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(a cura di), Hans Welzel nella prospettiva attuale

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(a cura di), Hans Welzel nella prospettiva attuale
LE IDEE DEGLI ALTRI
GABRIELE CIVELLO
M. PAWLIK – L. CORNACCHIA (a cura di), Hans Welzel
nella prospettiva attuale: fondamenti filosofici,
sviluppi dogmatici ed esiti storici del finalismo
penale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015, 397
Il pregevole volume, curato da Michael Pawlik (Professor für Strafrecht und
Strafprozessrecht an der Universität Freiburg) e da Luigi Cornacchia (Professore di diritto penale presso l’Università del Salento), e tradotto da Marta
Borghi, raccoglie gli atti del convegno Lebendiges und Totes in der Verbrechenslehre Hans Welzels, tenuto a Friburgo dal 10 al 12 aprile 2014.
L’opera collettanea contiene una raccolta di studî sulla straordinaria figura di
Hans Welzel (1904 – 1977), padre del finalismo contemporaneo, sotto il duplice angolo visuale del diritto penale e della filosofia del diritto: come indicato dal titolo, l’opera non solo ha l’ambizione di fornire al lettore un’ampia e
approfondita panoramica sul pensiero welzeliano, ma anche e soprattutto mira a dare un affresco delle possibili direttrici di sviluppo del messaggio finalistico nella dottrina contemporanea e in quella futura.
Nell’introduzione di Michael Pawlik, dal titolo Welzel: un classico?, viene
messo in luce come «la dottrina di Welzel rappresent[i] l’ultimo progetto di
grandi dimensioni, fino ad ora, di una teoria metafisica del diritto penale»,
volta a individuare, al di là dei mutevoli ordinamenti vigenti, un fondamento
di carattere universale e permanente, non senza un afflato che Pawlik definisce «a tratti platonizzante» e ispirato al tentativo hegeliano di conciliare «la
concettualità atemporale e il cambiamento storico». Da tale punto di vista,
conclude il Curatore, l’opera di Welzel, quantomeno sino alla metà degli anni ’40, presenta a tutti gli effetti i caratteri del “classico”.
Ne Le “strutture logiche delle cose” di Hans Welzel e la dottrina del diritto
naturale, Kurt SEELMANN (Professor für Strafrecht und Rechtsphilosophie an
der Universität Basel), premesso che Welzel si dissociò in più occasioni dal
giusnaturalismo moderno (pur da lui studiato sin dalla tesi su Pufendorf del
1930), siccome dal positivismo giuridico, criticandone i postulati e gli sviluppi,
si chiede se la teoria welzeliana sulle “strutture logiche delle cose” costituisca
realmente un’autonoma alternativa alle teorie classiche del diritto naturale,
giungendo alla conclusione per la quale, da un lato, Welzel non sembra avere
elaborato una «teoria critica della conoscenza che includa l’uomo nella costi-
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tuzione della realtà umana», dall’altro lato «le strutture logiche delle cose [in
senso welzeliano] non si lasciano così nettamente distinguere dal diritto naturale».
In Dottrina finalistica dell’azione di Welzel e la teoria filosofica dell’azione ,
Björn Burkhardt (Professor Lehrstuhl für Strafrecht und Strafprozessrecht,
ausländisches und internationales Strafrecht an der Universität Mannheim) si
prefigge di stabilire a quale categoria di “teoria dell’azione” appartenga il sistema finalistico welzeliano, giungendo a sussumere quest’ultimo all’interno
della c.d. “teoria intenzionalistico-causale” avente, fra i propri sostenitori, anche D. Davidson, A. Mele, J.R. Searle e M.S. Moore. L’Autore precisa che la
dottrina finalistica dell’azione di Welzel è una dottrina pre-giuridica
sull’azione che presenta tutt’oggi aspetti di notevole vitalità; tuttavia, ove venisse convalidata la tesi del c.d. “epifenomenismo” (per il quale esistono gli stati
mentali, ma essi sarebbero causalmente inefficienti), il pensiero welzeliano
verrebbe sostanzialmente messo in crisi.
Nel saggio Il compito del diritto penale e la legittimazione della pena in Welzel, il Curatore Michael Pawlik mette in luce l’adesione di Hans Welzel al
contrattualismo hobbesiano, nella misura in cui lo Stato e la pena vengono
intesi quali strumenti nelle mani di un sovrano che sia sufficientemente forte
da imporsi, per la protezione della collettività dal caotico “stato di natura”;
alla luce di ciò, l’Autore esamina i rapporti fra la tutela dei beni giuridici e la
ben nota teoria welzeliana del personales Unrecht, sostenendo che, nel sistema di Welzel, la tutela dei beni da parte del diritto penale non è assoluta e
diretta, ma solo mediata, e cioè vincolata ai casi in cui tali beni vengano aggrediti con un determinato atteggiamento interiore contrario ai valori eticosociali, in quanto infedele e disobbediente al diritto. La pena, dunque, avrebbe una funzione promozionale, stimolando il cittadino (ove “autore occasionale”, Gelegenheitstäter) all’obbedienza e alla fedeltà; ciò, tuttavia, non varrebbe per il “criminale per stato” (Zustandverbrecher) il quale, essendo pressoché incorreggibile, dovrebbe essere sanzionato mediante misure differenti
dalla pena stricto sensu, misure (queste sì) direttamente volte alla tutela di beni. Quanto alla funzione della pena, Welzel sembra propendere per un moderato general-prevenzionismo quanto all’an di sanzione, ricorrendo al paradigma retributivo (non senza diretti riferimenti al kantismo), perlopiù ai soli
fini del quantum e quomodo sanzionatorio.
Nello scritto L’adeguatezza sociale, Manuel Cancio Meliá (Professore presso
l’Universidad Autónoma de Madrid, Faculdad de Derecho) esamina il concetto welzeliano di Sozialadäquanz, il quale, secondo la tesi jakobsiana,
avrebbe realizzato i “lavori preparatori” (die Vorarbeiten) alla teorica oggi
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dominante dell’imputazione obiettiva dell’evento, nell’ottica del superamento
di una concezione meramente naturalistica del reato. In particolare, l’Autore,
dopo avere illustrato le differenti concezioni dell’adeguatezza sociale sviluppate da Welzel nelle varie fasi della propria ricerca scientifica, tra tipicità oggettiva e soggettiva del fatto e antigiuridicità, evidenzia come, nel pensiero welzeliano, la Sozialadäquanz si riferisca maggiormente al versante dell’azione più
che a quello dell’evento: in tale prospettiva, in aperta critica alle teorie classiche che scomponevano artificiosamente l’azione in versante oggettivo e soggettivo, Welzel avrebbe proposto il concetto di azione come «insieme reale,
sensato, all’interno della vita sociale effettiva» («reale, sinnvolle Ganzheit innerhalb des wirklichen sozialen Lebens»); in definitiva: l’azione come fenomeno sociale («soziales Phänomen»).
Nel saggio Dolo, consapevolezza dell’illecito, dottrina dell’errore, CarlFriedrich Stuckenberg (Professor für Strafrecht an der Universität Bonn) illustra dapprima le radici della dottrina dell’azione di Welzel, con particolare
riferimento allo scritto di Brentano Psychologie vom empirischen Standpunkt
del 1874, il quale, recuperando un concetto della filosofia scolastica, aveva
qualificato tutti i fenomeni mentali come intenzionali, cioè “diretti a qualcosa”; nel 1935, il termine Intentionalität sarebbe stato sostituito da Nicolai
Hartmann con Finalität, poi intesa da Welzel come «capacità della volontà di
prevedere in una determinata misura le conseguenze dell’intervento causale
e, perciò, di guidare questo al conseguimento dello scopo in modo sistematico»: sulla base di tale premessa, la struttura dell’azione umana veniva intesa
dall’Autore come «ontologicamente vera e pre-data al legislatore» («ontologisch wahr und dem Gesetzgeber vorgegeben»). Nel prosieguo, Stuckenberg
illustra la concezione welzeliana del dolo come elemento della fattispecie,
dell’errore sul fatto che costituisce reato, della consapevolezza dell’illecito e
dell’errore sul divieto (non senza reminiscenze o persino diretti riferimenti al
pensiero tomistico); in particolare, secondo le categorie max-weberiane mutuate dal Welzel, il dolo sarebbe espressione di una Gesinnungsethik, mentre
la colpa di una Verantwortungsethik. L’Autore conclude affermando: i) la
dottrina tedesca, pur non condividendo perlopiù la fondazione ontologica
welzeliana, ha sostanzialmente recepito la collocazione del dolo nella fattispecie; ii) la definizione di azione come “espressione di senso” (Sinnausdruck)
appare condivisibile; iii) tuttavia, non è ben chiaro cosa intenda Welzel per
“intenzione”, la quale sembra assumere le vesti di un “fenomeno psichico
ultimo” (letztes seelisches Phänomen), il quale non può esser definito, donde
la celebre critica di Engisch (in FS Kohlrausch), secondo la quale la psicologizzazione del dolo e della colpa avrebbero riportato la dottrina penalistica ai
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tempi del Feuerbach; iv) il concetto del personales Unrecht si fonderebbe,
come evidenziato da Jakobs, su un concetto vago e non meglio precisato di
“persona”; v) la concezione psicologica del dolo sarebbe difficilmente conciliabile con la tesi welzeliana dell’attribuzione alla volontà delle conseguenze
secondarie e non espressamente “desiderate”. Stuckenberg conclude affermando che le aporie della teoria welzeliana del reato derivano in gran parte
dell’ambigua oscillazione fra il piano sociale del “senso” e un certo naturalismo psicologico, dicotomia concettuale che non risulterebbe sufficientemente
metabolizzata e risolta, nel corso della sua lunga opera, dal Welzel.
In “Con ciò gli scambi erano stati azionati fin dal principio in modo sbagliato”. Osservazioni sulla dottrina della colpa di Welzel, di Hirokazu Kawaguchi
(Professore presso la Kansai University, Faculty of Law, Japan), l’Autore
giapponese esamina gli sviluppi della dottrina welzeliana in tema di responsabilità colposa: nella prima edizione del manuale, del 1940, la colpa venne incentrata sulla causazione finalisticamente evitabile di un evento; successivamente, accanto alla nozione di aktuelle Finalität, tipica del dolo, venne affiancata quella di potentielle Finalität, tipica della colpa. Infine, a seguito delle
aspre critiche da parte della dottrina, Welzel sarebbe approdato a una concezione social-normativa. L’Autore segnala l’ambiguità della dottrina welzeliana
sulla colpa, nella quale – quantomeno per la unbewußte Fahrlässigkeit – i profili di illiceità e di colpevolezza finiscono per coincidere; la causa dell’aporia
viene individuata nel fatto che il penalista tedesco avrebbe «compreso l’azione
finalistica solo come azione governata in modo strumentale».
Nello scritto La dottrina del concorso di persone nel reato di Welzel , Uwe
Murmann (Professor für Strafrecht und Strafprozessrecht an der GeorgAugust-Universität Göttingen) esamina, all’interno del pensiero welzeliano,
l’istituto del concorso di persone (Beteiligung) doloso in un’azione positiva,
sotto il profilo delle differenti forme di autoria, vale a dire autoria diretta
(unmittelbare Täterschaft), autoria mediata (mittelbare Täterschaft), coautoria
(Mittäterschaft) e partecipazione (Teilnahme), illustrando le critiche di Welzel alla dottrina causale dell’azione, alla dottrina soggettiva e alla dottrina formale-oggettiva, donde l’approdo ad una nozione di “dominio sul fatto nel suo
intero disvalore etico-sociale”. Nel prosieguo, Murmann affronta il tema del
concorso di persone nell’omissione impropria, sostenendo che la “finalità
potenziale” messa in rilievo da Welzel non sarebbe adatta a comprendere il
reale potere sul fatto di chi ometta l’azione giuridicamente doverosa. Medesime insufficienze dommatiche si rinvengono nella ricostruzione welzeliana
del concorso di persone nel reato colposo. Il pensiero di Welzel, dunque,
rappresenta un imprescindibile snodo per il superamento della dottrina cau4
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sale e della teoria soggettiva del concorso, ma non risulterebbe in grado di
spiegare la reale configurazione del reato omissivo improprio e di quello colposo.
Nel saggio “Welzel e gli altri”. Posizioni e posizionamenti di Welzel prima
del 1945, Michael Kubiciel (Professor für Strafrecht, Strafrechtstheorie und
Strafrechtsvergleichung an der Universität zu Köln), dando atto che il vero
“momento di celebrità” di Welzel giunse il 18 marzo 1952, allorquando il
Großer Senat per le cause penali del BGH accolse la teoria della colpevolezza (Schuldtheorie), separando il dolo del fatto dalla consapevolezza
dell’illecito, l’Autore esamina l’influenza della dottrina welzeliana nel panorama scientifico antecedente al 1945. Se il Maestro di Welzel, Gotthold Bohne (1890 – 1957), si era dedicato alle più disparate discipline (diritto penale,
storia del diritto, medicina legale e sociologia criminale), con esclusione della
sola filosofia, Welzel avrebbe sin da giovane manifestato una naturale predisposizione allo studio della materia giuridica dal punto di vista strettamente
filosofico e teorico-generale, a partire dalla tesi dottorale sul pensiero di Pufendorf. In particolare, tra le opere giovanili del penalista tedesco spiccano
Strafrecht und Philosophie (1930) e Kausalität und Handlung (1931): in
quest’ultimo importante studio, Welzel sviluppò il filone di ricerca già avviato
da Larenz con Hegels Zurechnungslehre und der Begriff der objektiven Zurechnung (1927) e da Honig (in FG für Frank zum 70. Geburstag del 1930),
mettendo in luce le peculiarità dell’imputazione giuridica rispetto al mero
nesso di causalità. Egli, tuttavia, intese prescindere dai presunti “pesi metafisici” che avrebbero pregiudicato le considerazioni di Larenz. In tale periodo,
Welzel, nell’ottica di osteggiare l’imperante concezione naturalistica del reato,
nonché le nuove tendente neo-kantiane ispirate al pensiero di Rickert, avrebbe manifestato una profonda riverenza verso la filosofia hegeliana e, in particolare, verso il motto idealistico dell’identità fra “reale” e “razionale”. Nel
Manuale del 1940, l’Autore avrebbe chiaramente aderito ad una concezione
del diritto penale quale strumento di protezione (anche in chiave generalpreventiva) dei beni giuridici non già in via assoluta, bensì in via frammentaria
e sussidiaria, vale a dire la tutela dei beni solo rispetto a particolari forme di
aggressione, dando così predominio al disvalore d’azione rispetto al disvalore
di evento. Kubiciel conclude rammentando che la notorietà di Welzel fu dovuta al fatto che «egli disponeva di una profonda conoscenza della storia della
filosofia e della storia delle idee, con il cui aiuto […] poté ricondurre posizioni
di teoria del reato o dogmatiche a fondamenti filosofici e dare ad esse un sostegno sistematico». Welzel, tuttavia, non fu solo un rigoroso sistematico, ma
anche un eclettico e un giurista dalla formazione enciclopedica.
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Ne L’influsso di Welzel sulla dogmatica penalistica e sulla giurisprudenza agli
inizi della Repubblica Federale, Ulfrid NEUMANN (Professor für Strafrecht an
der Johann Wolfgang Goethe-Universität Frankfurt am Main) osserva come il
finalismo welzeliano, pur ricevendo una nutrita serie di critiche da parte di
numerosi studiosi, influenzò notevolmente la giurisprudenza e la dottrina della Repubblica Federale Tedesca: accadde, così, il singolare fenomeno per il
quale, pur non abbracciando i postulati ontologici generali del pensiero di
Welzel, la letteratura e la prassi recepirono molti dei suoi frutti teorici, quali
lo spostamento del dolo dalla Schuld all’illecito; la dottrina della colpa, oggetto peraltro del noto revirement a seguito delle obiezioni sollevate da Niese in
Finalität, Vorzatz un Fahrlässigkeit (1951); la teoria dell’errore e, in particolare, la possibile scusabilità dell’errore sul divieto; la teoria dell’adeguatezza sociale (sviluppata da Welzel in Studien zum System des Strafrecht del 1939); la
dottrina della partecipazione (Teilnahmelehre). Rimase, invece, scarsamente
seguita la dottrina della partecipazione nel reato omissivo, fortemente legata
alla tesi della non configurabilità del dolo di omissione. In definitiva, il pensiero welzeliano influenzò decisamente la dottrina e la giurisprudenza tedesche, quantomeno sino agli anni ’60, allorquando l’attenzione degli studiosi e
del diritto vivente si sarebbe traslata su altri temi e approcci alla materia penale, come ad esempio la criminologia, la sociologia del diritto penale e la politica criminale.
Nello scritto L’influsso di Welzel sulla dogmatica penalistica di lingua spagnola, Bernardo Feijoo Sáncez (Professore presso l’Universidad Autónoma de
Madrid, Faculdad de Derecho) evidenzia come il pensiero welzeliano abbia
avuto una notevole influenza sulla dottrina spagnola, sebbene da alcuni decenni il pensiero di Roxin e Jakobs abbia preso il sopravvento. Anche in Spagna, peraltro, sarebbero stati recepiti più d’altro i corollari della teoria finalistica – soprattutto la concezione personale dell’illecito e l’inserimento degli
elementi soggettivi nel fatto tipico – mentre i postulati iniziali sarebbero stati
oggetto di serrata critica. A titolo esemplificativo, l’Autore menziona il recepimento della teoria welzeliana della colpa all’interno della letteratura spagnola, con particolare riferimento all’inottemperanza cautelare quale parte integrante del Tatbestand; i contributi di Welzel, a tal proposito, furono fondamentali per respingere una concezione dell’illecito come pura causazione di
un evento attraverso un atto della volontà.
Nel saggio Ein Unausrottbares Verständnis? L’eredità del finalismo nel dibattito penalistico italiano, l’Autore e Curatore Luigi Cornacchia (Professore Associato di diritto penale presso l’Università del Salento) esordisce affermando
che, al di là dell’accoglimento o meno dei suoi esiti dommatici, la riflessione
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welzeliana ha senza dubbio rappresentato un punto di non ritorno all’interno
della sistematica tradizionale. In Italia, in particolare, l’opera di Welzel sarebbe stata ampiamente recepita e sviluppata dall’autorevole Scuola napoletana
di Sergio Moccia, Dario Santamaria e Carlo Fiore, oltre che da Massimo Donini. Tuttavia, un tale recepimento avrebbe incontrato gravi ostacoli, primo
fra tutti la proposta welzeliana di radicare gli istituti giuridici su basi e datità
ontologiche e meta-normative. Peraltro, è significativo osservare come la dottrina italiana abbia fatto essenzialmente proprie le critiche welzeliane nei confronti del causalismo penale, sebbene Welzel sembrasse attribuire maggiore
rilevanza ad altri filoni di ricerca, quali la teoria dell’errore, nonché quella del
rapporto tra reità e partecipazione nel concorso di persone. Ciò premesso,
Cornacchia affronta approfonditamente alcuni capisaldi del pensiero welzeliano, recepiti dalla dottrina italiana, e, in particolare il significato finalistico
dell’azione, cui sono collegati l’inserimento del dolo e della colpa nel fatto
tipico (teoria già postulata, peraltro, da A. Graf zu Dohna e M. Grünhut) e il
dominio finalistico sul fatto come criterio di individuazione dell’autore nel
concorso di persone nel reato (donde la sostituzione del concetto puramente
causal-descrittivo del concorso con una più pregnante nozione di dominio sul
fatto in termini normativi). Di contro, la dottrina della reità mediata non sarebbe stata assimilata dalla letteratura italiana, in quanto avrebbe comportato,
a valle, alcune incongruenze interpretative e applicative derivanti
dall’interferenza con gli artt. 111 e 112 c.p. Un altro filone di ricerca welzeliana sarebbe stato recepito in Italia, vale a dire la teoria dell’adeguatezza sociale,
avente una spiccata valenza anticipatrice rispetto alle teorie della objektive
Zurechnung: Proprio a tal riguardo, Cornacchia mette in luce come il concetto di soziale Adäquanz si ricolleghi all’idea secondo cui è il significato sociale
ciò che occorre valutare ai fini del giudizio sulla tipicità, il che costituisce il
viatico al successivo sviluppo – specie nel pensiero di Jakobs – delle specifiche “figure” di condotta adeguata, vale a dire: il rischio consentito, il principio
di affidamento, l’agire a proprio rischio e pericolo, il divieto di regresso e la
riconducibilità del fatto alla sfera di competenza. Un altro importante filone
di pensiero è la valorizzazione, da parte di Welzel, del disvalore di azione rispetto al disvalore di evento: il diritto penale, infatti, non tutela tout court i
beni giuridici, bensì tutela i medesimi solo rispetto a specifiche modalità di
aggressione, caratterizzate da un preciso Handlungsunwert. Il lungo quanto
denso capitolo di Luigi Cornacchia si conclude con due ulteriori paragrafi: il
primo ha ad oggetto il recupero di un’autonomia dommatica dell’error juris
attraverso la Schuldtheorie; il secondo riguarda la polemica con il neokantismo e la topica delle “strutture logiche delle cose” in prospettiva fenomenolo7
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gica e con un’incursione nelle teorie contemporanee del neo-ontologismo di
Maurizio Ferraris e Hilary Putnam. A quest’ultimo proposito, il pensiero welzeliano si propone di superare i dualismi neo-kantiani tra esperienza e intelletto, fatto e valore, dato empirico e dato assiologico, sebbene un tale oltrepassamento – aggiungeremmo noi –, siccome dispiegato da Welzel, non convinca pienamente.
Ne L’influsso di Welzel sulla dogmatica penalistica dell’Asia Orientale di
Makoto Ida (Professore di diritto penale e medicina legale presso la Keio
University Law School, Japan), viene illustrata l’influenza del pensiero welzeliano sulla letteratura asiatica e, in particolare, nipponica. Dopo un entusiastico recepimento nel secondo dopoguerra, l’adesione della dottrina orientale
alla sistematica welzeliana si sarebbe progressivamente intiepidita, fino ad un
sostanziale ritorno alla separazione classica fra versante oggettivo e soggettivo
del reato. Più in generale, la dottrina giapponese non accettò l’idea che i giudizi di valore tipici del diritto penale debbano ritenersi vincolati alla struttura
logica delle cose; maggiore fortuna avrebbe avuto il tentativo welzeliano di
connettere la tipicità penale a considerazioni di adeguatezza sociale, come
emerge dalla sentenza del Tribunale di Tokio del 2001 su un caso di contagio
da HIV. Ciò premesso, l’Autore esamina i versanti del pensiero finalista che
hanno suscitato ampio dibattito in Giappone, come ad esempio la teoria della
colpevolezza, la teoria dell’azione e quella dell’illecito. L’Autore conclude
enumerando due importanti “meriti permanenti” di Welzel nell’esperienza
giuridica giapponese, vale a dire la dottrina della general-prevenzione e la nozione di “colpevolezza” in relazione al processo di formazione della volontà
criminosa e come categoria-limite del potere punitivo dello Stato.
Nello scritto La dottrina del reato di Welzel dagli anni ’70. Tra inasprimento
soggettivistico e critica normativistica, di Wolfgang Frisch (Professor für Strafrecht und Strafprozessrecht an der Universität Freiburg), vengono esaminate
le critiche mosse dal normativismo alla dottrina welzeliana, specie dagli anni
’70 ad oggi. In primis, alla teoria per la quale il diritto penale non tutelerebbe
immediatamente i beni giuridici, ma perseguirebbe solo una frammentaria
tutela dei beni da specifiche modalità di aggressione connotate in termini di
particolare Gesinnung, la dottrina avrebbe opposto che una tale concezione
finisce per dare eccessiva prevalenza al momento etico-sociale
dell’atteggiamento interiore rispetto al fondamento oggettivo del bene giuridico tutelato; tale critica non viene pienamente condivisa da W. Frisch. Ciò
che, invece, appare in qualche modo censurabile è la concezione retributiva
della pena postulata da Welzel, laddove invece Frisch ritiene che la sanzione
penale abbia la ben diversa funzione di riconfermare la validità e la forza della
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norma giuridica. Successivamente, l’Autore mette in luce gli ulteriori passaggi
del pensiero welzeliano oggetto di critica e, in particolare: i) la natura pre-data
delle strutture logiche delle cose, concepite come vincolanti per il legislatore;
ii) il concetto di azione, inidoneo ad abbracciare effettivamente tutta la fenomenologia del reato, tra dolo e colpa, azione e omissione (Frisch aderisce,
piuttosto, all’idea jakobsiana, per cui il vero Oberbegriff non sarebbe l’azione
finalistica, bensì il concetto normativo di Vermeidbarkeit o evitabilità); iii) il
concetto di “dolo”, comprendente non solo le conseguenze prese di mira dal
soggetto, ma anche quelle “secondarie” di cui l’agente abbia preso consapevolezza; iv) la nozione di “colpa”, inizialmente costruita in senso ambiguamente
finalistico, poi ridotta, dopo le critiche dell’allievo Niese, a mera colpa lato
sensu oggettivo-normativa à la Exner ed Engisch (anche in tal caso, Frisch apprezza la dottrina jakobsiana della Fahrlässigkeit als Vermeidbarkeit); v) la
concezione della colpevolezza e, in particolare, la teoria dell’errore
sull’esistenza dei presupposti di fatto di una causa di giustificazione, ricondotto da Welzel all’errore sul divieto. Risultarono, invece, ampiamente recepiti
dalla dottrina tedesca: i) la teoria del personales Unrecht, che inseriva il dolo
e la colpa (violazione cautelare) all’interno del fatto tipico, espellendoli dalla
Schuld; ii) la teoria dell’adeguatezza sociale che, in sintonia con le teorie della
objektive Zurechnung, ricercava criteri imputativi più rigorosi e pregnanti rispetto al causalismo classico. Il saggio si conclude con l’esposizione degli
sforzi profusi da Zielinski e Struensee per migliorare e sviluppare il pensiero
welzeliano, con particolare riferimento al disvalore d’azione e alla teoria del
dolo e della colpa; nel penultimo paragrafo, invece, si illustrano le teorie di
Hirsch e Küpper, i quali avrebbero ulteriormente sviluppato e sostenuto il
pensiero welzeliano negli ultimi anni. Infine, l’Autore mette in luce il noto
fenomeno, per cui le idee di Welzel vennero perlopiù accolte “a valle”, senza
però condividere i postulati ontologici posti, “a monte”, dall’Autore: ciò sembra dovuto al fatto che Welzel, nella sua ecletticità e poliedricità, finì comunque per abbracciare tesi e posizioni non lontane da certo normativismo novecentesco, così riscuotendo paradossalmente un maggiore successo come
normativista, piuttosto che come finalista.
Nel saggio conclusivo intitolato L’importanza di Welzel per l’attuale scienza
del diritto penale, Günther Jakobs (Professor für Rechts- und Staatswissenschaften an der Universität Bonn) esamina l’“eredità welzeliana” all’interno
della dommatica contemporanea, fra luci e ombre, accoglimenti e rigetti, seguendo sei filoni concettuali: i) la critica al causalismo mediante la valorizzazione dei concetti di “volontà” e “intenzionalità”; ii) il concetto generale di
“azione”, che Welzel costruì in antitesi al naturalismo ma – Jakobs non se ne
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spiega la ragione – senza tornare alle teorie degli hegeliani; iii) la nozione di
“adeguatezza sociale”, che induce Jakobs ad affermare che Welzel sia addirittura uno dei padri fondatori della objektive Zurechnung (citando il passo welzeliano in cui si afferma che il rischio consentito sarebbe una “figura” di adeguatezza sociale); iv) il tema del bene giuridico, tutelato non già sulla scorta di
un mero disvalore di evento, bensì di un più profondo disvalore d’azione e di
Gesinnung; v) la teoria della colpevolezza, costruita da Welzel senza ricorrere
al criterio filosofico del libero arbitrio e con una tardiva adesione al pensiero
neo-kantiano di Rickert («libertà non come possibilità di scelta “tra valore e
disvalore”, al contrario come libertà rispetto all’“azione conforme al senso”
(oggettivamente). Rimane la questione circa come l’io riesca ad opporsi ai
suoi istinti e a realizzare un valore»); v) il concorso di persone nel reato; vi)
l’illecito colposo, la cui concezione welzeliana mutò (da strettamente finalistica a oggettivo-normativistica), come già detto, a seguito delle critiche subite
anche da parte degli allievi, fra i quali W. Niese. Jakobs, poi, dichiara espressamente di non esaminare il concetto welzeliano di “struttura logica delle cose”, per il semplice fatto che tale nozione sarebbe inesistente e priva di qualsivoglia base reale («Nichts gesagt habe ich zu den „sachlogischen Strukturen“,
weil es sie, wenn es um mehr gehen soll als um die Strukturen der Physik,
der Logik oder der Mathematik, meines Erachtens nicht gibt»). Jakobs, in
particolare, sostiene che quelle che Welzel chiama “logiche delle cose” non
siano altro che “logiche della società”, e ciò anche nella versione più “evoluta”
di Stratenwerth. Jakobs conclude affermando che la “rivoluzione” welzeliana
si presenta come un fenomeno storico necessario, nella misura in cui essa ha
comportato il passaggio da un reato costruito attorno al “danno causato” ad
un reato costruito attorno all’“espressione di senso”. Tuttavia, il pensiero di
Welzel dovrebbe essere necessariamente calato all’interno della contemporaneità – ivi compresi gli ultimi approdi delle neuroscienze – presentando esso
ampi aspetti di inattualità. «Nessuno scienziato del diritto penale dopo di lui
ha portato ciò all’unità e all’ampiezza che Welzel aveva raggiunto già quando
aveva 30 anni, il che forse dipende anche dal fatto che il presente non si può
comprendere diversamente che in pensieri frazionati» («sich die Gegenwart
anders als in fraktionierte Gedanken nicht fassen lässt»). Conclude, poi, Jakobs affermando che «il concetto di azione di Welzel fu ai suoi tempi uno
strumento eccellente per dare inizio alla soluzione dei problemi del tempo. Il
concetto decisivo al giorno d’oggi, com’è il suo, diventerà anche antiquato».
***
L’immagine di Hans Welzel che emerge dalla pregevole opera prefata è, in
qualche modo, duplice: da un lato, spiccano i profondi meriti di uno straor10
ARCHIVIO PENALE 2016, n. 2
dinario Autore che, in un secolo ventesimo costellato di innumerevoli e disorganici “pensieri deboli”, ha senza dubbio cercato di perseguire, quasi vox
clamantis in deserto, un qualche “pensiero forte”, e cioè di fondare il diritto
penale su pilastri ontologici meta-normativi, pre-giuridici e direttamente rinvianti alla “natura delle cose”; dall’altro lato, tuttavia, il suo pensiero appare in
molti aspetti disorganico ed eclettico, mutuando schemi e paradigmi tratti, di
volta in volta, da certo platonismo e aristotelico-tomismo, dal giusnaturalismo
pufendorfiano, dal contrattualismo hobbesiano, dal volontarismo feuerbachiano, dalla gius-filosofia kantiana e neo-kantiana, dal sistema hegeliano e
post-hegeliano, fino alla nascente objektive Zurechnung, con l’unica eccezione del positivismo giuridico più volte univocamente avversato.
L’impressione che ne deriva è, senza dubbio, quella di un Autore enciclopedico e dall’immensa cultura giuridica ed extra-giuridica, ma al contempo quella di un giurista che, affascinato da differenti ed eterogenei modelli di pensiero, non pare avere alfine edificato una coerente e monolitica teoria del reo,
del reato e della pena: emblematiche, sul punto, le oscillazioni – non sempre
del tutto risolte – tra giusnaturalismo (seppur sotto l’etichetta della “struttura
logica delle cose”) e positivismo normativistico e “sociologico”; tra illecito
personale e tutela oggettiva dei beni giuridici; tra prevenzione e retribuzione;
tra tutela della libertà e dignità umane in senso kantiano e libertario, e un’idea
“forte”, quasi totalitaria, di fedeltà allo Stato; tra centralità della pena e ricorso
a (non sempre del tutto delucidate) misure di sicurezza; tra libertà di autodeterminazione e un qualche determinismo “sociologico”.
Condivisibile, poi, è l’osservazione formulata dal curatore, Michael Pawlik,
nella chiusa del proprio saggio di pertinenza, e cioè che il sistema di Welzel si
presenta a tratti anti-storico, nella misura in cui l’Autore si propose
l’individuazione di canoni universali della giuridicità, senza però fare sufficientemente i conti con l’attualità – talvolta tragica – in cui egli si trovò ad
operare.
Quanto al fatto che il finalismo welzeliano abbia, in ogni caso, determinato
incisioni virtuose e pressoché irreversibili nel panorama dottrinale contemporaneo (primo fra tutti, il superamento della rigida separazione naturalistica fra
Schuld e Tatbestand, nonché la riscoperta di un illecito autenticamente personale, avverso gli oggettivismi e i materialismi moderni), trattasi di acquisizioni dommatiche ormai indiscutibili, sulle quali sembra in gran parte regnare
un consenso unanime nella letteratura odierna.
Rimane, però, il fatto che tali “scoperte” – che, peraltro, erano in gran parte
già patrimonio comune del pensiero pre-moderno, seppur declinate in
un’ottica autenticamente realistica che Welzel non sempre comprende ap11
ARCHIVIO PENALE 2016, n. 2
pieno – non sembrano accompagnarsi ad un più organico e complessivo disegno teoretico circa il nucleo ontologico della legge, del reato, della persona
del reo e del magistero punitivo, a causa della già segnalata e risaputa ecletticità del pensiero di base: l’insigne padre del finalismo, infatti, pur manifestando
la costante ambizione ad un ritorno ad una vagheggiata “classicità”, sembra in
gran parte avviluppato dalle contraddizioni e ambiguità di cui le epoche moderna e contemporanea sono profondamente impregnate, non riuscendo
nell’intento di riedificare un’ontologia dell’ens qua ens, e cioè una disamina
del Reale capace di neutralizzare in modo autentico gli artificiosi dualismi della modernità (corpo/anima, soggetto/oggetto, natura/cultura, fatto/valore, privato/pubblico, individuo/Stato, afflizione/prevenzione).
Non è un caso che, come argutamente osservato da Wolfgang Frisch in chiusura del proprio saggio, Welzel sia stato seguito e imitato dalla dottrina più
nella sua veste di normativista che in quella di finalista, il che ben illumina e
scolpisce la natura profondamente proteiforme del suo sistema di pensiero.
Certamente, dunque, Welzel può essere annoverato fra i grandi capi-scuola
tedeschi del diritto penale del secolo ventesimo; ma ciò non vuol dire che la
sua dottrina si palesi come integralmente condivisibile e come “faro” immediato per la nostra futura ricerca.
Nondimeno, la dottrina italiana deve essere profondamente grata agli insigni
Autori e Curatori dell’opera prefata, i quali, profondendo energie
nient’affatto comuni, hanno restituito allo studioso contemporaneo un mirabile affresco del giurista Hans Welzel, senza dubbio uno fra i penalisti e filosofi del diritto più originali della nostra storia recente.
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