per i suoi aspetti scandalosi, e la Religione, che non appartiene allo stesso piano della Natura, poiché si manifesta solo al livello delle civiltà evolute, insieme con l'esigenza morale. Mostrando che l'offerta più primitiva, e quindi più semplice, implica un gesto di rinuncia e postula un soggetto morale, l'analisi di Durkheim va proprio nello stesso senso. Tuttavia, per Durkheim, tra il clan del Bruco, dove la società s'instituisce nella sua forma elementare, e gli ambienti cattolici, protestanti o ebraici di elevata spiritualità, non c'è frattura, ma solo una differenza di grado. Ai due estremi troviamo una stessa tensione etica, che fa passare in secondo piano i costumi alimentari, il rituale dell'uccisione, la natura delle vittime: tutto ciò, insomma, che non costituisce l'essenza del rapporto sacrificale, cioè, appunto, lo spirito di sacrificio. "Stiamo attraversando una fase di mediocrità morale": la costatazione che Durkheim fa al termine delle Forme elementari della vita religiosa è la motivazione profonda della scuola sociologica. Come la scienza della civiltà di Edward B. Tylor, l'analisi sociale degli allievi di Durkheim è animata dallo spirito di riforma. La sociologia, scrive Georges Davy, doveva essere quella filosofia che avrebbe contribuito a consolidare definitivamente la repubblica e a ispirare riforme razionali, dando nello stesso tempo alla nazione un principio d'ordine e una dottrina morale.` Nella sua riflessione sullo Stato, nelle sue lezioni sul socialismo, o quando redige, nel 1916, in piena prima guerra mondiale, un corso di morale per la scuola primaria, Durkheim applica la stessa strategia.'9 La scuola di domani deve stabilire l'autorità morale, inculcando nel bambino la religione della regola, 36 insegnandogli la gioia di agire in armonia con gli altri, secondo una legge impersonale comune a tutti";" la missione del socialismo è di far risorgere una nuova solidarietà morale tra gli uomini….” (pp. 22-25). In realtà lo scopo di Durkheim, sostiene Detienne, era quello di mostrare che l’offerta più rozza contiene in sé una forma embrionale di moralità. Per Durkheim, come per gli antropologi della sua epoca, e di quelle successive, non c’è frattura, ma differenza di grado: questo è senza dubbio un residuo evoluzionistico, ma corrisponde all’idea, interpretata poi altrimenti dall’antropologia, secondo cui il genere umano appartiene alla stessa specie e il pensiero stesso, pur declinato diversamente a seconda della “storia culturale” di ciascun gruppo, è sempre “pensiero umano”. L’dea di abnegazione di sé come culmine del sacrifico (storicamente esemplificato dalla morte di Cristo) fa dunque capo, secondo Detienne, all’dea di Hubert e Mauss secondo cui la rinuncia fonda la comunità morale. Il dono, il desiderio di donare, sono parte fondante dell’impulso dell’uomo come essere eminentemente sociale. Secondo Detienne, pertanto, la teoria del sacrificio di Hubert e Mauss (e di Durkheim) dipenderebbe (e quindi sarebbe inficiata) dall’adozione implicita di una prospettiva cristiana “a ritroso”. In effetti il sacrificio del dio si presenta, secondo questi autori, come un atto “senza contropartita”. Il passaggio dal dono inteso come legame tra uomini e divinità appare definitivamente come abnegazione e sacrificio di sé allo stato puro. In questi autori la prospettiva sul sacrificio dipendeva, è vero, dalle loro inclinazioni teoriche sociocentriche (l’individuo non esiste al di fuori della società). Probabilmente era anche influenzata, come dice Detienne, dal loro “cistianocentrismo” (pur non essendo loro né praticanti, né, nella maggior parte dei casi, cristiani, ma piuttosto con origini e tradizioni ebraiche). La loro prospettiva dipendeva anche dalla loro concezione politica. Erano infatti dei socialisti riformisti, e per loro l’individuo non poteva che trovare la sua “salvezza” all’interno di un corpo sociale per il quale egli doveva essere pronto a sacrificarsi. Non era, la loro, un’ideologia totalitaria che poneva lo stato sopra ogni altra cosa, era invece una concezione del corpo sociale formato 37 da individui responsabili e capaci di aderire volontariamente all’interesse generale.31 “Con l’attività sacrificale la collettività acquista ‘quel carattere buono, forte, solenne, terribile’ che è uno degli aspetti essenziali di ogni personalità sociale. La patria, la proprietà, il lavoro, la persona umana devono essere ascritte a credito del sacrificio come fenomeno sociale. L'ascesi implicita in questa istituzione permette all'uomo di scoprire in sé un centro fisso: l'unità del volere, di fronte al flusso molteplice e divergente delle pulsioni sensibili. Il dono, il desiderio di donare, l'oblazione confermano questo orientamento. L'essere umano si distacca, in una certa misura, dagli oggetti del desiderio immediato. Dalle forme fondamentali del totemismo fino all'instaurazione del sacrificio animale nelle religioni superiori, questo movimento si amplifica, fino a raggiungere il culmine nell'immagine del dio che si sacrifica, figura suprema che conferisce al sacrificio il suo vero significato e coniuga……la mitologia dei misteri di Dioniso con l'esemplare spiritualità del mistero cristiano dell'eucarestia” (pp.25-26). 6. Il “sacrificio”: una nozione utile? Dopo la critica di Detienne all’idea di sacrificio come idea capace di comprendere tutti i fatti etnologici normalmente designati come tali (per effetto di un’illusione simile a quella che ha tenuto per lungo tempo in vita l’illusione totemica) dobbiamo effettivamente chiederci se può avere ancora un senso parlare di sacrificio come di una categoria di fatti sociali riconducibili ad un denominatore comune. Valerio Valeri, in un lungo e dettagliato articolo dedicato all’etnografia della caccia e del sacrificio tra gli huaulu di Ceram (Indonesia)32 respinge la proposta di Detienne sulla base di considerazioni analoghe a quelle che lo inducono a ritenere che la questione dell’illusione totemica sia posta in maniera riduttiva33. Al termine della sua vita Mauss (che morì nel 1950) sembra essersi pentito di questa visione “sacrificale” della vita sociale, così come sembrò esprimere perplessità per alcuni aspetti della sua opera (si pensi soprattutto gli studi sulla magia) che avevano toccato i lati “oscuri” del comportamento e del pensiero umani. Mauss, discendente da una famiglia di rabbini, si sottrasse alla persecuzione razziale messa in opera in Francia dai nazisti e dai collaborazionisti francesi, a cui Mauss temeva di aver dato un indiretto aiuto nel coltivare i miti del sangue, del sacrificio e della violenza. 32 Valeri, V., Wild Victims: Hunting as Sacrifice and Sacrifice as Hunting in Huaulu , 1994. 33 Lévi-Strauss, sostiene Valeri, ha sicuramente mostrato l’inconsistenza del termine così come questo era stato impiegato sino ad allora, ma la riduzione del totemismo a sistema classificatorio dei gruppi umani attraverso le specie, e viceversa, elimina il problema del culto 31 38 Valeri propone infatti di adottare la prospettiva di Wittgenstein: i riti chiamati sacrifici sono fenomeni che, pur avendo alcune caratteristiche in comune, non le possiedono tutte allo stesso grado contemporaneamente, al punto che alcuni di tali fenomeni possono non avere elementi in comune ma essere in relazione attraverso le caratteristiche che condividono con altri della stessa “famiglia”.34 Valeri ritiene pertanto che, sulla base di questa prospettiva, si possa procedere ad una definizione di che cosa siano i riti chiamati “sacrifici” sulla base di qualcosa che li accomuna. Si tratta di una caratteristica non evidente: essa non è enunciata dagli interessati, ma è resa manifesta da un atto che consiste nell’ esercitare ritualmente (cioè nel rispetto di un codice che si vuole sempre identico a sé stesso) una azione distruttiva di una vita o di rimozione dalla sfera umana di un bene considerato prezioso (perché è segno di vita) allo scopo di procurare dei benefici. I benefici a cui mira il sacrificio possono essere molto diversi di volta in volta, ma tutti hanno un denominatore comune: “mantenere e implementare la vita di colui che ha promosso il rito e dei suoi ospiti” (Valeri 1994: 105). 7. Il sacrificio come dono: due visioni e le loro interpretazioni Tuttavia qui non ci interessa meno di ritenere valida la sacrificio. Più interessante cristianocentrismo attribuito tanto la questione dell’opportunità o categoria antropologico-religiosa di ci sembra invece, partendo dal da Detienne e Hubert e Mauss, che lega il totem alle unità sociali e “oscura i processi di oggettificazione e di feticizzazione attraverso cui animali, vegetali, o minerali, diventano totem” (1994:102). 34 La nozione di “somiglianza di famiglia” coniata da Wittgenstein potrebbe essere illustrata nella maniera seguente. Prendiamo il caso di tre rituali “sacrificali” (A, B, C) al cui interno compaiono la dimensione dell’offerta (p), del dono (q), della comunione con la divinità (r) e della comunione tra i fedeli (s). I tratti non sono mai presenti contemporaneamente in nessuno dei tre “sacrifici”. Così: A p q B q r C r s A non ha nessuna delle caratteristiche di C, però ha qualcosa in comune con B che a sua volta ha qualcosa in comune con C. A e C appartengono, secondo la teoria delle somiglianze di famiglia di Wittgenstein, alla stessa “famiglia”. E quindi sono legittimamente definibili come “sacrifici”. 39 prendere in considerazione la lettura cristiana del sacrificio nella quale quest’ultimo è pressoché identificato con un “dono” (di sé). Lo stesso Mauss, d’altronde, è autore di un classico studio sul dono, (il Saggio sul dono del 1923-24) nel quale egli si sforzò di delucidare quella che resta una sua intuizione fondamentale, cioè la natura di legame sociale (o, come qualcuno ha detto, di legante) dell’atto del donare. Si potrebbe dire, a scopo di chiarezza, che abbiamo a che fare con due grandi concezioni del dono. Una, quella che fa capo a Mauss, e di cui parleremo più oltre, che fa del dono un atto sociale di primaria importanza. Un’altra, che si ispira più direttamente alla idea del dono come abnegazione, sacrificio di sé, come totale dedizione all’altro. E’ la concezione che del dono ha il cristianesimo e che, come è stato fatto osservare, è condivisa da molte altre religioni, specialmente quelle salvifiche (indù, buddista, giudaica, musulmana). Non è che la teoria di Mauss sia del tutto esente dalla concezione del dono come dono di sé : infatti non solo nel saggio sul sacrificio scritto con Hubert, ma anche nella parte finale del suo lavoro del 1923-24, Mauss parla ancora una volta del dono in chiave “morale”. Tuttavia nella visione cristiana del dono, e in alcune interpretazioni che filosofi hanno dato recentemente del dono, quest’ultimo non appare con le valenze sociologiche attribuitegli per la prima volta in maniera esplicita da Mauss, ma resta un “moto dello spirito”. Il filosofo francese Jacques Derrida, ad esempio, in alcuni lavori recenti35 ha ridiscusso l’atto del dono attraverso una raffinata ricognizione degli usi linguistici che noi facciamo di questa parola, e ha parlato di “impossibilità del dono”, in quanto il dono sarebbe un donare totale e disinteressato che, una volta percepito come dono da colui che dona o da colui che riceve, lo fa cessare di essere “un dono”, in quanto attiva immediatamente un’idea di ritorno che nega la idea di dono medesima. Secondo alcuni autori quello di Derrida è una sorta di “idealismo intransigente” che oscura la portata sociologica dell’atto del donare così come è stata messa in luce da Mauss. Secondo tali autori (in particolare Alain Caillé 36), 35 36 Derrida, J. Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002 , Donare il tempo, Cortina, Milano, 1996. Caillé, A. Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati, Torino 1998 (1994). 40 Derrida “enfatizza il punto di fuga delle grandi religioni” (p. 98) almeno nel senso che tutte le grandi religioni si sono fatte promotrici di una “progressiva eliminazione degli aspetti narcisistico-particolaristici del dono e dell’amore” (ibidem) e in fondo, il cristianesimo potrebbe essere anche considerato come “una macchina logico-storico-pratica per assiomatizzare il dono” (ibidem). Ma con il suo “idealismo intransigente” Derrida finisce per parlare di una cosa alquanto diversa da quella di cui parla Mauss. Mauss parla del fenomeno del dono nella sua complessa articolazione sociale e morale, mentre Derrida pretende di restringere il tema a quest’ultimo aspetto. Così facendo, dice ad esempio Caillé, Derrida vorrebbe un dono “depurato dal suo proprio veleno, un gift senza gift” (ibidem). Che cosa significhi quest’ultima affermazione di Caillé appare evidente quando si consideri che gift (in inglese moderno “dono”) voleva anche dire “veleno”37. Mauss sostenne infatti che il termine gift era indicativo del fatto che donando si metteva il donatario nella condizione di sentirsi obbligato a restituire e quindi impegnarlo in uno scambio che poteva anche non essere nel suo interesse. 8. Il dono come legame: M. Mauss E’ invece la dimensione sociale del dono e la sua funzione di legante che Mauss mise al centro del suo lavoro del 1923-24. Utilizzando l’etnografia del tempo, specialmente i lavori di Franz Boas sulle popolazioni della costa nord-ocidentale degli Stati Uniti e del Canada, e quelli di Bronislaw Malinowski sulle popolazioni delle Trobriand (Melanesia), Mauss mise in evidenza il carattere socialmente pervasivo di atti apparentemente ascrivibili alla sfera dello scambio e dell’interesse economico. Lo scopo di Mauss era di mostrare come nelle società da lui chiamate “arcaiche” le transazioni implicassero l’attivazione di più livelli di significato, religioso, rituale, politico, affettivo ecc. Mauss definì quindi le “gare” di esibizione di beni attuate dai nativi americani, e lo scambio dei trobriand, fatti sociali totali. Questa capacità delle parole di designare due cose contrarie non è rara. Il termine pharmacon significa in greco “rimedio” ma anche “veleno” 37 41 “Questo lavoro è un frammento di studi più vasti. Da anni, la nostra attenzione è concentrata, a un tempo, sul regime del diritto contrattuale e sul sistema delle prestazioni economiche tra i diversi gruppi e sottogruppi, di cui si compongono le società dette primitive, nonché quelle che potremmo chiamare arcaiche. Ci troviamo d fronte a un'enorme quantità di fatti, tutti molto complessi, in cu si mescola tutto ciò che costituisce la vita propriamente sociale delle società che hanno preceduto le nostre - fino a quelle della protostoria. In questi fenomeni sociali « totali », come noi proponiamo di chiamarli, trovano espressione, a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali - queste ultime politiche e familiari nello stesso tempo -, nonché economiche, con le forme particolari della produzione e del consumo, o piuttosto della prestazione e della distribuzione che esse presuppongono; senza contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste istituzioni rivelano. Di tutti questi argomenti molto complessi e di questa molteplicità di cose sociali in movimento, intendiamo considerare qui solo uno dei tratti, profondo ma isolato: il carattere volontario, per così dire, apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligato e interessato, di queste prestazioni. Esse hanno rivestito quasi sempre la forma del dono, del regalo offerto generosamente, anche quando nel gesto che accompagna la transazione, non c'è che finzione, formalismo e menzogna sociale e, al fondo, obbligo e interesse economico. Pur indicando con precisione tutti i diversi principi che hanno conferito questo aspetto a una forma necessaria dello scambio - cioè a dire della stessa divisione del lavoro sociale di tutti questi principi, ne studieremo a fondo uno solo. Qual è la norma di diritto e di interesse che, nelle società di tipo arretrato o arcaico, fa sì che il donativo ricevuto sia obbligatoriamente ricambiato? Quale lorza contenuta nella cosa donata fa sì che il donatario la ricambi? Ecco il problema sul quale ci fermeremo in modo più particolare, pur accennando agli altri. Ci ripromettiamo di dare, per un numero abbastanza grande di fatti, una risposta a queste domande precise e di mostrare in quale direzione sia possibile intraprendere tutto uno studio delle questioni connesse. Si vedrà anche a quali problemi nuovi verremo introdotti: gli uni, riguardanti una forma permanente della morale contrattuale, e cioè il modo in cui il diritto reale resta ancora ai nostri giorni legato al diritto personale; gli altri, concernenti le forme e le idee che hanno sempre presieduto, quanto meno parzialmente, allo scambio e che, ancora oggi, suppliscono in parte alla nozione di interesse individuale.” (pp. 5-6) All’inizio del suo lavoro Mauss accenna al fatto che è attraverso un lungo tragitto che il dono, dalle forme agonistiche iniziali riscontrabili ancora oggi tra i nativi nordamericani si è trasformato via via con il tempo in forme più complesse di transazione e che 42 esso ha finito, in fondo, per tramutarsi in un problema di “morale sociale” (alludendo alla questione del dono disinteressato e dell’ abnegazione evocati chiaramente nel Saggio sul sacrificio): “Raggiungeremo, così, un duplice scopo. Perverremo, cioè, a conclusioni, per così dire archeologiche, sulla natura delle transazioni umane nelle società che ci circondano o che ci hanno immediatamente preceduto. Descriveremo i fenomeni riguardanti lo scambio e il contratto in tali società che non sono prive di mercati economici, come si è preteso di sostenere - il mercato, infatti, è un fenomeno umano che, secondo noi, è presente in ogni società conosciuta -, ma il cui regime di scambio è diverso dal nostro…… Vedremo agire in queste transazioni la morale e l'economia. E poiché constateremo che la morale e l'economia operano ancora nelle nostre società in modo costante e, per così dire, soggiacente, e poiché crediamo di avere trovato qui uno dei capisaldi su sono costruite le nostre società, potremo dedurne alcune conclusioni morali su taluni problemi posti dalla crisi del nostro diritto e da quella della nostra economia, e ci fermeremo a questo punto. Questa pagina di storia sociale, di sociologia teorica, di conclusioni di morale, di pratica politica ed economica, ci induce, in fondo, a porre una volta di più, sotto forme nuove, vecchi ma sempre nuovi problemi” (pp. 6-7). L’analisi del dono condotta da Mauss si articola, come abbiamo detto, sull’etnografia del tempo. Molti spunti provengono a Mauss, oltre che da Boas e Malinowski, anche da etnografi tedeschi e olandesi impegnati in ricerche in Oceania. Il “caso” chiave” di tutto il Saggio sul dono è costituito tuttavia dall’interpretazione maori dello scambio (Nuova Zelanda), sui quali Mauss edifica la sua teoria del dono come complesso di atti consistente nel dare-riceverericambiare. Tre erano le regole che, per Mauss, sottostavano al fenomeno del dono in quanto fatto sociale (e non come “moto dello spirito”), e cioè dare, ricevere e ricambiare: era attraverso questo complesso di regole che si strutturava il principio della reciprocità. Mauss riconduceva tale principio e il suo carattere obbligatorio, ad una “qualità” intrinseca agli oggetti scambiati, una qualità che li assimilava alla persona che li aveva posseduti e che rimaneva in essi anche dopo il loro passaggio nelle mani di un'altra. Era la credenza nell'esistenza di tale “qualità”, e nell'azione esercitata da quest’ultima, a mettere in moto il sistema delle prestazioni reciproche, poiché la mancata restituzione degli oggetti donati 43 avrebbe prodotto l'interruzione dello scambio, la quale si sarebbe tradotta a sua volta in un danno per il trasgressore della regola. La «qualità» presente nella cosa era infatti suscettibile di “vendicarsi” sul trasgressore in quanto “forza” appartenente al possessore originario della cosa donata, la forza “magica” di colui che l’aveva ceduta. In questa sua interpretazione Mauss fu profondamente influenzato dalla lettura dell’etnografia polinesiana e della teoria dello hau esposta da un informatore maori all’etnografo E. Best che scrive: “Vi parlerò dello hau... Lo hau non è il vento che soffia.Niente affatto. Supponete di possedere un oggetto determinato (taonga) e di darmi questo oggetto; voi me lo date senza un prezzo già fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo. Ora, io do questo oggetto a una terza persona che, dopo un certo tempo, decide di dare in cambio qualcosa come pagamento; essa mi fa dono di qualcosa (taonga). Ora, questo taonga che essa mi dà è lo spirito (hau) del taonga che ho ricevuto da voi e che ho dato a lei. I taonga da me ricevuti in cambio dei taonga (pervenutimi da voi), è necessario che io ve li renda. Non sarebbe giusto da parte mia conservare per me questi taonga, siano essi gradito o sgraditi. Io sono obbligato a darveli, perché sono uno hau del taonga che voi mi avete dato. Se conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio, perfino la morte. Questo è lo hau, lo hau della proprietà personale, lo hau dei taonga, lo hau della foresta. Kati ena, basta su questo argomento” (pp. 17-18) La trattazione della teoria del dono si muove quindi attorno a tre punti fondamentali: l’idea di prestazione totale; la teoria (maori) dello spirito della cosa donata; l’obbligo di donare e di ricevere (e di ricambiare). A questi tre punti se ne deve aggiungere un quarto, ciò che Mauss chiama “il dono fatto agli uomini e quello fatto agli dèi”, che è poi quello che più ci interessa direttamente per il nostro argomento38. Scrive Mauss: Secondo Lévi-Strauss, che svilupperà in maniera originale alcune intuizioni di Mauss relative al carattere obbligatorio del “dare, ricevere e ricambiare”, ossia al principio di reciprocità, il fatto di aver assunt, come ha fatto Mauss, una teoria indigena come spiegazione del fenomeno rappresentava un “grande progresso”, poiché affrontava un problema etnografico “prendendo le mosse da una teoria neozelandese o melanesiana piuttosto che servendosi di nozioni occidentali come l'animismo, il mito o la partecipazione” (Lévi-Strauss 1965: XLIII). Tuttavia, proseguiva Lévi-Strauss, l’aver assunto una teoria indigena quale quella dello hau come spiegazione del fenomeno, costituiva anche un limite. “Lo hau – dice infatti Lévi Strauss - non costituisce la ragione ultima dello scambio: esso è la forma cosciente sotto la quale uomini di una società determinata... hanno colto una necessità... la cui ragione è altrove”, dove con questo 38 44 “L'evoluzione era naturale. Uno dei primi gruppi di esseri, con cui gli uomini hanno dovuto contrattare e che, per definizione, aveva proprio questa funzione, era costituito, prima di tutto, dagli spiriti dei morti e dagli dei. Infatti, sono loro i veri proprietari delle cose e dei beni del mondo e con loro, perciò, era più necessario operare degli scambi e più pericoloso non farli. Inversamente, proprio con loro era più facile e più sicuro effettuare degli scambi. Lo scopo preciso della distruzione sacrificale è quello di essere una donazione che va necessariamente ricambiata. Tutte le forme di potlàc del Nord-ovest americano e del Nord-est asiatico conoscono il tema della distruzione'. Si uccidono schiavi, si bruciano oli preziosi, si buttano oggetti di rame in mare, si applica il fuoco a case principesche, non solo per date una manifestazione di potenza, di ricchezza e di disinteresse, ma anche per sacrificare agli spiriti e agli dei, confusi in realtà con le loro incarnazioni viventi, i portatori dei loro titoli, i loro alleati iniziati. Ma appare già un altro tema, che non ha più bisogno di questo sostegno umano e che può essere antico come lo stesso potlàc: tale tema si identifica con la credenza che sia necessario acquistare dagli dei e che gli dei siano in grado di pagare il prezzo degli oggetti. Forse in nessun luogo, una simile idea si esprime in maniera più tipica che presso i Toradja delle Célèbes. Kruyt ci dice che « il proprietario deve " acquistare " dagli spiriti il diritto di compiere certi atti sulla " sua ", in realtà sulla " loro" proprietà ». Prima di tagliare il « proprio » bosco, prima perfino di raschiare la « propria » terra, prima di piantare il palo della « propria » casa, bisogna pagare gli dei. Così, mentre la nozione di acquisto appare assai poco sviluppata tra le consuetudini civili e commerciali dei Toradja, quella di acquisto dagli spiriti e dagli dei è, al contrario, costante (pp. 26-27)”. Ma i doni hanno anche lo scopo di procurare la pace: “Van Ossenbruggen, che non è solo un teorico, ma anche un osservatore insigne e che vive sul posto, ha individuato un altro tratto di queste istituzioni. I doni, fatti agli uomini e agli dei, hanno anche lo scopo di procurare la pace con gli uni e con gli altri. In tal modo vengono allontanati gli spiriti malvagi, e più in generale le influenze nefaste, anche se non personalizzate: la maledizione di un uomo permette, infatti, agli spiriti gelosi di penetrare in voi, di uccidervi, alle influenze nefaste di agire, e le colpe verso gli uomini rendono il colpevole debole di fronte agli spiriti e alle cose sinistre. E’ chiaro come si possa iniziare, a questo punto, una teoria e una storia del sacrificio-contratto, il quale presuppone istituzioni del tipo di quelle che stiamo “altrove” Lévi-Strauss allude a quei principi inconsci che, a suo parere, sarebbero alla base del principio di reciprocità (le strutture mentali inconsce). 45 descrivendo e, inversamente, le realizza al massimo grado poiché è proprio degli dèi, che donano e ricambiano ciò che hanno ricevuto, dare una cosa grande in cambio di una piccola….. Non è forse per un puro caso che le due formule solenni del contratto: in latino do ut des, e in sanscrito dadami se, dehi me, siano state conservate anche da testi religiosi.” (pp. 27-28) Ciò che attira l’attenzione, in questo brano, è l’osservazione secondo la quale i doni hanno lo scopo di procurare la pace, non solo tra esseri umani, ma anche tra uomini e divinità. La pace per che cosa? In che senso si può parlare di una pace tra umani e divinità che è stata compromessa o che deve essere sempre ribadita o “procurata”? Il fatto è che, come risulta dall’etnografia citata da Mauss, ma come sappiamo anche da quanto avveniva nelle società arcaiche (e molto probabilmente avviene oggi seppure sotto altre “sembianze sacrificali”), colui che si rendeva colpevole verso gli uomini “legava” il gruppo agli dèi mediante un “vincolo” che doveva essere sciolto. E questo legame (percepito evidentemente come negativo) poteva essere sciolto solo mediante un dono, un sacrificio. Il sacrificio del colpevole (l’homo sacer dei latini) scioglieva la comunità dalla divinità e restituiva la pace alla comunità. La dimensione della colpa, che tutte le società conoscono, assume forme diverse a seconda del “significato” culturale specifico che ogni società le attribuisce. In molti casi essa può essere fatta risalire, come avviene nella tradizione giudaico-cristiana, ad una “mancanza” originaria, mitologicamente corrispondente a tutte quelle “mancanze” che ogni cultura, indistintamente, pone all’origine della condizione umana (v. ad es. il mito dinka descritto da Geertz in La religione come sistema culturale). La scienza occidentale, e specialmente la filosofia e l’antropologia, hanno cercato di spiegare, nei loro propri termini, ciò che il pensiero non scientifico (“religioso”) ha rappresentato per millenni, e in tutte le culture, come un evento originario: la separazione dell’uomo dal mondo divino. La spiegazione scientifica e filosofica di questa “sensazione” avvertita dall’essere umano sarebbe invece che questi è in qualche modo consapevole della propria “incompletezza”. L’essere umano sarebbe cioè “inconsapevolmente consapevole” che 46 “senza l’aiuto di modelli culturali egli sarebbe funzionalmente incompleto […. ] una specie di mostro informe senza meta né capacità di autocontrollo, un caos di impulsi spasmodici e di vaghe emozioni” (Geertz, La religione ecc. pp. 125-26). Se questa idea di incompletezza può essere declinata in maniera diversa a seconda delle circostanze culturali e storiche specifiche, è nel cristianesimo che si fonde con l’idea di “colpa originaria”. Col cristianesimo, ma sicuramente anche in altre religioni, il mito, da descrittivo, diventa infatti omiletico, nel senso che da quella che era una pura forma descrittiva della condizione umana prima che fossimo costretti “a vivere da esseri umani” (“siamo costretti a vivere da esseri umani, non ci posiamo fare niente e se vogliamo sapere come mai, è perché un giorno abbiamo offeso dio, abbiamo fatto uno sgarro allo spirito della foresta ecc.”) si passa adesso a un giudizio di tipo “morale”. Se la nostra colpa è originaria, essa è connaturata all’essere umano. Come potremo redimerci? Chi ci redimerà? Chi potrà restituirci a quella condizione di unità originaria con la divinità dalla quale ci siamo separati per una nostra colpa? Il cristianesimo su questo punto è chiaro. Il sacrificio di Cristo ci ha redenti, ma ci ha redenti solo come pura possibilità, dal momento che il “libero arbitrio” lascia sempre all’individuo la facoltà di decidere se commettere o no atti “colpevoli” (peccati). Come si spiegherebbe, altrimenti, la presenza del male del mondo anche dopo il sacrificio redentore di Cristo, “l’ultimo dei sacrifici”? 9. Una teoria “ locale” del sacrificio: il tradizionalismo cattolico di J. de Maistre Siamo così definitivamente giunti al “cuore” della problematica cristiana del sacrificio. Per approfondire il discorso in questa direzione (assai complesso vista la sterminata massa di testi teologici che ne hanno trattato), e in relazione al tema del dono e del debito, si è scelto di privilegiare alcuni testi di un cristiano, non teologo, e fortemente influenzato dal pensiero tradizionalista cattolico, Joseph de Maistre (1753-1821). De Maistre, uomo di lettere e diplomatico savoiardo, fu una delle espressioni più acute dell’anti-illuminismo europeo, tradizionalista e papista convinto. Fu 47 anche uno dei principali teorici del degenerazionismo, cioè dell’idea che l’uomo, dato il suo stato di “angelo caduto” poteva elevarsi spiritualmente sono tramite la rivelazione: i popoli che non avevano conosciuto la parola di Cristo erano pertanto nelle tenebre, e l’esempio supremo di questo stato di colpevole maledizione era per lui costituito dai “selvaggi” (quegli stessi selvaggi che proprio in quegli anni i membri della Société des observateurs de l’homme consideravano “i nostri fratelli dispersi presso gli ultimi confini dell’Universo”). Non a caso nemico di J.-J.-Rousseau ( “…l’uomo nasce buono e la società lo corrompe…”), de Maistre vede nell’uomo un essere colpevole che fin dagli stadi più primitivi della sua storia ha intuito questa indubitabile verità e che, per porvi rimedio, ha escogitato una serie di atti miranti a redimerlo da questa condizione di degrado: i sacrifici. Nonostante le sue posizioni certamente “non progressiste”, de Maistre fu però un razionalista, non un irrazionalista. L’illuminismo, è stato detto, penetrò in lui come in molte altre figure di suoi contemporanei che pure non si mostrarono favorevoli ai lumi, portatori della rivoluzione, dell’ateismo, e del regime repubblicano. Il destino della sua opera fu quello di alimentare, come ha osservato Isaiah Berlin, le dottrine fasciste dell’esaltazione della violenza e del sangue, ma questa fu l’utilizzazione che la modernità ha fatto delle sue concezioni circa la natura umana (per questo, benché ferocemente antimoderno, de Maistre è stato detto, fu in realtà un pensatore “moderno” perché preannunciò alcuni temi del XX secolo). De Maistre fu un grande scrittore e, nonostante la fosca visione dell’uomo e del suo destino (il che contrasta con quella che dovrebbe essere invece, in un cristiano, un messaggio di speranza) anche un autore ironico. Egli fu quasi sempre asistematico nella sua opera, ma al tema del sacrifico dedicò, oltre che pagine importanti della sua opera più nota, Le serate di San Pietroburgo (apparso postumo proprio l’anno della sua morte, il 1821)39, un breve, ma dotto scritto del 1810, Chiarimento sui sacrifici.40 Coniugando le pagine de Le serate di San Pietroburgo (d’ora in poi SSP) con quelle di 39 40 Le serate di Pietroburgo, Risconi, Milano 1971. Chiarimento sui sacrifici, Biblioteca dell’immagine, Pordenone, 1993. 48 Chiarimento sui sacrifici (d’ora in poi CSS) cercheremo di esplorare ciò che si presenta come una vera e propria teoria locale del sacrificio, quella di un tradizionalista cristiano cattolico (un caso etnografico in mezzo agli altri). Il male e la guerra De Maistre parte dalla constatazione del male nella storia. Male e sofferenza nella vita e nel mondo intero sono la prova della caduta dell’uomo. La guerra e lo spargimento di sangue, proprio perché dati contrari alla ragione, sembrano “folli e inesplicabili”. De Maistre non è un apologeta della guerra, ma lega l’inevitabilità di essa allo stato decaduto dell’uomo: la guerra, dice è “divina e demoniaca al tempo stesso” proprio coma la rivoluzione (quella francese e più in generale le rivoluzioni che sovvertono la morarchia per diritto divino). Dio non vuole la guerra ma la permette. Perché? Perché le sue radici sono nell’uomo e in un “atto di divisione inspiegabile” (razionalmente). Non si tratta di spiegare la possibilità della guerra, come e quando cioè essa si produca, ma piuttosto si tratta di spiegarne la facilità (SSP p. 377). Di fronte alla guerra la ragione si trova in scacco. Volendola spiegare accentua la scissione dell’uomo che, più se la spiega, e più gli appare assurda. Essa vorrebbe così guidarla da un lato e dall’altro farla cessare a suo piacimento. Si consideri, dice de Maistre, il culto irrazionale tributato al soldato che “ha il diritto di versare innocentemente il sangue innocente”… Per de Maistre si può fare solo una “fenomenologia della guerra”, non spiegarla. De Maistre osserva che di solito chi fa la guerra diventa più coraggioso, più capace di abnegazione, più capace di obbedire e- fenomeno inspiegabile – più religioso. Di fronte a queste “aporie” de Maistre ricorre, poco razionalisticamente, al termine “mistero”. Se la scissione dell’uomo rende “comprendibile” la guerra e ne mostra le manifestazioni, non ne spiega l’essenza (divina e diabolica), che de Maistre individua in a forza superiore e misteriosa, una “legge del mondo” come lui la chiama. Legge che, sebbene apparentemente lontana dallo spirito della religione, manifesta la presenza di Dio (non a caso nella Bibbia si parla del “Dio degli eserciti”). De Maistre cita Jean Baptiste 49 Rousseau, uno scrittore conservatore di poco antecedente, che scrive “ E’ la collera dei re che muove l’armi sulla terra, è la collera del cielo che dà l’armi in man ai re” (SSP, p. 395). L’uomo infatti è trascinato verso l’abisso della distruzione, dove la guerra appare innanzitutto come la prosecuzione di una “legge del mondo”, ma soprattutto come una immensa espiazione del peccato conseguente alla degradazione e alla colpa: “Vorrei farvi osservare inoltre che la terribile e della guerra non è che un capitolo della legge generale che pesa sull'universo. Nel vasto campo della natura vivente regna una violenza manifesta, una specie di rabbia decretata arma tutti gli esseri in mutua funera; appena oltrepassate le soglie del regno dell'insensibile vi trovate di fronte al decreto della morte violenta scritto sui confini stessi della vita. Già nel regno vegetale si comincia ad avvertire la presenza di questa legge: dall'immensa catalpa [una pianta carnivora] all'umile graminacea, quanti sono le piante che muoiono e quante quelle che sono uccise? Ma appena entrate nel regno animale, la legge assume di colpo una spaventosa evidenza. Una forza, nello stesso tempo nascosta e palpabile, si rivela continuamente occupata a rendere forzatamente vulnerabile il principio della vita….. Non vi è un solo istante in cui un essere vivente non sia divorato da un altro. Al di sopra di queste numerose razze animali è posto l'uomo, la cui mano distruttrice non risparmia alcun essere vivente; egli uccide per nutrirsi, uccide per vestirsi, uccide per ornarsi, uccide per attaccare, uccide per difendersi, uccide per istruirsi, uccide per uccidere: re superbo e terribile, ha bisogno di tutto, e nulla gli resiste……L'uomo domanda tutto in una volta: all’agnello i visceri per far risuonare un'arpa, alla balena fanoni per sostenere il corsetto della giovane vergine, al lupo i denti micidiali per rifinire le opere le più delicate, all'elefante le sue difese per costruire il giocattolo di un bambino: le sue tavole coperte di cadaveri. Il filosofo può anche scoprire come il massacro permanente sia previsto e ordinato nel grande tutto. Ma questa legge si arresterà di fronte all'uomo? Senza dubbio no. Quale essere sterminerà allora colui che tutti stermina? Egli stesso. E’ l'uomo incaricato di sgozzare l'uomo. Ma come potrà ubbidire a questa legge, lui che è un essere morale e misericordioso, lui nato per amare, lui che piange sugli altri come su se stesso, che nel pianto ha conforto e inventa anche finzioni pur di piangere; lui infine al quale è stato detto che « dovrà rendere conto di tutto il sangue che avrà versato ingiustamente »? Con la guerra. Non sentite la terra grida e invoca sangue? Non le basta il sangue degli animali e neppure quello dei colpevoli versato dalla spada delle leggi. Se la giustizia umana uccise tutti i rei, non vi sarebbe guerra; ma essa non raggiungerebbe che un numero limitato e spesso li risparmia senza pensare tuttavia che la sua feroce umanità contribuisce a rendere necessaria la guerra, soprattutto se nello stesso tempo un'altra cecità, non meno 50 stupida e funesta, lavora a spegnere l’espiazione nel mondo. La terra non ha gridato invano: la guerra divampa. L'uomo, colto all'improvviso da un furore divino, estraneo all'odio e alla collera, avanza sul campo di battaglia senza sapere quel che vuole nemmeno quel che fa. Che cos'è dunque questo terribile enigma? Niente è più contrario alla sua umanità e nulla gli ripugna di meno: compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire. Non avete notato che sul campo di morte l'uomo non disobbedisce mai? ….Niente resiste, niente può resistere alla forza che trascina l’uomo al combattimento; omicida innocente, strumento passivo di una mano terribile, « si tuffa nell’abisso che egli stesso ha scavato: dà e riceve la morte senza sospettare di averla creata egli stesso ». Così si attua perennemente la grande legge della distruzione violenta degli esseri viventi, dall'animaletto quasi invisibile fino all'uomo. La stessa terra sempre intrisa di sangue non è che un immenso altare sul quale tutto ciò che vive deve essere immolato all'infinito, senza misura, senza tregua, fino alla consumazione delle cose, fino all'estinzione del male fino alla morte della morte” (SSP 395-97). La guerra rimanda, in de Maistre, “al fine superiore della riconciliazione attraverso il sacrificio e si mostra quindi come un supremo momento di giustizia, il che ne illumina e chiarisce tante apparenti antinomie pur aprendo…un altro gravissimo problema”41: la morte degli innocenti che espiano per i colpevoli, un tema questo che tratteremo poco più avanti. La guerra, intanto, è una “legge” contro cui l’uomo non solo nulla può, ma è qualcosa che egli stesso vuole: “Ma l'anatema deve colpire l'uomo in modo pili diretto e visibile; l'angelo sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo e non lascia respirare una nazione se non per colpirne altre. Ma quando i crimini, e soprattutto quelli di un certo re, si sono accumulati su un punto segnato, l’angelo accelera oltre ogni limite il suo infaticabile volo. L'immensa velocità del suo movimento lo rende presente nello stesso tempo in ogni punto della sua temibile orbita, simile a una torcia ardente che ruota rapidamente; egli colpisce nello stesso istante tutti i popoli della terra. Altre volte, ministro di una vendetta precisa e infallibile, si accanisce su alcune nazioni e le bagna nel sangue. Non illudetevi che queste tentino qualcosa per sfuggire o rendere più mite la sentenza. Pare quasi di vedere queste grandi colpevoli rischiarate dalla luce della loro coscienza che chiedono il supplizio e l'accettano per trovare espiazione! Fino a quando resterà loro una goccia di sangue, verranno ad offrirla; e dopo qualche tempo una rara gioventù si farà raccontare le guerre 41 Ravera, M., Joseph De Maistre pensatore dell’origine, Mursia, Milano 1986, p. 100. 51 devastatrici nate dai delitti commessi dai padri. La guerra dunque è divina in se stessa, poiché è una legge del mondo” (SSP pp. 398-99). Perché espiare attraverso il sangue? Non c’è né compiacimento né sadismo nelle pagine di de Maistre, ma piuttosto una concezione che è il frutto di una visione “tragica” non solo del dolore e della sofferenza, ma anche del valore dell’autoimmolazione di Cristo. Insomma, la guerra non si esaurisce nella violenza ma adopera quest’ultima per riscattare l’uomo dalla colpa. Questa visione del male come riconciliatore, come rigeneratore dell’unità e del mondo è per de Maistre il prodotto dell’uomo, non di Dio (di qui la ripresa irrazionalista e fascisteggiante della guerra come “cura ai mali del mondo” sviluppata in alcuni ambienti tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del XX secolo). Il sacrificio e la reversibilità Il “gravissimo problema” di cui si diceva poche righe più sopra è che il sacrificio, “una cerimonia che la ragione non indica e che il sentimento respinge”, dice de Maistre, e che “non può essere spiegato chiamando in causa la superstizione e il pregiudizio” dal momento che “non è mai potuto esistere un errore universale costante”, è sì un momento di riconciliazione, ma esso implica la morte di un essere innocente che paga per il colpevole: è questa l’idea di reversibilità delle colpe (che de Maistre considera essere un “dogma”, una verità certa, assoluta e indiscutibile). Le colpe di chi fa del male sono espiate dagli innocenti (“piove sul giusto e sull’ingiusto, ma l’ingiusto ha l’ombrello del giusto”…). Il male nel mondo si presenta quindi come qualcosa che colpisce chiunque, giusti e ingiusti, innocenti e colpevoli. Tuttavia, se è così, è perché nessuno è veramente innocente, nemmeno gli innocenti. L’uomo porta infatti su di sé il marchio della colpa, del peccato (quest’idea è poi estesa a tutti gli esseri sacrificabili). De Maistre mette in luce l’universalità del sacrificio espiatorio, la riparazione di una colpa che gli uomini hanno sempre avvertito come tale. Essi agiscono così per allontanare la collera divina, non perché la divinità sia sanguinaria. Infatti egli scrive all’inizio di CSS: 52 “Non adotto di certo l'empio assioma: «Il timore, nel mondo, originò gli dei». Mi piace notare invece che gli uomini, dando a Dio nomi che esprimono la grandezza, il potere e la bontà, chiamandolo «Signore», «Maestro», «Padre» ecc., hanno sufficientemente dimostrato che l'idea della divinità non può essere figlia del timore. Possiamo osservare inoltre che la musica, la poesia e la danza, in una parola tutte le arti piacevoli, erano chiamate a contribuire alle cerimonie del culto; e che l'idea d'allegria si fuse sempre così intimamente a quella di festa, che quest'ultima parola divenne ovunque sinonimo della prima. Lungi da me, d'altronde, credere che l'idea di Dio sia sorta in un certo momento per il genere umano, cioè che possa essere meno antica dell'uomo. Bisogna tuttavia riconoscere, una volta salvaguardata l'ortodossia, che la storia ci mostra in ogni epoca l'uomo consapevole di questa terribile verità: egli vive sotto la mano d'una potenza sdegnata, e questa potenza può essere appagata solo con sacrifici. Non è certo facile, a prima vista, conciliare idee in apparenza così contraddittorie; ma, se riflettiamo attentamente, comprendiamo benissimo come si conciliano, e perché il sentimento del terrore sia sempre esistito accanto a quello della gioia, senza che l’uno abbia potuto mai annientare l'altro. ‘Gli dei sono buoni, e dobbiamo loro tutti i beni di cui godiamo: dobbiamo loro la lode e l'azione di grazia. Ma gli dei sono giusti, e noi siamo colpevoli: bisogna placarli, bisogna espiare i nostri crimini; e, per riuscirci, il mezzo più potente è il sacrificio’” (CSS p. 5). Qui de Maistre si oppone ai temi classici del razionalismo e dell’illuminismo sei-settecentesco circa le teorie sull’origine della religione, per esempio quella di matrice razionalista e illuminista sei-settecentesca secondo cui gli dèi sarebbero il prodotto della paura di fronte all’ignoto, con tutto ciò che ne consegue (“Dio è anteriore all’uomo”). La consapevolezza di vivere sotto la mano di una potenza sdegnata spinge dunque l’uomo a placare tale potenza con dei sacrifici. Dio non chiede sacrifici, ma gli uomini colpevoli non possono che rappacificarsi con lui se non mediante tali atti sanguinari. Tanto la consapevolezza della propria colpevolezza, quanto il tipo di risposta (i sacrifici) sono universali. Infatti, egli scrive: “Tale fu la credenza antica, e tale è ancora, sotto varie forme, quella di tutto l'universo. Gli uomini primitivi, da cui l'intero genere umano ricevette le idee fondamentali, si credettero colpevoli: tutte istituzioni generali furono fondate su questo dogma, di modo che gli uomini di ogni secolo non hanno smesso di ammettere la degradazione primitiva e universale, e di dire come noi, sebbene 53 in maniera meno esplicita: le nostre madri ci hanno concepiti nel peccato; giacché non c'è dogma cristiano che non abbia la radice nell’intima natura e in una tradizione antica quanto il genere umano” (CSS p. 6). Nessuna religione è dunque interamente falsa, nel senso che l’uomo ha avvertito, seppure obnubilato dalla sua mente primitiva e degenerata, alcune verità fondamentali che solo il cristianesimo ha rivelato nella loro piena verità. Lettore delle opere dell’allora nascente egittologia, de Maistre chiama a testimoni del suo argomento gli Egizi: “Qualunque posizione si prenda sulla duplicità dell'uomo, la maledizione pronunciata da tutto l'universo cade sempre sulla potenza animale, sulla vita, e sull'anima (giacché tutte queste parole significano la stessa cosa nel linguaggio antico). 1 L’anima è il principio vitale, non lo spirito che si eleva nella sua invividualità, sopra la vita materiale. Gli Egiziani, che la sapienza dell'antichità proclamò «i soli depositari dei segreti divini» , erano persuasi di questa verità, e ogni giorno ne rinnovavano la pubblica professione; giacché, quando imbalsamavano i corpi, dopo aver lavato nel vino di palma gli intestini, le parti molli e, in una parola, tutti gli organi delle funzioni animali, li mettevano in una specie di cassa che alzavano al cielo, e uno degli operatori pronunciava questa preghiera in nome del morto: ‘Sole, sovrano padrone al quale devo la vita, degnati di ricevermi presso di te. Ho praticato fedelmente il culto dei miei padri; ho sempre onorato coloro ai quali devo questo corpo; mai ho negato un prestito; mai ho ucciso. Sebo commesso altri errori, non ho agito per colpa mia, ma per colpa di queste cose’. E subito si gettavano «queste cose» nel fiume, «come causa di tutti gli errori che l'uomo aveva commesso», dopo di che si procedeva all'imbalsamazione. Ora, è sicuro. che, in. questa cerimonia glì Egiziani possono essere ritenuti come i veri precursori la rivelazione che ha detto anatema alla carne, che l'ha dichiarata nemica dell'intelligenza, cioè di Dio, e che ci ha detto espressamente che «tutti coloro che sono nati dal sangue o dalla volontà della carne non diventeranno mai figli di Dio». Essendo dunque l'uomo colpevole per il suo principio sensibile, per la sua carne e per la sua vita, l'anatema cadeva sul sangue; poiché il sangue era il principio della vita, o piuttosto il sangue era la vita” (CSS p.10). L’anatema della carne ricadeva dunque sul sangue in quanto elemento vitale. Questo spiega perché “il cielo irritato contro la carne poteva essere appagato solo dal sangue” delle vittime sacrificate. 54 Riguardo ai sacrifici umani de Maistre è molto sicuro della propria spiegazione: questo “errore spaventevole”, come lui li chiama, nacque dall’accostamento di due fattori: il principio di sostituzione e l’idea di una importanza proporzionata delle vittime. Dato il dogma della reversibilità42, per cui la vita è colpevole comunque, una vita meno preziosa poteva essere data per una più preziosa (sostituzione). Così al posto di un essere umano poteva essere messo un altro, soprattutto quando la comunità era in pericolo e correva il rischio di essere annientata. Citando Cesare (De bello gallico) a proposito dei Galli, presso i quali “il supplizio dei colpevoli era estremamente gradito alla divinità”, de Maistre sembra anticipare Mauss sebbene egli non pensi, come invece pensava quest’ultimo con tutti i suoi colleghi, che la divinità fosse innanzitutto la garante dell’unità politica e sociale della comunità. Per de Maistre, proprio come per Mauss, ogni delitto commesso all’interno della comunità “legava” quest’ultima, dove il colpevole risultava “sacro” e votato agli dèi “fino a quando, versato il suo sangue [o quello di una vittima sostitutiva], questi avesse slegato se stesso e la nazione”. Il paganesimo, inteso come comprendente tutte le forme di religioni anteriori all’ebraismo e al cristianesimo, appare a de Maistre come portatore di mille sprazzi di “verità primordiali” ma “imperfette”. Siamo qui di fronte ad una lettura retroattiva e retrospettiva della storia religiosa con al centro il sacrificio43. Anche qui il sacrificio diventa una specie di “operatore” concettuale che consente di leggere il carattere unitario delle forme religiose, sebbene con intenti molto diversi da quelli che animavano la scuola di “Una volta riconosciuto che la vitalità del sangue, o meglio l'identità del sangue e della vita, è un fatto di cui l'antichità non dubitava per nulla, e che è stato riconosciuto di nuovo al giorni nostri, bisogna ammettere che è anche un'opinione antica quanto il mondo che «il cielo irritato contro la carne e il sangue poteva essere appagato solo dal sangue»; e nessuna nazione ha dubitato che ci fosse nello spargimento del sangue una virtù espiatoria! Ora, né la ragione né la follia hanno potuto inventare questa idea, e ancor meno farla adottare da tutti. Essa si radica nelle estreme profondità della natura umana, e la storia, su questo punto, non presenta una sola dissonanza in tutto l'universo. La teoria intera riposava sul dogma della reversibilità. Si credeva (come si è creduto e come si crederà sempre) che l'innocente potesse pagare per il colpevole; perciò si concludeva, dal momento che la vita è colpevole, che una vita meno preziosa potesse essere offerta e accettata per un'altra. Si offri dunque il sangue degli animali; e questa anima, offerta per un'anima, fu chiamata dagli antichi antipsychon …. come se si dicesse anima per anima o anima sostituita (CSS pp. 11-12). 43 La teoria di Detienne, se valida, dovrebbe essere quindi estesa a de Maistre. 42 55 Durkheim: piuttosto che vedere nelle forme sacrificali una continuità progressiva dell’idea di abnegazione, per cui l’australiano è “fratello” del moderno europeo ideale che “si sacrifica” per la società, il sacrificio è la spia universale di una colpa comune diversamente avvertita, una idea “innata” (come altre) che segna il destino tragico dell’uomo. Come ha scritto uno studioso di de Maistre, “Il sacrificio di Cristo illustra, riassume e completa l'intera storia delle religioni - ch'è poi per Maistre storia della religione mostrando come, nel suo insieme, essa riposi sul dogma « universale e antico come il mondo della reversibilità dei dolori dell'innovenza a profitto dei colpevoli », dogma infinitamente naturale all'uomo anche se insondabile per la ragione, sí che volerlo spiegare razionalmente altro non sarebbe che voler razionalizzare il cristianesimo stesso, « poiché esso riposa tutto intero su questo stesso dogma ampliato dell'innocenza che paga per il delitto » Nel sangue liberamente sparso dall'uomo-Dio, dal Figlio, dall'unico veramente e assolutamente innocente, si consuma quella morte della morte, quella riunificazione di ciò ch'era scisso, quella negazione del negativo verso la ricostituzione dell'unità che in modo imperfetto e incompleto l'uomo oppresso dalla coscienza della colpa ha sempre presagito, cercato e perseguito nell'uccisione delle sue innumerevoli vittime sacrificali, sì che questo è il sacrificio perfetto e unico, e insieme il supremo e sublime paradosso della storia del mondo. Dio paga per quelle stesse colpe che l'uomo ha commesso contro di lui, attira su di sé la negatività e la sofferenza concedendo loro quella vittoria che è insieme il loro annientamento: la ragione vacilla, l'amore trionfa, l'irrazionale della storia s'illumina e si trasfigura nella sovra-nazionalità inconcepibile della centralità del Cristo. Tutto assume un senso; meglio, tutto recupera il proprio senso: comprendere è ricordare, e l'innatismo vero” 44. Il sacrificio non è riducibile, secondo de Maistre, a una semplice offerta45 delle carni della vittima alla divinità, ma consiste in uno spargimento di sangue. E’ infatti nello spargimento del sangue in quanto vita che l’uomo vede la virtù espiatrice del sacrificio, e questo sacrificio è “eterno”. “Tutte le nazioni hanno creduto « che il supplizio dei colpevoli fosse qualcosa di assai accetto alla divinità », e tutte le antiche leggi, pure concordi nell'assimilare Ravera, cit. p. 109. Ironicamente, de Maistre sostiene che se si trattasse di una semplice offerta di carni agli dèi, i sacrificanti e i sacrificatori “potrebbero rivolgersi alla macelleria….” 44 45 56 al colpevole il nemico, sottolineano anche nella lettera il carattere sacrificale dell'esecuzione (SACER ESTO ... ) : questo fu il senso antico e profondo della pena di morte, che pure ispira orrore e raccapriccio nel suo conservarsi nei tempi moderni e presso i popoli « civili » - ormai spogliata, nella coscienza collettiva, del suo originario significato - accanto all'uso inveterato dei sacrifici umani presso i popoli selvaggi, ….. e nuova luce ne ricava anche - sia detto per inciso - il senso « divino » della guerra, che altro non è che un continuo, immenso sacrificio umano. In tutto questo si mostrò sempre, pur fra innumerevoli mali ed errori di ogni genere, la vivida luce dell'« istinto religioso del genere umano », e quando questo istinto religioso, riconfermato e purificato nella sua verità dal sacrificio di Cristo, ha rinnovato la faccia della terra rettificando l'antica credenza che pure «già in precedenza gli aveva reso la più decisiva testimonianza», allora all'idea oscura e feroce del sacrificio come punizione si sostituisce il concetto cristiano, in cui il mistero della reversibilità si incarna nella sua più sublime pienezza, dell'assunzione libera e volontaria della colpa e dell'accettazione della sofferenza a profitto dei colpevoli. …… Maistre « Gesú sarà in agonia fino alla fine del mondo », e la sua agonia prosegue e rivive nelle sofferenze che ogni giusto accetta in comunione con lui; « una meraviglia inconcepibile, senza dubbio, ma al tempo stesso infinitamente plausibile, che soddisfa la ragione annientandola» e « che dimostra nel modo più degno di Dio ciò che il genere umano ha sempre confessato, anche prima che gli fosse insegnato: la sua degradazione radicale, la reversibilità dei meriti dell'innocenza che paga per il colpevole, e la salvezza attraverso il sangue ».46 Dalla maledizione della “carne colpevole” solo l’ultimo degli spargimenti di sangue potrà liberarci. Di fatto il sacrificio di Cristo, non ci libererà se non alla fine del mondo, quando l’uomo sarò definitivamente scomparso. I giusti continueranno a dare il loro sangue per espiare le colpe degli ingiusti, “fino alla morte della morte”. Il sacrificio è per de Maistre “la restituzione a Dio di ciò che non si è rubato”, quindi un tentativo, mai concluso, di saldare comunque un “debito”: “Sotto l'impero di questa legge divina, il giusto (che non crede d'essere tale) » assume su di sé la sofferenza «per ottenere infine la grazia di poter restituire ciò che non ha rubato», e la sofferenza dell'innocente, sia essa volontaria o cristianamente accettata, continua e prosegue (anche se non completa: e come potrebbe esser mai completata?) la sofferenza di Cristo per la rigenerazione dell'umanità”47. 46 47 Ravera, cit. p. 111. Ravera, cit. p. 111. 57 De Maistre cerca nei Padri della Chiesa la conferma delle sue idee. Le trova in Origene: “Dobbiamo ascoltare soprattutto Origene, su questo interessante argomento, sul quale aveva meditato molto. La sua ben nota opinione era che: ‘il sangue sparso sul Calvario non era stato utile soltanto agli uomini, ma anche agli angeli, agli astri, e a tutti li esseri creati; cosa che non apparirà sorprendente a chi si ricorderà che San Paolo ha detto che «Dio ha voluto riconciliare ogni cosa per mezzo di colui che è il principio della vita, e il primogenito fra i morti, poiché ha pacificato col sangue che ha sparso sulla croce sia colui che sta in terra sia colui che sta in cielo’» (CSS p. 36). Con la citazione da Origene (II –III sec. D. C.) siamo giunti a un punto decisivo, perché con essa si “chiude il cerchio” maistriano ma anche quello antropologico. Tale affermazione ricollega infatti la visione cristiana del sangue alle concezioni, presenti in tutte le culture, del nesso tra sangue e vita. 10. Vita, morte, e rinascita. Verso la metà dell’Ottocento, J J Bachofen, un giurista svizzero noto soprattutto per il suo libro Das Mutterrecht (1861), cominciò a interessarsi al simbolismo funerario dei popoli antichi. Egli notò che questo simbolismo conteneva in sé immagini esplicite o implicite che rinviavano all’idea di rinascita. Così l’uovo (simbolo della vita), per metà bianco e per metà nero, significava l’alternarsi della luce e delle tenebre, del giorno e della notta, della vita e della morte. La sua rotazione implicava un continuo ritorno, un avvicendarsi perenne delle due facce, la vita e la morte, la morte e la vita. L’analisi del simbolismo funerario dei popoli antichi, iniziato nell’Ottocento da Bachofen, e proseguito poi da altri studiosi, fu rafforzata, nel corso del Novecento, dall’idea di ricercare nei riti funebri medesimi, così come si potevano osservare in campo etnografico, un simbolismo che mettesse in evidenza questa alternanza, e una presenza in questi stessi riti, dei simboli della rinascita. I riti funebri, tutti indistintamente, rinviano ad una idea di rigenerazione della vita degli esseri umani, degli animali come dei vegetali. Certamente l’enfasi varia da rito a rito, da contesto a 58 contesto. Infatti si va dalla rigenerazione delle risorse di cui un gruppo vive (riti agrari, per esempio) alla rigenerazione degli umani (fertilità)alla rigenerazione del cosmo intero (sacrifici hindu ma vedi anche Origene). Alcuni di questi sistemi di pensiero, entro cui si muove la concezione simbolica della vita e dei riti che evocano la sua rigenerazione, concepiscono la vita come una risorsa “limitata”. Il sacrificio hindu, ad esempio, riposa su una concezione “limitata” della vita, nel senso che “se prendi devi dare”. Da un lato, la credenza nella reincarnazione, tipica di questa “religione”, conferma la visione della vita come risorsa limitata, mentre dall’altro lato il funerale stesso è concepito come “sacrificio”, come restituzione continua e mai definitiva che gli umani fanno al cosmo in cambio della vita che hanno ricevuto. Concezioni della vita come “bene limitato” si trovano presso vari popoli. Esemplare è il caso dei Trobriand (studiati da Malinowski) dove i nuovi nati sono considerati la “reincarnazione” degli spiriti degli antenati dei membri del matrilignaggio. Molte delle concezioni (non strettamente scientifiche) della morte e della vita implicano inoltre l’idea che la morte sia in qualche modo la fonte stessa della vita. La concezione della vita come bene limitato da un lato e quella per cui morte e riproduzione sono correlate, sono interconnesse. E’ quindi naturale che i riti funebri siano costellati di simboli della rinascita. Questo non perché domini ovunque una concezione della vita come bene “limitato”, o perché sia sempre presente l’idea che morte e rinascita fisica siano sempre legate. Vero è piuttosto che sempre e comunque le “religioni” negano l’irreversibilità della morte nel momento stesso in cui affermano un nuovo “inizio”. Di solito il concepimento e la nascita sono i simboli più “ovvii” per far fronte al problema. Essi fanno capo di solito a delle “cosmografie” caratterizzate sessualmente: miti di creazione di origine degli dèi e del mondo che fanno riferimento ad atti sessuali come fonte della vita cosmica sono presenti in molti sistemi religiosi. Tuttavia le culture fanno un uso molto differente , cioè variabile, di questo simbolismo. La riproduzione biologica, inoltre, è un simbolo ambiguo, e talvolta entra nei rituali funebri più come 59 rappresentativo di qualcosa che deve essere superato, piuttosto che come una affermazione di rigenerazione. La “carne” può per esempio essere “negata” e infatti nel cristianesimo la resurrezione dei corpi è un modello cristologico più che un riferimento concreto. Per il cristiano la carne va infatti “superata” e la rinascita dopo la morte è essenzialmente spirituale. Quindi né ciò che deve essere rigenerato (il corpo? lo spirito?), né il simbolismo relativo (concepimento, carne, sangue? ) sono ovunque gli stessi48. 11. Il “terribile enigma” dell’umanità: da de Maistre a Bataille. Come si è visto precedentemente, de Maistre, per le sue considerazioni sulla guerra e il sangue, per il suo papismo radicale, e per la sua avversione totale alle idee dell’illuminismo e ai principi della repubblica nata dalla rivoluzione francese, non è stato amato da alcuno (eccezion fatta per quella interpretazione fascistizzante delle sue idee di cui lo stesso de Maistre non può essere ovviamente incolpato)49. Un autore “maledetto” dunque, maledetto perché “inquietante”. Inquietante come chiunque, indipendentemente dalle proprie convinzione politiche o religiose, osi addentrarsi in quei meandri della “vita umana” difficilmente riconducibili ai criteri interpretativi Bloch, M. e Parry, J. 1982 (a cura), Death and the Regeneration of Life, CUP, Cambridge. Sulla “indigeribilità generalizzata” di de Maistre il filosofo francese Philippe Sollers ha scritto un breve articolo che, in un passaggio, dice così: “Connaissez-vous Joseph de Maistre? Non, bien sûr, puisqu’il n’y a pas aujourd’hui d’auteur plus maudit. Oh, sans doute, vous en avez vaguement entendu parler comme du monstre le plus réactionnaire que la terre ait porté, comme un fanatique du trône et de l’autel, comme un ultra au style fulgurant, sans doute, mais tellement à contre-courant de ce qui vous paraît naturel, démocratique, sacré, et même tout simplement humain, qu’il est urgent d’effacer son nom de l’histoire normale. Maistre ? Le diable lui-même. Baudelaire, un de ses rares admirateurs inconditionnels, a peut-être pensé à lui en écrivant que personne n’était plus catholique que le diable. Ouvrez un volume de Maistre, vous serez servis. Maudit, donc, mais pas à l’ancienne, comme Sade ou d’autres, qui sont désormais sortis de l’enfer pour devenir des classiques de la subversion. Non, maudit de façon plus radicale et définitive, puisqu’on ne voit pas qui pourrait s’en réclamer un seul instant. La droite ou même l’extrême-droite ? Pas question, c’est trop aristocratique, trop fort, trop beau, effrayant. La gauche ? La cause est entendue, qu’on lui coupe la tête. Les catholiques ? Allons donc, ce type est un fou, et nous avons assez d’ennuis comme ça. Le pape ? Prudent silence par rapport à ce royaliste plus royaliste que le roi, à ce défenseur du Saint-Siège plus papiste que le pape. Vous me dites que c’est un des plus grands écrivains français ? Peutêtre, mais le style n’excuse pas tout, et vous voyez bien que son cas est pendable. Maistre ? Un Sade blanc . Ou, si vous préférez, un Voltaire retourné et chauffé au rouge ». Philippe Sollers, Maistre. Un Sade blanc, in Le Nouvel Observateur 21/06/2007. 48 49 60 della trasparente razionalità senza abbandonarvisi ma, al contrario, ma tenendo un atteggiamento critico, vigile, sospettoso. De Maistre si aggira infatti per “luoghi” dai quali chiunque preferisce “tenersi lontano” a meno di non aderire ad essi incondizionatamente (come faranno le ideologie fascisteggianti del Novecento): la violenza, la guerra, la morte, il sangue. De Maistre insiste infatti su quei “terribili enigmi” che avvolgono la vita dell’essere umano e di cui “niente è più contrario alla sua umanità e di cui nulla gli ripugna di meno”, ciò per cui egli “compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire”. De Maistre è “maledetto” per aver affrontato, certo dal suo punto di vista ultraconservatore, temi che sarebbero diventati più “attuali” solo nel Novecento, quando si è tornati ad interrogarsi sulla follia della guerra e su quei miti della violenza, del sangue e del sacrificio che tanta devastazione dovevano portare nel mondo. Tra costoro, un posto privilegiato spetta a Georges Bataille. Georges Bataille (1897-1962) è stato uno dei più influenti pensatori francesi del secondo dopoguerra. La sua opera (parte della quale postuma) si situa tra filosofia, letteratura, arte, poesia, sociologia e antropologia. Essa è assai frammentaria, asistematica e, come è stato detto, “atopica”. Non è infatti ascrivibile né a un genere di scrittura preciso, né si sofferma mai su un oggetto quale potrebbe essere quello “delimitato” da una tradizione disciplinare precisa. Centrale, in Bataille, è quella che lui stesso chiama la dimensione dell’”enigma”, un tema de maistriano per eccellenza e che Bataille declina in senso del tutto laico. Non c’è infatti alcun dio nel pensiero di Bataille; c’è tuttavia la dimensione del “sacro”, qualcosa di misterioso, enigmatico appunto, verso cui l’essere umano tende. Il mondo, dice Bataille, è dato all’uomo come un enigma. Il punto, egli sostiene, in cui la ragione e il suo “oltre” si incrociano in una possibile visione della realtà è quella del “limite dell’utile”. La ragione non rende conto di come vi possano essere cose che l’uomo persegue oltre l’utile (inteso come suo bisogno immediato). Questo “oltre” appartiene all’uomo, è dentro di lui, non lo trascende. Tuttavia l’uomo tende a trascendersi, anche se questo moto non è finalizzato al “puro bene”. 61 Rifacendosi a Mauss50, Bataille considera il fenomeno del potlàc. Esso è il caso etnografico che meglio esemplifica il gesto della dépense, cioè della dissipazione, del dispendio, della dilapidazione cosciente e volontaria messa in atto dagli uomini51. Essa non ha “altro scopo che quello di comunicare attraverso la distruzione”. La distruzione dei beni utili apre allora due questioni: 1) annienta l’utilità delle cose consegnandoci, nel momento stesso della sua distruzione, ciò che va “oltre l’utile”, il suo carattere “sacro”. 2) questo atto distruttivo è creativo di una comunicazione sottratta alle leggi dello scambio. E’ una comunicazione “totale”. Per ottenere ciò l’uomo deve tutta via produrre. Deve produrre per poter dissipare e ottenere gli effetti della dissipazione. Ciò non è ottenibile facendo riferimento ad una mera razionalità scientifica, in quanto questa riduce il mondo ad un ammasso di oggetti senz’anima coi quali non può esservi alcuna comunicazione al di fuori della logica del possesso e dell’utilizzazione. Nella preparazione de La parte maledetta (pubblicata definitivamente nel 1962 ma largamente scritta nel periodo 1939-45) Bataille si proponeva proprio di confrontarsi con tali questioni e superare la nozione di potlàc con la “questione ultima”, quella del sacrificio: l’essenza del sacrificio ci porta, egli dice, “là dove si situa l’enigma esattamente, là dove è la chiave di ogni esistenza umana”. Questa chiave è la morte, o meglio, quei meandri oscuri della nostra esistenza che paiono ricevere un senso attraverso “i giochi che la vita è stata costretta a giocare con la morte”: la comicità nella morte, l’eros e la morte, la violenza, il supplizio come spettacolo, ovviamente il sacrificio medesimo.52 Nella morte sacrificale si comunica il massimo dell’angoscia comunicabile, dice Bataille, perché il sacrificio “strappa le cose all’ordine del reale, le strappa alla loro povertà, per restituirle al divino: questo è il compito del sacrificio”, secondo un’idea espressa Bataille partecipò attivamente al Collège de sociologie che, negli anni trenta, cercò di riportare il discorso etnosoiologico della scuola durkheimiana a confrontarsi con la dimensione del sacro inteso non come “religioso” nel senso classico del termine, ma come qualcosa di “intoccabile” e “indicibile” nella stessa vita quotidiana. 51 La dépense (1933), in Bataille, G. La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 52 Si ricordi l’interpretazione di Geertz della lotta teatralizzata tra Rangda e Barong: una messa in scena dell’orripilante e del comico (La religione ecc.). 50 62 anche da altri autori secondo cui “il sacrificio è un dono a dio, e dare a dio è distruggere” (S. Weil). Nella Teoria della religione scrive infatti Bataille: “Si offrono le primizie del raccolto o si fa il sacrificio di un capo di bestiame per sottrarre al mondo delle cose la pianta e l'animale, e al tempo stesso l'agricoltore e l'allevatore. Il principio del sacrificio è la distruzione, ma per quanto si giunga a volte a distruggere totalmente (come nell’olocausto), la distruzione che il sacrificio intende operare non è l'annientamento. E’ la cosa - solo la cosa che il sacrificio vuole distruggere nella vittima. Il sacrificio distrugge i legami di subordinazione reali di un oggetto, strappa la vittima al mondo dell'utilità e la rende a quello del capriccio inintelligibile. Quando l'animale offerto entra nel cerchio in cui il sacerdote lo immolerà, passa dal mondo delle cose - precluse all'uomo e che per lui sono niente, che conosce dall'esterno - al mondo che gli è immanente, intimo, conosciuto come lo è la donna nella consumazione carnale….. (p. 43). Il passaggio dal profano al sacro tramite la vittima (il modello di Hubert e Mauss) libera l’essere umano dalla dipendenza dalla “coseità”, dalle cose nel loro essere cose e null’altro. ……. La separazione preliminare del sacrificante e del mondo delle cose è necessaria al ritorno dell'intimità, dell'immanenza tra l'uomo e il mondo, tra il soggetto e l'oggetto. Il sacrificante ha bisogno del sacrificio per separarsi dal mondo delle cose e la vittima non potrebbe esserne separata a sua volta se il sacrificante già non lo fosse. Il sacrificante enuncia: ,Intimamente, appartengo, io, al mondo sovrano degli dèi e dei miti, al mondo della generosità violenta e senza calcolo, come la mia donna appartiene ai miei desideri. Ti sottraggo, vittima, al mondo in cui tu eri e non potevi che essere ridotta allo stato di una cosa, avendo un senso esteriore alla tua natura intima. Ti richiamo all’intimità del mondo divino, all’immanenza profonda di tutto ciò che è’ ” (pp. 43-44)53. Nella “liberazione dalla cosa” mediante la sua distruzione cosciente, l’essere umano si sente partecipe del divino. Nel sacrificio la comunicazione con il divino è totale. Attraverso il percorso sin qui seguito siamo giunti dunque di fronte alla “soluzione dell’enigma”, alla ragione ultima che spinge l’essere umano al sacrificio di esseri e cose. Liberarsi dal mondo sensibile 53 Bataille, G., Teoria della religione, SE, Milano, 2002 (1973). 63 distruggendo un essere o una cosa, equivale a essere partecipi del sacro, del divino. Certe affermazioni di de Maistre sul carattere “divino” e “diabolico” al tempo stesso della guerra potranno apparire più chiare se lette alla luce delle formulazioni laiche di Bataille. La vittima, che per Hubert e Mauss era un intermediario per accostarsi al sacro, mantiene dunque questa funzione ma, con Bataille, emerge l’idea che il sacrificio, oltre che essere un modo per avvicinare il sacro, esprime anche, da parte dell’essere umano, il desiderio di liberarsi della “cosa” per mettere in primo piano la parte “spirituale” del sé. Cercheremo allora, sulla base di queste prospettive, e di altre, di comprendere un aspetto rilevante dell’agire politico contemporaneo, quello che consiste nei gesti di auto immolazione messi in atto dagli “attentatori suicidi”, figure che si sono moltiplicate in varie parti del mondo da circa una ventina d’anni. 12. Martirio e sacrificio: una forma di violenza politico-religiosa nel mondo contemporaneo. Il “terrorismo suicida” è un fenomeno di antica data che ha però conosciuto un’impennata senza precedenti negli ultimi anni. Già nel corso degli anni 1980 atti di questo genere avevano cominciato a diventare sempre più frequenti fino ad assumere, per gli occidentali, prevalentemente le caratteristiche piuttosto nette di una variante, quella del terrorismo di matrice islamica54. Specialmente a partire dall’inizio della seconda intifada – in arabo “scuotimento”(28 settembre 2000) gli episodi di questo tipo si sono intensificati. Da un punto di vista strettamente tecnico, un atto terroristico di tipo suicida potrebbe essere definito come “un attacco violento politicamente motivato attuato da uno o più individui consapevoli che attivamente e scientemente causano la propria morte facendosi saltare in aria con l’obiettivo prescelto. La morte sicura di coloro che Le odierne manifestazioni del terrorismo suicida sono molteplici. Un caso dei più rilevanti è quello dei Tamil induisti dello Sri Lanka (Natali 2004). 54 64 realizzano tale attacco è la condizione necessaria per il successo della missione”55. In seno allo stesso mondo musulmano, gli attentatori suicidi non sono identificabili esclusivamente come arabo-palestinesi, e neppure come individui che si prefiggono di compiere aggressioni finalizzate a colpire obiettivi israeliani o occidentali. In Iraq, ad esempio, ma non solo, attentatori suicidi colpiscono oggi i loro “fratelli” musulmani appartenenti a fazioni politiche avversarie con la stessa forza devastante, obbligandoci a rivedere l’idea che questi atti siano finalizzati a distruggere solo gli occidentali o l’occupante israeliano. Quando nei mesi successivi all’inizio della seconda intifada i colpi portati da uomini (e donne) - bomba palestinesi contro civili israeliani inermi si intensificarono, i media, i politici e il pubblico, specialmente occidentali, cominciarono a interrogarsi sulle ragioni di tali gesti. Sul piano linguistico gli attentatori suicidi vennero chiamati “kamikaze”, mentre la riprovazione di tali atti si fissò, come è ovvio, sulle “vittime indifese” di questi attacchi. In questo modo, riconducendo la figura dell’attentatore suicida ad un’altra ben nota (il kamikaze giapponese che dirige il proprio aereo imbottito di esplosivo contro la nave americana durante le ultime fasi della guerra del Pacifico), e reagendo moralmente con la condanna dei massacri, i media, i politici e il pubblico generico relegarono il fenomeno in uno spazio di discorso che fece degli attentatori suicidi degli “spostati” (al massimo dei “fanatici”) manipolati da altri e, delle vittime degli attentati, l’oggetto di una spietata follia distruttiva. Casi di manipolazione di individui Schweitzer, Y., 2000, “Suicide Terrorism: Development & Characteristics”, p. 1. Lecture presented in the International Conference on Countering Suicide Terrorism, (21st Feb. 2000): http://www.ict.org.il Naturalmente la definizione di atto terroristico è relativa, e per questo motivo viene qui virgolettata. Terrorista è considerato di solito chi compie un’azione bellica al di fuori di ogni schema convenzionalmente riconosciuto come “legale”. La guerra è legale, il terrorismo no. Inoltre il terrorismo è considerato come un atto che colpisce le popolazioni non militarizzate, mentre si dà per scontato che la guerra non faccia ciò. Ma questa, come sappiamo, è una capziosa distinzione perché da sempre, ma specialmente nell’età contemporanea, le guerre non solo colpiscono anche le popolazioni inermi, ma sono spesso intenzionalmente organizzate per colpire soprattutto queste ultime (dalla II guerra mondiale alle guerre del Golfo si è assistito a una escalation di violenza attuata scientemente, ma “legalmente”, contro le popolazioni civili: un’autorizzazione a “versare innocentemente il sangue innocente”, avrebbe forse detto de Maistre….. 55 65 “problematici” o psicologicamente “immaturi” si sono certamente verificati, così come lo scempio che dei corpi delle vittime i gesti di costoro hanno prodotto è un dato di fatto. Tuttavia si deve far notare che pochi si sono impegnati in un tentativo di comprensione del fenomeno che andasse al di là di considerazioni strettamente politiche (“che effetto avranno gli attentati sui rapporti tra israeliani e arabi, tra occidentali e musulmani?”); meramente tecniche (“con quali mezzi e strategie gli uomini-bomba perseguono il proprio intento?”); o puramente morali (“perché fare strage di innocenti?”). Tra questi ancora meno sono stati coloro che hanno cercato di rilevare l’origine dello “sconcerto” che un tale fenomeno generava negli osservatori. Uccidere uccidendosi pareva a volte “folle”, a volte “perverso” e a volte anche “vigliacco”. Noti editorialisti si lanciarono in considerazioni “sociopsicologiche” che facevano risalire simili atti all’astio dei palestinesi verso i più abili israeliani nello sfruttamento del territorio; oppure al risentimento per essere stati espropriati delle case e delle terre o, nel caso dei ragazzi che a volte si facevano esplodere in caffè e discoteche, all’ “invidia” dei giovani palestinesi nei confronti dei loro coetanei israeliani per il loro modo di vivere “all’occidentale”. E’ innegabile che questi “sentimenti” possano far parte (sul versante arabo) della tragica vicenda che lega il popolo israeliano e quello palestinese. Tuttavia è verosimile che all’origine dello sconcerto di fronte a questo modo “irrazionale” ( e “illegale”) di fare la guerra vi fosse l’ abitudine, forse filogeneticamente incorporata, di non poter concepire l’uccisione del proprio simile senza la mediazione di un’arma e, naturalmente, facendo uso del proprio corpo. Lo “scandalo” dell’attentatore suicida consiste probabilmente non solo nell’idea di guerra “illegale” che costui attua, ma anche nel fatto che un simile gesto pare contravvenire ciò che l’essere umano è andato elaborando nel corso della sua evoluzione. Sembra infatti che l’aggressività intraspecifica, che in tutte le specie è fortemente inibita (geneticamente), negli umani si sviluppò invece con la caccia. Potendo uccidere animali con strumenti anche a distanza (senza usare le proprie mani, le proprie gambe e i propri denti), diventò più facile uccidere anche un essere umano. L’essere umano perse il meccanismo “naturale” di controllo (l’inibizione all’aggressività 66 intraspecifica) e l’arma disattivò la remora alla distruzione del proprio simile. La storia della tecnologia bellica è, in fondo, una storia di progressiva “presa di distanza” dal nemico, fino a che la guerra moderna portò questo processo al limite estremo, con la possibilità di eliminare anche migliaia di individui senza alcun tipo di contatto, fisico o visivo: premendo semplicemente un bottone e, soprattutto, con pochi “sensi di colpa” (tranne che in casi molto particolari). Tutte queste osservazioni ci pongono già di fronte alla esigenza di dover interpretare il fenomeno del “terrorismo suicida” in termini diversi da quelli meramente tecnici o politici, e persino differenti da quelli che fanno riferimento a stati d’animo genericamente definibili come “invidia”, “risentimento”, “odio”, o a determinate patologie psichiche. Se, come sembrano dirci i dati dell’archeologia preistorica, dell’etologia e della genetica, l’arma ha fatto degli umani, oltre che dei predatori di animali, anche degli “assassini a distanza”, è “per contrasto” e “sullo sfondo” degli sviluppi tecnologici di questa tendenza esponenziale (data ormai per scontata) che dobbiamo leggere lo sconcerto suscitato dal gesto dell’attentatore suicida. Oltrepassando lo sconcerto derivante dallo spettacolo di un conflitto armato in cui l’attaccante sceglie premeditatamente e sistematicamente di autoeliminarsi nel momento stesso in cui annienta il nemico, e cercando di non cadere nel tranello che consiste nel ricondurre il fenomeno a categorie note o precostituite (kamikaze, follia, disadattamento ecc.), dovremmo cercare di “assumere il punto di vista dell’attore” - per parafrasare una celebre affermazione di Malinowski - e muovere dalle autorappresentazioni di coloro che hanno fatto dell’attentato suicida la meta finale della propria vita oppure un gesto apprezzabile e/o da incoraggiare56. Martiri Tra questi rientrano quanti hanno perseguito il loro scopo sino alla fine lasciando documenti scritti, visivi e sonori sulla propria “missione”, coloro che hanno aspirato a compiere atti del genere senza riuscirci e quanti li hanno assistiti nella loro impresa. 56 67 Le dichiarazioni lasciate dagli attentatori suicidi, così come quelle rilasciate dagli aspiranti tali; i commenti dei loro fiancheggiatori e di molti familiari, e di quanti ne condividono, in toto o in parte, il progetto, convergono verso la nozione di martirio57. Per una più che probabile confluenza semantica derivata dal modello cristianoantico del martirio che fa di colui o colei che lo subisce, o che lo cerca volontariamente, il “testimone” della fede (in greco il martys è “il testimone”), anche il martire musulmano (shahid) è autore di una “testimonianza” (shahadah) che comporta, nel caso dell’attentatore suicida, un’idea di “testimonianza martiriale” (istishahad). Chi possa essere considerato martire, e perché, è una questione complessa irta di eccezioni e sottigliezze dottrinarie, e neppure definita in maniera unanime tra gli stessi musulmani, dal momento che la nozione di martirio è spesso inseparabile dalla concezione, anch’essa ampiamente dibattuta, che si ha del jihad, termine spesso malamente tradotto, nelle lingue europee, con l’espressione “guerra santa” (ma il cui senso è qualcosa come “lotta sulla via di Dio”). La questione non è tuttavia trovare definizioni univoche, valide sempre e ovunque. L’islam non possiede, se non per alcuni principi fondamentali, un’unità dottrinaria pari a quella cattolica. Esso è costituito da una pluralità di vedute validate da tradizioni discorsive altrettanto plurali e che sono riconoscibili come “islamiche” nel momento (e fino al momento) in cui si autoriconoscono e sono riconosciute come tali58. Il linea generale, il martire musulmano (shahid) è dunque il testimone (shahid) della verità della fede. Come possa testimoniare questa verità è un fatto storicamente contingente e dipendente dal significato che, sempre a seconda delle circostanze storiche, viene Questo non significa però, come invece spesso si sente dire o si legge, che le famiglie di coloro che aspirano al martirio siano compatte nel sostenere gesti del genere (v. Hassan 2001). 58 Asad, T. 1986 "The Idea of an Anthropology of Islam", Occasional Papers, Georgetown University, Washington. In questa prospettiva che chiama in causa il riconoscimento e l’autoriconoscimento, entrano in gioco le dimensioni della credenza e della autorità. La credenza appartiene ad una realtà che ha la propria ragion d’essere in se stessa, che trova una forma di convalida nelle condizioni stesse della credenza. L’autorità è invece quella della tradizione, una nozione in questo caso simile a quella di credenza, poiché aderire ad una tradizione autorevole significa, in qualche modo, “credere”, in particolare credere nel fatto che esista una linea di continuità sulla cui validità non ci si pongono domande fino a quando, appunto, non la si mette in discussione. 57 68 attribuito all’altro termine da cui quello di martirio è spesso inscindibile: jihad. Il significato di quest’ultimo però varia da un’idea di lotta che l’individuo combatte con se stesso per il miglioramento della propria coscienza morale fino all’dea di una guerra vera e propria in difesa o per l’affermazione della propria fede59. Nella congiuntura mondiale attuale il jihad è riconosciuto, in quanto fatto socialmente, politicamente e ideologicamente rilevante, “non in virtù delle cause locali che lo hanno determinato, né per le singole biografie dei suoi combattenti, ma come una serie di effetti globali che hanno assunto una propria universalità che va oltre tali particolarità”60. Questi effetti globali, sulla politica e sul pubblico, nonché, è bene sottolineare, sull’immaginario dei “jihadisti” medesimi, sono il prodotto dei media e non delle storie singole dei particolari attivisti, e neppure delle condizioni ambientali che li hanno spinti a prendere questa via, come nemmeno delle teorie che, riallacciandosi alle varie scuole dottrinarie musulmane, possono giustificare queste scelte. Ciò che va enfatizzato, del rapporto tra istishahad (testimonianza martiriale) e media, è che anche coloro che vi prendono parte sembrano essere determinati, nelle loro scelte, da messaggi mediatici. Il istishahad è infatti diventato uno spazio di “discorso visuale” nel quale va certamente collocata un’intenzione comunicativa di tipo politico ma anche, e soprattutto, un modo di rappresentare a se stessi il proprio destino, la propria missione, il Il termine jihad compare più volte nel Corano e, col tempo, ha ricevuto interpretazioni diverse e perfino contrastanti. “Guerra d’attacco”, “lotta interiore”, “guerra difensiva”,il jihad è stato anche, in passato, uno strumento di opposizione all’intrusione coloniale, come ad esempio in Libia all’epoca della dominazione italiana. Nella odierna lettura fondamentalista del jihad quest’ultimo è una lotta militare contro i nemici dell’islam, i quali vengono identificati con coloro che non si adeguano ai dettami divini, coi governanti corrotti (dei paesi a maggioranza musulmana) e contro le potenze occidentali che li appoggiano (Mervin S. 2001 L’islam. Fondamenti e dottrine, Bruno Mondadori, Milano 2001). L’islam politico radicale inserisce il jihad in una logica di “scontro globale” e tace il fatto che il Corano, anche quando parla di jihad come “guerra d’attacco” (ma in “difesa della fede” – una specie di “guerra preventiva”), esclude di praticarla contro ebrei e cristiani, in quanto entrambi ahl al kitab cioè “popoli del Libro” (la Bibbia) e, come tali, “protetti (dhimmi, che però significava “tassati”, secondo l’antica usanza arabo-beduina di proteggere tribù nomadi o comunità di agricoltori sottoposte in cambio di un tributo). 60 Devji F. 2005, Landscapes of the Jihad. Militancy, Morality, Modernity, Cornell University Press, Ithaca. P. 87 59 69 proprio nemico e il proprio gesto che, nel caso degli attentatori suicidi, si presenta come un “martirio-testimonianza” (shahadahh). Persino la pratica di decapitare gli ostaggi, così come le autopresentazioni “alla Rambo”, entrambe varianti locali del modo di condurre il jihad, sono tipici riflessi di un codice, quello mediatico, che sembra “autorizzare” (nel senso foucaultiano del termine) comportamenti e forme di “presentazione del sé” che non hanno nulla a che vedere né con la tradizione islamica, né con forme locali della tradizione. I personaggi e i modelli narrativi di una certa produzione mediatica (filmica e televisiva) sembrano invece essere ciò che prevale su questioni dottrinarie o su teorie politiche. Questo “ambiente mediatico” non influenza soltanto il pubblico occidentale e gli stessi attori, ma anche il pubblico dei paesi a maggioranza musulmana, che finisce per ricevere una rappresentazione omogenea, mediatica (e quindi distante dal contesto motivazionale specifico) del istishahad come fatto “globale”61. Il istishahad viene allora proiettato in uno spazio visuale che non è più legato a luoghi o a storie particolari ma che ha, nei siti più disparati, e sconnessi con il contesto geografico o storico che è loro proprio, lo scenario della propria rappresentazione. La testimonianza del gesto suicida avviene quindi in uno spazio pubblico globalizzato (dai media) nel quale l’attentatore suicida trova la possibilità di essere percepito come “martire”, “testimone” (tanto dai musulmani e quanto dai non musulmani). Nel processo mediatico, la fusione tra il morire (martirio) come accadimento, e il vedere come testimonianza raggiunge un’intensità di gran lunga superiore a quella raggiunta nel contesto entro il quale, come sembra, questa speciale coincidenza semantica tra essere martiri ed essere testimoni prese originariamente forma. Tale contesto fu quello cristiano, e in particolar modo quello della tarda antichità. In uno studio dedicato alla formazione delle idee di martire e di martirio nel mondo urbano d’Oriente nel periodo romano tardo-antico, G. Bowersock62 (1995) ha ricondotto questi E’ opportuno precisare che gli attentatori suicidi, cioè gli aspiranti “martiri” non sono quelli che sono comparsi in passato sui nostri schermi televisivi intenti a leggere proclami o a minacciare esecuzioni di ostaggi. Pur definendosi tutti “combattenti sulla via di Dio” (mujahiddyn) combattenti ordinari e aspiranti martiri attuano modalità assai differenti di lotta. 62 Bowersock, G. W. 1995, Martyrdom & Rome, CUP, Cambridge. 61 70 fenomeni alla convergenza di due elementi: da un lato il protagonismo sociale giocato normalmente dalla figura dell’uomo (o della donna) santo; dall’altro il gesto suicida, tipico della tradizione romana, che consente di scegliere la morte di fronte alla impossibilità di affermare la propria dignità. Secondo Bowersock infatti, questa congiuntura, caratterizzata a suo parere da un clima politico particolarmente instabile e suscitatore di possibili atteggiamenti estremistici (si pensi ad asceti, anacoreti e stiliti) avrebbe alimentato quella che lui chiama una “ideologia della morte al servizio del trionfo di una causa” (p. 74). Mentre con il tempo le gerarchie religiose cristiane avrebbero finito con lo scoraggiare, e quindi espungere l’elemento suicida dalla professione di fede, anche la più decisa (lasciando ai persecutori il compito di “fare dei martiri”), nulla di ciò è accaduto nella tradizione islamica. Ma, a prescindere da questa pur importante differenza tra le due tradizioni, cristiana e musulmana rispettivamente, è importante sottolineare soprattutto il contesto pubblico del martirio cristiano, contesto che solo in quanto pubblico poteva essere fatto coincidere con una testimonianza nel senso completo del termine. M. Rizzi63, riprendendo le tesi di Bowersock, ha cercato di affinare l’ idea di contesto pubblico facendo opportunamente notare come il “protagonismo [sociale e politico di quanti avevano lo scopo di far trionfare la causa] aveva un suo specifico luogo […] quello del tribunale e dell’attività giudiziaria che […] si svolgeva almeno a due livelli, quello dei tribunali locali e quello della giurisdizione romana cui sola spettava lo ius gladii”64 (p. 25). “In un simile scenario - prosegue Rizzi – la morte era un esito possibile, ma non scontato né, forse, neppure probabile. Al contrario, la presa di posizione di fronte al giudice rivestiva un rilievo e un impatto pubblico che non di rado si risolveva in un rafforzamento del prestigio sociale e politico di chi aveva, a vario titolo, sfidato il potere costituito ai suoi vari livelli” (ibidem). E’ infatti solo nel contesto di tipo giudiziario greco-romano, quindi pubblico, che il termine martire (martys) sembra trovare la sua vera, Rizzi, M. 2005, “Da testimoni a martiri. Pratiche di martirio e forme di leadership nella tradizione cristiana”, Quaderni Nangeroni, Mimesis, Milano, pp. 23-32. 64 Cioè il “diritto della spada”, ossia di condannare a morte i colpevoli. 63 71 originaria, applicazione, significando appunto “testimone” e venendo ad indicare, a partire dalla seconda metà del II secolo, l’idea di colui o di colei che dà la vita come “testimonianza” della propria fede. Ciò non toglie che i cristiani non abbiano sentito il “desiderio di morire” per la propria fede anche prima si questo slittamento semantico (Bowersock 1995: 5), ma certo è che solo da allora, e in conseguenza di tale slittamento, i termini martire e martirio hanno assunto il significato che oggi viene ad essi universalmente attribuito, tanto nel cristianesimo quanto nell’islam. Proseguendo il suo commento alla tesi di Bowersock, Rizzi definisce il fenomeno come “frutto di un’ideologia del protagonismo sociale a servizio dell’affermazione di un ideale, in un contesto in cui la morte era compresa tra gli esiti possibili. Possibili ma non necessari” (Rizzi 2005:29). E’ l’espressione, “possibili ma non necessari” a stabilire la differenza tra l’ideologia del protagonismo sociale, così come si configura alla base del martirio cristiano, e quella che è alla base del martirio islamico. “Possibile”, per i cristiani, era (ed è) la morte in quanto inferta da altri, ma ciò non toglieva che altre forme di persecuzione li potessero far considerare dei martiri (esilio, confisca dei beni, privazione dei diritti); “necessaria” è invece la morte per il martire musulmano, tanto che essa gli venga inferta da altri, quanto che essa sia scientemente autoprocurata65. Infatti, una divaricazione fondamentale si crea nella pratica e nella politica del martirio cristiano da un lato e del martirio islamico dall’altro. Se l’esito è dunque molto diverso nei due casi, appare invece molto simile la struttura del contesto in cui tanto il cristiano delle origini quanto il musulmano attuale possono apparire come dei martiri. E’ infatti un contesto caratterizzato, in ambedue i casi, dalla presenza di uno spazio di comunicazione visuale che fa del martire cristiano delle origini e del martire musulmano attuale dei testimoni in quanto testimoniati (visti/ascoltati) da altri: il pubblico del processo al cristiano nel primo caso; il pubblico (prevalentemente mediatico) dell’attacco suicida musulmano nel secondo. L’uno e l’altro sono Un cristiano del periodo tardo-antico poteva cioè essere un martire in quanto imprigionato, perseguitato, privato dei beni e della libertà. Un musulmano è shayd, martire, solo in quanto morto. 65 72 martiri (testimoni della loro fede) solo perché pubblicamente visti/riconosciuti66. Le similitudini nella struttura del contesto nei due casi del martirio cristiano e di quello musulmano riguardano sicuramente altri aspetti del comportamento che potrebbero essere chiamati disposizionali e motivazionali. Il protagonismo politico, e il desiderio di far trionfare la propria fede (che si pone come “verità”) a qualunque prezzo di fronte all’ostilità dell’ambiente sociale, sono probabilmente motivazioni che dispongono gli individui coinvolti a “rischiare” la propria vita nel caso del cristiano tardo-antico, e a “sacrificarla” nel caso dell’aspirante shahid contemporaneo. Una configurazione del tutto speciale sembra assumere, nell’epoca attuale, l’idea del martirio in ambiente musulmano, almeno nel caso degli attentatori suicidi. Qui lo shahid è infatti, per definizione, colui che si auto-immola per testimoniare della propria “fede”. Questo gesto estremo non è comprensibile solo come reazione disperata ad un contesto politico caratterizzato dalla violenza. E’ invece un gesto che, a partire da questo contesto violento, trova una sua ragion d’essere all’interno di una particolare configurazione disposizionale e motivazionale, attivata da concezioni specifiche della “sacralità” e della trascendenza, oltre che da un’ idea particolare della relazione tra corpo e spirito. Sacrifici In uno studio dedicato alle “politiche della morte”67 nella congiuntura coloniale e postcoloniale, A. Mbembe ha scritto che nella Palestina odierna convivono “due logiche apparentemente inconciliabili: la logica del martirio e la logica della sopravvivenza”, E’ noto che vi sono anche dei “martiri ignoti”, ma questo è un fenomeno ex-post, cioè istituzionalizzato da un’autorità che, in quanto guida di una comunità (lo stato, la nazione ecc.), proietta su quei morti (sconosciuti) un potere attivo nella realizzazione della comunità stessa. 67 Mbembe, A. 2003, “Necropolitics”, Public Culture, 15 (1), pp. 11-40. Per “politiche della morte” (Necropolitics) Mbembe intende, rovesciando (in senso complementare) l’espressione “biopolitiche” di M. Foucault, “il potere e la capacità di dettare chi può vivere e chi può morire” come espressione ultima della sovranità nel mondo contemporaneo (Mbembe 2003: 11). 66 73 dove, in entrambe, sono a loro volta compresenti le idee di morte, terrore e libertà. Il contesto dell’attentato suicida descritto da Mbembe sembra riproporre indirettamente, e per alcuni aspetti, la logica generale della dinamica sacrificale così come questa è stata delineata in molti lavori di antropologia e, al contempo, pare evocare alcuni intrecci tra sacrificio e caccia così come sono stati messi in luce da vari studi etnografici o teorici più o meno recenti68. Non tutti gli attentatori suicidi vanno però incontro al “martirio” avendo in mente un’idea sacrificale quale può essere quella di dare la propria vita per testimoniare la propria fede religiosa. Infatti, “Il regista israeliano, Giuliano Mer - intervistato alla trasmissione televisiva Report del 10 settembre 2004 - descrive così i ragazzi del campo profughi di Jenin che si facevano esplodere (invano) contro gli immensi caterpillar che abbattevano le case, con i loro abitanti ancora dentro: ‘Il campo profughi è molto piccolo, controllato dal più potente esercito del mondo con le apparecchiature più sofisticate del mondo. Circondati da elicotteri apache e carri armati, l'unica cosa che possono fare contro questa enorme macchina è farsi saltare in aria. Dei 23 kamikaze che si sono fatti esplodere a Jenin io ne conoscevo 6: nessuno era religioso, nessuno cercava vergini nel cielo69, ciò che li spinge è che preferiscono morire piuttosto che vivere come morti. Io credo che se i palestinesi avessero il Vietnam dietro di loro si comporterebbero come i Vietcong ma invece hanno intorno solo cemento, cemento, muri, muri, muri, muri, muri e muri, una piccola quantità di esplosivo, chiodi, e si fanno saltare in aria, questo è quello che gli è rimasto.’ “ (De Luna 2006. p. 267). Come tuttavia vedremo, l’assenza di un ideale religioso non elimina il dato “sacrificale” del gesto dell’attentatore suicida. Come cercheremo di mostrare mettendo in dialogo le letture che del sacrificio fanno Hubert e Mauss e Maurice Bloch da un lato, e Georges Bataille dall’altro, la dimensione sacrificale non è affatto assente, neppure tra quanti si autoimmolano senza nutrire alcuna aspirazione ad entrare nel mondo ultraterreno così come questo è rappresentato nella tradizione islamica. Si veda, per tutti, Valeri, Wild Victims ecc. cit.: Chi muore combattendo per la fede sarà ricompensato dalla presenza, nel paradiso musulmano, delle Urì. 68 69 74 Cominciamo dunque con gli attentatori credenti. Prima di compiere ma missione suicida, egli si sottopone a un processo di sacralizzazione. Egli si “consacra” con preghiere e dichiarazioni di intenti inerenti ai motivi che lo spingono ad affermare la verità della fede, e dopo aver ricevuto una benedizione da parte di un imam. E’ solo a questo punto che egli sceglie il suo obiettivo. L’attentatore parte per la sua missione come individuo “sacralizzato”. Poiché, assieme alle vittime del suo gesto, diventerà vittima lui stesso, l’aspirante martire è in uno stato di “sospensione” che ne fa, per certi aspetti, un “già morto”. Infatti l’espressione con cui egli è indicato dai suoi è al shahid al hayy, “martire vivente”70. Lo stato di “sospensione” potrebbe ricordare lo stato di margine o di liminalità messi in luce da Van Gennep e Turner rispettivamente71. Come in un rito di passaggio (da essere umano comune a shahid) l’attentatore suicida si pone, con le dichiarazioni di intenti, le preghiere e la benedizione di un imam, in uno stato transitorio che precede la sua definitiva trasformazione nella condizione ricercata (quella di martire). Non è un caso che nel tempo che intercorre tra la consacrazione e l’atto suicida, lo shahid credente si sottoponga alle stesse restrizioni purificatrici previste per altre occasioni rituali della tradizione musulmana. L’idea che l’aspirante suicida sia “già morto” è d’altronde in sintonia con la tendenza, ampiamente diffusa, a parlare di colui o colei che si appresta a compiere un “passaggio” (per esempio nei riti di iniziazione), come di una persona “morta”. Questo per due motivi: perché il suo status è indefinito (ne ha perso uno ma non ne ha acquistato ancora un altro), e perché è spesso solo in questo stato di “morte apparente” che l’individuo entra in contatto con il mondo dell’invisibile, normalmente definito come “sacro” (antenati o divinità da cui dipendono la vita e la morte). Come spiegano Hubert e Mauss, il cui ragionamento ruota, come abbiamo visto, attorno alla coppia concettuale sacro/profano, nei riti sacrificali la consacrazione è duplice. Essa riguarda il sacrificante Il che conferma quanto detto più sopra, e cioè che nella tradizione islamica un individuo, per poter essere martire, deve essere morto. 71 Van Gennep, A. 1981, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino (ed. or. 1909); Turner, V. W. 1972, Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia (ed. or. 1969). 70 75 che deve entrare in contatto con il sacro. Ma riguarda anche e soprattutto la vittima, che deve essere consacrata per poter “andare verso” il sacro a cui è offerta. Per Mauss e Hubert il sacrificio è infatti, come si è già detto, “un atto religioso che, mediante la consacrazione della vittima, modifica lo stato della persona morale che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa” (p. 22). Per questi autori esiste, come sappiamo, un’unità dei sistemi sacrificali ma questa non è un dato sostanziale, bensì di forma, cioè la modificazione dello stato morale del beneficiario e/o dell’officiante mediante una consacrazione, la distruzione e l’offerta di una vittima. Ora, nel caso degli attentatori suicidi, le pratiche di sacralizzazione dell’aspirante shahid sono le stesse per il sacrificante e per vittima poiché, nel caso specifico, il sacrificante e la vittima sono la stessa cosa. Nel momento in cui si consacra come sacrificante, l’individuo si consacra anche come vittima. Nel modello di Hubert e Mauss abbiamo dunque la vittima (che deve essere consacrata), degli officianti (il cui stato morale viene modificato), così come dei beneficiari che acquisiscono i vantaggi dell’atto sacrificale e vengono quindi modificati anch’essi. Sappiamo che nella interpretazione del sacrificio di Hubert e Mauss la struttura di questo rituale prevede la progressiva ascesa della vittima e del sacrificante dallo stato profano ad una condizione di sacralità72. Quest’ultima culmina con la distruzione della vittima e con un progressivo ritorno di vittima e sacrificante allo stato profano: il sacrificante riprende il suo normale ruolo nella società, mentre la vittima si presenta o sotto forma di bene d’uso (se viene consumata) o come puro “resto” materiale (se viene completamente distrutta). La dinamica sacrificale dell’attentatore suicida ha esiti materiali diversi, ma simili sul piano della rappresentazione. Il sacrificante, infatti, non torna allo stato profano trasformato, ma vi torna come “cosa” quando non si dissolve completamente. Sono le vittime del suo gesto diverse da lui (i nemici) a diventare puri resti materiali. Queste ultime hanno qualcosa che le assimila, almeno in parte, alle 72 Sull’utilizzazione del termine sacrificante in Hubert e Mauss v. nota 1. 76 prede di una battuta di caccia73. Una plausibile spiegazione di questo gesto distruttivo, compiuto da attentatore suicida tanto credente quanto non credente, ma riferita al contesto israelopalestinese è, come scrive lo storico G. De Luna74, che “una ricerca di Paola Sacchi75 ha…... recentemente sottolineato la vastissima portata simbolica che è racchiusa nella distruzione del corpo dei nemici operata dagli uomini-bomba. Va ricordato anzitutto che secondo la tradizione religiosa ebraica (halacha) il corpo deve essere sepolto rapidamente nella terra, e che i resti corporei sono considerati e trattati come se fossero il corpo intero. I morti e i loro resti devono essere onorati perché sono destinati a risorgere, trattarli impropriamente è un peccato contro Dio. Secondo la legge religiosa tutta la materia corporea deve essere sepolta, anche il sangue. “La forza di questo imperativo si vede bene, quando esplode una bomba in un attentato: ogni volta interviene una squadra di ebrei ortodossi volontari che assolve al dovere sacro di raccogliere tutti i frammenti dei corpi anche il sangue che è gocciolato viene raccolto con dei pezzi di stoffa, così come vengono raccolti gli oggetti macchiati di sangue, per essere poi sepolti con il cadavere. E talmente importante seppellire corpi integri e perfetti che non solo si restituisce ogni materia corporea alla tomba, ma ai membri dell'associazione religiosa (Chevra kadisha) che controlla le sepolture è concesso persino intervenire per «perfezionare» il corpo dopo la morte, circoncidendo o eliminando i tatuaggi per esempio"76. Il centro nevralgico di queste operazioni è l'Istituto di medicina legale di Gerusalemme, il luogo privilegiato da Meira Weiss per condurre le sue ricerche sulla centralità del «corpo del soldato» nella definizione di una identità nazionale israeliana fortemente segnata in senso militarista`77. ‘In questo senso, Ricordiamo che molto spesso le vittime dei sacrifici erano, e sono, procurate attraverso una messinscena che, anche nel caso di sacrifici compiuti su animali domestici, mima la sorpresa, la cattura, la presa in trappola dell’animale da sacrificare, proprio come se fosse la preda di una battuta di caccia. Cfr Detienne e Vernant 1982 e Valeri 1994. 74 De Luna, G. Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006. 75 Cfr. P. Sacchi, “Le politiche dei resti umani nel conflitto israelo-palestinese” in AAVV. Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Bruno Mondadori, Milano 2006. 76 Weiss, M., The Chosen Body. The Politics of the Body in Israeli Society, Stanford University Press, Stanford 2002, pp. 57-64. 77 ‘Una volta che i frammenti dei corpi sono giunti all'Istituto, raccolti negli appositi sacchetti di plastica numerati in sequenza, è fondamentale tenere distinti resti e corpi sulla base delle dicotomie noi/loro, ebrei / non ebrei, soldati / non soldati. In particolare, all'Istituto i corpi dei soldati sono tenuti separati e trattati quasi cerimonialmente, ed è proibito in qualsiasi circostanza prelevare tessuti da loro. Come riferisce Weiss, molti degli intervistati tra il personale dell'Istituto insistevano sull'importanza di «non toccare» i corpi dei soldati: « il soldato è un eroe ... il suo corpo è sacro. Noi non dobbiamo toccarlo, non dobbiamo portare via niente». Cfr. M. Weiss, The Body of the Nation: Terrorism and Embodiment of Nationalism in Contemporary Israel, in «Anthropological QuarterIy», LXXV (2001), n. 1, PP. 47-48. 73 77 la disintegrazione dei corpi delle vittime è qualcosa che va anche al di là degli scopi politico-militari degli attentati (seminare panico e insicurezza nelle file nemiche, vendicare i propri caduti, testimoniare la propria forza), e punta direttamente a «intaccare simbolicamente un corpo sociale e un'identità nazionale che assegnano particolare valore e significato al corpo fisico integro’ ”78.(De Luna pp. 268-69). Nella logica dello shahid, la volontà di auto-annientamento si fonde con quella di portare con sé il nemico e di “intaccarlo simbolicamente”. In questo senso è ragionevole supporre che il martirio musulmano, oltre ad avere una dimensione pubblica,79 possieda anche una valenza “totalizzante”, almeno nel senso che esso prevede che anche le vittime del gesto dello shahid siano partecipi della testimonianza. Secondo F. Devji, infatti, “non solo le persone, ma anche animali, edifici e altri oggetti inanimati possono essere partecipi del rito del martirio, compresi perfino coloro che assistono al martirio di altri senza essere uccisi” (Devji 2005: 95). La “testimonianza” è per definizione un atto pubblico, e siccome i martiri musulmani attuali si muovono in un ambiente fortemente mediatizzato, molte cose che altrimenti sarebbero probabilmente escluse concettualmente dall’atto medesimo, entrano invece a farne parte80. P. Sacchi, Le politiche, cit. E’ opportuno sottolineare come si dovrebbe sempre precisare il contesto di riferimento dell’attentatore suicida. Non è detto infatti che un aspirante martire palestinese sarebbe disposto a fare “la stessa cosa” in Europa; né che l’aspirante shahid sunnita che colpisce i musulmani shi’iti in Iraq morirebbe allo stesso modo in Israele. L’idea del martirio cioè, dovrebbe essere modulata localmente e in relazioni alle condizioni storico-politiche, alle retoriche, e alle caratteristiche che sono proprie del contesto locale. E’ infatti la mancata considerazione del contesto specifico in cui l’aspirante martire agisce a rinviare un’immagine uniforme del jihad e del martirio medesimo. 80 Nella sua analisi Devji giunge a sostenere che “la rappresentazione mediatica del martirio crea una comunità globale la cui testimonianza impone determinate responsabilità ai suoi membri. Questa comunità non è circoscritta ai soli musulmani, ma include tutti coloro che portano la loro testimonianza [...] In un certo qual modo perfino i nemici del jihad – o le sue vittime – partecipano nei riti del martirio morendo accanto agli attentatori suicidi come negli attacchi spettacolari dell’11 Settembre. Questo fatto può spiegare perché i supporters del jihad traccino continui paralleli tra la propria morte e quella dei loro nemici, poiché entrambe si fondono in una comunità di martirio resa possibile dalla intimità virtuale dei media che consente a ciascuna parte di scambiare parole e atti con gli altri” (p. 96). Da questo punto di vista Devji sembra andare in una direzione contraria a quella di Mbembe, il quale si chiede “se la differenza delle armi usate per infliggere la morte [armi classiche da una parte e uomini e 78 79 78 Rimane ancora da spiegare il senso dell’autoannientamento, cioè del cupio dissolvi perseguito dall’aspirante martire nei confronti della sua stessa fisicità. Una lettura antropologica dell’autoannientamento fisico, concepito come parte e condizione essenziale della riuscita dell’aspirante martire, comporta una riflessione sulla violenza sacrificale e sulla concezione del corpo, oltre che dei rapporti che intercorrono tra quest’ultimo da un lato e la dimensione trascendente e spirituale dall’altro. La violenza distruttiva che scaturisce dall’atto di autoeliminazione sembra voler significare, come scrive Mbembe, che con un simile gesto si vuole “chiudere a tutti la porta alla possibilità di vivere” (p. 37). Questa semplice constatazione sembrerebbe a prima vista contrastare con il “desiderio di libertà” che gli attentatori suicidi palestinesi vogliono esprimere con il proprio gesto. Il gesto del martire musulmano è certamente un atto disperato, ma è inscrivibile in un processo complesso, che vede entrare in azione una concezione particolare del rapporto tra violenza, trascendenza, morte ma anche, e soprattutto, vita. Nel suo studio comparativo sul ruolo svolto dalla violenza nella religione Maurice Bloch (2005) ha prospettato la possibilità che la trascendenza, lungi dall’essere un’istanza archetipica81, sia il prodotto più generale delle varie forme che le relazioni politiche possono assumere82. Bloch è interessato a cogliere, sotto la loro apparente diversità, l’identità di struttura dei riti “religiosi”. Rifacendosi a Van Gennep e a Turner, e alla loro idea di “andata – sospensione – ritorno” come struttura caratteristica dei processi rituali, egli cerca di spiegare il ruolo che la violenza assume all’interno di questi ultimi. La teoria di donne-bomba dall’altra] non impedisca l’instaurazione di un sistema di scambio generalizzato tra il modo di uccidere e il modo di morire” (p. 36). 81 Bloch si oppone decisamente alla visione essenzialista e riduttiva che della violenza ha R. Girard (1980), per il quale la violenza sarebbe connaturata all’essere umano. Secondo Girard, le comunità umane, per potersi (temporaneamente) sbarazzare della violenza distruttiva, andrebbero incontro a periodiche “crisi sacrificali” nelle quali i “capri espiatori” vengono fatti oggetto di atti appunto violenti con il fine di trasformare la violenza distruttiva per la comunità in una violenza costruttiva, cioè rafforzatrice dell’ordine e della forza (interna) della comunità. Come si vedrà, la teoria di Girard, per quanto parta da premesse diverse da quelle di Bloch, ha esiti simili, anche se in Girard tali esiti sono enunciati nella forma dell’astrazione filosofica. 82 Se si vuole, la teoria di Bloch rientra in quella grande “famiglia” delle teorie della religione che fanno di quest’ultima un fenomeno proiettivo. 79 Bloch è che subendo una violenza nella fase di “andata” (quando per esempio un individuo è sottoposto ai riti che lo allontanano da una certa situazione di status) egli è dominato dalle forze trascendenti (antenati, divinità) che, come spesso viene affermato, “vegliano” sul rito. Questa violenza “uccide” colui che è sottoposto ad un rito (per esempio di iniziazione) al punto che, come si è visto, si parla dell’iniziando come di un “morto”. E’ tuttavia in questo stato intermedio di sospensione che l’individuo acquisisce quella forza che gli consentirà di “far ritorno” politicamente più potente di prima (con un nuovo status superiore a quello che gli era proprio e che ha definitivamente abbandonato). Questa forza gli viene dal mondo trascendente, cioè dal contatto con quei poteri che gli sono stati trasmessi quando era “morto”, quando cioè lui stesso faceva parte (simbolicamente) del mondo invisibile. Bloch sostiene, adducendo prove etnografiche spesso convincenti, che in molti riti di questo tipo gli iniziati, tornando più forti al mondo dei “vivi” (prima erano infatti “morti”) manifestano questa loro forza con atti violenti che possono andare da sacrifici animali (seguiti da banchetti) alla messa in atto di azioni ostili contro nemici o rivali. È allora in questo senso che il trascendente si configurerebbe come il prodotto delle relazioni politiche, tanto interne quanto esterne al gruppo. La dimensione della violenza è centrale in ogni religione, e la religione stessa, d’altra parte, non cessa mai di ricordarcelo. Con sacrifici reali o con la memoria di essi, come quella di figure martirizzate (il capro sacrificale di ebrei e musulmani in sostituzione del figlio di Abramo, la Passione di Cristo, i martiri stessi) la religione incorpora dell’idioma della violenza e se ne avvale, riproponendola in un linguaggio di tipo iconico83, il quale si esprime attraverso quelli che Geertz ha definito “simboli sacri”, cioè i “segni” delle verità della fede che si svelano attraverso i simboli medesimi e il cui effetto è quello di fortificare la “comunità dei credenti”84. Nel senso che “significa di per sé”, al di là della possibilità o meno di potersi costruire come discorso. 84 Il caso prototipico del linguaggio iconico della violenza nella religione è costituito dal crocifisso, il quale è un simbolo sacro la cui visione rinvia (iconicamente) alle “verità” della fede cristiana (morte e resurrezione in primis). Ad ogni modo, in hoc signo vinces. 83 80 È dunque in questo senso che diventa comprensibile il significato della violenza sacrificale: dare più forza a chi compie il sacrificio e alla comunità a cui costui appartiene. Di conseguenza l’autodistruzione perseguita dall’aspirante martire potrebbe essere interpretata come un atto inteso a fortificare il sacrificante e la sua comunità di fronte alle difficoltà, le sofferenze e i soprusi subiti per mano del nemico o dell’occupante. L’aspirante martire, credente oppure no, procede di fatto ad un “lavoro di sacralizzazione” che precede il gesto suicida, “prende” una forza che può provenirgli solo e unicamente dalla dimensione trascendente: Dio85 o qualcosa d’altro (come vedremo). È con questa forza “aggiunta” che l’aspirante shahid può infatti scagliarsi contro il suo obiettivo. È una forza spirituale, che trascende l’immanenza del suo stesso corpo. Nel suo lavoro Mbembe fa ad esempio osservare come nella logica del martirio sembri emergere una nuova semiotica. Il corpo dell’aspirante martire non è qualcosa da proteggere, tutt’altro. Esso non ha né potere né valore, come corpo. Ha potere “solo in quanto è sottoposto a un processo di astrazione basato sul desiderio di eternità”, in quanto, scrive Mbembe, “il martire, avendo stabilito un momento di supremazia nel quale egli ha prevalso sulla propria natura mortale, può essere visto come operante nel segno del futuro” (Mbembe p. 37). Questo processo di astrazione, questa supremazia, questo prevalere sulla propria natura mortale è la forza della trascendenza acquisita dall’aspirante martire nel processo di sacralizzazione. Ma non è necessario essere credenti per compiere un atto sacrificale. Infatti, il martire opera, come dice Mbembe, nel segno del futuro, dove questo futuro non è la vita ultraterrena, con la presenza di una evidente concezione messianica del tempo – il presente è il futuro e viceversa – ma anche la “direzione” della motivazione al martirio. E’ qui che la logica della liberazione si affianca a quella del martirio., ed è qui che tale logica, che sia Lo schema di Bloch non può essere trasferito tout court a qualunque situazione sacrificale. Ma se lo applicassimo qui interamente, anche a puro scopo di esercizio, e volessimo identificare la violenza fatta su colui che subisce la trasformazione da essere umano comune a martire, questa violenza potrebbe essere identificata con quella che il soggetto, e la sua comunità, avvertono come subita in quanto proveniente dall’esterno e che si traduce in una immagine di sé come di “oppressi”. 85 81 pensata dentro una rappresentazione religiosa oppure no, assume la dimensione della trascendenza. Alla luce di quanto si è visto a proposito della violenza sacrificale, la concezione che l’aspirante martire ha del proprio corpo dipende dalla funzione “operativa” del corpo medesimo: quella di accedere alla trascendenza. Come? Mediante il sacrificio del corpo stesso. Questa funzione operativa del corpo che, autodistruggendosi, si accosta al trascendente, di qualunque trascendente si tratti (Dio o il futuro) può forse essere meglio compresa alla luce di quanto è stato sostenuto da G. Bataille il quale, a proposito del corpo e dello spirito, ha scritto: “La miseria dell’uomo, in quanto è [si percepisce come] spirito, consiste nell’avere il corpo di un animale e dunque essere come una cosa, ma la gloria del corpo umano è di essere il substrato di uno spirito. E lo spirito è così strettamente avvinto al corpo-cosa che questo non cessa mai di essere assillato, non è mai cosa che al limite, al punto che, se la morte lo riduce allo stato di cosa, lo spirito è più presente che mai: il corpo che l’ha tradito lo rivela maggiormente di quando lo serviva. In un certo senso il cadavere è la più perfetta affermazione dello spirito. È l’essenza stessa dello spirito che l’impotenza definitiva e l’assenza del morto rivelano, allo stesso modo in cui il grido di colui che viene ucciso è l’affermazione suprema della vita” (Bataille 2002: 38). In questa prospettiva la distruzione del corpo non è tanto ciò che libera lo spirito, quanto ciò che lo fa più presente che mai. Uno spirito che, nella concezione dello shahid, è tanto più presente quanto più il suo corpo è dissolto. Autodistruggersi imbottiti di esplosivo non è infatti solo un mezzo efficace per sorprendere il nemico, per fare del proprio corpo un’arma aumentando la forza devastante dell’esplosione, è anche un’espressione estetica del modo di concepire un sacrificio, dove ciò che è corporeo scompare per far posto alla trascendenza vista come ragione ultima della sopravvivenza. Il ricorso alla violenza suicida è quindi, oltre che un atto politicomilitare, una complessa forma di comunicazione sociale che, sebbene plasmata da istanze mediatiche, contiene in sé una complessa concezione dell’individuo, della comunità, del corpo, della trascendenza nonché del tempo e, naturalmente, della 82 violenza medesima. Alla violenza in quanto forma di linguaggio viene conferita una forma e un significato all’interno di linguaggi e pratiche che sono tipiche di un certo contesto storico-sociale per cui essa può trasformarsi in un processo di “costruzione mediante distruzione, dove la sofferenza di un individuo può diventare una benedizione per l’intera società”86. Emerge dunque una concezione particolare del rapporto che lega vita, morte e rinascita, tipico, come abbiamo visto, di tutti i “sistemi” religiosi e non solo. La testimonianza martiriale (istishahad) dell’attentatore suicida ha senso solo in vista di una vita ulteriore, la quale non è necessariamente solo quella del martire in Paradiso, ma anche quella, fisica e terrena, della sua comunità. E’ a questo punto che la violenza “religiosa” in senso lato, bataillano, diventa tutt’uno con la violenza politica. Un atto sacrificale è, come è stato fatto osservare in relazione a tutt’altro contesto - le pratiche di risoluzione di un attacco di stregoneria tra i buddisti dello Sri Lanka - “qualcosa che restituisce una agentività (agency) alla vittima di un attacco, la quale, per potersene liberare, compie un atto sacrificale”87. Compiere un atto sacrificale significa, in questo contesto, e forse ovunque, fare di se stessi un “costruttore di mondi”, qualcuno che si impegna “in un atto di auto-ricreazione e che è in grado di riplasmare le relazioni [sconnesse] nel mondo, così come queste influiscono sulle possibilità vitali della vittima” (ibidem). Questa definizione della vittima di una violenza che, per liberarsi di quest’ultima, compie un sacrificio suscettibile di “rimettere a posto” l’ordine delle cose, sembra adattarsi perfettamente anche allo shahid. Percependosi come vittima di una violenza, egli, o ella, – indipendentemente dal fatto che sia credente oppure no - compie un sacrificio con cui diventa possibile liberare quelle forze capaci di conferire un ordine al mondo. Ma il sacrificio che compie lo compie su di sé (oltre che naturalmente sui suoi nemici), in un atto estremo per far emergere Aijmer, G. 2000, “Introduction: The Idiom of Violence in Imagery and Discourse”, in Aijmer, G. e Abbink, J. (Eds.) Meanings of Violence, Berg, Oxford and New York, p. 8. 87 Kapferer, B.1997, The Feast of the Sorcerer. Practices of Consciousness and Power, Chicago University Press, Chicago, p. 184 86 83 quelle forze spirituali e trascendenti da cui dipende, in ultima istanza, l’unico ordine possibile. È solo all’interno di questa particolare configurazione, fatta di trascendenza, sacralità, concezioni del rapporto tra corpo e spirito, nonché di violenza politica e attesa messianica, che noi possiamo tentare di cogliere la specificità dell’atto che, nella rappresentazione di chi lo compie, fa dell’attentatore suicida un martire musulmano, uno shahid. 84