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Dino Campana

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Dino Campana
Dino Campana
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Canti Orfici
1913 - 1914
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Varie e frammenti
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Epistolario con
Sibilla Aleramo
La notte
1. Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura
sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi
e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e
silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme
ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a
un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude
afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.
2. Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il
viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva
il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi
ricorreva a tratti alla mente. Laggiù avevano tratto le lunghe vesti mollemente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche:
la campagna intorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui carrettini dietro
gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la
Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed
anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.
3. Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi:
non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole
schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva
una strada acciottolata e deserta verso la città.
4. Fu scosso da una porta che si spalancò. Dei vecchi, delle forme
oblique ossute e mute, si accalcavano spingendosi coi gomiti perforanti,
terribili nella gran luce. Davanti alla faccia barbuta di un frate che sporgeva dal vano di una porta sostavano in un inchino trepidante servile,
strisciavano via mormorando, rialzandosi poco a poco, trascinando uno
ad uno le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati, tutti simili ad
ombra. Una donna dal passo dondolante e dal riso incosciente si univa
e chiudeva il corteo.
5. Strisciavano le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati: egli
seguiva, autòma. Diresse alla donna una parola che cadde nel silenzio
del meriggio: un vecchio si voltò a guardarlo con uno sguardo assurdo
lucente e vuoto. E la donna sorrideva sempre di un sorriso molle nell’aridità meridiana, ebete e sola nella luce catastrofica.
6. Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo. Mi accompagnò per strade male odoranti dove le femmine cantavano nella caldura. Ai confini della campagna
una porta incisa di colpi, guardatada una giovine femmina in veste rosa,
pallida e grassa, la attrasse: entrai. Una antica e opulenta matrona, dal
profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale
barbaramente decorata dall’occhio liquido come da una gemma nera
dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili che rinascevano colla speranza traendo essa da un mazzo di carte lunghe e
untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri. Salutai
e una voce conventuale, profonda e melodrammatica mi rispose insieme ad un
grazioso sorriso aggrinzito. Distinsi nell’ombra l’ancella che dormiva
colla bocca semiaperta, rantolante di un sonno pesante, seminudo il bel
corpo agile e ambrato. Sedetti piano.
7. La lunga teoria dei suoi amori sfilava monotona ai miei orecchi.
Antichi ritratti di famiglia erano sparsi sul tavolo untuoso. L’agile forma di
donna dalla pelle ambrata stesa sul letto ascoltava curiosamente, poggiata sui gomiti come una Sfinge: fuori gli orti verdissimi tra i muri rosseggianti: noi soli tre vivi nel silenzio meridiano.
8. Era intanto calato il tramonto ed avvolgeva del suo oro il luogo
commosso dai ricordi e pareva consacrarlo. La voce della Ruffiana si
era fatta man mano più dolce, e la sua testa di sacerdotessa orientale
compiaceva a pose languenti. La magia della sera, languida amica del
criminale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fastigi sembravano promettere un regno misterioso. E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano, anime infeconde
inconsciamente cercanti il problema della loro vita. Ma la sera scendeva
messaggio d’oro dei brividi freschi della notte.
gettati da la città al sobborgo ne le sere dell’estate torrida: volte di tre
quarti, udendo dal sobborgo il clangore che si accentua annunciando le
lingue di fuoco delle lampade inquiete a trivellare l’atmosfera carica di
luci orgiastiche: ora addolcite: nel già morto cielo dolci e rosate, alleggerite di un velo: così come Santa Marta, spezzati a terra gli strumenti,
cessato già sui sempre verdi paesaggi il canto che il cuore di Santa Cecilia accorda col cielo latino, dolce e rosata presso il crepuscolo antico
ne la linea eroica de la grande figura femminile romana sosta. Ricordi
di zingare, ricordi d’amori lontani, ricordi di suoni e di luci: stanchezze
9. Venne la notte e fu compita la conquista dell’ancella. Il suo corpo d’amore, stanchezze improvvise sul letto di una taverna lontana, altra
ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidi neri capelli a tratti la rivelazione culla avventurosa di incertezza e di rimpianto: così quello che ancora
dei suoi occhi atterriti di voluttà intricarono una fantastica vicenda. Men- era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva sul panorama
tre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza scheletrico del mondo.
il ricordo di Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea
classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo ave12. Ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, ne la luce deliziosa e
va ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che bianca, quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio e i nostri
piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano, occhi erano stanchi de le girandole di fuoco, de le stelle multicolori che
e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine avevano lasciato un odore pirico, una vaga gravezza rossa nell’aria, e il
antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive camminare accanto ci aveva illanguiditi esaltandoci di una nostra troppo
dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive diversa bellezza, lei fine e bruna, pura negli occhi e nel viso, perduto il
si ricrea la pena eterna dell’amore. E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai barbaglio della collana dal collo ignudo, camminava ora a tratti inespercapelli ispidi e dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo ste- ta stringendo il ventaglio. Fu attratta verso la baracca: la sua vestaglia
rile e dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa, ed io seguii il suo
mistero. La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini.
pallore segnato sulla sua fronte dalla frangia notturna dei suoi capelli.
Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e
10. Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime avventure le anti- dalla festa, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E
che immagini, addolcite da una vita d’amore, a proteggermi ancora col guardammo le vedute. Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei paloro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza. Si aprivano le chiu- norami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose
se aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito, appa- legnose. Una odalisca di gomma respirava sommessamente e volgeva
rendo le immagini avventurose delle cortigiane nella luce degli specchi attorno gli occhi d’idolo. E l’odore acuto della segatura che felpava i pasimpallidite nella loro attitudine di sfingi: e ancora tutto quello che era si e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero. “È così
arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza, tornava a rivivere sul pa- Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden.” Noi guardavamo intorno:
norama scheletrico del mondo.
doveva essere tardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle
lenti in quella luce di sogno! Immobile presso a me io la sentivo divenire
11. Nell’odore pirico di sera di fiera, nell’aria gli ultimi clangori, vedevo lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia
le antichissime fanciulle della prima illusione profilarsi a mezzo i ponti notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d’ama-
rezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque
come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un
tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama
scheletrico del mondo.
somigliavano allora a medaglie siracusane e il taglio dei loro occhi era
tanto perfetto che amavano sembrare immobili a contrastare armoniosamente coi lunghi riccioli bruni. Era facile incontrarle la sera per le vie
cupe (la luna illuminava allora le strade) e Faust alzava gli occhi ai comignoli delle case che nella luce della luna sembravano punti interrogativi
13. Ero sotto l’ombra dei portici stillata di gocce e gocce di luce san- e restava pensieroso allo strisciare dei loro passi che si attenuavano.
guigna ne la nebbia di una notte di dicembre. A un tratto una porta si Dalla vecchia taverna a volte che raccoglieva gli scolari gli piaceva udire
era aperta in uno sfarzo di luce. In fondo avanti posava nello sfarzo di tra i calmi conversari dell’inver- no bolognese, frigido e nebuloso come
un’ottomana rossa il gomito reggendo la testa, poggiava il gomito reg- il suo, e lo schioccare dei ciocchi e i guizzi della fiamma sull’ocra delle
gendo la testa una matrona, gli occhi bruni vivaci, le mammelle enormi: volte i passi frettolosi sotto gli archi prossimi. Amava allora raccogliersi
accanto una fanciulla inginocchiata, ambrata e fine, i capelli recisi sulla in un canto mentre la giovine ostessa, rosso il guarnello e le belle gote
fronte, con grazia giovanile, le gambe lisce e ignude dalla vestaglia sma- sotto la pettinatura fumosa passava e ripassava davanti a lui. Faust era
gliante: e sopra di lei, sulla matrona pensierosa negli occhi giovani una giovane e bello. In un giorno come quello, dalla saletta tappezzata, tra
tenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembrava agitare delle i ritornelli degli organi automatici e una decorazione floreale, dalla saimmagini, delle immagini sopra di lei, delle immagini candide sopra di lei letta udivo la folla scorrere e i rumori cupi dell’inverno. Oh! ricordo!: ero
pensierosa negli occhi giovani. Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso,
stillata di gocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attonito la gentile di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartigrazia simbolica e avventurosa di quella scena. Già era tardi, fummo soli ne levigate e flessuose, consacrate dalla mia ansia del supremo amore,
e tra noi nacque una intimità libera e la matrona dagli occhi giovani pog- dall’ansia della mia fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero
giata per sfondo la mobile tenda di trina parlò. La sua vita era un lungo per la mia fede, la mia vita era tutta “un’ansia del segreto delle stelle,
peccato: la lussuria. La lussuria ma tutta piena ancora per lei di curiosità tutta un chinarsi sull’abisso”. Ero bello di tormento, inquieto pallido asseirraggiungibili. “La femmina lo picchiettava tanto di baci da destra: da tato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii. Mi persi per il tumulto
destra perché? Poi il piccione maschio restava sopra, immobile?, dieci delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme
minuti, perché?” Le domande restavano ancora senza risposta, allora di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora
lei spinta dalla nostalgia ricordava ricordava a lungo il passato. Fin che come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti,
la conversazione si era illanguidita, la voce era taciuta intorno, il mistero e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infidella voluttà aveva rivestito colei che lo rievocava. Sconvolto, le lagrime nito del sogno. Lassù tra gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille
agli occhi io in faccia alla tenda bianca di trina seguivo seguivo ancora ticchiettìi le mille voci del silenzio svelata una giovine luce tra i tronchi,
delle fantasie bianche. La voce era taciuta intorno. La ruffiana era spari- per sentieri di chiarìe salivo: salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato
ta. La voce era taciuta. Certo l’avevo sentita passare con uno sfioramen- mistero. Laghi, lassù tra gli scogli chiare gore vegliate dal sorriso del
to silenzioso struggente.
sogno, le chiare gore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi.
Il torrente mi raccontava oscuramente la storia. Io fisso tra le lance imAvanti alla tenda gualcita di trina la fanciulla posava ancora sulle gi- mobili degli abeti credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia
nocchia ambrate, piegate piegate con grazia di cinedo.
e pure triste forse fissavo le nubi che sembravano attardarsi curiose un
istante su quel paesaggio profondo e spiarlo e svanire dietro le lance
14. Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti. Le bolognesi immobili degli abeti. E povero, ignudo, felice di essere povero ignudo, di
riflettere un istante il paesaggio quale un ricordo incantevole ed orrido
in fondo al mio cuore salivo: e giunsi giunsi là fino dove le nevi delle Alpi
mi sbarravano il cammino. Una fanciulla nel torrente lavava, lavava e
cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi accolse, nella notte
mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel mio
ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la luce della sera
d’amore.
15. Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovinezza? O i
baci i baci vani della fanciulla che lavava, lavava e cantava nella neve
delle bianche Alpi! (le lagrime salirono ai miei occhi al ricordo). Riudivo il
torrente ancora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate, lunghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio. Un calore dorato
nell’ombra della stanza presente, una chioma profusa, un corpo rantolante procubo nella notte mistica dell’antico animale umano. Dormiva
l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come
un mito arabesco imbiancava in fondo il pallore incerto della tenda.
16. E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi miti
solari, di stragi di orge si crearono avanti al mio spirito. Rividi un’antica
immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un
mito barbaro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura
del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di
moschetto sulle sue mammelle estinte. Credetti di udire fremere le chitarre là nella capanna d’assi e di zingo sui terreni vaghi della citta, mentre una candela schiariva il terreno nudo. In faccia a me una matrona
selvaggia mi fissava senza batter ciglio. La luce era scarsa sul terreno
nudo nel fremere delle chitarre. A lato sul tesoro fiorente di una fanciulla
in sogno la vecchia stava ora aggrappata come un ragno mentre pareva.
sussurrare all’orecchio parole che non udivo, dolci come il vento senza
parole della Pampa che sommerge. La matrona selvaggia mi aveva preso: il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra: ora la luce era più
scarsa sul terreno nudo nell’alito metallizzato delle chitarre. A un tratto
la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza, languida nella sua grazia
selvaggia, gli occhi dolci e acuti come un gorgo. Sulle spalle della bella
selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma
augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un
balzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente
levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della
porta aperta le stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra
delle selvagge nell’ombra.II
- Il viaggio e il ritorno
1. Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi
dentro dell’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra dei lampioni verdi
le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra
al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva
e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea
scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della
fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e
cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludii erano taciuti oramai.
La notte, la gioia più quieta della notte era calata. Le porte moresche si
caricavano e si attorcevano di mostruosi portenti neri nel mentre sullo
sfondo il cupo azzurro si insenava di stelle. Solitària troneggia- va ora la
notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di fiamme. Avanti come
una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte,
bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso poggiato alla
palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita
di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva
la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava
in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su di una duplice
ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente
come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide
dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come
un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani rosse il
mio antico cuore.
2. Ritorno. Nella stanza ove le schiuse sue forme dai velarii della luce
io cinsi, un alito tardato: e nel crepuscolo la mia pristina lampada instella
il mio cuor vago di ricordi ancora. Volti, volti cui risero gli occhi a fior del
sogno, voi giovani aurighe per le vie leggere del sogno che inghirlandai
di fervore: o fragili rime, o ghirlande d’amori notturni... Dal giardino una
canzone si rompe in catena fievole di singhiozzi: la vena è aperta: arido
rosso e dolce è il panorama scheletrico del mondo.
III - Fine
1. Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze
3. O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il di trine. La portiera nello sfarzo smesso di un giustacuore verde, le rutuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, ghe del volto più dolci, gli occhi che nel chiarore velano il nero guarda
nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una la porta d’argento. Dell’amore si sente il fascino indefinito. Governa una
stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mam- donna matura addolcita da una vita d’amore con un sorriso con un vago
melle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era bagliore che è negli occhi il ricordo delle lacrime della voluttà. Passano
nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie mulcariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono ticolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi.
sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore La portiera guarda la porta d’argento. Fuori è la notte chiomata di muti
di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, canti, pallido amor degli erranti.
tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze.
Ricordo cara: lievi come l’ali di una colomba tu le tue membra posasti
sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai
divini riflessi. O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto
è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del
sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come una
nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o
resta o resta! Non attristarti o Sole! Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città
(le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come
per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il
mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle
potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte
abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A
quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina.
La chimera
Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina o Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose,
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Giardino autunnale (Firenze)
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
A la terra autunnale
Un ultimo saluto!
A l’aride pendici
Aspre arrossate nell’estremo sole
Confusa di rumori
Rauchi grida la lontana vita:
Grida al morente sole
Che insanguina le aiole.
S’intende una fanfara
Che straziante sale: il fiume spare
Ne le arene dorate: nel silenzio
Stanno le bianche statue a capo i ponti
Volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
Tenero e grandioso
Sorge ed anela in alto al mio balcone:
E in aroma d’alloro,
In aroma d’alloro acre languente,
Tra le statue immortali nel tramonto
Ella m’appar, presente.
La speranza
(sul torrente notturno)
Per l’amor dei poeti
Principessa dei sogni segreti
Nell’ali dei vivi pensieri ripeti ripeti
Principessa i tuoi canti:
O tu chiomata di muti canti
Pallido amor degli erranti
Soffoca gli inestinti pianti
Da’ tregua agli amori segreti:
Chi le taciturne porte
Guarda che la Notte
Ha aperte sull’infinito?
Chinan l’ore: col sogno vanito
China la pallida Sorte . . . .
.....................
Per l’amor dei poeti, porte
Aperte de la morte
Su l’infinito!
Per l’amor dei poeti
Principessa il mio sogno vanito
Nei gorghi de la Sorte!
L’invetriata
La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la
lampada? - c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.
Il canto della tenebra
La luce del crepuscolo si attenua:
Inquieti spiriti sia dolce la tenebra
Al cuore che non ama più!
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
Sorgenti, sorgenti che sanno
Sorgenti che sanno che spiriti stanno
Che spiriti stanno a ascoltare...
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
Ascolta: ti ha vinto la Sorte:
Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:
Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte
Più Più Più
Intendi chi ancora ti culla:
Intendi la dolce fanciulla
Che dice all’orecchio: Più Più
Ed ecco si leva e scompare
Il vento: ecco torna dal mare
Ed ecco sentiamo ansimare
Il cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
Degli alberi e l’acque è notturno
Il fiume va via taciturno...
Pùm! mamma quell’omo lassù!
La sera di fiera
Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche
.......................................
Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.
La petite promenade du poète
Me ne vado per le strade
Strette oscure e misteriose:
Vedo dietro le vetrate
Affacciarsi Gemme e Rose.
Dalle scale misteriose
C’è chi scende brancolando:
Dietro i vetri rilucenti
Stan le ciane commentando.
........................
La stradina è solitaria:
Non c’è un cane qualche stella
Nella notte sopra i tetti:
E la notte mi par bella.
E cammino poveretto
Nella notte fantasiosa,
Pur mi sento nella bocca
La saliva disgustosa. Via dal tanfo
Via dal tanfo e per le strade
E cammina e via cammina,
Già le case son più rade.
Trovo l’erba, mi ci stendo
A conciarmi come un cane:
Da lontano un ubriaco
Canta amore alle persiane.
I - La Verna (Diario)
15 Settembre (per la strada di Campigno)
Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera che scendono. I complimenti vivaci degli stradini che riparano la via. Il ciuco che si voltola in
terra. Le risa. Le imprecazioni montanine. Le rocce e il fiume. . . . . . . .
..
Castagno, 17 Settembre
La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi
che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare. La pioggia à reso cupo il grigio
delle montagne. Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Castagnini
attendendo il sole, aduggiati da una notte di pioggia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza in ciabatte passa che dice rimessamente:
un giorno la piena ci porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupo
commenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le rocce ripide della
Falterona: dovrò salire, salire. Nel presbiterio trovo una lapide ad Andrea
del Castagno. Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi
incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così semplice
antica grazia toscana del profilo e del collo che riesce a renderle piacevoli! forse. Come differente la sera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bella la povertà delle sue casupole! Come incantate erano
sorte per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dolci avvallamenti
dove sfumava la valle barbarica, donde veniva il torrente inquieto e cupo
di profondità! Io sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel
mistero. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si intagliava
in un semicerchio dentato contro il violetto crepuscolare, arco solitario
e magnifico teso in forza di catastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti
di rocce all’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito di scoprire nel
cielo luci ancora luci. E, mentre il tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute
ai confini dorati della notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva
allungate, perdute. Il canto fu breve: una pausa, un commento improvvi-
so e misterioso e la montagna riprese il suo sogno catastrofico. Il canto
breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente nella cadenza
millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute nella notte!
Tutte le finestre nella valle erano accese. Ero solo.
Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buon odore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani. La chiesa ha un portico a
colonnette quadrate di sasso intero, nudo ed elegante, semplice e austero, veramente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su una costa
una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi della Falterona, spoglia di
macchie, che scopre la sua costruttura sassosa. Con una fiamma pallida
e fulva bruciano le erbe del camposanto.
Sulla Falterona (Giogo)
La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella
roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana:
Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho
visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena
dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in
linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda:
limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza
della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia
toscana che fu. (Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)
Campigna, foresta della Falterona (Le case quadrangolari in pietra viva
costruite dai Lorena restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romantico
alla solitudine dove i potenti della terra si sono fabbricate le loro dimore.
La sera scende dalla cresta alpina e si accoglie nel seno verde degli
abeti.) Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria sullo
sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra e i profondi
fruscìi del silenzio. Dalla cresta acuta nel cielo, sopra il mistero assopito
della selva io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amica luna che
sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: e risalutai l’amica senza
stupore come se le profondità selvagge dello sprone l’attendessero le-
varsi dal paesaggio ignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso
dagli incanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, solitario e
fumigante vapore sui barbari recessi. E non guardai più la tua strana faccia ma volli andare ancora a lungo pel viale se udissi la tua rossa aurora
nel sospiro della vita notturna delle selve.
Stia, 20 Settembre
Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla dei suoi amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina. Lei calma
gli spiega le stranezze del cuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua
nell’antico paese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salito la
Falterona lentamente seguendo il corso del torrente rubesto: ho riposato
nella limpidezza angelica dell’alta montagna addolcita di toni cupi per la
pioggia recente, ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mi
facevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi. Ho sostato nelle
case di Campigna. Son sceso per interminabili valli selvose e deserte
con improvvisi sfondi di un paesaggio promesso, un castello isolato e
lontano: e al fine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castelli
sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo: la poesia toscana
ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille, vegliata dal castello
antico: le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella
sera: l’ora di grazia della giornata, di riposo e di oblio. Al di fuori si è fatta
la quiete: il colloquio fraterno del cavaliere continua:
Comme deux ennemis rompus
Que leur haine ne soutient plus
Et qui laissent tomber leurs armes!
21 Settembre (presso la Verna)
Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa
verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di
croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza
fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba,
addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco
grigie nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa. Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offersero acqua. “In un’ora arriverete alla Verna, se Dio vole.” Una ragazzina
mi guardava cogli occhi neri un po’ tristi, attonita sotto l’ampio cappello
di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale
addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoi occhi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale.
Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torri naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di
luce nei vetri occidui. Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce
gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla
natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno
spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale
che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni
della mia vita.
22 Settembre (La Verna)
“Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatrice. 20 Agosto 189...” Me ne sono andato per la foresta con un ricordo
risentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle
ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del mio
pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce, lassù lontano da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis
della vita di S. Francesco: (dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri).
A metà, davanti alle semplici figure d’amore il suo cuore si era aperto ad
un grido ad una lacrima di passione, così il destino era consumato!
Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne
nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide
e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un’anfora classica
rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare
il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il
ginocchio a terra, lassù così presso al cielo: . . . . . . . . .
stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi contente di una lieve
stria di sole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di paesaggio una
divina dolcezza notturna mi si discoprì nel mattino, tutto velato di chiarìe
il verde, sfumato e digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue
profilate catene notturne. Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti
sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non
posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine
antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il
peso di tutto il sogno umano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda
Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata
in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua
rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la sua cappella scavata nella viva roccia. Corre
tutt’intorno un tavolato di noce dove con malinconia potente un frate...
da Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. La semplicità bizzarra
del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto tenta versarsi dall’invetriata prossima nella penembra della cappella. Acquistano allora
quei sommarii disegni un fascino bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono
ricco del noce sembrano rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio
claustrale da cui sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee
rigide enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella tarda
ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel saio villoso, e
prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida.
Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicenti lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una
fede nella triste ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un grande
silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi bagliori che ancora
guizza sotto le strette della penombra. E corre la memoria ancora alle
signore gentili dalle bianche braccia ai balconi laggiù: come in un sogno:
come in un sogno cavalleresco!
Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai pellegrini. Un alito
continuo e leggero soffia dalla selva in alto, ma non si ode né il frusciare
della massa oscura né il suo fluire per gli antri. Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno
dall’ombra, il giorno piagner che si muore.
II - Ritorno
SALGO (nello spazio, fuori del tempo)
L’acqua il vento
La sanità delle prime cose Il lavoro umano sull’elemento
Liquido - la natura che conduce
Strati di rocce su strati - il vento
Che scherza nella valle - ed ombra del vento
La nuvola - il lontano ammonimento
Del fiume nella valle E la rovina del contrafforte - la frana
La vittoria dell’elemento - il vento
Che scherza nella valle.
Su la lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell’elemento.
La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluriche.
L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole.
Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa dei giovani abeti, l’avanguardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia, felici nel sole lungo la
lunga costa torrenziale. In fondo, nel frusciar delle nere selve sempre
più avanti accampanti lo scoglio enorme che si ripiega grottesco su se
stesso, pachiderma a quattro zampe sotto la massa oscura: la Verna. E
varco e varco. Campigno: paese barbarico, fuggente, paese notturno,
mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la notte dell’antico animale
umano nei suoi gesti. Nelle tue mosse montagne l’elemento grottesco
profila: un gaglioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in corsa.
E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve come gonfie vele:
paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del Caos.
.........
Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della foresta. Dante la sua
poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini
che pensosi andate! Catrina, bizzarra figlia della montagna barbarica,
della conca rocciosa dei venti, come è dolce il tuo pianto: come è dolce
quando tu assistevi alla scena di dolore della madre, della madre che
aveva morto l’ultimo figlio. Una delle pie donne a lei dintorno, inginocchiata cercava di consolarla: ma lei non voleva essere consolata, ma lei
gettata a terra voleva piangere tutto il suo pianto. Figura del Ghirlandaio,
ultima figlia della poesia toscana che fu, tu scesa allora dal tuo cavallo tu
allora guardavi: tu che nella profluvie ondosa dei tuoi capelli salivi, salivi
con la tua compagnia, come nelle favole d’antica poesia: e già dimentica
dell’amor del poeta.
Monte Filetto, 25 Settembre
Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello sul cielo
troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. E un’ora che guardo
lo spazio laggiù e la strada a mezza costa del poggio che vi conduce.
Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d’estate batteva come un
ricco accordo sulle foglie del noce. Ma le foglie dell’acacia albero caro
alla notte si piegavano senza rumore come un’ombra verde. L’azzurro si
apre tra questi due alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza.
Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore
come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi umano:
l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sul
poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi piace dai balconi guardare la campagna deserta abitata da alberi sparsi, anima della solitudine
forgiata di vento. Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo la
pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale
pallido sulla tappezzeria memore e sulle stampe. Il fiume riprende la sua
cantilena. Vado via. Guardo ancora la finestra: la costa è un quadretto
d’oro nello squittire dei falchi.
Presso Campigno (26 Settembre)
Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle
solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elemento stesso, la melodia docile dell’acqua che si stende
tra le forre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’antica voce
dei venti incalza verso le valli in curve regali: poi che essa è qui veramente la regina del paesaggio.
.........
Valdervé è una costa interamente alpina che scende a tratti a dirupi e
getta sull’acqua il suo piedistallo come la zanna del leone. L’acqua volge
con tonfi chiari e profondi lasciando l’alto scenario pastorale di grandi
alberi e colline.
.........
Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti
azzurri: e a udire il sussurrare dell’acqua sotto le nude rocce, fresca
ancora delle profondità della terra. Così conosco una musica dolce nel
mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la
partenza o il ritorno: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’arte fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il fìgliuol prodigo
all’ombra degli alberi della casa paterna. Letteratura? Non so. Il mio
ricordo, l’acqua è così. Dopo gli sfondi spirituali senza spirito, dopo l’oro
crepuscolare, dolce come il canto dell’onnipresente tenebra è il canto
dell’acqua sotto le rocce: così come è dolce l’elemento nello splendore
nero degli occhi delle vergini spagnole: e come le corde delle chitarre di
Spagna... Ribera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi? Il
tuo satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? E in contro l’altra tua
faccia, il cavaliere della morte, l’altra tua faccia cuore profondo, cuore
danzante, satiro cinto di pampini danzante sulla sacra oscenità di Sileno? Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggio torrido
fantasmi della pietra...
.........
scorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando
dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio
come ogni giorno l’ombra...
Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così
immobile laggiù: come il mio cadavere.
Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del vento. Dalla roccia
Marradi (Antica volta. Specchio velato)
cola un filo d’acqua in un incavo. Il vento allenta e raffrena il morso del
lontano dolore. Ecco son volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera
Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triancornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro.
golo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa
in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per
.........
la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana
Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O donna sognata, don- con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei
na adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bi- tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto
zantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma di archi!
delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive
della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida
Presso Marradi (ottobre)
là dove si perde il grido di Francesca: dalla mia fanciullezza una voce
liturgica risuonava in preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo
Son capitato in mezzo a bona gente. La finestra della mia stanza che
sacro a me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di lontani affronta i venti: e la... e il figlio, povero uccellino dai tratti dolci e dall’animiracolosi destini: risveglia la mia speranza sull’infinito della pianura o ma indecisa, povero uccellino che trascina una gamba rotta, e il vento
del mare sentendo aleggiare un soffio di grazia: nobiltà carnale e dora- che batte alla finestra dall’orizzonte annuvolato, i monti lontani ed alti,
ta, profondità dorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benigna di il rombo monotono del vento. Lontano è caduta la neve... La padrona
nobiltà umana antica Romagna.
zitta mi rifà il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita
patriarcale. Fine del pellegrinaggio.
.........
L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora.
Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso sull’erba.
Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato, è
Immagini del viaggio
e della montagna
... poi che nella sorda lotta notturna
La più potente anima seconda ebbe frante le nostre catene
Noi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:
Come ombre d’eroi veleggiavano:
De l’alba non ombre nei puri silenzii
De l’alba
Nei puri pensieri
Non ombre
De l’alba non ombre:
Piangendo: giurando noi fede all’azzurro
Si scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori
Balzano: e grida ed oltrevarca i ponti.
E dalle altezze agli infiniti albori
Vigili, calan trepidi pei monti,
Tremuli e vaghi nelle vive fonti,
Gli echi dei nostri due sommessi cuori...
Hanno varcato in lunga teoria:
Nell’aria non so qual bacchico canto.
Salgono: e dietro a loro il monte introna:
......
E si distingue il loro verde canto.
............
............
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte de gli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino...
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
Andar, de l’acque ai gorghi, per la china
Valle, nel sordo mormorar sfiorato:
Seguire un’ala stanca per la china
Valle che batte e volge: desolato
Andar per valli, in fin che in azzurrina
Serenità, dall’aspre rocce dato
Un Borgo in grigio e vario torreggiare
All’alterno pensier pare e dispare,
Sovra l’arido sogno, serenato!
O se come il torrente che rovina
E si riposa nell’azzurro eguale,
Se tale a le tue mura la proclina
Anima al nulla nel suo andar fatale,
Se alle tue mura in pace cristallina
Tender potessi, in una pace uguale,
E il ricordo specchiar di una divina
Serenità perduta o tu immortale
Anima! o Tu!
............
L’aria ride: la tromba a valle i monti
Squilla: la massa degli scorridori
............
La messe, intesa al misterioso coro
Del vento, in vie di lunghe onde tranquille
Muta e gloriosa per le mie pupille
Discioglie il grembo delle luci d’oro.
O Speranza! O Speranza! a mille a mille
Splendono nell’estate i frutti! un coro
Ch’è incantato, è al suo murmure, canoro
Che vive per miriadi di faville!...
Ecco la notte: ed ecco vigilarmi
E luci e luci: ed io lontano e solo:
Quieta è la messe, verso l’infinito
(Quieto è lo spirto) vanno muti carmi
A la notte: a la notte: intendo: Solo
Ombra che torna, ch’era dipartito...
Viaggio a Montevideo
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:...
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzi!
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare.
Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna
Da gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine. Quando
In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantata
Una bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finché
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.
Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine
di
[un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:
E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umane
E noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserte
Laggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune
......................
Fantasia
su un quadro d’Ardengo Soffici
Faccia, zig zag anatomico che oscura
La passione torva di una vecchia luna
Che guarda sospesa al soffitto
In una taverna café chantant
D’America: la rossa velocità
Di luci funambola che tanga
Spagnola cinerina
Isterica in tango di luci si disfà:
Che guarda nel café chantant
D’America:
Sul piano martellato tre
Fiammelle rosse si sono accese da sé.
Batte botte
Firenze (Uffizii)
Entro dei ponti tuoi multicolori
L’Arno presago quietamente arena
E in riflessi tranquilli frange appena
Archi severi tra sfiorir di fiori.
.............................
Azzurro l’arco dell’intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi:
Candide righe nell’azzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne.
Ne la nave
Che si scuote,
Con le navi che percuote
Di un’aurora
Sulla prora
Splende un occhio
Incandescente:
(Il mio passo
Solitario
Beve l’ombra
Per il Quai)
Ne la luce
Uniforme
Da le navi
A la città
Solo il passo
Che a la notte
Solitario
Si percuote
Per la notte
Dalle navi
Solitario
Ripercuote:
Così vasta
Così ambigua
Per la notte
Così pura!
L’acqua (il mare
Che n’esala?)
A le rotte
Ne la notte
Batte: cieco
Per le rotte
Dentro l’occhio
Disumano
De la notte
Di un destino
Ne la notte
Più lontano
Per le rotte
De la notte
Il mio passo
Batte botte.
VARIE E FRAMMENTI
Firenze
Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile. Le mattine di primavera
sull’Arno. La grazia degli adolescenti (che non è grazia al mondo che
vinca tua grazia d’Aprile), vivo vergine continuo alito, fresco che vivifica
i marmi e fa nascere Venere Botticelliana: I pollini del desiderio gravi da
tutte le forme scultoree della bellezza, l’alto Cielo spirituale, le linee delle
colline che vagano, insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento alitata
dalle bianche forme della bellezza: mentre pure nostra è la divinità del
sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato di immagini plastiche!
BARCHE AMORRATE
..............
Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele! 5
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza...
Ne l’ultimo schianto crudele...
Le vele le vele le vele 10
FRAMMENTO
(Firenze)
................
Ed i piedini andavano armoniosi
Portando i cappelloni battaglieri
Che armavano di un’ala gli occhi fieri
Del lor languore solo nel bel giorno: 5
................
Scampanava la Pasqua per la via.....
................
................
PAMPA
Quiere Usted Mate? uno spagnolo mi profferse a bassa voce, quasi a
non turbare il profondo silenzio della Pampa. – Le tende si allungavano
a pochi passi da dove noi seduti in circolo in silenzio guardavamo a tratti
furtivamente le strane costellazioni che doravano l’ignoto della prateria
notturna. – Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire con refrigerio di fresca vena profonda il nostro sangue nelle vene: – che noi
assaporavamo con voluttà misteriosa – come nella coppa del silenzio
purissimo e stellato.
Quiere Usted Mate? Ricevetti il vaso e succhiai la calda bevanda.
Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giuochi dei loro arabeschi, cullato
deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano:
si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in distanza, come
per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura.
Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle
profondità del mio essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il
cammino avventuroso degli uomini verso la felicità a traverso i secoli.
Le idee brillavano della più pura luce stellare. Drammi meravigliosi, i più
meravigliosi dell’anima umana palpitavano e si rispondevano a traverso
le costellazioni. Una stella fluente in corsa magnifica segnava in linea
gloriosa la fine di un corso di storia. Sgravata la bilancia del tempo sembrava risollevarsi lentamente oscillando: – per un meraviglioso attimo
immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni. .
..
commozione del silenzio intenso era prodigiosa.
Che cosa fuggiva sulla mia testa? Fuggivano le nuvole e le stelle, fuggivano: mentre che dalla Pampa nera scossa che sfuggiva a ratti nella
selvaggia nera corsa del vento ora più forte ora più fievole ora come un
lontano fragore ferreo: a tratti alla malinconia più profonda dell’errante
un richiamo:... dalle criniere dell’erbe scosse come alla malinconia più
profonda dell’eterno errante per la Pampa riscossa come un richiamo
che fuggiva lugubre.
Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano
le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni
come di dorsi di belve in agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la
Pampa che mi correva incontro per prendermi nel suo mistero: che la
corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove un
atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre fracasso della corrente
irresistibile.
.................
Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei
venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per prendermi nel suo
mistero! Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le
tribù indiane? Od era la morte? Od era la vita? E mai, mi parve che mai
quel treno non avrebbe dovuto arrestarsi: nel mentre che il rumore lugubre delle ferramenta ne commentava incomprensibilmente il destino. Poi
la stanchezza nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sul piatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei:
e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile
che mi tornava alla mente in flutti amari e veementi. La luna illuminava
ora tutta la Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo. Solo a tratti
nuvole scherzanti un po’ colla luna, ombre improvvise correnti per la
prateria e ancora una chiarità immensa e strana nel gran silenzio.
Un disco livido spettrale spuntò all’orizzonte lontano profumato irraggiando riflessi gelidi d’acciaio sopra la prateria. Il teschio che si levava
lentamente era l’insegna formidabile di un esercito che lanciava torme di
cavalieri colle lancie in resta, acutissime lucenti: gli indiani morti e vivi si
lanciavano alla riconquista del loro dominio di libertà in lancio fulmineo.
La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla terra infinitaLe erbe piegavano in gemito leggero al vento del loro passaggio. La mente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato: un più dolce
calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona. Ora assopito io seguivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni
sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si
spense. E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia
l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgogliosamente succhi vitali
nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra: il
cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito.
Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta
e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo
infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.
IL RUSSO
(Da una poesia dell’epoca)
Tombé dans l’enfer
Grouillant d’ëtres humains
O Russe tu m’apparus
Soudain, céléstial
Parmi de la clameur 5
Du grouillement brutal
d’une lâche humanité
Se pourrissante d’elle même.
Se vis ta barbe blonde
Fulgurante au coin 10
Ton âme je vis aussi
Par le gouffre ré jetée
Ton âme dans l’étreinte
L’étreinte désespérée
Des Chimères fulgurantes 15
Dans le miasme humain.
Voilà que tu ecc. ecc.
In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiuti della società.
Io dopo due mesi di cella ansioso di rivedere degli esseri umani ero
rigettato come da onde ostili. Camminavano velocemente come pazzi,
ciascuno assorto in ció che formava l’unico senso della sua vita: la sua
colpa. Dei frati grigi dal volto sereno, troppo sereno, assisi: vigilavano. In
un angolo una testa spasmodica, una barba rossastra, un viso emaciato
disfatto, coi segni di una lotta terribile e vana. Era il russo, violinista e
pittore. Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente.
***
«Un uomo in una notte di dicembre, solo nella sua casa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori degli uomini forse muoiono di
freddo: ed esce per salvarli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla
sua porta una donna, morta assiderata. E si uccide.» Parlava: quando,
mentre mi fissava cogli occhi spaventati e vuoti, io cercando in fondo
degli occhi grigioopachi uno sguardo, uno sguardo mi parve di distinguere, che li riempiva: non di terrore: quasi infantile, inconscio, come di
meraviglia.
***
Il Russo era condannato. Da diciannove mesi rinchiuso, affamato,
spiato implacabilmente, doveva confessare, aveva confessato. E il supplizio del fango! Colla loro placida gioia i frati, col loro ghigno muto i
delinquenti gli avevano detto quando con una parola, con un gesto, con
un pianto irrefrenabile nella notte aveva volta a volta scoperto un po’ del
suo segreto! Ora io lo vedevo chiudersi gli orecchi per non udire il rombo
come di torrente sassoso del continuo strisciare dei passi.
***
Erano i primi giorni che la primavera si svegliava in Fiandra. Dalla camerata a volte (la camerata dei veri pazzi dove ora mi avevano messo),
oltre i vetri spessi, oltre le sbarre di ferro, io guardavo il cornicione profilarsi al tramonto. Un pulviscolo d’oro riempiva il prato, e poi lontana la
linea muta della città rotta di torri gotiche. E così ogni sera coricandomi
nella mia prigionia salutavo la primavera. E una di quelle sere seppi: il
Russo era stato ucciso. Il pulviscolo d’oro che avvolgeva la città parve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando? I riflessi
sanguigni del tramonto credei mi portassero il suo saluto. Chiusi le palpebre, restai lungamente senza pensiero: quella sera non chiesi altro.
Vidi che intorno si era fatto scuro. Nella camerata non c’era che il tanfo
e il respiro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chimere. Col capo
affondato sul guanciale seguivo in aria delle farfalline che scherzavano
attorno alla lampada elettrica nella luce scialba e gelida. Una dolcezza
acuta, una dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torceva pei nervi.
Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa barbuta scriveva. La penna
scorreva strideva spasmodica. Perché era uscito per salvare altri uomini? Un suo ritratto di delinquente, un insensato, severo nei suoi abiti
eleganti, la testa portata alta con dignità animale: un altro, un sorriso,
l’immagine di un sorriso ritratta a memoria, la testa della fanciulla d’Este.
Poi teste di contadini russi teste barbute tutte, teste, teste, ancora teste.
..
.................
La penna scorreva strideva spasmodica: perchè era uscito per salvare
altri uomini? Curvo, sull’orlo della stufa la testa barbuta, il russo scriveva, scriveva scriveva. . . . . . .
***
alla piazza densa di navi e di carri. Gli alti cubi della città si sparpagliano
tutti pel golfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro: nel mentre il mare tra
le tanaglie del molo come un fiume che fugge tacito pieno di singhiozzi
taciuti corre veloce verso l’eternità del mare che si balocca e complotta
laggiù per rompere la linea dell’orizzonte.
Ma mi parve che la città scomparisse mentre che il mare rabbrividiva
nella sua fuga veloce. Sulla poppa balzante io già ero portato lontano
nel turbinare delle acque. Il molo, gli uomini erano scomparsi fusi come
in una nebbia. Cresceva l’odore mostruoso del mare. La lanterna spenta
s’alzava. Il gorgoglio dell’acqua tutto annegava irremissibilmente. Il battito forte nei fianchi del bastimento confondeva il battito del mio cuore e
ne svegliava un vago dolore intorno come se stesse per aprirsi un bubbone. Ascoltavo il gorgoglio dell’acqua. L’acqua a volte mi pareva musicale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la luce mi erano strappate
inconsciamente. Come amavo, ricordo, il tonfo sordo della prora che si
sprofonda nell’onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e
la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare
tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria, una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse
di danza bizzarra che la scuotono!
C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera, siamo della leggera: te non la rivedi più la lanterna di Genova!» Eh! che importava in
Non essendovi in Belgio l’estradizione legale per i delinquenti politici fondo! Ballasse il bastimento, ballasse fino a BuenosAires: questo dava
avevano compito l’ufficio i Frati della Carità Cristiana.
allegria: e il mare se la rideva con noi del suo riso così buffo e sornione! Non so se fosse la bestialità irritante del mare, il disgusto che quel
grosso bestione col suo riso mi dava..., basta: i giorni passavano. Tra i
PASSEGGIATA IN TRAM IN AMERICA E RITORNO
sacchi di patate avevo scoperto un rifugio. Gli ultimi raggi rossi del tramonto che illuminavano la costa deserta! costeggiavano da un giorno.
Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, Bellezza semplice di tristezza maschia. Oppure a volte quando l’acqua
tram che corre in una linea nel cielo ferreo di fili curvi mentre la mole saliva ai finestrini io seguivo il tramonto equatoriale sul mare. Volavano
bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enor- uccelli lontano dal nido ed io pure: ma senza gioia. Poi sdraiato in comi palazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. Corro col preludio perta restavo a guardare gli alberi dondolare nella notte tiepida in mezzo
che tremola si assorda riprende si afforza e libero sgorga davanti al molo al rumore dell’acqua.......... Riodo il preludio scordato delle rozze corde
sotto l’arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadi bianchi sorridono
sulla costa tutti in cerchio come una dentiera enorme tra il fetido odore di
catrame e di carbone misto al nauseante odor d’infinito. Fumano i vapori
agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno di carcasse delle lente
file umane, formiche dell’enorme ossario. Nel mentre tra le tanaglie del
molo rabbrividisce un fiume che fugge, tacito pieno di singhiozzi taciuti
fugge veloce verso l’eternità del mare, che si balocca e complotta laggiù
per rompere la linea dell’orizzonte.
L’INCONTRO DI REGOLO
Ci incontrammo nella circonvallazione a mare. La strada era deserta nel calore pomeridiano. Guardava con occhio abbarbagliato il mare.
Quella faccia, l’occhiostrabico! Si volse: ci riconoscemmo immediatamente. Ci abbracciammo. Come va? Come va? A braccetto lui voleva
condurmi in campagna: poi io lo decisi invece a calare sulla riva del mare.
Stesi sui ciottoli della spiaggia seguitavamo le nostre confidenze calmi.
Era tornato d’America. Tutto pareva naturale ed atteso. Ricordavamo
l’incontro di quattro anni fa laggiù in America: e il primo, per la strada di
Pavia, lui scalcagnato, col collettone alle orecchie! Ancora il diavolo ci
aveva riuniti: per quale perchè? Cuori leggeri noi non pensammo a chiedercelo. Parlammo, parlammo, finchè sentimmo chiaramente il rumore
delle onde che si frangevano sui ciottoli della spiaggia. Alzammo la faccia alla luce cruda del sole. La superficie del mare era tutta abbagliante.
Bisognava mangiare. Andiamo!
***
Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusiasmo e senza esitazione. Andiamo. L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente. Ci sentiamo
puri. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione. Il paese natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiuti tra i miasmi
della lavatura grassa. Andiamo!
***
Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore, scialacquatore, con
in cuore il demone della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli
riuscivano sempre, quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito ed
era restato per un quarto d’ora paralizzato dalla parte destra, l’occhio
strabico fisso sul fenomeno, toccando con mano irritata la parte immota.
Si era riavuto, era venuto da me e voleva partire.
***
Ma come partire? La mia pazzia tranquilla quel giorno lo irritava. La
paralisi lo aveva esacerbato. Lo osservavo. Aveva ancora la faccia a
destra atona e contratta e sulla guancia destra il solco di una lacrima ma
di una lagrima sola, involontaria, caduta dall’occhio restato fisso: voleva
partire.
***
Camminavo, camminavo nell’amorfismo della gente. Ogni tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla parte immota che
sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava
la parte immota. Ogni fenomeno è per sè sereno.
***
Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione e ci lasciammo stringendoci semplicemente la mano: in
quel breve gesto noi ci lasciammo, senza accorgercene ci lasciammo:
così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile.
SCIROCCO
(Bologna)
Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuori dei vetri. Aprìi
la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvole in corsa al fondo del cielo
curvo (non c’era là il mare?) si ammucchiavano nella chiarità argentea
dove l’aurora aveva lasciato un ricordo dorato. Tutto attorno la città mostrava le sue travature colossali nei palchi aperti dei suoi torrioni, umida
ancora della pioggia recente che aveva imbrunito il suo mattone: dava
l’immagine di un grande porto, deserto e velato, aperto nei suoi granai
dopo la partenza avventurosa nel mattino: mentre che nello Scirocco
sembravano ancora giungere in soffi caldi e lontani di laggiù i riflessi
d’oro delle bandiere e delle navi che varcavano la curva dell’orizzonte.
Si sentiva l’attesa. In un brusìo di voci tranquille le voci argentine dei
fanciulli dominavano liberamente nell’aria. La città riposava del suo faticoso fervore. Era una vigilia di festa: la Vigilia di Natale. Sentivo che
tutto posava: ricordi speranze anch’io li abbandonavo all’orizzonte curvo
laggiù: e l’orizzonte mi sembrava volerli cullare coi riflessi frangiati delle
sue nuvole mobili all’infinito. Ero libero, ero solo. Nella giocondità dello
Scirocco mi beavo dei suoi soffii tenui. Vedevo la nebulosità invernale
che fuggiva davanti a lui: le nuvole che si riflettevano laggiù sul lastrico
chiazzato in riflessi argentei su la fugace chiarità perlacea dei visi femminili trionfanti negli occhi dolci e cupi: sotto lo scorcio dei portici seguivo
le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo melodioso, smorzato nella cadenza lieve ed uguale: poi guardavo le torri
rosse dalle travi nere, dalle balaustrate aperte che vegliavano deserte
sull’infinito.
Era la Vigilia di Natale.
Ero uscito: Un grande portico rosso dalle lucerne moresche: dei libri
che avevo letti nella mia adolescenza erano esposti a una vetrina tra le
stampe. In fondo la luminosità marmorea di un grande palazzo moderno, i fusti d’acciaio curvi di globi bianchi ai quattro lati. La piazzetta di S.
Giovanni era deserta: la porta della prigione senza le belle fanciulle del
popolo che altre volte vi avevo viste.
fumoso la melodia dei suoi passi. Qualche cosa di nuovo, di infantile,
di profondo era nell’aria commossa. Il mattone rosso ringiovanito dalla
pioggia sembrava esalare dei fantasmi torbidi, condensati in ombre di
dolore virgineo, che passavano nel suo torbido sogno: (contigui uguali
gli archi perdendosi gradatamente nella campagna tra le colline fuori
della porta): poi una grande linea che apparve passò: una grandiosa,
virginea testa reclina d’ancella mossa di un passo giovine non domo
alla cadenza, offrendo il contorno della mascella rosea e forte e a tratti
la luce obliqua dell’occhio nero al disopra dell’omero servile, del braccio,
onusti di giovinezza: muta.
***
(Le serve ingenue affaccendate colle sporte colme di vettovaglie vagavano pettinate artifiziosamente la loro fresca grazia fuori della porta.
Tutta verde la campagna intorno. Le grandi masse luminose degli alberi
gravavano sui piccoli colli, la loro linea nel cielo aggiungeva un carattere
di fantasia: la luce, un organetto che tentava la La stampa del testo originale, a questo punto, è mal riuscita creando una lacuna che Campana
colma inserendo la nota che è possibile vedere nell’ultima pagina del
volume. Il testo qui avrebbe dovuto riportare: «una grandiosa, virginea
testa reclina d’ancella mossa».• modesta poesia del popolo sotto una
ciminiera altissima sui terreni vaghi, tra le donne variopinte sulle porte:
le contrade cupe della città tutte vive di tentacoli rossi: verande di torri
dalle travature enormi sotto il cielo curvo: gli ultimi soffii di riflessi caldi
e lontani nella grande chiarità abbagliante e uguale quando per l’arco
della porta mi inoltrai nel verde e il cannone tonò mezzogiorno: solo coi
passeri intorno che si commossero in breve volteggio attorno al lago
Leonardesco.)
CREPUSCOLO MEDITERRANEO
Attraverso a una piazza dorata da piccoli sepolcreti, nella scia bianca
Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltadel suo pennacchio una figura giovine, gli occhi grigi, la bocca dalle linee no, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più
rosee tenui, passò nella vastità luminosa del cielo. Sbiancava nel cielo ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che
non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso
il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi
nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo
verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi pò dirsi
felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vie tortuose di palazzi e
palazzi marini e dove il mito si cova? Mentre dalle volte un altro mito si
cova che illumina solitaria limpida cubica la lampada colossale a spigoli
verdi? Ed ecco che sul tuo porto fumoso di antenne, ecco che sul tuo
porto fumoso di molli cordami dorati, per le tue vie mi appaiono in grave
incesso giovani forme, di già presaghe al cuore di una bellezza immortale appaiono rilevando al passo un lato della persona gloriosa, del puro
viso ove l’occhio rideva nel tenero agile ovale. Suonavano le chitarre
all’incesso della dea. Profumi varii gravavano l’aria, l’accordo delle chitarre si addolciva da un vico ambiguo nell’armonioso clamore della via
che ripida calava al mare. Le insegne rosse delle botteghe promettevano vini d’oriente dal profondo splendore opalino mentre a me trepidante
la vita passava avanti nelle immortali forme serene. E l’amaro, l’acuto,
balbettìo del mare subito spento all’angolo di una via: spento, apparso e
subito spento! Il Dio d’oro del crepuscolo bacia le grandi figure sbiadite
sui muri degli alti palazzi, le grandi figure che anelano a lui come a un
più antico ricordo di gloria e di gioia. Un bizzarro palazzo settecentesco
sporge all’angolo di una via, signorile e fatuo, fatuo della sua antica nobiltà mediterranea. Ai piccoli balconi i sostegni di marmo si attorcono
in se stessi con bizzarria. La grande finestra verde chiude nel segreto
delle imposte la capricciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata,
e la via barocca vive di una duplice vita: in alto nei trofei di gesso di una
chiesa gli angioli paffuti e bianchi sciolgono la loro pompa convenzionale mentre che sulla via le perfide fanciulle brune mediterranee, brunite
d’ombra e di luce, si bisbigliano all’orecchio al riparo delle ali teatrali e
pare fuggano cacciate verso qualche inferno in quell’esplosione di gioia
barocca: mentre tutto tutto si annega nel dolce rumore dell’ali sbattute
degli angioli che riempie la via.
PIAZZA SARZANO
A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell’aria pura
si prevede sotto il cielo il mare. L’aria pura è appena segnata di nubi
leggere. L’aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue
mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate.
Intorno nell’aria del crepuscolo si intendono delle risa, serenamente, e
dalle mura sporge una torricella rosa tra l’edera che cela una campana: mentre, accanto, una fonte sotto una cupoletta getta acqua acqua
ed acqua senza fretta, nella vetta con il busto di un savio imperatore:
acqua acqua, acqua getta senza fretta, con in vetta il busto cieco di un
savio imperatore romano. Un vertice colorito dall’altra parte della piazza
mette quadretta, da quattro cuspidi una torre quadrata mette quadretta
svariate di smalto, un riso acuto nel cielo, oltre il tortueggiare, sopra dei
vicoli il velo rosso del roso mattone: ed a quel riso odo risponde l’oblio.
L’oblio così caro alla statua del pagano imperatore sopra la cupoletta
dove l’acqua zampilla senza fretta sotto lo sguardo cieco del savio imperatore romano.
***
Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze mediterranee. I colli
mi appaiono spogli colle loro torri a traverso le sbarre verdi ma laggiù le
farfalle innumerevoli della luce riempiono il paesaggio di un’immobilità di
gioia inesauribile. Le grandi case rosee tra i meandri verdi continuano a
illudere il crepuscolo. Sulla piazza acciottolata rimbalza un ritmico strido:
un fanciullo a sbalzi che fugge melodiosamente. Un chiarore in fondo
al deserto della piazza sale tortuoso dal mare dove vicoli verdi di muffa
calano in tranelli d’ombra: in mezzo alla piazza, mozza la testa guarda
senz’occhi sopra la cupoletta. Una donna bianca appare a una finestra
aperta. E’ la notte mediterranea.
***
Dall’altra parte della piazza la torre quadrangolare s’alza accesa sul
corroso mattone sù a capo dei vicoli gonfi cupi tortuosi palpitanti di fiamme. La quadricuspide vetta a quadretta ride svariata di smalto mentre
nel fondo bianca e torbida a lato dei lampioni verdi la lussuria siede
imperiale. Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orologio
verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza.
La via si torce e sprofonda. Come nubi sui colli le case veleggiano ancora tra lo svariare del verde e si scorge in fondo il trofeo della V. M. tutto
bianco che vibra d’ali nell’aria.
GENOVA
Poi che la nube si fermò nei cieli
Lontano sulla tacita infinita
Marina chiusa nei lontani veli,
E ritornava l’anima partita
Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente
illustrato del giardino il verde
Sogno nell’apparenza sovrumana
De le corrusche sue statue superbe:
E udìi canto udìi voce di poeti
Ne le fonti e le sfingi sui frontoni
Benigne un primo oblìo parvero ai proni
Umani ancor largire: dai segreti
Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare
Bianco nell’aria: innumeri dal mare
Parvero i bianchi sogni dei mattini
Lontano dileguando incatenare
Come un ignoto turbine di suono.
Tra le vele di spuma udivo il suono.
Pieno era il sole di Maggio.
***
Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto Ride l’arcato palazzo
rosso dal portico grande: Come le cateratte del Niagara Canta, ride,
svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare: Genova canta il tuo
canto!
***
Entro una grotta di porcellana
Sorbendo caffè
Guardavo dall’invetriata la folla salire veloce
Tra le venditrici uguali a statue, porgenti
Frutti di mare con rauche grida cadenti
Su la bilancia immota:
Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperiale
Su per l’erta tumultuante
Verso la porta disserrata
Contro l’azzurro serale,
Fantastica di trofei
Mitici tra torri nude al sereno,
A te aggrappata d’intorno
La febbre de la vita
Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto
Instornellato de le prostitute
E dal fondo il vento del mar senza posa.
***
Per i vichi marini nell’ambigua
Sera cacciava il vento tra i fanali
Preludii dal groviglio delle navi:
I palazzi marini avevan bianchi
Arabeschi nell’ombra illanguidita
Ed andavamo io e la sera ambigua:
Ed io gli occhi alzavo su ai mille
E mille e mille occhi benevoli
Delle Chimere nei cieli:. . . . . .
Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di
Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
Dentro il vico marino in alto sale,. . . . . .
Dentro il vico chè rosse in alto sale
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita,. . . . . .
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!
«Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì: .....»
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca. . . . . . . .
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì. . . . .
Di già tutto d’intorno
Lucea la sera ambigua:
Battevano i fanali
Il palpito nell’ombra.
Rumori lontano franavano
Dentro silenzii solenni
Chiedendo: se dal mare
Il riso non saliva. . .
Chiedendo se l’udiva
Infaticabilmente
La sera: a la vicenda
Di nuvole là in alto
Dentro del cielo stellare.
***
Al porto il battello si posa
Nel crepuscolo che brilla
Negli alberi quieti di frutti di luce,
Nel paesaggio mitico
Di navi nel seno dell’infinito
Ne la sera
Calida di felicità, lucente
In un grande in un grande velario
Di diamanti disteso sul crepuscolo,
In mille e mille diamanti in un grande velario vivente
Il battello si scarica
Ininterrottamente cigolante,
Instancabilmente introna
E la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul molo
Corrono i fanciulli e gridano
Con gridi di felicità.
Già a frotte s’avventurano
I viaggiatori alla città tonante
Che stende le sue piazze e le sue vie:
La grande luce mediterranea
S’è fusa in pietra di cenere:
Pei vichi antichi e profondi
Fragore di vita, gioia intensa e fugace:
Velario d’oro di felicità
È il cielo ove il sole ricchissimo
Lasciò le sue spoglie preziose
E la Città comprende
E s’accende
E la fiamma titilla ed assorbe
I resti magnificenti del sole,
E intesse un sudario d’oblio
Divino per gli uomini stanchi.
Perdute nel crepuscolo tonante
Ombre di viaggiatori
Vanno per la Superba
Terribili e grotteschi come i ciechi.
***
Vasto, dentro un odor tenue vanito
Di catrame, vegliato da le lune
Elettriche, sul mare appena vivo
Il vasto porto si addorme.
S’alza la nube delle ciminiere
Mentre il porto in un dolce scricchiolìo
Dei cordami s’addorme: e che la forza
Dorme, dorme che culla la tristezza
Inconscia de le cose che saranno
E il vasto porto oscilla dentro un ritmo
Affaticato e si sente
La nube che si forma dal vomito silente.
***
O Siciliana proterva opulente matrona
A le finestre ventose del vico marinaro
Nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri
Classica mediterranea femina dei porti:
Pei grigi rosei della città di ardesia
Sonavano i clamori vespertini
E poi più quieti i rumori dentro la notte serena:
Vedevo alle finestre lucenti come le stelle
Passare le ombre de le famiglie marine: e canti
Udivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterranea:
Ch’era la notte fonda.
Mentre tu siciliana, dai cavi
Vetri in un torto giuoco
L’ombra cava e la luce vacillante
O siciliana, ai capezzoli
L’ombra rinchiusa tu eri
La Piovra de le notti mediterranee.
Cigolava cigolava cigolava di catene
La grù sul porto nel cavo de la notte serena:
E dentro il cavo de la notte serena
E nelle braccia di ferro
Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.
They were all torn
and cover’d with
the boy’s
blood
Ringrazio i signori sottoscrittori, gli amici che mi hanno incoraggiato ed
anche, last not least, il coscienzioso coraggioso e paziente stampatore
sig. Bruno Ravagli
Dino Campana
Note biografiche
Dino Campana era figlio di Giovanni, insegnante di scuola elementare, uomo per
bene ma di carattere debole e nevrotico, e di Fanny Luti, donna compulsiva e severa,
affetta da mania deambulatoria, attaccata in modo morboso al figlio Manlio, fratello
minore di Dino, natole nel 1887.
Trascorre l’infanzia in modo apparentemente sereno a Marradi ma, a circa quindici
anni di età, gli vengono diagnosticati i primi disturbi nervosi che non gli impediranno
comunque di frequentare i vari cicli di scuola.
Egli compie le elementari a Marradi, la terza, quarta e quinta ginnasio presso il collegio dei Salesiani di Faenza, poi gli studi liceali in parte presso il Liceo Torricelli [1] della
stessa città, in parte a Carmagnola in Piemonte presso il regio liceo Baldessano, dove
consegue il diploma; ma quando rientra a Marradi, le crisi nervose si acutizzano come
pure i frequenti sbalzi di umore, sintomi dei difficili rapporti con la famiglia (soprattutto
con la madre) e il paese.
Nel 1904 frequenta la scuola per ufficiali di complemento a Ravenna, poi, non superando l’esame per sergente, si iscrive presso l’Università di Bologna, alla Facoltà di
chimica pura, per passare - l’anno seguente - alla Facoltà di chimica farmaceutica a
Firenze, ma non riesce a portare a termine la sua carriera universitaria e ha difficoltà
a trovare un ordine interiore e una sua vera identificazione. Il suo unico punto di riferimento è la poesia e alla poesia dedicherà e sacrificherà - tra esaltazione e disperata
follia - i suoi giorni.
La “fuga”
Egli espresse la sua “diversità” con un irrefrenabile bisogno di fuggire e dedicarsi
ad una vita errabonda. La prima reazione della famiglia e del paese, e poi dell’autorità
pubblica, fu quella di considerare le stranezze di Campana come segni lampanti della
sua pazzia. Ad ogni sua “fuga”, che si realizzava con viaggi in paesi stranieri dove faceva i mestieri più disparati per sostenersi, seguiva, da parte della polizia (in conformità
con il sistema psichiatrico di quei tempi e per le incertezze dei familiari), il ricovero in
manicomio.
Tra il maggio e il luglio del 1906, Campana compie una prima fuga in Svizzera e in
Francia che si conclude con l’arresto a Bardonecchia e il ricovero ad Imola.
Dino durante i periodi di soggiorno a Marradi, specie nella stagione invernale, per
ovviare alla monotonia delle serate marradesi era solito recarsi a “Gerbarola”, una
località poco distante da Marradi, dove con gli abitanti del luogo passava qualche ora
mangiando le caldarroste, localmente appellate con il nome di “bruciati” (le castagne
sono infatti il frutto tipico di Marradi). Questo tipo di svago sembrava avere effetti positivi riguardo i suoi disturbi psichici.
Nel 1907, i genitori di Campana non sanno più che fare di fronte alla follia del figlio
e lo mandano in America Latina presso una famiglia di compaesani emigrati (forse dei
parenti). Non si tratta di una “fuga” del poeta, che non avrebbe potuto ottenere da solo
un passaporto per il Nuovo Mondo in quanto era già ritenuto ufficialmente “pazzo”. È la
sua famiglia a procurargli il passaporto e ad organizzargli il viaggio, e Dino parte per la
paura di dover tornare in manicomio. I coniugi Campana sostengono di averlo mandato in America con la speranza che questo viaggio lo potesse guarire, ma sembra che il
passaporto fosse valido solo per l’andata, per cui si trattò probabilmente (anche) di un
tentativo di sbarazzarsi di lui, poiché la convivenza con Campana era ormai divenuta
insopportabile per tutti.
Il viaggio in America rappresenta un punto particolarmente oscuro della biografia
di Campana: se alcuni arrivano a chiamarlo “il poeta dei due mondi”, c’è anche chi,
invece, come per esempio Ungaretti, sostiene che in America, Campana non ci andò
neppure. Numerose sono anche le opinioni sulla datazione del viaggio e sulle modalità
ed il tragitto del ritorno.
L’ipotesi più accreditata è che sia partito nell’autunno 1907 da Genova ed abbia vagabondato per l’Argentina fino alla primavera del 1909, quando ricompare a Marradi,
dove viene arrestato. Dopo un breve internamento al San Salvi di Firenze, parte per un
viaggio in Belgio, ma viene di nuovo arrestato a Bruxelles e viene poi internato nella
“maison de santé” di Tournai all’inizio del 1910. Chiede aiuto alla sua famiglia e viene
rimandato a Marradi.
Canti Orfici
Tra il 1912 e il 1913 Campana compone i versi che diventeranno poi (dopo alterne
vicende e diverse riscritture) la sua opera più significativa: i “Canti Orfici”, una raccolta
che contiene un poema in due parti (La notte), sette poesie intitolate I notturni, una
prosa diaristica su di un viaggio alla Verna e altre dieci fra poesie e prose liriche. Segue
una sezione di Varie che comprendono due frammenti, sette prose liriche e (in sette
parti) il poemetto Genova. (In quest’ulltima sezione fu inserita dopo la morte di Campana una lirica di Luisa Giaconi, poetessa che l’aveva molto colpito. Questo fu dovuto ad
un errore di attribuzione dell’editore, cui Campana l’aveva entusiasticamente inviata,
senza menzionare con chiarezza il nome dell’autrice. Dopo alcuni anni, la poesia è
stata correttamente attribuita e tolta dai Canti orfici)
Nel 1913 si reca a Firenze presentandosi nella redazione della rivista “Lacerba” a
Giovanni Papini e ad Ardengo Soffici,suo lontano parente, cui consegna il suo manoscritto dal titolo “Il più lungo giorno”. Non viene preso in considerazione e il manoscritto
va perduto (sarà ritrovato solamente, dopo sessant’anni, nel 1971, dopo la morte di
Soffici, tra le sue carte nella casa di Poggio a Caiano, probabilmente nello stesso posto
in cui era stato abbandonato e dimenticato). Dopo qualche mese di attesa Campana
scende da Marradi a Firenze per riprendersi il suo manoscritto. Papini non lo possiede
più e lo manda da Soffici che nega di aver mai avuto il libretto. Il giovane, la cui mente
è già labile, si arrabbia e si dispera, vuole indietro il suo manoscritto , scrive, implora
insistentemente senza altro risultato che il disprezzo e l’indifferenza di tutto l’ambiente
culturale che gravita intorno alle Giubbe Rosse, minaccia di venire con il coltello per
farsi giustizia dell’ “infame” Soffici e i suoi soci che definisce “sciacalli”. Nell’inverno del
1914, convinto di non poter più recuperare il manoscritto, Campana decide di riscrivere
tutto affidandosi alla memoria, e in pochi giorni, lavorando anche di notte e a costo di
un enorme sforzo riesce a riscrivere i suoi testi, sia pure con con modifiche e aggiunte.
Nella primavera del 1914, Campana riesce finalmente a pubblicare a proprie spese, la
raccolta, con il titolo, appunto, di “Canti Orfici”. Il 1915 lo trascorre viaggiando senza
una meta fissa: Torino, Domodossola, ancora Firenze.
Nel 1916 ricerca inutilmente un impiego. Scrive a Emilio Cecchi (che sarà, insieme
a Giovanni Boine[- che comprese subito l’importanza di Campana recensendo i Canti
Orfici nel 1914 su “Plalusi e Botte” - e a Giuseppe De Robertis, uno dei suoi pochi estimatori) ed inizia con lo scrittore una breve corrispondenza. A Livorno si scontra con il
giornalista Athos Gastone Banti, che scrive su di lui un articolo denigratorio sul giornale
“Il Telegrafo”: si arriva quasi al duello. Nello stesso anno conosce Sibilla Aleramo, l’autrice del romanzo Una donna ed inizia con lei una intensa e tumultuosa relazione, che
si interromperà all’inizio del 1917 dopo un breve incontro nel Natale 1916 a Marradi.
Abbiamo testimonianza della relazione avvenuta tra Dino e Sibilla, da un tragico
carteggio pubblicato da Feltrinelli nel 2000: Un viaggio chiamato amore - Lettere 19161918.
Il carteggio ha inizio con una lettera della Aleramo datata 10 giugno 1916, nel quale
l’autrice esprime la sua ammirazione per i “Canti Orfici”, dichiarando di esserne stata
incantata e abbagliata insieme. Sibilla era allora in vacanza nella Villa La Topaia a
Borgo San Lorenzo, mentre Campana era in una stazione climatica presso Firenzuola
per rimettersi in salute dopo essere stato colpito da una leggera paresi al lato destro
del corpo.
Nel 1918 viene internato presso l’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, presso Scandicci (Firenze). Lo psichiatra Carlo Pariani lo va a trovare per intervistarlo. Nel 1938 la
casa editrice Vallecchi pubblicherà “Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e
di Evaristo Boncinelli scultore”. Dino Campana muore, sembra per una forma di setticemia dovuta ad una malattia mai ben chiarita, il primo marzo del 1932, la salma è
sepolta nel cimitero di San Colombano nel territorio di Scandicci.
Il 3 marzo 1942, su interessamento di Piero Bargellini la salma è tumulata nella
cappella sottostante il campanile della chiesa di Badia a Settimo. Durante la seconda
guerra mondiale, il 4 agosto 1944, i tedeschi, in ritirata, fanno saltare con una carica
esplosiva il campanile distruggendo nel contempo anche la cappella.
Solo nel 1946 le ossa del poeta raggiungono la loro ultima dimora, all’interno della
Chiesa di Badia a Settimo.
Nel 1916 conobbe Dino Campana cui fu legata da una passione vorticosa, testimoniata dalle Lettere pubblicate la prima volta nel 1958. La
sua seconda opera è del 1919 e si titola “Il passaggio” è una prosa lirica incandescente, percorsa da una tensione verbale estrema e da una
sensualità accesa. Più temperate sono le pagine di “Andando stando”
del 1920, di “Gioie d’occasione” e di “Orsa minore” del 1938. La tematica femminista è ripresa nei romanzi “Amo, dunque sono” del 1927 e “//
frustino” del 1932.
Quando nel 1949 aderì al partito comunista nacquero le liriche de “Il
mondo è adolescenti”; ma la poesia vera toccante e d’alto lirismo immaginifico culmina nella raccolta “Selva d’amore” del 1947, anche se spesso si riduce, a testimonianza di vita. Più interessanti sono i diari “Diario
di una donna” che va dal 1945 al 1960, pubblicato postumo nel 1978,
e “Un amore insolito” seguito un anno più tardi, documentano i rapporti
della scrittrice con i protagonisti della vita culturale del tempo: Giovanni
Papini. V. Cardarelli. U. Boccioni, F. Matacotta, S. Quasimodo ecc...
Lettere di Sibilla Aleramo con Dino Campana
Sibilla Aleramo il cui vero nome è Rina Faccio, era nata ad Alessandria
nel 1876 e morta a Roma nel 1960.
Una scrittrice che si formò nel clima dell’ibsenismo e del dannunzianesimo, esordì nel 1906 con il romanzo “Una donna”, una sofferta testimonianza della donna nel suo ruolo di subalterna nella famiglia e nella
società, ma vibrante di un chiaro appello femminista contro la prevaricazione maschile. Si dedicò, insieme al poeta Giovanni Cena, ad una
generosa opera d’apostolato sociale nell’agro romano.
Dino Campana era nato a Marradi, Firenze nel 1885 - e morto a Castel
Pulci, Firenze nel 1932. Dino CampanaFin dall’adolescenza era segnato
dai sintomi di una nevrosi che l’avrebbe condotto alla pazzia. Nel 1903 si
iscrisse alla facoltà di chimica pura all’università di Bologna e, dopo un
primo internamento nel manicomio di Imola, si recò a Parigi, dove entrò
in contatto con le avanguardie artistico-letterarie. Spinto da un irrequieto
nomadismo e da una concezione anarchica e avventurosa dell’esistenza nel 1908 si reca nell’America del Sud in cerca di lavoro per vivere,
dove intraprende i mestieri più strani e, intanto, percorre a piedi le città
sudamericane che trasfigurerà poi nella luce della memoria e attraverso
le poesie. Tornato in Italia nel 1909, dopo un nuovo ricovero nel manicomio di Firenze, riprende gli studi di chimica, dedicandosi nel frattempo
alla lettura dei poeti crepuscolari e futuristi e inoltre di E. A. Poe e di F.
Nietzsche.
Nel 1913 conosce Giovanni Papini e Ardengo Soffici, cui dà in lettura il
manoscritto delle sue poesie; l’amico però lo smarrisce e per tale motivo
è pubblicato postumo con il titolo II più lungo giorno, nel 1973 e Campa-
na riscrive a memoria le sue liriche e le pubblica a proprie spese con il
titolo di Canti orfici nel 1914.
Del 1916 è la sua tempestosa relazione amorosa con Sibilla Aleramo,
per la quale nel 1918 è internato definitivamente nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove trascorre gli ultimi anni tra brevi momenti di lucidità e vani progetti di lavoro, fino alla morte avvenuta per setticemia.
tenera e indifesa adesione alla quotidianità, di eccezionale bontà e gentilezza.
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I Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Molti suoi scritti sono stati pubblicati postumi: Inediti, nel 1942; taccuino,
nel 1949; Canti orfici e altri scritti, nel 1952; Lettere, nel 1958; Taccuinetto faentino, nel 1960; Opere e contributi, nel 1974; Le mie lettere sono
fatte per essere bruciate, nel 1978.
Questa lettera di Campana è per risposta alla prima, che Sibilla aveva
scritto a Campana, dopo aver letto “Canti orfici”, che è andata perduta.
La raccolta di liriche le aveva consigliate a Sibilla, Emilio Cecchi, inviandole anche la recensione che aveva fatto su La Tribuna del 21 maggio
1916.
L’itinerario poetico di Dino Campana, parte da un fondo ottocentesco e Cecchi per questo fu coinvolto da vicino nelle vicende Aleramo-Camparaggiunge due esiti diversi: quello simbolistico-decadente, di tono visio- na. Per quanto riguarda l’opera di Campana Cecchi si battè con forze e
nario, e quello “visivo”, portato a una sontuosa decorazione e alle fram- determinazione perché questa si affermasse, pubblicando su vari giormentarie impressioni immaginifiche del suo stato.
nali e riviste specializzate recensioni e commenti.
Il termine di “orfici”, dato da Campana ai suoi “Canti”, allude a una con- [Barco] Rifredo di Mugello [22 luglio 1916]
cezione simbolistica della poesia, assimilata alla voce degli antichi poetiprofeti, depositari dei segreti del mondo.
Egregia Sibilla
Sono canti che illuminano e illustrano sfondi di città trasognanti, che richiamano velatamente affinità con la pittura di Giorgio De Chirico.
Vorrei scrivervi ma non posso. Sono orribilmente annoiato. Conoscete
Walt Whitman? Non capisco come facciate a vivere a Firenze e a conoscere certa gente. Non parlo di Cecchi che stimo e di Baldini. (Uno dei
pochi amici di Dino sul quale mai si riversarono le sue ire) (n.d.r.).Studierò
un tipo di voi. Bisognerebbe che avessi il vostro ritratto.
La cornice della lirica di Campana, la cui musica sconvolta procede tra
frasi monche e riprese di motivi in iterazioni ossessive, al limite dell’ineffabile. Ma all’interno dei “Canti orfici”, e soprattutto al di fuori di essi, negli
scritti postumi, c’è un filone violentemente espressionistico, caratterizza- Guardatevi da S. Francesco. Una pecorella e voi? Vi preferisco cosi.
to dalla figura del poeta e da una carica di aggressività che raggiunge le Mi avete riconosciuto per italiano: credo, egregia Sibilla, che non avrò
sue punte estreme nell’intreccio di sensualità e di sadismo.
eredi. Anderò col mio famoso fardello dove anderò. Finita la guerra non
esisterò più ammesso che esista ancora. Vi prego, se potete di trovarmi
Da alcuni critici è considerato il caposcuola della poesia moderna, qua- qualche acquirente per il mio libro. Lo invierò immediatamente. Vi bacio
si un “visionario” alla Rimbaud, e da altri un poeta melodico e visivo, la mano
musicale e cromatico. Campana sfugge a definizioni troppo rigide e nasconde, dietro la maschera cinica e grottesca di “poeta maledetto”, una Dino Campana
II Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
La Topaia Borgo San Lorenzo lunedì [24 luglio 1916]
se partite. Addio. Vorrei in questi quindici giorni mandar innanzi un libro,
incominciato da tanto tempo e a cui lavoro soltanto “di dentro”...
A Firenze traduco dal francese articoli di politica! Vedete che questa
mia lettera non somiglia alla prima. Cosi i ritratti non mi somigliano mai.
Scrivetemi.
Ho avuto la vostra cartolina, poche ore prima di partire, ieri. Adesso sia- Sibilla Aleramo
mo più vicini, forse. Non so dove si trovi Rifredo, non ho domandato, e
tutto il Mugello m’è nuovo. Qui sono in una casa di campagna, grande, Rimandatemi poi gli articoli, vi prego, perché non ne ho altre copie.
deserta. Gli ospiti me l’han lasciata durante questa loro assenza, per
due settimane.
III Lettera
Caro Campana, sono vicina a S. Francesco perché, nata signora, mi
son spogliata via via di molte cose, “felice d’esser povera ignuda” - vi
parafraso. Ma non temete per il mio spirito. E ho amato Walt Whitman,
come pochi altri. È già tanto tempo.
Vi mando qualche mio vecchio articolo: giornalismo, non altro. Ma in uno
parlo appunto, come potevo farlo allora, con ingenua gravita, di Walt. E
in un altro, più recente, di Assisi. E in un altro ancora, della Provenza
e di Parigi. Poi un brano d’autobiografìa, ricordi d’infanzia Metto anche
una pagina ch’è un poco più che giornalismo, e che sarei contenta se
voi leggeste con adesione: è di questo inverno. Volevate il mio ritratto,
e invece vi mando delle parole, stampate! Mah. Le fotografìe non mi
somigliano. Ci vedremo, una volta. Dite che vorreste studiarmi come
tipo. Forse m’avete conosciuta in essenza, in un lampo, se v’ha toccato
qualche mio piccolo accento - e tutto il resto vi confonderà. Però siete
annoiato, dubitate quasi d’esistere, mi mettete nella tremenda alternativa di veder finire Campana con la guerra o di dover desiderare che la
guerra si perpetui... Non vi diverto? Sono un po’ assonnata.
Ho scritto a varie persone che mandino a chiedervi il vostro libro, spero
che qualcuna almeno m’ascolti. Mandatene due copie a me, ne regalerò
una (con l’altra che già possiedo) e una la terrò, se ci mettete il vostro
nome e il mio. Ho dato a tutti l’indirizzo di Rifredo - avvenite alla posta,
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Chiudo il tuo libro,
snodo le mie treccie,
o cuor selvaggio,
musico cuore...
con la tua vita intera
sei nei tuoi canti
come un addio a me.
Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,
meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,
liberi singhiozzando, senza mai vederci,
ne mai saperci, con notturni occhi.
Or nei tuoi canti
la tua vita intera
è come un addio a me.
Cuor selvaggio,
musico cuore,
chiudo il tuo libro,
le mie treccie snodo...
Sibilla Aleramo
Mugello, 25-7-1916’.
V Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Topaia, 28 luglio [1916] Borgo San Lorenzo
Ed è per diffidenza postale che m’avete scritto in francese? Non vi venga in mente qualche altro giorno di farlo in inglese o tedesco, che non
capisco, né in spagnolo.
Quella vostra Pampa, che cielo alto! Se ci si incontra a Marradi, mi darete il vostro libro e i miei articoli. Sono contenta che vi sian piaciute quelle
righe di ricordo sulla mia infanzia. Vogliatemi bene.
Sibilla Aleramo
La solitudine ed io siamo buone compagne, perfino quando, come oggi,
c’è un cielo pesante, e nella fattoria accanto bufonchia la “macchina”.
Ho sentito molto il vostro spirito qui attorno, in questi giorni.
Ho guardato sulla vecchia carta dov’è Firenzuola. Più su di Marradi.
Vivere un poco sotto la tenda - perché no? Sebbene sarebbe rischioso. Devo guardarmi dal freddo e dall’umidità, dopo un attacco d’artrite
che m’ha colta a tradi- mento, due o tre anni fa. Non sono più giovane,
lo sapevate? Però ancora buona camminatrice - cotesta occhiata agli
Apennini la darei volentieri, con voi. Quando vi dico che mi riguardo, non
intendo mica conservarmi per la vecchiaia... Ma la malattia mi fa orrore,
la mia santità non arriva fino ad accettar l’infermità...
VII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 31 luglio - 1 ° agosto 1916]
Mio caro Cloche,
incomincio a farmi un’idea della topografìa dei nostri rispettivi eremi. Dal
canto vostro avete da sapere che io mi trovo più vicino a Panicaglia che
a Borgo. Alla stazione di Panicaglia si va in 15 minuti attraverso i campi, mentre a quella di Borgo ci vuole un’ora buona. Vi direi di venire voi
senz’altro, ma vedo che preferite che venga io costà, e va bene, poiché
sperate che il posto m’invogli a tornare. Prenderò dunque l’automobile
Insomma, se venissi a trovarvi costassù come mi dovrei equipaggiare? a S. Piero giovedì mattina alle sette e scenderò a Rifredo, a meno che il
conduttore non mi dica che Barco vien prima, nel qual caso voi m’aspetVogliamo intanto vederci per un giorno a Marradi? Se non v’annoia trop- terete a Barco, sta bene? Non occorre rispondiate, se va bene. E io spepo, se non siete troppo lontano. Io potrei venire, mettiamo, mercoledì o ro che nulla m’impedisca di venire ‘. Forse resterò anche la sera - siagiovedì, col primo treno (8.55), e voi dirmi dove m’aspettereste. Credo mo poeti notturni, le stelle ci propizieranno l’avvenire -. Se foste venuto
che ci si riconoscerebbe facilmente.
qui, la prima impressione che v’avrei fatta sarebbe stata forse migliore,
senza cappello e tutti gli altri imbarazzi del viaggio... Ridete? Ma voi mi
Mi racconterete a voce quali altri tic bisogna perdonarvi, oltre a quelli prospettate la vostra testa rossa e la vostra aria da gentil garzoni...
che bisogna ignorare. Uomo diffidente! Se fossi una predicatrice, vi direi
di imitarmi, che non ho mai fatto a nessuno, ne in terra ne in cielo, l’ono- Mio caro Campana. Ho un tono scherzoso, ma voi sentite quanto in
re di chiamarlo mio “nemico”.
realtà sia profonda la mia tenerezza. Vi ringrazio d’avermi scritto quelle
parole sul dolore patito a Marradi. Vi saprò dir poco, a voce, sono una
silenziosa, ma vedrete che il travagliato nodo della mia anima lascia
tuttavia al mio volto e al mio silenzio un poco di chiarità.
Vostra Sibilla
E non ho baciato le tue ginocchia.
I nostri corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano sopra la fronte,
mentre le stelle incupiscono il ciclo.
Ormai sono legati indissolubilmente, la passione li spinge l’uno verso Non ho saputo che abbracciarti. Tu che m’avevi portata cosi lontano.
l’altra senza pensare: l’innamoramento non ha più freni e, infatti, invece Che il giorno innanzi ascoltavi soltanto l’acqua correr fra i sassi. Oh, tu
del 6 agosto si incontreranno il 3, quando, finalmente appagano il desi- non hai bisogno di me!
derio che li strugge. (N.d.R.)
È vero che vuoi ch’io ritorni? Come una bambina di dieci anni. È vero
che mi aspetti? Rivedere la luce d’oro che ti ride sul volto. Tacere inVIII Lettera
sieme, tanto, stesi al sole d’autunno. Ho paura di morire prima. Dino,
Dino! Ti amo. Ho visto i miei occhi stamane, c’è tutto il cupo bagliore
Dino Campana a Sibilla Aleramo
del miracolo. Non so, ho paura. È vero che m’hai detto amore! Non hai
bisogno di me. Eppure la gioia è cosi forte. Non posso scriverti. Verrò il
II Barco 5 agosto 1916
19. dovunque. Il 14 resterò qui; a Firenze andrò poi per un giorno. Son
tua. Sono felice. Tremo per te, ma di me son sicura. E poi non è vero,
Con cuore fraterno a Sibilla Aleramo. Dino Campana
son sicura anche di te, vivremo, siamo belli. Dimmi. Io non posso più
dormire, ma tu hai la mia sciarpa azzurra, ti aiuta a portare i tuoi sogni?
IX Lettera
Scrivimi.
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] domenica-lunedi [6-7 agosto 1916]
Perché non ho baciato le tue ginocchia?
X Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Casetta di Tiara, Firenzuola 7 agosto 1916]
Avrei voluto fermare quell’automobile giù per la costa, tornare al Barco a
Leggo il Rubayat di Ornar Kaimar. Questo libro è eccellente e ben trapiedi, nella notte, che c’è il tuo petto per questa bambina stanca.
dotto. Benché vi abbia appena stretto la mano bella dubitosa vi vedo qua
Tornare. Come una bambina, questa del ritratto a dieci anni. Non quel- in fondo ai pensieri e in fondo al paesaggio. Pura bellezza oro dell’ocla che t’ha portato tanto peso di storie di memorie affannose, che t’ha caso qualche cosa che conta nella solitudine dice Ornar Kaimar e dice
parlato come se stesse ancora continuando il suo povero viaggio dispe- bene, nella febbre del crepuscolo tra i grandi boschi.
rato, come se non ti vedesse, quasi, e non vedesse lo spazio intorno, le
querele, l’acqua, il regno mitico del vento e dell’anima Tu che tacevi o XI Lettera
soltanto dicevi la tua gioia. Sentivi che la visione di grandezza e di forza
si sarebbe creata in me non appena io fossi partita? Nella tua luce d’oro. Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] lunedì sera [7 agosto 1916]
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 7-8 agosto 1916]
Notte - Possa tu riposare, mentre io ardo cosi nel pensiero di te e non
Tremo aspettando che tu mi scriva. M’hai amato, quei giorni. T’ho avuto trovo più il sonno, e sono felice. M’hai promesso di farti rivedere ancor
tutto nel primo sguardo, cosi interamente. Perché tremo? E l’ultima sera più bello, mia bella belva bionda. Come passerai questi giorni e queste
m’hai detto: “Tanto dubitavi di te?...”.
notti? Mi senti nella mia sciarpa azzurra, speranza, grazia? Riposa, riposa. Ci siamo meritati il miracolo. Lo vivremo tutto. E avrai tanta dolcezOh, ma è la verità. Dino. Io, che non vorrei, che mai avrei voluto cam- za anche dal dimenticarti in me, qualche momento, dall’avermi dinanzi
biarmi con un’altra creatura, io che so il mio valore, so anche tutta la mia come qualcosa a cui la tua dedizione sia sacra, fertile e sacra. Ho tanta
miseria, so che se tu domani mi scrivessi che è stato un sogno, che ti fede, Dino. Mi sento ancora cosi forte, per questo scambio del nostro
sei svegliato, che non mi ami, troverei nel mio orrore da chinare il capo... sangue.
Perché amarmi, tu? Anche oggi, che povere frasi sciocche devo averti
scritto. Come quando t’ero accanto, che non sapevo che piangere o XIII Lettera
baciarti. E ho fatto piangere tanti dacché vivo. Che importa se per ogni
lagrima che ho fatto scendere ne ho versate io stessa cento. C’è tanta Sibilla Aleramo a Dino Campana
ombra intorno a me. Puoi averlo sentito, puoi, dopo che son partita,
averlo sentito, tu che sei fatto per il sole... Dino, Dino!
[La Topaia, Borgo S, Lorenzo] mattino, martedì [8 agosto 1916]
M’hai detto: “tu non dici: sempre, mai, come le altre”. Ma stasera mi
sembra che mai io mi sia sentita davanti all’amore una cosi piccola cosa
oscura. Dopo tutto quanto ho vissuto e voluto, dopo aver benedetto ogni
sforzo e ogni martirio credendo ogni volta di crescere e d’adunar luce
in me, come mi trovo davanti a te! E se tu sapessi il disprezzo che ho
per queste stesse parole con le quali cerco come d’inginocchiarmi. Tacere, non dovrei che tacere, aspettando. Bisogno di distruzione, dicevi...
Come m’hai parlato del “nostro” lavoro, quell’ultimo mattino! Della cosa
bella creata sotto il cielo dal fatto solo del nostro amore. - Senti i miei
silenzi? - T’ho veduto staccato da tutti, libero come nessuno, e più umano ancora di me, oh Dino, ch’ero cosi sola a portar tutta la mia umanità.
Ma più forte di me, anche. Più alto. So quel che dico. Che ti potrò dare?
T’adoro. E sento tutta la mia impotenza. Baciarti.i.
Baciarti... Aspettando la posta, ecco cosa t’ho fatto...:
XII Lettera
(Questa poesia era stata scritta in ricordo del loro primo incontro, quello
del 3 agosto 1916, fu inserita nella raccolta del 1920, Momenti, col titolo Fauno, appare ora a pagina 22 nel libro Sibilla Aleramo a cura di B.
Conti e introduzione di C.Rendine, nella edizione curata per la Newton
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Fauno1
Lontane dal mondo,
querce,
rade nel sole d’agosto,
acque fra sassi,
lontane dal tempo,
e tu
dorato ridi,
tu alla bianca mia spalla
tu alla verginea sua musica
gioia dagli occhi ridi.
Compton Editori, Roma 1980)
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 8 agosto 1916] pomeriggio
(l’ultimo verso era venuto prima dei due penultimi: forse era meglio? Ma M’han portato in ritardo la tua cartolina, Omar Kaimar. Prendo tutte le
non ha importanza. È per noi). E non m’hai scritto...
cose troppo sul serio? Ti mando lo stesso tutto quel che t’avevo scritto, ti
divertirà un momento Insieme alla tua, poche parole da Firenze, lagrime
Ho il terrore che tu non ti senta bene... Quei giorni son stati troppo belli. ma degne. Ne ho fatto un uomo.
Ti supplico, Dino, tranquillizzami, mi basta una parola, te l’ho detto. E
ora devo aspettare fino a domattina, la posta non viene che una volta... Perché “dubitosa”? Di me, no. Di quel che sentivo, no. E neanche di quel
che dovevo fare, vedi, ch’è già fatto, limpidamente. Ma d’esser per te
Sono ancora sola, credo che gli ospiti torneranno domani. Stanotte ho una cosa di vita, una cosa di bellezza...
riposato un poco, alzandomi avevo il viso roseo, ma ora son di nuovo
inquieta. Vuoi ch’io ritorni subito?... Se vuoi, vengo, Dino. Ma tu m’avevi Ripensavo a un punto del tuo libro, a una frase che mi ti aveva avvipromesso di star bene, di aspettarmi con i tuoi occhi chiari, di riposarti cinata forse più d’ogni altra la prima volta che ti lessi: e ho cercato nel
pensando alla tua piccola. Mi ami sempre? Dolcezza, passione, smarri- volume, è proprio dove tu mettesti per me la foglia d’edera: “.. .Dolce mi
mento, sentimi. Tua
è sembrato il mio destino fuggitivo... cosi conosco una musica dolce nel
mio ricordo... so che si chiama la partenza o il ritorno...”.
Ho fede, sai, tanta. Staremo insieme tanto - Guardiamo lontano. Amore.
Baciami.
Andando e stando.
Preoccupazioni della Petite bourgeoise. Hai scritto a Vicchio? E al tuo
paese per i vestiti e per il libri? Sei andato a veder di nuovo alla Casetta?
E la russa, ti lascia in pace? Ho chiesto a Torino Una donna!. Spero tu
lo possa avere per il 14.
Scrivimi subito, ti prego, poi per il 14 mi scriverai ancora, vero? qui.
XV Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 9 agosto 1916]
Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò... Sei tu
Certi Gonzales da Milano non ti han chiesto i Canti? Non impensierirti, ti che mi squassi cosi? Che cosa m’hai messo nelle vene? E sempre ho
darò tregua con le mie epistole... Ma ora dimmi che stai bene e che mi negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai
vuoi bene. Soffro, ho bisogno di ritrovarti.
fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce. Dove sei, che mi sento cosi strappata a me stessa? Mi
chiami, o m’hai dimenticata? Oh ti voglio ti voglio, non ti lascerò ad altri,
non sarò d’altri, per la mia vita ti voglio e per la mia morte, Dino, dopo
XIV Lettera
questo non si può esser più nulla, oh, sapere che anche tu lo senti, che
rantoli anche tu cosi...
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Mi aspetti, dimmi, mi aspetti, vero? Saremo soli sulla terra. Bruceremo.
Hai visto che siamo vergini, che qualcosa non ci fu mai strappato? Per Se vuoi, puoi scrivermi a Firenze - se ti occorre qualcosa di là.
noi. Più a fondo, più a fondo, ci mescoleremo allo spazio, prendimi, tiemmi, io non ti lascio, bruceremo.
XVII
Dimmi che mi manca cosi il respiro perché mi chiami, perché mi vuoi...
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] mercoledì sera [9 agosto 1916]
Riapro la lettera - perché non l’ho spedita non lo so; perché t’avevo promesso un po’ di requie, perché m’hai detto che non ami l’epistolografìa...
Ma lasciami cosi, ancora un poco. Stasera e l’ultima di questa solitudiSibilla Aleramo a Dino Campana
ne alla Topaia. (Quei benedetti Luchaire, avessi saputo che tardavano
tanto a tornare! Sarei forse ancora al Barco... Ma non bisogna voler loro
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo 9 agosto 1916]
male: senza questa villeggiatura in casa loro, chissà quando ci saremmo
trovati, io e te). Non sei venuto qui, ma come ci hai vissuto! Dalla prima
Domani sera, giovedì, vado a Firenze, m’han scritto i Luchaire che sa- sera del mio arrivo, avevo avuto a Firenze poche ore prima la tua prima
ran qui soltanto domenica, e Fr.[anchi] mi supplica d’andar un giorno a risposta, e avevo sentito che c’era qualcosa di mutato sotto il cielo. Da
vederlo. Tornerò qui domenica mattina con i Luch. portando tutto quello quella notte, che non potei prender sonno, pensandoti. Oh, Dino, tutdi cui mi devo provvedere a Firenze per la montagna. Cosi dopo tre o to questo che ti racconto, tutto questo che m’accade, sarebbe troppo
quattro giorni con gli ospiti qui, ti raggiungerò direttamente, ed è molto sciocco, se non fosse grande. Vedi, la calligrafìa di stasera è diversa da
meglio. Mi scriverai dove. Ti manderò un orario ferroviario per il caso si quella d’oggi. C’è un lume a petrolio che mi par d’esser diventata miope.
vada a Vicchio. Ma se ti pare che alla Casetta sia possibile, vengo. Poi I miei occhi. Ti son piaciuti. Tutta ti son piaciuta? Tremavi. M’hai detto
c’è sempre tempo di cambiare. Ma ritrovarci.
cose tanto care. E ora perché non mi scrivi, Dino? Oh, non è un lamento.
.. È questo terrore assurdo... L’avevo anche prima di vederti, quando ti
A Firenze soffrirò, patirò tutta la passione di quel figliolo. Ha sentito tutto, scrissi la seconda e terza lettera, e pensavo ch’eran brutte, che potevan
non spera più. Ma avrà forza, mi appartiene, vivrà. Tu non stare in pena, aver offuscata un’immagine di me già creata nella tua mente... Sei mai
sarebbe un’offesa, a questo tormento divino che provo, il dirti altro, vero stato amato, Dino? Nulla, non so nulla di te, se non che hai sofferto e
Dino? Son tua, non posso che esser tua, lo sai. Pensami. Non m’hai che sei rimasto il più forte. Oggi ti ho gridata la mia febbre, stasera vorrei
scritto ancora, non so nulla, son tutta soltanto col ricordo, e brucio.
darti invece soltanto dolcezza, averne tanta da te. Puoi, lo so. Che siam
tanto stanchi tuttedue, talvolta. Fraternità, anche m’hai offerta. L’inquieForse domani avrò una tua lettera... Ti riscriverò da Firenze. Per il 14 tudine che si placa, la febbre che cede, oasi, oasi serene, mie, tue. Mi
mattina, una tua parola qui alla villa, Dino; e nel pomeriggio ti sentirò aspetti? hai fede? Tanti han avuto quella vile e stolida paura di soffrire
come se mi baciassi tutta. Tra i grandi boschi... mi aspetti? Ti farò grida- e di farmi soffrire... Perciò ho voluto che tu sapessi tante cose amare,
re di gioia quando ci riprenderemo. Poi piangeremo di felicità, tanto... Mi invece di portarti soltanto gioia e luce. Dopo, se ora mi aspetti, non ne
ami? Lo sapevi che t’avrei amato?
parleremo mai più. Dino. Ti chiamerò tanto col tuo nome, ti chiamerò
tanto, amore. C’è qualche tempo dinanzi, strade e cose da fare. Questo
XVI
tuo silenzio! Mi vuoi provare tu, ora? Resisto, vedi. Domani a Firenze
quel fanciullo piangerà tanto, piange già tanto dacché ha saputo - gli ho
scritto soltanto che avevo avuto una visione di forza e di grandezza, fuori
del tempo, e che ti avevo promesso di tornare - e gli ho chiesto d’esser
forte. Piangerò con lui. Non accadrà altro, non ti dirò nulla, come m’hai
chiesto. Pensami con la tua bontà più profonda, Dino, e sentimi col tuo
amore, senti che continua quel miracolo di quell’ora nel sole lontano,
ritroveremo le polle d’acqua...
XVIII Lettera
XX Lettera
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Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Rifredo 11 agosto 16 ore 10,50]
Ti aspetto - Dino
Oggi ho avuto la tentazione di telegrafarti che venivo al Barco... Ma poi, “I due si erano visti il 13 di agosto, infatti, Dino aveva scritto: …le mie ti
se tu non ci fossi? E devo anche rifornirmi di danaro, a Firenze. Cosi, mi hanno inseguito: chissà se ti raggiungeranno. Una cartolina a Firenzuoson forzata al lavoro di traduzione, non so quant’ore, bougianen... (mi la, una lettera a Rifredo. Ieri ti pensavo nella pace del Mugello, sospesa
hai parlato in piemontese, mentre salivo su l’automobile, chissà perché, e combattuta ma sola, nella luce del tuo giorno. Invece m’è giunta la
io non capivo più nulla...) - Come sono sfinita. Perdonami. Amami, sai? nuova tua di ieri da Faenza. Forse i due passarono un paio di giorni
Cuore.
insieme…”
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Villa La Topaia, Borgo S. Lorenzo] giovedì mattina [10 agosto 1916]
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenzuola, 17 agosto 1916]
Non importa che tu legga tutto questo, gridi, sospiri, per non sentire il Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Come amo la popeso al cuore e al cervello. Leggi soltanto, Dino, che vengo, vengo a te vertà delle cose quassù che meglio ci farà sentire la nostra ricchezza!
con tutta me.
Scrivimi, ti supplico, una parola a Firenze, con espresso ch’io l’abbia
di certo sabato: dimmi se domenica e lunedì sarai al Barco, perché nel
caso (improbabile) che i Luchaire proroghino ancora, verrei a farti una
visitina. Ti scriverò da Firenze.
ore 10 - Niente posta neanche stamane, devo partire senza saper più
nulla di tè... Come starai? Ti supplico, mandami una parola per espresso
a Firenze. Ma ti sento, so che m’aspetti, vengo.
XIX Lettera
XXI Lettera
Dino Campana e Sibilla Aleramo a E. Cecchi
[Casetta di Tiara (Toscana) Firenzuola [22 agosto 1916]
Egregio Signor Cecchi
spero avrà ricevuto la mia cartolina in risposta per affari editoriali. Grazie
del suo saluto da Poggibonsi. È qui Sibilla che saluta Lei e la Signna.
Devmo
Tra i falchi, Sibilla
Dino Campana
XXII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Casetta di Tiara, agosto 1916?]
Tiemmi con te
Rina
“Per la prima volta Sibilla firma la cartolina illustrata col suo vero nome
di battesimo: Rina, (ndr)”
XXIII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Firenze, 15-17 settembre 1916]
Dino, Dino, Dino
Come fare, senza dirti che t’adoro, a mandarti qualche piccola parola
che brilli e t’accarezzi più delle stelle? Le stelle intorno alla Casetta. Il
sole della Bastia che m’ha fatto brune le mani.
Dino, Dino.
Ricordati, quando chiederai a tua Madre quel tuo ritratto che mi piacerà,
di dirle ch’è per una donna felice.
Tengo in petto, tutta per noi soltanto, la nostra gioia, la nostra malinconia, la nostra forza. La vita è per noi, Dino, lo sento senza un attimo mai
di sosta o di dubbio.
Che senso di discesa l’altra sera tornando in città! Ma ripartirò fra poco,
sai! E mi porterai sul mare. (Avevano già progettato una vacanza a Marina di Pisa)
Con tanta fede, se vedessi come tremo, qui, piccola cosa silenziosa,
tua...
Dimmi che nel letto grande dormi un sonno buono. (Per giovedì ti manderò notizie e quel che ancor non m’è giunto ma non può tardare. Delle
traduzioni che ti lasciai, io ho dovuto fare, con altre, quella doganale: la
napoleonica è per l’altro numero. Chissà oggi come ti sarai seccato, mi
perdoni?).
Amato. Vedimi. Son la creatura più ricca, più forte, più bella se ti guardo
e se mi baci con amore.
XXIV Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Casetta di Tiara. Firenzuola] 19 settembre 1916
Come sapete ho la testa vuota. Piena del vento iemale che empie questa valle d’inferno. L’inverno mi diverte. Sento che qualcosa resta dopo
tutto, come quel laghetto laggiù nella sua trasparenza che nulla riesce
ad offuscare. Mi diverto a vederlo rabbrividire. Mi contento di poco come
vedete. La felicità è fatta delle cose più leggere: quando, s’intende, la
felicità è in noi: in me? e in voi? - Spedito con espresso articolo a voi,
ricevuto lettera ringrazio. Trovato coltellino.
Speditemi lavoro..
XXV Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[settembre 1916?]
Mandatemi delle traduzioni
XXVI Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Firenze] mercoledì [20 settembre 1916]
Dino, ho baciato tanto quelle bozze e quella traduzione, con la tua epigrafe e il tuo poscritto, ieri. Piangevo e ridevo insieme. Ti amo. Questa
lontananza è assurda. Telegrafami. Quando parti dalla Casetta; e poi da
Marradi l’ora dell’arrivo qui, che sarò alla stazione. Domenica, lunedì?
Ti aspetto, sono tutta tua, sola con te in tutto il mondo e nello spazio. Ti
amo, Dino, mio Dino, nome d’argento, ti aspetto, sentimi.
vedo nessuno, ti dirò. Telegrafami. Se arrivi di mattina, ripartiremo in
giornata. In tutti i modi sarò alla stazione. Dino, mi senti?
XXVIII
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Palazzuolo dt Romagna, 22 settembre 1916]
Carissima Sibilla,
Sabato, domani, all’ultimo treno che arriva a Firenze alle 8 3/4 o le nove,
io verrò mia cara. Non posso dirti nulla. Son qua a Palazzolo, (ne vedesti
Se non parti ancora sabato, scrivimi. Piove anche costi? Resisti? - An- la direzione dalla Bastia). Mi sono messo in viaggio questa mattina con
dremo a Motrone. Per l’indirizzo, alla posta e a casa, di che lo manderai un tempo magnifico e per tutta la mattina ho pensato a te come per racsubito. Vieni... Ho scritto in Sicilia...
coglierti intorno gli ultimi splendori della bella stagione nei prati umidi, un
Avrò venerdì mattina una tua? L’erica e la stella sono qui davanti. Ti verde intenso di velluto. Non ti dirò le sciocchezze che servivano di prebacio tanto.
testo al mio amore, sono di quelle che non mi vuoi perdonare. Cantavo.
Figurati che avevo per ritornello io ti scopersi e ti chiamai Sibilla. Volevo
XXVII Lettera
anzi telegrafartelo senz’altro questo ritornello come una protesta brutale
della sanità vitale del nostro amore, unica ambigua e chiara risposta alle
Sibilla Aleramo a Dino Campana
tue possibili ansie. Mi accorgo di sragionare. Mi avvicino al mio fatale
paese. Addio amore ritroverò forza tra le braccio della mia Sibilla..
[Firenze, 22 settembre 1916] venerdì sera
Rina
Quel laghetto tranquillo, che ti diverti a veder rabbrividire; quel “voi” e
quel “mandatemi lavoro” della cartolina che ho avuto ieri vorrebbero
quasi farmi intendere che hai intenzione di restare alla Casetta ancora...
Ma dall’altra parte della cartolina c’erano “nos étoiles”, benedette. Che
cosa avrai deciso dopo la mia raccomandata? Se queste righe che ora
ti scrivo nell’incertezza fossero superflue! O tu le ricevessi partendo da
Firenzuola! Quando saprò? Mio Dino. Mi ami? Merito la felicità di cui mi
parli? Non so altro se non che t’aspetto, che lontano staremo tanto al
sole, che riposeremo, vicini, zitti... Non lavorerò neppur io, devo prima
rinascere, l’ho sentito tanto in questi giorni. Ne avrò la forza, se tu mi
ami, Dino, amore. Vieni, è vero che vieni? Vieni con gioia, contento, non
ti tolgo a te? Amato, non so come faccio a vivere in quest’attesa... Non
XXIX
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Palazzuolo dt Romagna, 23 settembre 1916]
Tuo.
XXX Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Pisa, 3 ottobre 1916]
S. Al..
Vi prego di accettare i miei saluti. Pisa è bella, a quanto mi sembra. Ma
l’ombra angusta mi stringe di questi portici.
XXXII Lettera
Vi sono molte donne ne belle ne brutte. Aimè, io non so più guardarle.
Possibile?
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Cloche
Caffè, ora eterna - Pisa.
XXXI Lettera
Sibilla Aleramo a E. Cecchi
Villa Alba, Marina di Pisa (tram: fermata ai fortino) 3 ott. [1916]
Caro Cecchi,
riceverete una cartolina di D.[ino] C.[ampana], o mia a nome suo. Fate
tutto il possibile per venire a trovarci, fra breve. C. è malato profondamente, neurastenia con mania continua di fuga, di annientamento. È
atroce quel che la vita può su un uomo...
Chiedete, vi prego, a vostro cognato costi o a quello di Arezzo, che cosa
si potrebbe fargli prendere, calmante sopra tutto per la notte, ma che
non nuoccia al cuore. (Me lo direte a voce). L’organismo è sempre robustissimo. I primi giorni qui, per lo sbalzo dalla montagna, sono stati terribili. Ora ritorna un po’ di calma e un po’ di speranza: Bisogna che senta
altri cuori oltre al mio, che lo voglion vivo. So che avete per lui, oltre
all’ammirazione, una vera simpatia. Aiutiamoci, Cecchi. Venite, intanto,
e poi si vedrà. Sarà contento di vedervi, di discorrere qualche ora con
voi. Con altri no, Non dite nulla a nessuno, vi prego, né a Cardarel.[li] né
altri, vero?
(Sul rapporto d’amore fra la Aleramo e Cardarelli vi consiglio di leggere
“Lettere d’amore a Sibilla Aleramo di Vincenzo Cardarelli” a cura di G. A.
Cibotto e B. Blasi, Roma edizione Newton Compton 1974)
Non rispondete a questa lettera, come se non l’avessi scritta. Arrivederci, ci conto. Dite il mio affetto ad Amalia e Leonetta. Vostra amica
[Marina di Pisa, 11 ottobre 1916 ore 16,15]
Urgente tua presenza vieni Campana.
XXXIII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Marina di Pisa, 12 ottobre 1916 ore 17]
Coraggio sempre tuo Campana.
XXXIV Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Marina di Pisa, 13 ottobre 1916 ore 10,50]
Padrona sequestra biancheria aspettarti o sloggiare decidi.
tuo Campana
XXXV Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Firenze, 13 ottobre 1916 ore 13,40]
Ancora spossata spero alzarmi domattina pomeriggio esser da te.
Aleramo
XXXVI Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Firenze, 13 ottobre 1916 ore 15,20]
Ricevo tuo placa la Britanna ripeto arriverò domani pomeriggio tua
Aleramo
XXXVII Lettera
ver lettere. Che cosa gli porto?
Le mie mani nude, i miei occhi. Gli ho detto: mi troverai sempre...
Sibilla
XXXIX Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[prima meta di ottobre 1916]
Rina adorata,
perdonami, perdonami o abbandonami così è troppo cara cara, non so ti
scrivo ti aspetto e so che non verrai, questa sera parto anderò a Firenze
[Marina di Pisa, 13 ottobre 1916]
perché hai voluto staccarmi da te dimmelo, sarò felice ugualmente, mi
aiuterai a staccarmi da tutto, a liberarmi, sei buona ti ho amato ti adoro
Egregia Sibilla,
Siete ammalata: me ne dispiace! quanto a me ho perso l’abitudine di non puoi abbandonarmi cosi - Ecco dunque. Rina Rina Sibilla Aleramo
lamentarmi. La padrona voleva che vi scrivessi non so che cosa. Ho ri- Rina che amo Sibilla mia sì ridi cara, ridi cosi io sarò felice e potrò mofiutato. Poi le ho fatto dire: perché mi ricorda sempre la signora? So che rire. Rina quanto sei cara. Forse verrai e vorrai ancora vedermi ecco
vorreste avere la forza di seguire (?) il vostro destino e di... papini (tanto quanto ti posso dire ancora. Se questa sera non sei venuta adorata sola
gioia mia quanto ti amo non so più ho bisogno di te, verrò a Pontedera
mi odiate?)
e tu mi dirai poi mia cara.
Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Rinetta rinetta aspetta il tuo amore che soffre addio.
Che dice fabbricare fare e disfare
fare e disfare è tutto un lavorare
No non vengo devi guarire ed esser bella. Vado a Firenze e tu mi scriveEcco quello che so fare. Scrivete. Addio.
rai fermo posta. Addio dunque.
Dino Campana a Sibilla Aleramo
XXXVIII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Stazione di Pisa, 14 ott., sabato [1916]
Se Dino fosse venuto ad incontrarmi? Ed ora girasse per la città inferocito di non avermi veduta uscire?
Gli scrivo. Per domattina, o per stasera, nella casa nostra. Gli piace rice-
XL Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Casciana, 25 ottobre 1916]
Sibilla fatevi coraggio. Ho una parola d’onore e ve la do per dirvi che vi stimo
e penserò bene di voi.
Dino Campana
XLI Lettera
lassù, ma subito perché la posta arriva solo il lunedì, un Eschilo, se lo trovate
nell’edizione di Oxford (non può sopportare le traduzioni [fr]ancesi). È il solo
libro che desidera avere.
Sibilla Aleramo a E. Cecchi
Sono ripresa dall’affanno, che gli accadrà?!
[Bagni di Casciana, Pisa 25 ottobre 1916]
XLII Lettera
Non so cosa vi scrissi l’altro giorno in qualche minuto che avevo libero. Stasera ho davanti a me il tempo. C.[ampana] è partito. Volevo partir io, dopo una
serie di giorni e notti in cui ho ascoltato le cose più atroci, subìto le cose più
atroci. Allora ha avuto come un risveglio, e s’è determinato di colpo a tornar
lassù in Mugello, “lontano dal mondo, ch’è brutto troppo, fuori della vita, di
nuovo”. M’ha promesso che ci ritroveremo, più tardi... Cecchi, vi ho scritto che
m’ama? Voi avrete sorriso. Eppure, e amore, è dolore, una cosa orrida e meravigliosa. Vedere nel suo cuore, ho meritato questo dono spaventoso. Che accadrà
ora? Non possiamo rinunciare, vedete. Gli ho detto iersera, un momento che il
parossismo delle sue ingiurie mi v’ha indotto, gli ho detto che v’avevo veduto,
a Firenze, e le vostre esortazioni. È rimasto colpito. Forse anche per questo è
partito. Poter guarirlo! Voi dite che con questo desiderio lo diminuisco. Ma se
sapeste il grado della sua sofferenza! La mia [s]’era fatta insostenibile: la sua
lo è sempre stata. Prima di partire ha scritto una cartolina a Boine: gliene aveva
mandata una l’altro ieri dove mi dava della troia... Oggi ha scritto: “perdonate,
era falsa, era la mia solitudine che ha voluto riprendermi, parto, forse qualche
parola potrò ancora dirvi di quelle che amate: le avrò pagate molto care”. Torna
su alla Casetta (Firenzuola): una tana da lupi, in questi mesi... Io non so che
farò. Stasera sono a letto con febbre. Vuole che termini qui i bagni, e poi venga
a Firenze, dove, ha detto, verrà a trovarmi... Perdonate che vi scrivo come se
piangessi. Voi non avete nulla da rispondermi, lo so, da aggiungere a quanto mi
diceste, o da mutare. Ma amateci, Cecchi, dal punto in cui non potete più parlare. Forse vinceremo. Addio. Vi riscriverò. Se Leonetta è arrivata, abbracciatela
per me.
Sibilla
Giovedì — Mi sono levata. Forse lavorerò. Volete farmi un dono, mandargli
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Casciana. 26 ott. [1916], giovedì, 5 di sera.]
Ero abituata al silenzio: ma questo che s’è fatto dacché sei partito e cosi grande! Stamane, (dopo dodici ore di sonno al veronal) ti ho telegrafato sperando
nella risposta — che non è ancor venuta. M’han detto che ieri dovesti prender
una carrozza e che forse perdesti il treno delle quattro. Dove e come avrai dormito? E tutte le immaginazioni per seguirti oggi son state vane. Firenzuola?
Alla Casetta, ora che sta per tramontare questo sole pallido? Avrà tirato un vento
furioso anche su la tua strada? Io mi son levata alle undici, e alle tre son andata
al bagno, poi tornata subito qui. M’han fatta sloggiare dalla saletta da pranzo,
m’han messo un tavolino qui tra la finestra e il tuo letto. Cosi c’è un mutamento
anche per me, e la mia stanza somiglia di più alla tua... Dino, Dino! Dove sei?
Voglio esser forte come mi hai chiesto, non voglio piangere, ma ho il cuore
cosi gonfio! Quell’ultima ora, ieri, hai sentito come eravamo consacrati. Dino,
vinceremo. Amor mio. Coraggio. Non so dire neanche per me altre parole oggi.
Son ancora cosi stanca, attonita. E tu, e tu? Quando saprò? Ho tanta paura che
tu stia male. La Casetta ora dev’essere una tana. Dimmi, ti supplico. Dino, ma
ho tanta fede, com’è che ho tanta fede, come il primo giorno? Che cosa vuole da
noi il nostro amore? M’hai detto che mi tieni, vero? Felicità. Ti bacio. Scrivimi.
Se lavorerò, te lo dirò. È arrivato il meta, lo spedirò domani con la biancheria.
Fatti dare delle uova, quattro al giorno, e manda a prender la medicina a Firenzuola. È vero che vuoi che ci ritroviamo belli?
tua Rinetta
(è la prima volta che mi firmo cosi)
XLIII Lettera
[Marradi, 27-30 ottobre 1916?]
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Mia cara amica
[27 ottobre 1916; venerdì, mezzogiorno]
sono troppo stanco e troppo ammalato per cercar di comprendere. Prendo il
partito dei più deboli, il mio solito partito: parto.
Non ho ricevuto nulla, e soffro, Dino. Perdonami, sono forte ma soffro. Ho
Regalo a chi ne ha bisogno quel poco di poesia che può essere sorta in te dal
telegrafato al postino di costà, perdonami1. E anche stanotte dovrò restar nelnostro
amore. Non posso dirti altro dopo questo. Mia cara sono realmente aml’angoscia perché la risposta non verrà certo prima di domani. Dino.
malato non ho potuto sopportare l’attesa e le tue lettere Ricevo ora il telegramTi amo, soffro, sentimi. Se saprò che sei costi, forte, sarò brava anch’io, te ma Parto domattina per la Casetta. Là c’è il silenzio.
lo giuro sul nostro amore, Dino, saprò aspettare, ho tanta fede, tutto è bello, si,
Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perché essa saprebbe baciare il tuo
tutto è stato necessario, la vita sarà per noi, amor mio, ma ch’io sappia dove sei
corpo
di psiche e il tuo viso roseo e nero colla bocca sfiorita di faunessa.
e che non stai male, Dino, Dino... Baciami, rienmi.
Perdonami se non voglio essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le
acque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla — e senti la mia infinita desoNon ti scriverò, ti lascerò tranquillo, proverò a lavorare, ma liberami da que- lazione. Ti porto come il mio ricordo di gloria e di gioia.
st’angoscia... Ti adoro.
Ricorda quando soffrirai colui che ti ama infinitamente e porta per se solo il
tuo colore. L’ultimo bacio dal tuo Dino che ti adora.
La tua amica, la tua bambina, il tuo amore.
tua Sibilla
XLIV Lettera
XLVI Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Dino Campana a Sibilla Aleramo
UN SALUTO DA Marradi (Firenze) [27 ottobre 1916]
[Marrani. 29 ottobre 1916, ore 10]
Dino Campana
Parto Signa albergo danesi malato.
Aspetto le traduzioni, resterò in questi paesi. Spero che starai tranquilla.
XLVII Lettera
XLV Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Bagni di Casciana] domenica, ore 3, [29 ottobre 1916]
Dino, bisogna esser forti, stringersi, non lasciarsi. Io sto male, io la tua amica.
tua Rinetta
E tu, amore mio, anche tu soffri, lo sento. Ci amiamo, perché non vogliamo vivere? Dino. Le ultime notti sentivo quando m’abbracciavi, e mi dicevi, che c’è
Per caso questa facesse a tempo stasera, passa dalla Castiglioni a domandare
ancora tanto vigore in me. E in te c’è tanto sole. Stretti, siamo una cosa miraco- dove dormirò. Dino, amore. O alla pens.[Ìone] Cianferoni.
losa. Dobbiamo vincere. Un male di quindici anni, tu hai detto... Si, e anche per
me. Sono quindici anni che son partita da mio figlio. (Quando Sibilla, nel 1902,
XLIX lettera
aveva lasciato il marito, Ulderico Pierangeli, questi non le permise di ottenere
l’affidamento del figlio Walter, nato nel 1895 e morto nel 1973, che la madre
Dino Campana a Sibilla Aleramo
rivide solo nel 1933) Io son la tua amica. Lavorerò. Rientriamo insieme nella
vita. Che ci vedano, belli, non soltanto nella nostra poesia, che ci amino per la
[31 ottobre 1916]
nostra gioia, per la nostra vittoria. In questi giorni (e pur sto tanto male, sai, ho
tanto freddo, ti cerco ti cerco) ho scritto a varia gente: verrà qualche aiuto, non
Firenze. Il mio indirizzo è via Pietro Carnesecchi 12. (presso Danti).
temo più, potremo aspettar, senza affanno, la fine della guerra, e poi andremo in
Francia. Ma non stiamo staccati, ora. Dino, amore santo. Non posso viverti lonHo sofferto molto più di ora: se tu puoi ti prego di restare mandandomi giortana. E t’ho carezzato cosi poco. Stavi tanto male, avevi paura che non t’amassi, nalmente una cartolina. Pensa a fare completamente la cura.
che non sentissi che cos’eri per me, che ti credessi irreale, anche tu... Amor mio
solo. Non avremo più paura, ora. Abbiamo pagato. Stringiamoci. Dino, abbiaTuo Campana.
mo degli anni pieni dinanzi. Finché sarò bella e forte. Poi sparirò. Che tu abbia
avuto tutta un’anima da adorare, da far felice in sua morte. È la nostra sorte. Hai
L lettera
detto che mi tieni, se voglio... Dove sei? Lo senti che non si può più lasciarci?.
XLVIII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Bagni, ore 12 l/2. [30 ottobre 1916])
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenze, 1° novembre 191 6, ore 7,05]
Supplico venire stasera Campana Carnesecchi, 12, Firenze.
Dopo essersi ritrovati, Sibilla e Campana si stabilirono a Villa Linda a SettiDino, amore mio, parto fra due ore, avevo già deciso prima di ricever la tua, gnano, nei pressi di Firenze, presso Astrid Ahnfelt. Il 2 novembre, dopo violenti
che agonia questi giorni, come si soffre, amore! Arriverò a Firenze alle sei, ma litigi, Campana riparerà a Casetta di Tiara, dopo aver rotto con Sibilla.
dove trovarti? E questa l’avrai soltanto domattina, se l’avrai, se sarai ancora
costi... Ho paura, ti adoro, troppo anch’io, Dino... Non so dove andrò. Alle 9
(Lo vedremo con certezza leggendo la laconica lettera n° 58)
1/2 domattina passerò davanti alla Posta e agli Uffizi poi andrò alla latteria di
S. Maria Novella, starò fino alle 10, poi tornerò ad aspettarti dalla Castiglioni,
LI Lettera
Lung. Acciajoli 2A, ultimo piano. Va bene? E decideremo. Amore, ti stringo nel
mio cuore, resta...
Dino Campana a Ahnfelt
(Astrin Ahnfelt, scrittrice svedese, aveva conosciuto l’Aleramo quando
conviveva con Giovanni Cena. Di quest’ultimo tradusse il romanzo “Gli ammonitori”, apparso nel 1907. Molte sono le lettere nell’archivio Aleramo che
testimoniano l’amicizia fra le sue donne. Giornalista e traduttrice, entusiasta
conoscitrice dell’Italia, si adoperò per la diffusione della cultura italiana nel suo
paese, organizzando anche conferenze e letture su Carducci, Leopardi, Pascoli e
Fogazzaro. Interessata al teatro parlò di Pirandello nel 1933 su Dagens Nyheter,
al quale collaborava. Al tempo della relazione fra l’Aleramo e Campana, si era
stabilita definitivamente a Settignano) (Note a cura di Bruna Conti)
[Casetta di Tiara, Firenzuola 23 novembre 1916]
Genti, ma Signorina Astrid
voluto scusarmi.
Penso che io non potrò esserle utile in nessun modo, e che Lei neppure sa
quanto volentieri vorrei renderle qualche piccolo servizio. Mi parlava dei suoi
lavori che mi son tanto piaciuti, per tradurli o simile; dispongo di me come crede. Sono con tutta la mia devozione e la mia riconoscenza di Lei dev.mo
Dino Campana
P.S. La prego di rimandare l’asciugamano alle cave di Maiano.
P.S. Penso ora che perché mi venga rilasciato il passaporto saranno necessario delle formalità. Vorrebbe informarsi di che si debba fare per avere questo
passaporto? Perdoni. Non ho nessuno a cui ricorrere.
La speranza che Lei mi ha data, quella di liberarmi da questa catena di dolori
e di miserie, di darmi il modo di andarmene lontano, mi fa vivere ora. Voglio
Le scrissi una cartolina chiedendole le scarpe e un pacchetto di Hornigham
guarire, credere ancora, perché Lei ha creduto che meritassi un po’ di vita e di tè. Spero l’avrà ricevuta.
libertà. Non ho cosi nulla da dirle di me, se non che penso a Lei con viva riconoscenza. Se ama i dettagli le dirò che qua non si hanno altre notizie che quelle
Che cosa fa Silvano? Speriamo che diventi un buon svedese come Larsonn
che porta il vento che soffia notte e giorno. Si ha la grande consolazione poi di e direi Strindberg se non fosse stato tanto infelice. Lavora signorina? Lei beata
sentire che la natura nelle sue bufere è infinitamente più dolce della vita, ed è per cui la vita non e una contraddizione orribile. Dev.mo
questo forse che ci aiuta a credere che, come diceva Verlaine, “quelque chose de
Dino.
pur demeure sur la montagne, quelque chose du coeur enfantin et subtile. Car,
qu’es ce que vraiment nous accompagno, et quand la mort viendra que reste-til?” Insomma per ora fa un tempo infernale.
LII Lettera
Venendo ad altro. La prego, gentil.ma signorina, a volermi respingere la mia
corrispondenza a Casetta di Tiara (Firenzuola toscana).
Non so poi se potrei incaricarla di dire a quella donna (ovviamente si riferisce
a Sibilla) che io sarei disposto a farle buone parte delle sue traduzioni dietro
un modesto compenso. In caso che accettasse, la pregherei signorina a volermi
spedire quelle traduzioni.
Veramente ho l’idea di approfittare troppo della sua bontà, e nello stesso tempo non vorrei recarle alcun disturbo,dopo quelli che le ho recati e di cui Lei ha
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenzuola, 26 novembre 1916, ore 10,15]
Parto oggi..
LIII Lettera
Sibilla Aleramo a L. Cecchi Pieraccini
[Settignano, Firenze] Notte 2-5 dicembre [1916]
Non mi scrivere. Ti amo. Prendi il tuo ritratto da bambina e mandala là. Lavora e sii felice. Lasciami il tuo dolore. Addio
Perché non hai avuto fede, Leonetta? Eri una delle tre o quattro persone al
Farò tutto il tuo lavoro. Per ora posso vivere. Nella boccetta non c’è più promondo di cui non dubitavo. Quando Campana m’ha detto che cosa tu gli avevi
scritto mentr’era lassù, ho provato un dolore che tu non puoi capire, Leonetta. fumo addio.
Dunque non mi hai mai veduta.
LV Lettera
Aver fede, era difficile, ma io ero cosi sicura che tu lo potessi! Non ti ho quasi
mai parlato; credevo non fosse necessario. E l’occasione era venuta per te d’un
Dino Campana a Sibilla Aleramo
atto fervido — se tu avessi veduto nei miei occhi che cos’era il mio amore per
Campana. Non hai veduto. A queir infelic[e] una volta di più è stato detto che
[Settignano, 7 dicembre 1916]
il suo atroce delirio di negazione è giustificato: è stato detto questa volta da te,
colpendo la cosa pura e terribile ch’era il mio amore per lui. Perché, perché,
Hai preparato il tuo viaggio senza neppure dirmi che volevi andare a SorrenLeonetta? Ma non ti chiedo risposta. Parto. Mi sento sola come mai. Non so che to. Mi hai però detto che sono libero. La russa e a Firenze mi ha scritto e io sono
cosa accadrà, ma so che non importa a nessuno — se non forse a Michele ch’è andato da lei. Addio mia cara.
anch’egli solo — Addio. Non ti serbo rancore, ho tanto patito in una sola notte
allo svanire della certezza che avevo della tua amorosa intelligenza, che ora
LVI Lettera
an[che] questa sofferenza è assolta. E ci sono altre cose per cui posso sempre
volerti bene, se vivo. Tutto questo che scrivo a te vale forse un poco anche per
Sibilla Aleramo
Emilio. Ma con lui il rapporto è diverso. Non badate, se potete, alle parole. Sto
molto male. Se rivedrete Campana, se potrete in parte riparare, sarà per lui; non
[Sorrento] 8 dicembre 1916]
per me che non spero più e che non credo di tornare.
LIV Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Settignano, 4-5 dicembre 1916] 1
Rose calpestava nel suo delirio
e il corpo bianco che amava.
Ad ogni lividura più mi prostravo,
oh singhiozzo, invano, oh creatura!
Rose calpestava, s’abbatteva il pugno,
e folle lo sputo su la fronte che adorava.
Feroce il suo male più di tutto il mio martirio.
Ma, or che son fuggita, ch’io muoia del suo male!
Cara Amica, ti scrivo piangendo ti supplico per l’amore che hai per me di
tornare da C.[ena]. Dai questo senso al tuo pensiero in questo momento e sarai
(Mario Luzi, quando scrisse kla prefazione all’edizione del 1958 del cartegpura. Io non esisto mio amore. Questa primavera anderò in guerra. Ti ho incontrato e che la mia vita sia bastata per un po’ di luce per te mia Rina. Inutili le mie gio, Aleramo Campana, che definì “… una di quelle fiammate dove scorie e
sostanze preziose si confondono in un’unica incandescenza…” indicò questa
parole come la mia vita, lo so. Non voglio che tu mi ricordi.
poesia di Sibilla come la più vera e viva che la scrittrice avesse mai scritto).
LVII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Settignano, 9 dicembre 1916, ore 18]
Notizia falsa torna subito. Ahnfeit Campanal
LVIII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenze], 12 dicembre 1916]
L’avete più veduto? M’aspetta ancora? M’ha scritto biglietti cinici. Mi sono
aggrappata alla prova di restar lontana, non son mai stata cosi male, ora non ne
posso più, torno, ma che cosa troverò?
Ti supplico, se lo vedi, se sai dov’è, digli che lo amo, nient’altro, nient’altro,
digli che è finita per me se lo perdo, e anche per lui...
LX Lettera
Sibilla Aleramo a L. Cecchi Pieraccini
[Villa Linda [Settignano, 21 dicembre 1916]
Leonetta, non so se oggi vedrai Campana. Dopo averlo ritrovato, e con lui
Signora Aleramo,
qualcuna delle nostre ore più belle, stanotte s’è di nuovo abbandonato al suo delirio d’odio e questa volta credo non ci ritroveremo più... C’eravamo perdonati,
Lei ha troppa ragione nella sua lettera. Io non merito di essere amato da lei. lui la mia “fuga”, io una sua immediata avventura di triste ripicco. Tutto vano.
Ci separiamo.
Sono a letto, ma in questa casa non posso più restare. Se lo rivedrai, cerca
Dino .
(perché la sua anima, se è possibile, un giorno sia meno torbida ricordandomi),
di dirgli che finalmente avevi compreso un poco più la natura del mio amore per
lui. Non avevo mai impegnata cosi totalmente la mia esistenza: era adorazione,
sommissione, negazione mia totale... Ora non saprò mai più amare.
LIX Lettera
Sibilla Aleramo a L. Cecchi Pieraccini
[Sorrento] 17 dicembre [1916]
Leonetta, soffro tanto. E se penso all’accanimento, allo scherno con cui il
destino ha voluto che anche tu contribuissi a questa mia disfatta, tu che pur mi
vuoi bene, lo so... Bisognava vincere. Era il miracolo, e lo meritavamo, io e lui.
Abbiamo perduto, è finita. Vivere, lavorare per il nostro io superiore, egoistico
— tu dici! Evvia! Lo sappiamo cos’è. Si fan anche i capolavori, si! Ma, Leonetta, donne e uomini si nasce per altro, non lo sai?...
Sibilla
Digli che sono [amica] [sua] ... quando vorrà mi troverà.
LX Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[24 dicembre 1916?]
Un letto profondo, la notte di Natale, nel tuo paese dove non sono mai sta-
ta — dove soltanto da bimbo hai riso di gioia. Stanotte. T’aspetto per partire
— son sola nel mondo, oh letto profondo anche questo, se tu non venissi. Tu che
tanta gioia devi avere — e ami il mio dolore, dolore d’aver già tanto guardato
l’acqua fluire. Ma il tuo fiume, lo vedrò? Questo strazio, d’amarti, di volerti felice, e di non poter tramutarmi in una cosa di freschezza, rosa per la tua fronte,
amore, amore. Non poter che consumarmi, sempre più. Non ho più voce per
parlarti. Soltanto le mani sono ancora dolci. Stanotte, ti daranno il sonno? Nel
tuo paese. E poi addormentarmi — e svegliarmi il mattino di Natale, bimba. C’è
un bimbo, un fratellino vicino a Rina — oh Dino, Dino, che cosa si scioglie nel
cuore di Rina? Silenzio, tienmi le mani. Nessuno m’ha detto mai, da bimba, una
favola bella. Guardavo le stelle, come te. Stanotte non ci saranno. Ci saremo
noi, favole, stelle, cose lontane, irraggiungibili. Nessuno mai più ci coglierà,
anche se crederà vederci, sentirci. Stelle. Tienmi le mani, prendine tutta la dolcezza, toglimi tutto, sono tanto felice di morire, ma tu ma tu... Tremo, mi guardo
intorno, non vieni ancora, l’acqua scorreva…
insidie fasciste, qualche altro per poter continuare a scrivere con la certezza di
non chiedere l’elemosina, cioè avere di certo il pranzo giornaliero.
Alla fine della loro corrispondenza, (che, poi, è la storia della loro vita) vorrei
leggere insieme a voi una decina di poesia di Dino, ritenuto dai più eccelsi critici della letteratura italiana il rinnovatore della poesia moderna.
Nel darvi l’arrivederci alla prossima settimana, vi abbraccio con tutto l’amore
che posso.
LXII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Livorno, 3 gennaio 1917]
Tuo
Dalla prossima settimana siamo già al 1917. Sono passati non ancora sei
mesi e già il fuoco che li aveva alimentati va spegnendosi. Sono stati mesi
LXIII Lettera
d’amore furioso alternato a litigate furibonde sia per la gelosia di Dino, sia per
la stanchezza fisica di Sibilla. Sembra che Dino fosse insaziabile e Sibilla sentiSibilla Aleramo a Dino Campana
va ormai, passato l’attacco furibondo dell’innamoramento, la stanchezza fisica
più che quella del sentimento: amava ancora perdutamente Dino, ma avrebbe
[Firenze?] 4 del 1917
voluto che non fosse sempre turbolento e solo sesso. Sentiva ardentemente il
desiderio di “coccole”, ma per l’uomo veniva prima il sesso perché per lui queDicevi ch’eri tu che mi amavi, Dino? Sono io, sono io che amo te. Che disto era l’amore. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che in ospedale si masturbasse
pendo
dalla tua vita. Non chiedo altro. Ti adoro. Vivo perché m’hai detto che
una quindicina di volte al giorno, povera Sibilla quanta forza ha dovuto avere
il mio amore, di cui non hai bisogno, ti è però caro. Adorato. Hai promesso di
per resistere agli assalti sempre più intensi e irresistibili del Poeta.
scrivermi come stai, aspetto, aspetto, guardo verso il mare dalla mia torre.
Infatti abbiamo letto più avanti che mischiavano baci e terra (cioè sabbia)
LXIV Lettera
perché amavano fare l’amore dove si trovavano e spesso lo facevano sulla sabbia o in cabina in riva al mare, ché d’autunno sono sempre vuote.
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Dalla prossima settimana, cominceremo a scivolare verso la fine di un grande
[Livorno, 4 gennaio 1917.]
amore e lo vedremo ammalarsi e morire lentamente, senza poter fare niente per
alimentarlo. Sibilla sarà irremovibile e Dino, ormai sempre più solo si avvia,
Rina mia
anzi decide di farsi ricoverare in manicomio; qualcuno ha detto per sfuggire alle
come descriverti lo sguardo idiota di questa gente dopo esser stati baciati
Come delle torri d’acciaio
dal tuo! Rina io potrei rinunciare a te, ma per sempre. Cosi bella come un réve
Nel cuore bruno della sera II mio spirito ricrea
potrei dimenticarti solo per andare molto lontano e non tornare più. Davanti alle
Per un bacio taciturno 4
cose troppo grandi sento l’inutilità della vita. Il mare ieri era discretamente bello. Sono andato di notte al mare. Avevo visto i monti pisani velati da cui sorge
Ah miseria di questi ritorni. Puoi amarmi? ancora? ancora? ancora? Non ti
la luna di D’annunzio senza foco di cui leggemmo e due aeroplani che volavano scriverò. Le mie lettere sono fatte per essere bruciate.
sul treno. Mia vergine perché leggemmo d’Annunzio prima di partire? Nessuno
come lui sa invecchiare una donna o un paesaggio. Mio amore come vuoi che ti
LXV Lettera
ami? Pallida, con una vita senza foco3 come col suo diritto il macchinista stinge
il paesaggio e viola il ciclo che non conquista? Sciocchezze? Ma sai quanto ne
F. Campana a Sibilla Aleramo
ho sofferto!
[Lastra a Signa, 4/1/1917]
Ecco quello che ci divide. Non ho visto e non vedrò nessuno. Non troppe cose
dimmi. Pensa che per vivere l’assurdità del nostro amore hai bisogno di tutta la
Genti.ma Signora,
tua grazia. Quando sempre mai forse parole giravano nel soffitto del mio cervello. La città è una serie di cassoni balordi. Appiccicato alla spallina del passeggio
La sua lettera affettuosa, le sue premure per Dino mi spingono a scriverle.
guardo il mare senza parole come io sono senza pensiero.
Non so consigliarla a suo riguardo. Noi a nulla siamo riesciti, solo vediamo che
ha bisogno di mettere ad effetto quando dice di partire; ci siamo indotti a pasMio amore mio amore La Gorgona è un dosso lontano sul mare abbandonata sarle quanto le nostre misere forze lo permettano per evitare in lui e a noi cose
laggiù nei tramonti. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi spiacevoli; abbia, buona Signora, pazienza e tornerà. Non le nascondo che io
abbandoni col pensiero. Una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una ho sperato in lei, nel suo affetto che mi sembra sincero, ma purtroppo vedo che
vecchia lanterna di ferro che illuminava la parete di granito. Fuori la via mette- ancora nulla abbiamo ottenuto, voglio però sperare che col tempo e pazienza
va sulla costa pietrosa che scendeva dall’altipiano al mare. Questo ricordo che riusciremo a qualcosa. Egli mi disse che lei era molto buona, ma che il carattere
non ricorda nulla è cosi forte in me! La costa bianca di macigni aveva bevuto il suo violento non poteva frenarlo, quando dice partire si sente agitato tanto che
tramonto cupo e rosso che chiudeva l’isola e ora colla lanterna rugginosa solo meglio è per lui e per noi lasciarlo fare. Se a lasciato la roba rotta e sporca manle stelle sull’altipiano brillavano a me a Garcla. Io baciai la parete di granito do io a prenderla costi.
senza pensare e non so ancora perché. Ricordo che in quella casa stava la sarda
moglie dell’alcoolizzato amico dell’amico del nostro amico. Bevemmo il moConsigli Dino a tornarsene da Livorno, non è aria per lui sotto ogni aspetto.
scato bianco salmastro di Sardegna ed è idiota come mi ricordo di tutto questo. Nell’Estate scorso egli vi passò troppe noie, che Dio non voglia si ripetine, tanto
La mia padrona e dell’Isola del Giglio dove io farei certamente bene ad andare che fu obbligato a lasciare Livorno. Credevamo che non gli fosse tornato voglia
ad abitare per un anno almeno. Tu non ne vedi la possibilità?
di ritornarci; cerchi di consigliarlo a starci poco, anche per i suoi nervi gli fa
meglio l’aria di montagna che quella di mare. Farà molto piacere a dirle questo
Dovremmo ancora vedere le Alpi. Nietsche scendeva di là al mare colla sua anche a nome del babbo suo, noi non gli scriviamo perché non ci da ascolto.
sfida. Aimè Rina perché non mi lasci morire? La Fedelweis non è d’AnnunziaFidente nella sua ascendenza su Dino Le fo ossequi e augura
no e la Dora scende in tumulto e il più leggero dei baci crea ancora forse come
quando dicevo
Dev.ma Fanny Campana.
LXVI Lettera
[Firenze, 24 gennaio 1917] mercoledì
Sibilla Aleramo a G. Sforni
Genti.ma Signora,
Ho ricevuto il volume di cui mi parla ma non sapevo da chi mi fosse stato
portato. Se il Signor Campana vuoi venire da me lo conoscerò molto volentieri:
io sarei in casa Domenica verso le 6 1/2. Se in quel momento egli non fosse
Signore,
libero, lo pregherei di telefonarmi per darmi un altro appuntamento. Mi creda
Ella avrà ricevuto l’altro giorno Canti orfici di D[ino] C[ampana] assieme con ossequi Suo dev.mo
al ritaglio d’un artic.[olo] di E.[milio] C. [cechi]2. Forse conosceva già il libro
Gustavo Sforni
e il nome del poeta. Forse qualche volta anche intese il nome di chi Le scrive.
D[ino] C[ampana] voleva presentarlesi di persona, poi non ha osato. Mi faccio
dunque animo io, che l’amo, e che soffro dell’impotenza del mio amore a gioLXVIII Lettera
vargli. Egli è malato da molto tempo, di neurastenia acuta. Da più d’un anno
non lavora. Dovrebbe far un lungo soggiorno in una casa di salute * - glie l’ha
Sibilla Aleramo a Dino Campana
prescritto ancor ieri il prof. Tanzi4. Ma è del tutto privo di mezzi. Ha sempre
[Firenze 28 febbraio]
vissuto, prima d’incontrarmi qualche mese fa, vagabondo, staccato da tutto.
Signore, Le parlo con abbandono e con fiducia, perché so la gentilezza del Suo
spirito. Anche Emilio Cecchi m’ha incoraggiata a questo passo. So ch’Ella è
Dino,
grato alla sorte ogni qual volta può, con semplicità, aiutare qualche uomo di
valore.
Dicesti: “Sibilla resisterà una settimana, poi mi soffocherà di lettere, di
espressi...”.
D[ino] C[ampana] abita in questo momento alle Cave di Muoiano, ma è quasi
È un mese che sei partito, e ti scrivo - per un’unica volta. Non ho mai più
sempre qui in città, dove abito io, L[ungarno] Acciaioli] 24 pr[ rosso] Fr[arini].
Io La ringrazio di quel ch’Ella farà, e non lo dimenticherò mai. Le auguro tanto saputo nulla di tè, se non che ti sentivi “bene e quasi felice”. Neanche Cesarino
m’ha più scritto. Non aspetto più nulla.
bene.
[Firenze, 20-22 gennaio 1917]
S.A..
* Vedi nota lettera LXXXI
LXVII Lettera
G. Sforni a Sibilla Aleramo
Ma ti scrivo perché c’è una verità che ti voglio aver detto, che forse ti entrerà
in petto ora che tè la dico di lontano e senza più speranza di rivederti.
Dino, io e tè ci siamo amati come non era possibile amarsi di più, come nessuno potrà mai amare di più.
Dino, e il dolore non importa, e non importa la morte.
Io son già fuori della vita, anche se piango ancora.
io pure uni poche righe, chiedendole la cagione della sua silenziosa partenza e
Dino, fa di salvare nella tua anima il ricordo del nostro amore, poi che non se lei era in sua compagnia.
hai saputo voler salvare l’amore nella vita, fa di portarlo nell’eternità com’io lo
porterò!
Abbiamo atteso invano la risposta. Circa il 20 ebbe le altre 30 lire, e il primo
di marzo altre 30 lire, con preghiera di dirci perché era costà, cosa faceva come
Dino, che DÌO ti guardi.
stava. Siamo al ^ e nulla scrive. Il babbo dice che se non gli chiede non gli manda più denaro. SÌ sacrifica per lui giovane e robusto.
Sibilla
È un benedetto figliolo che bene non può stare, hai nostri occhi, fa il possibile
per star male e fare star male i suoi.
LXIX Lettera
Non so cara signora che cosa aggiungere. L’infanzia e l’adolescenza di quel
figliolo e stata meravigliosa. Pacifico bello grasso ricciuto, intelligente di due
anni diceva l’Ave in francese, ero da tutti invidiata. DÌ un ubbidienza e bontà
[Firenze [17 febbraio 1917]
eccezionale, i suoi professori di ginnasio e liceo lo dicevano di un ingegno non
C’è un ramo in fiore - che profuma di miele - e ci son luci rosse e nere - di comune, a noi genitori dicevano, sarà la loro consolazione. - Ora sono stata colegna che arde. - Ricordi inattesi - di paesi - felici, - gemiti improvvisi - per visi stretta dirle: per compatirti grande, bisogna mi richiami alla mente i tuoi primi
- che atrocemente risero - e s’allontanarono. - Intensa fragranza - e guizzi in anni, e non basta. Lo crede che spero in un altra trasformazione.
stanza - a sera - pace del fuoco - eco di luce - la pigna in brace - tutte le foreste
Venne il 20 gennaio, e più non l’abbiamo visto, si cambiò prese le scarpe
lungi. - Desdemona - e il salce dov’è?
accomodate le 30 lire quindicinali, noi siamo in regola. Anzi lo pregai a dirle
che
il giorno stesso avevo pensato rispondere alla sua lettera, le facesse le mie
Tè la volevo mandare un mese fa! Vedi come è brutta, strappala!
scuse, aspettavo il calzolaio per unire al pacco le scarpe grosse accomodate, e
tutto inviarle come mi diceva.
LXX Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
F. Campana a Sibilla Aleramo
[Lastra Signa, 5-5-1917])
Egregia Signora,
Perdoni se troppo e a lungo mi sono trattenuta, e uno sfogo materno che
compatirà.
Se saprò qualcosa glielo comunicherò. La saluto distintamente.
Dev.ma Fanny Campana
La sua lettera mi ha sorpreso credendola lei pure a Torino. Non le nascondo
Dino a portato via tutto anche la roba rotta? dove a messo tutto? a in più una
che era il pensiero che mi teneva tranquilla riguardo a Dino. Tanto io che suo
sua
fotografia Dino?
Padre fummo meravigliati ricevere una cartolina Ì14 febbraio da Dine dal Piemonte. Solo chiedeva il suo mensile che cera freddo e la spesa della legna in
più. A posta corrente il babbo gli mandò le 30 lire quindicinali, e nella cartolina
LXXI Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[marzo 1917?]
Mio caro, lo sai che mi stanno uccidendo? Oh, non ti allarmare. Piano piano
e nessuno se ne accorge. Minuto per minuto, in questo assurdo silenzio gonfio
d’indicibile, aumenta la prostrazione, la fissità vana dello sguardo, e il sapore di
terra in bocca. In questi ultimi giorni, per giunta, ho lavorato. Niente di molto
bello, ma tutto serve. Non eri tu che dicevi “Come costa caro far poesia!”? E
poi il motto Auf mors, Bah, perché ti scrivo queste storie? Pensare che l’altra
mattina mi son svegliata col pungolo di mandarti questa straordinaria frase:
“Cane arrabbiato che m’hai morso, muoio, ma ti taglieranno la testa”. Forse
l’avevo sognata. Ancor adesso la contemplo con reverente stupore, lo stesso che
m’incuteva certe volte il tuo più atroce furore. Poveri noi. Dino e Sibilla, anzi,
Dinuccio e Rinetta, che non potranno amare mai più. Almeno io ne ho più per
poco. Ma tu? Ingrassi? O fai versi? Addio, mio caro, non aspetto mica risposta.
Hai visto che non t’ho “soffocato” con le mie lettere? Addio, Dino, che Dio ti
guardi.
LXXII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Marzo 1]
Dino,
ho una grande malinconia, un grande amore, una parola, non so quale, da
dire.
Non so quel che la vita vuole da me. Se debbo resistere in questa solitudine,
in questa preghiera d’ogni istante: rinunciare a rivederti, restare per sempre con
questo sapore di terra in bocca; salvarti con la mia rinuncia, col farmi amare da
lontano. Aspettare la morte, quant’anni, Dio mio?
O venire, con tutta l’umiltà del mio cuore che vuoi piangere e che vuoi cantare. Che non sa nulla, di là dalla gioia di ritrovarti. Che tu rinnegherai, calpesterai
ancora, e continuerà ad amarti, cosi...
Dino. E sentirmi chiamare per nome. Oh non è miseria. Ti amo. Ringrazio
DÌO. L’adorazione silenziosa per l’universo, si scioglie in queste lagrime se ti
vedo o se ti penso. E quando tu mi chiami Rina, è DÌO in tè che mi vuoi bene,
che mi sorride. Vicino o lontano?.
LXXIII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Rubiana, 8 marzo 1917]
Egregia Sibilla,
II mio silenzio deve avervi significato che nulla e più possibile tra noi. Voi
avrete dunque rinunciato al progetto del vostro viaggio quassù. Già vi dissi che
preferivo uccidermi piuttosto che vivere con voi. Questa mia decisione si è consolidata. Lasciatemi dunque perdere. Sento che non potrò mai più perdonarvi.
Addio dunque. Tutto è finito per sempre.
Campana.
LXXIV Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Rubiana, 9 marzo 1917, ore 11,20]
Perdona vieni subito.
Campana.
LXXV Lettera
ancora nulla. Mandami un quarto chilo di Thè Hornimans unica gioia.
Sibilla Aleramo a Dino Campana
La casa è ospitale qua. Posso disporne liberamente, benché sia innocente
(scusa la parola). Ti bacio infinitamente gli occhi le labbra i capelli. Per sempre
tuo
[Firenze] 9 marzo, sera [1917]
Perdonarmi? D’esserti venuta incontro, d’averti creduto un uomo libero e
grande, d’averti parlato come parlo soltanto all’anima mia - perdonarmi d’averti
“preso sul serio”, vero Campana? D’aver durato il martirio più infame, per amore, per speranza invincibile di miracolo, e baciato le tue ginocchia. E ora, d’aver
aspettato, pregando, pregando DÌO Che ti salvasse, che il silenzio e la montagna
ti facessero sentire che cosa siamo stati e che cosa potremmo essere - aspettato e
taciuto, in una consunzione d’ogni minuto, quanto tempo? Ed è sempre la notte
che sci partito, tè l’ho scritto finalmente nella cartolina che s’è incrociata con
questa tua lettera2 ... Dino, povero, povero, povero!
Dino
La posta viene una volta al giorno. Inutile mandare espressi.
LXXVII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Firenze] 12 marzo [1917]
LXXVI Lettera
Non vengo, mio povero amore. Perché non posso e perché non voglio. Ma
non posso neppure scriverti. Soffro. Sento che nulla è mutato. Nulla in te s’è
creato in tutto questo tempo d’orribile oscurità. Forse, anzi certo, perché sei
Dino Campana a Sibilla Aleramo
partito a quel modo. Come dunque cedere alla tua chiamata? Dino. Io ho rinunciato a tutto, son già quasi fuori della vita. E non voglio rientrarci vanamente,
[Villa Irma, Rubiana (Torino) [11 marzo 1917]
comprendi? Per la pura gioia di vederti e d’abbracciarti, tanto forte e tanto pura
ch’è uguale al sogno, non voglio si ripeta tanto male. Meglio soltanto ricordare,
Cara Rina
Non ho ricevuto la tua cartolina. Non ti dico quello che ho sofferto in questo sentendo la morte venire. Io so ricordare la luce. So come ci siamo amati - come
tempo. Non ho vissuto (?) che per te. Vedi che appena ti sei mossa, hai scritto non è possibile amare di più in terra, lo e te. Ma il male non lo voglio più. Doquella cartolina che non ho ricevuta - io ti ho scritto. Volevo dirti in quella lette- vevi partire per guarire, Dino. Che voleva dire rinascere. Ritrovare volontà e
ra che tu venissi perché volevo morire, e questo tutti i giorni che c’era un po’ di fede. Pensarmi, volermi bene. La fede, ora bisognerebbe che la risuscitassi tu
in me, ch’era tanta, lo sai! È mai possibile? Come se tu fossi giunto ieri costì, e
sole qua volevo scrivertelo. Invece ti ho scritto il contrario, ma tu sai leggere.
m’avessi chiesto perdono appena toccata la neve. È mai possibile che tu sappia
Cara Rina, non voglio attaccarmi a te con quella disperazione che tanto ti rimaner fermo ora ad amarmi e ad aspettarmi? Per un tempo che assolva tutto
offendeva, mi contento di dirti che ti amo più della mia vita, e ti prego a non il resto? Che tu voglia veramente vivere, per tè e per me? Dino, non posso più
chiedermi più di quello che posso darti. Tu sei libera, io non ti domanderò mai sperare, e soffro, soffro, che dirti altro? Ma sono anche felice - di patire cosi,
morire cosi d’amore.
più nulla.
Hai lavorato un po’? Vuoi venire tu o che venga io? Vuoi che viviamo insieme o lontani? Sai i miei gusti. Come stai? Che vita hai fatto? Qua non manca
Sibilla.
LXXVIII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Rubiana] 21 marzo [1917]
Caro amore,
Mi accetti o no come tuo modesto compagno per sempre? In ogni caso perdona tesoro. Voglio rivederti. E basta colla inutile sofferenza ora e poi.
25, al primo del mese riscuote, e le manderà L. 35, che sono 60.
Se lavora camperà, altrimenti… è cosi cara la vita… Speriamo bene...
Io Signora non so dargli consiglio sul da farsi, altro che legalizzare l’unione.
Un che mi dice che lei se vuole può salvarlo. Le cose ben fatte portano in generale buoni resultati, se vuol bene a Dino faccia del suo meglio, ed io l’appoggerò
dove posso.
Sento che non è indifferente all’animo mio, forse, anzi certo per l’interesse
che si prende di mio figlio. Se viene qui alla Lastra sarà accetta. A Dino non
abbiamo che da salutarlo e fargli auguri, pregarlo a conservare quel può di roba,
camiciola specialmente e abiti che non potremo l’anno venturo rifargli.
Se non vieni verrò tra due o tre giorni. Ricevo oggi la tua lettera del dodici.
Indirizza Villa Irma Rubiana (Torino). Non ricevei la cartolina. Sono stanco di
quassù e di tutto quello che non è te. Io non voglio vivere se non per te. Se accetFarò in seguito una scappata a Marradi, e le porterò un abito da mezza stagioti bene. Se no ci vedremo una volta e poi addio. Fai i tuoi calcoli tenendo conto
anche del tuo cuore. Qua fa caldo. Dovresti venire quassù. Si sta tranquilli. Non ne; il cappotto camiciola e abiti da inverno vorrei averli a Marradi per conserc’è nessuno. Dovresti chiedere un permesso di quattro o cinque mesi all’istituto varglieli. L’altro mio figlio che abita a Siena ci prega a passare da lui le vacanze
e feste Pasquali, insiste tanto: vedremo contentarlo.
per [“] ragioni di salute” e procurarti qualche traduzione per me.
Grazie per la premura che si prende di Dino. Auguri per le prossime feste. Si
Di tè non ricordo che l’immenso amore che ti ho voluto e che ti voglio e
che mi hai voluto e ti chiedo sinceramente perdono di tutto quello che per mia valga di me dove crede possa essere utile. Mi creda con ossequio Sua Devma
miseria o per destino è successo tra noi. Non succederà più nulla. Amore mio Affma
rispondi anzi vieni. Se vuoi vedere i tuoi amici ti accompagno. Ormai ti amo
Fanny Luti Campana
interamente colla tua vita. Per sempre
tuo Dino!
LXXX Lettera
LXXIX Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
F. Campana a Sibilla Aleramo
[Rubiana 25 aprile 1917]
[Lastra a Signa] 22 marzo 1917]
Egregia Signora,
Finalmente stamani e arrivata una cartolina di Dino, il babbo gli a mandato L.
Sibillina perché scrivo ancora? Non vi credo più, lo sapete. Aspettavo anche
questa disillusione che non può aggiungere nulla al resto. Ciao lo stesso. Abbiamo fatto il giro del lago. La vita è un circolo vizioso. Mandate traduzioni?
LXXXI Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Firenze] 25 apr. 1917]
Ti mando dei versi qualunque, soltanto perché tu veda che anch’io in questi
giorni pensavo che la “vita è un circolo vizioso”... Ma lo pensavo diversamente
da te, mio povero Dino. Del resto, se ho ancora la grazia di sentire in qualche
attimo il ritorno eterno della purezza nel mondo, non soffro però meno. Dino, ti
amo ancora. In questi tre mesi son rimasta fedele alla mia passione, in un modo
che tu non puoi forse neppur immaginare. Ma, mentre sono ancora cosi tua, ti
dico a mia volta addio. Non so che cosa mi aspetta. Forse le primavere, se torneranno per me, torneranno tutte come questa, deserte. Sia fatta la volontà di
Iddio. È morta mia madre, l’ho saputo troppo tardi per rivederla. Forse partirò
domani, non importa per dove. Non ho da mandarti le traduzioni che mi richiedi, e non vedo come procurartene in questo momento. Addio, Dino, che tu possa
ritrovar la poesia nella tua anima - e ricordarti qualche volta dell’anima mia.
Ma si, sempre
sibSento che sorrido,
intenerita,
c’è pudore e c’è grazia puerile
in questo che m’investe,
sola,
tremore improvviso,
oh luce tra le rame gemmate,
sera che avvicini la primavera,
sento che sorrido,
intenerita,
cosi tersa cosi lieve e presente
la vita,
con un suo senso anch’essa di casto bene,
ridente,
di un’ora che torna, torna, ma si, sempre
di un’ora sospesa,
oh nuova!
Sibilla Aleramo
Firenze, aprile 1917
(Questi tre mesi di castità - ai quali ne seguirono altri, stando alle informazioni di documenti d’archivio - sono stati per l’Aleramo più pesanti da morta che
da viva. C’è chi li imputa al necessario isolamento per aver contratto la sifilide,
durante la relazione con Dino Campana: per una risposta - basata sulla documentazione - a questa illazione (si legga la lettera n°66, dove la Aleramo parla
di casa di salute, nelle lettera scritta a Gustavo Sforni e la spiegazione venne fatta dopo la visita medica e smentirebbero le recenti ipotesi che la diagnosi fatta
dal Dottor Tanzi fosse quella di sifilide, così come il suo tono farebbe escludere
l’abbandono di Campana da parte dell’Aleramo). In un interessante saggio dal
titolo Sul carteggio fra Sibilla Aleramo e Dino Campana, Beatrice Stasi, invece,
ne mette in dubbio la veridicità, attribuendo all’Aleramo una nuova relazione
nel 1917. Si coglie l’occasione per precisare che Giovanni Merlo ebbe con Sibilla una storia d’amore che durò due anni, ma che ebbe inizio a marzo 1918.
La poesia - inedita - è probabilmente quella a cui si accenna nella lettera e
venne spedita in quei giorni anche a Cecchi).
LXXXII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenze fine aprile - primi di maggio 1917]
Sibilla
Mi hai scritto che mi lasciavi e sono venuto per vederti perché non posso lasciarti senza più sentire la tua voce, una volta sola. Mia adorata, se vuoi ti giuro
che sarai libera perdona
tuo Dino
LXXXIII Lettera
LXXXIV Lettera
Via della Fornace 9 (presso Piatti) Firenze.
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenze, 30 maggio 1917, ore 13,30]
[Firenze, 1° 5 maggio 1917 ?]
Fornito danaro desidero ardentemente vederti. Campana
Cattiva mi fecero il gioco delle carte e come vero. Non voglio scrivere capisci, niente vale il tuo sorriso, la dolcezza di te, non voglio dirti altro che sono
passato e passo a guardare la tua finestra chiusa e a baciare il vetro della cassetta
delle lettere che una volta lasciava vedere Sibilla Aleramo. Non mi sento affatto
feroce, perfettamente tranquillo. Ti AMO. Gioia mia, più cara della vita mille
volte mia per il mio ricordo disperato. Tesoro, vuoi che ti racconti? E inutile.
Cosa puoi tu fare delle mie storie. Sibilla mia. Sibilla piango e sorrido ti adoro.
Oggi glicine perlacee erano nel sole e una testa d’uomo? Non sono più il tuo
bambino? Parlo di te come di una santa che si cerca in ginocchio. Mi sento forte
perché tu sei stata qui, hai guardato l’Arno e hai visto le glicine. Sono stato pure
al Lyceum e là ho visto le glicine vive sui muri del cortile arsi nel sole amore
amore. Cuore del mio cuore c’è un altro ancora che vorrai cantare? La tua sancta solitudo coi grappoli di glicine al sole basta. Gioia Non so perché ti scrivo
lettere assurde ti so lontana e che non vorrai più amarmi, capisco tutto sai.
Mandami una goccia del tuo sangue posso guarire. Il vento batteva sui boschi
ma la tua voce era più forte. Addio Sibilla non resisto più. Una lunga agonia
era lassù lontano da tè. Avevo trovato una pupattola e ci recitavo la commedia
dell’amore disperato. Se tu avessi assistito alla pantomina (come presente eri
per me!), saresti stata tanto contenta, pantomina che spezzavo il cuore di legno
a me e all’altra. Gioia tieni sul tuo petto la lettera prima di scriverla a lungo. Un
bacio fatto di mille e mille baci.
Tuo Dino.
Scrivi raccomandato,
Dino Via della Fornace 9 Firenze.
LXXXV Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Milano] 30 maggio [1917]
Ti ho sognato - mi eri coricato accanto - mi son svegliata che dicevi: “perdonami”. Eri tu, Dino - ti ho proprio rivisto, sentito.
Allora vuoi dire che lo sai finalmente che t’ho amato? Lo sai che cosa orribile
è stata la tua cecità? Quei tuoi occhi che chiudevi, ed eran fatti per il sole. Per
me e per te.
Oh Dino, Dino, e ora è troppo tardi. Non posso più. Io son per sempre quella
della notte in cui partisti da Firenze, piango come quella notte, da quella notte
e come se avessi quattro anni, lagrime senza risposta in mezzo alla via d’una
bambina battuta e sperduta. E nessuno più m’ha toccata.
Ero pura, Dino - perché hai voluto negarlo, e sapevi di mentire?
Sono pura - e mi sento morire - ed ormai è troppo tardi, amore, povero mio,
mio, ch’io sola ho amato. Ti perdono. Ricordati. Avevo fede nell’anima tua. Salvala - come se dovessimo ritrovarci. In sogno lo saprò, forse. Mio! Ti perdono.
Vivi.
Sibilla
LXXXVI Lettera
[Ruotano, 30 luglio 1917]
Sibilla Aleramo a Dino Campana
Signora,
[Ca di Janzo, Novara] sera del 20 giugno [1917]
Questa stanza d’albergo di cittadina di montagna m’ha ricordato, appena vi
sono entrata, quella del Natale a Marradi. Forse perché c’è un letto grande, e da
quella volta non ne ho mai più veduti. Grande, tutto per me. Ho mangiato dei
funghi, come alla Casetta, e bevuto del vino. Domani proseguo per l’alta valle.
Ci son tante valli nelle Alpi. Tu non puoi indovinare in quale mi trovo. Il proposito sarebbe di restarci almeno tre mesi, che uniti agli altri cinque già trascorsi
in stato di santità farebbero un record - oh non per offrire a te!
VÌ domando di rivedervi per parlarvi e per sapere qualche cosa del mio destino. Intanto vi domando perdono e sono umilmente vostro
Dino
LXXXIX Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Ca di janzo, Valsesia] fine luglio 1917]
E tu sei di nuovo a Rubiana, vero? L’ho saputo otto o dieci giorni fa, tornando a Milano. Mah! E sei contento? Domani vedrò le cime di ghiaccio. Quando
Mère des souvenirs, maitresse des maìtresses... - Un anno che scrissi “anpenso che non saprai mai come t’ho amato, Dino! Addio, stanotte dormo.
dando e stando” Un anno di fedeltà mia, per il ricordo di quei mattini al Barco
ch’eravamo due cose d’oro. Addio, Addio...
LXXXVII Lettera
Sibilla Aleramo a Dino Campana
[Ca diJanzo, Novara 20 giugno 1917]
Le ginestre a Marradi, le ginestre a Maiani, in quale giugno le vedremo insieme?
XC Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Marradi 8 agosto 1917]
Cara Rina
Se quest’anno sarai sulle Alpi, coglieremo le genziane. Fammi credere! Nel
Mi trovo finalmente a Marradi fra le vergini foreste paese che tu pure hai
tempo, mio, nostro. Nel ritorno dell’estate, l’anno che verrà e poi ancora, an- veduto. Compiango il tempo che ho trascorso in foreste meno vergini. Ma, viva
cora. Vivere non avendo più fìssa dinanzi la morte, vivere guardando la vita. dio, mi sento soltanto adesso di essere ancora giovane e di combattere nuove
Dino!
battaglie sia nel campo vastissimo dell’intelletto nonché in quello di nuovi amori. Auguro a te pure donna intellettuale e colta di poter fare per quanto ti sarà
possibile la stessa via.
LXXXVIII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Se credi mi saranno grate le tue notizie e assicurati che di te conservo il più
dolce ricordo.
Dalle rupi di Campigno, nelle cui rupi pietrose abita permanente il falco io
spero di superarle e volare sopra di esse con tutta la fierezza e la forza dell’aquila. Fra tutti gli areoplani moderni anche il mio seguirà il suo destino. O la morte
o la gloria! tuo affezionatissimo
[Marradi, 13 agosto 1917]
Sibilla?
XCIV Lettera
Dino Campana
Dino Campana a Sibilla Aleramo
cosi detto poeta del presente e dell’avvenire
[Marradi, 14 agosto 1917]
Marradi (Firenze) scritta da Campigno.
XCI Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Perché non mi perdonate? Vi costa cosi poco. Siete per me l’unica divinità
sulla terra vi amo come un idolo senz’occhi. È vero non posso nulla per voi. Ho
esaurito tutto il mio ottimismo, ma venite a bere il sangue dei miei ginocchi,
venite divina sola tra tutte le donne. Sono vostro schiavo. Vi custodirò come,
Perdono perdono venite Dino per sempre vostro.
[Marradi, 13 agosto 1917]
XCV Lettera
Your for ever
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Dino
[Marradi, 27 agosto 1917]
XCII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Marradi, 1° agosto 1917]
Your for ever
Dinuccio
XCIII Lettera
Dino Campana a M. Luchaire
Cara amica, perdonate se vi scrivo cosi, per me siete l’unica che penso come
amica in possibilità.
Dunque volete ancora fare qualcosa di me? Troverò un impiego e vi amerò
per tutto il resto della mia vita che ormai auguro breve.
Voi non mi farete forse più soffrire, non mi romanzo[re]te più, sarete meglio
di una romanziera è vero? Ho lasciato tutti e tutte. Vorrei venire in Piemonte e
vivere presso di voi. Però mi prometterete di non conoscere la Guglielminetti e
di disprezzarla. Vita di lavoro e rinunzia! Come meglio la potete fare che come
vi dico Ciao biondina adorata. Scrivi subito ti prego..
XCVI Lettera
XCVIII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenze, 6 settembre 1917]
[Firenze, 6 settembre 1917]
Sibilla Aleramo
Cara Signora
Addio. Nous ne nous reverrons plus sur terre. Addio. Mandate ancora un
sono nella tua stanza. Dimmi se devo viverci o morirci. Non ti importuno, è
saluto al vostro
vero. Tesoro santo.
Dino Lungarno Acciaioli 24 (presso Fratini).
Tuo Dino Lungarno Acciaioli 24 (presso Fratini).
XCVII Lettera
XCIX Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenze, 6 settembre 1917]
[Novara, 11 settembre 1917, ore 9,30]
Cara Sibilla
Malato ritorno Milano domando rivederti telegrafa Manin Perdono.
Tuo Campana.
oggi faccio frasi: ossia: il mondo un deserto senza di te, oppure che cosa devo
fare della mia verginità, oppure mi contenterei di vederti di abitare nello stesso
paese perché il mondo è ecc. Sibilla ti supplico, ti ho amato lo sai, ti assicuro ti
C Lettera
giuro che non posso vivere cosi, tu non puoi privarmi della tua presenza, non
posso vivere senza vederti, senza saperti. Ti giuro che non domando neppure
Dino Campana a Sibilla Aleramo
il tuo saluto, sarò la tua ombra nella vita se vuoi, il ricordo di un amore che ti
seguirà, felice cosi. Né per vivere né per morire posso essere senza di te. Ti ho
[Novara, 11 settembre 1917, ore 12]
adorato tanto questi mesi in mezzo al mio tormento mentre credevo di morire.
Ma lassù c’era il ghiaccio e il silenzio, tu mi avresti dopo ritrovato puro dopo in
Arrestato a Novara vieni a vedermi Campana.
tutto il silenzio di tutte le cose. Sibilla perdono, per te sola ho fatto tutto. Non
mi offendere, sarò il tuo amico silenzioso, non domando la gioia, voglio solo
(Dino era stato arrestato come abbiamo già saputo dalla nota aggiunta alla letvederti. Farò tutto quello che mi comandi. Sibilla perché vuoi che muoia cosi tera XIII, ma ricordiamolo: Sibilla si recò dall’Avvocato milanese antifascista,
lontano da te?
colui che denunciò il Parlamento in delitto Matteotti, che l’aiutò a far scarcerare
Campana)
CI Lettera
Sibilla Aleramo a E. Cecchi
[Stazione Novara 13 seti. 17 sera [1917]
Caro Cecchi,
Cara Sibibilla
mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato.
Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato e l’ultimo male che mi puoi fare
Ma pure spero ancora in una tua buona parola, di quelle che si scrivono ad un
voglio scrivervi una lettera “storica”... Non hanno forse gli uomini inventato
la storia per giustificare la vita? Vero è che aspetto un treno che mi riporti a amico inutile e lontano, un tuo sorriso di riflesso e tante tue notizie sulle righe.
Milano, di dove son partita oggi. dopo esservi arrivata iersera da questa stessa Cara, chi ti fu caro, fu
linea... Caro amico, sono venuta qui per vedere Camp[ana] ch’è in prigione. ArDinuccio è vero?
restato tre giorni fa per il suo solito motivo (somiglianza con un tedesco). L’ho
riveduto così, dopo nove mesi, attraverso una doppia grata a maglia. Non ero
mai entrata in una prigione. E stato un colloquio di mezz’ora, i carcerieri avevan
1918
quasi l’aria di patire sentendo lui singhiozzare e vedendo me irrigidita.
ANTIEPILOGO
Quando sono uscita, c’era tanto vento, pareva il giorno che arrivai ad Alessandria, ricordate? e in fondo si vedevano le montagne bianche. Ebbene, la
libertà m’è parsa la cosa più tremenda della terra. Ho invidiato - forse, forse si
- lui ch’era rimasto dentro con qualcuno almeno che lo ascoltava piangere... O
io sono stanata dall’umanità, o la mia umanità non si esprime più... Ma ora parlo, ecco. Perdonate. Vogliatemi bene. Scrivete a C. a Marradi, dove il delegato
m’ha promesso di mandarlo domani con foglio di via. Ditegli che lavori, che
abbia fede... Non ho potuto promettergli nulla - e pure ero sua, son rimasta sua,
lo sapete. Forse tutto è veramente bene. Chi sa. Coraggio.
Sib
P.S. Scrivetemi al Manin, non so dove andrò ma mi raggiungeranno..
CII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Marradi 27 settembre [1917]]
CIII Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Firenze, 4 gennaio 1918, ore 18]
Tutto cancellato domando rivederti. Campana.
CIV Lettera
Dino Campana a Sibilla Aleramo
[Manicomio di S. Salvi, Firenze 17 gennaio 1918]
Cara
Se credi che abbia sofferto abbastanza, sono pronto a darti quello che mi resta
della mia vita. Vieni a vedermi, ti prego tuo
Dino.
EPILOGO
e
L’ETERNITA’ NELLA POESIA
Giulietta e Romeo dramma in 14 quadri e sette scene.
dove si vedono mostruosi fatti e scene di terrore e orrore e infine della lotta
della passione il trionfo dell’innocenza. Scena finale.
Mia cara Rina,
Sono cinque minuti che aspettando
Rina Faccio
mia amica amante
e amabilissima
Rina
ossia
una donna sul baratro
(Sibilla Aleramo)
***
Vi amai nella città dove per sole
Vi amai nella città dove per sole
Strade si posa il passo illanguidito
Dove una pace tenera che piove
A sera il cuor non sazio e non pentito
Volge a un’ambigua primavera in viole
Lontane sopra il ciclo impallidito
*********************************
Sul più illustre paesaggio
Sul più illustre paesaggio
Ha passeggiato il ricordo
Col vostro passo di pantera
Sul più illustre paesaggio
II vostro passo di velluto
E il vostro sguardo di vergine violata
II vostro passo silenzioso come il ricordo
Affacciata al parapetto
Sull’acqua corrente
I vostri occhi forti di luce
*********************************
In un momento
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P. S. E cosi dimenticammo le rose
*********************************
I piloni fanno il fiume più bello
I piloni fanno il fiume più bello
E gli archi fanno il ciclo più bello
Negli archi la tua figura.
Più pura nell’azzurro è la luce d’argento
Più bella la tua figura.
Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi
Più bella della bionda Cerere la tua figura.
Sibilla Aleramo e Dino Campana Passione sfrenata con più giovani e quasi senza uomini, raggelata, dove i muri della città esortano a non parlare con gli sconosciuti e a denunciare le persone sospetbotte da orbi
È tornato recentemente in libreria, con un titolo fantasioso e l’ aggiunta
di una dozzina di nuove lettere, il carteggio Campana-Aleramo, pubblicato nel 1958 da Vallecchi e curato da Nicolò Gallo, che in realtà si
limitò a sistemare e ad annotare le lettere che gli aveva dato la Aleramo.
Personalmente, penso che sarebbe stato meglio ristampare il testo originale, senza nulla cambiare e nulla aggiungere. Quel carteggio, infatti,
non è un vero carteggio, ma è il romanzo d’ amore che Sibilla, ottantenne, compose mettendo insieme una parte delle sue lettere a Campana
e quasi tutte le lettere di Campana a lei.
Sibilla potè creare quel romanzo perché qualcuno (forse la madre bigotta di Dino, Fanny) le aveva restituito le lettere d’ allora, dopo che Dino
era stato internato in manicomio. Sistemando l’ epistolario con Campana, distruggendo alcune lettere, togliendone altre, Sibilla diede anche
forma accettabile a una storia che probabilmente le pesava ancora. L’
edizione Vallecchi delle Lettere è un suo romanzo: la sua opera migliore,
forse l’ unica che le sopravvivrà (se non verrà troppo rimaneggiata). Dino
Campana e Sibilla Aleramo si incontrano per la prima volta giovedì 3
agosto 1916 al Barco sopra Scarperia nelle montagne del Mugello, e per
l’ ultima volta giovedì 13 settembre 1917 a Novara. La loro storia d’ amore (che però, come si vedrà, non è soltanto una storia d’ amore, e non è
del tutto corrispondente al romanzo epistolare di Sibilla) ha bisogno di
alcune premesse: sui suoi protagonisti, sulla guerra che le fa da sfondo
e poi anche sulla malattia di cui Dino soffre già da parecchi mesi, e che
lo porterà alla tomba. Dino e Sibilla sono due personaggi diversi e quasi
opposti. Tanto lei è mondana, socievole e «sociale» (ma con intelligenza, senza le pose da femme fatale alla Amalia Guglielminetti), tanto lui
è, per sua stessa ammissione, «orso» e «strambo». Senza la Grande
Guerra del 1915-1918, si sarebbero forse incrociati e sfiorati nell’ ambiente letterario fiorentino, e tutto sarebbe finito lì. Il loro incontro è inevitabile e «fatale» perché avviene nelle retrovie della guerra; in un’ Italia
silenziosa e attonita per le notizie che arrivano dal fronte, che espone
quasi su ogni porta il nastro di un «lutto tricolore». In quell’ Italia senza
te, Sibilla trova un giovane maschio di trent’ anni, con i capelli fulvi e gli
occhi chiari, che è anche un grande poeta: e se ne innamora all’ istante.
Che altro avrebbe potuto fare? Nel momento in cui si incontrano, Sibilla
e Dino hanno una sola cosa in comune: sono, tutt’ è due, affamati d’
amore. Lei, di amori ne ha già avuti tanti, ma nessuno mai l’ ha soddisfatta né mai arriverà a soddisfarla pienamente. L’ amore disperato e
folle con Dino Campana: i pugni e gli sputi di lui, i graffi e i morsi che lei
gli ricambierà saranno tra le cose più autentiche della sua esistenza. Lui,
Dino, prima di incontrare Sibilla non ha mai amato nessuna donna. Possiamo esserne sicuri, anche senza conoscere tutti i giorni e tutti i minuti
della sua vita, perché ci troviamo di fronte al caso, abbastanza raro, di
un poeta in cui scrittura e vita coincidono. Nelle poesie e nelle lettere di
Dino Campana la scrittura registra, quasi automaticamente, tutti i principali eventi della vita: è ciò che la «scatola nera» è per gli aerei. Se una
cosa non c’ è nella scrittura, non c’ è nemmeno nella vita. Prima dell’
incontro con Sibilla, nella vita di Campana ci sono le infatuazioni adolescenziali per qualche ragazza di Marradi, per qualche compagna di liceo; c’ è la creola Manuelita, intravista a Bahia... E poi, ci sono le prostitute. C’ è l’ epopea del sesso a pagamento e della prostituzione dell’
epoca, nelle sue forme più arcaiche (v. Il viaggio e il ritorno: «A l’ ombra
dei lampioni verdi le bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi
nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il
vento mesceva e levava nell’ odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte
mediterranea scherzava colle enormi forme delle femmine tra i tentativi
bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni. Esse guardavano
la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludi erano
taciuti ormai...» ) e volgari (v. Notturno teppista: «Amo le vecchie troie/
Gonfie lievitate di sperma...»). Ci sono un paio di incontri senza importanza: con una «svizzera Segantiniana», con una «russa incredibile venuta dall’ Africa». Non c’ è, assolutamente, nessun amore degno del
nome. (E, quando poi ci sarà, lascerà la sua traccia). L’ amore di Sibilla
e di Dino è, fino dal giorno del primo incontro, una passionaccia, un
amore quasi esclusivamente carnale. (Sibilla: «I nostri corpi su le zolle
dure, le spighe che frusciano sopra la fronte, mentre le stelle incupisco-
no il cielo». Ancora Sibilla: «Ti farò gridare di gioia quando ci riprenderemo»). I guai nascono quando i due incominciano a conoscersi. Dino ha
un bisogno disperato di Sibilla, e però non c’ è quasi niente di lei che
possa piacergli davvero: né la scrittura, né le amicizie, né il carattere. In
quanto a Sibilla, scoprirà presto che c’ è una ragione, e mica piccola!,
per cui lo Stato italiano ha lasciato a lei quel maschio giovane e forte,
invece di mandarlo al fronte insieme ai suoi coetanei. Dino Campana è
malato. Nell’ autunno del 1915 è stato ricoverato quaranta giorni all’
Ospedale di Marradi, con una diagnosi ufficiale di «nefrite». In realtà, ha
avuto e ha una leggera paralisi al lato destro, che gli ha bloccato metà
del viso e lo costringe a zoppicare; e soffre di un terribile mal di testa, di
cui parla nelle sue lettere a Cecchi e ad altri corrispondenti e che chiama
«congestione cerebrale» (meningite?). Questi sintomi non hanno niente
a che vedere con la nefrite, e per un uomo di trent’ anni senza malattie
cardiache (se ne avesse avute, in quattordici anni di manicomio si sarebbero rivelate), robusto come un torello e dedito assiduamente alle
puttane, la spiegazione più logica è la sifilide. La sifilide distrugge il sistema nervoso, e gli ammalati di sifilide, finché ci sono stati i manicomi, finivano spesso lì. Ma per avere avanzato questa elementarissima ipotesi, perfino ovvia, ho rischiato querele dai discendenti di Campana e ho
subito, e subisco tuttora, l’ anatema delle vergini vestali di Sibilla Aleramo e dei vergini vestali di Dino Campana: in pratica, per dirla con Dino,
di tutta la «Letteratura nazionale / Industria del cadavere / Si Salvi Chi
Può». Dino e Sibilla si amano follemente e si battono follemente, in vari
luoghi, fino al gennaio del 1917. Grande amore, e botte da orbi: che Sibilla riceve (i Cecchi, marito e moglie, la incontrano con un occhio nero,
e le consigliano di lasciare Campana), e però anche ricambia con molta
determinazione. Anstrid Anhfelt, la giornalista svedese che ospita per
qualche giorno i due invasati nella sua villa di Settignano nel dicembre
del 1916, scrive a Leonetta Cecchi Pieraccini un biglietto in cui la prega
di fare qualcosa per fare «tornare in sé» Sibilla. A leggere quel biglietto
(«Tutta la notte si sono battuti e graffiati»: dove è facile immaginare che
a battere sarà stato soprattutto Campana, e a graffiare sarà stata soprattutto Sibilla; «Si ammazzano senz’altro, se qualcuno non interviene»)
non sembra che Sibilla sia del tutto soccombente. Se lo fosse stata, la
Anhfelt avrebbe scritto: «la ammazza», e non «si ammazzano»... Fu-
ghe, inseguimenti, riconciliazioni, altre botte: finché, il 22 gennaio 1917,
per interessamento dell’ Aleramo, Campana viene visitato da un illustre
psichiatra, il professor Ernesto Tanzi. Cosa abbia detto Tanzi a Sibilla,
non si sa (ma la «paralisi vasomotoria» e le terribili emicranie di Dino
erano sintomi inequivocabili, che lui certamente riconobbe). Si sa invece
con assoluta certezza, che da quel momento Sibilla e Dino si dividono,
e che non si rivedranno più fino al 13 settembre. Lui va in Val di Susa, e
non le scrive quasi più. Lei probabilmente deve curarsi con il famoso
«preparato 606» (il Salvarsan), e le lettere di questo periodo, selezionatissime, registrano però qualche scatto rabbioso («Cane arrabbiato che
m’ hai morso, muoio, ma ti taglieranno la testa»), qualche perfidia femminile («Ci sono tante valli nelle Alpi. Tu non puoi immaginare in quale
mi trovo»), qualche espressione irritata per la «santità» a cui è costretta
(«Il proposito sarebbe di restarci almeno tre mesi, che uniti agli altri cinque già trascorsi in stato di santità farebbero un record - oh non per offrire a te!»). Il rifugio segreto di Sibilla è un villaggio quasi irraggiungibile
con i mezzi d’ allora, ai piedi del Monte Rosa. Lì Sibilla smette di scrivere, probabilmente anche per non far scoprire dove si trova, ed è invece
lui che la tempesta di lettere farneticanti e di cartoline, spedite all’ indirizzo di Milano. («Hotel Manin, Milano, far proseguire»). Ad agosto, nonostante le restrizioni della guerra (siamo nel 1917) e nonostante sia privo
di documenti per viaggiare, Dino va a Firenze e si insedia in casa di lei,
di cui forse ha conservato una chiave («Sono nella tua stanza. Dimmi se
devo viverci o morirci». Ed eccoci arrivati a settembre. Sibilla deve ritornare a Milano e a Firenze, ma teme di ritrovarsi tra i piedi quello spasimante che ormai le è diventato odioso, e decide di fargli uno scherzo. Il
giorno 9 settembre, alla vigilia del rientro in città, scrive due lettere. Una
a Cecchi, in cui dice: «Ho risposto poche righe a Campana, ancora di
distacco e di coraggio. Se vi raccontasse altro, invenzioni»; e un’ altra
(che naturalmente è scomparsa) a Campana, con le righe di distacco
e... l’ indirizzo dell’ albergo! Il resto è fin troppo noto. Dino riceve le righe
di distacco a Marradi il 10 settembre; il giorno dopo è a Novara, dove
viene arrestato alla stazione ferroviaria mentre si informa sugli orari delle corriere per la Valsesia e il Monte Rosa. L’ Aleramo, avvertita con un
telegramma, si rende conto di averla fatta un po’ grossa. Mobilita le sue
conoscenze milanesi, e poi corre a riconoscere Dino che è in prigione:
non «per il suo solito motivo (somiglianza con un tedesco)», come scriverà, mentendo, in un’ altra lettera a Cecchi; ma perché, sprovvisto di
documenti, non può viaggiare. Il giorno 13 settembre, da Novara, Dino
viene rispedito a Marradi con un «foglio di via», che dovrà far timbrare in
Comune al momento dell’ arrivo. Da allora non darà più fastidio. Conclusione. La grande e tormentata storia d’ amore tra due protagonisti della
letteratura italiana del Novecento è, in realtà, una storia di: a) amore; b)
botte; c) sifilide; d) carognate; e) melassa postuma della «vulgata» dell’
unica sopravvissuta, cioè dell’ Aleramo; f) libri e ristampe alla melassa.
Comunque vadano le cose, gli amori tra scrittori producono libri: ed è
questa consapevolezza, forse, ciò che più spaventa Dino nei momenti di
lucidità. («Le mie lettere», scrisse all’ Aleramo alla fine del 1916, «sono
fatte per essere bruciate»).
I PROTAGONISTI
I destini incrociati di un poeta vagabondo e di una scrittrice monda-
na
Dino Campana è nato a Marradi, in provincia di Firenze, nel 1885; ed
è morto a Castel Pulci, sempre in provincia di Firenze, nel 1932. Vive
una giovinezza travagliata, che lo porta a interrompere gli studi di chimica pura all’ Università di Bologna. Dopo un ricovero al manicomio di
Imola (1906), inizia una serie di vagabondaggi, in Svizzera e in Francia
(1907). Nel 1908 è in Argentina, dove lavora come bracciante; poi va a
Odessa, Anversa, Bruxelles, Parigi. Nel 1909 è di nuovo ricoverato, in
una clinica di Firenze. Riprende, due anni dopo, senza alcuna fortuna,
gli studi universitari. Nell’ autunno 1913 porta a Firenze, per consegnarlo
a Soffici e a Papini, il quadernetto dei suoi Canti Orfici; ma, nella primavera successiva, è costretto a riscriverli, perché Soffici ha perduto
il manoscritto; e li fa stampare privatamente da un tipografo di Marradi
(1914). Segue una nuova fase di viaggi (a Torino e, di qui, a Ginevra),
cui si alternano un altro soggiorno in clinica e una tumultuosa relazione
con Sibilla Aleramo (1916-17), che precede il ricovero definitivo di Campana nel manicomio di Castel Pulci (1918). Molti suoi scritti usciranno
postumi: Inediti (1942), Taccuino (1949), Canti Orfici e altri scritti (1952),
Lettere (1958), Taccuinetto faentino (1960) e Il più lungo giorno (1973).
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, è nata ad Alessandria nel
1876 ed è morta a Roma nel 1960. Esordisce nel 1906 con un romanzo
programmaticamente femminista, Una donna, dove già s’ intrecciano le
componenti principali della sua personalità: la forte sensibilità sociale e
la prorompente carica autobiografica e individualistica. Da questo conflitto nasceranno i romanzi successivi come Il passaggio (1919), Amo
dunque sono (1927) e Il frustino (1932) e le prose di Gioie d’ occasione
(1930), Orsa minore (1938) e Dal mio diario 1940-44 (1945). Da ricordare anche le raccolte di versi confluite in Selva d’ amore (1947, che le
valse il premio Viareggio) e le altre liriche di Aiutami a dire (1951) e Luci
della mia sera (1956). Alla vita di Dino Campana e al suo incontro con
Sibilla, Sebastiano Vassalli ha dedicato il romanzo-biografia La notte
della cometa, edito da Einaudi.
(Corriere della Sera, Agosto 2000)
Vassalli Sebastiano: Campana, la chimera del poeta ma- all’aria la biografia del Pariani e avrebbero dovuto sgombrare il campo
da molte leggende. Invece sono servite a costruire altre leggende, come
ledetto
Dal Corriere della Sera del 26 Novembre 2003
Ripubblicati i «Canti Orfici» del geniale autore segnato dalla pazzia.
Ma ancora una volta il suo ritratto umano non è attendibile
Una storia che continua a dare fastidio e resta sepolta sotto un cumulo
di leggende
La ristampa, a cura di Renato Martinoni, dei Canti Orfici di Campana
nei «tascabili» Einaudi, rappresenta un passo avanti per quanto riguarda la sistemazione dei contributi critici, nell’«Introduzione», nelle «Note
ai testi» e nelle puntuali «Appendici». È invece un’ occasione mancata,
se si voleva restituire Campana alla sua storia di uomo e di scrittore.
Quella storia, da quasi un secolo dà fastidio a tutti: ai familiari, ai concittadini, ai medici, alla società letteraria; e si è cercato di seppellirla sotto un cumulo di leggende, che fino al 1985 si appoggiavano all’autorità
dello psichiatra Carlo Pariani, autore di una biografia dal titolo perentorio: Vita non romanzata di Dino Campana scrittore. Carlo Pariani non
era, come molti credono, il medico curante di Campana. Era un tale che
andava a trovarlo in manicomio per una sua ricerca su genio e follia.
Dino gli confidava di essere elettrico («Mi chiamo Dino, come Dino mi
chiamo Edison... sono elettrico») e, tra un delirio e l’altro, gli raccontava
ogni genere di balle. Gli diceva di essere stato cinque anni in Argentina;
di essere andato a Odessa; di aver patito la prigione a Parma, a Bruxelles, a Basilea, eccetera. Il 1985 avrebbe dovuto essere un anno di
svolta per gli studi campaniani. In seguito alla pubblicazione (nel 1984)
del mio romanzo-verità La notte della cometa, dal municipio di Marradi
incominciarono a venir fuori carte e carte (prima non c’ era nulla) che
avrebbero dovuto smentirmi e che invece confermavano quasi tutto della mia ricostruzione «romanzata». Campana, ovunque andasse, si lasciava dietro una scia di fogli di via, verbali di polizia e cose del genere,
con date e timbri. Quelle date e quei timbri mandavano definitivamente
quella riferita da Martinoni a proposito del servizio militare del poeta:
«Dal gennaio ai primi di agosto del 1904, e qui torniamo alle notizie accertate, Campana è a Ravenna, dove presta servizio militare in qualità di
soldato». Notizie accertate un corno. Io non so su cosa Martinoni basi la
sua affermazione, ma so che le cose stanno diversamente e che riguardano un periodo importante, di un paio d’ anni, della vita di Campana.
Le principali questioni non ancora risolte nella biografia del poeta sono
appunto queste.
IL SERVIZIO MILITARE - Il Registro della leva e le altre carte dell’
Esercito, che non si trovano a Marradi ma all’ Archivio di Stato di Firenze, a proposito del servizio militare sono chiarissime: Campana è
«volontario» ed è «allievo ufficiale». Sembra una sciocchezza, ma le
scuole per ufficiali (non «sottoufficiali»: proprio «ufficiali») in Italia e in
quell’ epoca erano tre: quella di Cavalleria a Pinerolo, quella di Fanteria
a Modena e quella della Marina a Livorno. I corsi di Modena duravano
due anni e prevedevano quattro esami: caporale, sergente, sottotenente
e tenente. Campana (è scritto nei documenti) passa l’ esame di caporale
e non passa quello di sergente. Espulso dall’ Accademia, finisce il periodo di ferma da qualche altra parte. Dove?
LA SIFILIDE - Questo è il punto che suscita più malumori. Premesso
che la prova provata della sifilide di Campana non potrà mai esserci, così
come non potrà mai esserci per Nietzsche o per altri personaggi illustri
morti di quel male, alcune osservazioni si impongono. La prima è che i
comportamenti di Campana erano a rischio. Chi navigava nel mare delle
«troie dagli occhi ferrigni» e delle prostitute del porto di Genova, prima o
poi pescava quei pesci, cioè quelle malattie. La seconda osservazione è
che tutto il decorso della malattia di Campana, dalla paresi facciale del
1915, alla distruzione del sistema nervoso con conseguente follia, alla
morte in manicomio nel 1932 è quello, da manuale, di una sifilide nervosa: perché ostinarsi a negarlo? Cosa c’ è da difendere: la famiglia? La
categoria degli psichiatri? L’ albo professionale dei poeti? Anche il lungo
decorso della malattia non costituisce un’ obiezione valida. Campana
era giovane e forte (Soffici ne descrive le «gambe ercoline» e il «viso di
salute»); e la sifilide può durare anche venticinque anni.
che ogni estate si riunisce a Marradi per assegnarli. Hanno vinto loro.
Addio, Dino.
L’ AMORE PER SIBILLA ALERAMO - Nell’ Italia senza più uomini della Prima guerra mondiale, la poetessa Aleramo incontra un maschio giovane e forte, e lo fa suo. È l’ estate del 1916. Ma dopo poche settimane
di passione sfrenata si scopre che, se quel maschio non è al fronte, c’
è una ragione. Incominciano le scenate e le botte. Nel gennaio 1917,
Sibilla accompagna Dino dallo psichiatra Eugenio Tanzi, un luminare
per quell’ epoca; e la loro relazione finisce lì. Lei scappa, si nasconde, trascorre mesi e mesi «in stato di santità» («un record»), gli scrive
«cane arrabbiato che mi hai morso...». A quanto pare, deve curarsi. Lui
alterna periodi di lucidità ad altri di follia. Un giorno (nel settembre 1917)
riceve una lettera su carta intestata di un albergo in Valsesia; parte per
raggiungere la sua bella, ma lei non è più lì e lui viene arrestato come
disertore...
LA VITA Il manicomio e la passione Il poeta Dino Campana (18851932) ebbe una vita travagliata, costellata dai ricoveri in manicomio,
l’ultimo in quello di Castel Pulci dove morirà (qui gli fu scattata questa
foto nel 1928) Molti suoi scritti usciti postumi: Inediti (1942), Taccuino
(1949), Canti Orfici e altri scritti (1952), Lettere (1958), Taccuinetto faentino (1960) La ristampa di Canti Orfici e altre poesie, a cura di Renato
Martinoni (pagg. 236, euro 9,50), è stata appena pubblicata nei Tascabili
Einaudi.
L’ ELETTRICITÀ - In manicomio, per molti anni, Campana viene fritto con l’ elettricità. «Attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi
ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettrica. Credevo che mi
avessero rotto una vena nel cervello!». L’ uso e l’ abuso dell’ elettricità
con i matti è iniziato nella Prima guerra mondiale, in tutta Europa, per tenere gli uomini nelle trincee e non ha ancora finalità terapeutiche accertate. Negli anni Venti è un uso sperimentale e punitivo, che sostituisce
catene e botte. Gli apparecchi con cui si danno le scosse sono descritti
e riprodotti nella vecchia Enciclopedia Treccani: rocchetti a corrente alternata, pennelli faradici e simili. Qualcuno di quegli strumenti è ancora
visibile nei musei, là dove si sono volute conservare le attrezzature dei
vecchi istituti manicomiali; ma già alla fine degli anni Trenta non venivano più usati. Vorrei concludere questo articolo con una considerazione personale. Non credo che scriverò più su Dino Campana. Nel corso
degli anni, ho fatto tutto ciò che poteva essere fatto per restituire quell’
uomo alla sua verità. Non ci sono riuscito, e quest’ultima ristampa dei
Canti Orfici ne è la prova. Consegno la memoria di Dino ai film melensi,
alle biografie deliranti o troppo circospette, ai «chissà!» e alla strizzatine
d’ occhi, ai premi letterari a lui intitolati e alla compagnia di villeggianti
Annalisa Gimmi: Lasciate in pace la follia di Campana
da Il Giornale, domenica 23 ottobre 2005
Povero Dino Campana. Bistrattato in vita. E adesso, quando il postumo amore di generazioni di lettori potrebbero restituirgli serenità, ecco che scrittori e
critici si attaccano alle sue ossa per azzannare il boccone più grosso. L’uscita
del libro curato da Sebastiano Vassalli, Un po’ del mio sangue (Rizzoli, pagg.
298, euro 9) ha sollevato consensi e proteste anche pittoreschi. Vassalli, in veste
di Depositario della Verità, si scaglia contro tutti: dai genitori del poeta, «una
famiglia orribile» che lo avrebbe emarginato, considerato pazzo senza alcun
reale motivo e allontanato per la vergogna; ai concittadini, fautori del mito del
«mat Campana»; ai letterati che lo hanno deriso, rifiutato, e anche ai critici che
lo vogliono «usare» per creare un personaggio, seguendo non ben chiari disegni
di mistificazione. Vassalli sostiene a spada tratta che Campana, in realtà, non
era pazzo.
Lo è diventato a trent’anni, dopo aver contratto la sifilide. Prima di allora,
Dino era una persona - come definirla? - originale, inquieta, disperata. Ma non
pazzo. Da quando invece (tra il 1916 e il 1917) la malattia comincia a manifestarsi in modo sempre più conclamato, perde veramente la ragione. E non
scrive più. È chiara la tesi sostenuta da Vassalli: Campana non era pazzo mentre scriveva i Canti orfici. Non è di un pazzo quel libretto che rappresenta una
delle maggiori vette della poesia italiana. La malattia, di origine assolutamente
organica, è posteriore e coincide con il suo silenzio. Certo che non era pazzo,
Campana, mentre scriveva. Era solo se stesso. Ed è vero che quando la follia
si è completamente impadronita di lui anche la sua arte ha taciuto. Ma non
si possono negare i fatti. I ricoveri durante la gioventù, i numerosi arresti per
risse, i vagabondaggi inquieti. È vero, molto può essere attribuito alla fantasia
dei suoi compaesani (c’è sempre un «mat» nelle piccole comunità), ma ci sono
anche le opinioni dei medici. Non sempre concordi. Ma, per Vassalli, quelli
che gli hanno diagnosticato disturbi mentali sono tutti in malafede, buoni solo
gli altri. E poi, la sifilide. (Sfortuna rara - sia detto per inciso - per uno creduto
pazzo, impazzire davvero a causa di un male organico, che niente ha in comune
con l’inquieto passato.) Non esiste alcun documento a comprovare questa patologia, ma effettivamente niente vieta di attribuirla a Campana: né i sintomi,
che sembrano rispondere alle manifestazioni di questo male, né la possibilità di
averla contratta durante quegli incontri con prostitute che Dino stesso racconta,
sublimandoli, in alcune splendide pagine della sua opera. In verità, la «follia»
di Campana, reale o indotta dall’ambiente, sembra innegabile fin dalla gioventù. Fu causa di fughe, liti, disordinate e disperate ribellioni. Poi la situazione è
precipitata (forse per la sifilide, ma che importanza ha?) e la sua mente si è ottenebrata. Oggi ogni tentativo di ricostruire con certezza le vicende dello straordinario poeta sembra impuntarsi su liti in fondo a lui estranee. Vassalli (e dopo
di lui Cristina Taglietti sul Corriere della Sera del 15 settembre scorso) attacca
chi lo ha preceduto nell’impresa, in particolare lo scrittore argentino Gabriel
Cacho Millet, autore - in realtà - di edizioni molto curate di inediti e soprattutto
di lettere del poeta. A questi attacchi ha risposto in modo scomposto e furibondo
Paolo Pianigiani sul sito web Transfinito, il 27 settembre. Quante grida inutili
e avvilenti. L’opera di Campana parla da sé. È grande poesia. Non sembra essenziale definire se scritta da una mente «sana» (e poi - antica questione - come
definire la «sanità»?) o per intervalla insaniae (non sarebbe il primo... ). È lì, da
leggere e da amare. Smettiamo di tormentarlo. In fondo Dino ai nostri occhi è
(per usare parole dello stesso Vassalli) solo un poeta.
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