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GRABIAN
DI
FERDINANDO TOL JARI
1
Nota dell’autore.
Caro lettore, dire che il romanzo offerto è completamente gratuito non è del tutto esatto. Infatti,
benché il racconto sia un dono di libero accesso offerto a tutti coloro che ne vorranno usufruire, ciò che
si chiede in cambio è una piccola percentuale di pazienza.
Se è vero, come presumo, che ad ognuno di noi sia capitato almeno una volta di acquistare un libro
solo perché ben presentato o troppo pubblicizzato, per poi accorgersi che lo stesso non era di suo
gradimento non riuscendo ad andare oltre le prime pagine, ritengo che se tu, amico lettore, avrai un po’
di pazienza e riuscirai ad andare oltre ciò che può sembrare in principio confuso, troverai in fine che
c’è un senso a questo apparente caos.
Forse, troverai anche possibile porre riflessioni che non hai mai considerato, e magari resterai
soddisfatto di aver concesso questo breve periodo di pazienza…
Solo dopo, e solo se riterrai che il racconto ti abbia comunicato qualcosa e che sia valsa la pena di
leggerlo fino in fondo, potrai, se lo desideri, dare un libero contributo in cambio…
Qualunque sia la tua scelta e il tuo giudizio, comunque, io ti ringrazio di essere passato di qui
concedendomi uno spazio del tuo tempo…
In qualunque modo, io ti auguro, “buon viaggio”… ciao, Ferdinando.
2
GRABIAN
“il grande bianco”
3
“GRABIAN – IL GRANDE BIANCO”
Di Ferdinando Tol jari
Benché alcuni luoghi citati nel racconto siano geograficamente esistenti e molti degli eventi storici cui
si fa riferimento realmente avvenuti, questa rimane un’opera di fantasia. Personaggi, luoghi e
avvenimenti specifici sono immaginari. Fatta eccezione per i contesti geografici o storici in cui parti del
racconto vengono inseriti, qualsiasi rassomiglianza o riferimento con persone, cose, fatti o località
esistenti o esistiti, è puramente casuale.
I° Pubblicazione.
Finito di scrivere Settembre 2011.
© Copyright, Ferdinando Toaiari.
Tutti i diritti riservati. Ogni riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, deve essere
preventivamente autorizzata dall’autore.
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Dedica.
Inizialmente per questo racconto non erano previste dediche particolari, ma nel proseguo dello
svolgimento si è manifestata con sempre più intensità la necessità di riconoscere e rendere quindi
omaggio alla fonte di ispirazione da cui ha preso spunto l’intero racconto. Non racconterò attraverso
quali sorgenti di rivelazione mi sia poi giunta l’esigenza di onorare questa fonte ispiratrice, limitandomi
a dire che si tratta di un elemento che ha contribuito in modo particolare a formare la mia creatività.
Per tali ragioni ho ritenuto che fosse corretto citare questa fonte e renderle quindi il tributo meritato
inserendola come un soggetto praticamente protagonista del racconto stesso, unico elemento reale al
quale mi sento in dovere di porre un ringraziamento caratteristico.
È d’obbligo quindi fare ora una lieve rettifica alla nota riguardante le allusioni ai luoghi e personaggi
di fantasia che compongono questo racconto, rivelando che non tutto è irreale. Esiste, infatti, un fiume
denominato “Tregnon”, sulle rive del quale era mia abitudine passeggiare. Non è semplice spiegare in
quale modo poi giungano le ispirazioni da cui prende spunto un racconto o un qualsiasi altro principio
di creatività artistica, ma la fonte primaria attorno a cui poi tutto ha preso a girare in questo racconto è
giunta proprio da quel fiume che tanto ha significato per me negli anni di esplorazione in un età ormai
lontana.
Ecco perchè desidero rendere omaggio a questo fiume, dedicando a lui il racconto.
Al fiume Tregnon, che con i suoi molteplici aspetti ha contribuito alla mia formazione creativa…
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“Ieri ho sognato un giardino. Nel sogno con me c’era un uomo.
Lui mi girava le spalle, solo perché non vedessi il suo viso…”
Ivan Graziani, “Fuoco sulla collina”
“Perché a volte è così difficile spiegare il comportamento di
certe persone? Perché non si tiene conto abbastanza del fatto che
un essere umano è la somma di tutte le creature che egli porta in
sé, ignorando il più delle volte chi siano quelle creature e cosa
vogliano realizzare attraverso lui."
Omraam Mikhaël Aïvanhov
"L’essere umano è disceso dalle regioni celesti attraverso un
processo chiamato “involuzione”. Via via che procedeva in questa
discesa nella materia e si allontanava invece dal Fuoco
primordiale, si è caricato di corpi sempre più densi, sino al
corpo fisico; esattamente come quando in inverno, dovendo
affrontare il freddo, siamo costretti a indossare vestiti sempre
più pesanti, partendo dalla maglia e dalla camicia, sino al
cappotto!
Per riprendere ora il cammino verso l’alto, l’essere umano si
deve svestire, simbolicamente parlando, spogliarsi di
tutto ciò che lo appesantisce: invece di cercare di accumulare,
deve imparare a rinunciare, ad alleggerirsi, a liberarsi. È
l’accumulo che favorisce la discesa. Ogni pensiero, sentimento o
desiderio ispirato dall’istinto di possesso viene a incollarsi ai
suoi corpi sottili come fa la brina sui rami degli alberi in
inverno. Occorre che il sole della primavera ricominci a brillare
perché la brina si sciolga e l’uomo ritrovi il suo vero essere."
Omraam Mikhaël Aïvanhov
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Prologo
Non è mai stata mia abitudine alzarmi presto la mattina, fatta eccezione per quando mi capita di avere
degli incarichi. Nel mio lavoro ci si può permettere lunghi periodi di riposo perché ogni incarico
equivale ad un compenso prestigioso. Certo non è un lavoro che chiunque può fare e in alcuni casi lo si
potrebbe definire anche pericoloso. Io comunque ho imparato a selezionare, comprendendo con
l’esperienza che in questi tempi certi rischi possono essere evitati.
Per tale ragione e soprattutto perché ho indirizzato la mia attività verso casi di tipo extraconiugale,
tradimenti, infedeltà e altre similari imprese, posso dire di essere uno che non rischia molto e guadagna
bene, visto che chi richiede i miei servigi, spesso, fa parte di una categoria di persone facoltose.
Eppure, non è da tutti poter guadagnare addirittura senza neppure dover esercitare, ma quando questo
avviene, riesce difficile sottrarsi alla tentazione del facile profitto, mancando di valutare che in questo
mondo nulla viene elargito senza dover dare qualcosa in cambio.
Ciò nonostante, tale condizione non sembrava sussistere quando quella mattina, pur essendo privo
d’incarichi, mi svegliai di buon’ora… ovviamente, non per mio volere.
Avevo sentito suonare il campanello, ovvero, avevo sentito un ronzio fastidioso dal sapore elettrico
penetrare la mia mente senza sogni, tanto era profondo il mio sonno, e ritardai ad alzarmi perché lo
svegliarmi d’improvviso causava in me notevoli difficoltà a destarmi senza qualche minuto di
stordimento. Anzi, senza nemmeno degnarmi di imprecare, mi ero voltato dall’altra parte e chiudendo
gli occhi avevo rischiato di addormentarmi di nuovo, se il fastidioso ronzio elettrico non si fosse fatto
più insistente.
Aprendo a fatica gli occhi, osservai la sveglia. Suppongo che per qualunque persona comune le nove
non siano considerate un orario troppo mattiniero, ma io non mi consideravo in quella fascia di persone
ordinarie abituate ad alzarsi presto anche quando non lavorano e questa volta il privilegio di
un’imprecazione non me lo negai. Ad ogni modo ero ormai sveglio, seppure non abbastanza da
permettermi movimenti rapidi e scattanti, anzi, se vi fosse stato qualche involontario osservatore a
scrutarmi, quelli che mi avrebbe visto fare sarebbero sicuramente parsi più movimenti da bradipo che
da essere umano, e in tale mala voglia mi apprestai a scendere fino alla porta.
Ma fui probabilmente veramente lento, così, quando aprii non trovai nessuno ad attendermi ma solo
un pacco lasciato sui gradini e una busta che un presunto fattorino con altre consegne da fare, e
sicuramente più impegnato di me, doveva aver lasciato per proseguire il suo giro. Non vi era mittente
ma solo l’indirizzo del destinatario, vale a dire il mio.
Lo presi e, dopo una veloce analisi senza convinzione, tornai in casa posandolo distrattamente sul
tavolo, quindi accesi la radio per ascoltare le notizie del giorno e successivamente uscii per andare a
fare colazione in un bar vicino a casa. Fu quindi solo dopo un paio d’ore quando, rientrato, mi dedicai
al plico che se non fosse rimasto in vista sul tavolo forse avrei perfino dimenticato. Pensai che doveva
trattarsi di una proposta di lavoro, indagine nel mio caso e, siccome trattavo la mia attività con una
certa vanità, non mi entusiasmai più di tanto nel doverlo esaminare. Ancor prima di aprirlo considerai
che dentro doveva esservi una relazione eseguita dal committente e ponderai con noia se fosse il caso
di visionarla. Non perché non fossi interessato ad un eventuale ingaggio, ma piuttosto perché il pacco,
imballato con della semplice carta grigia di seconda mano, era piuttosto consistente e voluminoso.
Sovente avveniva che qualcuno fornisse relazioni scritte dei suoi sospetti, ma non mi era mai capitato
di trovarmi di fronte ad una così spessa documentazione. Certo, pensai, le condizioni potevano essere
due: o si trattava di un paranoico, o di qualcuno veramente ricco. Ad ogni modo, ad alleviare la mia
preoccupazione, vi era una semplice busta che probabilmente introduceva il lavoro, e così decisi di
dedicarmi alla lettera stabilendo dalla più semplice presentazione, se era il caso di approfondire o no.
La busta era chiusa con un esibizionistico sigillo in ceralacca scarlatta che faceva pensare alle lettere
nobiliari dell’epoca del romanticismo che però, in uno come me, suscitò solo una scontrosa ironia,
sicuramente in contrasto con la probabile intenzione teatrale che l’oscuro committente doveva aver
supposto di produrre.
Presi la lettera tra le mani e, facendo pressione con i pollici, spezzai il sigillo. La ceralacca s’infranse
con facilità senza opporre alcuna resistenza, ma qualcosa, forse il lieve rumore simile alla plastica dei
vassoi dei cioccolatini, o i fragili frammenti di briciole rosse che caddero sulla superficie del tavolo, o
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quell’odore che fino ad ora avevo sentito solo attraverso la cera delle candele, mi provocarono una
sorta d’emozione che per un istante mi condusse a dubitare sulla mia carenza di romanticismo.
Ricomposi la mia dignità e ignorando con decisione l’inopportuna debolezza sentimentale tirai fuori
un foglio di carta piegato in tre lati come se lo stesso formasse una seconda busta.
Lo guardai con una certa diffidenza prima di aprirlo, scoprendo, quando lo distesi, che vi era sempre
meno romanticismo in ciò che stava avvenendo, ma decisamente, dal mio punto di vista,
considerevolmente più apprezzabile. Senza nessuna costrizione, infatti, dal foglio piegato a busta
scivolarono fuori due banconote da cinquecento euro. Le guardai stupito, meditando su più possibili
varianti d’inganno, quindi mi occupai del foglio sul quale non vi era nessuna introduzione, ma
semplicemente un invito che diceva: “Questo solo per leggere la prima pagina della documentazione
che segue. Se deciderà di leggere il resto, riceverà la stessa cifra per ogni pagina della medesima. Se
deciderà di lasciar perdere, rimetta il pacco sulla soglia di casa sua prima di domani mattina. Se ciò non
avverrà, riceverà sul suo conto bancario un bonifico relativo all’importo pattuito”.
Rimasi esterrefatto a fissare l’inusuale ingaggio, anche se, a dire il vero, non vi era nessuna richiesta
d’indagine e nessuna proposta di lavoro, se non quella di perdere qualche giorno per leggere…
Guardai il calendario per assicurarmi che non fosse il primo di Aprile ma poi, ben consapevole che
non era il giorno degli scherzi per eccellenza, per assicurarmi di ricordare bene il girono in cui, per non
fare niente, avrei guadagnato così tanto.
Era il primo giorno d’estate del 2025, ed era di Sabato.
Per un attimo mi soffermai su una sensazione che tal volta mi coglieva con uno strano senso di
smarrimento, come se mi capitasse di credere che quello in cui vivevo non fosse il mio tempo. Era
qualcosa che avveniva soprattutto quando affrontavo il tipico brusco risveglio che avevo subito quella
mattina, ma era anche un pensiero che spesso attribuivo alla mia condizione propria di vita e, per una
strana coincidenza, per la prima volta intuii come tali sensazioni mi sorprendessero sempre con il
preavviso di un odore immaginario che si manifestava nella mia mente, un’essenza particolare che solo
in quel momento tuttavia riuscivo a definire.
Si trattava di un profumo rimasto impresso nella memoria dall’infanzia che, seppure piacevole, era
originato da una sorta di trauma che mi riconduceva al ricordo di quando da bambino, cresciuto ed
educato in una famiglia rigidamente cattolica, venivo praticamente costretto a partecipare alla santa
messa domenicale. Obbligo che detestavo e dove l’unica cosa che apprezzavo nell’angusta chiesa, era
per l’appunto, il profumo della cera sciolta delle candele davanti agli altari.
Ero nato nel 1971, in un periodo di cambiamenti in cui i tempi mutavano rapidamente senza quasi
dare spazio a chi li viveva di rendersi conto di un passaggio troppo repentino tra l’antico e il moderno,
e io spesso mi ero sentito come in una specie di limbo in cui non riuscivo né a mantenere il contatto
con le tradizioni, né ad adattarmi al mondo tecnologico che si evolveva troppo rapidamente.
Sorrisi, come per esorcizzare i ricordi e tornai quindi ad occuparmi dell’insolita offerta. I mille euro
già consegnati erano solo per leggere un foglio, il primo, il che significava dover aprire il pacco e
conseguentemente scoprire di che tipo di compenso si trattava. Strappai così la carta ordinaria che
legava il plico, considerando comunque l’ipotesi di uno scherzo osservando la voluminosità del
documento, vedendo subito senza sorpresa che le pagine erano numerate e stampate con caratteri
ordinari che non avrebbero reso troppo impegnativa la lettura richiesta e istintivamente, ma
professionalmente senza leggere nessuna riga non compresa nell’accordo, controllai il numero di
pagine che lo componevano: 321. Feci un rapido calcolo, più per incredulità che per necessità.
Semplicemente per leggere, qualcuno mi offriva trecentoventunomila euro. Più di quanto potessi
guadagnare in cinque anni di lavoro e abbastanza, considerati i risparmi degli anni precedenti, per
ritirarmi. Mi convinsi ancora di più che doveva trattarsi di uno scherzo perché nessuno sano di mente
poteva pensare di spendere una cifra simile solo per far leggere una relazione. Comunque, non mancai
di considerare che avrei potuto facilmente verificare se si trattava di un inganno, in quanto se il giorno
dopo avessi trattenuto il plico, com’era scritto nella lettera, tale somma sarebbe stata depositata sul mio
conto corrente.
Non considerai nell’immediato chi potesse essere il misterioso cliente, valutando superficialmente che
doveva trattarsi di qualcuno per cui già avevo lavorato. Erano molti i clienti che, per anonimia
chiedevano di saldare i loro conti attraverso un bonifico bancario presso una banca svizzera che
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assicurava a me e a loro l’anonimato fiscale. Io dovevo solo provvedere a fornire le coordinate
bancarie, ma in questo caso non vi era alcun indirizzo o telefono a cui comunicarle, per questo dedussi
che si trattasse di un cliente che già in passato doveva essere rimasto soddisfatto dei miei servigi e di
chi fosse quindi, non me ne preoccupai più del dovuto. L’unica cosa su cui ritenevo di dovermi
concentrare, era che quei soldi erano solo per leggere, e se poi si fosse verificata l’esigenza di
un’indagine e avessi ritenuto la cosa troppo rischiosa, non ero vincolato da alcun contratto.
Cominciai pertanto, a leggere quel foglio che sicuramente mi avrebbe dato ulteriori istruzioni e
possibilità di comprendere. Lo estrassi e lo osservai. Era scritto in caratteri piuttosto piccoli, differenti
dal resto dei successivi fogli, ma la cosa non mi sorprese, giacché lì, dovevano essere descritte le
modalità del contratto che avrebbe svelato ogni mistero. Tuttavia già l’inizio avrebbe dovuto condurmi
a dubitare che in quella pagina avrei trovato istruzioni amministrative, dal momento che già le poche
righe iniziali davano più il senso di un’introduzione narrativa piuttosto che un contratto d’ingaggio, che
avrebbe forse dovuto farmi riflettere maggiormente su quanto, in un futuro non molto lontano, mi sarei
trovato ad analizzare con più considerazione. La relazione, infatti, iniziava con una semplice parola
scritta in grassetto al centro del foglio, come fosse un titolo, che citava banalmente:
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Avvertimento
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“…Mi sento in dovere di avvisare, chiunque volesse ascoltare il mio racconto, di non sottovalutare la
potenza dell’immaginazione, della fantasia o dell’illusione. Per questo è mio dovere consigliare di non
essere avventati o superficiali e, nel caso doveste percepire dubbi, tormenti o insidie dopo aver inteso
questo suggerimento, invitarvi a riflettere bene prima di proseguire. Mi sembra corretto dare questo
avvertimento perché io stesso non so, di quanto mi accingo a raccontare, si possa considerare come
realtà dei fatti descritti. Non lo so, perché di ciò che sto per esporre non sono certo di avere la totale
cognizione. Ma è bene evidenziarlo fin dal principio perché la follia non è una cosa così scontata come
può sembrare.
Se per follia, infatti, s’intende una sorta d’anomalia che rende le persone diverse, qualsiasi cosa si
consideri per diversità, io credo di non poter essere giudicato in questo modo, o per lo meno, non nella
realtà e nella maniera in cui ho vissuto questi avvenimenti. L’inconveniente però sta proprio in questo,
e in quanto tali avventi mi costringono a mettere in dubbio l’incolumità della mia mente.
Una leggenda Peul dice che vi sono tre tipi di follia: la follia di chi possedeva tutto e ha poi
improvvisamente perso tutto, quella di colui che non aveva nulla e che ha acquisito tutto
inaspettatamente ed infine, il malato mentale. Se la mia è follia, allora, è in una di queste tre
condizioni che la si può considerare, ma decidere se e quale possa essere, certamente, non sarò io a
poterlo determinare. Forse, potrebbe stare addirittura in tutte e tre. Ciò nonostante, penso che vi sia
un altro tipo di follia che tuttavia non sono in grado di descrivere e di cui posso dirvi solamente che è
proprio da questa che vi voglio mettere in guardia.
Il fatto è che molto spesso, in età infantile, mi capitava di chiedermi se tutto non fosse altro che un
sogno e la realtà che stiamo vivendo il prodotto dell’immaginazione di un corpo apparente che
sognava di esistere in una realtà prodotta dalla mente, allo scopo di cercare un’esistenza per la quale
accettare di vivere, come se, per essere più precisi, avessimo la possibilità di vedere in anticipo la vita
che ci attendeva e decidere quindi successivamente se viverla o no. Era un pensiero frequente perché
mi capitava spesso di svegliarmi nel cuore della notte ansimando in preda ad un attacco d’ansia,
ravvisando così d’essere stato vittima di un incubo e forse, nel timore che la paura degli incubi potesse
non cessare mai, questi pensieri che mi concedevano una consapevolezza ingenua per la quale avrei
potuto scegliere di non vivere una vita piena d’incubi mi aiutavano a superare la paura che essi mi
lasciavano nella memoria.
Comunque ci fu un periodo in cui, per il troppo ipotizzare questa possibilità, rischiai veramente di
confondere la realtà con l’immaginazione e per molto tempo, nell’età infantile, ebbi il dubbio di non
essere io stesso reale. Ricordo in particolare che un giorno, forse a causa proprio di questo mio stress
da irrealtà, mentre me ne stavo solo nella mia stanza, ad un certo punto provai un senso di mancanza,
come se le forze e le energie del mio corpo, per un piccolo breve istante, mi avessero abbandonato.
Rammento che intorno a me tutto diventò di uno strano color giallo ocra, ogni cosa svanì, il suono si
fece silenzio e tutto ciò che rimase fu quel vuoto giallo ocra. Fu tutto molto intenso e allo stesso tempo
rapido perché, quando ripresi il controllo dei colori, ero sul punto di cadere. Ricordo che il mio corpo
era proteso in avanti nella completa incoscienza di come avesse potuto trovarsi in quella posizione e
pensai che ero stato sull’orlo di uno svenimento. Ma non avevo fatto in tempo a cadere al suolo,
perchè l’istinto, rianimatosi improvvisamente, mi aveva permesso di proteggermi dalla caduta
protendendo le mani in avanti. Non provai paura ma un senso di strana meraviglia.
Non ho mai raccontato a nessuno questo fatto, ma da allora cominciai a rendermi conto di quanto
fosse stupido il mio pensiero. Fu da quel giorno che gli incubi cominciarono a farsi meno frequenti,
seppure più nitidi. Le immagini, infatti, restavano più focalizzate nella memoria, al punto che
attraverso quei frammenti potevo iniziare a costruire una trama, giacché avevo l’opportunità, con la
resistenza del ricordo, di scoprire che l’incubo era ricorrente, ossia, sempre lo stesso. Il luogo in cui
mi trovavo era una grotta e l’oscurità era lievemente rischiarata da un non definito quantitativo di
candele. Ma proprio quando avevo cominciato a distinguere una trama, gli incubi cessarono…
Interruppi la lettura per qualche secondo e, non so con quanto sarcasmo pensai che era ironica
l’allusione alle candele cui lo sconosciuto scrittore accennava, facendomi pensare ad una coincidenza
dal tempismo quasi irriverente e mi domandai, conseguentemente, se questa persona non mi conoscesse
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così bene da aver osato prendermi come spunto per un racconto. Ciò avrebbe spiegato molte cose, per
prima, la necessità di avere il mio consenso a pubblicare un’opera della quale sarei stato ispiratore.
Certo io non ricordavo di aver mai avuto incubi, anzi, per tutta la vita non ricordavo proprio di aver mai
sognato. Ma quello spunto sulle candele che mi collegavano ad un ricordo che poteva comunque
divenire un buon pretesto per quanto scriveva questo folle, forse a qualcuno lo avevo raccontato. L’idea
di poter essere il protagonista di un racconto tuttavia mi fece sorridere e in un certo senso mi provocò
una sorta di orgoglio al limite dell’alterigia e la cosa, invece che infastidirmi, cominciò a piacermi.
Così continuai a leggere con una certa leggerezza.
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Avvertimento
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“…Io avrei tranquillamente presupposto che, con il cominciare a ricordare e il conseguente
diminuire dell’ansia, da cui mi ero lasciato prendere nei tempi passati, probabilmente avevo iniziato a
dominare circostanze della realtà grazie alle quali la psicanalisi avrebbe potuto dare una
giustificazione degli incubi. Ed effettivamente fu questo che dedussi e accettai come soluzione. Non
pensai nemmeno lontanamente che il cessare dei sogni, perché ormai sogni e non più incubi li
consideravo, aveva avuto esito in sincronia con altri eventi che stavano accadendo nella mia realtà,
anche se probabilmente, se lo avessi fatto, con l’aiuto della psicanalisi, a questi stessi eventi avrei
potuto attribuire l’origine dei sogni.
Solo che adesso non posso più esserne certo e dal momento che molte delle cose che descriverò
appaiono legate ad un tempo di cui quasi potrei non avere cognizione, sempre più spesso mi ritrovo a
considerare se la mia sottrazione al tormento notturno sia dovuta alla cessazione degli incubi o se,
quasi con più convinzione, al vivere gli incubi stessi come fossero la realtà dominante.
In pratica, ciò che con difficoltà sto cercando di definire, è se gli incubi siano cessati e la mia realtà
sia effettiva o se, al contrario, ad un certo punto gli incubi abbiano preso una consistenza tale da
rendermi realtà ciò da cui, in un tentativo di risoluzione e comprensione, ho deciso di vivere per
potermene davvero liberare definitivamente.
È strano come possa ora, a distanza di tanti anni, capire che in verità quel pensiero iniziale non sia
mai del tutto svanito, ma se da bambino immaginavo l’eventualità di essere un sogno, da adulto quel
ritorno d’immaginazione aveva preso un'altra forma. Nella mia infanzia e durante l’adolescenza avevo
vissuto momenti straordinari a livello immaginativo, ma da adulti vivere tra i sogni può verificarsi
devastante. Era per questo motivo che avevo totalmente rimosso tali astrazioni e fu probabilmente per
lo stesso motivo che, quando esse si riaffacciarono alla mia mente, la considerazione che ne avevo era
diversa.
Non è certo possibile vivere una fantasia prospettica per poi decidere di realizzarla o no, ma durante
quegli anni in cui ancora ero in bilico tra la realtà e la fantasia, mi capitava di sentire storie, vedere
film o leggere libri in cui si parlava di spiriti che vivevano una vita totalmente regolare solo perchè
non si rendevano conto di essere morti. Ed era in questo senso che avevo cominciato ad indirizzare i
miei pensieri: “E se fossimo tutti morti e non ce ne rendessimo conto? Se fosse accaduto un evento
catastrofico, come per esempio un terremoto, e tutti noi che facevamo parte di questa realtà fossimo
morti così rapidamente da non potercene rendere conto e, intrappolati in una non realtà limbica,
avessimo proseguito la nostra vita come se nulla fosse avvenuto?”
A salvarmi da questa irrazionale insidia mi era venuta in soccorso la ragione. Intorno a me la vita si
svolgeva nella più consueta normalità, tutti erano reali e tutti erano vivi, perché se così non fosse stato,
nessuno avrebbe potuto morire. Invece ogni tanto accadeva che qualcuno moriva… e non si può
morire due volte, non nella stessa vita. Fu così che uscii definitivamente dai miei incubi, dai miei
tormenti e dalle mie allucinate congetture.
Eppure è proprio nel suo proseguire regolare che la vita può stupirti, confonderti e sorprenderti con
l’imprevedibilità del caos che, con il tocco di una bacchetta fatata, può insinuare nell’animo il
tormento e il dubbio perfino attraverso il ricordo, dimenticato o volutamente trascurato, di un
ragazzino. Così, proprio quando meno te lo aspetti, gli eventi prendono un nuovo corso,
riconsegnandoti a quei dubbi che proprio per la certezza e la consapevolezza che non possono esservi
dubbi, diventano quasi una speranza. Conseguentemente, immergersi nell’illusione diviene una via di
fuga, come quando si fantastica sull’essere il vincitore della lotteria, immaginando il cambiamento
della propria vita attraverso utopie che i più possono permettersi solo nella propria immaginazione e,
mentre ciò avviene, si può notare la serenità e la felicità del volto sognante un attimo prima del
risveglio nella realtà deprimente…
Per questo non è consigliabile fantasticare troppo, perché si rischia di confondere la realtà con la
fantasia e, quando ciò avviene, il risveglio può andare oltre la devastazione mentale. Io avevo superato
quel tempo perché allora avevo capito quanto fosse illusorio e irreale, ma quando il tempo tornò da
me, il desiderio dell’illusione divenne quasi una necessità al punto che, in tale bisogno, ripresi a
considerare la possibilità di vivere una realtà alternativa dove certi eventi, divennero per me ragione
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di confusione, al punto che, come quando ero bambino, ad un certo momento, non potevo più
convincermi d’essere reale e, forse, raccontare può aiutarmi a risolvere questo dubbio, sebbene la
verità potrebbe rivelarsi talmente atroce, da farmi riflettere se effettivamente ne valga la pena.
Tuttavia, la soluzione rimane una soltanto e, da quanto riuscirò a scoprire, potrò effettivamente
dedurre se la follia possa avere una distinzione diversa da quanto una realtà comune può farci
intendere per follia… a questo punto il mio raccontare potrebbe avere un senso, l’unica cosa che resta
da definire è se raccontare per chi vive nel sogno, o nella realtà…”
Rimasi come allucinato con il foglio stretto tra le dita e una domanda quasi ironica nella mente: “Ma
che follia è questa?”
Osservai con rapidità la pagina senza vergognarmi ad ammettere che non ci avevo capito niente e,
accantonando la possibilità di essere stato un’ispirazione per lo scrittore, sostituii la persuasione di
poter essere il protagonista di uno stupido romanzo con l’idea che dovevo avere a che fare con un folle.
Doveva trattarsi di un disperato che forse aveva studiato filosofia e, nel cercare di calarsi nella parte di
un nuovo luminare, doveva essere ammattito. Forse era stato in psicanalisi e l’analista, probabilmente
più squilibrato di lui, doveva avergli consigliato di scrivere le sue memorie o le sue demenziali idee e
successivamente, non trovando nessuno disposto a leggerle, era giunto all’ulteriore disperazione che lo
aveva condotto a pagare per trovare qualche ammiratore. Sorrisi divertito perché se, così era, la sua
pazzia doveva essere devastante. Oppure era devastante ciò che scriveva se era disposto a pagare così
tanto. Ciò nonostante, dopo un po’ il senso d’ironia si affievolì. Non poteva trattarsi di un’assurdità
come quella che avevo formulato. Se uno aveva così tanti soldi da spendere, un libro poteva permettersi
di produrselo. Doveva esserci qualcosa sotto, ma in quel primo foglio, che mi era stato chiesto di
leggere dietro compenso, non vi era nessuna richiesta di indagine né offerta di lavoro e tanto meno
indizi da cui cominciare a svolgere una possibile analisi. Si trattava semplicemente di una banalissima
pagina di quello che appariva l’inizio di un romanzo di cattiva qualità o di un diario di memorie
cervellotiche e io non ero un amante della letteratura, di qualunque genere fosse stata. Rapidamente
elaborai una possibile lista di chi poteva prendersi gioco di me. Non avevo tanti amici, ma grazie al mio
lavoro conoscevo molte persone e avevo parecchi contatti tra collaboratori, commissionanti e indagati,
e tra una di queste categorie doveva esserci sicuramente qualcuno che aveva deciso di farmi uno
scherzo idiota, per vendetta o per divertimento. Se era così mi sarei divertito ad assecondarlo vedendo
fino a che punto sarebbe stato disposto ad arrivare. Non valutai quindi più di tanto l’ipotesi che dietro
l’assurdità potesse esserci veramente un compenso, ma più semplicemente l’ironia di qualche burlone
che presto avrei scoperto e, senza darmi più di tanto fastidio, mi recai in palestra come avevo
programmato per quel giorno.
Non ero uno che cercava sistemazioni, né avevo mai pensato di avere storie impegnative, ma mi
piacevano le belle donne e in una palestra si facevano sempre buone conoscenze sotto questo punto di
vista, ed era più per tale motivo che ci andavo piuttosto che per fare attività fisica. Del resto ero un
avventuriero e, come tutti gli esseri umani, pure io avevo delle debolezze e dei bisogni da soddisfare.
Non consideravo la possibilità di essere coinvolto in storie di tipo vincolante, anzi, le evitavo proprio,
così stavo molto attento nel non rendermi particolarmente interessante. Malgrado tutto però, e in un
modo che non avevo compreso come fosse avvenuto, ad un certo punto mi trovai a conversare sulla
realtà e l’irrealtà dell’essere con la ragazza verso la quale avevo rivolto il mio interesse da qualche
giorno.
Si chiamava Felona, nome alquanto stravagante e insolito, ma per il quale io non mostrai alcuna
curiosità, del resto era tutt’altro ad attrarmi della giovane preda.
La ragazza frequentava da poco la palestra, forse meno di un mese, ma non aveva impiegato che pochi
giorni ad attirare la mia attenzione. Era alta poco meno di me, che con il mio metro e ottanta mi
definivo un semi gigante, portava capelli lunghi sempre sciolti, lisci e neri come le ali dei corvi,
contrastanti con il glaciale azzurro degli occhi contornati da lunghe sopraciglia. Aveva un viso dai
lineamenti delicati e indossava sempre completi attillati che evidenziavano le sodi parti anatomiche che
più di tutto attiravano la mia attenzione. Aveva ventisette anni, il che significava che entro pochi mesi
avrebbe avuto esattamente la metà della mia età. Ma questo non rappresentava un problema. Sotto
l’aspetto fisico, dicevano, mostravo almeno dieci anni in meno di quanti ne avevo, mentre sotto
l’aspetto morale, comunque fossero andate le cose, sapevo che, come ogni altra storia precedente, una
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volta avuto a che fare col mio lavoro, la relazione si sarebbe dissolta da sola e, se così non fosse stato,
avrei trovato un modo per forzarne la dissoluzione. Perciò di lei non mi interessava conoscere altri
aspetti che andassero oltre la fisicità, non era mia intenzione creare le condizioni per generare un
legame di tipo affettivo complicato, quindi raramente chiedevo perfino che cosa facessero nella vita le
mie prede e, non essendo abituato a inoltrarmi in anomale stravaganze, quel nome insolito passò in
modo quasi voluto nella più completa indifferenza della mia ignoranza, sebbene non mi rendessi conto
che l’argomento di cui si discuteva creava una sorta di alchimia dalla quale la ragazza appariva
evidentemente attratta, tanto che fu lei a chiedermi se ci potevamo rivedere, magari in un contesto più
intimo. Non riuscivo ancora ad intuire che già mi ero sbilanciato con quel genere di conversazione, ma
fu così che mi trovai a concordare l’appuntamento più veloce della mia vita. Ci saremmo incontrati per
una cena la sera dopo e naturalmente io non le rivelai che dell’essenza esistenziale non mi importava
nulla, né tanto meno le rivelai che, se non fosse stato per un’assurda lettura fatta poche ore prima, io
nemmeno avrei mai preso in considerazione una pur lontana teoria dell’irrealtà.
Giunta la sera, poiché non amavo cucinare, mentre mi apprestavo ad uscire per recarmi al solito
ristorante dove ormai ero un ospite fisso, guardai il plico di fogli e, solo in quel momento, valutai che il
narratore non si era riferito a me direttamente ma a: “Chiunque volesse ascoltare il suo racconto”.
Banalmente mi trovai a domandarmi se io potessi essere il primo cui lo aveva sottoposto o se già altri
avevano avuto la stessa proposta chiedendomi, in questo caso, se qualcuno lo avesse mai assecondato.
Non so se fu l’orgoglio, la follia o la semplice volontà di verificare fino a che punto questo avventato
maniaco era disposto a spingersi, ma so che una sorta di presunzione mi condusse a convincermi che se
quella era una sfida, io certo non potevo perderla. Con un sorriso che, se mi fossi osservato allo
specchio avrei potuto definire diabolico, mi convinsi quindi che si trattava sicuramente di uno scherzo
idiota e che l’indomani il burlone si sarebbe rivelato e pentito.
-Vuoi giocare? Va bene, vediamo fino a che punto sei disposto a spingerti- dissi compiaciuto a me
stesso, perchè nonostante fossi certo dello scherzo, io già avevo guadagnato mille euro senza fare
niente e un appuntamento con una ragazza per la quale avevo messo in preventivo un periodo compreso
tra i quindici giorni e un mese di lavorazione, prima di convincerla ad uscire con uno che aveva quasi il
doppio dei suoi anni.
Non fosse stato per la convinzione dello scherzo, l’indomani avrei messo il plico sulla soglia di casa
aspettando di vedere chi sarebbe venuto a prelevarlo per scoprire l’identità del burlone, invece il giorno
seguente nemmeno mi ricordavo del pacco e, come mia abitudine, mi alzai che il sole era già alto.
Dopo una rapida puntatina al bar per la solita veloce colazione, andai a correre nel parco. Quando
rientrai feci una doccia e poi mi recai al ristorante per il pranzo, a quel punto avevo completamente
rimosso l’assurdo scherzo che aspettavo di smascherare fino quando, al ritorno a casa, non fui attirato
dal lampeggiare dell’icona sullo schermo del computer che avvertiva esserci un nuovo messaggio nella
casella di posta elettronica. Mi avvicinai con disinvolta noncuranza restando nella più totale
tranquillità, fino al momento in cui verificai, e non senza sorpresa, che il messaggio aveva un indirizzo
particolare, ossia, privato. Mi sedetti alla scrivania e accertai di aver letto bene il mittente, appurando
che il messaggio proveniva dalla mia banca in Svizzera. Riflettei come chi riceve un regalo e cerca di
scoprire che cosa contenga il pacco prima di scartarlo, considerando che in quel periodo non ricordavo
scadenze, quindi aprii il messaggio e osservai stupito per ben tre volte la notifica di avvenuto
pagamento. Sul mio conto riservato erano stati depositati in forma anonima ben trecentoventunomila
euro.
-Cristo Santo-. Ricordai solo in quel momento l’evento del giorno precedente rendendomi conto che,
inconsapevolmente, avevo accettato l’incarico. Più inconsciamente però, non riuscivo a credere a
quanto accadeva perché in quel momento non potevo concepire l’idea che non si trattasse di uno
scherzo e la possibilità che la mia convinzione potesse essere errata mi spiazzò al punto da provocarmi
una certa ansia.
Ricontrollai ancora il messaggio per convincermi che stesse veramente accadendo ma, mantenendo il
mio scetticismo, tornai a convincermi che presto sarebbe avvenuto qualcosa che avrebbe reso il tutto
semplicemente ridicolo. Tuttavia, la cifra era reale e subito contattai la banca per avere, oltre che ad
una conferma, ulteriori informazioni. Non ricevetti nessuna indicazione su chi era il depositario della
somma, ma la garanzia che tutto era avvenuto in modo regolare, quello sì.
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Ero stupito, incredulo e stordito ma, allo stesso tempo dovevo accettare il fatto di essere anche un
professionista, il che implicava che, se ero stato pagato, avevo un incarico. Conseguentemente al senso
del dovere quindi, mi recai nello studio dove avevo lasciato il pacco, lo osservai quasi con timore
reverenziale prima di agire, quindi sollevai il primo foglio già letto e osservai il secondo. In caratteri
giganti appariva quello che sembrava il titolo di ciò che continuavo a considerare il romanzo di qualche
scriteriato eccentrico e, mantenendo la mia idea sull’assurdità di tale follia, fissai l’attenzione sulle
gigantesche didascalie. Su quel secondo foglio c’erano solo quattro parole che probabilmente dovevano
dare il senso di un titolo, ma a me, davano solo un ironico senso di gratitudine, giacché solo per quelle
quattro parole, avrei guadagnato altri mille euro.
Mi sovvenne un solo pensiero: “Pazzesco”. Poi, iniziai a leggere:
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Il primo confine:
l’illusione
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1
Tutto scorre…
“…Si può pensare che tutto sia fortuito nella vita, casuale, imprevisto o involontario, un evento del
tutto ordinario, naturale e passeggero… Si può pensarla così, e lasciare che tutto scorra secondo una
conseguente casualità prodotta dalle circostanze, di cui ci si può ritenere più o meno responsabili,
valutando comunque che non si può sapere quel che avverrà in un futuro vicino o lontano, in
conseguenza alle nostre scelte, ai nostri pensieri, alle nostre considerazioni. Si può quindi pensare in
definitiva, che la vita sia come un fiume che scorre seguendo un tragitto determinato, a volte veloce, a
volte calmo, a volte carico d’ostacoli altre senza barriere e che in fine, comunque la si voglia vedere,
non sia possibile deviare dal corso di tale corrente, ma solo accettare di lasciarsi trasportare con
l’unica alternativa che forse il fiume possa avere delle diramazioni verso le quali si può essere
indirizzati, per scelta o per forza. Quello che non possiamo tuttavia ignorare è che il fiume ha un punto
d’arrivo. Può sfociare in un altro fiume più grande e da qui proseguire fino al mare, poi dal mare
all’oceano e ciò, conduce inevitabilmente a chiedersi se tutto sia veramente superfluo, ordinario e…
casuale.
Io, devo essere sincero, avrei voluto continuare a pensarla così. Avrei voluto continuare a pensare
che la mia vita era un evento scontato, dove le molte domande si risolvevano con una semplice alzata
di spalle, senza congetture, senza riflessioni, senza complicazioni esistenziali. Una vita monotona
forse, ma comunque una vita in cui, alla consapevolezza di una scadenza, si finiva con la rassegnante e
vana aspettativa dove il dubbio lasciava quella consolazione che, ad ogni modo, finché c’era vita c’era
speranza, poi semplicemente, si sarebbe visto…
A quale scopo affannarsi nella ricerca di un qualcosa che non si conosce e che non si sarebbe mai
potuto conoscere? Perché mai forzare una natura, quella umana, fatta di una comprensione limitata,
nella quale l’oblio dell’ignoranza permette di starsene sereni a coltivare campi, fabbricare palazzi,
costruire macchine e generare figli, senza immaginare la sterilità degli spazi della mente, la
demolizione dei pilastri del pensiero, l’arrugginire degli ingranaggi emotivi e l’annientamento dello
spirito? Che senso può mai esserci nel lasciare la comoda realtà determinata dalla cognizione di tutto
ciò che esiste ed è tangibile, per inoltrarsi nel labirinto del caos, dell’ignoto, e finire per abbandonarsi
al dubbio?
Perché?
Perché mai un uomo avrebbe dovuto uscire dal suo giardino e capire, appena fuori, che non sarebbe
mai più potuto tornare indietro?..”
“La storia che sto per raccontarvi vi sembrerà assurda, improbabile o fasulla. Potrete dire che è
surreale, inventata, falsa e perfino che è il frutto di una mente malata. Ma questo è tuttavia
comprensibile, io stesso del resto, se non l’avessi vissuta e quindi verificata, direi lo stesso. Nonostante
ciò, anche a questa reazione vi è una spiegazione, ma non ve la dirò, lascerò che siate voi ad
interpretarla e definirla.
Non è facile nemmeno capire da quale punto iniziare. Se la mia fosse ancora una mente razionale,
direi che l’inizio si trova in qualche momento recente, ma la verità è che non saprei individuare con
precisione tale punto, così devo spingere la mia mente molto indietro nel tempo per cercare di capire
dove poter collocare quel momento. Non avendo quindi punti di riferimento, dovrei valutare che una
mente coerente cercherebbe certamente in uno spazio in cui la propria memoria possa riconoscersi
ma, non avendo più nemmeno tale raziocinio, sono costretto a valutare quello che una qualunque
mente ragionevole considererebbe di fare e quindi, sebbene si tratti di un tempo privo di memoria,
l’inizio di tutto, o meglio, quello che potrebbe essere considerato l’inizio per ognuno di noi, si possa
collocare nel giorno della propria nascita. È lì che, razionalmente, ha inizio la storia di ognuno.
Solo che io, non sono più sicuro nemmeno di questo.
In un certo senso, è come cercare di definire quale sia il centro del mondo. Probabilmente, se
interrogato ad un esame di geografia, chiunque risponderebbe che il centro del mondo si trova nel
punto di intersezione tra il parallelo dell’Equatore e il meridiano di Greenwich, senza comprendere
che, in realtà, il centro del mondo è, per ognuno, il posto in cui lui stesso si trova. È da quel punto,
infatti, che può partire per ogni direzione, ovunque egli sia. Ma se poi si vogliono abbattere certi limiti
e andare oltre le barriere di ciò che siamo abituati a considerare solo perché lo conosciamo, lo stesso
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individuo potrebbe giungere a comprendere che quel punto, per lui, non è solo il centro del mondo, ma
il centro dell’universo. Ecco perché oggi per me, considerare il giorno della mai nascita come l’inizio
di tutto, mi genera dei dubbi. È ovvio tuttavia che non ho né prove né capacità per rendervi concreti
questi concetti e tutto ciò che posso darvi è solo una mia folle e inspiegabile convinzione. Quindi, non
essendo io in grado di condurvi oltre il confine dell’assurdo, e non avendo nemmeno le facoltà di
risalire con la memoria a quel giorno in cui ho lanciato il primo grido disperato in questo mondo, sono
costretto a riconoscere che non posso fare altro che ricercare tra quel tempo che la mia limitata
memoria mi concede di rammentare e, pensandoci bene, anche a valutare che, in effetti non serve la
storia di una vita per descrivere quanto mi accingo a raccontare.
Direi ora che il mio nome non ha molta importanza e che io sono solo un testimone involontario di
quanto avvenuto. Lo direi, se la mia mente fosse ancora razionale ma, pur rischiando di essere
ripetitivo, devo confermare che quanto accaduto mi impedisce di concepire il fatto che uno possa
essere testimone involontario giacché, ogni evento vissuto, per quanto la propria condizione sia
superficiale, ci rende protagonisti e ci conduce a riflettere su quanto tale evento possa essere casuale,
il che mi riconduce a considerare che nulla in questa vita, in questo mondo o in questo universo, sia
effetto di una casualità. Considerato ciò, mi giunge ora impossibile valutare che anche il nome che ci
viene assegnato, primo dono che riceviamo nella vita, non sia casuale. Quindi, forse, è proprio da qui
che devo iniziare.
Il mio nome è Tommaso D’amanti. Non è un nome semplice lo so, eppure, assolutamente non casuale.
Per tutti sono comunque sempre stato semplicemente Tom, e il mio centro del mondo è Casterba, un
paese anonimo della Pianura Padana, tra le nebbie dell’Italia. Sono nato nel mese di Settembre, il
giorno 18 dell’anno 1971, che pure non è una data casuale, nel segno della Vergine.
Il suo, era Demetrio Dilago, nato nel Gennaio dell’anno precedente, precisamente il giorno 25, nel
pieno dell’inverno sotto il segno dell’Acquario, e per tutti, il “Mage”. È di lui che racconterò, o
meglio, è a causa sua che racconterò…”
Ecco, avevo un nome, anzi due. Ma nessuno era compreso nella lista delle mie conoscenze. Non
avevo mai sentito nominare né l’uno né l’altro e non ricordavo di essermi mai imbattuto in tali
nominativi in nessuna delle mie indagini.
Riflettei un po’. Se l’autore voleva restare anonimo poteva aver benissimo inventato nomi e località,
perché da questi dati avrei potuto intercettare altre due informazioni piuttosto rilevanti. Ma non avevo
mai sentito nominare nemmeno un paese chiamato Casterba e non escludevo che anche questo fosse un
indirizzo di fantasia, tuttavia, se l’autore voleva intimorirmi o lanciarmi una qualche sorta di
messaggio, tra le righe di quello scritto doveva trovarsi qualcosa di autentico, era inevitabile: nessuno
riesce a restare totalmente nell’anonimato. Per quanto indifferente o imperturbabile, l’animo umano
non riesce a sottrarsi totalmente ad un minimo di presunzione e, dato che di questo ero convinto,
cominciavo a persuadermi che su una cosa non mentiva, e da lì potevo iniziare a tracciare il mio, anzi,
il suo profilo. Se la mia deduzione era esatta e il suo era un racconto autobiografico, non vedevo il
motivo per cui mentire sulla sua età, dalla quale, doveva pensare l’anonimo, difficilmente si sarebbe
potuto scoprire un’identità se tutto il resto era fasullo. Ma, forte della mia convinzione, potevo iniziare
da lì la mia indagine. Diceva di essere nato nel 1971 e, facendo un rapido calcolo, dal momento che
non era ancora giunto Settembre, l’anonimo scrittore non aveva ancora cinquantatre anni. Mi sorpresi
solo in quel momento a capire la condizione di un tale facile calcolo perché, se avessi riflettuto più
lucidamente, avrei compreso che non avevo necessità di fare alcun calcolo. L’anno di nascita
dell’anonimo era il mio stesso anno. L’anonimo aveva la mia stessa età, e faceva parte quindi di una
fascia che comprendeva la gran parte dei miei clienti.
Sembra che verso quell’età si cominci a diventare parecchio paranoici, specialmente se si è così ricchi
da pagare per far leggere la propria biografia, e che il timore d’infedeltà coniugale possa superare
anche le più indiscutibili relazioni, tuttavia, se questo individuo era già stato mio cliente, doveva
trattarsi di qualcuno che questi timori li aveva avuti in tempi precedenti. Non mi soffermai a fare
congetture sulla natura della sua precedente richiesta, né a valutare quale fosse stato l’esito e preferii
concentrarmi sull’attuale condizione.
Ripensai a ciò che aveva scritto e il fatto di nominare un'altra figura di sesso maschile nel
dattiloscritto mi conduceva alla conclusione che stesse parlando dell’uomo con cui la moglie doveva
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averlo tradito e, se tale tradimento era stato scoperto, la mia ricerca doveva limitarsi ai casi risolti con
l’avvenuto smascheramento, che non erano pochi. Dedussi poi che non doveva essere passato molto
tempo dall’avvenuta risoluzione del caso poiché le reazioni a questo tipo di trauma erano diverse tra
loro, ma due erano quelle che non mancavano mai: nella prima prevaleva la rabbia, istintiva,
vendicativa e spesso distruttiva; nella seconda la depressione, più lenta nella reazione ma allo stresso
tempo riflessiva e metodicamente indirizzata verso la vendetta. Chi aveva scelto di scrivere la storia del
suo patito tradimento doveva far parte della seconda categoria, poiché la vendetta qui consisteva non
nell’attacco fisico ma piuttosto in quello psicologico, dove il tradito cercava di generare il senso di
colpa nel traditore.
Ma questa era un’analisi psicologica che non m’interessava e che non potevo comunque trattare, così
lasciai da parte le insidie congetturali su come poteva ridursi una mente depressa e, ignorando di poter
avere a che fare con uno che poteva essere divenuto maniaco depressivo, mi concentrai su ciò che
sapevo fare meglio: indagare. Dovevo limitare il campo della ricerca, e dal momento che avevo appena
appurato che la depressione poteva dar esito ad azioni meno immediate della rabbia, dedussi che avrei
potuto limitare l’arco di tempo in cui valutare il termine dell’indagine nei tre anni precedenti. Così,
senza rendermi conto che avevo già dato inizio ad un indagine che nemmeno mi era stata
commissionata, alzai il telefono e chiamai un’amica che lavorava presso gli uffici amministrativi della
regione.
Certo avrei potuto fare da solo semplicemente digitando Casterba su internet e avrei potuto ottenere le
informazioni che desideravo, ma pensai che questa era una buona occasione per mantenere un rapporto
che ancora poteva tornarmi utile.
Nel mio lavoro si fanno molte conoscenze e si acquisiscono parecchi agganci indispensabili per le
ricerche e, tra le altre informazioni, ne avevo avuta una di molto importante: l’apparente sconosciuto
abitava in zona. Diceva che Casterba era un piccolo paese della bassa pianura padana, zona in cui io
stesso abitavo e quindi, da buon investigatore, potei ancora dedurre che l’anonimo doveva essere della
zona se si era rivolto a me. Quando la voce dall’altro lato della cornetta rispose con un tono
professionale e annoiato, le feci cambiare umore salutandola con le riverenze e le attenzioni dovute ad
una vecchia ma utile conoscenza. Sentii la sua voce ravvivarsi, come se il mio intervento avesse il
potere di animare una giornata monotona. Sapeva di che cosa mi occupavo e forse il sentirsi coinvolta
le dava quella sensazione d’avventura che quasi tutti gli impiegati ministeriali, specie se femmine,
sognano di avere nella loro deprimente quotidianità. Così, più per mantenere l’indispensabile contatto,
le domandai di fare una ricerca per me e le diedi le informazioni che avevo su quel paese chiamato
Casterba nella zona padana. Mi disse di attendere e sentii il rumore di pulsanti digitati su una tastiera.
Passarono alcuni minuti perché probabilmente la ricerca non dava esiti immediati e la mia
collaboratrice voleva offrire un buon servizio. Dopo un po’ risentii la sua voce.
-Mi spiace- disse -non risulta nessun paese con questo nome. Forse non è corretto perché mi risulta
solo un Casterra- quasi esultai -ma non si trova nella pianura padana. È un comune della Valpolicella
nel veronese- mi informò.
La mia esultanza si affievolì ma non si demoralizzò.
-Grazie- le dissi -mi sei stata molto utile-.
Conoscevo la Valpolicella, un territorio ben noto per i suoi prodotti gastronomici e pregiati vini ma
soprattutto perché qualche anno prima avevo avuto occasione di svolgere delle indagini in quel
territorio chiamato Lessinia di cui la valle era parte. Casterra era un comune vicino ad un paese che
avevo avuto occasione di conoscere bene e che ricordavo a causa di un famoso parco nelle vicinanze,
caratterizzato da un percorso di cascate che avevo visitato mentre svolgevo l’indagine. Certo non aveva
nulla a che fare con la pianura padana ma se, come ritenevo, lo scrittore era della mia zona, le due
località potevano essere entrambe parte dell’ipotetica indagine che, ero convinto, prima o poi mi
sarebbe stata commissionata.
Io abitavo in un paese sulle rive del fiume Mincio, tra Verona e Mantova, una zona tipica della
pianura padana, e la Lessinia, in particolare la Valpolicella, non era molto lontana, raggiungibile in non
più di un’ora, quindi dedussi che forse, uno dei due protagonisti poteva essere di quelle parti.
Per un momento mi sentii coinvolto al punto da decidere di continuare a leggere e osservai il secondo
capitolo, immaginando che andando avanti trovato altri indizi. Così abbassai gli occhi ma
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nell’allungare la mano per raccogliere il foglio, l’orologio da polso mi fece notare che il tempo stava
passando velocemente ricordandomi che quella sera avevo un appuntamento importante.
Decisi senza difficoltà che il romanzo, diario o biografia come la si volesse definire, poteva attendere
e lasciai con noncuranza tutto il materiale sul tavolo, senza preoccuparmi di riporre i vari documenti in
un cassetto sicuro della scrivania. Non avevo mai subito intrusioni nella mia abitazione e ormai, tra la
troppa sicurezza e la frenesia degli impegni extralavorativi che sempre si riducevano all’ultimo
momento, cominciavo ad essere piuttosto superficiale nei riguardi della segretezza e della sicurezza e,
forse, troppo fiducioso nella buona sorte.
In tenuta da sera Felona era anche più attraente che in tenuta sportiva e l’inaspettato insieme di
bellezza ed eleganza mi provocò un’insolita sensazione che portava il mio apprezzamento nei suoi
riguardi ad assegnarle un tipo di attenzione che poteva diventare pericolosa nei confronti delle mie
abitudini, e per un momento mi trovai smarrito tra i pensieri dei rischi di un coinvolgimento emotivo
più complesso del consueto.
Comportandomi comunque da perfetto gentiluomo, l’accolsi con lusinghieri complimenti e, pur
compiacendomi per la sublime visione, cercai di considerarla nel modo in cui avevo considerato tutte le
mie precedenti avventure, vale a dire, nulla di più che una leggerezza passeggera.
Tuttavia sapevo ancora troppo poco di lei e, ignorando che presto mi si sarebbe rivelato un altro
aspetto che me l’avrebbe resa ancor più affascinante, non osai portarla al ristorante dove andavo tutti i
giorni, ma azzardai all’intimità di un localino ben più suggestivo e indicato per una cena galante.
La portai in un accogliente locale di un altro paese sempre sulle rive del fiume Mincio e, non so se per
conseguenza dell’ambiente o se a causa dei dialoghi impegnati, l’effetto che ne conseguì dovette essere
molto stimolante e provocatorio perché, nel successivo svolgersi dell’appuntamento, quando nel
rientrare le domandai se voleva fermarsi a bere qualcosa da me prima di concludere la serata per le
ultime confidenziali battute, lei accettò senza indugi né esitazioni, il che, devo essere sincero, un po’ mi
sorprese. Non sarebbe stata la prima volta che mi capitava ma Felona mi aveva dato la particolare
sensazione che non sarebbe stata una da prima serata, invece, dopo un veloce ultimo drink, nemmeno
dopo dieci minuti che eravamo saliti nel mio appartamento, già stavamo a letto assieme…
Non è mia intenzione vantarmi delle conquiste, né descrivere i particolari delle avventure amorose ma
era la prima volta che restavo, felicemente, stupito. Forse perchè avevo valutato Felona con meno
istintività di quanto avessi mai fatto, presupponendo un corteggiamento più dilungato nel tempo prima
di giungere all’obiettivo del rapporto intimo e ciò si rivelò piuttosto compromettente, perché questo suo
atteggiamento allontanava da me la percezione che l’attrazione iniziale provata per lei, non era stata
solo di tipo fisico.
Dormii profondamente e, come al solito, la mattina mi svegliai tardi. Molto tardi. Ricordando quanto
era avvenuto guardai al mio fianco pronto a sorridere ma, con incredula sorpresa scoprii che la ragazza
non c’era più. Maledicendomi mentalmente mi alzai con rapidità e imprecai contro me stesso per la mia
stupida indifferenza. Valutare che non tutti facevano il mio lavoro e che quindi vi era una remota
possibilità che quei “non tutti” dovessero avere degli impegni da rispettare era la prima cosa di cui
avrei dovuto preoccuparmi in modo da poterla accompagnare al lavoro, o a casa a prepararsi,
dimostrando così il mio interesse nei suoi riguardi per farle credere, ancora per un po’, che le mie erano
intenzioni serie. Invece l’avevo lasciata andare via e senza nemmeno accorgermi che si era alzata.
Saltai perfino la sosta in bagno per andare dritto in sala da pranzo pur mancando perfino della speranza
di trovarla ancora lì, ma dove invece, giungendo con maldestra irruzione, Felona stava per stupirmi di
nuovo oltre a darmi, in un certo senso, delle motivazioni per quella mia insolita attrazione nei suoi
riguardi.
-Ciao- mi salutò mentre teneva tra le mani un foglio.
“Dannazione” fu la prima cosa che pensai, immaginando che stesse leggendo il documento segreto e
bloccato dalla sorpresa restai incredulo a fissarla. Troppo convinto delle mie certezze sull’universo
femminile che mi avevano indotto a pensare che la serata si sarebbe conclusa in maniera diversa, ora
imprecavo tra me per la mia noncuranza nel mettere al sicuro il documento e i certificati vari relativi
alla mia professione che ora rischiavano di compromettere la mia identità mentre valutavo che sul
tavolo di fronte a lei vi era tutto ciò che poteva rovinarmi.
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-Dormito bene?- domandò con aria sincera. Dominai con fatica l’istinto, ma non dovetti riuscirci
abbastanza bene.
-Sì- risposi, pensando che la maniera migliore per dissimulare la mia preoccupazione fosse quella di
giustificare il mio sonno prolungato -devi scusarmi sai, sono in vacanza e tendo a perdere il ritmo
quando non ho obblighi da rispettare…- dissi banalmente mentre ancora cercavo di capire come
comportarmi -non vorrei averti causato dei problemi, forse tu avevi degli impegni… vuoi che ti
accompagni da qualche parte? Devi andare al lavoro?- sperai di distrarla da ciò che stava esaminando.
Guardò l’orologio e istintivamente io feci lo stesso. Un quarto alle undici, più tardi del solito.
-Se andassi al lavoro adesso mi troverei a dover giustificare troppe cose, uno come te lo dovrebbe
sapere non credi?La guardai con aria colpevole e non dissi nulla. Allora lei scoppiò in una risata.
-Non preoccuparti, ho la fortuna di potermi permettere orari molto flessibili- specificò, ma questo non
bastò a farmi rilassare, soprattutto perché la domanda successiva mi spiazzò letteralmente.
-Allora di che caso ti stai occupando in questo periodo?- mi domandò e, come un dilettante, restai
senza parole.
-Come?- balbettai -non so di che cosa tu stia parlando- risposi con la più inutile e affermativa delle
risposte. Era un classico: negare l’evidenza con imbarazzo era come ammetterla.
-Sei un investigatore, no?- espose con più chiarezza allora, e solo in quel momento mi sovvenne il
pensiero che io di lei non sapevo nulla. Come già definito, non era mia abitudine concedere troppa
confidenza alle persone. Cosa della quale ora cominciavo a pentirmi, ma prima di quel momento non
era mai stato un problema. Ora però tutto cambiava, Felona era in casa mia da meno di dodici ore e già
sapeva che cosa facevo, o lo supponeva. Se disgraziatamente avesse avuto qualcosa a che fare con il
caso di cui mi occupavo, la mia carriera d’investigatore sarebbe finita. Cercai di capire con chi avevo a
che fare ma solo adesso mi rendevo conto che pure le sue frequenze in palestra erano state troppo
poche perché avessi avuto il tempo di farmi un’idea su di lei.
Per un attimo il panico mi colse, poi però mi sovvenne che io un caso non ce lo avevo e
comprendendo che non potevo lasciarmi fregare dall’ansia ristabilii il controllo di me stesso.
Sorrisi con imbarazzo -ma che dici? Che cosa ti fa presumere una follia simile?-.
Sventolò il foglio che teneva tra le mani. Per un attimo fui sollevato perché non era parte del
documento segreto, poi mi sentii un completo imbecille. Come investigatore privato avevo
l’autorizzazione a girare armato e, per giustificare tale autorizzazione, era necessaria una licenza. Avrei
potuto e dovuto arrabbiarmi se quella di Felona fosse stata un’invadente ricerca ma la ragazza non
aveva dovuto fare molta fatica a scoprire la licenza perché, nella mia superficiale negligenza, l’avevo
lasciata tra tutti i documenti relativi alla mia professione sul tavolo dello studio prima di uscire la sera
dell’appuntamento.
-Beh non è come credi- cercai la tipica affermazione con cui qualcuno cerca di prendere tempo.
-Spero solo tu non stia indagando su di me- ironizzò lei, apparentemente inconsapevole del danno che
poteva arrecarmi. La guardai con espressione divisa tra la supplica e il timore.
-No, certo che no. Anche se dovrei a questo punto- dissi rassegnato.
Lei si godette l’attimo del mio tormento con ironia -che succede, sei preoccupato?Pensai che non dovevo girarci troppo intorno -senti Felona, il mio è un lavoro basato su tanti fattori,
tra i quali la segretezza…-Non starai per dire che adesso mi devi uccidere spero- continuò a ironizzare.
Io sorrisi cercando di sembrare disinvolto -certo che no, ma devi capire…-Non devi preoccuparti, il tuo segreto con me è al sicuro. Basta che mi sposi- disse e a quel punto io
provai quel terrore che non ricordo d’aver provato nemmeno davanti ad un’arma puntata.
Lei scoppiò in una nuova risata.
-Accidenti- disse -sembra che tu stia per avere un infarto. Calmati, stavo scherzando. Non ho
intenzione né di smascherarti né di sposarti- si avvicinò -io sono una psicologa e ho già capito che tipo
sei tu-.
La guardai sentendomi un idiota, capendo per la prima volta che cosa doveva provare una di quelle
persone che il mio lavoro contribuiva a denunciare. Io ovviamente non avevo mai avuto a che fare con i
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sospettati su cui indagavo ma in quel momento potevo immaginare che cosa provassero quando il
cliente, che mi aveva commissionato l’incarico, li andava a smascherare.
-Sei una psicologa?- replicai, cominciando a capire che se avessi saputo qualcosa di più su di lei forse
avrei anche potuto intuire le sue intenzioni.
-Certo sono una psicologa e so già più di quanto tu non possa immaginare su di te-.
-Davvero?- risposi, passando ad un atteggiamento di sfida -e che cos’altro avresti scoperto?-Beh, che non hai intenzione di impegnarti in una relazione seria, che non sei in vacanza ma che stai
lavorando e che ti senti piuttosto sicuro di te…-Davvero? E questo da cosa lo avresti dedotto?-Vediamo. Uno dei segnali fondamentali è la tensione sessuale…-Cosa?- esclamai incredulo.
-È tipica di chi fa un determinato esercizio ma teme una conseguenza, e tu temi la conseguenza che un
rapporto intimo comporti la richiesta di un impegno da parte dell’occasionale partner. Inoltre non mi
hai chiesto se faccio uso di anticoncezionali, e questo aumenta la tensione, perché una minima
distrazione in questo senso diverrebbe piuttosto compromettente, dico bene?Dovetti ammettere le sue ragioni -e tu fai uso di anticoncezionali giusto?- azzardai a mia volta
dell’ironia. Lei non rispose e proseguì.
-Stai lavorando perché tu non mi sembri proprio il tipo da discussioni intellettuali sull’esistenzialità e
ti senti troppo sicuro di te, al punto da lasciare documenti importanti in bella vista- sventolò i vari
permessi sui quali spiccava ben definita la mia professione e il mio nome, che spesso evitavo di rivelare
per restare nell’anonimato.
-Allora, che tipo di nome è Donato Mastammi? Sta per “ma stammi” lontana?Non so se cercava d’essere divertente o se fosse semplicemente indignata e nel dubbio cercai di restare
neutrale.
-Potrebbe anche stare per “ma stammi” vicina- risposi.
-Sì potrebbe, ma tu sei più un tipo da prima ipotesi. E comunque sembra quasi un nome inventato, il
che non mi stupirebbe-.
Cercai di fare l’offeso anch’io a quel punto -beh, non si può dire che il tuo sia un nome altrettanto
realistico- dissi, accorgendomi un istante dopo d’essermi compromesso ancor di più.
-Appunto- proseguì infatti lei -un nome insolito come il mio dovrebbe servire a stimolare una certa
attenzione in chi cerca un approccio serio con una ragazza, tu invece nemmeno l’hai notata la
stranezza, il che aggiunge un’ulteriore prova del tuo interesse ad un “non” impegno. E comunque il mio
nome ha un significato e un senso molto profondo, ma questa tua disattenzione mi conduce alla
riflessione su come ti sia venuta l’idea di iniziare un approccio con quei discorsi sulla realtà o irrealtà
delle cose. Da lì non sarei mai risalita alla tua professione, il che mi fa pensare che in questo momento
tu abbia a che fare con un caso che riguarda qualcosa o qualcuno che si occupa di cose simili-.
La guardai sorpreso, pensando che sarebbe stata una valida socia.
Sorrisi -senti Felona, io mi occupo di infedeltà coniugali e le mie indagini sono più divertenti che
pericolose. Tuttavia la segretezza è indispensabile…-Accidenti, infedeltà coniugali. È per questo che temi le relazioni impegnative? Hai avuto troppe
esperienze negative causate dal tuo lavoro evidentemente- m’interruppe con una diagnosi precoce.
-Per favore non scherzare-.
Mi guardò per la prima volta con serietà dall’inizio della mattina.
-Non devi preoccuparti, del resto anch’io sono nelle tue stesse condizioni. Sono vincolata dal segreto
professionale e ogni cosa che un paziente mi riferisce è protetta da questo legame…La osservai con sospetto, incerto se quello che mi stava dando era un suggerimento e valutai che forse
ad attirarmi così tanto in lei era quel lato diabolico che ancora non avevo scoperto.
-Mi stai dicendo che se io diventassi tuo paziente, tu non potresti rivelare nulla?Il suo viso si trasformò in un’espressione sorpresa -non era questa la mia intenzione, ma se hai
bisogno di garanzie… beh, sì, potrebbe essere una soluzione-.
Sorrisi con perfidia -va bene, quanto è la tua parcella?- a questo punto però lei mi fissò offesa.
-Così mi fai sembrare una sgualdrina- evidenziò.
-No, non fraintendermi… io volevo solo…22
-Se vuoi essere un mio paziente devi chiedere un appuntamento e avere qualche disturbo mentale, il
che non sarebbe difficile da trovare-.
Percepii la sua indignazione che non potevo biasimare.
-Per favore Felona, io non volevo…- cercai una soluzione veloce -…l’appuntamento richiesto non
potremmo considerarlo quello di ieri?-Impossibile- obiettò con schiettezza.
-Perché?-Siamo stati a letto assieme, il coinvolgimento tra paziente e medico metterebbe in seria difficoltà la
mia professione, quindi se tu vuoi essere considerato un mio paziente la richiesta deve essere
successiva al nostro rapporto. E non è detto che io accetti-.
Allargai le braccia in senso d’incredulità -ma io non oserei mai…-E chi me lo conferma? Sei inaffidabile nei rapporti sentimentali, perché dovrei credere che lo sia in
quelli professionali?-Ora mi offendi-.
-È possibile, ma tu cerchi le tue garanzie, io le mie-.
-Va bene, che cosa vuoi?-Voglio sapere perché il tuo approccio con me era basato sull’esistenzialità e sulla realtà e irrealtà
delle cose. Voglio capire quanto tu ti senta veramente coinvolto da questo argomento-.
Riflettei.
-Dovrei parlarti del caso a cui sto lavorando e come sai…-Va bene. Il mio onorario è di cento euro l’ora. Dimmi qualcosa di te e sarai vincolato dal segreto
professionale. Dopo di che non sentirai più parlare di me- lo disse con rabbia e non volevo che fosse
questo il sentimento con cui si concludeva il nostro rapporto, il che mi fece sentire meschino.
-Va bene- accettai il rischio -il fatto è che non si tratta nemmeno di un caso e quindi te ne posso anche
parlare. È successo che due giorni fa ho ricevuto un pacco e una lettera… pensavo che la
documentazione contenesse una relazione su un possibile ingaggio, invece…Le spiegai cosa era successo senza rivelare più del dovuto, limitandomi a giungere alla questione che
aveva introdotto tra i miei pensieri l’argomento esistenzialità. Sembrò soddisfatta e soprattutto sincera
nel mostrare di credermi.
-Se un paziente venisse da me raccontandomi cose del genere, potrei dedurre una perdita d’identità
che lo rende quasi una doppia personalità, quindi la mia diagnosi per te è: perdita di identità e rischio di
vivere una doppia personalità. Ora puoi pagarmi la retta e sentirti vincolato dal segreto professionale
con me-.
La fissai incredulo perché non potevo credere che tutto si concludesse così. Presi il portafogli e feci per
consegnarle il denaro ma quasi immediatamente fui preso da uno strano stato d’animo e ritrassi la
mano.
-Non può essere tutto così determinato- dissi e lei mi guardò con finta sorpresa, come se si aspettasse
quella mia reazione.
-Cosa c’è che non va? Io volevo solo sapere quali fossero le tue motivazioni per intavolare un dialogo
su argomenti che raramente uomini che sono fuori dal mio studio trattano, tu mi hai dato la tua
motivazione, io ho tratto le mie conclusioni. Tutto qua-.
Mi sentii nuovamente offeso -vuoi forse dire che, perché non sono uno schizzato che frequenta il tuo
studio, non sono degno della tua considerazione?-No, voglio dire che sei semplicemente una persona ordinaria, il che riduce il mio interesse per te.
Inoltre adesso sei anche tu un paziente- prese il denaro dalle mie mani e lo infilò veloce nelle sue
tasche.
Quasi mi lasciai prendere dall’ilarità -sei veramente astuta, se non fosse per il fatto che dici di essere
un medico ti direi di farti visitare- ironizzai, poi mi sovvenne un’idea balorda che l’istinto non riuscì a
controllare -e se ti facessi leggere quello che ho letto io fino ad ora, potresti fare una diagnosi sul
misterioso scrittore?- le domandai.
Lei mi guardò quasi compiaciuta -sì, ma lui non sarebbe vincolato- rispose.
Io sorrisi divertito. Presi il documento e le consegnai l’introduzione contenente l’avvertimento -e
comunque io non sono un tipo ordinario- dissi con finto sdegno.
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Lei mi fissò, sorrise e poi abbassò lo sguardo sui pochi fogli che le avevo consegnato. La sua
espressione si fece seria al limite del preoccupante e io dedussi che fosse dovuto a quell’intrigante e
quasi minaccioso “avvertimento” col quale iniziava l’opera. Mi allontanai per sistemarmi e lasciarle il
tempo di leggere.
La trovai molto pensierosa quando tornai -che ne pensi?- le domandai.
Mi guardò -interessante, e stimolante-.
-Stimolante?-Certo. Direi che la mia diagnosi potrebbe essere azzeccata. Ma qui, oltre alla perdita d’identità,
abbiamo a che fare con uno che nemmeno pensa di poter essere reale. È come se il misterioso cliente ti
stesse chiedendo di indagare proprio su di lui, per confermargli che esiste- espose con una valutazione
di tipo ospedaliera ma che io stesso avrei dovuto prendere in considerazione.
-Diamine, non ci avevo pensato- risposi -ad ogni modo non mi è stata commissionata nessuna
indagine- le riferii.
-È ovvio- disse allora lei -se costui crede di essere irreale, tutta la sua realtà è irreale e quindi anche tu
sei irreale e la tua stessa indagine-.
Per un momento mi sentii sollevato. Se accettavo quella possibilità potevo escludere la congiura di
una vendetta o di un complotto contro di me, tuttavia mi parve di fluttuare nel vuoto e non riuscivo a
trovare la meritata tranquillità, anzi i timori sembravano aumentare in me.
-Ma tutto questo non ha senso… come può uno che si crede irreale commissionare un’indagine a
qualcun altro che crede irreale?Lei sorrise -è questo il punto, vedi? In questo soggetto la realtà diventa irreale finché qualcuno non gli
darà qualche conferma. Direi che hai un caso aperto- concluse, ma per una sorta di timore, rifiutai di
accettarlo.
-Ma non è possibile. L’unica cosa che questo tizio mi ha chiesto di fare è di leggere quel suo insulso
romanzo e per questo mi ha già pagato. È uno stupido scherzo…-E chi pagherebbe per fare uno scherzo?- disse allora lei, e io la fissai come se tra noi ci fosse già
quella complicità tipica degli amanti.
-Ma tu da che parte stai?-Da quella di nessuno- rispose -la cosa è interessante ma io non sono coinvolta e tu non vuoi che lo
sia, perciò adesso me ne vado- girò su se stessa e si avviò verso l’uscita.
In quel momento una sorta di panico tornò ad assalirmi -ehi no, aspetta- lei si fermò e mi guardò
mentre io cercavo di capire se il panico era dovuto al timore di perderla o a quello di dover affrontare
da solo un’indagine che cominciava a spaventarmi.
-Che ne diresti di leggere il capitolo successivo? Così, solo per sapere se manterresti la tua opinionele domandai. Lei rifletté e, per quel tempo, io mi sentii come chi si trova nel bel mezzo di una profonda
nebbia padana per la prima volta, smarrito e incapace di orientarsi.
-Va bene- disse -ma sappi che questo potrebbe essere considerata una seconda seduta-.
Sorrisi divertito e le porsi il successivo capitolo.
Lei mi guardò con aria stizzita -il paziente parla, la psicologa ascolta- disse.
Io la guardai a mia volta indispettito -non ti piacerà come leggo- l’avvertii, poi iniziai:
24
2
Ritorno a Casterba…
…I ricordi sono una parte essenziale della nostra vita, anche se apparentemente la considerazione
che essi trovano nella nostra memoria è limitata ad una banale nostalgia di quanto si vorrebbe
cambiare se si potesse tornare indietro. Come già espresso però, una volta usciti da quel giardino,
indietro non si torna più e rimpiangere determinate scelte fatte, o non fatte, non causa altro che una
statica inerzia. Ciò che siamo è ciò che abbiamo creato con le nostre certezze o incertezze, con le
nostre scelte o rinunce, con i nostri errori o successi. Che poi errori o successi siano determinabili in
considerazione di un giudizio soggettivo, rimane appunto, una cosa soggettiva. Ad ogni modo di lui, in
un paese rurale come il nostro, non sarebbero stati in molti a ricordarsi, se non fosse per la celebrità
che acquisì proprio andandosene.
Ricordo che quando lo incontrai la prima volta, ai tempi delle scuole elementari, io nemmeno sapevo
chi fosse. Allora la cosa non mi stupì, ma ero solo un bambino che ancora poco conosceva perfino
della formazione strutturale e mentale di un piccolo borgo come quello dove abitavo. Ovviamente è
una considerazione che posso fare solo adesso, giacché a quel tempo non potevo ragionare con
l’esperienza di adulto.
Per quanto giovane io potessi essere (avevo solo sei anni), già conoscevo quasi tutti gli abitanti del
paese che non oltrepassava le mille anime. In particolar modo, conoscevo quasi tutti i miei coetanei e
coloro che erano di poco più o meno giovani. Mi sarebbero bastati ancora pochi anni per poter dire di
conoscere ogni abitante del paese, vecchio o giovane, maschio o femmina, buono o cattivo… e questa
era una cosa del tutto normale per chi abitava a Casterba: tutti sapevano tutto di tutti e tutti sapevano
chi erano tutti… tranne lui.
Demetrio conosceva pochi paesani pochi paesani conoscevano lui. Certo tutti sapevano che Pietro
Dilago aveva un figlio di sette anni e tutti sapevano chi era Pietro Dilago, ma pochi conoscevano
direttamente quel figlio che, conseguentemente, appariva come una sorta di anomalia. Non ci volle
molto a capire che Demetrio generava una forma d’inquietudine nei propri compagni che nel
giudicarlo strano, assecondavano la sua indole reticente, evitandolo come se fosse un virus da
debellare. Pareva quasi che vi fosse il timore di subire un contagio, come se la sua indifferenza a tutto
ciò che riguardava la consuetudine, fosse una malattia. Da parte mia, so solo che molte volte mi ero
soffermato, come attratto da un’inspiegabile seduzione, a osservarlo durante quelle pause ricreative,
quando mentre tutti noi ragazzini sfogavamo le nostre eccessive energie costrette alla reclusione
durante le ore di lezione, lui se ne gironzolava tra i giardini dei cortili della scuola alla ricerca di
insetti o piante da osservare. Ricordo in particolare, e credo che questo sia stato uno degli eventi che
hanno scatenato in lui lo sdegno e il biasimo verso le persone dotte, o presunte tali solo perché in
possesso di un diploma, un episodio avvenuto quando frequentavo la quarta elementare. Come ogni
giorno, quando giungeva la primavera, lui si estraniava dai compagni nell’esplorazione del prato
adiacente la scuola. In questo prato vi erano due grossi cipressi, dentro i quali si nascondevano un
sacco di insetti strani. Ricordo che lui non era solito richiamare l’attenzione di nessuno quando
trovava, dal suo punto di vista, qualcosa di interessante. Aveva un rispetto incredibile per la natura e
le sue creature, ma quel giorno una ragazzina piuttosto curiosa che lo aveva osservato esaminare
qualcosa che teneva tra le mani, le si era avvicinata per vedere cosa stesse facendo. Tra le cortecce dei
cipressi Demetrio aveva trovato un interessante esemplare di cervo volante, uno dei più grandi
coleotteri esistenti al mondo e, mettendogli la mano davanti, aveva atteso finché questi non aveva
camminato fin dentro la sua stessa mano. Per lui era una cosa del tutto normale e lo stesso insetto
sembrava starsene tranquillo. Quando la ragazzina le aveva chiesto cosa stava facendo, per lui era
stato altrettanto naturale mostrare l’insetto, o meglio, per come lo vedeva lui, il suo amico. Ma se per
lui un insetto come quello rappresentava qualcosa di speciale e affascinante, così non era per la
ragazzina che invece aveva lanciato un grido di terrore. A nessuno di noi ovviamente un insetto di quel
genere sarebbe apparso tanto affascinante e io ricordo come fosse stupita e sconvolta l’espressione di
Demetrio nell’apprendere quanto ribrezzo provocava in noi quella creatura.
Naturalmente eravamo accorsi tutti a vedere che cosa avesse spaventato la curiosa, e l’insegnante,
una cinquantenne che per noi era solo una vecchia autocrate, presa da ribrezzo pure lei, subito aveva
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gridato a Demetrio di gettare via quel mostro. Aveva usato proprio queste parole: “Getta via quel
mostro”.
Contrariato Demetrio aveva ribadito che non era un mostro e subito aveva cominciato a descrivere le
caratteristiche del coleottero di cui noi tutti ignoravamo perfino l’esistenza. Ma l’insegnante stizzita e
terrorizzata quanto la ragazzina curiosa, aveva colpito con forza la mano di Demetrio facendo volare
lontano lo sventurato coleottero e poi, con un’azione che oggi definirei macabra e crudele, era corsa
verso l’innocuo insetto e con la potenza del gigante lo aveva schiacciato sotto il peso del suo piede.
Demetrio aveva urlato con tanta disperazione che il suo grido rimase impresso nella mia memoria
per molti giorni a seguire. Era corso verso l’insegnante e incurante della sua autorità l’aveva spinta
via con forza tale da rischiare di farla cadere a terra. L’insieme dell’azione aveva creato prima
l’ilarità degli alunni accorsi a vedere cosa stava accadendo per quel grido disperato nel quale si
intuiva il preludio ad un pianto, poi si era trasformata in occasione di divertimento per come veniva
trattata la maestra e, infine, confusione tra un misto di dileggio e allo stesso tempo timore per come
successivamente si era comportato lo stesso Demetrio che, indifferente alle imprecazioni e alle
minacce dell’arcigna maestra, aveva raccolto l’insetto ormai privo di vita e, mentre vedevo i suoi
occhi inumidirsi, immaginando lo sforzo che doveva fare per trattenere le lacrime, nell’ignorare la
voce stridula dell’insegnate prima che altri docenti giungessero a intervenire, avvicinava l’insetto al
proprio viso per sussurrare delle parole. Fu quel gesto a trasformare il senso d’ilarità dei curiosi
alunni da divertimento a timore. Credo che per tutti quella divenisse la conferma che Demetrio non era
completamente normale e forse, fu in quel momento che per me cominciarono a cambiare le cose.
Fu lì che probabilmente ebbe inizio il mio tradimento verso me stesso.
Io non vedevo stranezze in lui ma più precisamente una similitudine con quel mio modo di pensare e di
pormi tutte quelle domande sull’origine della nostra natura.
Allora quelle parole sussurrate, le ritenni espressioni di perdono, ma oggi, le valuterei in un modo
diverso. Parole che volevano rimandare ad un ringraziamento del quale, se non mi fossi lasciato
intimorire e avessi azzardato a domandargli delucidazioni, avrei anche saputo comprenderne il
riferimento.
Ma intorno a me si stava manifestando la realtà del pensiero esteriore, quello in cui cominci a
percepire l’insidia malevola di chi ti osserva e giudica, e quegli umori, divisi tra il timore e la
canzonatura che infine conducevano ad un'unica risoluzione, realizzavano in me la consapevolezza che
la diversità poteva generare problemi e condizioni che io non ero pronto ad accettare e in quell’unirmi
alla massa di curiosi, cominciai a contaminare e imbrogliare la mia natura.
Ad ogni modo Demetrio fu richiamato dal preside stesso e obbligato a chiedere scusa all’insegnate.
Era stata una sfida entusiasmante e ricordo molto bene quel che disse.
“Io non ho commesso nessun delitto. Lei invece sì” aveva detto indicando l’insegnate. Era stato
punito per questo e da allora gli era stato proibito di recarsi in giardino. Da quel giorno aveva smesso
di comunicare con gli insegnanti, limitandosi a rispondere alle interrogazioni o alle domande
riguardanti le lezioni, prendendo le distanze da tutto ciò che rappresentava una qualsiasi forma di
autorità. Non fosse stato per il suo leale rispetto delle regole e delle leggi, lo si sarebbe potuto definire
un anarchico.
Era evidente ad ogni modo già da allora, che il suo futuro a Casterba non sarebbe stato dei più
solari. Dopo quell’episodio la sua reputazione d’ambiguo era aumentata e non poche erano le
occasioni in cui i coetanei trovavano modo di schernirlo.
Eppure, quando tornò, dopo venti anni di esilio, tutto il paese, o quello che ne restava, si radunò per
festeggiarlo.
Fu un grande evento, uno di quelli che scuotono la monotonia dello scorrere del tempo dall’inerzia
dell’invariabilità quotidiana. Uno di quegli eventi che non tutti i piccoli paesi possono immaginare di
poter sfruttare e nel quale anche un indigeno si sente fiero di essere parte di una comunità che può
vantare tra i suoi generati una celebrità. Uno di quegli eventi per cui un comune dalle poche risorse,
diventa disposto perfino a investire denaro. Ma si trattava di un’occasione per mostrarsi al mondo, o
per lo meno a quella piccola parte di mondo che per Casterba rappresentava una conquista. A
documentare la grande manifestazione, infatti, che in realtà non era altro che un comitato di
bentornato incorniciato dalle musiche eseguite dalla piccola banda del paese, abbellito dalla
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partecipazione della giunta comunale che dispensava discorsi di encomio e concluso con la cena
offerta dall’unico ristorante del paese, vi erano le telecamere delle emittenti televisive locali che
avrebbero contribuito alla breve notorietà di Casterba, con la speranza che fosse solo il principio.
Nel discorso di presentazione tenuto dal sindaco, infatti, era emersa la possibilità che l’ospite tornato
dal passato fosse disposto a collaborare con il suo particolare contributo alla stesura di un libro
documentaristico e storico riguardante Casterba e le zone limitrofe. Un progetto che, pensavo io,
doveva essere stato improvvisato in tempi recenti, ideato dall’illuminazione che potersi avallare di un
nome tanto prestigioso non poteva che portare benefici. Così Demetrio era stato subito ingaggiato e
sembrava pure che lui stesso si fosse reso disponibile. In effetti il suo non doveva essere un impegno
così complesso. Si sarebbe occupato della parte fotografica, immortalando nelle immagini che avrebbe
realizzato, i più suggestivi luoghi della zona.
Sì, perché era di fotografia che Demetrio si occupava ed era attraverso questa sua arte che ora
veniva riconosciuto come un figlio di Casterba e festeggiato come colui che era stato un tempo ospitato
dai generosi cittadini di quel territorio che gli aveva dato l’opportunità di scoprirsi così talentuoso. Il
suo successo, in parte, era da attribuire a Casterba, o almeno così dovevano ritenere i suoi illustri
abitanti perché, nel bene e nel male, erano stati loro a spingerlo verso la scoperta della fotografia,
consegnandogli parte di quelle qualità che, come un antico sùmbolon, erano rimaste ritualmente
custodite nella memoria del territorio. Ora, se lui poteva ritenersi degno di quell’ospitalità, era
proprio attraverso quella metà che aveva portato con sé e che tornava ad unire alla metà lasciata in
quella memoria collettiva che, non fosse per la notorietà conseguita, di quel frammento non avrebbe
avuto ricordo.
Era come se Casterba, con i suoi insegnanti severi e con la sua ristretta mentalità in cui un
professore poteva permettersi di dire che un giovane figlio d’agricoltori non aveva altro futuro davanti
a sé che quello del lavorare nella campagna, si ritenesse fautore del suo successo. Come se tali
comportamenti avessero scatenato nel figliol prodigo la reazione nella quale era emerso il desiderio di
esprimere quanto forte potesse essere la volontà di dimostrare a tutti quanto si sbagliavano.
In queste, che potevano essere comunque elucubrazioni involontarie, Casterba ometteva di
considerare le antiche origini dell’ospitalità, e accogliendo Demetrio come un ospite ignorava i vincoli
cui inviavano.
A tal proposito, i ricordi del passato mi portarono alla memoria una lezione dei tempi del liceo
classico, quando la docente di letteratura, in una lezione sull’Iliade, aveva raccontato di un
particolare poco conosciuto ai meno esperti del mondo classico, in cui si evidenziava come accogliere
un ospite nella propria casa non rientrasse tra le cortesie occasionali. Tale condizione, aveva spiegato,
implicava l’instaurarsi di un legame indissolubile, regolato da una serie di diritti e doveri molto rigidi,
primo tra tutti il dovere di non uccidere, offendere o ledere in alcun modo il proprio ospite, col quale si
restava in xenìa per tutta la vita, termine che nel mondo greco riassumeva appunto il concetto
dell’ospitalità e dei rapporti tra ospite e ospitante che si reggevano su un sistema di prescrizioni e
consuetudini non scritte ma riassunte in tre specifiche regole di base: il rispetto del padrone di casa
verso l’ospite; il rispetto dell’ospite verso il padrone di casa; la consegna di un “regalo d’addio”
all’ospite da parte dell’ospitante. Tradotto in questo senso, si poteva dire che ogni regola stava per
essere rispettata: Demetrio tornava non più come cittadino di Casterba, ma come ospite; Casterba lo
onorava con il rispetto dovuto all’ospite; Demetrio ricambiava l’ospitalità dimostrando il suo rispetto
offrendo i suoi servigi; e la fotografia infine, rappresentava quel regalo, ossia quel sùmbolon di
riconoscimento.
Ciò che si ignorava era che quel ritorno implicava un nuovo vincolo, perché Demetrio era già stato
ospite un tempo di Casterba, e quel sùmbolon con cui era partito, avrebbe dovuto, in caso di nuova
partenza, essere sostituito con un nuovo sùmbolon, e sotto questo aspetto, per i servigi resi dall’ospite,
evidentemente a Casterba nessuno considerava ciò che in cambio questo nuovo vincolo implicava.
…Conclusi la lettura del secondo capitolo e guardai Felona: -Che ne pensi?- le domandai. Lei stava
ragionando in modo analitico e forse stava già tracciando un profilo del possibile paziente.
-È interessante il suo riferimento al sùmbolon e allo specifico modo di descriverlo. È evidente che hai
a che fare con qualcuno che parla attraverso un codice- commentò.
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-Questo l’avevo capito- risposi -ossia, avevo capito che dovevo valutare il concetto di un enigma
nascosto tra le righe. Io però non sono un esperto di simboli e, sinceramente, non avrei valutato la cosa
da questo punto di vista. Tu ne deduci qualcosa?Mi guardò contrariata -i simboli sono un elemento fondamentale in psicologia e ti consiglio da questo
momento di fare molta attenzione a ogni riferimento di questo genere. Tu lo definisci un romanzo di
bassa qualità, ma in realtà questo individuo non voleva scrivere nessun romanzo, e comunque non
sarebbe poi così di bassa qualità visto i contenuti. Forse tecnicamente, ma non per i contenuti. Vedi,
quando si riferisce al “giardino” per esempio, parla del paradiso terrestre comune a molte tradizioni
religiose e in particolare a quello biblico. L’uscita dal giardino sta a significare quando si comincia a
prendere coscienza di sé. Il passaggio dalla nudità a quello del coprirsi indica il momento in cui il
bambino comincia ad avere cognizione del suo essere, a quel punto è come se il tempo cominciasse a
scorrere e quando il tempo comincia a scorrere non si può più tornare indietro, ecco il perché del
riferimento all’uscita dal giardino. Nella Bibbia un Cherubino viene posto alle porte dell’Eden con due
spade fiammeggianti a impedire che chi ne esce possa rientrare, semplicemente perché lo scorrere del
tempo non può essere interrotto- spiegò.
-Interessante- commentai io con una superficiale noia -ma questo in che modo potrebbe aiutarmi?Lei era assorta nei suoi ragionamenti e non notò la mia deconcentrazione, elemento che avrebbe dovuto
farmi considerare la serietà con cui analizzava ciò che a me appariva ancora un’astrusa assurdità e, nel
mio carattere presuntuoso, nemmeno tanto involontariamente tornai ad osservare l’improvvisata
assistente sotto l’aspetto fisico, distraendomi ad osservarle le gambe limitatamente coperte dal mini
abito che poco lasciava alla fantasia e quasi non l’ascoltai mentre proseguiva.
-È evidente che lo scrittore fa riferimento ad un periodo preciso. Il simbolismo dell’uscita dal giardino
o paradiso, come lo si vuole intendere, indica un momento cruciale. Un momento in cui una qualche
convinzione, una qualche condizione o una qualche certezza è venuta a mancare e costui si è trovato a
dover affrontare una nuova realtà-.
-La realtà di non sapere se essere reale- dissi istintivamente destandola dalla sua meditazione e
lasciandomi sorprendere nella mia esplorazione. Nell’attimo d’esitante silenzio mi osservò con
disapprovazione e io provai un senso di smarrimento, intuendo che quel rapporto non ancora ben
definito stava subendo un’inopportuna risoluzione.
-Sì, è possibile- rispose indignata.
Imbarazzato cercai di trovare una scusa plausibile, ma la classica frase “non è come pensi” mi
sembrava del tutto fuori luogo e, non trovando altre soluzioni, cercai di distrarla mostrando nuovo
interesse per le sue valutazioni.
-E del resto che mi dici?- cercai di incoraggiarla ad approfondire le sue deduzioni. Ma il danno ormai
era fatto e ora lei sembrava più interessata al mio atteggiamento indecoroso e immaturo piuttosto che al
testo dall’attraente potenziale simbolico.
-Non molto. Esclusa la parte simbolica sembra una normale storia autobiografica, come dici tu, un
diario- si limitò a rispondere, sorvolando con fatica.
Le proposi un sorriso conciliante -tutto qui? Non puoi aggiungere altro?-E che cosa pretendi? Lui non è mica un mio paziente e questa non è la mia indagine- guardò
l’orologio con evidente irritazione -adesso devo proprio andare- annunciò poi, ma sembrò dirlo solo per
evitare di pronunciare qualcos’altro.
-Ehi no, aspetta un momento. Non puoi lasciarmi qui in questo modo. Se già ero confuso prima adesso
come pensi che stia? Ho bisogno del tuo aiuto per scoprire chi è questo pazzo- mi sentii
improvvisamente spaventato e disorientato come chi viene abbandonato in una città che non conosce.
-Ma non hai detto che non avevi ricevuto nessuna richiesta di indagine?- obiettò lei, mantenendo la
sua indignazione.
-Sì, ma ormai l’indagine è già avviata e poi, è sottointeso che chi paga vuole in cambio qualcosa-.
Lei mi fissò con perfido divertimento.
-Vero. Triste ma vero- sorrise e prendendo la sua borsa si avviò verso la porta.
-Ehi no, aspetta. Io non sono in grado di decifrare quei… simboli come li chiami tu-.
-E certo non li decifrerai sbirciando sotto la mia gonna- disse finalmente sfogando il suo disappunto,
e io in un certo senso ne fui felice.
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-Senti mi dispiace- dissi con tono sincero, ma ancora incapace di controllare la mia boriosa natura,
non riuscii a sfruttare l’occasione che mi veniva offerta per risolvere in mio favore l’ottusità che già mi
aveva compromesso -non però che quel vestito mi dia molte vie di scampo- malignai senza rendermene
conto e, quando me ne pentii, era già troppo tardi.
-Mi dispiace, ma io ho un lavoro serio e non posso perdere tempo con uno che teme di impegnarsi
oltre un interesse istintivo e il dattiloscritto di uno sconosciuto-.
-Ma che significa? Andiamo, credevo che la cosa ti entusiasmasse-.
-In effetti sì- ammise già sulla porta -ma credevo che la cosa avesse una certa importanza anche per
te-. La guardai incerto se il riferimento fosse al manoscritto o a quello che c’era stato tra noi e
nell’incertezza cercai di prendere le redini della situazione con goliardia.
-E dai, non vorrai veramente rinunciare per una così banale stupidaggine. Sei una donna attraente, che
un uomo ti rivolga certi interessi dovrebbe gratificarti-.
-Solo quando l’uomo in questione non è un imbecille- la sentii rispondere e senza irritarmi ammisi a
me stesso che me lo ero meritato.
-E va bene, sono un imbecille e ti chiedo scusa. Non mi comporterò mai più in maniera scortese. Ma ti
chiedo di capire che non posso sopprimere certi istinti-. Mi morsi la lingua maledicendo troppo tardi il
mio stupido orgoglio maschilista.
-Mi sorprende che i tuoi istinti ti permettano di risolvere i casi di cui ti occupi-.
-Beh, non puoi paragonarti a donne attempate deluse e ormai avvizzite- pensai di averne detta una
giusta finalmente ma evidentemente, ciò che pensavo io non si accordava con l’ideologia dell’universo
femminile.
-Una donna è sempre una donna, giovane, vecchia, avvizzita o appariscente- replicò decisamente
contrariata.
-Devo andare- disse quindi, più rassegnata che convinta -io ho un lavoro, e di responsabilità- si
espresse in modo spregiativo con evidente riferimento al mio di lavoro, ma a quel punto pensai di poter
riprendere il controllo.
-Sì, hai un lavoro di responsabilità- l’incalzai -e se non te ne sei dimenticata, io sono un tuo pazientedissi mascherando la disperazione in un surrogato di convinzione.
-Allora prenota un appuntamento, questo è il mio biglietto da visita- lasciò un tagliando vicino alla
porta e rapidamente uscì lasciandomi incredulo a fissare il vuoto: “da non crederci” dissi tra me e,
dimenticando che era ora di pranzo, osservai di nuovo il dattiloscritto e quasi stregato, ripresi a leggere:
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L’ospitalità perduta
“…Per i motivi descritti, la fotografia, per il momento, poteva essere considerata l’oggetto di quel
sùmbolon spezzato che ora tornava a congiungersi con la comunità del paese. A dodici anni, infatti,
Demetrio aveva ricevuto in regalo dal padre, che aveva intuito da molto tempo che il figlio non era
destinato ad imitarlo nel lavoro agricolo, una macchina fotografica. Niente di speciale, una compatta
con mirino oculare per inquadrare il soggetto e un tasto per scattare la foto che regolava da sé messa
a fuoco e tempi d’esposizione. Era però quanto di più un agricoltore, che non fosse mio padre, poteva
permettersi a Casterba. Pietro Dilago possedeva poche decine d’ettari di terra, che in un futuro non
molto lontano sarebbero passate nelle proprietà di mio padre che invece controllava la gran parte dei
possedimenti agricoli che si espandevano anche oltre i confini del paese. Quel regalo però fu l’avvento
che cambiò la vita di Demetrio e che l’avrebbe avviato verso la notorietà che nel tempo presente
sarebbe stata festeggiata da quasi tutto il paese. E fu una bella festa.
Demetrio era stato trattenuto per quasi tutta la manifestazione da esponenti più o meno noti della
politica e della cultura locale, ma durante la conclusiva cena al ristorante, le prestigiose pietanze,
avevano lentamente distratto l’attenzione dall’artista, e finalmente Demetrio era stato disponibile
anche per i meno facoltosi.
Non che io potessi ritenermi una persona comune a Casterba. Avevo ereditato il patrimonio di
famiglia e ora gestivo l’impero di mio padre ed ero, a livello provinciale, anche più noto di Demetrio.
Tuttavia, qualcosa che mi portavo dentro ancora da quegli anni d’infanzia, mi rendeva più vicino ad
un’umiltà che non sapevo interpretare ma che mi impediva di pavoneggiarmi e reputarmi al di sopra
dei miei compaesani. Così in quell’occasione che aveva avuto il potere di riunirci tutti dopo tanti anni,
io mi ero aggregato ai vecchi compagni e amici dell’infanzia, radunati assieme ad un unico tavolo.
Presumo nessuno dei vecchi compagni avesse notato l’inquietudine che mi rendeva nervoso.
Apparivamo, chi più chi meno, tutti spensierati e, per una sera, distratti dai quotidiani problemi. Ma
io, che tra tutti ero certamente considerato quello che di problemi non doveva proprio averne, sentivo
una certa agitazione nel tornare ad incontrare quell’amico che più di ogni altro, potevo definire:
“Amico”. Ma qualcosa mi tormentava e non capivo, o forse non volevo considerare, che quel ritorno
portava con sé vecchie vicende del passato. Memorie che al momento non apparivano così rilevanti,
ma che proprio in quella irrilevanza manifestavano la realtà di essere state per troppo tempo ignorate
e sepolte in una parte della mente lasciata incolta. Ma come da ogni seme sepolto, prima o poi si
sarebbe generato un frutto… e il passato di ognuno è carico di semi sepolti.
Sempre per una considerazione che non si riesce mai ad esaminare nell’immediato, quella vecchia
lezione sull’ospitalità tornava ad aleggiare nella mia memoria. Era stata molto efficace l’inventiva
dell’insegnate nel trovare spunto in quella storia tratta dall’Iliade in cui veniva narrato lo scontro tra
uno dei più potenti ma forse meno noti guerrieri del poema. Un guerriero che tra i greci si distingueva
per il suo furore in battaglia: Diomede, figlio di Tideo che seminava morte tra i nemici arrivando
perfino a ferire gli dei Afrodite e Ares accorsi in aiuto dei troiani. Il poema raccontava che ad
affrontarlo in campo era sceso Glauco figlio di Ippoloco, desideroso di sfidare il più forte tra gli
avversari. Ma quello scontro avrebbe avuto un esito del tutto inatteso e, anziché concludersi con un
epica lotta, si sarebbe risolto in un celebre dialogo. L’abile insegnante aveva una rara qualità retorica
che sapeva usare sapientemente per attirare l’attenzione degli studenti e quando descriveva la lezione
quasi sembrava recitare dando inizio all’interpretazione in modo sempre enfatico e appariscente.
Aveva esordito con queste parole “Sarebbe stato Diomede il primo a parlare”, per introdurre la
lezione che attraverso l’Iliade ci avrebbe condotti a comprendere il significato del termine
“Sùmbolon”, proseguendo nella sua interpretazione, aggiungendo all’enfasi la gesticolazione delle
mani e l’espressività del viso proprio come un attore “chiedendo chi fosse mai quel valoroso guerriero
visto mai prima nella battaglia gloriosa e che adesso superava tutti in coraggio: E’ figlio di un padre
infelice chi affronta il mio furore, se sei qualche dio venuto qui dal cielo non voglio combattere contro
gli dei celesti ma se tu sei dei mortali che mangiano ciò che produce la terra, avvicinati e subito
toccherai il confine di morte”. Aveva declamato, simulando la propria personale interpretazione
dell’eroe greco.
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“Magnanimo figlio di Tideo, era stata la risposta di Glauco, perché domandi della mia stirpe? Com’è
la stirpe delle foglie così è quella degli uomini. Le foglie il vento le riversa per terra e altre le salva e
fiorendo ne genera quando torna la primavera, così la stirpe degli uomini l’una cresce e l’altra
declina, però se tu vuoi, puoi conoscer bene la nostra stirpe, la conoscono in molti.”
Ora, a distanza di tanti anni, posso apprezzare l’efficacia delle sue interpretazioni riconoscendo
come quelle lezioni siano rimaste impresse nella mia mente al punto di poter ricordare addirittura i
passi del poema .
“E a questo punto il racconto di Glauco deviava sui ricordi” proseguiva l’abile insegnante
“riferendo le fasi salienti delle vicende della propria famiglia, soffermandosi in modo particolare
sull’antenato più nobile della sua stirpe, ossia, Bellerofonte, di cui raccontava di quando Antea,
moglie del re di Argo, innamoratasi dell’eroe gli proponeva di unirsi a lui di nascosto dal marito. Ma
Bellerofonte, nobile e leale rifiutava. Allora la donna, sentitasi respinta, ideava la sua vendetta
attribuendo al giovane proprio la colpa che non aveva commesso, accusandolo di aver cercato di farle
violenza e chiedendo vendetta al marito. A questo punto, Proetos avrebbe affidato all’eroe una
tavoletta da consegnare al re Iobates, suo suocero, contenente nel messaggio la richiesta di uccidere
Bellerofonte. Ma quando Bellerofonte aveva raggiunto Iobates, il re lo aveva festeggiato con un
banchetto per nove giorni, e solo dopo avergli conferito questa accoglienza aveva letto il messaggio.
Solo allora, scoprendo che doveva uccidere il suo ospite, rispettoso delle regole dell’ospitalità
decideva di imporre a Bellerofonte il compito di annientare la terribile chimera. Questo perché Iobates
era nell’assoluta impossibilità di uccidere l’ospite, macchiarsi del sangue di colui con il quale si era
condiviso il cibo, avrebbe costituito la più grave delle empietà. Udito il nome di Bellerofonte e il
racconto delle sue vicende, Diomede aveva piantato la lancia al suolo in segno di rinuncia a
combattere contro chi non riconosceva più come avversario ma come un ospite antico, perché tramite
il racconto della sua discendenza, Diomede aveva potuto ricordare che suo nonno Eneo aveva un
giorno ospitato proprio il nonno di Glauco.
La xenìa, aveva a quel punto spiegato, linfa che scorre attraverso le generazioni, era per gli antichi
greci una realtà geneticamente trasmissibile che durava al di là della vita dei singoli e vincolava le
loro discendenze, pur senza essersi mai incontrati né tanto meno ospitati, Glauco e Diomede così si
riconoscevano sotto tale vincolo, ossia congiunti dal rapporto dell’ospitalità attraverso quel legame
che aveva unito i loro antenati. Il ricordo dell’ospitalità che aveva legato Eneo a Bellerofonte era vivo
nella memoria di Diomede grazie ad una coppa d’oro che egli possedeva ancora nella sua casa di
Argo e gli stessi Glauco e Diomede stabilivano così di risaldare l’antico legame con un nuovo scambio
avvenuto proprio sul campo di battaglia, monito e testimonianza per i due eserciti che avevano avuto
l’opportunità di apprendere che oltre alla banalità del male e alla necessità del dare la morte, poteva
anche esserci un’alternativa al non combattersi.
Questo era quanto avevo appreso in quei lontani tempi, ma poca importanza gli avevo attribuito,
senza valutare che così, in un tempo successivo avrei potuto rivelare come la coscienza umana
prevarica la saggezza divina e, succube di un vincolo d’orgoglio, percepisce nel proprio animo la
condizione del dialogo e del confronto pacifico come una debolezza, preferendo dare dimostrazione
della propria superiorità non con l’intelligenza ma con la forza bruta, avvicinandosi in somiglianza
più all’istinto bestiale che all’intelletto di cui tanto si fa vanto.
Ancora non comprendevo in che modo quel ricordo avrebbe dovuto farmi capire ciò che si stava
smuovendo in me e, nella mia agitata condizione in cui ancora prevaleva l’orgoglio di sentirmi
moralmente giusto, tramutavo i due guerrieri dell’Iliade in me stesso e Demetrio, come se percepissi
nel mio profondo un conflitto. Ma se nell’Iliade quel conflitto si era concluso con la tregua e il rispetto
tra i due, nella realtà della mia condizione io percepivo come se si stesse tramutando in una sorta di
estensione dove i due combattenti tornavano dal regno di Ade per concludere ciò che avevano lasciato
in sospeso attraverso una serie di rinascite che vedevano concludere il loro ciclo tramite me e
Demetrio.
Non so per quale ragione provassi tale sensazione, ma era come se percepissi che l’amicizia con
Demetrio si stesse manifestando per ciò che veramente era, o per ciò che io cominciavo a temere che
fosse: uno scontro del quale non avevo cognizione. Io ero Diomede e Demetrio era Glauco che, dopo
aver atteso che le famigerate regole dell’ospitalità si perdessero dalla memoria degli uomini, tornava
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a sfidarmi per dare conclusione all’epico scontro. Uno scontro che si combatteva con armi diverse, ma
che, nella mia rianimata immaginazione, aveva avuto origine molto prima.
Era successo qualcosa negli anni che avevano preceduto la sua partenza. Qualcosa che aveva avuto
la capacità di trasformare le nostre vite. Ma tutto ciò poteva essere facilmente giustificabile nel
passaggio del tempo, nel cambiamento di età e nella comprensione di certe responsabilità, eppure, era
come se io mi stessi convincendo che in qualche modo, il corso della mia vita avesse subito una
deviazione nella quale mi ero perso qualcosa. Ciononostante non avevo ragione di ritenere che la mia
vita fosse scorretta o che in essa vi fosse qualcosa da rimpiangere. Semplicemente, avevo realizzato ciò
che era mio dovere ed ero diventato l’adulto che dovevo essere. Ma qualcosa sembrava turbare
quell’equilibrio che mai prima d’ora avevo messo in discussione e fu per non so quale motivo che, nel
riavvicinarmi ai ricordi del passato lontano, cominciai a vedere in Demetrio una figura che aveva
avuto un ruolo predominante in quello che sarebbe stato il mio futuro, con tutto ciò che ne sarebbe
risultato dagli eventi seguenti e per questo il suo ritorno, più che gioia, mi generava una sensazione
più vicino al tormento.
C’era qualcosa nel passato che doveva essere rimasto in sospeso. Qualcosa che doveva concludersi,
ed era per questo, credevo, che Demetrio era tornato; ed era successivamente per questo che, come
Diomede, lo vedevo come l’avversario non combattuto ma accettato, solo perchè con lui si era
instaurato un legame che tra noi esisteva fin dall’età infantile ma che ora, pareva non dover più
sussistere perché il sùmbolon, non aveva più essenza. L’ospitalità era diventata ormai una cortesia
ridotta ad un interesse superficiale, e come ogni cosa iniziata, doveva avere un termine. Diomede e
Glauco avevano uno scontro in atto mai concluso e adesso, forse, era giunto il momento di portarlo al
termine, poiché, come aveva detto lo stesso Demetrio un tempo, ogni simbolo è una rivelazione che va
interpretato, compreso e concluso.
Avevo iniziato nell’assoluta indifferenza ma ora cominciavo a sentirmi sempre più coinvolto e quasi
paranoico giacché, senza capirne bene il motivo, stavo iniziando a pensare che perfino l’intervento
imprevisto di Felona aveva un senso.
Forse volevo semplicemente crearmi una condizione che mi permettesse di riallacciare un legame con
la fascinosa donna, giustificai nella mia mente, e il dattiloscritto poteva essere un espediente, ma
qualunque fosse la ragione con cui cercavo di giustificare la necessità di continuare ad occuparmi
dell’indagine, non riuscivo ad impedirmi di percepire, più che una curiosità, una necessità e,
nell’assurdità delle mie legittimazioni, come un principiante mi sentii intrappolato in qualcosa che
andava oltre ciò che mai avrei pensato di poter considerare: indagare su qualcosa che non esisteva.
Tutto ciò, per uno come me, era e doveva restare assurdo e, con ciò che si manifestava in un sorriso, la
mia mente razionale impiegò pochi secondi a farmi percepire il rischio di avventate supposizioni, così,
adeguando il mio raziocinio, imposi a me stesso un autorevole superficialità e gettando con noncuranza
i fogli sulla scrivania come non avessero alcuna rilevanza, mi obbligai a non lasciarmi coinvolgere
oltre, di finire la lettura come previsto dal fantomatico accordo e dimenticare tutto non appena conclusa
l’ultima riga.
Cercai quindi di riposare con serenità… ma nonostante gli sforzi, la mia tranquillità era stata corrotta
e l’indomani potei constatare come l’ansia non concedeva spazi alla distensione mentre l’illogico
documento continuava a perseguitare i miei pensieri.
Era già sera quando presi il cellulare e osservando il biglietto da visita digitai il numero di telefono.
Sentii più volte squillare e quando cominciavo ad imprecare pensando che tra non molto avrei sentito
una voce registrata avvisarmi che il telefono della persona ricercata era spento o irraggiungibile,
finalmente la voce familiare rispose: -Pronto?- sentii dire.
-Chi sono Diomede e Glauco e cosa c’entrano con la storia dei simboli?- dissi senza nemmeno
identificarmi, con una velocità logorroica nella quale le parole parevano superare il pensiero. Sentii il
classico silenzio imbarazzato di chi cerca di capire da che cosa sia stato travolto, poi giunse la risposta,
ma non fu certo quella che mi aspettavo.
-Sei in crisi vero?-Non ho voglia di scherzare. Tu mi hai incasinato con questa storia dei simboli e ora mi ritrovo a
dover capire perché mai mi s’introducano degli estranei in una vicenda che non ha alcun senso- risposi
irritato.
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-Per te ovviamente sono estranei, ma non certo per lo scrittore-.
-Non psicanalizzare per telefono, io ho bisogno di capire…-Come paziente o come privato?-Non metterti a fare domande ridicole…-Vieni da me tra mezz’ora- disse allora non lasciandomi nemmeno il tempo di valutare perché mai
avesse ceduto così rapidamente.
-Al tuo studio intendi?- non osai rischiare di innervosirla.
-No, sono già a casa- mi dettò l’indirizzo e per un certo tempo restai interdetto, incapace di capire se
la giovane psicologa stava cercando di adescarmi o se fosse veramente interessata ad aiutarmi
nell’assurda indagine.
Quando arrivai da lei mi trovai accolto da una donna che non sembrava più di una ragazza, il che mi
disorientò ancor di più nel giudizio che potevo avere su di lei. L’avevo vista in tenuta sportiva, in
tenuta professionale e ora in quella informale, con jeans, sandali e maglietta bianca, e delle tre non
sapevo quale mi attraesse di più. Mi trovai disorientato, prima dall’aspetto confidenziale, mentre ciò
che mi ero aspettato era una condizione che la contraddistinguesse per quello che era, ossia una
dottoressa, poi per la semplicità del suo appartamento, che non assomigliava affatto a come
presupponevo dovesse essere un appartamento da psicologi. L’arredamento era oltre il limite del
minimalismo, non fosse stato per un angolo cucina dove un pensile fungeva da tavolo per il pranzo o la
cena, la casa era totalmente spoglia. Immaginai che almeno il bagno dovesse essere completo degli
arredi e pensai a come fosse la camera da letto, poi i miei pensieri furono interrotti dalla sua
esortazione a seguirla. Passando attraverso una sala completamente vuota la vidi avviarsi verso una
porta e un sottile ironico pensiero mi condusse a credere che stavo per scoprire quella stanza che
pensavo non mi avrebbe mai fatto visitare.
E in effetti era così.
Dietro la porta mi si presentò una sorta d’ambulatorio arredato con una scrivania, una poltrona e un
lettino, il tutto oscurato da una luce soffusa che doveva avere presumibilmente lo scopo di rilassare.
Sulla parete dietro la scrivania vi era l’unico tocco che alludeva alla sua professione, una libreria con
molti volumi messi in ordine che non mi preoccupai di esaminare. Restai invece ad osservare il suo
comportamento con evidente imbarazzo e avversione.
-Stai scherzando- le dissi osservandola sedersi sulla poltroncina. Lei mi guardò con sorpresa
allargando le mani in segno d’incomprensione. Cercai di controllare l’orgoglio che mi faceva pensare
d’essere ridicolo.
-Non vorrai veramente che mi metta lì- indicai il lettino.
Lei restò nel suo disinteresse.
-Come vedi non ho molti posti in cui farti accomodare, ma puoi restare in piedi se preferisci. Molti
pazienti lo fanno, li fa sentire più normali-.
La guardai e questa volta non riuscii a controllarmi -ehi, io non sono matto-.
-Nessuno lo è. O almeno nessuno lo è nella propria regolarità. È l’idea del distendersi che fa scattare
quella sorta di pregiudizio, e comunque, se ti può servire uno psicologo non cura i matti. Ad ogni modo
io non ho tempo da perdere e tu nemmeno visto che la visita la devi pagare, quindi fa un po’ come
vuoi, puoi parlare stando in piedi o rilassarti sul divano. Oppure, se la cosa t’infastidisce, te ne puoi
andare-.
Per un momento provai il desiderio di strozzarla.
-Io ti pago per assicurarmi il segreto professionale, non per farmi analizzare-.
-Vedila un po’ come vuoi. Tu per me resti un paziente e se accetto denaro è solo per questa ragione. E
ora se vuoi procedere… paziente- aggiunse l’aggettivo con sottile ironia. La guardai con aria di sfida
quasi convinto a lasciar perdere e andarmene via, ma se lo avessi fatto avrei perso l’unica possibilità di
andare oltre qualcosa che non riuscivo a comprendere e nel rilassarmi sentii il bollore dell’orgoglio
ridursi, così quando mi distesi sul divano lo feci con un sorriso più vicino al divertimento che alla
rassegnazione, ma non sapendo come funzionasse una terapia, restai in silenzio.
-Allora?- domandò dopo un po’ lei.
-Allora cosa?- dissi io.
-Allora parla, o te lo sei scordato? Il paziente parla lo psicologo ascolta-.
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Alzai lo sguardo e la fissai come a chiedere se mi stava prendendo in giro, poi compresi che non aveva
senso continuare a sfidarla, era evidente che su quel terreno non avrei mai potuto batterla.
-Voglio sapere di Glauco e Diomede. Il misterioso scrittore ne parla nel seguito del suo bizzarro
racconto-.
-In che termini?- domandò.
Mi sentii preso in giro, ma più che da lei dalla mia stupidità. Non ricordavo certo tutto il testo scritto
ma comprendevo che la sua domanda era plausibile.
-Non so, non ricordo bene. Parla d’ospitalità e altre stupidaggini dell’antica Grecia- dissi irritato.
-Non mi stupisce- iniziò allora lei -l’episodio omerico di Glauco e Diomede è uno dei più importanti
per comprendere il concetto d’ospitalità presso gli antichi greci. I due si scontrano sul campo di guerra
ma scoperto un antico legame di ospitalità rifiutano di combattersi e si scambiano le armi per risaldare
l’antico legame. È un'altra rappresentazione di simbologia-.
-Sì, descrive anche questo, ma cosa c’entra col resto?- non riuscii a nascondere la mia ansia.
-Non saprei, non aggiunge molto a quello che già abbiamo letto-.
-No, lui descrive i suoi ricordi relativi a questo episodio dell’Iliade e poi aggiunge di avere la
sensazione che i due guerrieri siano tornati a combattersi. Ora che il concetto d’ospitalità si è perduto
dalla memoria degli uomini i due guerrieri possono portare a termine quello scontro mai avvenuto e
secondo questo folle, lui e il suo amico sono la reincarnazione di Glauco e Diomede-.
La dottoressa mi guardò pensierosa.
-Decisamente interessante questo individuo- commentò -è ovvio che è afflitto da un senso di colpa,
ma per una qualche ragione non sa di che cosa si tratta-.
-Che vuoi dire?-Solitamente i sensi di colpa vengono repressi, nascosti fino al punto da essere dimenticati. Quando
ciò avviene la condizione psichica del soggetto diventa distruttiva. Tuttavia, per quanto il soggetto si
sforzi di nascondere a se stesso la realtà, lui è ben consapevole di quale sia la condizione generativa del
senso di colpa. Qui però, sembra che il nostro soggetto non abbia compreso l’origine del suo malessere
che viene denotato nel tirare in ballo il concetto di vite precedenti. La confusione o la disperazione lo
conduce a rintanarsi in concetti indimostrabili, così come quando nelle difficoltà uno che mai ha
creduto in certe astrazioni si rintana nella preghiera, lui rigetta le sue colpe in tempi che non crede
veramente di aver vissuto, ossia, le vite precedenti, e forse è proprio per questo che vuole che tu
indaghi-.
-Ma che follia è mai questa? Su cosa dovrei indagare? Sui viaggi nel tempo? E poi, su chi dovrei
indagare?-Magari se continui a leggere puoi capirne qualcosa di più-.
Sospirai -non ho portato con me il documento-.
Lei allargò le braccia -non so che dirti-.
-Non posso continuare a leggere e poi venirtelo a raccontare, non c’è un'altra soluzione?-Torna domani col manoscritto-.
-Non riuscirò ad impedirmi di continuare a leggere quando rientrerò-.
La vidi sorridere.
-Ho il viva voce, puoi telefonare…La guardai facendole capire che la cosa non mi entusiasmava, tuttavia, dopo mezz’ora circa ero al
telefono e come un idiota leggevo ad alta voce:
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Risveglio dal letargo
“…Era stato Val ad attirarlo al nostro tavolo. Si era alzato in piedi e con la sua nota esuberanza lo
aveva chiamato ad alta voce, ma non con il nome con cui era noto al mondo, ma con quello noto a
Casterba. E fu proprio quel nome, gridato come segnale, a scuotere ancor più in me l’incompresa
agitazione.
Non so se avvenga così anche per gli orsi che vanno in letargo durante l’inverno, non so se anche
loro, ad un certo punto, sentono quel richiamo, quel segnale che come un rito li incita al risveglio. Ma
non credo che per loro sia così tormentoso come lo fu per me. Io so solo che quando si avvicinò,
qualcosa si smosse in me, come un masso che si stacca dalla cima di una montagna, rotola giù per la
valle, precipita nel fiume e ne rompe gli argini, lasciando che l’acqua esca oltre le barriere e cominci
a seguire una nuova rotta. Era come se dentro di me, la foresta incantata si fosse destata e tutte le sue
creature avessero ripreso a gridare. Eppure, tutte quelle entità, gli spiriti dei boschi, i signori della
foresta, le ninfe e le maranteghe dell’acqua, folletti streghe o elfi come li si volesse chiamare, non
c’erano più da tempo. Lui stesso lo aveva confermato, prima di andarsene.
Per venti anni se ne era stato in giro per il mondo a produrre, come direttore della fotografia, filmati
per documentari televisivi o fotografie per riviste naturalistiche prestigiose, creando così, giorno dopo
giorno la notorietà che lo avrebbe reso la leggenda di Casterba.
E per quegli stessi venti anni io avevo costruito la mia di notorietà, attraverso il silenzio di quegli
occultati spettatori dei boschi e dei fiumi che stavano in attesa di vedere come si sarebbe concluso
l’epico scontro che forse solo io continuavo a immaginare, e attraverso il vuoto che la sua assenza
aveva lasciato intorno a me. Niente più mormorii notturni, niente più visioni allucinogene e niente più
domande senza risposte. Solo il presente con la sua concretezza, con le sue regole, le sue morali e i
doveri di cui ogni persona razionale e responsabile avrebbe dovuto occuparsi. Semplici e naturali
disposizioni di una società che aveva bisogno di un ordine prestabilito e organizzato, dove le ideologie
di anarchia da liceale incosciente o le fantasie di un ribelle senza alcuna esperienza di vita rivelavano
tutta la loro inconscia improduttività.
Venti anni di assoluta, monotona, tranquillità. Venti anni in cui di Tommaso D’amanti ogni cittadino
di Casterba e dintorni poteva verificare ogni movimento e azione incorrotta e declamare la sua nobile
serietà. Venti anni di onorata ed eccellente reputazione costruita sull’integrità morale e sulla lealtà
sociale.
Venti anni di visibilità, mentre di lui, Demetrio, si potevano solo individuare notizie sui canali di
ricerca specializzati nel settore. Certo era noto che aveva lavorato con le più importanti riviste
mondiali come il National Geographic o il Times, si sapeva che aveva collaborato con le più grandi
equipe documentaristiche del pianeta lavorando per produttori come la BBC. Durante quella sera lui
stesso aveva raccontato di aver partecipato ad un progetto su un documentario nelle foreste
amazzoniche che lo aveva tenuto impegnato per più di due anni. Lo si poteva trovare perfino su
internet se si digitava il suo nome, ma restava comunque un nomade di cui si poteva solo costatare la
notorietà, ma di cui non si sapeva null’altro, ed era abbastanza facile comprendere come sotto i finti
entusiasmi lo si considerava dai presenti alla serata, intellettuali o no che fossero. Era l’anonimo che
aveva conquistato il mondo e che ora tornava da vincitore a riscuotere ciò che Casterba gli aveva
negato, e io sapevo che cos’era quel che cercava. Solo che le cose erano cambiate, gli anni avevano
trasformato le vite di noi tutti, e ciò che lui aveva desiderato in un tempo nel quale di Demetrio Dilago
Casterba non aveva alcuna considerazione, adesso era per lui ottenibile.
Ciò che nessuno comprendeva però, non era che quanto era tornato a riscuotere fosse il rispetto
rifiutatogli da Casterba, perchè Demetrio non cercava né gloria né vendetta, e seppure questa la si
potesse definire nobiltà, era ciò che io avrei voluto considerare, perché percepivo, in quel richiamo
che giungeva dal mio lontano letargo, che il risveglio poteva essere più traumatico di quanto potessi
immaginare…
Forse perché in tutti questi anni, Diomede, l’invincibile eroe, aveva perso parte dalla sua potenza
mentre Glauco invece aveva trascorso tutto il suo esilio ad allenarsi e a prepararsi per lo scontro
finale, per abbattere l’unico ostacolo che gli impediva di appropriarsi del suo nuovo sùmbolon e, come
colto da una paranoia maniacale, osai pensare che ogni cosa pareva essersi svolta in un modo
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premeditato, affinché si potesse giungere all’attuale condizione, come fosse stato tutto organizzato, od
occasionalmente, prestabilito.
Nei decenni che precedevano il terzo millennio, a Casterba la cultura contadina non generava molta
istruzione, o, per essere più precisi, non generava diplomati o accademici in quantità rilevante. In
tempi di abbondanza, in un paese agricolo come quello, il mondo del lavoro era considerato più nobile
di quello dello studio e questo faceva sì che tra noi giovani, pochi fossero quelli ad intraprendere
l’avventura universitaria e molti quella del lavoro. Io ero stato un privilegiato, se così mi si può
definire, con un futuro già scritto: figlio unico cresciuto sotto la guida di un padre imprenditore e
proprietario di un’azienda agricola che mi aspettava come erede. Inevitabile per me finire tra i pochi
che avrebbero intrapreso la via degli studi per divenire prima un perito agrario e poi, attraverso la
carriera universitaria, un dottore in economia e commercio. Non so quanto questa condizione abbia
influito sul mio modo di essere, non so quanto si possa definire che la mia condizione fosse un
privilegio e quanto il mio livello culturale abbia potuto influenzare il mio pensiero, resta il fatto che io
a Casterba non ero un anonimo e che a quei tempi ero certo più popolare di quanto lo fosse lui oggi.
Ma come già detto, lui per me non era mai stato anonimo. C’era sempre stato nel suo modo d’essere,
nel suo sguardo nostalgico, nel suo enigmatico silenzio, qualcosa che mi attraeve. Qualcosa che mi
impediva, al contrario dei miei coetanei, di non ignorarlo o irriderlo come fosse una sorta di anomalia
del sistema, come si direbbe oggi, un’imperfezione di configurazione nei dati naturali, o come si
sarebbe detto allora, un balordo o, con più inettitudine, uno scemo. Ma in definitiva, non c’era nulla di
anomalo in lui. Era semplicemente uno che amava starsene in disparte, e che dialogava più volentieri
con i fiumi piuttosto che con la gente. Sì, lui ascoltava i fiumi, e aveva insegnato a sentire la loro voce
anche a me. La voce dei fiumi, degli alberi, delle rocce, degli insetti e di tutti quegli abitanti del bosco
che ad un certo punto, avevano cessato di mormorare e se ne erano andati, prima di lui, o con lui…
Ecco perché adesso anch’io desideravo essere come coloro che lo vedevano solo esteriormente sotto
l’aspetto della leggenda ma che, dietro le maschere, rivelavano invidia, gelosia e disprezzo. Ecco
perchè anch’io adesso avrei preferito considerarlo come l’anomalia del sistema, così avrei potuto
continuare a vivere nella mia tranquilla pregiudiziosa ignoranza, senza dover ricordare che in tempi
passati, non solo avevo avuto concezioni strane su come potesse essere illusoria la realtà in cui
stavamo vivendo, ma che pure, di tale illusione, avevo potuto fare esperienza, e adesso, pensare che
non potevo più ignorare quel passato che con lui tornava, e con esso rischiare di dover mettere in
discussione tutto ciò per cui avevo lavorato innalzando le mie barriere mentali contro l’insidia della
follia, mi sembrava troppo insopportabile…”
Restai in silenzio ad osservare il vuoto del capitolo che si concludeva e ascoltai il leggero ronzio
dell’elettricità statica prodotta dal telefono in viva voce attendendo che dall’altra parte giungesse un
qualche segnale di vita.
-Allora, che ne pensi?- dissi dopo un po’, temendo che la psicologa si fosse addormentata. Ma quando
invece rispose infastidita, compresi come fosse contenta di poter tornare ad analizzare l’enigmatico
documento.
-Sto riflettendo- si limitò a dire e io non osai aggiungere altro prima che fosse lei a riprendere.
-Il capitolo si chiude così?- domandò dopo un po’.
-Sì. Sotto l’ultima parola vi è uno spazio bianco, poi devo voltare pagina- in quel momento sarei stato
disposto a pagare per vedere la sua espressione e me la immaginai sdraiata seria sul divano per matti,
con lo sguardo rivolto verso il soffitto e le mani che intrecciavano le dita all’altezza del mento in un
atteggiamento nervoso, come se l’intreccio stesse a significare la difficoltà di districarsi da un
ingarbugliato tormento, e per un attimo ebbi la visione di una ragnatela d’acciaio che la imprigionava.
-Questo ti dice qualcosa?- osai domandare, più per scacciare quella visione che mi procurava
inquietudine che per avere un effettivo responso.
-È piuttosto complesso. Riprende il contesto del sùmbolon, ma aggiunge elementi incostanti. Quel
riferimento al letargo rivela una sorta di stordimento relativo a qualcosa che aveva rimosso e che
costringe in un certo senso la sua mente a ricordare quasi forzatamente ciò che ha cercato di
dimenticare. Poi accenna ancora al conflitto tra Glauco e Diomede, il che continua a far pensare che
veda nell’amico un avversario. Disprezza chi lo giudicava uno scemo, forse perché lui stesso ad un
certo punto ha iniziato ad essere come loro e al tempo in cui scriveva il suo romanzo era pentito
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d’essersi confuso a essi… ma c’è quel riferimento a ciò che il misterioso fotografo è tornato a
riprendersi, qualcosa che in quei tempi non ha potuto avere e che ora invece può conquistare…-Scommetto che si tratta di una donna- ipotizzai, ma con serietà.
-Sì, per questo ho usato il termine conquistare- precisò indispettita lei -il punto è che questo Tommaso
è pervaso da un senso di colpa e il suo tentativo di scagionarsi, o di rifiutare tale colpa, lo conduce a
creare quella realtà alternativa che lo porta alla concezione di vite passate, come se cercasse di spostare
la sua colpa in un tempo di cui non ha cognizione e che di conseguenza non può essere responsabile,
ma da come descrive i fatti sembra che si senta come se avesse defraudato l’amico di qualcosa, il che lo
trattiene inevitabilmente legato al tempo presente… sebbene non dobbiamo dimenticare che il tempo
presente di cui parliamo è per noi il passato-.
-Già- confermai ricordando con superficialità che il documento faceva riferimento a tredici anni
prima.
-Forse quella donna è adesso sua moglie?- dissi tradendo la mia deformazione professionale che ormai
mi aveva abituato a decifrare i conflitti coniugali. Mi morsi la lingua pensando che il mio non era stato
un buon intervento. Se fosse stato così semplice, tutto ciò che rendeva la situazione tanto affascinante
per lei sarebbe diventata banalità e senza indugio sperai di sbagliarmi. Ora più che mai sentivo la
necessità della sua collaborazione, e non potevo permettere che le mie banalità compromettessero il
fragile rapporto che si stava nuovamente instaurando.
-È possibile- le sentii dire però, e un senso d’ansia mi colse improvviso -questo spiegherebbe perché
si sia rivolto a te, ma la cosa mi stupirebbe assai- ammise.
-Che cosa c’è sull’altro capitolo?Cercai di ironizzare per mascherare la mia ansia -non è che poi mi presenti una parcella troppo
costosa?-Non faccio terapie telefoniche- disse irritata, il che mi fece comprendere che non le importava nulla
dei soldi e che non era il caso di farla irritare con inutili stupidaggini per non rischiare di innervosirla e
indurla a mandarmi all’inferno lasciandomi così solo in quel labirinto, quindi girai il foglio e
velocemente lessi ad alta voce:
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5
La collina
“…-Allora Mage, ne avrai conosciute di donne nei tuoi viaggi…Mage era il nome con il quale era conosciuto a Casterba, e che per sua stessa ammissione non gli era
stato assegnato per caso. Per lui, nulla era un caso. Lui stesso lo avrebbe detto e seppure anche questo
sia un pensiero che riesco a valutare solo adesso, quel sopranome fa parte dei fatti della vita che, per
quanto banali o superficiali, servono a far comprendere come nulla nella storia di un uomo, o di una
donna, avvenga per caso.
Nell’agreste Casterba, nessuno praticamente era conosciuto con il suo vero nome. Tutti avevano un
nomignolo che inevitabilmente finiva per diventare il nome con cui veniva poi riconosciuto. Una sorta
di nome indiano, una specie di totem acquisito per una dote, per un gesto, per un aneddoto o per
semplice ironia. Era poi quasi inevitabile che tale epiteto subisse delle alterazioni e che infine, a causa
della pigrizia umana che limita ogni cosa, divenisse una semplice abbreviazione, e lui, malgrado la
sua notorietà, restava ancora per noi tutti, “il Mage”.
Mage, era la semplice diminuzione di Magellano, lo storico esploratore che per primo aveva
circumnavigato il globo.
Era stato grazie a lui che avevamo scoperto la collina, ovvero ciò che dalla collina si poteva fare.
Non si trattava di una vera e propria scoperta. La collina era nota agli adulti di Casterba, e altrettanto
nota era la profonda fossa che il fiume Tregnon aveva scavato nei suoi pressi attraverso la quale era
nata la leggenda della Marantega che abitava tra le sue acque. A quei tempi le acque dei fiumi erano
ancora limpide e praticabili, e a noi ragazzini piaceva fare bagni e tuffi nelle afose giornate d’estate.
L’acqua scura della fossa, poteva diventare un’invitante tentazione per marmocchi incuranti dei
possibili pericoli come eravamo noi. Così, per tenerci lontani da luoghi ritenuti pericolosi, come la
collina, ci venivano raccontate storie di pericolose e malvagie creature che abitavano nei pressi dei
medesimi posti. Storie di creature decisamente fiabesche e innaturali, che un adulto avrebbe compreso
come invenzioni ma che, alla suggestionabile mente di un bambino figlio di una cultura minore, non
ancora influenzato dall’invasione dei mostri televisivi che avrebbero tolto spazio ad ogni chimera,
prendevano la stessa equivalenza all’uomo nero che si nasconde negli armadi.
A causa di tali racconti, mai ci eravamo spinti oltre il confine della collina e nulla sapevamo di che
cosa ci fosse oltre la coltre di arbusti e roveti che la dominavano. Demetrio però era un esploratore, e
su lui le storie degli anziani non avevano lo stesso effetto che avevano sugli altri, anzi, più creavano
mistero e più divenivano attraenti.
Quando ci raccontò di aver osato andare oltre il confine che nessuno di noi azzardava superare,
eravamo ancora dei bambini suggestionabili e nessuno aveva voluto crederci. In parte per i timori
generati da quelle creature che noi consideravamo reali, in parte perché, pensare che uno sciocco
come lui potesse avere quel coraggio, era dalla maggior parte di noi inaccettabile. Fu una delle poche
volte in cui vidi emergere un orgoglio che, negli anni successivi, se avessi saputo mantenerne il
ricordo, avrei definito inusuale, non suo. Ma in fondo, era anche lui un essere umano e alla derisione
subito aveva reagito con istinto fiero e altezzoso. Era un ragazzino timido, più propenso alla fuga che
all’attacco, o almeno così sembrava, ma quel giorno si difese con ardore, quasi come se l’onore che
doveva difendere non fosse nemmeno il suo. Ma questo, lo avrei capito molto più tardi. Lo avrei
compreso in un futuro nel quale ormai tendevo a rifiutare determinate cose. Ciò che aveva fatto
infuriare Demetrio spingendolo conseguentemente alla reazione difensiva, non era la rabbia nel
sentire offendere il proprio orgoglio, ma la necessità di difendere ed esigere il rispetto che
apparteneva a qualcosa di più grande e che noi neppure potevamo idealizzare nel nostro limitato
pensiero.
Disse che eravamo dei creduloni e fifoni, e che nei fiumi non esisteva nessuna creatura malvagia.
Nella natura, precisò, non esisteva nessuna creatura malvagia. Gli spiriti della natura si adiravano
solo con chi non li rispettava, aveva detto, e tutti di nuovo lo avevano deriso. Ma lui, che coi fiumi ci
parlava, sapeva bene quel che diceva, ed io ero rimasto stupito dalle sue parole ad un punto tale che lo
stesso giorno gli avrei chiesto di accompagnarmi oltre la collina e mostrarmi ciò che aveva scoperto.
Fu uno dei momenti più intensi della mia adolescenza, e fu anche uno dei momenti in cui avrei potuto
percepire l’instaurarsi del conflitto in me. Da molto tempo avevo cercato di comprendere cosa vi fosse
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oltre lo sguardo dei suoi occhi e da altrettanto tempo avevo desiderato conoscere cosa celassero i suoi
pensieri e finalmente avevo trovato l’occasione per penetrare in quel labirinto che necessitava di una
guida per poter essere esplorato. In quel momento Demetrio diventava il mio filo d’Arianna perché
sentivo che attraverso di lui avrei potuto ricevere molte risposte alle infinite domande che mi ero
sempre posto, scoprendo cosa fosse reale e cosa fosse illusione. Ma allo stesso tempo, come se il
destino stesse gestendo uno di quei giochi d’abilità in cui bisogna scoprire sotto quale guscio si
nasconde l’oggetto misterioso, c’era quel timore di avvicinarsi troppo ad una trappola insidiosa, come
se un cacciatore avesse posizionato la sua tagliola nella quale, se l’orso destato avesse finito per
metterci la zampa, avrebbe rischiato di restare mutilato per sempre. Ricordavo ancora come mi ero
sentito quando nell’episodio del cervo volante avevo preferito restarmene anonimamente nascosto tra
la folla dei beffeggianti, timoroso che il prendere le sue difese mi avesse spinto verso l’inevitabile
marchio di amico del balordo, spedendomi inevitabilmente verso un giudizio che avrebbe rischiato di
avviarmi nella direzione dell’isolamento discriminatorio.
Così lo avevo fatto di nascosto, attendendo le ore pomeridiane e cercandolo dove sapevo che nessuno
lo avrebbe trovato, vale a dire, tra le isolate strade sterrate della campagna solitaria.
Era ovvio che gli anziani volessero tenerci lontani da quel luogo. La collina era un tratto di terra che
si alzava appena fuori i confini di Casterba.
Non era una vera e propria collina, e seppure allo sguardo di un ragazzino ogni cosa prendesse un
aspetto decisamente più grande facendola sembrare più imponente di quanto non fosse, essa non era
altro che un semplice tratto di terra che si innalzava ad un livello di nemmeno una decina di metri
rispetto il terreno pianeggiante. Ma lo faceva in un modo informe che si diceva essere stato creato da
una serie di rifiuti gettati nell’antichità, quali ceramiche, terrecotte e altri ciottolati che la rendevano
intrattabile a livello agricolo e conseguentemente una superficie inutile dove, vista la sua improduttiva
attrattiva economica, l’erba cresceva senza che nessuno se ne prendesse cura. Così per salirci era
necessario oltrepassare una barriera di rovi le cui spine erano dure e affilate. Non so come il Mage le
avesse superate, ma era evidente che ci era andato molte volte e che nelle diverse occasioni aveva
finito per tracciare un sentiero, scoprendo un passaggio come un vero esploratore.
Ad un certo punto, ricordo, mi trovai avvolto dai roveti, in una sorta di galleria che lui conosceva
bene, ma poi, una volta giunti sulla sommità, la collina sembrava spezzarsi e precipitare come un
fiordo verso il fiume che passava sotto. Oltre il fiume si stendeva altra terra incolta, dominata da un
bosco di pioppi e il paesaggio appariva surreale, una sorta di giungla selvaggia di indubbio fascino
anche per chi non era come Demetrio. In quel punto il fiume aveva scavato una fossa perché la
corrente era costretta ad un rallentamento da una brusca curva e così, dall’alto della collina, si poteva
osservare un colorito più scuro dell’acqua. Osservai il Mage scendere verso il fiume per un tratto della
ripida discesa e fermarsi in un punto in cui la parete, modificandosi come uno scivolo, proponeva uno
stretto tratto pianeggiante che consentiva di stare seduti. Mi avvicinai a lui e ammirai la sua
contemplazione che sembrava quasi ieratica.
-Non hai paura?- ricordo di avergli chiesto. Si era seduto portando le mani giunte sul petto
inclinando la testa verso il basso in modo che le punte delle dita gli andassero a toccare la bocca.
Scosse lentamente il capo per farmi segno di no, poi disse qualcosa che mi avrebbe condizionato per
tutta la vita, o almeno, per quella parte di vita in cui tali parole restarono nella memoria.
-No, da questo lato del fiume non ci sono nature malvagie-…
Se il giorno successivo avessi esposto anche queste parole nel mio racconto, avrei certo contribuito
ad alimentare le dicerie sulla sua stranezza e pazzia, ma qualcosa mi aveva trattenuto dal farmi burle
di lui perché a quelle parole io, avevo provato un brivido che non si poteva definire di paura o di
freddo, ma piuttosto di timore reverenziale, come se avessi sentito che effettivamente qualcuno, o
qualcosa, stava comunicando con lui. Ero però anch’io un ragazzino le cui capacità di controllo
avevano un limite, e non ero riuscito a trattenermi dal raccontare che Demetrio c’era stato veramente
oltre la collina e che io ero andato con lui. Non avevo svelato nessun segreto in fondo, giacché lui
stesso ne aveva parlato, ma la possibilità di rendermi audace agli occhi degli altri compagni mi aveva
fatto agire senza riflettere sulle conseguenze del mio gesto. Fu per questo che quando, con un gruppo
di coetanei, mi recai da lui per chiedergli di portarci tutti alla collina, il timore di essere considerato
un traditore, per un momento mi fece raggelare.
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Era ovvio che se gli altri ora credevano alla storia della collina era perché io avevo raccontato di
esserci stato, tradendo la fiducia che lui mi aveva concesso. Ma il mio gesto si stava solo rivelando una
ulteriore conferma che la mente umana agisce in modo particolarmente assurdo, deridendo coloro che
proprio in conseguenza alla loro diversità potevano compiere speciali scoperte o esplorazioni, e dando
invece credito a chi di tali scoperte faceva uso per una più consolidata popolarità, sebbene delle
medesime scoperte non avesse alcun merito.
Tuttavia, quando mi guardò, il suo sguardo era serio, ma non severo. Non credo che a quei tempi
nemmeno lui sapesse controllare le sue emozioni, e non credo che ancora avesse cominciato a
considerare le circostanze della vita come eventi degni di riflessioni, ma già qualcosa rivelava nei suoi
occhi pensieri e considerazioni. Quella volta non vi era ammonimento in lui, né indignazione, tuttavia,
avevo colto come una sorta di ammonimento…
Ero entrato nel labirinto e avevo scelto la mia guida e ora, in questo tempo, per quanto cercassi di
convincermi che da molto ne ero uscito, cominciavo a temere con orrore di essermi invece inoltrato
troppo in profondità a siffatto labirinto nel quale ancora non avevo incontrato il Minotauro e che per
molto, molto tempo, avevo perso il mio filo, addentrandomi, o meglio, inabissandomi sempre più
nell’intricata rete di cunicoli del profondo ipogeo. E ancora, non riuscivo ad accettarlo…”
Attesi nuovamente in silenzio.
-Ecco, è come prevedevo- sentii dire dopo un po’.
Capii che continuare a far ironia per sdrammatizzare qualcosa che appariva diventare sempre più serio
non aveva senso, io stesso del resto non riuscivo a sottrarmi all’attrazione del documento che
progressivamente si faceva sempre più coinvolgente.
-Che intendi dire?- limitai la mia domanda.
-Che non è semplice come potrebbe sembrare. Qui non abbiamo a che fare con un’infedeltà coniugale
o qualcosa di simile. Certo si parla di tradimenti, ma non siamo nemmeno sicuri che vi sia qualcuno da
tradire. È decisamente un soggetto interessante e ancora non comprendo se i personaggi che ha creato
siano reali o fantasiosi…-È l’ipotesi da cui abbiamo iniziato ricordi? Capire se questo soggetto vive nella realtà o nell’irrealtàattesi di sentire una risposta ma per un lungo periodo, o almeno per quello che appare un lungo periodo
quando si sta al telefono, ci fu silenzio, poi, come se tutto all’improvviso sembrasse non avere più
alcuna importanza, la sua voce si riaccese nel ricevitore con un affermazione a dir poco, in quella
circostanza, sconvolgente.
-È tardi, meglio andare a dormire ora- la comunicazione s’interruppe così bruscamente che anche se
avessi voluto dire qualcosa non avrei potuto e lo stupore mi lasciò senza parole. Sentii lo scatto
dell’interfono che veniva spento, poi percepii come una sorta d’impotenza che mi dava l’impressione di
un vuoto da panico che valutai come quello di cui deve soffrire un claustrofobico. Per un attimo, forse
per rabbia, presi a riflettere sulla sua sanità mentale e successivamente maledissi perfino l’avidità e
l’orgoglio che mi avevano condotto ad una sorta di sfida che ora avrei preferito non aver accettato,
presumendo che quella notte il mio non sarebbe stato un sonno tranquillo.
Al contrario, dormii profondamente.
…Dicono che tutti sognano e che chi dice di non sognare in realtà non ricorda semplicemente ciò che
ha sognato. Qualunque fosse la verità, io non sognavo o non ricordavo di aver sognato, per questo forse
la mattina mi svegliavo più riposato di tante persone che di giorno sembravano aver passato la notte in
bianco. Tuttavia capitava anche a me di avere dei giorni in cui al risveglio provavo la sensazione di non
aver riposato, soprattutto quando quel risveglio avveniva in modo brusco e precipitoso come stava
accadendo sempre più spesso negli ultimi giorni. Era di nuovo il campanello della porta che suonava
freneticamente a causarmi il risveglio non desiderato. Un suono fastidioso che in principio mi aveva
fatto credere di ricordare, più che un sogno, un incubo che solo la realtà del capire che il suono era
concreto mi faceva intuire che ancora una volta non ricordavo i miei sogni. Imprecai irritato. Era la
seconda volta in meno di una settimana che il fastidioso campanello osava interrompere il mio sonno e
valutai la possibilità di staccare i fili che lo alimentavano. Cercai di ignorarlo, ma solo per pochi
secondi perché il ronzio era così insistente e fastidioso che se fosse durato ancora un po’ avrei potuto
rischiare d’infuriarmi più di quanto già ero. Con l’ira che aumentava sempre più saltai giù dal letto, non
presi la pistola, ma solo perché ero certo che solo la mia espressione poteva già essere micidiale e
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deciso ad affrontare l’inopportuno seccatore con una serie di imprecazioni e maledizioni corsi alla porta
senza nemmeno vestirmi. Spalancai la porta con violenza e la voce mi si congelò in gola. Solo dopo
averla sentita parlare ringraziai di aver usato la biancheria intima la sera prima per coricarmi, altrimenti
adesso potrei raccontarvi di quanto imbarazzo avesse pervaso quel momento, piuttosto che dirvi che me
ne stavo stupidamente confuso di fronte al volto serio di Felona che, per nulla sconvolta dalla mia
scapigliata presenza, mi domandava cosa ci facevo ancora a letto. Restai così stupito che se non avesse
preso lei l’iniziativa di entrare in casa scansandomi via dall’entrata, probabilmente sarei rimasto inerte
tutto il giorno a fissarla con la bocca spalancata.
-Che ti prende? Che cosa ci fai qui?- riuscii solo a domandarle imbarazzato. Lei osservò il disordine
che regnava in casa mia, poi mi osservò contrariata.
-Mi stupisce che con i tuoi ritmi tu possa risolvere qualcosa-.
Guardai l’orologio che segnava le dieci passate.
-Si dà il caso che in questo periodo io non stia lavorando- mi giustificai senza sapere il perché, ma lei
mi incalzò.
-Niente affatto bello mio. Si dà il caso che tu sia nel bel mezzo di una vicenda piuttosto intricata per la
quale mi pare di aver capito che sei già stato pagato e quindi hai un ingaggio. E si dà il caso anche che
da quanto appare tu non sappia nemmeno fare il tuo lavoro-.
-Ma come ti permetti?...- osai irritarmi, ma quando mi avvicinai lei mi bloccò parandomi davanti
alcuni fogli.
Mi arrestai imbarazzato -cosa sono?- domandai.
-Realtà- rispose lei.
-Come?-Chi ha scritto questo documento non racconta fantasie ma cose reali- disse allora la donna e io mi
sentii avvolgere da una considerevole confusione.
-Da che cosa lo avresti dedotto?-Il nome. Ricordi quello che scrive nell’ultimo capitolo? Inizia dicendo che nulla è per caso e poi fa
riferimento ai nomi, quel primo dono che riceviamo, come dice all’inizio del racconto, quindi fa
riferimento al modo in cui si creano i totem… qualcosa cui deve dare particolare importanza e quindi,
tutti questi nomi devono necessariamente essere veri. Questo tizio è uno che crede nella consacrazione
e non oserebbe mai profanare qualcosa che per lui è sacro. Così, questi nomi devono essere realispiegò e a quel punto la mia ira si trasformò in divertimento.
-E mi hai buttato giù dal letto per questo? Per una semplice deduzione psicologica?- le girai le spalle
come a farle intuire che le sue paranoie non conducevano da nessuna parte.
-Mia piccola investigatrice, tu sarai anche una buona psicologa, ma in questo lavoro le deduzioni
hanno un valore effimero. Capisco che l’avventura possa entusiasmarti, ma ti consiglio di continuare a
fare il tuo lavoro e lasciare questo ai professionisti- provai un momento di orgoglio perché ciò che
avevo detto lo avevo fatto con l’intenzione di umiliare, una specie di piccola vendetta per quel suo tono
di superiorità dimostrato in precedenza, e mi sentii soddisfatto nel percepire la sua introduzione ferita
nell’orgoglio.
-Se dobbiamo lasciare questo lavoro ai professionisti allora il primo che dovrebbe smettere sei proprio
tu. E comunque se ti dessi la briga di osservare quel foglio capiresti che le mie non sono semplici
deduzioni - si sfogò, e il mio orgoglio si spense.
-Cosa vorresti dire?- esclamai posando gli occhi sul foglio che mi aveva consegnato. Sembrava una
ricerca idrografica sui fiumi.
-Che cosa significa?- le domandai spiegazioni non avendo voglia di mettermi a leggere qualcosa che
potevo evitare, visto che lei già sapeva.
Riprese i fogli e cominciò a spiegare -nell’ultimo capitolo questo tizio ci dà nuovi elementi e in
precedenza ha parlato di una figura chiamata Marantega-.
-Sì la ricordo anch’io, la cita assieme alle fate e ai folletti della natura, ma non mi sembra di aver mai
sentito nulla di questo genere. Voglio dire, di elfi fate e streghe ne ho sentito parlare, ma di questa cosa
qui…-
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-Io invece so di una leggenda in cui si parla di questa Marantega, ma so anche che si tratta di una
figura del folclore veneto. Inoltre nella leggenda di cui ti parlo la si definisce una creatura dell’acqua e
questo tizio sembra avere un certo rapporto con i fiumi-.
-E allora? Dove dovrebbe condurci tutto questo?Sembrò spazientita dal mio non comprendere e lo evidenziò con una smorfia.
-Cita il nome di un fiume nell’ultimo capitolo, e pensa un po’?- dovette entusiasmarsi alla vista della
mia perplessa intuizione.
-No, non dirmelo- dissi incredulo strappandole i fogli dalle mani.
-Proprio così. Quel fiume è reale. Non è stato facile trovarlo perché è un fiume di quarto ordine e sulle
cartine spesso questi corsi d’acqua non sono segnati. Ma alla fine l’ho trovato sebbene abbia dovuto
disturbare un’amica che si occupa di geologia territoriale per averne conferma. Tuttavia esiste, e non è
neanche lontano, attraversa gran parte del territorio del basso veronese. Proprio qui vicino- espose
trionfante.
Rimasi stupefatto -da non crederci, e questa intuizione l’hai avuta semplicemente per un nome?-No, dall’importanza che questo individuo riserva al nome, ovvero dall’importanza che la persona di
cui parla attribuisce al nome. È abbastanza evidente che tutto quello di cui lo scrittore racconta, lo ha
appreso dall’uomo di cui narra. Forse lo paragona ad una sorta di sciamano o di maestro e
probabilmente deve avere qualcosa in sospeso con lui. Per i nativi americani i totem erano la
rappresentazione della loro personalità e una sorta di guida spirituale alla quale fare riferimento nelle
avversità…-Una guida? Mi sembra piuttosto confuso, se rappresentavano se stessi attraverso il totem, come
potevano consideralo anche una guida?Sorrise -è confuso per chi ragiona per convenzioni. La caratteristica cui rimanda il totem è un modo
per conoscere se stessi. I nativi ricevevano il loro totem grazie a delle prove estreme, come il
sopravvivere da soli all’interno di una foresta, costretti al digiuno o al freddo. Il totem spesso si
manifestava in sogno o in una sorta d’allucinazione, oppure per effetto di un incontro che appariva
come predestinato. Il coyote per esempio era simbolo di sopravvivenza, la volpe dell’adattamento, il
corvo della magia e così via. Essere detentori di un totem significava avere le caratteristiche
dell’animale o dell’oggetto di cui esso era rappresentante e significava avere la consapevolezza che tali
requisiti erano in proprio possesso, di conseguenza queste caratteristiche potevano diventare una guida
nel momento del bisogno. Una forma di coscienza del sé che conferiva una certa sicurezza… e questo
tizio si riferisce all’esploratore Demetrio come una guida. Tutto è collegato-.
-Considera Demetrio il suo totem?-Certo che no, che stupidaggine dici? Ma è ovvio che lo considera una figura fondamentale per
giungere alla risoluzione del suo enigma, che ora è anche il tuo-.
La guardai tra meraviglia e timore -ma come fai? Come fai a saltare da un argomento all’altro in
questo modo?- le dissi.
Lei non mostrò nemmeno orgoglio, prese il fascicolo dal tavolo e lo spinse verso di me.
-Hai già letto il capitolo successivo?- mi domandò. Negai con la testa.
-E cosa aspetti?Sorrisi rassegnato, presi il fascicolo e inizia:
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…le cose non cambiano
“ ...-Accidenti Demetrio, tu sì che sei un vero esploratore, sei il Ferdinando Magellano di Casterba-.
Ecco, era proprio in questo modo, attraverso delle semplici e sottovalutabili condizioni che già a quel
tempo il destino cominciava a darmi segnali che il caso non era da considerare come tale. Se Val
aveva potuto dire una cosa del genere, infatti, vi era un motivo. Solo due giorni prima, appunto,
durante l’ora di storia Val aveva appreso dall’insegnante chi era Ferdinando Magellano, che aveva
parlato agli alunni dei grandi esploratori dei tempi antichi, soffermandosi in modo insistente proprio
sul navigatore Magellano che per primo aveva circumnavigato il globo. Così, grazie ad un tempo
relativamente breve tra la lezione e la scoperta di Demetrio, Val aveva potuto associarlo al famoso
esploratore, designando quello che sarebbe stato il suo futuro nome a Casterba. Da quel giorno
Demetrio sarebbe stato ricordato da noi tutti come il Magellano di Casterba, e di lì a poco la pigrizia
l’avrebbe ridotto in quel diminutivo che l’avrebbe definitivamente fatto divenire: “il Mage”. La collina
avrebbe inoltre cominciato a far cambiare anche qualcos’altro nella sua condizione. Certo non
sarebbe mai stato ritenuto un modello d’ispirazione, la sua popolarità non sarebbe divenuta
dominante, ma le considerazioni su di lui sarebbero mutate. Restava per tutti un tipo strano, ma chi
aveva avuto il coraggio di affrontare la collina e le sue insidie, non poteva restare indifferente a certe
stime e da quel momento i coetanei avrebbero cominciato a vederlo con un pizzico di rispetto in più.
Non avrebbero mai ammesso di ammirarlo, questo no, ma quel cambiamento gli avrebbe permesso di
ottenere il suo ruolo nella collettività di Casterba senza più rischiare l’emarginazione totale. Da quel
momento, tutti avrebbero saputo chi era il Mage e forse, da quel momento io avrei dovuto
comprendere che Demetrio non era diventato il Mage casualmente, ma piuttosto, come se lui stesso
avesse deciso di divenirlo.
Sulla collina, eravamo in tanti quel giorno, compresi coloro che in un futuro non lontano sarebbero
divenuti un gruppo di amici fedeli, seppure il tempo stesso avrebbe decretato che nessun legame è così
solido da poter affermare che fossimo una compagnia indissolubile, e coloro che invece, malgrado
tutto, avrebbero continuato a considerare il Mage come l’anomalia di Casterba.
Persone che erano presenti anche a quella serata in suo onore e che ancora ragionavano in modo
infantile, presenti solo per poter trovare ancora in lui difetti che dessero qualche motivazione per
ritenere che in fondo il Mage non aveva fatto nulla che loro non avessero potuto fare o sicuramente,
qualcosa che non era inferiore a ciò che erano divenuti.
Fu un momento divertente l’intervento di Val, il cui nome non era il diminutivo di Valentino, in
quanto lui si chiamava Riccardo,ma il diminutivo di Valium. La sua vivacità che negli anni sarebbe
divenuta dinamismo, esuberanza, eccesso ed espansività, ci aveva indotto a consigliargli di fare uso di
Valium per darsi una calmata. Lui era divenuto così Valium, e la pigrizia lo aveva fatto diventare Val.
Certo Demetrio dovette pensare che non molte cose erano cambiate a Casterba, e lui era sicuramente
troppo accorto per lasciarsi coinvolgere dall’esuberanza di Val. Aveva compreso che nel modo in cui
lo stesso Val non era cambiato, anche la gran parte dei presenti era rimasta allo stesso livello del
tempo infantile o adolescenziale, e gli era stato facile intuire che se avesse risposto alla domanda di
Val nel modo in cui tutti si aspettavano, vantandosi cioè delle molte presunte conquiste fatte, avrebbe
solo dato un pretesto per paragonarlo ad un qualunque comune individuo a coloro che attendevano
solo un motivo di poter continuare a credere di non essergli in nulla inferiori.
Ma anche reagendo in modo contrario, limitandosi a dire di non aver conosciuto nessuna donna,
avrebbe dato lo stesso, se non peggior pretesto. Si limitò così ad un commento superficiale, discreto e
rispettoso nei riguardi della natura femminile, ottenendo l’approvazione della categoria considerata.
Ma io, pur nel riconoscergli una notevole dignità, non potei fare a meno di dubitare se tale risposta
fosse rivolta alla valutazione dell’intera rappresentativa femminile presente, piuttosto che ad una sola
di esse. Se lui aveva potuto stabilire, infatti, che a Casterba non erano molte le cose ad essere
cambiate, io invece, dal modo in cui volse lo sguardo timidamente verso di lei, mi convinsi che in lui
niente era cambiato…”
-Allora, qualche nuova intuizione?- le domandai visto che il capitolo si chiudeva in modo così rapido.
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Lei mi fissò -sta introducendo argomenti nuovi. Commenta i limiti della mente umana che resta ferma
su concetti arcaici e non riesce a superare determinate visioni. Sembra un punto piuttosto importante
per lui-.
-E cosa significa?-Apparentemente nulla- disse ansiosa -ma sta per rivelarci qualcosa di importante, avanti, continua a
leggere- mi ordinò. Era evidente il fascino che provava nell’elaborare la psiche di quello che io ancora
consideravo un folle e mi fu impossibile osservarla tra un misto di divertimento, invidia e gratitudine
per quel suo entusiasmo e, senza indugiare ripresi:
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Perché sei tornato?..
“…Il cuore della notte aveva ripreso a pulsare, e quella notte, sapevo, non avrei potuto evitare di
sentirlo.
Ero stato contento di rivederlo, e avevo mascherato dietro quella convinzione i presagi oscuri che per
un determinato tempo mi avevano fatto pensare che sarebbe stato meglio per me non essere presente
alla serata, così come non ne avevano preso parte tutti e quattro i suoi fratelli.
Dopo vent’anni di silenzi, era stato difficile per loro accettare che tornasse come se nulla fosse
accaduto. Loro, non avevano dimenticato, io invece sì, ossia, così pensavo.
Credevo di aver dimenticato ogni particolare di quei giorni lontani, ma in realtà li avevo solo
meticolosamente messi in disparte. Del resto, non c’era più spazio nella mia vita per fantasie e
racconti irrazionali e nel costruire il mio mondo professionale, con tutte le sue responsabilità e
conseguenze, calandomi nella parte del perfetto uomo d’affari e padre di famiglia, avevo scordato ogni
considerazione e apprendimento che in quei tempi mi avevano quasi fatto diventare ascetico. Non
avevo più considerato il caso come evento e l’evento come effetto, e di conseguenza, non avevo
considerato che un giorno, il destino mi avrebbe ricondotto nel suo mistico delirio.
Si possono avere dei periodi di tregua nella vita, ma il destino è come l’ombra, non la si può dividere
dal corpo, solo nasconderla spegnendo la luce. Il problema è che per vedere la luce è necessaria e di
conseguenza, diviene impossibile annullare l’ombra.
Avrei capito di lì a poco, che il destino non ci impone il suo volere. Avrei capito quanto sa essere
paziente, così come avrei capito che nonostante ciò, il volerlo ignorare, era solo la manifestazione del
nostro stato di inferiorità.
Ufficialmente lui era tornato perché una nota casa editrice gli aveva offerto il posto di responsabile
grafico di una rivista naturalistica nel proprio organico. Aveva affermato di essere stanco di fare il
giramondo e che desiderava fermarsi. Quella era un’ottima opportunità e nessuno aveva sospettato
della sua sincerità, sebbene la sede ufficiale dell’editoria fosse a Milano. Io però, percepivo sensazioni
insolite, le stesse che avevano risvegliato quel richiamo ormai dimenticato da troppi anni. Avevo
continuato ad osservare il suo comportamento senza evitare di notare come il suo raccontare fosse
distaccato, come se di ciò che narrava non gli importasse molto o, peggio, non se ne rendesse
nemmeno conto. Invece, a differenza degli altri, non avevo evitato di notare come il suo sguardo, a
volte furtivo, a volte più intenso, continuasse a posarsi su di lei, con un’espressione di malinconica
tristezza. Forse anche lei se ne era accorta e magari si sentiva lusingata delle sue attenzioni, ma
l’imbarazzo era evidente e io, che conoscevo la loro storia, anzi, ne avevo fatto parte, non potevo fare
a meno di pensare che nelle intenzioni di Demetrio vi fosse ancora il desiderio di conquistarla.
Se avessi continuato a pensare a Diomede e Glauco, avrei forse potuto comprendere in quella parte
l’elemento scatenante della battaglia. Diomede e Glauco non si erano scontrati per Elena, ma a causa
di Elena. Era stata Elena il simbolo principale dell’epica guerra che avrebbe condotto molti guerrieri
a scontrarsi sulla spiaggia di Troia, e tuttavia, se si ragionava, quale colpa aveva avuto Elena? Al suo
rapitore, Paride, era stato promesso il suo amore in cambio di un giudizio e lei quindi non aveva
potuto sottrarsi ad un sortilegio divino. Lei pertanto, impossibilitata a sottomettersi al volere degli Dei,
null’altro aveva avuto che il ruolo del pretesto, per far sì che due nazioni, due eserciti, due eroi e due
guerrieri, potessero avere l’opportunità di confrontarsi. E se avessi continuato a pensare in questo
modo, forse sarei riuscito a giungere al quesito essenziale: quale era la ragione di quel confronto? Ma
non ero in grado di ragionare così, non ancora. Per farlo, avrei dovuto rischiare troppo. Avrei dovuto
mettere in discussione ogni cosa, perfino la razionalità, ed io non ero disposto ad impazzire.
La serata si era protratta fino a notte inoltrata e alla fine ci eravamo trovati soli, lui, io, e Val.
Mancavano soltanto due a completare il gruppo, e la mattina successiva, io sapevo dove avrei trovato
il Mage.
Il piccolo cimitero di Casterba non è certo un cimitero monumentale, ma nella sua intimità mi ha
sempre dato la sensazione di un luogo di pace. I cimiteri dei piccoli paesi, sono praticamente libri di
storia che si possono leggere attraverso i personaggi le cui vicende si tramandano di generazione in
generazione, così come si creano le leggende e le storie mitologiche.
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-Ciao- lo salutai arrivandogli alle spalle. Lui se ne stava in contemplazione davanti alla tomba del
padre, vicina a quella della madre. Sembrava completamente assorto ed ero convinto che non mi aveva
sentito arrivare, eppure mi salutò senza nemmeno voltarsi, come se avesse saputo che sarei giunto.
-Ciao Tommaso-.
Lui i diminutivi non li aveva mai usati “il nome che portiamo, è il primo dono che riceviamo in questa
vita. È qualcosa di sacro” ricordai ciò che mi aveva detto in un tempo che appariva molto lontano,
riferendosi al nome con il quale non mi chiamava nemmeno mia moglie. Ripensai alle parole
dimenticate, e per un momento riflettei sulla mia scelta di andarlo a trovare in quella mattinata.
Percepii dentro di me che non era stato il desiderio di stare da solo con un vecchio amico che mi aveva
mosso a tale impulso, ma una sorta di incontrollabile necessità. Quando avevo sentito il cuore della
notte risvegliarsi, avevo percepito anche l’inconscia necessità di conoscere, o meglio, di avere
conferma del vero motivo per cui era tornato, e non avevo riflettuto sulle conseguenze che il mio gesto
avrebbero potuto avere, così fui costretto a farlo in quel momento e, dubitando della correttezza di tale
scelta, esitai.
Nei cimiteri, vige quella sorta di rispetto, definito tale solo perché non lo si vuole considerare
imbarazzo. Quando si incontra un parente in visita alla tomba dei propri cari, specie se non lo si vede
da molto tempo, ci si sente quasi in obbligo a salutarlo ma poi, inevitabilmente non si trovano parole
da esprimere perché non si sa quali siano i suoi pensieri e non si sa mai se il tuo intervenire possa
essere un gradito contributo o un’invadente intrusione. Ma io ero lì perché sentivo che la visita alla
tomba del padre era solo uno dei passaggi che lo avevano condotto nel suo ritorno a Casterba, ma allo
stesso tempo, era un’occasione per deviare dalla mia reale presenza lì, così, vincendo l’imbarazzo, lo
affiancai e gli posi una domanda che non era quella per cui mi trovavo al suo fianco.
-Ti manca?- sapevo quanto era legato al padre, spesso lo aveva descritto come il suo eroe e mai
aveva osato dire qualcosa di irrispettoso nei suoi confronti.
-Alloggio in un hotel di Forlìa, te lo avevo detto?Forlìa era il centro più vicino e sviluppato urbanisticamente a Casterba. Distava circa cinque
chilometri e lo si poteva definire un paese moderno. Attraversato da una statale regionale contava
quasi diecimila abitanti ed era provvisto di una stazione posizionata lungo una rilevante rete
ferroviaria che lo rendeva piuttosto importante.
-Sì- risposi, ma senza stupirmi più del dovuto perché sapevo che ora avrebbe cominciato a
raccontare, e ricordavo bene che il suo raccontare non era mai insensato. Per quanto il suo discorso
sembrasse deviare dall’iniziale quesito, egli stava rispondendo alla mia domanda.
-Ho fatto un giro per il paese- cominciò a dire -ho visto che non è cambiato molto-.
-È un paese di campagna, un paese che non si può trovare se non ci si decide di andare. Non importa
a nessuno di Casterba. La popolazione diminuisce, l’industria non ci ha toccato e a differenza del resto
del mondo qui il traffico è ridotto. Non abbiamo nemmeno bisogno di semafori o rotatorie, e tanto
meno di hotel-.
Sorrise -già. Ho fatto visita alla mia vecchia casa, ma non sono entrato. L’ho guardata da fuori. Ho
visto che è stata ristrutturata, è divenuta una bella villetta bifamiliare. Ha un altro aspetto, un bel
giardino, un nuovo perimetro delimitato da quelle belle recinzioni moderne in acciaio. Non c’è quasi
più niente di quello che era un tempo- guardò la tomba con la foto del padre e come se entrasse in un
altro spazio, un’altra dimensione, un altro tempo, la sua espressione si fece triste, più di quanto lo
fosse generalmente.
-Sai, loro non mi hanno mai perdonato di essere mancato al funerale- disse. Intuii che parlava dei
suoi fratelli di cui solo una delle due sorelle gli era inferiore di età. Tutti si erano sposati e tutti
avevano figli. Nipoti che lui nemmeno conosceva.
La casa che ricordava era una vecchia dimora rurale, con un ampio cortile e un appezzamento di
terra di qualche ettaro che il padre aveva lavorato prima di cederne la custodia al mio, divenendo un
dipendente salariato sul suo stesso suolo. Ora di quella terra che nessuno aveva continuato a lavorare,
alla famiglia era rimasto molto poco mentre il resto era stato assimilato tra i possedimenti della mia
casata quando alla guida dell’azienda ancora vi era mio padre, ed ora era tra le mie proprietà. Il
grande cortile era divenuto il giardino di cui aveva parlato e la bella ringhiera moderna aveva
sostituito quella antica fatta di cemento, mentre nelle due villette, ottenute abbattendo una parte della
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casa, abitavano le sorelle. In questo modo si era come cancellato un pezzo di storia al quale soltanto a
lui, paradossalmente, sembrava ancora importare qualcosa, e di tutto ciò che aveva rappresentato
l’antico podere non restava nulla che rispecchiasse le caratteristiche della famiglia che lui ricordava.
-Sanno che sei tornato. Tutti in paese lo sanno- gli dissi.
-Sì. Ma non ho voluto dare loro noia. Mi avrebbero ospitato se lo avessi chiesto, ma non mi tratterrò
a lungo, una volta definiti i termini del contratto cercherò casa nei pressi della città-.
-E che noia avresti mai dato se si tratta solo di pochi giorni?-.
-Te l’ho detto Tommaso, loro non mi hanno perdonato, e non credo lo faranno mai. Che letizia può
mai esserci nell’ospitare qualcuno che si disprezza?… e chi è disprezzato, come potrebbe tollerare di
vedere la sopportazione e l’indifferenza di chi dovrebbe volergli bene?La sua tristezza sembrava profonda, ma non per l’odio che si sentiva addosso, ma più per il fatto che
nessuno avrebbe capito le sue ragioni. Io non dissi nulla e dopo un po’ lui riprese.
-Ero in Africa a quel tempo, e per quanto fossi lontano, per quanto non mi fossi presentato al
funerale, io ero più vicino a lui di quanto chiunque altro lo fosse stato quel giorno- non mi stupii, e
attesi di sentire le sue ragioni.
-La mia vita non è stata un grande successo, se si esclude il fatto di essere ritenuto un personaggio
importante in un paese per nulla importante- iniziò a dire, e io mi resi conto che la sua infelicità,
adesso, toccava anche la dimensione umana.
-In effetti, la mia vita non appare di rilevante importanza agli occhi di chi guarda semplicemente con
la visione di un insieme collettivo. Quando si vive immersi in un contesto sociale, ci si aspetta dei
conseguenti modelli sociali, ci si conforma ad un metodo che si accetta come autorità. Ciò che non è
conforme, non è normale e chi non segue tale contesto è un individuo anomalo, quando lo si vuole
giudicare in modo dignitoso; degenerato quando lo si vuole disprezzare. Mi rendo conto che non è
possibile comprendere gli altri, e quindi non posso certo dire che nessuno mi ha mai compreso,
tuttavia è molto più semplice comprendere una collettività e io, a mio favore, essendo stato un nomade
solitario, posso avvantaggiarmi di questo fattore. Il singolo non è comprensibile perché non viene
nemmeno valutato e quindi io, posso sinceramente dire, forse più degli altri, di non essere stato
compreso- lo ascoltai perché, come già avevo presupposto, sapevo che ogni sua parola non doveva
essere sottovalutata. Lui mi stava comunicando qualcosa che, sebbene potesse sembrare una
giustificazione, conteneva in sé una sorta di lezione. Tutte queste cose però, come molte altre, le avrei
capite molti anni dopo.
-Loro non mi hanno mai perdonato la mancanza al funerale di nostro padre- ripeté -e sicuramente
non avrebbero potuto comprendere che io, forse, più di tutti quelli che erano presenti fisicamente alla
cerimonia, al suo funerale c’ero. C’ero eccome-.
-Mi trovavo in Africa, a documentare le usanze di una tribù ritenuta primordiale- riprese perdendosi
in ricordi che sembravano pervenirgli solo in quel momento -ma credimi- disse quasi distogliendo
l’attenzione dei suoi stessi ricordi -non ho mai visto tanta primitività come nelle moderne metropoli al
confronto di quanto fossero avanzate quelle tribù indigene- lo fissai intuendo che la sua allusione non
era all’evoluzione tecnologica, ma a qualcosa che forse le grandi metropoli civilizzate cui si riferiva,
ormai non potevano più considerare.
-Durante una notte feci un sogno agitato di cui al risveglio non ricordavo molto. Sprazzi di immagini
in cui mi era parso di vedere il volto di mio padre. Ho tanti bei ricordi di lui. Era un uomo forte, un
gran lavoratore e soprattutto saggio. Tuttavia, dopo che nostra madre se ne era andata,
all’improvviso, era ben presto invecchiato. Aveva perso la voglia di vivere e nei due anni successivi,
prima che io partissi per i miei viaggi, aveva perso tutto il suo vigore, era deperito e la tristezza lo
aveva logorato al punto che in quei due anni sembrava ne fossero passati venti per lui- alternava
ricordi del tempo passato a Casterba a ricordi dei suoi viaggi.
-Quando mi alzai, alle prime luci dell’alba, un anziano che stava seduto appena fuori della sua
capanna fumando una pipa mi guardò e sorridendo, con un gesto della mano mi invitò a raggiungerlo.
Mi diede una sensazione di pace, eppure io sentivo dentro me un vuoto incolmabile e una profonda
tristezza. L’anziano continuava ad invitarmi a raggiungerlo, ma sarebbe stato inutile, io non capivo
quello che diceva. Allora un ragazzo, che aveva fatto esperienze nel mondo civilizzato, mi si avvicinò
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“vuole che tu vada da lui” mi disse. Lo guardai intimorito. “Non aver paura” continuò il ragazzo
“qualcuno ti ha fatto visita stanotte, e lui lo sa. Vuole solo rivelarti il messaggio”-.
-Entrato nella capanna il vecchio mi fece sedere di fronte a lui. Tra di noi vi era un cerchio di pietre.
Lì il vecchio accese un fuoco con degli arbusti secchi e aggiunse delle foglie di non so che albero.
Dopo un po’ cominciò a cantare una specie di mantra e mentre il fumo mi avvolgeva cominciai a
percepire una sorta d’oblio inebriante. La voce del vecchio si fece sempre più lontana, la mia mente
sempre più pesante. Non so in che modo sia avvenuto, così come non è possibile capire quale sia
l’istante in cui si passa dalla veglia al sonno, ma i ricordi di quella visione sono ancora nitidi, come se
il mio fosse stato un viaggio non nel sogno, ma nella realtà. Mi trovai improvvisamente su una collina
verde, se si potesse cercare di descriverla, la potrei definire una prateria irlandese. Dalla sommità
della collina si vedeva, stagliato su un cielo azzurro intenso, un edificio circolare di un bianco candido
come l’avorio. Era una costruzione imponente. Una sorta di tempio con un immenso colonnato. Era
evidente però che la struttura era solo un perimetro. Dall’alto infatti si vedeva che non vi era soffitto,
era come un immenso giardino e le sue porte non erano sbarrate. Io ero lì davanti e sapevo che lui,
mio padre, era all’interno del giardino. Con me vi erano anche le mie sorelle. Tuttavia solo io mi
avvicinai al tempio, poi, non so come, mi trovai all’interno. Mio padre e mia madre mi stavano
osservando, erano felici. Non vi fu nessun dialogo tra noi, non a parole almeno, ma ricordo che mi
accompagnarono come guide a visitare il grande monumento bianco. I colori dominanti erano quelli
del verde intenso dell’erba, dell’azzurro del cielo e del bianco dei marmi che costituivano il
monumento. Passeggiai con loro in quel pacifico giardino, poi mi trovai di nuovo davanti alla porta e
mi fu chiaro che dovevo uscire. Avrei voluto restare, tanta era la pace di quel luogo, ma con una
percezione compresi che mio padre mi stava dicendo che per me non era ancora tempo di stare lì e che
quanto mi era stato concesso era già più di quanto un’umana concezione potesse avere. Dovevo
andare. La percezione allora mi fece domandare ancora un istante, per invitare le mie sorelle a
salutarli, ma a quel punto potei percepire la tristezza che anche nei paradisi è percepibile. Compresi
che a loro, per una sorta di limitazione, non era concesso entrare e che il mio tempo era scaduto. Non
fui io a muovermi ma piuttosto il tempio che sembrò allontanarsi da me. Osservai mio padre
sorridermi e poco più lontana mia madre fare lo stesso. Ebbi ancora il tempo di vederli l’uno al fianco
dell’altra avviarsi tra le vie del giardino tra nuove forme di fontane che si stavano formando, poi mi
ritrovai sulla collina e intorno a me solo il vuoto e la solita malinconia che questa volta però, mi
rallegrava…-Quando mi risvegliai l’anziano sorrideva. Quella sera la tribù del villaggio organizzò una fasta in
cui si danzava attorno ad un falò al ritmo di tamburi e flauti. Un omaggio alle anime che avevano
ritrovato la loro dimora mi spiegò il ragazzo. Fu un’esperienza indimenticabile… Ma loro non
avrebbero potuto comprendere, né accettare che io mio padre, lo avevo già salutato-.
Restai in silenzio, sapevo che mi aveva raccontato quella storia perché riteneva che fossi l’unico in
grado di comprenderla e quasi per una sorta di devota onestà mi sentii in obbligo di essere corretto
con lui.
-Mage, io non sono più quello di un tempo, e forse dovresti cominciare a pensare che anche tu non lo
sei-.
Mi guardò, deluso ma riconoscente -non la senti più neanche tu la voce del fiume vero? Il canto della
notte e i sospiri degli spiriti, vero?Da tempo ormai non li sentivo più. Avevo smesso di sentirli ancora prima della sua partenza, e anche
lui, credo, aveva smesso di sentirli. Il fatto è che le sue parole, pronunciate quel lontano giorno sulla
collina, mi avevano scosso al punto che qualche tempo dopo non potei evitare di domandargli che cosa
aveva voluto dire.
Avevamo preso ad andarci tutti i giorni sulla collina, al punto che il passaggio aperto dal Mage era
diventato un vero corridoio non più arduo da superare. Eravamo così entusiasti che, seppure ancora
bambini, avevamo cominciato a vantarci con le ragazzine della nostra età con l’orgoglio di chi può
dimostrare il proprio coraggio. Del resto, ai tempi della collina avevamo già undici anni e la natura di
bambini si andava lentamente spegnendo, e a quell’età non era nemmeno insolito aver voglia di
esibirsi davanti alle marmocchie, già pronti alla competizione con la vita per conquistare, oltre ad un
cuore femminile, una rispettabile stima, ignari di quanto ciò potesse influire su un orgoglio che in
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futuro avrebbe potuto essere causa di discordie, conflitti e, malgrado ancora non si potesse dire di
averne una, perdita di identità. E la collina, per dei bambini ancora sprovveduti che continuavano a
credere, pur sentendosi già uomini, alle grottesche storie di maranteghe e fantasmi, dava
un’opportunità da non sottovalutare.
Tuttavia, la collina stessa aveva rischiato di diventare un luogo noioso perché una volta lì, l’unica
cosa che restava da fare era contemplare il paesaggio. Molti di noi avevano ancora timore delle
leggende narrate dagli anziani e per quanto il fiume fosse invitante nessuno osava sfidarlo. Dimostrare
di aver avuto il coraggio di affrontare la collina era già una grande prova, ma che cosa ci sarebbero
dovute venire a fare le ragazzette se alla fine tutto si risolveva in una semplice spedizione esplorativa?
Le avevamo condotte con noi e loro ci erano tornate per un po’. Ma la mente femminile non ragiona
come quella maschile. È quasi contorta, ella non si accontenta di una conquista, vuole sempre
qualcosa di più, è sempre alla ricerca di nuovi stimoli, di nuove emozioni. Un uomo, ragazzo o
bambino, ha solo necessità di dare dimostrazioni di coraggio, di forza e qualche volta, di saggezza.
Una donna, ragazza o bambina, ha bisogno da dare un senso a tali dimostrazioni. A quale scopo
conquistare una vittoria se poi non si sa nemmeno giustificare per che cosa ci si è battuti? A cosa serve
il potere se poi l’unico scopo per cui lo si usa è l’interesse proprio? A che serve raggiungere una meta
se poi, una volta raggiunta, non si sa cosa farsene? In queste diversificazioni incomprensibili per noi,
era strano sentirci dire che non aveva senso andare in quel luogo solo per dimostrare un coraggio che
forse non era nemmeno tanto speciale eppure io, qualcosa di quell’assurda dissomiglianza, la
comprendevo, nello stesso modo in cui intuivo che la vera sfida era il fiume, sebbene a quel tempo non
comprendessi come il fiume e le ragazze fossero due cose distinte, restando convinto che vincere il
fiume significava conquistare il rispetto dei ragazzi e l’ammirazione delle ragazze.
Vincere il fiume significava vincere il drago, solo che ancora non sapevo chi era il vero drago e tanto
meno sapevo che, come veniva raffigurato nel dipinto di San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, per
sconfiggere la bestia, era necessario proprio l’apporto di una donna. C’era un particolare però,
mentre noi avevamo cominciato a frequentare la collina, il Mage aveva smesso di venirci e io
ricordavo ancora le sue parole: “Non ci sono nature malvagie da questo lato” aveva detto, ma che
cosa significava?
Quando glielo chiesi mi guardò con sospetto.
-Dovete stare attenti- mi disse -ogni luogo è protetto dagli spiriti della natura, essi non tollerano gli
abusi, né la mancanza di rispetto- io lo ascoltai, ma stranamente, le sue parole non avevano lo stesso
effetto delle leggende raccontate dagli anziani.
-Non crederai veramente a queste storie?- gli avevo risposto con una certa ironia. In lui però l’ironia
sembrava non esistere. In quel momento per un breve e troppo sfuggevole istante, ebbi la percezione di
comprendere quale fosse la sua vera diversità.
Una diversità che avrei iniziato a comprendere diversi anni dopo quando, divenuti stretti amici, in
una conversazione confidenziale mi aveva confessato la sua sensazione di essersi sempre sentito un
vecchio e più precisamente, di essere nato vecchio e che la sua età non aveva mai conosciuto la
disinvoltura e la spensieratezza tipica di un bambino.
-Se non credi alla mia verità, perché temi le leggende degli anziani?- mi domandò, ed io compresi
quanto stupido fosse il mio atteggiamento. Lo guardai con imbarazzo, avrei voluto scusarmi, ma non
sapevo in che modo.
-Perché non ci vieni più sulla collina?- gli avevo domandato allora.
-E voi? perché continuate a tornarci?- rispose con una domanda sensata, in quanto essa conteneva la
risposta alla mia, ma io ero ancora troppo limitato per comprenderlo e con ingenuità risposi -è
eccitante, e ci fa sembrare più forti-.
-Ho commesso un errore- mi disse -non avrei dovuto condurvi là-.
-Perché?Mi guardò, poi mi domandò se avevo voglia di vedere una cosa. Quel giorno mi condusse lungo le rive
del fiume Tregnon. Intendiamoci, non era un fiume come quelli che siamo abituati a considerare, era
un corso d’acqua la cui profondità, esclusa la fossa della collina, poteva raggiungere al massimo della
piena i due metri e le sue rive, nella loro più ampia larghezza raggiungevano forse gli otto metri. Il
luogo dove mi condusse però era suggestivo e per un certo senso, intimidatorio. Attraverso una
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stradina sterrata lo seguii fino ad un punto in cui il fiume la attraversava. Lì un ponticello costruito
con assi di legno le cui sponde erano protette da una precaria ringhiera anch’essa di legno,
permetteva di passare oltre. Il Mage si fermò al centro del ponte e io, per una ragione incerta, esitai a
seguirlo. Quando mi guardò sembrò soddisfatto. Allora io, sentendomi come sfidato, mi decisi a
seguirlo, ma nel passare sul ponte percepii inquietudine e disagio. Mi fermai al suo fianco e
istintivamente mi voltai ad osservare verso il lato destro, si percepiva un senso di tranquillità.
-Lo senti?- disse allora. Io sentivo qualcosa, ma non avrei saputo dire che cosa fosse, ricordo solo
che ero inquieto.
-Questo ponte segna un confine. Da quel lato vi è benevolenza- indicò verso destra dove io stavo
osservando. In effetti, sul lato destro la campagna si apriva come una radura e vi era molta luce, le
acque del fiume poi sembravano rallentare e scorrere con calma. Erano visibili i pesci e, se la mia
vista avesse potuto oltrepassare l’orizzonte oltre la curva che faceva sparire il fiume al di là della
distesa di campi coltivati, e poi inoltrarsi più in profondità, avrei potuto scorgere anche la collina.
Restai ad osservare lo scorrere del fiume e mi sentii in pace, poi però la voce del Mage mi portò in una
realtà cupa e insidiosa.
-Da questo lato invece…- mi costrinsi a girarmi e vidi che lui, senza timori, stava sul lato sinistro del
ponte e fissava con decisione il fiume che scorreva verso di noi. Io non riuscivo ad avvicinarmi e
osservai nella direzione verso la quale era rivolta la sua attenzione restando sul lato destro del ponte …vi è oscurità-.
Sentii un brivido. Da quel lato il fiume appariva all’improvviso, sbucando da una curva che lo faceva
sembrare come un aggressore in attesa della vittima da assalire. Era nascosto da un piccolo bosco di
platani e la curva aveva una conformità tale da far sì che le acque, come strozzate da una stretta di
terra, trovandosi sotto l’influsso di una pressione idraulica, si gettassero nel corso che le conduceva al
ponte con una violenza che, alla vista di un bambino, poteva essere associata a quelle di rapide
montane. Forse a causa del bosco, forse per la posizione di nord ovest, il lato sinistro era in ombra e
appariva buio, oscuro.
-Che cosa vuoi dire?- gli domandai.
-Molti anni fa- iniziò a raccontare -la natura è stata profanata. Su quelle rive uomini malvagi hanno
compiuto atti sgraditi alla natura-.
-Parli delle guerre del medioevo?- si sapeva che in queste zone erano state combattute guerre
medievali e in alcuni punti si potevano ancora trovare delle rovine o, se si era fortunati, dei reperti che
avrebbero potuto attirare l’attenzione di collezionisti o archeologi.
-L’uomo non combatte solo contro l’uomo. Ogni volta che l’uomo compie azioni immorali, coinvolge
l’intera natura, non solo quella umana, e gli spiriti della natura ne conservano la memoria. Così gli
spiriti che stanno da questo lato sono ostili e avversi. Loro proteggono la natura e ogni uomo che si
inoltra oltre questo confine, dovrebbe sapere che non riceverà favori da loro. Vieni avvicinati, se stai
da questo lato, puoi percepire la loro agitazione- mi invitò, ma io esitai, e non mi avvicinai.
Allora lui sorrise -perché hai paura adesso Tommaso? Io non sono un anziano, eppure, tu credi a
quello che dico?- non sapevo più cosa pensare, non sapevo se mi stava prendendo in giro o se fosse
dannatamente serio, ma sapevo che su quel ponte non ero sicuro. Tuttavia, scosso dal suo
atteggiamento di sfida, come se non volessi accettare che potesse prendermi in giro, osai avvicinarmi
alla sponda sinistra e un freddo intenso mi avvolse. Per un istante ebbi l’impressione di entrare
all’interno di un’oscurità irreale, come se un eclissi totale di sole si fosse manifestata in pochi secondi
e per quell’istante il ponte, il fiume e il bosco, mi parvero avvolti dall’oscurità. Sussultai e barcollai, al
punto che sentii la presa del Mage sul mio braccio trattenermi con forza.
-Lo senti Tommaso?- mi disse -fa più freddo da questo lato-.
Era vero, o forse era solo un’impressione, ma sta di fatto che strattonai per liberarmi dalla sua presa
e ansioso indietreggiai per raggiungere nuovamente il lato destro del ponte, quello sicuro. Poi guardai
oltre la strada, non sapendo che cosa potesse nascondere quel tratto che ancora non avevamo
percorso.
-Che cosa c’è oltre il ponte?- gli domandai.
-Ancora non lo so- disse lui -ma quello che serve a te ora ce l’hai-.
Lo guardai dubbioso -che cosa vuoi dire?50
-La collina sta sul lato benevolo, gli spiriti sono ancora propensi laggiù. Puoi portare i tuoi amici e le
tue amiche e far loro impressione affrontando il fiume. Diventerai un eroe, è questo quello che volevi
sapere no?-.
-Tu lo hai già fatto?- gli domandai. Lui rivolse lo sguardo al lato sinistro e io sentii, oltre il freddo
del lato oscuro, anche quello della malinconia. So che avrebbe voluto dirmi qualcosa che mi avrebbe
svelato molti anni dopo, ma si limitò a rispondere con altri termini.
-Io non ho nulla da dimostrare Tommaso, per questo non torno più alla collina…Il ricordo passò tra i miei pensieri veloce, in un modo che quasi nemmeno me ne accorsi, e in quel
momento non riuscii, o non volli, valutare che ogni istante di questa vita non può andare perduto. Per
quanto lo si voglia ignorare, dimenticare o rimuovere, tutto ciò che si è vissuto è qualcosa che fa parte
di noi, così come ci appartiene un braccio, un occhio, il cuore e il cervello, anche ciò che abbiamo
vissuto e che consideriamo solo come semplice passato o ricordo, è una parte che in nessun modo
possiamo estirpare.
fuggendo ai ricordi quasi intimorito, tornai a fissarlo e scuotendo il capo mi parve quasi di
confermare un rifiuto che mi allontanava dal passato per bloccarmi in una realtà che consideravo
sicura.
-Dimentica quelle cose, questa è la realtà- dissi con una forza che non riusciva a convincermi -forse
le tue sorelle non capiranno, ma forse anche tu ti stai illudendo-.
Il suo sorriso si fece malinconico e deluso -no, hai ragione- disse.
Allora lo guardai e come per dovere, dimenticando tutte le considerazioni fatte poco prima e,
decidendo di rivelare le mie vere intenzioni, osai sfidarlo -perché sei tornato?- gli domandai,
facendogli intuire che dubitavo della sua voglia di rivedere i luoghi della gioventù. Lui mi guardò
come se ne fosse compiaciuto, ma poi girò lo sguardo più volte alla ricerca di qualcosa.
-Dov’è?- mi domandò. Sapevo a che cosa si riferiva, e sapevo che anche quello non era un diversivo.
-Laggiù- dissi, e indicai una lapide lontana. Si incamminò e la raggiunse. Ma io sapevo che non era
nemmeno per questo che era tornato. Si fermò davanti alla lapide e in silenzio lesse il necrologio
inciso sul marmo, poi i suoi numeri, ovvero, le date di nascita e morte –Marco Aplicante 18 - 06 - 1970
– 11 – 08 - 1997 –.
-Ho sentito raccontare che si è trattato di un incidente- mi disse, ma io non avevo voglia di parlarne,
tuttavia risposi.
-Sì, così dicono-.
-Ma tu non ci credi- costatò.
Lo guardai perché sapevo che la sua non era una domanda ma un’affermazione, e di questo proprio,
non avevo voglia di parlare, così tornai al mio investigativo ruolo.
-Perché sei tornato Mage?- lo spronai di nuovo con un perentorio ordine, e solo quando lui si girò a
fissarmi compresi che avrei preferito non rispondesse a quella domanda.
-Sono tornato per lei Tommaso- confermò senza esitazione, e io provai un brivido raggelante…”
-Ebbene?- dissi alla conclusione del capitolo. Nella meditazione di Felona era ormai evidente che
anche in lei la confusione si stava facendo sempre più complessa. Si strofinò gli occhi con le mani in un
atteggiamento di stress.
-È complesso, veramente complesso- ammise.
-Non ci trovi un senso nemmeno tu vero?- dissi allora io con un pizzico di delusa incomprensione.
Lei scosse il capo -è assurdo, mescola ricordi del presente e del passato, solo che pure il presente di
cui parla sta nel passato, e poi ci sono tutti quei riferimenti simbolici che paiono avere un senso un
momento e nessuno nell’altro…-Aspetta un momento- la interruppi, e in quel momento il panico dovette essere esplicito sul mio
volto.
-Che ti prende?- domandò lei quasi spaventata.
La osservai con l’espressione di chi riceve una rivelazione divina -il presente di cui narra è… è pure
passato- balbettai incapace di razionalizzare ciò cui pensavo.
-Sì- disse lei affermando ciò che già era evidente -racconta della vita da ragazzi che avviene in un
periodo compreso tra gli anni 70 e 90 del secolo scorso, e poi racconta del ritorno di questo fotografo
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sensitivo, che avviene agli inizi del secondo decennio del ventunesimo secolo, ma ora siamo nel 2025,
quindi, mancano almeno tredici anni al nostro tempo-.
-Questo documento è in circolazione da tredici anni?- sembravo parlare da solo mentre ponderavo
l’assurdità della rivelazione percepita.
-No, sarei più propensa a pensare che tredici anni siano il tempo occorso a scriverlo- propose però la
psicologa senza riuscire ancora a comprendere la mia perplessità.
-Se così è- rivelai -non potrei in alcun modo conoscere questo individuo-.
A quel punto comprese la mia ansia e la sua espressione si fece austera. Mi guardò come se avessi una
malattia incurabile e non sapesse come confortarmi.
-In che sorta di caos mi sta conducendo questo pazzo? Deve trattarsi per forza di uno scherzo- tornai
ad avallare la mia ipotesi iniziale, ma era evidente che ora lo facevo per timore.
Lei mi guardò e per la prima volta osò essere invadente -di un po’, quanto ti ha pagato questo tizio per
leggere il documento?-Non ci crederesti- risposi.
-Capisco che non me lo voglia dire, ma sospetto che non si tratti di un cifra sottovalutabile se ti sei
lasciato tanto coinvolgere-.
Sospirai -mi ha pagato mille euro per ogni pagina del documento. In totale trecentoventunomila eurole rivelai.
La sentii fischiare nell’atteggiamento di chi vorrebbe fare un esclamazione di quelle che è meglio non
dire.
-E secondo te uno sborserebbe una cifra simile per uno scherzo? O è esageratamente ricco o
esageratamente idiota- affermò.
-Sì hai ragione- dissi mentre la mia mente vagava altrove -ma se questa cosa è seria, che cosa
significa?Felona era troppo intelligente e intuitiva per non comprendere che ora in me si stava designandosi la
paura -perché improvvisamente hai paura?Certo avrei potuto prendere la mia aria spavalda come facevo sempre e negare, ma non avevo la forza
per farlo.
-Fino a pochi minuti fa ero convinto che non vi fosse alcuna insidia in questa follia. Voglio dire, ho
preso in considerazione la possibilità di una vendetta, chiunque faccia il mio lavoro la prende in
considerazione, ma l’ho quasi subito scartata… insomma, in che modo uno potrebbe vendicarsi in
questo modo? Sinceramente per un po’ ho anche immaginato che poteva essere divertente… ma adesso
tutto prende un altro aspetto. Insomma, chi è questo tizio? Io pratico da circa dodici anni e questo qui
scrive da prima che io cominciassi a farlo. Chi è? Cosa vuole da me? Ha premeditato tutto? E se è così,
come poteva sapere cosa sarei divenuto? Prima di mettermi a fare l’investigatore sono stato un militare
nella polizia di stato, è lì che ho imparato i trucchi del mestiere, e nei primi anni investigavo su
questioni ben più pericolose. Come poteva prevedere che mi sarei indirizzato verso un ramo
investigativo meno rischioso ma più vicino a questo contesto? Sono stato perfino avvertito di andare
avanti solo dopo aver riflettuto e io non l’ho fatto abbastanza. Comincio a temere di avere a che fare
con qualcosa di più grande di un semplice rimborso, capisci? Dopo tutto questo, che cosa potrei
pensare che potrebbe succedere se decidessi di interrompere la lettura adesso? E una volta conclusa la
lettura, che cosa dovrei aspettarmi?Fissai Felona come a cercare in lei, più che risposte, un aiuto. Ma lei stessa non sembrava avere
risposte adeguate.
-Credo che a questo punto dipenda tutto da te-.
-Che vuoi dire?-Beh, sei disposto a rinunciare? In fondo non mi sembra che il contratto abbia delle clausole, non
sembra nemmeno un contratto-.
Riflettei, sì, era vero, non vi erano clausole, il che mi metteva in condizione di interrompere il mio
impegno, ma ormai avevo troppi dubbi e certo non ero disposto a restare con l’odore della paura
addosso.
-Sì potrei farlo ma…-La cifra è troppo attraente? È quella a spingerti ad andare avanti?52
Improvvisamente mi resi conto che dei soldi non mi importava più nulla e scossi il capo.
-Ora, se devo essere sincero, dei soldi non mi importa per nulla… mi sento come inseguito da spettri
contro i quali non so come combattere ma allo stesso tempo, sento di non poter evitare di affrontarli-.
Lei restò in silenzio per un po’, e quasi parve avere compassione per me.
-Va bene- riprese dopo -fammi vedere una cosa- si diresse al computer e cominciò a digitare dei tasti.
-Che cosa cerchi?- le domandai.
-Conferme- disse lei.
-Di che genere?-Abbiamo dei nuovi indizi su cui lavorare no?- subito dopo esultò -eccolo- esclamò.
-Che cosa?-Forlìa. Ricordi? Il fotografo dice di alloggiare in un hotel di Forlìa. Ebbene questo paese è reale, e
non è nemmeno lontano. Forse dovresti andarci-.
Provai un brivido raccapricciante -da solo intendi?Lei allargò le braccia -mi stai chiedendo di seguirti?-Ho bisogno di aiuto per risolvere questo caos. Fino ad ora lo valutavo semplicemente un romanzo
stupido, ma adesso…- la mia espressione era eloquente e, probabilmente, già sufficiente a convincerla,
ma pensavo che a questo punto meritava di più e ormai lontano dai miei principi le proposi un
incentivo piuttosto interessante -ti darò metà della somma, ci stai?- le proposi.
Lei sorrise -non mi interessano i soldi- disse, ma la sua non era un’affermazione di rinuncia.
-La situazione però t’intriga giusto?- la provocai accantonando un po’ di tensione.
Inclinò la testa con fare complice -non mi dispiacerebbe una vacanza in questo periodo- suggerì.
-Bene, che ne diresti di una visita alle suggestive località del basso veronese?- la cartina geografica
collocava la posizione di Frolìa in un triangolo tra Verona, Mantova e Ferrara.
-Offri tu?Sorrisi entusiasta -è il minimo che potrei fare, sarai mia ospite- confermai.
-Ci sto, ma non metterti in mente strane idee- disse con evidente allusione a ciò che avrebbe dovuto
restare un rapporto puramente professionale.
Provai un senso di sollievo -prometto che sarò bravo- dissi alzando le dita come un boy scout.
Le vidi un sorriso divertito sul volto -bene, quando si parte?-Direi anche subito-.
Dopo aver messo in valigia poche cose la accompagnai al suo alloggio a prendere qualche suo effetto
personale e poco dopo eravamo in viaggio verso Forlìa, un centro di modeste dimensioni che
raggiungemmo in poco più di un’ora di strada. Non sembrava una località turistica, ma di sicuro era
una zona di grande passaggio. Un crocevia tra le tre città vicine, e non fu difficile trovare un
accogliente hotel. Prenotai due camere separate e dopo aver sistemato le nostre cose raggiunsi Felona
nella sua stanza. Avevo con me il documento e, una volta seduti a fissarci glielo passai.
-Che significa?- mi domandò.
Sorrisi un po’ perfidamente -beh, ora non sono più tuo paziente- mi presi una piccola rivincita. Lei
sorrise, e forse per un cortese tentativo di distrarre la mia tensione, senza opposizioni prese a leggere:
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L’anima gemella…
“…Virginia. Per lei se ne era andato, per lei era tornato.
La sua rivelazione non fece altro che confermare i miei timori, ma ancora non sapevo, o più
semplicemente volevo ignorarlo, quale ne fosse la ragione.
Di fatto non riuscii ad approfondire l’argomento e banalmente balbettai un’altra domanda -che farai
con le tue sorelle? Sapranno comunque che sei in paese- dissi senza avere nessuna ragione per
conoscere le sue intenzioni come un qualunque curioso, ma sentivo che il suo ritorno stava
risvegliando troppe questioni del passato con le quali ero certo di aver chiuso.
Evidentemente però, il passato non aveva chiuso con me.
-Andrò a trovarle, non posso evitarlo. C’è una cosa che devo fare- disse, e come se temessi che ogni
sua azione potesse rischiare di smuovere altri tormenti, non osai domandargli che cos’era che doveva
fare. Nella mia mente in quel momento vi era troppa confusione e il pensiero correva ancora indietro
nel tempo, quando, per quell’ignota assurda mania che coglie quasi tutti gli uomini quando ritengono
di poter essere d’aiuto agli altri, mi ero lasciato coinvolgere dal suo di tormento. I risvolti di quella
lontana vicenda, lo vedevo adesso, avrebbero mostrato i loro effetti in un tempo futuro che io però,
credevo già essere passato. Evidentemente, mi sbagliavo.
Come uno sciocco avevo inventato una scusa banale e mi ero allontanato volendo convincermi
ancora che nella loro storia io mi ci ero trovato coinvolto per una combinazione di eventi fortuiti e per
una serie di coincidenze casuali, ma ormai ero troppo conscio del concetto che non vi era casualità
negli eventi e il fatto che avessi presagito i suoi propositi me ne dava conferma, così come sentivo che
io stesso ancora ero vincolato a quella vicenda mai iniziata e mai conclusa.
Chiuso nel mio studio, quel giorno, dopo la mattinata trascorsa a discutere con lui, mi ero isolato non
per assolvere compiti professionali, ma per riflettere sul perché di quella situazione, su quale fosse la
ragione che mi spingeva ad indagare sulle sue motivazioni e su come cercare di restarne fuori. La
memoria non aveva impiegato molto a portarmi indietro nel tempo, nel giorno afoso di un’estate di
vent’anni prima, nell’anno che dava l’avvio all’ultimo decennio del secondo millennio, quando scosso
da una sensazione di smarrimento, gli avevo posto quella domanda: -Te ne vai per lei vero?La notizia che aveva deciso di partire mi aveva colto con un malessere strano. Erano passati molti
anni ormai da quando le voci dei fiumi, degli alberi e di tutti gli spiriti della natura avevano smesso di
mormorare e noi eravamo divenuti persone comuni. Uscendo dall’età infantile per inoltrarci in quella
adolescenziale, molte cose erano cambiate. La fine delle nostre esplorazioni, il chiudersi di quel ciclo
di pensieri sull’indagine esistenziale, l’insinuarsi di desideri adulti, il cambiamento fisico e
l’instaurarsi di nuovi rapporti, ci avevano definitivamente spinto fuori dal giardino fatato sospeso tra
realtà e illusione per condurci all’interno del grande labirinto di terra, nel quale ogni via sembrava
portarci verso un’unica realtà fatta di concretezze, razionalità e frenetiche responsabilità quotidiane,
ovvero, nella normale consuetudine di una regolare vita professionale dove io mi trovavo alle prese
con i miei studi e lui lavorava da apprendista fotografo nel vicino Valbordi, comune di cui Casterba
era una frazione. Non era più il bambino strano dei tempi infantili, malgrado tutto però, una
reputazione è come un marchio impresso col fuoco, difficile se non impossibile da cancellare, e quella
sua indole introversa che lo aveva caratterizzato da sempre gli era rimasta addosso come un tatuaggio
e per quasi tutti i paesani, nonostante l’atteggiamento fosse mutato già dai tempi della collina, lui
restava un tipo ambiguo. A quel tempo non passeggiava più per le campagne in solitaria, ma
frequentava parchi naturalistici dove realizzava, sotto la guida del titolare dello studio, servizi
fotografici per matrimoni o per aziende pubblicitarie. Era stato da lì che aveva cominciato a
collaborare come fotografo free lance per reportage commissionati da giornali locali. Ed era stato
sempre in quegli anni che si era formato uno stravagante gruppo di amici che le voci nascoste dei
detrattori definivano ambiguo e strampalato. Un gruppo di quattro fantasiosi artisti, dove ognuno a
loro modo aveva una sua maniera di esprimere la propria creatività, sia con l’azione che con le
parole. Quattro singolari elementi che qualcuno avrebbe potuto definire quattro dannati, tra i quali io,
che mi definivo il quinto incomodo, rappresentavo l’anomalia.
Non era un gruppo fisso, tra loro non avveniva come tra tutte le normali compagnie di paese dove gli
elementi che le formavano si davano appuntamenti concordati per incontrarsi e poi decidere con
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animate discussioni come passare le serate, sempre monotamente uguali. Loro erano originali
personalità che condividevano inconsuete passioni e si incontravano senza nessun accordo
preventivato, per caso, durante il lavoro o all’inizio del giorno in un bar a fare colazione; o alla fine
del giorno, quando il sole cominciava a calare e le ombre del tramonto alimentavano ed esaltavano
come un elisir le doti creative.
Raramente capitava di vederli tutti e quattro assieme, ma comunque fosse, quando li si incontrava,
succedeva di vederli discutere delle loro estrosità che potevano riferirsi a ciò che era avvenuto durante
la giornata, a ciò che sognavano, a ciò che desideravano o anche, a nulla di rilevante. Di ogni cosa
discutessero ad ogni modo, si vedeva in loro la sincerità e la sicurezza che il condividere anche la più
delle esuberanti stranezze, la persona con cui la spartivano non avrebbe riso, se non per piacere, e non
avrebbe espresso giudizi sfavorevoli, ma semplicemente approvato e poi mantenuto come una riservata
confidenza personale. Oltre a Demetrio, di cui l’originalità vi è già nota, c’era Val, l’eccentrico, quello
che si poteva definire l’avventuroso. Lui, sebbene attraverso circostanze non effettivamente spontanee,
avrebbe intrapreso lo studio delle lingue straniere. In un certo senso ne era stato costretto, e tale scelta
aveva, almeno in principio, un ideale diverso da quello che poi l’avrebbe notevolmente agevolato nel
mondo professionale. Il suo presupposto a quel tempo non era di farne una professione, ma piuttosto
quello di avere una motivazione per viaggiare con il supporto delle risorse familiari. Sfruttava ogni
occasione che l’università gli dava per poter andare all’estero e quando non era in giro per l’Europa
come uno zingaro, passava più tempo sui treni che in famiglia. La sua enigmaticità era meno nota in
paese, ma solo perché lui stesso, probabilmente, ne era all’oscuro. La sua era un’ambiguità ingenua,
che gli permetteva di discutere con filosofia quando incontrava Demetrio e altri come lui, e di divenire
una persona comune, con interessi comuni e intelletti comuni, quando si trovava con persone di vedute
meno aperte. Per questo Val non era mai stato considerato un anomalia, perché sapeva stare e
accettare, ingenuamente, la vicinanza della collettività. E quella stessa collettività, ingenuamente,
riteneva che i suoi ambigui incontri con personaggi stravaganti fosse una pura forma di cortesia, come
evidentemente dovevano pensarlo di me.
Poi c’era Marco, il musicista, conosciuto semplicemente come “il Canta”, pigro diminutivo di
cantautore.
Si poteva dire che lui più di tutti fosse quello che somigliava maggiormente a Demetrio, anche se le
sue fantasie non andavano così oltre l’immaginario come quelle del Mage. La sua ambizione era
quella di divenire un cantante, interprete dei suoi scritti musicali, ma le sue risorse economiche però lo
costringevano a dedicare più tempo al lavoro di muratore che alla passione per la musica e, sebbene
sentirlo suonare la chitarra fosse notevolmente piacevole, era evidente che le doti autodidatte non
l’avrebbero mai condotto nell’olimpo delle celebrità canore. In lui l’animo artistico era talmente forte,
che tale passione avrebbe finito per rendere il suo destino, il più tragico.
Era il più simile a Demetrio perché nell’appunto, il suo interesse per la musica lo conduceva ad
un’esistenza isolata. Le sue serate le passava in casa o in qualche locale a suonare con occasionali
gruppi di musicisti improvvisati, e quindi la sua vita sociale si limitava alle piccole discussioni in quei
fortuiti incontri e su di lui, le malelingue, ovviamente, discorrevano da malelingue.
E in fine c’era Vincent, il giocatore. Le sue origini erano quasi del tutto ignote. Di lui si sapeva che
era originario della Francia e che la sua famiglia si era trasferita a Casterba quando ancora era
neonato. La sua più grande abilità consisteva nell’azzardo. Anche lui era muratore, come Marco, ma
anziché doti canore egli aveva grandi capacità dialettiche e nonostante la mancata formazione
culturale era in grado di stupefacenti riflessioni. Ma i suoi istinti prevaricavano le doti. Amava il vino,
le belle donne e il gioco d’azzardo, ed erano amori che infine lo avrebbe condotto ad un tormentato
futuro. Quando Demetrio tornò, infatti, lui era già un alcolizzato che si era giocato ogni cosa, lavoro,
famiglia, amici.
Erano tuttavia sempre quegli stessi istinti che ne avevano fatto una specie di idolo tra i compaesani.
Vincent appariva come il tipico dannato ribelle dall’anima maledetta, quel personaggio che non
manca in nessun paese, per quanto piccolo, ma che però, a differenza degli altri, lo rendeva
affascinante cosicché a lui ogni cosa era concessa, perfino il privilegio di soffermarsi a discutere con il
fotografo o il musicista senza essere per questo giudicato uno di loro, ossia, l’idiota che ogni villaggio,
per quanto piccolo, possiede. Ma io, che con loro non avevo niente da condividere, vedevo oltre ciò
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che la maschera della realtà aveva da proporre. Quella sincerità, ingenua o no che fosse, quella
possibilità di poter condividere ogni sorta di pensiero senza dovermi preoccupare di come sarei stato
giudicato o a come io stesso potevo giudicare ciò che sentivo, quella mancanza di vincoli di
comportamento o di immagine che trasportava verso una libertà impensabile, provocava in me
un’attrazione che quasi non riuscivo a spiegarmi o che forse, come molte altre cose della mia vita,
semplicemente volevo ignorare.
Non volevo accettare, probabilmente, che quell’attrazione fosse il sintomo di un legame ancora non
completamente tagliato con l’irreale mondo fiabesco dell’infanzia dal quale già da molto tempo, per
non dire già dall’inizio del suo sorgere, avevo cercato di fuggire, ma semplicemente come
l’opportunità di un istante di tregua dai doveri e dalle oppressioni. Per questo apprezzavo e a volte
desideravo soffermarmi con loro. Loro che non giudicavano il mio aspetto curato invece che
trasandato, che non si preoccupavano di essere impolverati di calce o di avere le scarpe sporche di
terra di fronte alla mia eleganza. Loro che non discutevano di economia, politica o altro come fossero
dei mali da debellare ma che sapevano entrarci dentro con analisi approfondite che potevano invece
far capire perché, in definitiva, tali argomenti si trasformavano in malattie da eliminare. Io mi
soffermavo con loro perché ne avevo bisogno, mentre allo stesso tempo mi costringevo a realizzare la
mia vita in un contesto per il quale credevo fosse regolare mantenere certe distanze da false illusioni,
senza rendermi conto che quelle false illusioni di cui io non avevo necessità, per molti altri erano
l’unico modo per sopravvivere. False illusioni che vedevo smarrirsi in quella che in definitiva era la
conclusione di ognuno: un ruolo prestabilito nel quale ogni comune persona si identificava come ogni
altra comune persona, convincendosi che tale monotonia, benché diversificata da attività differenti,
era ciò che ci sosteneva e ci rendeva regolari, benché in definitiva non facesse altro che renderci tutti
automi.
Forse per questo mi dicevo che non era poi così tragico mantenere quei contatti, perché alla fine tutto
tornava nella realtà. Perfino Demetrio lavorava, ma forse, proprio in quel suo lavoro insistevo a non
voler vedere ciò che oggi definirei più un volere del destino che un caso. Forse proprio in quel lavoro
volevo costringermi a scorgere la normalità di un individuo che aveva avuto la capacità di rendere i
miei dubbi dei tormenti, perché se riuscivo a scorgere quella normalità allora, avrei potuto
definitivamente liberarmi dai dubbi e convincermi che tutto era regolare, che mai avevo sentito le voci
della natura e che la notte non aveva un cuore pulsante. In quel lavoro, volevo e potevo solo
identificare quel Demetrio di cui necessitavo, perché se anche lui era come gli altri, allora anch’io
potevo essere come lui senza il timore di sentirmi folle. Ma quel tormento non cessava, perché per
quanto mi sforzassi, e per quanto l’atteggiamento di Demetrio fosse divenuto ordinario, comune e
normale, io continuavo a percepire quel gioco assurdo del destino incitarmi a muovere il mio pedone
sulla scacchiera, senza sapere quale sarebbe stata la mossa successiva, né mia, né dell’avversario.
Era successo che quando il padre aveva portato i primi rullini di fotografie a sviluppare, quelli
realizzati con la famosa macchina compatta, il gestore del negozio era rimasto così impressionato dai
dettagli che il giovane riusciva a cogliere che riconoscendo in lui un potenziale talento, gli aveva
offerto di lavorare come suo assistente. Era un uomo sulla cinquantina, sposato ma senza figli e forse
in Demetrio aveva visto quell’erede cui tramandare la sua esperienza. Si chiamava Giovanbattista, e
forse l’esperienza che voleva tramandare al figlio adottivo, non era semplicemente quella
professionale. Demetrio lo chiamava “il grande bianco”, per via dei suoi centonovanta centimetri
d’altezza e dei suoi capelli e baffi bianchi diceva, ma io pensavo che quel nome avesse un altro
significato. Giovanbattista non era solo un buon fotografo, ma anche un buon osservatore, un buon
ascoltatore e soprattutto, un buon mentore. Non aveva solo consigli professionali da dispensare, ma
anche saggezze di vita, e credo che il grande bianco sia stato un’abbondante fonte di spunti e
ispirazioni per Demetrio.
Ad ogni modo, avrei dovuto capirlo che in fondo la mia era solo un'altra illusione. Io, in definitiva,
non ero molto diverso da loro, semplicemente, non avevo mai compreso chi ero, e avevo accettato di
essere ciò che credevo di dover essere. Così i ricordi mi riconducevano indietro nel tempo provando
quasi le medesime sensazioni e lo stesso senso di nausea che avevo provato in quella serata, quando di
quel bizzarro gruppo si erano già disperse le origini e le abitudini e apprendere che lui, quello a cui
ero più legato e quello che forse meglio di ogni altro aveva la capacità di tenere viva la fiamma della
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ricerca trascendente, stava per andarsene, mi provocò una nauseante sensazione di abbandono. Come
se il raggiungere infine ciò che cercavo, ovvero la conferma della normalità che il suo disinteresse
dimostrava, stesse strappando via una parte di me stesso facendomi sentire come un cane che, una
volta raggiunto il ramo lanciato, non sapeva che farsene…”
Quell’ultimo capitolo se ne era andato senza apparenti novità, se non quella introdotta dalla dolce e
corretta lettura che la voce di Felona sapeva imprimere allo scritto. Ci guardammo pensando
probabilmente la stessa cosa.
-Credi che esista anche questo Valbordi?- le domandai con apparente serenità.
Lei annuì -temo di sì- disse, e quando scendemmo per la cena, ci fermammo prima al bancone,
ufficialmente per un aperitivo, ma realmente, con la scusa di chiacchierare, per avere informazioni dal
barista.
-Conosce un paese chiamato Valbordi?- domandò Felona mentre le serviva l’analcolico.
-Certo- rispose in tutta scioltezza l’uomo -si trova a circa quattro chilometri da qui- ci informò e ci
indicò la strada per raggiungerlo informandoci che era sicuramente un borgo molto più suggestivo di
Forlìa. A suo dire Forlìa si era lasciato troppo trascinare dall’idea, di stampo politico presumo, di
diventare un centro di rilevante importanza. Le caratteristiche le aveva, commentava, sicuramente la
posizione geografica era buona, ma le amministrazioni comunali non avevano saputo sfruttare né il
territorio né le risorse, così, proseguiva nella sua nostalgica descrizione, Forlìa aveva finito per restare
un paese il cui sviluppo industriale aveva finito più per limitarlo piuttosto che espanderlo. Valbordi,
proseguiva poi, non era un paese molto industrializzato, ma se qualcuno voleva vedere qualcosa
d’interessante da quelle parti, certo Valbordi offriva molto più di Forlìa, dove l’attrazione principale era
la stazione. A Valbordi invece vi era un castello medievale ancora in ottimo stato ci aveva spiegato, e le
ultime amministrazioni comunali avevano puntato molto sul territorio e su ciò che il paese poteva
offrire anche a livello naturalistico. Ci spiegò che si stava per creare un parco e che molti luoghi
cominciavano ad essere presi come riferimenti per una possibile attrattiva turistica, come ad esempio il
vecchio mulino. Fu molto cordiale e prolifico e non sospettò che il suo descrivere questo paese
suscitava in noi timori piuttosto che favori. Lo salutammo per andare a cena e lui sorrise compiaciuto di
aver potuto, forse per la prima volta, esprimersi come un cicerone.
La cena non era stata niente di speciale, del resto ci trovavamo in una località in cui gli ospiti erano
comunemente gente di passaggio, che non si fermavano per questioni turistiche ma solo di lavoro, in
quello che appariva un hotel solamente perché in origine la prospettiva era stata quella che lo sviluppo
industriale avrebbe fatto sì che Forlìa sarebbe divenuto un centro di rispettabile prestigio ma dove ora
la qualità, non aveva più alcuna priorità. Decidemmo quindi di prendere un caffé fuori, solo per fare un
giro e farci un’idea di che tipo di paese fosse Forlìa. Ci trovammo ad avere a che fare con un
semideserto in cui la gente sembrava timorosa o annoiata. Il traffico giornaliero che attraverso le arterie
stradali piuttosto importanti faceva sì che vi fosse un gran scorrere di veicoli di ogni genere, dai mezzi
pesanti ai furgoncini, dagli autobus alle utilitarie, dalle potenti motociclette quasi da pista agli scouter,
di sera si spegneva quasi completamente e i veicoli di passaggio si potevano quasi contare. Qualche
vecchio azzardava una passeggiata serale e noi finimmo per appartarci in una specie di birreria, un pub
dove pochi giovani e qualche coppia sembravano quasi dei temerari e subito non mancammo di
osservare come la nostra presenza non esitasse ad attirare sguardi più sospetti che stupiti, il che ci dava
la conferma di come quel paese non fosse abituato agli estranei. Io non mi preoccupai molto
dell’ambiente circostante, le gambe di Felona, che indossava un miniabito che rendeva inevitabile
condurre lo sguardo alle sue cosce, mi attraevano molto di più, oltre a distrarmi dagli ultimi tormenti.
Prendemmo il nostro caffé e discutemmo un po’ dell’impressione che avevamo di Forlìa e quindi, una
volta compreso che Forlìa non aveva nulla da offrire a ciò che poteva interessare a noi, decidemmo di
rientrare all’hotel.
-Che ne dici se ci facciamo un altro capitolo?- le proposi.
-Stavo pensando la stessa cosa- rispose lei.
-Bene- dissi subito con baldanza -da me o da te?- domandai visto che avevamo camere separate.
-Il documento è rimasto nella mia camera- mi ricordò.
-Bene, allora da te- osai un po’ di spavalderia nella quale lei dovette percepire anche una certa
concupiscenza.
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-Sì, ma non ti illudere e togliti dalla testa certe idee- bloccò subito i miei entusiasmi.
Sorrisi -leggi tu?-Solo se la smetti di continuare a sbirciare sotto la mia gonna- mi apostrofò come già aveva fatto non
molto prima, questa volta però, forse per la confidenza ormai instaurata, osai replicare.
-Ci proverò, ma anche tu però, sembra che lo faccia a posta, è forse una sorta di prova?- sorrise con
malizia e per un momento pensai che questa mal nascosta esplorazione generava una sorta di attenzione
che in fondo le piaceva, rendendola più umanamente donna di quanto nella sua professione cercava di
celare. La seguii in silenzio soddisfatto della sua reazione, anche se quando entrammo nel suo alloggio
si assentò per qualche minuto e quando tornò indossava jeans e maglietta priva di scollatura.
-Mi vuoi proprio punire- provocai allora con palese ironia.
-Lo faccio per te- rispose -così resti concentrato su ciò per cui siamo qui- quindi si sedette, prese il
documento e riprese a leggere:
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Radici…
“…Certo qualcosa era cambiato, così come dall’infanzia si passa all’adolescenza, sentivamo ormai
che ci stavamo per avviare verso l’età adulta e che il tempo non può essere fermato come in una
fotografia. Sapevo che prima o poi le cose sarebbero mutate, così come ogni realtà è destinata ad
avere una conclusione. Ma a questa consapevolezza non avevo mai voluto cedere, e in quel momento,
più che mai, mi rendevo conto che, a differenza di quei quattro che nella loro astrusità sembravano
aver ben conscia l’idea di ciò che avrebbero voluto fare della loro vita, io che non avevo mai dovuto
preoccuparmi di progettare il mio futuro, ero forse l’unico che non sapeva cosa fare.
Avevo avvertito un senso di vuoto cogliermi, simile a quello che si percepisce in occasione di un
tradimento perché non potevo impedirmi di sentirmi in qualche modo collegato a Demetrio e nel vuoto
percepito avevo provato come la sensazione di una profonda ferita squarciarmi la pelle ed estirparmi
un tratto di anima, quasi potessi considerare lui come la mia anima gemella. Ora so che se ci avessi
creduto di più, intuendo che non era un anima gemella che stavo perdendo ma un anima consimile,
avrei cercato di fermarlo. Ma a quel tempo l’idea astrusa che lui fosse la mia anima gemella, prendeva
un significato diverso in me e l’idea che potevo confondere la mia personalità mi fece agire in modo
diverso e, malgrado tentassi di capire le sue ragioni, non forzai per farlo desistere dalla decisione.
Quello che capisco oggi, forse, è che per questo esistono persone attratte dallo stesso sesso. Noi
umani, nella nostra limitata concezione, siamo convinti che ogni cosa sia razionale e corretta solo in
ciò che è concreto per come lo concepiamo noi e quindi limitiamo tutto a quel che vediamo,
conosciamo e reputiamo giusto per noi, senza necessità di andare oltre la barriera del visibile per non
correre il rischio di dover dubitare della nostra logica e, conseguentemente giudichiamo e decretiamo.
Così quando ci riferiamo al concetto di anima gemella, subito la interpretiamo come l’unione di una
coppia formata da sessi differenti, rifiutando che poter credere diversamente possa avere una sua
regolarità solo perché ritenuto illogico per natura e, timorosi che ammettere il contrario possa
renderci vulnerabili, creiamo noi stessi in primo luogo le differenze.
Ma in che modo possiamo noi pretendere di conoscere quali siano le leggi della natura? Io ero etero,
eppure mi sentivo attratto dal fascino del Mage come se in realtà fosse lui la mia anima gemella, quale
ordine vi era in questa legge della natura, visto che per natura non potevo sottrarmici?
La verità, o meglio, quello che io intendo per verità oggi, è che noi abbiamo bisogno, probabilmente,
di una compagnia che ci accompagni lungo una strada che non conosciamo e che, fatta assieme a
qualcuno fa meno paura, ma ciò non significa che la nostra risoluzione sia nel trovare l’unione
perfetta. Forse quell’unione fa parte del viaggio, ma sentendo quel distacco, quell’abbandono, io
percepii come, oltre ciò che siamo abituati a concepire, vi fosse qualcosa di più grande e illimitato al
punto che, limitarlo noi come esseri umani ad un confine così riduttivo, era alla soglia del sacrilego.
Un sacrilegio manifestato proprio nell’arroganza del nostro giudizio, tanto presuntuoso da poter
credere noi di avere diritto e competenza di generare le leggi della natura, giungendo così ad ignorare
che quell’infinito ci appartiene… ma non come esseri umani. Come esseri umani siamo divisi e soli, e
per questo sentiamo l’esigenza di unirci con amicizie o amori, ma al di là di tutto questo, come anime,
siamo parte di quell’immenso infinito, un infinito dove non si può essere divisi ma un tutt’unico grande
spirito. Era questo che percepivo. Ma allora, non potevo pensare che quel grande infinito si stava
dividendo ulteriormente.
Ripresi a ricordare il tempo della domanda che mi avrebbe ricondotto nel labirinto per il resto dei
miei giorni.
-Me ne vado perché ho avuto una buona offerta di lavoro Tommaso- aveva risposto, ma era evidente
la mancanza di sincerità.
-Puoi avere uno studio tutto tuo lo sai, fra pochi anni il tuo principale cesserà l’attività e tu la puoi
rilevare- gli avevo risposto.
Lui mi aveva guardato fermandosi in modo riflessivo, intuendo probabilmente la mia ansia -uno resta
fermo in un posto se sente che quello è il suo posto Tommaso- aveva replicato infine, capendo che non
avrei accettato altre invenzioni.
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-Quindi questo non è il tuo posto?- lo avevo provocato. In quel momento più risposte dovettero
vagargli nella mente, e nel silenzio che lasciò trascorrere, probabilmente, ponderava quale fosse la più
adatta.
-Mi sono innamorato di un sogno Tommaso, e devo comprenderne la ragione-.
-E non puoi farlo restando qui?-.
Sorrise -no, non posso farlo se il sogno resta con me-.
-Ma tu sai che è questo il tuo posto- continuai a sollecitarlo, senza comprendere che stavo solo
compromettendo me stesso.
-Se questo è il mio posto Tommaso, allora significa che non è il tuo, né quello di tutti coloro che vi si
fermano- disse…”
La pausa che sentii mi fece comprendere che il capitolo si chiudeva lì.
-Tutto qui?- domandai.
Felona alzò gli occhi dallo scritto e mi guardò come se fossi idiota -e ti pare poco?- replicò.
Proposi la mia classica espressione d’incomprensione e dopo una pausa in cui cercavo delle parole con
cui giustificarmi, quasi con naturalezza esposi le mie impressioni.
-Beh, tutto quello che ho compreso io è che questo tizio, questo Tommaso, sospetta di poter diventare
omosessuale e questo non gli piace-.
-Tu osservi solo una parte del disegno e non riesci a contestualizzarlo nella sua totalità. Ascolti un
capitolo e ti limiti a considerare ciò che hai letto o sentito. Per questo non riesci a fare progressi. Qui si
tratta di analizzare tutto nell’insieme, non puoi scindere un capitolo dall’altro, e te lo dimostra
attraverso i titoli, ricordi? Il capitolo precedente lo denominava “l’anima gemella”, ma solo in questo fa
riferimento all’anima gemella, è una costruzione fatta apposta per condurti a questa comprensione. Le
divisioni sono fatte solamente per introdurre qualcosa, ma questo qualcosa fa parte del tutto, è un'altra
cosa che ti ha appena spiegato in questo capitolo: “Come esseri umani siamo divisi e soli, e per questo
sentiamo l’esigenza di unirci con amicizie o amori, ma al di là di tutto questo, come anime, siamo parte
di quell’immenso infinito, un infinito dove non si può essere divisi ma un tutt’unico grande spirito”lesse nuovamente parte del capitolo -se non riesci a unire i tasselli non capirai niente-. Mi apostrofò, e
io mi sentii leggermente offeso.
-Che ci dovrei fare? Io non sono un lettore, nessuno mi ha mai sottoposto una relazione che andasse
oltre le tre pagine. Non sono abituato a queste cose-.
-Beh, dovrai cominciare ad abituarti. Ora dimmi, non ricordi nulla degli altri capitoli?-Sì, certo- feci uno sforzo riflessivo -ma non riesco ad unirli nell’insieme. Mi sembra che ogni uno sia
a se stante e che per ogni uno vi sia un aumento di follia-.
Sorrise rassegnata dalla mia ingenua limitazione condizionata da una mancanza d’impegno intellettivo
e con una sorta di comprensione cercò di guidarmi tra il suo mondo analitico.
-Quando ha introdotto Elena nel racconto?-Quando parlava dei due guerrieri troiani?- lo dissi in forma di domanda, così come fanno i bambini
che temono di rispondere in modo errato quando interrogati.
-Sì, dei due guerrieri che si sono affrontati in quella guerra- mi corresse giacché uno solo dei due era
troiano -propose l’enigma nel quale domandava fino a che punto si poteva ritenere Elena la causa della
guerra-.
-Ma lei fu causa della guerra- dissi riprendendo un po’ di sicurezza, sottolineando la responsabilità
della donna accingendo ai miei ridotti ricordi scolastici nei quali il poema epico dell’Iliade veniva
presentato come una guerra combattuta per una donna, che tradotto in senso maschile significava: “A
causa di una donna”.
Lei scosse il capo -quello che lo scrittore intende, è che Elena era sedotta da qualcosa che non poteva
contrastare. Prima dell’Iliade vi sono altre vicende che precedono il conflitto, una di queste è il noto
giudizio di Paride- la guardai facendole intendere con un’espressione ebete che ignoravo questa
versione, o elemento come lo volesse intendere. E lei iniziò la lezione.
-Paride era principe di Troia, ma a causa di una profezia, secondo la quale sarebbe stato la causa della
rovina della città, alla sua nascita venne portato lontano e fu allevato da un pastore, di conseguenza egli
crebbe come un pastore. Il mito racconta che quando Zeus allestì il banchetto per festeggiare le nozze
tra Peleo e Teti, i futuri genitori di Achille, tutti gli dèi furono invitati, tranne Eris, la dea della
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discordia. Irritata ma allo stesso tempo perfida e geniale, per vendicarsi la dea si presentò al banchetto e
gettò sul tavolo una mela d’oro con incisa sopra la frase “Alla più bella”. Tra Era, Atena e Afrodite si
accese una fervente ostilità che scatenò, appunto, discordia e tensione tra gli dèi, e Zeus, chiamato a
risolvere la questione, stabilì che a decidere sarebbe stato un uomo. Discese sulla terra le tre dee
incontrarono Paride e a lui sottoposero la questione. Ovviamente le dee, ben lontane dall’essere nobili
come noi immagineremmo che dovrebbe essere una divinità, offrirono dei doni al giovane per
accattivarsi i suoi favori. Atena gli promise l’invincibilità in battaglia, Era ricchezza e poteri immensi,
Afrodite invece le promise l’amore della donna più bella del mondo, Elena. Paride, che ancora
ragionava come un pastore e non come un principe guerriero, favorì quest’ultima-.
Si fermò e mi guardò come a chiedere se avessi capito -beh, ognuno ha le sue priorità-.
Si limitò a sorridere e proseguì -quello che lo scrittore intendeva, alludendo ad Elena, era che lei non
poteva essere ritenuta colpevole, in quanto vittima di una forza che non poteva contrastare. Non era in
grado di sottrarsi a Paride perché sotto l’influsso di una divinità, di una forza che aveva messo in atto le
sue potenze per portarla all’incontro con Paride, come promesso. Per questo chiede quanta
responsabilità si poteva veramente attribuire a Elena-.
Mi guardò e finalmente la mia serietà dovette sembrarle idonea. Il fatto stava nella condizione che io
stesso cominciavo a valutare cose che mai avevo considerato. Il destino, il caso, la sorte, per me erano
state fino ad ora tutte cose astratte. Io ero uno di quei tipi per cui il giorno era giorno e la notte era notte
perché così doveva essere e che mai si era chiesto il motivo del perché così dovesse essere.
-Sarebbe come a dire che non abbiamo scelta… ma allora, che senso avrebbe tutto ciò che facciamo?dissi, supponendo che ognuno di noi messo di fronte ad una simile evenienza porrebbe la medesima
domanda.
Lei però scosse il capo -no, non credo che l’autore volesse limitarsi a tanto. Questo scritto è
favolosamente complesso. La questione che vuole dimostrare secondo me, è che abbiamo sempre una
scelta, ma a volte la nostra possibilità di scegliere è limitata dalle scelte degli altri…-Elena non poteva sottrarsi al volere divino, lo hai appena detto tu- le feci notare allora io.
-Lei no, ma Paride sì. La scelta di Elena era condizionata, ma Paride che a quel punto era consapevole
di ciò che stava per scatenare, aveva ancora una possibilità di scelta, così come l’aveva avuta nel suo
giudizio…-Tutto ha origine quindi da una conseguenza scatenata altrove…-Teoria del caos: una farfalla sbatte le ali a Londra e a Pechino scoppia un temporale- replicò con un
nuovo enigma lei, e io la guardai come un ciclista travolto da un treno su un tratto di strada senza
binari.
Felona rise -credo che l’intenzione dello scrittore sia semplicemente quella di rendere l’idea di come
le nostre scelte possano condizionare non solo la nostra realtà ma anche quella degli altri. Gli alchimisti
usavano la metafora dell’arazzo per cercare di darne una dimostrazione, secondo cui, se tu tiri un filo
da un lato, essendo l’arazzo un intreccio di fili, inevitabilmente modificherai l’intero lavoro, in alcune
parti in modo evidente in altre in modo lieve. Ma ciò che noi facciamo qui, può avere conseguenze
ovunque…-La conclusione quindi è che ad ogni scelta consegue un effetto e che l’esito potrebbe riguardare non
solo noi… e secondo te questo è semplice?-Assolutamente no. Per questo dico che lo scritto è favolosamente complesso. Lo vedi? Lui parla di
radici e ti conduce da tutt’altra parte-.
-Sarebbe questo quindi che vuole dire quando esprime il concetto che uno resta dov’è se sente che
quello è il suo posto?-Esatto, bravo, vedo che cominci ad entrare nello spirito analitico-.
-Va bene, ma cosa c’entra l’anima gemella?-In questo senso molte cose. L’amico gli fa notare che quello è il suo posto, facendo riferimento
probabilmente ai suoi dialoghi con i fiumi e gli spiriti della natura. In questo modo gli fa capire che lì
lui ha un legame. Ma questo Mage risponde che se quello è il suo posto, allora non è il posto degli altri
che al contrario non hanno lo stesso legame. Così il suo partire diventa una sorta di sacrificio in cui egli
abbandona ciò che gli appartiene per far comprendere come sia necessario perdere qualcosa per
comprenderne il valore. Il suo ritorno trionfale, metaforicamente, rappresenta l’esempio di come
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l’essere indagatore possa condurre ad una conquista che il crescere come una pianta costretta in un vaso
non può realizzare. È necessario dividersi per comprendersi, il maschile diventa femminile, l’ombra
luce e così via… quello però che lo scrittore esprime, è come lui non sia riuscito a comprenderlo e lo fa
ammettendo la sua responsabilità, ovvero l’aver voluto ignorare la sua personalità, simile a quella
dell’amico. Per questo parla d’omosessualità, egli cerca di giustificarsi, come se nel suo sentirsi attratto
dal fascino del Mage lo scrittore si sentisse vittima di una forza invincibile…-La natura quindi diventa la rappresentazione divina, è questo che intendi? Lui tira in ballo
l’omosessualità per dire che non si può contrastare ciò che si è. Ma, se mi è concesso, non credo che il
paragone possa essere raffrontabile-.
-Bravo. Qui sta la differenza tra accettazione e giustificazione: “La natura che non possiamo
contrastare è quella che ci appartiene: Elena è vittima dell’amore per Paride, e questo è parte di lei, così
come l’omosessualità è parte di chi la vive per sua natura… Tommaso è vittima solo di ciò che vuole
ignorare e conseguentemente cerca di incolpare qualcun altro. La verità è che lui rinnega la sua natura
indagatrice del mistero e così finisce per tradire se stesso… e a quel punto le sue scelte non saranno più
razionali-.
Sorrisi compiaciuto -sono stato promosso?- non riuscii a sottrarmi all’inopportuna ironia e subito vidi
oscurarsi l’entusiasmo della psicologa.
-No- rispose irritata.
Abbassai gli occhi in segno di scusa -vuoi che legga il prossimo capitolo?- le domandai per farmi
perdonare. Lei mi pose il documento senza parlare.
Guardai quella che era la mia mentore, e non ebbi bisogno di esprimere parole per farle intendere che
ricordavo come già nel capitolo precedente avesse fatto riferimento all’affermazione con cui intitolava
il nuovo capitolo. La vidi compiacersi e incoraggiato dal mio ristabilito contegno, incuriosito, iniziai la
lettura:
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Innamorato di un sogno…
“…Era abbastanza ovvio, ma a quel tempo non ero ancora in grado di capire questi ragionamenti. Le
piante sono radicate al suolo e stanno ferme nel loro luogo d’origine per crescere, svilupparsi,
evolvere e poi morire. Le si vede sbocciare come erba, le si vede poi crescere e manifestarsi nel tronco.
Le si vede diramare i loro rami nel cielo e le radici nella terra, le si percepisce lavorare nella loro
interiorità che si esprime nelle foglie, nei fiori, nelle bacche e nei frutti, ma in tutto questo vi è uno
sviluppo, una crescita e un’evoluzione. L’essere umano si lega ad un luogo senza essere trattenuto da
nessuna radice. Lavora, come una pianta, ma il suo sviluppo si limita alla concezione di ciò che lo
circonda e ciò che genera è solo esclusivamente un concetto materiale. Egli ha ideali non compresi
perché, a differenza delle piante, non capisce il proprio esistere e lavora solo per un profitto che alla
fine dei suoi giorni, potrebbe non aver prodotto frutti. Si potrebbe vedere nei figli, forse, il frutto degli
uomini, ma se l’eredità che i padri lasciano ai figli è quella di un concetto riconducibile al semplice
proseguimento della discendenza solo per poter mantenere il possesso dei beni cumulati, ecco che
anche in questo frutto vi è una semplice e speculare condizione di sfruttamento. Ai figli, i padri
lasciano solo la responsabilità di un loro ideale smarrito, e il frutto di una pianta mal nutrita non può
essere che acerbo. Dovevo capirlo allora quel suo concetto, invece dovetti prendere il posto di mio
padre alla guida dell’azienda per comprendere che, in definitiva, io non facevo altro che eternare una
discendenza fatta di affari, contratti e compromessi. Una vita che in conclusione avrei finito per
tramandare a mio figlio e che alla fine dei giorni non mi avrebbe consegnato altro che una monotona
esistenza che nel suo beneficio di agiatezza, avrebbe comunque rischiato di portarmi alla conclusione
di aver sprecato la mia occasione. Ma non lo feci, eppure, sapevo che tutto ciò che il Mage diceva
aveva un significato che andava oltre le parole, così come sapevo che quando diceva di essersi
innamorato di un sogno non lo intendeva solo in senso letterario, e a tal proposito i ricordi che stavo
rivivendo nell’isolamento di quel giorno mi condussero molto indietro nel tempo.
-Ho mentito sai?- mi disse in quella sera che risaltava ora alla mia memoria. Eravamo noi due soli
perché era così che avveniva.
Parodiando il fumetto dei fantastici quattro, l’ambiguo gruppo era stato soprannominato i balordi
quattro. Era noto a tutti che i quattro erano legati da un’amicizia vincolata dalle ambizioni e dagli
interessi artistici che a Casterba erano giudicati come inutili sciocchezze da perditempo. Agli occhi dei
paesani, i quattro artisti, o meglio: i fannulloni, erano destinati a fare una brutta fine.
Eppure, tra tutti loro, io ero l’unico a non lavorare. Forse per questo non ero considerato uno dei
balordi, o forse più semplicemente, tra tutti ero il più illuso e, nascosto dietro il mio paravento evitavo
di pensare che la mia era la famiglia più autorevole a Casterba e che molti degli abitanti del paese
dipendevano dal lavoro che la nostra azienda dispensava. Il mio era un privilegio di comodo, al quale
comunque non ero disposto a rinunciare, e per tale motivo cercavo di celare la mia stima per i quattro.
Avveniva così che i miei fossero quasi incontri clandestini. Era raro, come già descritto, che i quattro
si incontrassero tutti assieme e di solito, quando succedeva, capitava in orari notturni. Non posso dire
quanto il destino li manipolasse, ma non posso nemmeno evitare di considerare, alla luce di quanto ci
ha condotto a ciò che siamo oggi, quanto indeterminabile fosse il calcolo delle probabilità delle
circostanze che permettevano il verificarsi degli incontri. Dovendo ancora ripetermi, infatti, devo
rammentare come non fosse mai stato prestabilito tra loro un incontro. Avveniva così, per esempio
come in quella sera, che il Mage si trovasse a passeggiare per la città in cerca di soggetti della notte
per fare esperienza di fotografia notturna, che Marco uscisse da un locale dove si era esibito con
un’improvvisata band musicale, che Val scendesse dal treno dopo un’escursione ideata senza
preavviso e che il Giocatore se ne uscisse, magari dopo aver perso gran parte del suo stipendio e aver
bevuto qualche whisky di troppo, da una bisca clandestina e che io mi trovassi nei paraggi dopo una
conferenza sull’agricoltura e il mondo aziendale che ne girava attorno, alla quale avevo partecipato in
rappresentanza di mio padre. Succedeva quindi che il Canta seduto sotto un lampione a suonare la
chitarra divenisse un soggetto per il Mage, che il Giocatore un po’ brillo improvvisasse qualche
ritornello stonato, che il flash della macchina fotografica attirasse il Viaggiatore e che dal richiamo
delle voce nella notte, un futuro imprenditore come me, venisse attratto come il miele attira le mosche.
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Era così che avveniva, ci si incontrava in conseguenze di circostanze misteriose alle quali nessuno
dava importanza e che per tutti, o almeno quasi, restavano occasioni generate dal caso e comunque
opportunità da sfruttare per conversazioni suggestive che potevano svolgersi ovunque, anche al chiaro
di luna sulle rive del fiume che scorre. Come avvenne quella sera. Poi ci si scioglieva e ognuno se ne
andava per conto proprio così come era capitato lì per caso.
Ma io avevo un legame profondo che era iniziato molti anni prima. Al tempo del suo principio i
dialoghi erano più fantasiosi, tuttavia, ogni volta, sentivo che la conversazione non mi aveva del tutto
gratificato. Era come se qualcosa restasse sempre sospeso nel vuoto. Loro erano fatti così, non
avevano bisogno di approfondire, di andare oltre qualcosa di naturale, spontaneo e ordinario. A loro
bastavano le proprie menti e magari era proprio quel vuoto e quell’isolamento a concedere il più
grande spunto riflessivo. Ma io avevo bisogno di una presenza che mi aiutasse a decifrare quel vuoto,
una sorta di elaboratore in cui io inserivo i dati e questi, come un decodificatore, mi conducesse alla
soluzione dell’enigma mentale, e quell’elaboratore era Demetrio, il mio legame profondo…”
Fermai la lettura per un istante e osservai Felona che assorta nell’attenzione dell’ascolto non si
accorse del mio sguardo furtivo, nel quale riflettevo su come la condizione appena descritta dallo
scrittore sembrasse simile alla mia con lei. Felona era la mia interprete così come per lui lo era
Demetrio.
“…Se gli altri tre potevano darmi una gratificazione momentanea, con lui era differente. Lui poteva
condurmi oltre perché il suo vuoto, il suo silenzio, ne ero certo, era veramente la sua migliore
compagnia. Nel suo vuoto egli elaborava ciò che gli altri magari lasciavano svanire e nel suo vuoto io
percepivo ancora l’esigenza di introdurre la mia presenza, come se necessitassi di collegare,
attraverso il presente ambiguo, il passato cancellato, al futuro incerto. Così avevo preso ad invitarlo,
non come un tempo a passeggiate nella natura, ma a prendere un caffé in qualche locale, giungendo
infine ad ospitarlo quasi abitualmente direttamente a casa, dove potevo avere l’occasione di
approfondire indisturbato ogni singola conversazione. Continuavo a considerare il suo filosofeggiare e
la mia esigenza di assecondarlo come uno svago, una sorta di sconnessione dall’ordinario impegno
quotidiano dove, pur credendomi idoneo e naturale, in realtà recitavo un ruolo che lentamente mi
stava trasformando in una marionetta manovrata da fili invisibili, senza rendermi conto che questi fili
erano governati da entità che sovrastavano la mia volontà e andavano oltre ciò che potevo
immaginare e considerare come effettivo. Dovevano essere molte queste entità che si alternavano nel
manovrare i miei fili, ma la più potente di esse, stava definitivamente prendendo il sopravvento e a mia
insaputa, in una maniera subdola, lo stava per fare proprio in quella sera…”
Guardai Felona con un’espressione che rasentava il panico da rivelazione.
-Sta descrivendo la condizione in cui non può sottrarsi a quel volere più forte di lui- dissi quasi
sconvolto.
-Esattamente come Elena- mi fece notare allora lei
-E questa condizione si chiama destino? Se è così allora veramente non abbiamo facoltà di controllodissi con sgomento.
-A meno che non ce ne rendiamo conto. Lui parla di ricordi, attraverso i quali comprende che la sua
mancanza di controllo sugli eventi è determinata dall’incapacità di valutarne le conseguenze. Ecco, è
questo il controllo. Ovvio che non possiamo comunque predire il futuro, ma meditare prima di agire
può aiutare- espose la sua teoria.
-È questo quindi che cerca di farci comprendere? Semplicemente che dobbiamo pensare prima di
agire?-Se a te pare semplice- disse con superficialità, quindi mi invitò a proseguire.
“…Allora non sapevo se lui pensava che io fossi l’oggetto di una sua missione immateriale, per
quanto mi riguarda mi consideravo semplicemente quell’amico di cui anche lui aveva bisogno, ma
oggi, se dovessi dare un senso a tutto, probabilmente lo vedrei sotto quell’aspetto di missionario.
Nelle serate a casa mia non si discuteva più delle voci dei fiumi e degli spiriti della natura,
semplicemente si approfondiva qualche argomento che io introducevo, giacché ero io quello che aveva
bisogno di elaborare. Ma quella sera qualcosa cambiò. Il destino ci da sempre dei segni, ci pone
sempre delle alternative e delle vie di fuga. Il fatto che fosse lui a prendere l’iniziativa quella sera,
avrei dovuto valutarlo, era uno di quei segni.
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Ma come di consueto, la mente umana ragiona per contrari ma allo stesso tempo li sottovaluta a
priori, perciò di ogni convinzione non avviene quasi mai che, di ciò che istintivamente si elabora, il suo
contrario possa avere una rilevanza tale da far riflettere sull’effettiva idoneità del proprio pensiero e,
soprattutto, quando si pensa di poter essere risolutori dei problemi altrui, l’egocentrismo umano non
ha rivali. È proprio il credere di poter risolvere i problemi degli altri che rende l’uomo arrogante e
presuntuoso, soprattutto perché in questo atteggiamento non vi è mai un completo disinteresse ma
piuttosto, anche se magari a livello inconscio, una consapevole e subdola vanagloria nella quale ci si
sente meritevoli di un riconoscimento. Ed era in questo modo che il destino giocava la sua carta
migliore, dopo aver mischiato da vero professionista del gioco d’azzardo il mazzo, in modo che ogni
carta potesse essere assegnata secondo la sua disposizione.
Solo la settimana prima aveva fatto in modo di organizzare quell’incontro a cinque, predisponendo
ogni movimento come se tutto fosse stato regolato da una sincronicità meticolosa, portandoci sulle rive
del fiume Adige ad indagare sui nostri ricordi più lontani. Non sembrava niente di più anormale del
solito, voglio dire, a contatto con loro ogni argomento poteva essere stravagante e allo stesso tempo
intrigante. Indagare nel profondo dei nostri ricordi, andando alla ricerca di quello più lontano nel
tempo, non appariva niente più di una consueta indagine nella quale ognuno di noi poteva trovare uno
spunto riflessivo da cui potersi chiedere perché mai la sua memoria avesse cominciato proprio da lì a
mantenere dei ricordi. Era questa la cosa più affascinante che si creava in queste conversazioni, il
fatto che per quanto l’argomento trattato potesse sembrare il più indifferente possibile, si finiva
sempre con l’indagare all’interno di se stessi. Per questo tra loro non vi era possibilità di esprimere
giudizi negativi su cosa aveva detto chi: ognuno di loro era giudice di se stesso.
Ma era stata una notte anomala e forse io, proprio a causa della mia diversità, avevo potuto notare
quell’inquietudine insolita in Demetrio e, forse per la prima volta, potei intuire dei timori nel suo
sguardo. Solo adesso posso cominciare a dedurre che quell’inquietudine poteva essere associata ad
una sorta di consapevolezza che qualcosa stava definitivamente cambiando, o meglio, una
consapevolezza che si stava giungendo al punto di non ritorno, oltre il quale, nessuno di noi due, o
addirittura nessuno di noi cinque, avrebbe più potuto tornare indietro o fermare quell’ingranaggio che
ancora non era giunto al suo moto perpetuo.
Demetrio, durante la discussione, aveva semplicemente affermato che il suo ricordo più lontano
risaliva al primo giorno di scuola. Ce lo descrisse superficialmente, come un ricordo di poca
importanza e nell’immediato a nessuno parve esserci qualcosa di strano in questa sua superficialità,
ma io, che avevo imparato ad indagare ogni sua affermazione, non potevo evitare di intuirlo quel
distacco, insolito e improprio. Ma ancora non avevo la capacità, nonostante i miei personali
approfondimenti, di comprendere verso quali illogici misteri la scelta di condividere i miei tormenti
con lui mi stava conducendo.
Anche nel momento in cui confessava la sua menzogna, ancora non ero in grado di intuire che mi
stavo lasciando trascinare sempre più nell’abisso, e nella mia umana curiosità lo invitai a spiegarsi
meglio.
-Riguardo al mio ricordo più lontano- disse -ho mentito-.
Io riflettei un istante, poi sorrisi e ignaro che il destino iniziava a svelarmi il suo losco gioco, lo
assecondai con un rimprovero verso me stesso.
-Sì certo, avrei dovuto capirlo. Ora che ci penso, in effetti, sembravi piuttosto distratto e superficiale.
Tuttavia non credo che sia una cosa grave-.
-No, infatti- rispose lui -il fatto è che il ricordo di cui avrei dovuto raccontare non era relativo al
primo giorno di scuola, quel giorno in realtà non lo ricorderei nemmeno se non fosse che il ricordo
che avrei dovuto rivelare invece, è legato alla notte successiva a quel primo giorno- disse, e a quel
punto la mia indiscrezione mi impedì ancora di valutare se era il caso di approfondire impedendomi di
percepire i segnali d’allarme fatti di brividi che parevano volermi avvertire, e mi indusse invece ad
indagare.
-Che cosa intendi?- volli sapere, e mentre lui iniziava a raccontare, il destino predisponeva le ultime
carte del suo gioco, tenendo tra le sue mani quelle vincenti e consegnando nelle mie quelle perdenti,
con un unico jolly che rappresentava la speranza di cui in un giorno lontano, forse, ne avrei compreso
il senso.
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Era il Novembre del 1986, avevo sedici anni. Io conoscevo molte delle storie riguardo i suoi fantasmi
dell’infanzia. Fantasmi che non erano folletti o spiriti della natura che io potevo solo immaginare, ma
fantasmi fatti di suoni, luci e ombre. Fantasmi con un volto dei quali lui parlava con la stessa
semplicità con cui un cuoco può parlare di spaghetti al pomodoro. I suoi erano fantasmi reali. Reali
quanto quei sogni che definiva viventi. Vidi i suoi occhi farsi tristi, di quella malinconia solita che lo
coglieva ogni volta che il suo parlare, o ricordare, fosse in qualche modo legato ad un tormento che
non avrebbe voluto condividere, come se avesse il timore che tale tormento potesse essere trasmesso
come un virus.
Molti anni dopo avrei compreso che quella mia sensazione era una realtà e che lui veramente sapeva
che il tormento di cui era ambasciatore, gli era stato affidato per essere trasmesso come una sorta di
untore.
-Quel giorno, ricordo- raccontò -mia madre mi accompagnò a scuola. Io non ero mai uscito di casa
se non per andare a passeggiare nella campagna, così non ero abituato ad affrontare la gente. Non
conoscevo nessun bambino della mia età, ma non fu traumatico come lei temeva. Mi adattai senza
difficoltà, perché per me si trattava solo di una nuova esperienza. Alcuni bambini piangevano, altri
sembravano rassegnati, altri erano spavaldi. Io ero semplicemente tranquillo, sebbene non conoscessi
nessuno- raccontava come se ignorasse che io stesso avevo vissuto le medesime sensazioni un anno più
tardi, ma era evidente che doveva farlo.
-Eravamo in ventiquattro alunni a frequentare il primo anno. L’insegnante ci radunò e ci mise in fila,
poi ci dispose in ordine d’altezza e ci condusse alla nostra aula- i ricordi relativi al primo giorno di
scuola, lo ammetto, a me parevano tanto superflui che a stento io stesso li ricordavo. Forse per questo
sentiva l’esigenza di descrivere ciò che era avvenuto, come se tentasse di risvegliare pure in me il
ricordo di quei tempi, forse per fare in modo che potessi immedesimarmi il più possibile in quello stato
che, ripeto, se avessi saputo comprendere quanto avrebbe influito sul futuro, vicino e lontano, avrei
avuto anche l’opportunità di considerare quanto lasciarmi effettivamente coinvolgere.
-Lì vi erano quattro file di sei banchi ognuna. L’insegnante decise che le file laterali sarebbero state
occupate dagli alunni maschi e le centrali dalle femmine, quindi assegnò i posti mettendo davanti i più
piccoli in ordine di altezza-.
Cominciavo effettivamente ad immaginare come erano andate le cose, ricordando come ogni alunno
sperasse di essere assegnato a qualsiasi posto che non fosse il primo della fila. Un anno più tardi a me
era andata bene, finendo al centro dell’aula, ma per lui era stato diverso: Lui era finito in quei banchi
che tutti volevano evitare, i primi.
-Io ero il più basso della classe, assieme ad un altro compagno e a due compagne, i quattro quindi
che dovevano occupare i banchi davanti- si fermò per un istante e sembrò pensare.
-Vedi Tommaso- riprese poco dopo -io credo che esista un ordine in cui anche il caso non può essere
considerato caos. Quel giorno io avrei potuto essere assegnato alla fila di sinistra e non a quella di
destra, e lei avrebbe potuto essere spostata nella fila successiva a quella cui invece fu assegnata-.
Cercai di immaginare, ma mi riusciva difficile capire ciò cui alludeva, sebbene intendessi che parlava
di una ragazza.
-Avrebbe potuto essere più alta di me, o viceversa, ma invece, tutto si svolse come se fosse stato
prestabilito. Io fui assegnato al primo banco della fila di destra, e lei al primo banco della fila a
fianco. Se non fosse stato perché ci potevamo quasi definire compagni di banco, io forse non l’avrei
neppure notata-.
Stavo cercando di focalizzare, ma seppure cominciassi a comprendere ciò che stava per rivelarmi,
ignaro ancora di quanto stava per avvenire, ancora non riuscivo a capire di chi parlava, ma sorrisi c’è di mezzo una ragazza vero?- dissi.
Non poteva essere che così dal momento che ognuno di noi aveva avuto come vicina di banco una
ragazza, tuttavia potevo solo immaginare che la storia di cui stava parlando fosse semplicemente
legata ad un ricordo e a una successiva conclusione, non certo che quel ricordo fosse invece ancora
molto attuale.
-L’avevo notata appena, non più di quanto non avessi fatto con gli altri miei compagni e forse non
l’avrei nemmeno ricordata se non fosse stato per quel sogno- mentre lui parlava io cercavo di
anticipare la rivelazione tentando di ricordare e capire chi era la ragazza, elencando velocemente
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nella mia memoria tutte le alunne della sua classe. Ma potevo solo fare supposizioni su ognuna di loro,
poiché non potevo sapere come fosse stata disposta la classe che mi aveva preceduto un anno prima.
Poi, l’allusione al sogno attirò la mia attenzione portandomi ad evitare di distrarmi e conducendomi a
quella concentrazione che, definitivamente, mi allontanava da ogni possibile elusione dai
coinvolgimenti e, attendendo che fosse lui a rivelare il nome fatale, entrai in quel ruolo che avrebbe
condizionato il resto della mia vita.
-Avvenne la notte stessa, e da allora non passa un girono senza che mi svegli e non pensi a lei-.
Mi stava rivelando un amore segreto, e la rivelazione andava talmente oltre la mia immaginazione
che, invece di rifletterci sopra come potrei fare oggi, quasi mi misi a ridere.
-Così il tuo ricordo più lontano, è legato ad un amore segreto- dissi con ironia. Solo dopo che il suo
sguardo si fece ancora più malinconico cominciai a valutare le circostanze di quell’amore.
-Aspetta un momento Mage, avevi solo sei anni a quel tempo- lui annuì.
Non fu complicato fare un rapido calcolo -vuoi dirmi che sono undici anni che ti porti dentro questo
segreto senza aver mai avuto il coraggio di rivelarti a lei?- di nuovo annuì. Non sapevo se deriderlo o
se comprenderlo, ma potevo intuire la sua sofferenza e improvvisamente la mia mente si aprì con
un’istantanea che mi riportò in un preciso attimo del passato in cui io avevo avuto occasione di
entrare in quell’aula perché l’insegnate mi aveva mandato a chiedere un libro alla sua collega, avendo
così l’occasione di vedere, seppure per pochi minuti, come gli alunni erano disposti, specialmente
quelli della prima fila, e potei attraverso quell’istantanea vedere l’immagine della bambina del sogno,
come se io stesso fossi entrato nel suo sogno e nel passato.
-Virginia. Era Virginia la bambina seduta accanto a te- affermai come se stessi partecipando ad un
quiz televisivo e avessi vinto il primo premio.
Lui si limitò ad annuire.
-Hai sognato Virginia e da allora ne sei innamorato?-Proprio così- rispose senza indugi.
Non so come interpretare oggi quella sua risposta priva di esitazioni. Non so quanto fosse
consapevole, o convinto, di avere un ruolo preordinato dal destino. Valutando i fatti successivi, dovrei
dedurre che ancora fosse lui stesso all’oscuro delle sue percezioni, ma ciò mi condurrebbe
inevitabilmente ad affermare che allora il destino ha veramente già scritto ogni ruolo, e preferisco
pensare che la sua fu piuttosto una strategia. Undici anni di tormento sono lunghi e forse anche lui
stava cominciando a pensare che probabilmente era preferibile vedere una speranza infranta che
continuare a mantenere vivo il tormento.
-Virginia- dissi, e senza rendermi conto di assecondare, attraverso l’arroganza di chi si sente in
grado di risolvere i problemi altrui, il gioco subdolo del destino, esultai, perché già mi immaginavo
come risolutore del suo tormento.
Nei paesi rurali, in un tempo in cui la cultura contadina aveva tra i suoi valori più affermati la
concezione religiosa, la chiesa aveva un ruolo importante. Oggi io penso che il Mage fu tra tutti noi
uno dei più fortunati. La sua famiglia era abbastanza indulgente e di una mentalità più aperta e
probabilmente evoluta, al punto che a Demetrio non era imposta alcuna autorità. Era stato educato
secondo l’insegnamento, la cultura e la formazione prevista dalla società, ma alla fine era stato
lasciato libero di fare le sue scelte e il Mage non era uno che doveva entrare in una chiesa per trovare
Dio, né aveva bisogno di un’istituzione che glielo rendesse concreto. Lui Dio lo trovava nel sibilo del
vento, nel sussurro dei fiumi, nel fruscio degli alberi, nel fuoco, nell’aria, nella terra e nell’acqua. Lui
Dio lo trovava ovunque, perfino nei sogni, e quindi, finito il tempo in cui era stato costretto a causa di
un obbligo sociale, a seguire le lezioni di catechismo, aveva chiuso ogni rapporto con quell’istituzione
che pretendeva di conoscere il volere divino. Io invece non ero riuscito a sottrarmi a quell’istruzione e
adattamento che, più che necessari, apparivano obbligatori per non essere esclusi dalla realtà di una
società ancora troppo radicale e per un gioco vizioso dal quale è difficile riuscire a districarsi, con la
chiesa avevo ancora forti legami. La mia era un’età in cui non ero obbligato a seguire il catechismo
che si svolgeva due volte la settimana nelle ore pomeridiane, ma molti ragazzi venivano coinvolti dalla
parrocchia come assistenti. Era difficile tenere un gruppo di bambini di età compresa tra i sei e gli
undici anni, così il parroco si avvaleva del sostegno di alcuni così detti “volontari”. Non starò a dirvi
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quanto quel volontariato fosse del tutto spontaneo e quanto fosse frutto di un plagio mentale, sta di
fatto che io ero tra i ragazzi che ne facevano parte, così come ne faceva parte Virginia.
Fu senza riflettere che proposi la mia intermediazione -sai che lei fa parte del gruppo di catechesi
con me vero? Se vuoi posso intercedere per te- gli proposi. Non si mostrò molto entusiasta e io non
saprò mai cosa pensò in quel momento.
-Tu pensi che possa esistere un amore infinito?- mi disse. Ero giovane a quel tempo, troppo giovane
per cercare di capire che nelle parole del Mage vi era un significato diverso da quello che intendevo
io. A quell’età si ha dell’amore un concetto troppo elevato, come qualcosa che trascende l’umana
coscienza, in un certo senso si potrebbe dire che forse è l’unico momento in cui si ama davvero, perché
si è incoscienti del vero significato di tale sentimento e per tanto si crede di amare veramente. Servono
molti anni per comprendere che quello che si crede un sentimento puro e nobile in realtà non è così
trascendente come lo si valuta a quell’età, ed era in questo modo che io consideravo, a quel tempo,
anche le parole di Demetrio…”
Conclusi la lettura e la guardai -qualche altra intuizione?-.
Lei scosse il capo -no, qui sembra veramente limitarsi a descrivere un episodio della loro vita, sebbene
credo che questo sia il cuore del racconto-.
-Tuttavia sei riuscita a precederlo- le feci notare.
-Cosa?- rispose lei colta da imbarazzo.
-Le radici cui si riferiva- le rammentai -hai interpretato ciò che intendeva prima che lo esprimesse lui.
Ricordi? Questo capitolo lo inizia facendo riferimento al modo di svilupparsi delle piante, di cui tu
avevi già parlato prima. Forse per questo ti sfugge qualche possibile intuizione, cominci a precederlolo dissi come per elogiarla, ma lei parve preoccupata, come se quel dettaglio non le fosse gradito.
-Già, tu invece inizi a diventare perspicace- rispose con un tono di voce elusivo. Non riuscii ad
interpretare quel suo distacco che sembrava dovuto al non apprezzare elogi, ma nemmeno me ne
preoccupai e, ancora incapace di sottrarmi alla mia personalità cercai di sdrammatizzare.
-Imparo in fretta- scherzai. Lei sorrise, non so quanto sinceramente e quanto forzatamente, ma notai il
suo instabile umore che denotava una sorta di timore, come se temesse di rivelare qualcosa che non
voleva venisse scoperto, e io, di queste cose me ne intendevo.
Si alzò rapida -è tardi, meglio andare a dormire- disse sbrigativamente. Osservai l’orologio, era quasi
mezzanotte ma sembrava che né io né lei fossimo veramente stanchi.
-Se vuoi leggo un altro capitolo- le proposi leggermente confuso, ma lei scosse il capo.
-Meglio di no, rischieremmo di fare troppa confusione. Andremo avanti domani- disse perentoria.
-Va bene- accettai -e magari facciamo una visitina a questo Valbordi, che ne dici?-Ci penseremo domani- rispose ancora sbrigativamente. Allora capii che non aveva intenzione di
discutere oltre e rassegnato tornai nella mia camera. Nel frigo bar c’erano alcune bottiglie di bibite, ne
presi una e pensai che il giorno seguente avrei fatto bene a far portare dei liquori. Mi sedetti a
sorseggiare la bevanda e osservando il documento, stranamente, ripensai a come l’umore di Felona
fosse tanto lunatico e si fosse fatta improvvisamente pensierosa dopo che le avevo fatto notare come
riusciva a precedere le allusioni dello scrittore. Tuttavia nella mia mentalità maschilista mi convinsi che
era tipico dell’atteggiamento femminile e valutai che nel mio insistere probabilmente aveva dovuto
intuire una sorta di indiscrezione per far inoltrare la notte e poi approfittare di un’atmosfera che
avrebbe potuto insinuarsi tra noi… in altre parole valutai che aveva pensato che ci stavo provando e
animato da un orgoglio maschile, semplicemente, sorrisi…
La mattina seguente la trovai nella sala d’attesa a leggere una rivista, e poiché lei era più mattutina di
me dovetti fare colazione da solo.
Mi avvicinai -allora, si va a Valbordi?- le proposi.
Lei mi guardò riflessiva -perché invece non cerchiamo di scoprire qualcosa di più prima?Lo sguardo che le proposi fu chiaramente enigmatico.
-È possibile che la nostra visita si concluda in un giro turistico senza sapere ciò che cerchiamo, non
credi?- mi spiegò le motivazioni del suo esitare.
Io la guardai perplesso -ma noi non sappiamo cosa stiamo cercando- la misi allora in difficoltà.
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Ma lei doveva aver previsto tutto -esatto, e visto che tra non molto sarà ora di pranzo, tanto vale
attendere e proseguire con la lettura- disse scocciata facendo nuovamente notare la mia brutta abitudine
di dormire fino a tardi la mattina.
-Va bene- le risposi, ma goliardicamente mi presi una piccola rivincita -però io mi sono appena
svegliato e ancora non focalizzo bene, dovrai leggere tu-.
Sorrise con ironia. Ci avviammo verso la sala riservata agli ospiti, e poiché dovevamo essere gli unici,
nessuno ci disturbò. Lei prese il fascicolo e prese a leggere:
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L’amore eterno…
“…Non aveva acconsentito a eleggermi tramite tra loro, ma nemmeno aveva rifiutato, e io
consideravo il suo silenzio come un tacito accordo. La realtà dei fatti sta forse proprio
nell’impossibilità di sostenere certi tormenti, e in questo il Mage si stava dimostrando un comune
essere mortale. Per undici anni aveva mantenuto e sopportato quel tormento di cui chiunque abbia
avuto un amore segreto può capire la pena, e il Mage era troppo intelligente per non sapere che un
segreto poteva restare tale solo se non lo si fosse mai svelato a nessuno. Il rivelarlo, anche se
all’amico più fidato, con la classica raccomandazione di non raccontarlo a nessuno, equivaleva a
renderlo pubblico a tutti. E io credo che ciò che lui voleva fosse proprio questo. Un amore di quel
genere è disarmante, distruttivo, al punto che si preferisce tenerlo segreto piuttosto che vederlo
distrutto, finché il segreto non finisce per logorare lo scrigno stesso.
C’è chi ha detto che è meglio aver amato e perduto che non aver amato mai, ma si potrebbe anche
dire che è meglio aver amato in segreto piuttosto che non avere più nemmeno la speranza. Io credo che
in cuor suo il Mage sapeva che tra loro non sarebbe nata nessuna storia d’amore e, in definitiva, il
segreto contribuiva a mantenere viva quella tormentosa speranza che gli permetteva di vivere la sua
favola nella stessa maniera in cui si vive un sogno. Ecco, forse adesso, facendo questa considerazione,
posso cominciare a pensare che anche a quel tempo lui conosceva già il suo destino, e fosse altrettanto
consapevole di quel che faceva. Era giunto per lui il momento di separarsi dal sogno, sebbene questo
non lo avrebbe separato dal tormento. Probabilmente, lui che col destino sembrava essere consapevole
di giocarci, ancora non sapeva quali fossero le carte nelle mani dell’avversario, ma di sicuro era certo
che quella mano lui l’avrebbe persa, come sapeva che non poteva sottrarsi al gioco ormai iniziato e
che a volte si vinceva perdendo.
La mia mediazione aveva avuto esito, ma gli sviluppi da me sperati si erano invece rivelati nelle
cognizioni del Mage, ed era passato un bel po’ di tempo da quando lei gli aveva comunicato che non
provava nei suoi confronti lo stesso sentimento, ma fu solo allora, nella sera che precedeva la sua
partenza, che cominciai a capire cosa intendeva dire con l’espressione “amore infinito”.
…Ne aveva parlato altre volte, in diverse circostanze, anche se, dopo che mi aveva rivelato il suo
segreto, io continuavo a identificare in Virginia l’oggetto di tale argomento, e non riuscivo ad andare
oltre una barriera invisibile che mi confinava al di qua di una visione limitata che non prevedeva altri
spazi oltre il visibile o lo sperimentabile.
-Tu credi che sia possibile che due anime si incontrino in un determinato spazio del tempo, e si
leghino ad un punto tale da divenire indivisibili per l’eternità?Non era successo nell’immediato. Tutto si era svolto con dei tempi che parevano quasi controllati da
un fattore esterno. Inizialmente io avevo lasciato perdere, alludendo al suo segreto solo in circostanze
scherzose, poi avevo iniziato a insistere per avere il suo consenso a intermediare per lui, infine
cominciai a rivelargli che ogni tanto parlavo di lui a Virginia. Ogni volta lui non reagiva nel modo che
ci si aspetterebbe, con cenni di approvazione o con rimproveri di rifiuto, semplicemente, pareva
accettare ogni avvento, come se in realtà avesse dentro di sé la consapevolezza di un qualcosa che
doveva essere. E quel qualcosa, in effetti, stava realmente avvenendo, solo che la mia ingenuità ancora
mi impediva di comprenderlo.
Io e Virginia stavamo diventando amici. Io l’avvicinavo per parlarle di Demetrio, ma discutere di lui
significava anche introdurre argomenti inconsueti che parevano avere strani effetti sulle
caratteristiche femminili. Era come se le ragazze avessero un filtro ricettivo che le attirava in modo
particolare verso argomenti che si inoltravano nell’indagine della psiche o del surreale. In qualunque
donna, per quanto banale potesse sembrare, magari ad un livello superficiale o inconscio,
quell’attrazione prendeva sempre una certa evidenza, ovvero, anche se lei stessa magari non se ne
rendeva conto, gli occhi rivelavano quel canale ricettivo che impulsivamente la costringeva se non ad
approfondire, a percepire una sorta di irresistibile attrazione. Ovvio che non tutte erano allettate e
sedotte dall’argomento, alcune avevano l’immunità a quell’attrazione che in quest’ultime si risolveva
solo in un flebile lampo subito dimenticato, ma Virginia era del primo tipo e per quanto la si potesse
considerare ordinaria, a tali conversazioni non era né indifferente né scettica, e il mio introdurre gli
argomenti che avrebbero dovuto farle comprendere che Demetrio, e non io, era l’uomo con cui
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avrebbe potuto approfondire oltre ogni limite quella sfera surreale, sortiva l’effetto di compromettere
sempre più la possibilità che ella potesse intravedere in lui, se non un amante, un amico con cui
condividere idee che altrove non sarebbe stato possibile. Non mi rendevo conto che lei la vedeva in me
tale figura, mentre Demetrio restava nei suoi pensieri semplicemente un soggetto senza interesse.
Virginia era una bella ragazza. Non era quel tipo di donna dal fascino fatale, non ancora almeno. Lei
era del tipo semplice, moderata nel comportamento e nell’espansività. Ancora le mancavano quelle
qualità che l’avrebbero resa provocante al punto da poter essere considerata un oggetto del desiderio,
ma non si poteva nemmeno dire che passasse inosservata. Sembrava che a lei mancasse l’estro
provocatorio, ma il conoscerla meglio e il frequentarla in maniera più costante, comportava anche la
conseguente conoscenza di questo suo lato nascosto e la crescente percezione che in un futuro non
troppo lontano, tale oscuro lato, sarebbe emerso.
Non posso dire di essere arrivato al desiderio morboso, né di essermi realmente innamorato, ma non
posso nemmeno negare di essere giunto a fantasticare su di lei. Nonostante tutto però, vi fu una sorta
di compromesso che giunsi ad instaurare con me stesso. Non so per quale strana ragione, ma una
sorta di rispetto mi induceva ad avere per lei quel riguardo che spesso manca tra un sesso e l’altro.
Divenimmo amici sinceri, e il nostro rapporto d’amicizia proseguì anche quando finalmente il segreto
del Mage non fu rivelato e con esso la motivazione delle mie attenzioni per lei. Inizialmente si era
risentita accusandomi di averla lusingata solo per uno scopo che non era quello che aveva creduto, ma
poi aveva apprezzato il mio altruismo. Tuttavia il Mage restava per lei un perfetto estraneo per cui non
provava alcuna attrattiva. Mi fu difficile convincerla a dargli un’opportunità e persuaderla che se lo
avesse conosciuto avrebbe potuto cambiare opinione su di lui, perché malgrado tutto, anche lei faceva
parte di una maggioranza istituzionale che prevedeva l’ausilio di concetti, preconcetti, valutazioni e
giudizi, e come per tutta quella maggioranza, il Mage era uno strano ragazzo che non destava
curiosità ma che poteva compromettere. Accettò di ascoltarlo solo, disse, per fare un piacere a me e
per scaricare quel suo tormentato segreto che, le avevo rivelato, durava ormai da undici anni.
Non so che cosa avvenne tra loro la sera che li feci incontrare, so solo che il Mage mi disse che era
stata molto delicata nel spiegarle che lei non provava gli stessi sentimenti e, seppure la malinconia del
suo sguardo apparisse ancora più profonda, quasi sembrava soddisfatto di come erano andate le cose,
anziché deluso.
Anche con lui la mia amicizia proseguì, nonostante io percepissi il suo imbarazzo nel comprendere
che l’aver reso pubblico il segreto, che, appunto perché segreto era divenuto di dominio pubblico,
aveva contribuito ad ingrandire il sarcasmo a lui rivolto tra le persone dalla mentalità limitata che
calcolavano l’intelligenza da quanto uno riusciva a prendere in giro qualcun’altro. Poi il tempo
continuò a far sì che tutto continuasse a procedere in quel modo che sembrava prestabilito, giungendo
alla sera in cui parlò dell’amore infinito. Io l’avevo guardato con un senso di colpa crescente perché
in definitiva mi sentivo responsabile nell’aver contribuito ad infrangere la sua favola. Percepivo il suo
tormento e capivo che era qualcosa che andava oltre le classiche storie d’amore che si leggono nei
romanzi o si vedono nei film e che, in definitiva, si vivono anche quotidianamente. Quello era stato un
amore trascendente, vissuto come un obbligo perché non era nato da un attrazione fisica, ma
assegnato da un sogno o, come a Elena di Troia era stato impossibile sottrarsi alla seduzione di
Paride perché soggiogata dal volere divino, vincolato da un potere superiore. E proprio perchè nato in
un età in cui non si poteva assolutamente parlare di attrazione fisica, puro e genuino. E per questo
comprendevo che le classiche parole di conforto, non potevano avere alcun senso. Tuttavia non avevo
altre parole per cercare di consolarlo e non reagii diversamente da chiunque altro.
-Forse dovresti fartene una ragione Mage. In definitiva l’amore è così. Le storie iniziano e finiscono
finché non arriva quella giusta. La vita del resto è fatta di esperienze no?- per un momento, nel
prolungato silenzio che lasciò intercorrere, ebbi come l’impressione di avergli trasmesso qualcosa di
importante, come se fossi riuscito a fargli comprendere qualcosa che forse lui non aveva mai valutato.
Ma la mia era solamente l’espressione di una realtà con la quale ognuno può confrontarsi, ed era
impensabile che lui la potesse accettare così com’era.
-Sì, la vita è fatta per fare esperienze. Ma se queste esperienze non fossero destinate a restare vaghi
ricordi di un tempo limitato?- disse, ed io, devo ammetterlo, provai un senso di confusione tale, che
non riuscii a dire niente.
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-Ti sembra possibile- proseguì allora lui -che uno, all’età di sei anni, si trovi in una condizione per
cui, vedendo per la prima volta una persona, provi quel sentimento che supera ogni altra esperienza?
Un amore come quello che ho provato io necessita di un percorso piuttosto complesso. Generalmente
due persone si attraggono prima fisicamente, e poi subentra l’amore, se queste due persone sono fatte
l’una per l’altra. Io ho saltato quel passaggio. Ho provato per lei un amore così intenso che in undici
anni mai l’attrazione fisica ha avuto il sopravvento sul sentimento- mi guardò con sguardo disarmante
-ti sembra possibile questo?Scossi il capo in segno che non sapevo che cosa dire e timidamente cercai di trovare una risposta
razionale -la psicologia umana è… enigmatica. Io penso che in definitiva, può succedere, voglio dire, a
te è successo no? Questo dovrebbe significare qualcosa-.
Mi rendo conto adesso di quanto banali fossero state le mie parole e di quanto sconvolgente fosse
stata la sua risposta.
-E se il mio amore per lei giungesse da un’esperienza precedente?- aveva replicato.
Lo avevo osservato decisamente sconvolto -non ti seguo Mage. Stai prendendo in considerazione cose
che io forse non riesco a valutare…- lo dissi quasi sussurrando, rendendomi conto di quanto in
profondità le concezioni tradizionali, sociali e religiose, avevano intaccato il mio animo. Lui annuì
come rassegnato, ma era evidente una certa delusione, così come era evidente che qualcosa stava
definitivamente mutando…”
-Tu che cosa risponderesti?- me lo domandò tanto all’improvviso che quasi non mi accorsi nemmeno
che era una domanda.
La guardai confuso -il capitolo è finito?- cercai di eludere la risposta.
-Certo. Che cosa risponderesti?- ripeté rapidamente e io mi sentii preso nella morsa del panico che
deve cogliere ogni uomo sposato o fidanzato che si sente porre una domanda dalla cui risposta
dipenderà l’intero umore giornaliero della compagna.
-Devo proprio rispondere?- replicai.
Lei rise istericamente -perché tanto timore? Il resto della tua vita non dipenderà da un’ipotesi, voglio
solo sapere come avresti reagito in questa condizione, se fossi stato al posto di Tommaso, che cosa
avresti risposto?-Ma la cosa non ha senso, io non posso sapere quali fossero i suoi stati d’animo, non posso rispondere
per lui- cercai ancora di svincolarmi, come se dalla risposta che avrei dato a quella domanda
dipendesse effettivamente parte della mia sorte futura.
-Hai paura di rivelare qualche segreto?-È che non vedo il senso della domanda- insistei.
Lei sprofondò nella poltrona -voglio solo capire quante possibilità hai di scoprire con chi hai a che
fare-.
-E in che modo se mi è consentito?-Nel modo migliore. Voglio capire fino a che punto ti senti coinvolto-.
-Ma perché? A che cosa ti servirebbe?-A me forse nulla, ma a te moltissimo. Se non riesci a capirlo da solo io devo condurti alla
comprensione, è questo il lavoro di uno psicologo. Nel momento in cui avrai una cognizione di quanto
tu ti senta coinvolto, la tua visione dell’insieme cambierà. È ovvio che non puoi affrontare questa
indagine come una qualunque altra indagine, con lo stesso distacco voglio dire, e il coinvolgimento può
essere un punto di forza se lo comprendi e lo controlli, altrimenti rischierai di lasciarti rovinare-.
A quel punto toccò a me sorridere -non pensavo che l’indagine finisse per rivolgersi verso di me. Tu
vuoi sapere cosa avrei risposto solo per analizzarmi- dissi temendo un tranello da parte sua -la tua è
deformazione professionale non credi?- l’accusai sarcastico.
Mi lanciò una smorfia stizzita -credi di poter sostenere un confronto di questo genere?- riprese, e una
sorta di confusione mi colse perché dalla sua reazione più indignata che offesa, non riuscivo a valutare
se il confronto di cui parlava era quello tra me e lei o tra me e lo scrittore.
-Di che tipo di confronto stai parlando? A cosa alludi?-Non certo a quello che pensi tu- mantenne la sua indignazione.
-Perché, secondo te a cosa alludo?72
-Pensi che a me interessi competere con te? Se è così toglietelo dalla testa, non saresti nemmeno un
avversario temibile. Io non sono qui per gareggiare. Sono qui per due motivi: uno è che tu me lo hai
chiesto, l’altro è perché questo caso, e parlo di caso a livello psicologico, mi interessa particolarmente e
io ho capito fino a che punto me ne sento coinvolta, tanto da comprendere che ho dovuto cominciare a
controllare tale impulso. La questione quindi riguarda te, ma se non sei pronto a confidarti
probabilmente ci sono ancora molte cose che ti limitano, tra le quali la paura, e questo implica
un’incognita piuttosto complessa. Se non sei pronto a sostenere un confronto con me, credi di poterlo
sostenere con questo tizio? Era questo il senso della domanda, ora sta a te: credi di poter sostenere
questo confronto?-Contro chi dovrei confrontarmi? Che cos’è che dovrei essere pronto a sostenere?- lo domandai quasi
intimorito, ma era evidente che dal mio pensiero era scomparsa ogni traccia di arroganza.
-Rivelazioni- pronunciò soltanto.
-Rivelazioni? Che razza di rivelazioni?-È come immaginavo- ribatté lei -vedi, avresti fatto prima a rispondere-.
-Ma che diavolo stai dicendo? Cominci a farmi innervosire- dissi.
-Hai perso la tua perspicacia vero? Non è durata poi così tanto. Ripassa questo concetto “Tu credi che
sia possibile che due anime si incontrino in un determinato spazio del tempo, e si leghino ad un punto
tale da divenire indivisibili per l’eternità?”- rilesse -noti niente?- aggiunse in fine.
-Sì, è il classico discorrere degli innamorati, ma questi dialoghi si frantumano col tempo, non stupirti
per le mie reticenze, quelle cose non durano e se è questo che vuoi sapere di me ti basta chiederlo: io
non voglio legami- dissi senza rendermi conto del mio tono isterico.
-Sei un idiota- fu la risposta furibonda che ricevetti ma, invece che rabbia, questa mi provocò stupore.
-Questo tizio ti sta rivelando qualcosa che va oltre l’immaginabile. Ti sta dicendo che Demetrio lo
stava contaminando con le sue credenze, in pratica è come se ogni domanda che si sentiva rivolgere, la
stesse adesso rivolgendo a te. Ma tu sei il classico che esteriorizza e che concentra tutto su se stesso. A
lui non importa niente di quello che vuoi o non vuoi, e nemmeno a me se credi che io possa provare
attrazione per te. Quindi smettila di pensare che qualcuno stia cercando di intrappolarti e concentrati su
ciò che stai facendo. Dimentica di essere il punto focale, non sei tu il centro dell’universo, tu sei solo
una pedina. Finché continuerai a ragionare come se tu fossi la vittima o l’oggetto del desiderio, non
comprenderai niente. Ti è più chiaro il concetto adesso?- si addirò talmente che la sua ira non mancò di
attirare l’attenzione delle poche persone che si trovavano nei paraggi della sala, mentre io me ne
restavo inebetito come un pugile sotto una raffica di pugni che giungevano da ogni parte e non riusciva
ad evitarli.
-Ma…- non sapevo cosa dire e ridicolmente iniziai a balbettare -io non mi sento l’oggetto del
desiderio… è solo che non capisco più niente…che senso ha tutto questo?Lei parve calmarsi -il confine che divide la sanità dalla follia è un sottile velo. Forse tutto ciò che sta
cercando di fare è di metterti in guardia. Ha iniziato con un avvertimento ricordi? Quindi ora più che
mai cerca di dirti di essere prudente e di non sottovalutare quello che scopri, come invece stai facendo.
Io aggiungerei anche di non sottovalutare ciò che provi, è importante che lasci scorrere le emozioni e
che le esprima se è necessario-.
-Vuoi dire che sta cercando di avvisarci che se continuiamo a indagare potremmo diventare pazzi?-Te l’ho detto, il confine è sottile, ma non è a me che è stato assegnato l’incarico. Comunque sì,
potrebbe essere. Magari questo tizio ti conosce meglio di quanto non credi e forse dovresti cominciare
ad intromettere un’altra possibilità all’alternativa dello scherzo, che ancora evidentemente non hai
escluso- appariva seriamente preoccupata.
-Che sarebbe?- domandai mascherando con difficoltà i timori che già mi assalivano.
-Il castigo- pronunciò lei decisa, e io provai un brivido. Ancora non avevo smaltito i timori che si
erano innescati in me solo pochi giorni prima ed ora mi si prospettava qualcosa che non avevo
considerato, e che decisamente, poteva competer con la paura già provata ad un livello, se non simile,
maggiore.
-E’… un’ipotesi assurda, chi mai potrebbe desiderare di volermi castigare? Io non ho nemici, e poi
perché mai?..- dissi, ma già mi sentivo un povero illuso.
Lei mi guardò con l’espressione compiacente con cui si guarda un ingenuo -con il lavoro che fai?73
Improvvisamente mi sentii il mondo crollare addosso. Non avevo mai considerato il ramo del lavoro
che avevo scelto pericoloso, ma solo perchè nella specifica categoria erano improbabili scontri fisici o
armati. tuttavia dovevo pur considerare che il mio lavoro consisteva nello smascherare inganni e
tradimenti, e qualcuno forse poteva non esserne rimasto compiaciuto. In quel momento più che mai mi
resi conto di quanto importante fosse capire chi era il folle che mi stava minacciando e, probabilmente,
dovetti impallidire.
-E tu credi che questo tizio potrebbe essere così abile da cercare di condurmi alla follia? Credi
veramente che potrebbe farlo?-Sarebbe una punizione straordinariamente e diabolicamente perfida, non credi?La guardai sconvolto -ed è possibile indurre la follia?- domandai di nuovo senza più voglia di
scherzare, ma il suo silenzio fu più essenziale di un inutile dubbio di conforto e forse per la prima volta,
potei veramente comprendere la paura.
-No, non credo all’amore eterno, così come non credo che vi siano punti del tempo in cui un destino
s’intreccia per l’eternità, forse perché non credo nell’eternità- risposi, sincero ma nervoso, nel tentativo
di non pensare alle ipotesi appena azzardate.
Felona mi osservò, non so quanto soddisfatta o preoccupata, e non ribatté alla mia risposta,
semplicemente tornò a posare gli occhi sul documento e lesse:
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12
…Le radici dell’odio
“…Non fosse stato per quel cambiamento forse tra me e Virginia avrebbe potuto nascere qualcosa. Io
avevo imparato a conoscerla e certo, devo ammetterlo, nella semplicità che l’aveva distinta fin prima
dell’incontro con Demetrio, non avevo escluso che lei avrebbe potuto essere la donna giusta per me. Io
ero stato educato ad un certo contegno, secondo una chiara disciplina nella quale dignità e serietà
erano necessari.
Lei era così: seria, disciplinata e dignitosa.
Mi ero imposto di non lasciarmi coinvolgere sentimentalmente da lei per rispetto e lealtà verso
l’amico. Ma quando se ne era andato, avrei potuto considerare quel vincolo sciolto e abbandonarmi
all’attrazione che pian piano si era insinuata in me. Ma era avvenuto qualcosa prima della sua
partenza.
Ogni nostra azione produce una reazione, ogni reazione una conseguenza. La mia, era stata quella di
mettere in evidenza un legame che, seppure platonico, non aveva mancato di attirare l’attenzione dei
limiti mentali di Casterba. Ben presto la notizia dell’amore segreto aveva finito per divenire un
devastante movente di satira di cui Demetrio era il punto focale, ma che inevitabilmente aveva finito
per coinvolgere più o meno indirettamente anche lei, portandola così a subirne i conseguenti effetti.
Ciò, aveva prodotto la reazione.
Non sopportando di essere accostata a lui per quello stato di inadeguatezza che la sua immagine
procurava, ed essendo ancora in un’età nella quale riesce difficile valutare le giuste modalità di
reazione, lei aveva iniziato la sua metamorfosi. Frequentando nuove amicizie, aveva imparato a
conoscere il suo lato oscuro, provocatorio, sensuale e seducente. Così il suo carattere era cambiato,
tanto quanto il suo aspetto.
Diciassette anni sono un’età in cui un corpo femminile può già esibire doti di maturità fisica che
sovrastano quella mentale, ancora non raggiunta, sufficienti ad attirare morbose attenzioni, e lei aveva
imparato ad usarle quelle doti, per distinguersi e mutare le attenzioni nei suoi riguardi, in modo tale
che, diventando oggetto di desiderio, si allontanassero da lei beffe e derisioni di cui altrimenti sarebbe
rimasta vittima.
In conseguenza a ciò che i timori di un accostamento dannoso avrebbero potuto causare alla sua
immagine e quindi, per separarsi da tali insidie e differenziarsi dall’inadeguata opinione che non
voleva si costruisse attorno a lei, imitando le giovani coetanee, esuberanti ma apprezzate dalla platea
degli spasimanti, aveva cambiato il suo modo di vestire, il taglio dei capelli e perfino il suo
atteggiamento, cominciando a mascherarsi con acconciature al limite della moda dark. Non era più la
ragazza semplice con cui avrei potuto condividere la mia vita sentimentale, ma una femmina fatale,
oggetto del desiderio con la quale, come tutti a quel punto, avrei voluto e potuto desiderare
condividere solo le mie notti. Ma questo avrebbe risolto solo la condizione relativa al piacere che nella
vita familiare che io progettavo, non aveva la priorità.
Come il cardine su cui ruota la porta, mi rendevo conto di essere stato il punto fondamentale su cui si
fondava la risoluzione del destino di due persone. Era stato in quel periodo che una serie di sogni
avevano ripreso a sconvolgermi. Sogni in cui vagavo per una vasta prateria dominata da una distesa
di erba verde dove in lontananza si scorgeva un muro. Era tutto lì. Il cielo azzurro, la prateria verde e
quel muro, alto, lungo, infinito. E io camminavo fino a giungere in prossimità del muro invalicabile. E
allora cominciavo ad avanzare al suo fianco, con la speranza che potesse terminare da qualche parte.
Ma questo muro era infinito, più lungo della grande muraglia cinese. Era un confine entro il quale io
ero limitato. Poi finalmente cominciavano ad intravedersi delle porte, ma anche queste erano infinite e
ogni una poteva condurre verso un oltre di cui non conoscevo la sorte. Non so in che modo, ma era
come fossi consapevole che ogni porta non conduceva semplicemente al di là del muro dove forse
proseguiva la distesa della prateria, ma in una diversa condizione, dimensione, strada: ogni porta
nascondeva una diversa soluzione, e diveniva impossibile perfino decidere quale aprire. Solo la
disperazione mi spingeva dopo tante esitazioni, ad affidarmi al caso, cercando di aprire le porte senza
pensare a cosa avrei trovato al di là, ma le porte, oltre a nascondere misteri da incubo, erano pesanti.
Tanto pesanti che per aprirle occorreva una forza sovrumana sicché, ogni qual volta cercavo di
aprirne una, ero costretto a desistere per la mia debolezza. Alla fine, solo una porta si presentava
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socchiusa, ma dallo spiraglio del lieve varco penetrava una luce intensa, così forte da far male agli
occhi e da rendermi impossibile osservare cosa ci fosse oltre la piccola breccia, costringendomi
conseguentemente a superare anche quella… poi il sogno finiva e io mi svegliavo con una strana
sensazione di malinconica mestizia.
Non so dire quanto non fossi stato in grado di concepire la perfidia dell’animo umano prima di
allora, ma nell’inverno del lontano 1986, quando il Mage era a pochi mesi dalla sua maggiore età e io
lo rincorrevo a un anno di distanza, i giovani di Castrba me ne stavano per dare un esempio lampante.
E nonostante tutto quello che sarebbe accaduto, gli avvenimenti mi avrebbero inevitabilmente
avvicinato ancor di più a Virginia, rendendomi comprensibile quanto fosse forte il demone della
tentazione, mentre mi avrebbero allontanato sempre più da Demetrio, rivelandomi quanto fosse
indegna la mia volontà.
Adesso, sono costretto ad ammetterlo che le mie nobili doti erano solo una farsa.
La verità era che Virginia mi spaventava, sia nella veste decorosa, che in quella dissoluta e per ogni
evenienza io trovavo la soluzione in quell’esigenza di essere ciò che dovevo essere per soddisfare il
volere degli altri anziché il mio. La giustificazione uccide la virtù, aveva detto Socrate, e io ero
diventato davvero bravo a trovarne una ogni volta, sebbene fosse sempre la stessa. Ciò in cui non ero
bravo, era ad intendere quanto il filosofo greco avesse ragione, non comprendendo come di quella
giustificazione ne avessi fatto una convinzione.
Se avessi saputo liberarmi dei miei timori, avrei potuto ammettere di desiderare Virginia, e avrei
anche potuto possederla. Ma ero un codardo, fuggito dall’illusione di dominare il mio pensiero
quando avevo rifiutato di accettare gli argomenti di Demetrio, e dal timore del giudizio quando avevo
nascosto il mio desiderio dietro la necessità di un’immagine dignitosa, dovuta per riconoscimento a
chi su di me aveva fatto troppo affidamento. Ecco, queste erano le mie giustificazioni irreali: io
dominavo me stesso perché riuscivo ad accontentare gli altri. La verità stava però in ciò che noi
ignoriamo, ossia nel riflesso di ciò che crediamo: io accontentavo gli altri perché non ero in grado di
dominare il mio pensiero, finendo per essere io stesso dominato dagli elementi esterni. Ero una mente
che ragionava secondo il volere di ciò che in me si voleva vedere, una sorta di prostituta che dava ai
clienti ciò che desideravano in cambio di un onorario che nel mio caso consisteva nel respingere le
responsabilità verso chi mi imponeva tale condizione. In questo modo potevo dire: non è colpa mia
perché è così che la società mi vuole.
Non potevo non pensarci in quella notte di ricordi, e non potevo evitare nemmeno certe
considerazioni. Vent’anni prima, a Casterba il Mage era considerato un perdente, un fallito, uno
stupido. Ora era una celebrità che aveva girato il mondo, che si era costruito una cultura multietnica e
che aveva fatto della sua passione una professione vincente. Era ricco, e questo tutti lo sapevano, ma
soprattutto, era apprezzato e ammirato. Adesso era uno che tutti avrebbero voluto avere come amico,
ma soprattutto, e questo io non potevo sottovalutarlo, era uno che poteva facilmente riprendersi ciò
che gli era stato tolto.
Ripensai al ricevimento, con i pensieri che si confondevano caoticamente tra ricordi di un lontano
passato e di un recente presente, e rividi le foto che durante la cerimonia di bentornato aveva
mostrato. Foto che non erano mai apparse sulle riviste mentre parlava di luoghi che nessuno di noi
aveva mai visitato.
Molti tra noi avevano viaggiato, ma come turisti, e da turisti spesso si giunge a conoscere solo le cose
migliori di un luogo. Nessuno di noi aveva mai vissuto con gli sciamani della Siberia o con i Curanderi
delle Ande, né era mai stato a contatto con gli indigeni dell’Amazzonia. Nessuno di noi aveva
filosofato con gli aborigeni dell’Australia né ascoltato le leggende degli Inuit del nord America.
Nessuno di noi aveva vissuto tra i terremotati di Haity o gli alluvionati dello tsunami in Tailandia.
Nessuno di noi aveva partecipato ai rituali Maori o alle cerimonie dei monaci buddisti. Così quanto
avevamo potuto apprendere dalle sue esperienze non era bastato a consacrare Demetrio al rango di
celebrità, ma ad esaltarlo al livello di eroe, ed ora, tra tutti quei pensieri confusi, potevo osservare
anche come lei, Virginia, dopo che la conferenza si era conclusa e a notte inoltrata quasi tutti se ne
erano andati, finalmente trovava la possibilità di avvicinarlo. Mentre lo salutava con affabilità, non
potevo dimenticare lo stato d’animo, causato in gran parte da lei, con il quale lui se ne era andato
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vent’anni prima, né le conversazioni al limite del commuovente che ci furono tra me e lei nei tempi
successivi…
Io avevo fatto la mia parte, lei la sua. Ma il segreto era stato svelato e per Demetrio era iniziato un
periodo di perfida aggressione da parte degli stolti giovani di Casterba.
Il fatto era che più volte il Mage aveva contestato senza grandi riserve le stupide azioni, spesso
vandaliche, dei giovani che sembravano non avere altro modo per mostrare la loro forza. Mai aveva
apprezzato chi, per mostrare il suo valore osava bere alcolici fino al limite del coma, e poi si vantava
delle proprie sbronze. Era contro il fumo e la droga, non apprezzava l’esibizione del lusso né
l’esaltazione dell’immagine, ma nel bel mezzo degli anni ottanta, laddove l’improvvisa abbondanza
non era gestibile dai limiti culturali, tutte queste contrarietà rappresentavano un’offesa per chi invece
ne faceva un vanto, e i suoi giudizi contribuivano solo ad aumentare il disprezzo che i coetanei
avevano per lui.
Quel triste evento, fu un’occasione troppo allettante per chi desiderava spregiarlo, e lui sapeva di
essere nell’occhio del ciclone, e che tutti i finti sorrisi e i dissimulati discorsi in sua presenza,
mascheravano la derisione e l’umiliazione che la vigliaccheria permetteva di esprimere solo in sua
assenza. Tutto ciò non lo avrebbe comunque toccato, non fosse stato che nemmeno lei, ad un certo
punto, parve essere immune da tale influsso negativo. Fu per liberarsi dell’indesiderato accostamento
alla sua figura che iniziò ad assecondare le derisioni e, successivamente, per mettere ancora più
distanza tra loro, a fare in modo da evitarlo completamente. Ciò che non poteva sapere era che,
probabilmente, Demetrio tutto questo lo aveva messo in preventivo e che, paradossalmente, proprio
quel mutamento messo in atto per allontanare da sé il suo fantasma e avvicinare le attenzioni degli
altri, l’avrebbero condotta in fine, a quel temuto isolamento.
Così, nei tempi successivi, quando aveva iniziato ad usare mezzi di seduzione audaci divenendo
quell’oggetto del desiderio che ancora non aveva svelato a sfavore della sua genuina nobiltà, la vanità
aveva preso il sopravvento su di lei e Demetrio, divenuto un fastidioso fardello di cui liberarsi, per un
non ben compreso motivo, pareva, nonostante tutto, assecondare gli eventi.
La rottura completa, ma più precisamente, la delusione totale, avvenne nell’estate successiva. A quel
tempo era ancora in vigore l’obbligo di prestare servizio militare. Eravamo in tempo di pace, se si
esclude quel timore, forse mai veramente esistito, del conflitto atomico che si sarebbe potuto scatenare
tra le due grandi potenze del tempo divise solo da un fragile muro.
Il muro di Berlino doveva ancora cadere e la guerra fredda tra Russia e America sosteneva un
equilibrio precario ma stabile, così quell’obbligo di prestare servizio militare diveniva un anno di
fastidiosa noia per sfuggire alla quale, nelle antiquate caserme italiane, si praticava il fenomeno del
nonnismo, termine con cui veniva definita una serie di comportamenti prepotenti nei quali i membri più
anziani prevaricavano sulle reclute con atti di predominio e di umiliazione che le classi degli ufficiali
tendevano a minimizzare ritenendolo un mezzo efficace nella regolazione delle gerarchie all’interno
della truppa. Tale pratica però era ben conosciuta e proprio negli anni ottanta aveva cominciato a
divenire un fenomeno cui i notiziari televisivi non mancavano di dare risalto a causa delle
informazioni che giungevano su episodi di rilevanti gravità. Sarebbe stato proprio questo fenomeno
che avrebbe condotto lentamente alla conclusione del reclutamento obbligatorio, ed era
prevalentemente per questo fenomeno che molti giovani temevano e cercavano di evitare
l’arruolamento.
Il Mage e Val erano stati i primi della loro classe a ricevere l’avviso di reclutamento, nell’estate del
1987.
Uno dei metodi più ricercati dai giovani per ingannare ed evitare l’autorità, era quella di sostenersi
contrario ad ogni tipo di violenza e all’uso delle armi attraverso un termine che si diceva “obiettore di
coscienza”. In questo modo si poteva ottenere l’esonero dal servizio militare a condizione di prestare
per l’anno richiesto, in alternativa, servizio civile. Ma riuscire ad essere esonerati non era tanto
semplice. Occorrevano grandi mezzi. Così Demetrio, che non disponeva né di mezzi economici né di
aiuti esterni, aveva accettato senza riserve di compiere il suo dovere, pur essendo contrario a ogni
condizione di imposizione. Ma per Val fu diverso. La sua famiglia era forse tra le più cattoliche che io
conoscessi in tutto Casterba e aveva conoscenze molto prestigiose. Conoscenze vicine alla chiesa, la
quale aveva praticamente la maggiore autorità nel settore degli obiettori. Non fu difficile così per Val
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evitare il servizio di leva a favore di un servizio minore che avrebbe svolto per qualche comunità
cattolica.
Ma tutto questo non è particolarmente importante al fine di quanto avvenne, perché la sera in cui ci
trovammo riuniti per festeggiare a suon di birre l’evento che, di fatto, sanciva il passaggio
dall’adolescenza all’età adulta di un uomo, il fato volle che lei, con un gruppo di amiche, fosse
presente. La domanda obbligatoria era a quale corpo militare si era stati assegnati e in quale zona del
paese si sarebbe reso il servizio. Il Mage rivelò con un entusiasmo ironico che sarebbe stato un
artigliere e che avrebbe reso il suo servizio tra le alpi del Friuli. Ci furono risate di scherno e auguri
goliardici.
Se dovessi vederla nello stesso modo in cui consideravo le cose a quel tempo, dovrei dire che il Mage
non fosse del tutto immune dall’accattivarsi favori e, forse per la prima volta ingenuamente, avrebbe
pensato che il fascino della divisa poteva essergli favorevole. Sono certo che non abbia mai saputo
rinunciare del tutto alla possibilità di riuscire, se non a conquistarla, a farsi apprezzare da lei, ma non
ci fu nessuna reazione da parte di lei, fino a quando invece Val non fece l’annuncio che lui avrebbe
evitato il servizio, omettendo, dietro la finta ideologia della sua contrarietà alle armi, oltre il timore di
affrontare tale prova, di aver accettato l’intromissione della sua famiglia che attraverso le proprie
conoscenze era riuscita a farlo esonerare dall’obbligo armato a favore dell’obbligo civile, sottostando
così però all’autorità familiare che in futuro, oltre a potenziare il dovere di essere cattolico, avrebbe
influenzato e limitato la sua ricerca della libertà dimostrando così che nulla era concesso per nobiltà e
premura, ma che ogni offerta aveva un prezzo, e Val, evidentemente, non era immunizzato da tale
clausola.
Anche lui aveva le sue catene invisibili e il mito del ribelle che aveva rappresentato fino a quel giorno
stava per svanire, consumarsi e finire, tradito dall’incapacità di resistere alle proposte e alle offerte
subdole e ammaliatrici del destino.
Tutti erano consapevoli che il servizio civile, considerato quasi una vacanza, era solo una via di fuga
per sfuggire ad un dovere di cui si temeva più lo stato sociale che l’imposizione delle autorità, ma per
lui ci fu un’ovazione e soprattutto, un’esultanza inaspettata.
Virginia aveva gioito alla sua dichiarazione e con un rapido sguardo sdegnoso diretto al Mage, aveva
affermato di concordare con la sua scelta mentre disprezzava chiunque impugnava un’arma.
Il Mage era troppo perspicace per non capire il messaggio celato in quella frase, e troppo avveduto
per cercare di far capire che non l’aveva scelto lui quel dovere e non commentò, invece alzò il suo
boccale di birra e si unì ai festeggiamenti in onore di Val, ma dopo che le esultanze si erano
prolungate, qualcosa in lui cambiò e, in un atteggiamento che mai mi sarei aspettato, proferì in una
provocazione che non avrei potuto immaginare.
Devo ripetere che, se avessi saputo ragionare e considerare i fatti come posso considerarli e valutarli
oggi, avrei potuto dedurre che probabilmente vi era in lui un preciso intento, ma allora in me vi era
solo l’intelletto e la balordaggine di un adolescente e, con lo stesso stupore degli altri, ascoltai
sorpreso le sue parole.
-Certo è una grande conquista poter dimostrare la propria devozione alla pace e mi complimento con
te Riccardo per avere avuto l’opportunità di sfuggire all’obbligo di impugnare un’arma. Tuttavia, non
riesco ad impedirmi di pensare come sarebbe interessante e istruttivo verificare verso chi andrebbero
indirizzate certe simpatie in caso di guerra-.
Come se tutti fossero stati consapevoli che stava per accadere qualcosa, quando aveva iniziato a fare
il suo brindisi a Val, si era creato il silenzio, e alla fine del commento, vi era il gelo. Nessuno di noi
considerava possibile l’avvento di una guerra ma, per un breve singolo istante, tutti dovettero provare
un brivido tormentoso raggelarli e per la prima volta io fui certo che anche le menti meno intellettuali,
per quel piccolo breve istante, furono in grado di provare quel timore che li aveva condotti a riflettere
su loro stessi e sulla realtà che stavano vivendo. In quel momento, io vidi il terrore negli occhi di
ognuno di loro e quasi ne fui compiaciuto, poi tutto finì.
-La guerra è stupida, e solo gli stupidi possono accettarla- commentò una delle ragazze presenti.
Un’ovazione spezzò il silenzio e approvò la finta bionda, ma quel grido liberatorio, ne sono certo, non
era diretto a lei ma al timore che le sue parole erano riuscite a far svanire dalle menti retrograde.
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Compresi tutto questo osservando il lieve sorriso del Mage che, invece di sentirsi continuamente
sconfitto, pareva sempre più vittorioso.
-È facile in tempi come questi affermare di essere contrari alle armi- rispose alla ragazza -oggi noi
viviamo una realtà in cui la guerra sembra un evento assurdo e impossibile nel nostro territorio, ma
non dimenticare ciò che avvenne solo quattro anni fa alle Falkland, per non parlare di ciò che sta
accadendo in Libano o di quanto sia durata la dittatura di Duvalier a Haiti. Le donne di questi paesi,
credo, non sarebbero tanto d’accordo con te. Non dimenticare che la storia ci ha dato modo di capire
che l’assurdo e l’impossibile non esistono. Le armi e le guerre sono stupide, certo, ma l’uomo è per
sua natura stupido e malgrado tutte le nostre buone intenzioni, guerre e atrocità esisteranno sempresorseggiò poca birra e concluse -io mi auguro che non ve ne sia mai necessità, ma nel caso, sarei
curioso di vedere da chi andresti a farti proteggere- osservò Val, quindi alzò ancora in suo onore il
boccale di birra pieno per metà, non lo finì e poggiandolo sul tavolo se ne andò. Io lo guardai
allontanarsi percependo non la sua ira, non la sua malinconia; non il suo disprezzo, ma la sua
tristezza e il suo tormento, come fosse consapevole di un triste presagio. Nello stesso tempo incrociai
lo sguardo di Virginia e nella sua finta arroganza vidi l’incompresa afflizione che ancora non riusciva
a intuire ma, tra le cose peggiori che tale condizione mi stava rivelando, vidi il sorgere delle radici di
un odio che non le apparteneva.
È triste comprendere come l’odio spesso non sia spontaneo ma che trovi piuttosto origine in una
condizione che viene trasmessa come un virus, e Virginia sembrava esserne stata contagiata. L’ostilità
che la spingeva ad odiare Demetrio non era nata da una sua volontà, ma da un’esigenza che le era
stata imposta da un volere esteriore generato da un condizionamento sociale, e nel lasciarsi
coinvolgere dal vizio collettivo cedendo definitivamente al contagio dell’odio, senza accorgersene si
avviava verso lo smarrimento che l’avrebbe condotta alla perdita della sua identità e successivamente,
al fallimento di una realizzazione evolutiva verso cui tali condizioni la stavano conducendo, e io, come
un vigliacco ozioso, restavo inerme ad osservare il compiersi di un destino del quale, in un futuro
lontano, mi sarei sentito responsabile.
I fatti che si sarebbero verificati da lì a soli tre anni dopo in Kossovo e un anno più tardi nel Golfo
persico, ci avrebbero fatto pensare molto a quelle frasi. Nel 1992, quando il Mage era in giro per il
mondo già da un anno, il conflitto in Somalia ci avrebbe ricondotto, quasi senza volerlo, su quelle
stesse parole. E gli eventi che si sarebbero scatenati come un’onda di tsunami, violenta e imprevedibile
fino a condurci a nove anni più tardi, avrebbero finito per gettarci completamente all’interno di quella
realtà di terrore in cui, al nostro fianco era preferibile avere un soldato piuttosto che un pacifista…”
-Accidenti, pesante questo- commentai dopo la pausa di silenzio che lo sconvolgente capitolo aveva
generato in noi, intuendo che pure lei era rimasta scossa quanto me. Gli argomenti che si
introducevano, che sembravano per la prima volta portare il racconto verso una dimensione reale,
turbavano più di quanto avessero fatto gli episodi onirici narrati fino a quel punto che, pur trovando
modo di far riflettere, potevano restare comunque elementi senza riscontri, che lasciavano quindi spazi
di dubbio alla mente e la possibilità di poter decidere di poterli ignorare. Ma l’inserimento improvviso
di realtà cui non si potevano ammettere dubbi, rendeva il tutto più concreto, al punto da limitare perfino
la possibilità di considerare il resto come fantasia e portandoci a comprendere come l’oggettività
umana fosse triste e cruda. Lei restò in silenzio, ma io non potevo accettarlo perché qualcosa in me si
stava agitando.
-Che ne dici? Perché all’improvviso introduce elementi così attuali, reali e drammatici?Alzò il viso e mi guardò con i suoi occhi scuri -ti ha sconvolto vero?Un po’ m’irritai perché quasi ne sembrava felice -perché, a te no?-Al contrario, sono molto turbata. Sei ancora convinto che questo sia il lavoro di una mente malata?mi domandò subito dopo.
-Non so più che dire- risposi sinceramente.
-Ti sconvolge perché dopo averti condotto attraverso fatti che potrebbero essere considerati fantasia,
improvvisamente ti porta nella realtà che, paradossalmente proprio attraverso l’iniziale immaginazione
ti rivela quanto sia primitivo l’intelletto umano. Per quanto ci sforziamo di convincerci che siamo
migliori o superiori, in realtà non siamo differenti dalle bestie e quando certe esigenze ci spingono ad
una conquista, sia essa necessaria per sopravvivenza o solo condizionata dall’orgoglio e dalla smania di
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dominio, riveliamo la nostra vera natura sottomessa agli istinti. Tutto questo, inevitabilmente, ci
spaventa perché in fine comprendiamo quanto siamo inaffidabili e soprattutto, quanto possiamo essere
crudeli-.
Mi era difficile accettarlo e lasciai che l’istinto razionale cercasse di trovare un’alternativa a ciò che
volevo rifiutare -tuttavia trovo di cattivo gusto confondere drammi di così grandi livelli a discorsi di
così dubbia ragionevolezza-.
-È proprio qui la questione. Tu pensi, o vuoi convincerti che nulla di quanto hai letto fino ad ora possa
essere reale, e hai bisogno di qualcosa che te lo renda concreto, e questo qualcosa deve essere per forza
potente-.
Mi lasciai prendere da un impeto indignato -non vorrai dirmi che ammiri questo pazzo- mi irritati -è
un fanatico. Talmente vendicativo da augurarsi che scoppi una guerra per castigare le sue vittime-.
-È umano- smorzò con semplicità la mia rabbia -quella vendetta di cui tu parli lo rende simile a noi,
per questo ti fa irritare. Finché lo vedevi come qualcosa d’astratto, una specie di oracolo fantasioso che
può esistere solo nelle leggende lo potevi anche ignorare, ma adesso che scopri che ha debolezze e
sentimenti come ogni uno di noi ti spaventa perché non lo puoi più considerare come qualcosa che può
non esistere-.
Mi sentii maledettamente vulnerabile e nel mio silenzio lei affondò la sua spada.
-Speravi che stessimo cercando un fantasma non è così? Ma hai avuto timori fin dal principio e
cercavi solo delle conferme alla tua razionalità. Speravi ancora che tutto si sarebbe risolto in un ridicolo
scherzo così avresti potuto continuare a vivere nella tua tranquilla ignoranza. Ora però che i tuoi timori
cominciano a vacillare la paura si fa sempre più concreta…-Paura? Io non ho paura- mentii, ancora conscio della considerazione meno valutata inizialmente della
punizione. Di paura ne avevo eccome, e la verità che volevo ignorare si rivelava invece nelle parole di
Felona: io avrei preferito che quell’anonimo rimanesse una fantasia, e accettarlo come realtà mi
procurava solo un ulteriore e sempre più profondo senso di ansia..
-Certo che ne hai. Hai paura di scoprire che possano esistere realtà che potrebbero mettere in
discussione ogni tua convinzione. Hai così necessità di conferme da non renderti conto che perfino
l’accettare di non rifiutare l’allettante ingaggio è dovuto a questa tua esigenza: la tua razionale visione
ti spinge a pensare che chiunque avrebbe ceduto all’allettante offerta, perché l’uomo è debole e cede
facilmente di fronte alle lusinghe e al facile profitto. La visione razionale ti spinge a vedere solo difetti
negli uomini, così puoi giustificare i tuoi, e non ti rendi conto che nelle parole di questo personaggio
non vi è né desiderio di vendetta né auguri di presagi funesti, ma solo il semplice intento di voler far
comprendere quanta ipocrisia vi sia in tutta questa razionalità, e lo fa con una semplicità disarmante,
tanto grande quanto le tragedie che gli uomini hanno bisogno di vivere per poterla comprendere. Ma
noi queste cose non le vogliamo sentire, non le vogliamo vedere per il timore di scoprire che sono parte
di noi, e per questo, quando ci troviamo di fronte a persone come queste preferiamo allontanarle,
emarginarle e definirle folli…Provai un senso d’umiliazione assalirmi e una certa irritazione accompagnarlo -tu stai delirandoriuscii solo a dire, senza comprendere che cominciavo a essere impertinente.
-Mi insulti per vendetta, vedi? Sei come lui-.
-Ma cosa stai dicendo?- cercai di reagire -io non mi sto vendicando-Ci sono molte forme di vendetta, ma il desiderio di ferire è un suo sinonimo, poco conta che sia con
una spada o con la lingua, e questo sentimento ci rende tutti uguali: o vorresti negare che tu non hai mai
desiderato vendicarti di qualcuno?-Certo che no, ma non ho mai desiderato che scoppiassero conflitti bellici per questo-.
-Solo perchè le circostanze erano differenti-.
Mi mise alle strette e io sentii di non poterle tener testa, senza rendermi conto che il motivo era che
aveva ragione.
-Mi stai accusando ingiustamente e non sono disposto ad accettarlo-.
-Forse perché percepisci la verità nelle mie parole-.
-Non ho più voglia di stare ad ascoltare le tue accuse- quasi gridai e nel farlo mi alzai allontanandomi
a passi veloci. Lei non cercò di fermarmi e io non mi voltai perché sapevo che se lo avessi fatto avrei
visto il suo sorriso soddisfatto, come se avesse ritenuto di aver vinto una gara, comprendendo così che
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in realtà fuggivo solo dalla paura di dover ammettere verità che contenevano troppe responsabilità e
capire che, per quanto avessi creduto di essere differente dal resto dei rappresentanti della razza umana,
in definitiva, altro non ero che uno dei tanti, con paure, timori, tormenti e convinzione di non essere
come gli altri, come invece lo siamo tutti.
Uscii all’aperto sotto lo sguardo del custode che senza difficoltà individuò la mia ira e non azzardò
nemmeno a farmi un saluto, quindi cominciai a passeggiare avanti e indietro a passi veloci nel piazzale
dell’hotel. La tensione era forte in me e sentivo la difficoltà di trattenere la rabbia. Una serie di pensieri
cominciarono a vagarmi nella mente, pensieri che andavano dall’orgogliosa presunzione di non poter
permettere a nessuno di giudicarmi come aveva fatto Felona, al timore che la stessa potesse aver
ragione sul fatto che l’ira era tanto più forte quanto più si comprendeva che certi giudizi non erano
infondati. Ma io non potevo permettermi di cedere a determinate debolezze perché se avevo dei difetti
non potevano essere peggiori di quelli di molte altre persone, ma cercare di sopprimerli, o peggio
ancora, rivelarli, significava rischiare di compromettere le mie certezze e di intaccare quella sicurezza
che mi permetteva di essere quello che ero nel mio lavoro e nella vita in generale, ma nonostante tutto
non riuscivo a liberarmi delle rivelazioni che cominciavano a emergere come le bolle dell’acqua oltre i
cento gradi, e improvvisamente sentii l’inutilità del resistere a ciò che si può solo nascondere perché,
come nel gioco del nascondino, prima o poi si finiva per fare una mossa che rivelava la propria
posizione e si finiva per essere smascherati, trovandomi di conseguenza, quasi involontariamente, a
dare ragione alla psicologa: avevo paura di lasciar emergere i miei limiti, perché ero consapevole che
questi limiti avrebbero potuto diventare un ostacolo. Fermai i miei passi frenetici e quasi con un sorriso
ironico ricordai un vecchio fumetto che avevo letto da bambino. Uno di quelli che narravano le
avventure di Asterix, il piccolo eroe gallico creato da René Goscinny e Albert Uderzo, in cui si
raccontava di un popolo del nord che non conosceva la paura e che per questo era in grado di affrontare
qualunque cosa al mondo, fossero mari in tempesta, popoli nemici o mostri mitologici, finché non si
erano scontrati col villaggio di Asterix e, sconfitti, capirono che cosa fosse la paura. Da quel momento
questi avventurieri non erano più stati in grado di affrontare alcunché. Sentii la mia rabbia sbollire e
rivendendo la mia stupida reazione mi vergognai di me stesso dandomi dell’idiota da solo. Restai
ancora nel piazzale per qualche decina di minuti però, perché l’orgoglio mi impediva ancora di
ritornare da lei, sapendo che l’avrei trovata con quel sorriso trionfante stampato sul viso. Decisi che
non le avrei chiesto scusa se l’avessi trovata in quell’atteggiamento, ma quando mi avvicinai
lentamente a lei, che ancora attendeva nella saletta, la vidi seria e per niente ansiosa, come se per lei, e
probabilmente da buona psicologa doveva essere così, quella mia reazione fosse del tutto normale e
scontata. Avevo deciso di non scusarmi e avevo trovato anche una giustificazione per farlo, ma quel
mancato trionfalismo mi spiazzò perché annullava ogni mia condizione di comodo, tuttavia l’orgoglio
che non desisteva ancora mi teneva prigioniero, così mi sedetti davanti a lei e non dissi nulla.
-Colui che intraprende il viaggio della vendetta, scavi prima due tombe- disse dopo aver compreso che
non avevo alcuna intenzione di scusarmi.
-Cosa?- dissi non convinto di che cosa aveva detto, o per essere più sinceri, del perché l’avesse detto.
-Confucio- puntualizzò allora -chi intraprende il viaggio della vendetta deve scavare due tombe, una
per la sua vittima, una per se stesso, è questo quello cui conduce la vendetta-.
-Sembra che molti abbiano trovato giovamento nella vendetta, magari Confucio non ha mai dovuto
provare questo desiderio perché non aveva donne da farsi soffiare o amici da cui farsi tradire- tornai a
schernire con la mia ritrovata tracotanza.
Non mi guardò nemmeno -fu emarginato e perseguitato al punto da dover fuggire rischiando la vita
perché i suoi insegnamenti infastidivano le classi dominanti della Cina del 500 avanti Cristo in
un’epoca dominata da guerre tra stati feudali, dominata da anarchia, instabilità politica e diffusa
corruzione. Visse di umili mestieri e fu tradito da uno dei suoi allievi prediletti. Avrebbe avuto molto
per cui desiderare la vendetta, ma rimase fedele ai suoi principi e infine ciò lo condusse a divenire
ambasciatore e rispettato uomo di corte- solo dopo alzò il viso e mi guardò, o mi studiò, per capire che
cosa stessi pensando mentre io cercavo di nascondere il ricordo di come io stesso, in fondo, avevo
provato molte volte il desiderio di vendicarmi su certi superiori che avevo dovuto sopportare durante il
periodo al servizio delle forze dell’ordine, appurando che molti erano i sistemi di vendetta, tra cui
quello di fare una carriera più prosperosa per poter poi rivalermi su coloro che avrebbero dovuto
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successivamente prendere ordini da me … E al mio successivo silenzio, Felona affondò il colpo con
una semplice domanda: -Tu invece, hai trovato giovamento nella tua vendetta, o nel tuo desiderio di
vendetta?Di nuovo restai in silenzio cercando una possibile risposta, ma la verità era che non avevo trovato
alcun giovamento e ora invece sentivo l’angoscia di chi, oltre all’incapacità di scusarsi, doveva
ammettere a se stesso la propria debolezza e stupidità.
-Io non cercavo vendetta- dissi però lasciandomi guidare dall’istinto che m’impediva di accettare di
sentirmi sconfitto.
Lei sorrise, non disse niente ma se avessi potuto leggere il suo pensiero sono certo che le avrei sentito
dire qualcosa del genere: “Visto? Rinneghi te stesso nascondendoti dietro le tue paure, le stesse che ti
condurranno a quella tomba che devi scavare prima di intraprendere questo viaggio”. Ma suppongo
immaginassi di aver letto tale pensiero perché in realtà era ciò che pensavo io, e come se di riflesso ella
avesse potuto percepire veramente ogni mio pensiero, quasi confermò.
-Vedi? È per questo che non posso concepire il suo desiderio di vendetta. Sicuramente questo Mage
aveva un pensiero troppo penetrante per sottovalutare queste cose, la vendetta corrode e lui non viene
descritto come un distruttore. La sua visione è protesa verso il futuro, non si augura conflitti bellici ma
non dà per scontato che le cose non possano cambiare e cerca solo di far emergere quel dubbio che, se
ognuno di noi fosse in grado di ammettere, lo condurrebbe a considerare più profondamente la
necessità di meditare prima di fare affermazioni troppo rassicuranti-.
-Affermazioni del tipo: io non ho paura di nulla?- cedetti in fine lasciando chiaramente trapelare
l’insinuazione nei miei riguardi. Per un momento ebbi la sensazione di percepire in lei una sorta
d’orgogliosa stima per se stessa, come se avesse pensato, per un breve secondo, di esser riuscita a far
breccia in un cuore duro o in un’anima gelata come la mia.
-Mettersi in discussione è l’unica maniera che abbiamo per migliorarci, credo che fosse questo che
voleva far intendere- riprese subito dopo annullando quel velo di trasparente soddisfazione che avevo
immaginato.
Una specie d’illuminazione a quel punto mi colse, e non so chi tra me e lei sarebbe rimasto più stupito
dall’affermazione che stavo per fare. Non so dire in che modo mi giungesse la percezione, non era la
prima volta che mi capitava e credo che sia successo a molti, ma prima di allora non avevo mai
considerato certe intuizioni al di là di semplici reminiscenze improvvise della memoria, mentre in quel
momento, la sensazione che provavo era più quella di aver ricevuto un suggerimento, del quale non
potevo comprendere né l’origine né la provenienza, ma che si faceva udire nella mia mente più come
una voce che come un pensiero, sebbene il tutto fosse stato così rapido da indurmi un istante dopo a
tornare a valutare l’insieme come un semplice ricordo immagazzinato emerso semplicemente nel
momento giusto.
-Questo mette fuori gioco Glauco e Diomede- dissi allacciando il contesto di quel capitolo a quanto
era stato letto in un principio che uno come me avrebbe dovuto aver già dimenticato. Fu il modo in cui
lei mi guardò che mi fece pensare a quanto fosse strano per me ricordare i precedenti concetti di un
racconto che fin da subito avevo sottovalutato e preso poco seriamente.
Il fatto era che la mia memoria era abituata a lavorare su dettagli tecnici, le mie indagini si svolgevano
su fatti reali, raccolte di dati personali e annotazioni d’eventi e spostamenti veramente avvenuti. Mai mi
ero impegnato con qualche articolo di natura letteraria come quello, e che la mia memoria fosse in
grado di stupirmi adattandosi ad un esercizio per il quale non era stata allenata, per un momento, mi
rese orgoglioso.
-Accidenti, bravo- ricevetti i suoi complimenti -finalmente cominci a sentirti coinvolto- parve volermi
far notare come il mio atteggiamento stesse cambiando, poi riprese la sua analisi.
-È un’intuizione formidabile la tua, bravo. Credo che sia un punto fondamentale, qualcosa che deve
condurci a considerare come nulla sia causale in questo racconto e come ogni passaggio sia
concatenato all’altro. Tuttavia questo esclude Glauco e Diomede solo per ciò che riguarda il conflitto
bellico-.
-Che vuoi dire?-Ricordi quando alludeva al pensiero di credere che Glauco fosse tornato per concludere la battaglia
sentendosi svincolato dal legame dell’ospitalità? Ebbene ora ci dice che questo vincolo è inscindibile,
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se dovesse fare riferimento ancora ai due guerrieri probabilmente ora direbbe che i due erano tornati
per confermare nuovamente quel vincolo, come se fosse loro dovere ritualizzarlo con una cerimonia
che impedisse loro di perderne la memoria-.
-Già, è vero- mi sentii trasportare dall’entusiasmo -sotto questo aspetto sembra quasi avere tutto un
senso- sentivo ancora in me quella sensazione strana che mi aveva colto poco prima quando avevo
avuto quella sorta di percezione di ricevere suggerimenti da una fantomatica fonte di informazioni che
avrei potuto contestualizzare nella circostanza di un’entità invisibile, come l’amico invisibile dei
bambini o, per chi ci credeva in una diversa età, un angelo consigliere.
Ma quando lei mi guardò con gli occhi che cominciavano a brillare di una strana luce e mi pose la sua
domanda, tutto sembrò svanire.
-Davvero? Sotto quale aspetto?- mi domandò, e improvvisamente io non seppi più cosa dire,
percependo che il consigliere se n’era andato, forse infastidito dall’arroganza di sentirmi ora un perfetto
analista. Cominciai a gesticolare con le mani mentre alle labbra sentivo affiorare parole confuse che
non avrebbero dato senso a nessuna frase. Mancava poco che cominciassi a sudare perché era come se
in me vi fosse una spiegazione che la mia mente riusciva a formalizzare ma che le parole non
riuscivano a descrivere, e più mi sforzavo di renderla intuibile più lo stesso concetto finiva per sfuggire.
-Non lo so- riuscii finalmente a pronunciare, ma al contrario di sbloccare un discorso descrittivo
queste parole portarono solo più confusione e tutte le sensazioni intuitive che avevo avuto nell’arco di
un periodo troppo breve per riuscire ad analizzarle con le dovute modalità, svanirono nel vuoto della
mente razionale.
-Non so spiegartelo- ammisi -ma è come se qualcosa mi dicesse che questo ha un senso… ma io non
sono bravo a interpretare certe intuizioni e tutto quello che posso dire è che la mia è solo… una
sensazione- ammisi sconsolato.
Mi preparai a sentirmi deridere, invece vidi un’espressione comprensiva sul suo volto e quasi una
sorta di piacevole conforto mi pervase.
-Sei semplicemente impreparato ad accogliere cose di cui non hai mai tenuto conto, ma qualcosa
comincia a farti cambiare…- parve voler aggiungere dell’altro, qualcosa che la mia mente interpretava
come una sorta di avvertimento, ma quel qualcosa in più che mi attendevo non ci fu e una nuova
assurda sensazione mi fece pensare che lei stessa fosse stata bloccata da una sorta di entità immaginaria
simile a quella che avevo vagheggiato io poco prima.
-Ora dobbiamo cercare di interpretare i sogni- riprese poi improvvisamente, e ogni astratta congettura
si cancellò definitivamente dalla mia memoria.
-I sogni?- dissi tornando alla mia condizione d’incomprensione.
-Certo, ora che abbiamo stabilito che in questo testo nulla è lasciato al caso, diviene importante,
essenziale, oserei dire, concentrarsi sui particolari, e i sogni diventano a questo punto dettagli
fondamentali-.
-Non capisco, a me sembrano irrilevanti, se dovessi considerare lo scritto come un racconto letterario
probabilmente li classificherei una sorta di intermezzo, aggiunto solo per rendere il racconto più
variegato-.
-Bravo, e sarebbe una giusta critica letteraria la tua. Ma come tu stesso hai ammesso, noi non stiamo
giudicando un’opera letteraria. Devi restare concentrato sulle tue intuizioni, non reprimerle come se te
ne vergognassi-.
-Io non mi vergogno del mio intuito-.
-Allora continua a seguirlo. Smetti di razionalizzare per un po’ e cerca di entrare nella mente di questo
scrittore. Se sei riuscito a collegare l’interpretazione apparentemente inconcepibile di un collegamento
tra la realtà dei conflitti reali e quelli illusori della mitologia, dovresti comprendere che più un
particolare appare insignificante e più cose potrebbe rivelare- mi fece notare, e io cominciai a percepire
realtà nascoste nelle sue parole che ancora non consideravo. Non mi sentii più di dover cercare qualche
elemento da sfruttare per ironizzare, ma più audacemente, di dover cercare di capire.
-Va bene- cercai di essere deciso ma c’era un timore troppo alto in me e questo mi rendeva nervoso e
poco attento, e lei lo aveva intuito da tempo.
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-Se non ti decidi a liberarti dei tuoi tormenti non potrai andare oltre. Le intuizioni che ti giungono ti
arrivano da momenti di lucidità in cui la tua mente riesce a liberarsi dagli altri pensieri e affanni. C’è
qualcosa che ti affligge, e questo da quando hai scoperto una realtà che non consideravi giusto?La guardai con la classica espressione di chi cerca conforto, ma incapace di rivelarmi.
-Puoi fare due cose- disse allora lei -o decidi di confidarti, o decidi di restare nel tuo scrigno chiuso a
chiave-.
Cercai il coraggio di aprirmi e con difficoltà confessai -se questo capitolo esclude il desiderio di
vendetta, mi chiedevo, potrebbe essere possibile che chi mi ha mandato questo documento non sia
quella che sta cercando e non abbia desiderio di punirmi in qualche modo?- sentii una certa timidezza
assalirmi temendo che rivelare quella mia paura potesse rendermi vulnerabile alla preda della sua
mente troppo acuta a confronto dei limiti, invece, della mia. Temevo di sentirmi deriso da
un’abbondante sarcasmo e per un attimo mi pentii d’essermi confessato, invece, con mio grande
stupore, ciò che ottenni, anche se non in modo esplicito, fu proprio quel conforto che cercavo.
-Dunque è questo che ti sta terrorizzando?- le sentii dire. Non risposi, ma annientando il mio orgoglio,
rassegnato annuii.
-Non voglio rischiare di impazzire- dissi alludendo alla possibilità che la vendetta del presunto
vendicatore puntasse a questo.
A quel punto lei sorrise, ma con indulgente comprensione -ancora non so che cosa stia cercando
costui e quali siano le sue volontà, ma ti prometto che veglierò su di te affinché questo non avvengacercò di tranquillizzarmi.
La guardai come se vedessi in lei un sicuro rifugio per la mia mente pensando che nessun’altra figura
meglio di una psicologa poteva fare una promessa simile e, confortato, mi sentii al riparo
dall’aggressione di chiunque avesse voluto attaccarmi, come se cominciassi a credere negli angeli
custodi e nello stesso tempo, un sentimento più intenso mi fece osservare Felona con ciò che non si
poteva definire stima ma piuttosto, un sentimento al quale da sempre mi ero tenuto alla larga: l’amore.
-Penserai che sono un idiota vero?-Non ti ho mai ammirato tanto come in questo momento- disse invece lei e io non riuscii a evitare di
arrossire.
-Che dici, andiamo avanti?- le sentii allora proporre per rompere il momento d’imbarazzo.
-Certo- risposi deciso io stesso a chiudere quella parentesi come non si fosse mai aperta -ma io non
sono in grado di interpretare i sogni, perciò, dimmi tu cosa ne pensi-.
Le vidi il volto illuminarsi, come potrebbe succedere ad un goloso che gli si dicesse di assaggiare tutti i
dolci di una pasticceria per giudicare quale fosse il migliore. Immaginai che i sogni dovevano avere un
fascino particolare per lei e nell’addentrarsi nell’interpretazione dei tratti onirici descritti nel racconto,
mi parve di vederle perdere quell’autocontrollo che, sebbene celato da una superficiale ottemperanza,
distingueva una disciplina acquisita probabilmente negli ambienti cui la sua carriera l’avevano educata.
-È particolare come inserisce i sogni all’interno dei capitoli e deduco che non siano gettati lì a caso. In
questo capitolo descrive un sogno fatto di muri e di porte…- iniziò ad analizzare.
-Porte pesanti che non riesce ad aprire- puntualizzai allora io.
-Già- quasi lo sussurrò osservandomi con ammirazione, poi proseguì -ricordi quando descrisse la
visione di Demetrio relativa alla morte del padre?-Sì- risposi -ma quella era una visione, non un sogno-.
-No, era il sogno che lo sciamano gli stava facendo rivivere perché lui non era stato in grado di
ricordarlo- mi fece notare allora lei e improvvisamente in me scattò una reminiscenza e
un’incontrollabile senso indagatore che mi portava ad avere intuizioni che non pensavo di poter
contenere.
-Sì è vero, hai ragione, tuttavia quello era il sogno di Demetrio, mentre qui lui descrive un suo sognoprecisai. L’intuito che mi rendeva più riflettente verso quel tipo d’indagini che non mi erano del tutto
consone, parevano animare più lei di me.
-Sì è vero, ma l’insieme delle cose deve spingerci a considerare il tutto nella sua totalità. Il sogno di
Demetrio ci conduce in una dimensione più spirituale che reale- disse, e io cominciai a sentirmi
confuso.
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-Che vuoi dire?- le domandai senza temere di ammettere la mia estraneità alla comprensione
dell’argomento che stava introducendo.
-È ovvio che l’autore ci sta dando indicazioni su come ogni condizione non sia sottovalutabile…ripensai alla pagina introduttiva, quella che avevo potuto leggere libero da ogni vincolo in cui l’autore
sembrava appunto avvertire di non esporsi ai contenuti del documento senza prendere in
considerazione le eventuali conseguenze cui tale azzardo avrebbe condotto, e ancora colto da
un’insolita intuizione, valutai se tale avvertimento potesse contenere in sé la profezia di un’apertura o
di un’introduzione a concetti, elementi, nozioni e realtà oggettive mai considerate prima, ma non osai
rivelare questo mio pensiero a Felona e la lasciai proseguire.
-Quindi introduce elementi che ci spingono a considerare la realtà e l’irrealtà…- di nuovo non potei
fare a meno di dimenticare che era stato proprio attraverso questo argomento che avevamo cominciato
a frequentarci e di conseguenza ad intraprendere questa anomala avventura
-…Un muro nei sogni simboleggia i confini di un luogo sacro e, se interpretato attraverso una
prospettiva ascetica, indica la necessità di scoprire i nostri limiti spirituali ed emotivi…-Quindi Tommaso potrebbe alludere ad una crisi mistica?- osai intromettermi.
Annuì distrattamente, come se non se ne rendesse conto -sì, ma che si smuove attraverso dei fatti reali.
È come se Demetrio stesse cambiando tattica- disse e io fui certo di non riuscire più a seguirla.
-Che intendi dire?Lei cominciò a parlare rapidamente come se temesse che le sue intuizioni potessero sfuggirle dalla
mente e non fosse più in grado di recuperarle.
-Diomede e Glauco ci conducono verso una dimensione suggestiva, irreale, leggendaria, essi si
scontrano per scoprire un legame, un vincolo, e Demetrio istruisce Tommaso negli anni infantili e
adolescenziali verso dottrine dello stesso genere, suggestive, leggendarie e apparentemente irreali… lo
sta spingendo verso la via ascetica, spirituale. Ma la volontà di Tommaso, o meglio la volontà di chi lo
circonda, lo spinge ad allontanarsi da questa condizione e per perderne la concezione si rifugia nella
realtà materica, fisica e sperimentabile, ossia quella giustificabile e dimostrabile. Così Demetrio per
condurlo nuovamente verso questa via, passa attraverso la realtà dominante- espose rapidamente e io
cominciai ad avere mal di testa.
-Se fosse così, significherebbe avere a che fare con una mente geniale- osservai a mia volta
meditabondo, intuendo sempre più le ossessioni di chi aveva scritto quel racconto e le difficoltà, se tale
racconto fosse stato veramente ispirato da una storia vera, di sottrarsi ai timori che tale personalità
sarebbe stata in grado di suscitare -ma perché dovrebbe fare una cosa simile?-Questa è una bella domanda. Ma ti rivelerò una cosa: c’è stato qualcuno che ha detto “se non trovi le
risposte, cerca le domande”-.
-A sì? E chi è stato a dire una cosa così insensata?-Non lo so, è una citazione anonima, ma se ci pensi bene, non è poi tanto insensata. Tu non conosci
una risposta e poni una domanda no? È quello che hai appena fatto-.
-E la risposta?- la provocai.
-Vediamo se riesci a seguirmi- accolse la provocazione -il muro rappresenta comunque un confine.
Una linea divisoria tra l’interno e l’esterno, quindi è necessario comprendere quale sia l’interno e quale
sia l’esterno, tuttavia, il fatto che ci siano delle porte potrebbe far pensare che il protagonista sia
all’interno, che a sua volta indica la riservatezza e se il muro ci sta bloccando, come in questo caso,
indica una sorta di prigionia, delle nostre paure, delle difficoltà, dei nostri dubbi o dei nostri limiti…-E che cosa ti fa supporre che il protagonista sia bloccato?-Le porte pesanti che cerca di aprire ma che non riesce nemmeno a muovere-.
La conversazione stava cominciando a coinvolgermi in un modo che non avrei potuto immaginare.
-Questo ci conduce di conseguenza a dover analizzare anche quelle porte…- dissi meditabondo.
-Già, ma l’interpretazione non è difficile qui: se in sogno troviamo delle porte chiuse che non
riusciamo ad aprire, significa che noi stessi ci stiamo creando degli ostacoli-.
-Ma nel sogno c’è anche una porta semi aperta dalla quale intravede una luce folgorante…-Che non riesce ad affrontare… le porte indicano un passaggio, la luce indica spiritualità… lui non
riesce ad affrontare quella porta ed è come se in pratica la chiudesse, ciò significa il rifiuto o la paura di
quello verso cui conduce la porta, il timore di ciò che sta dietro, o fuori…85
Nel silenzio successivo un'altra sorta di suggerimento parve coinvolgermi in un modo che, per un
momento mi procurò un timore tale da farmi desiderare di non volerlo considerare, come se in me si
stesse smuovendo qualcosa che non volevo facesse parte di me e per un momento, mi parve di provare
lo stesso timore che lo scrittore ignoto stava cercando di svelarmi.
-Un sogno premonitore?- sussurrai, quasi non volessi che a questa mia domanda vi fosse una risposta.
Lei mi guardò sospettosa -a cosa stai pensando?-Alle sue paure- rivelai allora -ora sono cambiate. Prima aveva paura ad aprirsi verso nuove
prospettive, ma adesso lui teme di essere l’artefice dell’odio… di aver spinto Virginia a conoscere quel
lato oscuro che l’ha resa consapevole di che cosa sia l’odio e di averla quindi contagiata… gli ostacoli
che si crea, sono i suoi sensi di colpa- dissi, ma nuovamente con una sensazione che mi faceva quasi
credere che tali pensieri non fossero nemmeno miei. Lei restò in silenzio, come a volermi lasciare uno
spazio per riflettere, e ciò su cui stavo riflettendo io in quel momento, era se volevo addentrarmi in
questa sconosciuta realtà o se continuare a rifiutarla. Ma probabilmente avevo vissuto per troppo tempo
nell’ipocrisia di una sola realtà, pura e tangibile, e quel silenzio riflessivo non impiegò molto a
ricondurmi in questa condizione. Io non potevo accettare che vi fosse qualcosa al di fuori di noi che
sfugge al nostro controllo ed ero consapevole che lasciar introdurre insinuanti insidie nella mente
rischiava di provocare traumi che potevano condurre alla follia. Per un momento il suggeritore tentò
ancora di intromettersi con una rapida intuizione che conduceva al pensiero che quelli erano proprio i
timori da cui lo scrittore aveva voluto mettermi in guardia, ma scacciai via in fretta, come si fa con una
mosca, la presenza del suggeritore, rifiutandomi di credere che qualcuno potesse suggerirmi pensieri
non miei e, scacciando ogni probabile rischio tornai a essere me stesso.
-È troppo assurdo, questo è sicuramente il racconto di un visionario. Io non credo nelle premonizioni e
soprattutto non sogno…- non so perché lo dissi, ma mi sembrò che annullare il sogno come qualcosa di
superfluo potesse rafforzare le mie convinzioni.
Prima che l’amarezza notai la delusione negli occhi di Felona e mi sembrò di poter comprendere come
anche in lei vi fosse un conflitto. La delusione sembrava denotare una sorta di compassione che poteva
indurla anche ad una comprensiva condizione di indulgenza, nella quale forse avrebbe voluto rivolgersi
a me nella tipica professionalità della sua attività, cercando di condurmi premurosamente verso la
verità che cercavo o che lei credeva dovessi scoprire. L’amarezza poi, che sembrava prendere il
dominio sulla delusione, mi dava la sensazione che quella sua dominante essenza benevola venisse
contrastata da una sorta di dittatore, come se le fosse impedito, da una forza più grande della prima, di
comportarsi come avrebbe desiderato. Ma da tutto ciò io dedussi che in fondo anche lei era solo una
persona umana e che il suo carattere non era molto diverso dal mio, valutando così i suoi Diomede e
Glauco come umiltà e orgoglio, e dove, come nella più grande maggioranza dei caratteri, il secondo
prevaleva sul primo.
-Tutti sognano- disse quindi con arroganza, e la successiva affermazione mi fece sorridere dandomi la
conferma che ciò che valutavo corrispondeva alla realtà.
-Tu semplicemente non ricordi i tuoi sogni, del resto come potresti farlo visto il modo in cui dormi?L’allusione al mio sonno pesante mi diede la sensazione di un’accusa, e questo confermò la mia
teoria: anche lei cedeva facilmente all’orgoglio. Il mio discriminare i sogni doveva in qualche modo
averla infastidita e la sua reazione l’aveva condotta al cercare di umiliarmi.
-Ma la vuoi smettere di farmi notare il mio dormire?- cercai di sdrammatizzare non avendo intenzione
d’alimentare l’incendio che potevo far scoppiare.
-Ti faccio notare semplicemente quello che sei- gettò verso di me il documento -vai avanti- disse poi.
Io la osservai divertito, presi il documento e feci per iniziare, ma prima che potessi farlo lei aggiunse
una frase, e io non potei provare un brivido.
-E cerca di non dimenticare ciò che hai intuito fino ad ora…- lo disse quasi sussurrando, in un modo
però che tale sussurro potesse sembrare un evidenziatore. Dubitai un istante, e compresi che per quanto
avessi cercato di evitare certe intuizioni ormai, non potevo più fare a meno di pensare che nella mia
realtà erano stati introdotti nuovi elementi, quindi abbassai gli occhi e presi a leggere:
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Il tempo scorre…
…E così, dopo aver assolto i suoi doveri se ne era andato, dicendomi che partiva perché aveva
ricevuto una buona proposta di lavoro.
Assieme a lui anche il gruppo degli ambigui si era dissolto. Val, dopo il servizio civile, sotto le
pressioni familiari aveva accettato di iscriversi all’università per studiare lingue straniere. Il tempo
con lui avrebbe fatto il resto, conducendolo attraverso una certa disciplina imposta dalla famiglia ad
arginare e limitare quasi tutta la sua estroversia, tra tutti sarebbe divenuto colui con la professione più
nobile, a svantaggio però del suo lato ribelle e avventuroso. Per Vincent era stato diverso. L’eredità
culturale familiare limitata al dovere lavorativo dove la disciplina praticata attraverso la pigrizia
consisteva nell’indifferenza che ognuno doveva cavarsela da solo, lo aveva spinto verso un inevitabile
deriva. Magari, se avesse avuto una diversa istruzione e la possibilità di cogliere più opportunità le
cose sarebbero andate diversamente. Ma il destino non sembrava avere il senso dell’equità, così per
ognuno che riceveva di più, necessariamente qualcuno doveva avere di meno. E durante il suo anno di
servizio militare Vincent aveva avuto l’unica opportunità che la sua competenza gli aveva permesso di
valorizzare, rafforzando la propensione per il gioco e l’alcol. Quando era tornato la sua mente ormai
annebbiata non sembrava trovare più spazio per filosofie astruse. Aveva conosciuto una ragazza e per
qualche tempo io avevo creduto che qualcosa ogni tanto poteva cambiare. Si era sposato, ma i vizi
avevano avuto il sopravvento su di lui giungendo di conseguenza a collezionare anche quello
dell’infedeltà. Quando quella che era divenuta sua moglie lo aveva lasciato il loro figlio, o figlia, non
era ancora nato. Lei se ne era andata appena saputo di essere incinta senza dirgli nulla, così non
seppe mai di avere una figlia. Dei quattro, a mantenere quasi intatto il proprio ruolo, era rimasto solo
Marco, ma la sua era una personalità fragile, troppo incline ad una malinconia di tipo inopportuno e
in lui si percepiva una sorta di negatività che portava verso ossessioni maldisposte e pensieri
pericolosi, così avevo cominciato a evitarlo per non farmi coinvolgere da quel suo pessimismo avverso.
In fondo, dovevo ammetterlo, l’unico che mi importava ascoltare era Demetrio. Ma le sue ideologie
sembravano scomparse durante quell’anno che forse, come dicevano in molti, aveva veramente la
capacità di far cambiare le persone. Io non lo avrei mai potuto appurare perché a causa dei miei studi
avrei raggiunto l’età dell’esonero all’obbligo, ma potevo comunque verificare che lui non sembrava
più lo stesso. Era tornato, congedato e assolto dall’obbligo nell’autunno del 1989, ed era partito nei
primi mesi del 1991, all’età di ventuno anni, e in quel periodo poco più lungo di un anno aveva evitato
di parlare dei fatti che accadevano nel mondo, come se non gli importasse più nulla del destino e della
stupidità degli uomini. Io sentivo che stavo per perdere qualcosa e quando il vuoto della sua assenza si
affermò in me come una perdita insostenibile, il destino parve offrirmi come alternativa al perduto
legame l’unica persona attraverso la quale potevo ancora percepire un rapporto con lui: Virginia.
Sembrerà strano perché lei aveva cambiato personalità e le occasioni che avevamo di parlare ormai
erano poche, anzi, per un certo periodo eravamo divenuti due perfetti estranei. Diciotto anni del resto,
sono un’età bizzarra, strana, capricciosa. Certo già da molto prima ci si ritiene adulti, ma diciotto
anni sembrano la meta definitiva nella quale si crede di divenire indipendenti o, per lo meno, lo si
vuole dimostrare. Le famiglie, specie quelle di stampo antiquato, hanno ancora un piccolo potere, ma
non sono più in grado di controllare la vita dei figli e, in tempi che cambiavano rapidamente come
quelli in cui eravamo noi, quel potere si indeboliva notevolmente giorno dopo giorno e Virginia non
sembrava disposta a rinunciare al lato trasgressivo da poco scoperto.
A Casterba non ci voleva molto per divenire celebrità. Si poteva essere celebri per essere degli assi
del volante, si poteva essere celebri per essere dei grandi piantagrane, si poteva essere celebri per
essere dei promettenti sportivi o anche grandi ubriaconi, si poteva essere celebri per qualità maldestre,
vizi e qualche volta anche, per pregi valenti. Io ero una celebrità, credevo, per valori e moralità
familiare, ma nel piccolo mondo di Casterba e dei suoi dintorni, la celebrità migliore la si acquisiva
attraverso l’immagine, e Virginia aveva acquisito una popolarità quasi holliwoodiana, e tutto ciò lo
doveva a Demetrio.
Il suo cambiamento avvenne in quell’età compresa tra i diciassette e diciotto anni, e fu per i
successivi tre anni che noi restammo quasi estranei l’uno all’altra, fino all’allontanarsi di Demetrio.
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Non fu mai immorale, nonostante molte fossero le insinuazioni che si erano generate sul suo conto, e
quando si innamorò, restò fedele all’uomo che poi avrebbe sposato.
Ad ogni modo, preciso, ciò avvenne solo dopo che Demetrio se ne fu andato, come se per lei averlo
allontanato con l’umiliazione non fosse stato sufficiente. In quel breve periodo che lui era rimasto,
infatti, lei aveva sedotto e lusingato, seppure platonicamente, quasi tutti i coetanei.
Il suo sembrava un assurdo gioco in cui pareva lanciare un chiaro messaggio che indicava che poteva
avere chiunque avesse voluto solo per far capire a Demetrio che lui non aveva speranze.
Così, a 22 anni aveva conosciuto Massimo Briglia, figlio di un impiegato di banca con un futuro da
contabile, non eccessivamente ricco ma abbastanza facoltoso da potersi permettere un’immagine
celebre. Era indubbio che facessero una bella coppia, almeno dal punto di vista estetico, ma un
rapporto basato sull’apparenza, celava troppe insidie dietro l’aspetto ingannevole della perfezione.
Io avevo da poco conosciuto Anna, la ragazza che sarebbe poi divenuta mia moglie. A dire il vero con
lei non avevo molto in comune, ma è stato solo a distanza di anni che ho cominciato a pensare che
forse in lei vedevo solo la possibilità di sganciarmi da tutto ciò che mi legava al passato, e a ciò che
del passato avrei voluto mantenere. Lei era molto professionale e difficilmente le nostre discussioni
toccavano argomenti trascendentali, l’esatta condizione necessaria per allontanare il pensiero da
Demetrio, ed era l’esatto opposto di Virginia, con la quale avevo instaurato un legame che avrebbe
potuto avere delle conseguenze più impegnative e che inevitabilmente mi avrebbero tenuto legato a
quel passato da cui volevo fuggire. Ma nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii a liberarmi di nessuno
dei due.
Dopo che il nostro impegno di volontariato catechistico era cessato e dopo che Demetrio aveva
subito la sua umiliazione, io e lei ci eravamo allontanati, ma senza una precisa motivazione e senza
che vi fosse rancore o forse, perché entrambi cercavamo di convincerci che le cose andavano come
dovevano andare. Io più di lei poi, pensavo che il fato doveva essere manovrato da un volere oscuro e
maligno, per cui attraverso di lui avevamo scoperto proprio quel nostro lato oscuro che l’entità
maligna voleva far emergere. E le cose poi, erano andate nel modo per cui entrambi sapevamo di non
poter condividere una storia sentimentale perchè tra noi si era creata una barriera invalicabile eretta
dal nostro personale rapporto col maligno emissario di quel lato oscuro: Demetrio.
Lei sapeva che a trattenermi era la lealtà verso di lui, e io sapevo che a fermare lei era la
consapevolezza che questa mia lealtà avrebbe compromesso un rapporto che avrebbe finito per
divenire quasi un rapporto a tre. Per questo, probabilmente, le nostre scelte furono rivolte verso
direzioni opposte e, inevitabilmente, sbagliate.
Il dialogo tra noi riprese in quel periodo. Demetrio era via da un anno, entrambi avevamo iniziato
una relazione da poco e Casterba era tornato nella sua anonima quotidianità che stranamente,
generava in me una certa irritabilità. Fu con questa irritabilità, con la quale cominciavo a perdere
gran parte della stima che avevo nei confronti dei compaesani che, in una consueta serata al bar,
mentre prendevo il classico caffé del dopo cena osservando il notiziario alla televisione, sentendo la
stessa ragazza che aveva contestato Demetrio, commentando ciò che accadeva in Africa usando
espressioni del tipo “in quelle zone”, dando l’impressione che l’Africa per lei non fosse null’altro che
una ammasso di terra maldestramente rovesciato da Dio per errore nel mezzo dell’Oceano e lasciata lì
solo per una sorta di negligenza, sarebbe stata necessaria una decisiva e dirompente azione
dell’esercito.
Guardandola con perfidia mi rivolsi a lei con un’ironica affermazione -forse sarebbe più adeguato
l’intervento degli obiettori di coscienza non credi?Lei mi aveva guardato con evidente ira, ma io non le avevo dato il tempo di rispondere ed ero uscito.
Non so perché lo fece, ma quando fui fuori tra la nebbia del freddo invernale, una voce mi apostrofò e
voltandomi avevo visto Virginia.
-Ti manca veramente Demetrio eh?- mi disse accendendosi una sigaretta. Ricordo che la guardai
confuso tra un contrasto di emozioni. Ero contento che lei fosse lì, ma allo stesso tempo triste di vedere
quel suo cambiamento. Lei stessa non sembrava a suo agio in quel ruolo. Sembrava quasi recitare e,
come quegli attori che dopo aver interpretato una parte restano legati al personaggio per il resto della
loro carriera, allo stesso modo lei sembrava vincolata dal dover essere così come era divenuta,
trasformata dalle esigenze di un pubblico che la voleva solo in quel modo. In definitiva, era divenuta
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una di noi, così come avevano cantato i Pink Floyd molti anni prima, anche lei era divenuta un altro
mattone nel muro e aveva finito per prendere il posto che le era stato assegnato nel quotidiano
scorrere del tempo, e il suo viso, dietro quel fascino provocante, mascherava una nascente infelicità
che presto si sarebbe tradotta in una reale desolazione.
Era stato in quel tempo che i nostri dialoghi erano ripresi, entrambi consapevoli che non potevamo e
non volevamo andare oltre, ma coscienti pure che non potevamo negarci quello spazio che appariva,
seppure a livello inconscio, come la nostra ancora di salvezza, anche se a generarlo fosse quell’unico
punto di congiungimento che era anche l’unico argomento di cui cercavamo d’evitare di parlare.
Trovai quindi strano che fosse proprio il suo fantasma, tornato in quella fredda serata di nebbia che
non invitava a viaggi fuori paese, a restaurare il nostro dialogo, ma probabilmente non poteva che
essere diversamente.
Le sorrisi amaramente -mi manca la possibilità di evadere da una quotidianità stressante e ipocritale avevo risposto. Lei si avvicinò e, come se davanti a me ci fosse una persona diversa da quella che
avevo imparato a conoscere nei giorni di volontariato catechistico, percepii in lei come una sorta di
provocazione.
-Era questo che ti dava? Evasione?La sua espressione seducente quasi mi spaventò e mi ritrassi -ti capita mai di aver voglia di qualcosa
di nuovo? Di diverso?- dissi con imbarazzo, e lei si avvicinò di più.
Penso, adesso, che quello fu l’ultimo disperato tentativo di opporsi all’assurdo vincolo che entrambi
ci eravamo imposti. L’ultimo assurdo tentativo di capire che stavamo commettendo un errore. L’ultimo
disperato tentativo di abbattere i timori che sembravano renderci consapevoli di un destino che ci
spaventava. L’ultimo disperato tentativo di distruggere ciò che Demetrio rappresentava per l’una e per
l’altro. L’ultima possibilità che avremmo avuto. Se avessi saputo ragionare come Demetrio, forse lo
avrei capito e avrei dedotto che il destino aveva usato un sistema subdolo per farci incontrare ma che,
tuttavia, era ciò che avrebbe dovuto essere. Ma io non ero Demetrio e lei ancora non era in grado di
comprendere.
Mi guardò e questa volta la sua provocazione si fece esplicita -sì certo, mi capita spesso, ma tu ti
riferisci a parole, io invece…- lasciò la frase in sospeso ed io ebbi la certezza che, se avessi osato in
quel momento, le nostre vite avrebbero preso un’altra direzione. Ma ero ingenuo e altrettanto
ingenuamente corretto. Lei aveva un fidanzato e io un onore. Poco contava se quel fidanzato appariva
solo un’alternativa a qualcosa che non era esattamente ciò che desiderava.
-Sei cambiata Virginia- le dissi allora illudendo le sue aspettative -quasi non ti riconosco più- e in
questa affermazione rinnegai la mia anima. Le vidi abbassare gli occhi delusa e nel gesto di gettare
via la sigaretta l’espressione della sua rinuncia, come se gettasse via quell’ultima opportunità
accettando in quella mia ammissione la comprensione che nulla sarebbe stato diverso.
-Sono una donna Tom- rispose -che cosa dovrei fare? Tu parli di sogni astratti, cerchi distrazioni
illusorie e non ti rendi conto che il tempo scorre-.
La guardai confuso -hai solo ventidue anni- dissi come se non comprendessi perché parlasse come
una vecchia.
-Sì lo so. Ma se mi guardo indietro un istante fa mi appare lontano secoli e i giorni dell’infanzia
invece mi sembrano trascorsi solo da pochi secondi. È questo che cerchi no? Le paure della gente, i
loro pensieri… Ebbene questi sono i miei pensieri, queste le mie paure, e sai come emergono? Per
caso. Il tempo scorre via ma noi non ce ne accorgiamo, sai come lo ho capito?… la settimana scorsa,
scherzando con uno studente fuori corso quando mi ha detto la sua età, istintivamente gli ho detto che
era vecchio e lui mi ha risposto: ricordati che oggi tu sei giovane e carina, ma un domani non molto
lontano ti sveglierai e senza essertene accorta ti ritroverai quarantenne… ho provato un brivido Tomdisse, e io la vidi la sua paura, e per un momento mi parve di sentire parlare Demetrio. Avrei dovuto
comprenderlo che non era un caso e che in quel momento mi si stava rivelando un collegamento che
non era solo tra lei e lui, ma tra noi tutti, invece provai solo una disarmante tristezza perché in quel
momento l’unica cosa che riuscivo a comprendere era quanto fosse traumatico per una mente abituata
alla consuetudine, scontrarsi con delle realtà mai considerate.
Mi guardò tristemente, delusa forse dal fatto di non sentire nessuna parola di conforto -che cosa
dovrei fare Tom? Aspettare qualcuno che non riesce a divincolarsi da un passato troppo opprimente?
89
Non posso rischiare di lasciar scorrere il tempo restando a guardare. Voglio vivere la mia vita e credo
di essere libera di decidere con chi condividerla. Tu mi consideri responsabile della partenza del tuo
amico e non riesci a liberarti della sua ombra, ma non puoi chiedere a me di attendere un tempo che
forse non ci sarà mai. Io sono quel che sono così come tu sei quel che sei, e lui era quel che era… non
è il mondo a volerci così, siamo noi a decidere come essere. Per qualcuno è giusto, per altri è
sbagliato. Comunque sia, non faremo mai la cosa giusta per come la vedono gli altri, e in mezzo a tutto
questo, il fiume del tempo scorre, e io non voglio rischiare di risvegliarmi in un giorno giunto senza
che me ne sia accorta e scoprire di aver sprecato il mio tempo-.
Mi lasciò senza parole. Avrei voluto dirle che lei a Demetrio non aveva dato alcuna opportunità, non
lo aveva nemmeno voluto conoscere un po’ meglio. In un certo senso stava facendo ipocrisia sulle sue
stesse parole: aveva giudicato e condannato senza dare alla controparte nessuna occasione. Ma era
giovane, e aveva commesso uno di quei tanti errori di gioventù: l’integrità morale aveva preso il
sopravvento e con essa aveva condotto la vanità. Ma nello stesso modo io stavo commettendo un altro
di quegli errori che avrei intuito solo col tempo. In realtà lei mi aveva spaventato. Le sue erano state
parole dure ma esplicite. Aveva cercato di farmi fare quella scelta che io non potevo fare e
giustificarla con la paura di tradire un amico era solo una difesa meschina: la verità era che io avevo
paura di quel legame, e dentro me un allarme di cui ignoravo l’origine mi esortava a fuggire e ancora
mi nascosi dietro la convinzione di sapere che cosa fosse giusto, non per me, ma per gli altri. Rifiutai
di credere al suo corteggiamento e tornando a pensare ai tormenti delle rivelazioni del destino, non
osai replicare.
-Vieni, ti accompagno a casa- le dissi allora semplicemente.
Ci avviammo e davanti alla porta di casa mi domandò perché mi ero irritato così tanto con la sua
amica. Risposi che detestavo l’ipocrisia e quando lei disse di non capire, le riportai alla memoria le
parole dall’amica sulla contrarietà alle armi non molti anni prima. La vidi farsi seria e compresi che
in lei vi era una sensazione di disagio, come se sentisse dentro di sé un tormento del quale si sentiva
responsabile o del quale, io la facevo sentire responsabile.
Due anni dopo si sarebbe sposata, e otto anni più tardi, mentre tutto il mondo osservava inorridito il
crollo delle torri che ci avrebbero condotto nuovamente a ricordare quella sera e quelle parole,
l’amore fatto di idealismi fiabeschi aveva ceduto il passo ad una quotidiana noia, e tutto ciò che ci
eravamo aspettati dall’illusoria visione di una vita fatta di sogni, desideri e progetti dai risvolti
incantevoli, non era rimasto che un rituale dagli effetti opprimenti, fastidiosi e ordinari.
Quando finimmo la lettura era ora di pranzo e fu seduti al tavolo che discutemmo del capitolo.
-Che cosa ne pensi?- le domandai.
Superficialmente, con una vaga estraneità, spostò il tutto verso la mia vocazione -un apparente intrigo
sentimentale, ma sei tu l’esperto in questo, quindi tu che ne pensi?Era evidente che ancora non aveva smaltito l’irritazione per il dialogo precedente e, conscio di
dovervi porre rimedio, descrissi ciò che pensavo, solo per poter avere poi, attraverso la sua opinione,
l’opportunità di comprendere che mi sbagliavo.
-Sembra che l’autore ipotizzi che Demetrio sia l’elemento usato dal destino per far incontrare loro
due. È ovvio che prova un sentimento più profondo dell’amicizia per Virginia, ma non ha il coraggio di
ammetterlo, come se ne avesse paura. Forse considera Demetrio una sorta di servo del destino e questo
lo conduce ai suoi timori. La mia supposizione è che l’autore ci stia svelando la sua futura infedeltà
coniugale e il suo tradimento che avverrà proprio con Virginia e tutto questo discorso altro non è che il
tentativo di giustificare le sue azioni- esposi.
Lei gustò un altro boccone -è una giusta e buona analisi, ma quale sarebbe allora il suo scopo? Perché
coinvolgerti in questo modo?-Per quella che è la mia esperienza in materia, forse vuole cercare di farsi perdonare e sta allestendo
un teatrino attraverso il quale io dovrei cercare di trovare un modo per farlo comprendere alla moglie
tradita, o forse, un sistema per evitare di dover pagare ciò che la legge potrebbe condannarlo a pagare.
Del resto, sappiamo che si tratta di una persona molto ricca e in questi casi i soldi sono sempre la causa
maggiore di interessi-.
-Quindi il tutto si concluderebbe ad una semplice infedeltà?90
-Beh, se dovessi partire dal presupposto che il caso è stato affidato a me, dovrei concludere che sia
così-.
-Tuttavia qualcosa non ti convince giusto?- disse.
-Vorrei solo conoscere la tua opinione- cercai di farla sentire più coinvolta.
-Concordo con te- disse però con semplicità allora, allora, una certa irritabilità in me si fece poco
controllabile.
-Ma insomma si può sapere cosa vuoi?- trattenni a stento la mia ira.
-Devo conoscere i tuoi dubbi- reagì allora lei con altrettanto impeto -devo sapere che cosa vuoi tu
perché le mie valutazioni vanno oltre il semplice coinvolgimento del vincolo matrimoniale e legale. Ma
devo capire se sei disposto a valutare questo oltre perché, se è come dici tu, il mio ruolo qui non ha
alcuna rilevanza. Probabilmente hai ragione, tutto si risolve in una questione di percentuali e quindi la
faccenda è puramente di tua gestione, questo consiglia che io non ho alcuna autorizzazione a essere qui
e nessuna facoltà perché questo non è il mio campo, il che conduce tutto a un'unica condizione: tu che
cosa vuoi da me?In quella che per uno come me poteva sembrare un’analisi complessa percepii una verità ineluttabile:
il caso era mio e lei era solo un’intrusa, non c’entrava niente con quel folle che aveva scritto l’assurdo
documento, quindi l’unico motivo per cui potevo continuare a coinvolgerla, e per il quale lei si sarebbe
lasciata coinvolgere, per quanto difficile da ammettere, ero solo io.
-Va bene, d’accordo. Ammetto che sono molto perplesso e che non sono convinto delle mie
deduzioni, o forse che cerco solo di comprenderle meglio… e tu hai ragione, qualcosa non mi
convince- feci un’ammissione piuttosto generica sperando che fosse sufficiente per lei. La vidi
rilassarsi e per un momento sperai di aver ragione.
-Quali sono i tuoi dubbi?- mi domandò allora apparentemente senza nessun altro intento, ma io esitai
e lei si innervosì di nuovo.
-Non sto cercando di psicanalizzarti, non sei più un mio paziente. Voglio solo sapere perché dovrei
continuare a darti le mie opinioni visto che la mia presenza non appare indispensabile- ripeté, ed io,
forse come aveva fatto Tommaso in quell’ultimo capitolo, ebbi come la percezione che mi stesse dando
un ultimatum, l’ultima occasione per poter continuare a beneficiare dei suoi pareri professionali.
-Perché inscenare una così complessa storia?- cominciai allora a liberarmi delle mie domande -che
senso ha tirare in ballo miti, sogni, allucinazioni? Non sarebbe più semplice dire è successo per questo
e per quello e ora devo trovare una scappatoia per salvare il mio patrimonio? E poi, perché mai un
Demetrio che crede di aver incontrato l’anima cui è legato per l’eternità, dovrebbe fare in modo che
questa si leghi a qualcun altro? Questo è assurdo. Questo… fotografo, filosofo, profeta o mago da
strapazzo non può desiderare che sia così…-Quindi ora valuti la possibilità di un qualcosa che va oltre il tangibile?Percepii l’insidia di un tranello.
-Non sono ancora pronto a questo, ma devo ammettere che qualcosa mi ha scosso. Forse ho intuito
quello che cerca lo scrittore, ma quello che non riesco a comprendere adesso è: cosa sto cercando io?Lei annuì in senso d’approvazione -ecco, è questo che volevo sapere. I tuoi dubbi sono più sensati di
quanto non credi. Non esistono verità che noi possiamo dare per certe, ma a volte osare andare oltre i
limiti può essere utile a migliorare noi stessi, e in questo modo anche il nostro lavoro. Forse ciò che lo
scrittore vuole è che tu cominci a valutare proprio queste condizioni perché francamente, se ciò che lui
vuole è una giustificazione per il suo comportamento, non so in che modo potrai farla comprendere a
colei che ha tradito, a meno che tu non riesca a provare le sue stesse sensazioni. Questo potrebbe essere
il motivo per cui ha scritto un documento così corposo e per il quale è disposto a pagare così tanto
perché qualcuno lo legga, ma non un qualcuno qualunque, ma un qualcuno che lo possa aiutare a
risolvere le sue questioni. Osservandolo da un punto di vista professionale, un punto di vista che
riguarda la tua professione, sta cercando di convincerti per trovare un alleato affidabile, un
professionista-.
-E vuole plagiarmi?-No, non credo. Vuole solo farsi comprendere. Tuttavia in principio egli ti avverte, quindi non vuole
la tua follia, ma solo la tua sincerità. È ovvio che comprende la difficoltà del dover ammettere realtà
mai considerate. Vuole solo che tu ne tenga conto per poi poter svolgere al meglio il tuo ruolo-.
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-È questo ciò che credi?-La verità?La guardai con delusa e sconvolgente mestizia, non certo di voler sentire ciò che lei intendeva per
verità. Sospirai nel cercare un rilassamento che non arrivò, infine sconsolato annuii -sì-.
-Se dovessi considerare la condizione da un aspetto puramente sociale, direi che, sì, potrebbe essere
una buona diagnosi. Ma la teoria del semplice imbroglio coniugale non mi convince. Se questo scrittore
fosse un mio paziente e dovessi valutarlo sotto l’aspetto relativo alla mia professione, direi che non sto
seguendo la pista giusta. Ma, detto questo, io non sono qui per lo scrittore, sono qui per te, sei tu che mi
hai voluta coinvolgere e ora ne devi accettare le conseguenze. Ora so che cominci a dubitare e questo ti
conduce a considerare nuovi orizzonti. Devi concedere a questo scrittore una grande capacità
persuasiva. In questo capitolo introduce solo il suo coinvolgimento emotivo e comincia a rivelare la sua
comprensione di commettere errori, ma ancora non accetta di essere lui responsabile delle sue scelte.
Ha continuamente bisogno di una giustificazione, il che è tipico del genere umano: ogni conseguenza
viene giudicata esternamente, come se i responsabili fossero coloro che stanno al di fuori, colpevoli di
farci agire nel modo scorretto- finì il dolce che nel frattempo ci era stato servito, poi mi guardò.
-Andiamo, vediamo che cosa c’è nell’altro capitolo-.
Pensavo che saremmo andati a visitare Valbordi, ma poi dedussi che quella visita poteva attendere.
Qualcosa mi metteva in ansia e ora desideravo scoprire sempre più di quello sconosciuto balordo, così
la seguii nella saletta e sedendomi di fronte a lei l’ascoltai leggere:
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Le grida degli spiriti…
…Erano stati anni che non saprei ben definire se fantastici o nostalgici. So solo che prima e durante i
nostri rispettivi matrimoni, tra lei e me ci furono molte occasioni di conversazioni. Allora consideravo
che avevamo fatto la cosa giusta perché ritenevo che certe confidenze si potevano fare solo da amici e
non da coniugi, così ero giunto a considerare che con Virginia avevo fatto la mia scelta migliore. Se
avessi ricordato le sue parole però, avrei potuto comprendere cosa intendeva quando parlava dello
scorrere del tempo e della nostra incapacità di controllarlo. Ma l’animo umano è fatto di arroganza e
le certezze di riuscire a dominare ogni cosa ci impediscono di concepire determinate conoscenze. Otto
anni non erano poi così tanti, eppure in un periodo apparentemente breve, per quella che era la mia
concezione, non avevo compreso quanto le cose fossero cambiate. Se lo avessi fatto, avrei potuto
riconoscere come la realtà di svegliarsi un giorno e accorgersi che intorno a noi tutto era cambiato
senza avere avuto il tempo di rendercene conto, era concreta e tangibile. Otto anni prima ero
spaventato dall’idea di una relazione mentre ora mi ritrovavo sposato e insensatamente convinto di
essere felice. Avevo ereditato l’azienda familiare, e nel calarmi nella parte a me assegnata da un
destino che credevo di dominare come tutto il resto, come lei, mi ero piegato alla consuetudine di una
vita ordinaria.
Molto spesso mi capitava di osservare la sua solitudine. Casterba era divenuto quasi un paese
fantasma. I giovani se ne andavano, solo chi non aveva alternative restava. Forse era stata la volontà
di volerlo tutelare, quel paese, o forse era stata l’incapacità di liberarmi di un passato fatto di ricordi
ai quali non potevo rinunciare, che mi aveva fatto donare una cospicua somma in denaro perché si
potesse costruire un parco dove le famiglie che ancora non abbandonavano le proprie radici potessero
portare i loro figli a giocare o forse, era stata semplicemente l’arroganza di sentirmi un benefattore.
Non so nemmeno io quale fosse stata la vera ragione, o magari, semplicemente, la volevo solo
ignorare. Sta di fatto che le domeniche trascorse a passeggiare tra gli alberi vicino alle rive del fiume,
con il laghetto artificiale che rendeva suggestivo l’ampio spazio naturale e i vari giochi attrezzati per i
bambini, spesso si tramutavano in angoscianti tormenti. Era stata usata la collina per recuperare lo
spazio da assegnare al parco, ma solo quando l’altura fu liberata dai rovi e dalle sterpaglie e spianata
in un modo tale da ridurne l’area ad un delicato rilievo, provai come la percezione di una
profanazione. Là dove il fiume ci aveva dato spazio per i nostri tuffi eroici era stato costruito un ponte
che collegava al lato opposto, quello occupato dai pioppi che, per permettere l’estensione del parco
erano stati quasi tutti abbattuti. E nel silenzio provocato dai ricordi sepolti, l’allontanamento degli
spiriti dell’acqua dalla loro casa e la tristezza dei fantasmi degli alberi, si aggirava lei, triste e
solitaria nelle domeniche in cui da sola, mentre quel giovane romantico di un tempo divenuto marito
annoiato se ne andava allo stadio ad entusiasmarsi per una partita di calcio, passeggiava come uno
spettro tra i fantasmi.
Lei era diventata maestra di scuole elementari mentre lui si era realizzato come contabile e aveva un
ruolo rilevante in un’importante banca della città. Tuttavia, malgrado la sicurezza economica, la noia
non conosceva prezzo e il loro rapporto aveva inevitabilmente subito la classica alterazione che col
tempo finiva per allontanare piuttosto che avvicinare. Era avvenuto così che dopo otto anni i due
fossero quasi completamente estranei e che in quel famigerato 2001, la squadra di calcio con la quale
il contabile sembrava aver sostituito la propria moglie, disputasse un torneo internazionale giocandosi
le qualificazioni ad un turno successivo nella lontana Inghilterra. Per assistere all’evento l’uomo
sarebbe stato via tre giorni.
Io, come dirigente, ero spesso impegnato tra contratti e riunioni che mi portavano molte volte a
rincasare piuttosto tardi. Non era raro che tornassi a notte inoltrata trovando Anna già a dormire.
Inoltre lei, che lavorava nel centro epidemiologo di Verona era al contempo anche più impegnata di
me e non rare erano le notti che lei stessa passava in sede di lavoro. Le occasioni, se avessi voluto
tradirla, non mi sarebbero mancate, e neppure le giustificazioni. Tuttavia, mai avevo pensato ad una
simile evenienza né mai, credevo, lo avrei fatto.
Ma quella sera, quando la incontrai sola all’uscita del supermercato, subii uno strano impulso. Lei
era vistosamente logorata, fisicamente. Nonostante fosse ancora bella, il tempo, quello che scorre
senza dare tregua e che ti fa scoprire in un determinato giorno qualsiasi la sua severa crudeltà, aveva
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concretizzato i propri effetti e realizzato i suoi più grandi timori. Virginia, rassegnata e inerte, si era
lasciata annientare ed io l’avevo vista spegnersi lentamente. I nostri dialoghi erano passati
dall’abitudinario incontro settimanale a incontri sempre meno frequenti e nel tempo che scorreva
avevo potuto assistere al suo declino fisico e psicologico. Da tempo aveva abbandonato l’immagine di
donna fatale, tornando alla semplicità che le apparteneva per natura, ma quel ritorno era stato
accompagnato dalla tristezza e dalla quasi inevitabile conoscenza che il fiume del tempo scorreva
troppo rapido portando tutte le conferme che aveva cercato di evitare. Quel giorno riconobbi in lei la
definitiva tristezza debilitante e, come persuaso dalla necessità di portare quel classico conforto, dopo
averla aiutata con la spesa, la invitai a bere qualcosa assieme. Non credo di poter ricordare una
serata così intensa da quando mi ero sposato.
Qualche tempo dopo, quando nacque il mio primogenito, lei era già madre di una splendida bambina
da sei mesi, una figlia che avrebbe riportato un’apparente armonia nel suo matrimonio.
Potrebbe sembrare che certi eventi abbiano veramente il potere di cambiare le cose e le persone.
Massimo sembrava davvero essersi riavvicinato al ruolo che doveva avere, ma la sua era solo una
maschera di finto altruismo dietro la quale non negava, con vanto, di sostenere quel ruolo solo per
dovere verso la figlia. Io tuttavia cercavo ancora di negare a me stesso l’evidenza e, ormai consolidato
nella mia convinzione cha la famiglia fosse tutto, fingevo di vedere in lei una ritrovata e meritata
serenità. E fu forse per evitare di vedere un’evidenza errata che lentamente tornai a staccarmi da lei.
Così, quando i nostri figli avevano già sei anni, ebbi l’occasione di incontrarla in quel parco che io
avevo fatto costruire proprio per l’armonia delle famiglie. Non che in quei sei anni ci fossimo più
rivisti, era impossibile a Casterba, ma i nostri incontri erano tornati ad essere quasi anonimi, limitati
dai classici rapidi saluti di chi aveva troppe cose da fare per fermarsi e parlare con un vecchio o, in
questo caso, una vecchia amica. Quel giorno però, non potei più nascondere a me stesso che in lei non
c’era una ritrovata serenità, ma solo il fantasma di una finta armonia espressa per la serenità della
giovane figlia che tuttavia non era sufficiente a far risplendere il sorriso e il viso dei sedici anni.
Non potevo fingere di non vedere come gli anni che avevano preceduto la nascita di Nausica avessero
lasciato un segno indelebile nei suoi occhi spenti che lasciavano intravedere il pensiero dubbioso e
tormentoso del chiedersi come sarebbero andate le cose se le scelte fossero state diverse e assieme,
l’evidente angoscia che la rendevano consapevole che quel giorno in cui si sarebbe svegliata
accorgendosi all’improvviso che il tempo era fuggito via, era giunto. Osservandoci per un istante
potemmo percepire entrambi il richiamo di un passato del quale non riuscivamo a liberarci e il
tormento si risvegliò in lei, così come in me si erano risvegliate le grida degli spiriti, che Demetrio
stava riportando tra noi.
-Ci siamo- quasi esultai -ha rivelato il suo tradimento in fine-.
-Ne sei certo?-Sta scritto lì. Voglio dire, lo ha scritto lui. È evidente, seppure non esplicito, che la figlia di Virginia
non è figlia di suo padre-.
-Se qualcuno ti ascoltasse direbbe che stai delirando-.
-Ma è evidente, voglio dire che la persona che la figlia crede essere suo padre in realtà non lo è,
perché lei è figlia di Tommaso-.
-Pensi allora che quello che vuole chiederti sia di rivelare la verità alla figlia piuttosto che il
tradimento alla moglie?Restai in silenzioso imbarazzo per un po’ -non ci avevo pensato- ammisi -ma potrebbe essere una
possibilità, il che si farebbe molto complicato- ammisi.
-In che senso?- domandò lei.
-Io sono abituato a rivelare inganni e tradimenti, non che ne vada fiero, ma questo non mi ha mai
comportato rammarichi. Voglio dire, sono persone adulte che hanno fatto delle scelte, in un certo senso
hanno commesso dei crimini dei quali io non mi sento responsabile. Ma qui sarebbe diverso. Questa
fanciulla non è responsabile di una scelta sbagliata di cui lei è solo il frutto, e se fosse stata ingannata
per tutto questo tempo, io dovrei essere colui che potrebbe causarle un trauma da non sottovalutare-.
-Quindi temi le conseguenze, non solo per lei ma anche per te. Dovresti affrontare non solo le colpe
degli altri, ma, in un certo senso, anche la tua- espose con strana semplicità, e se in altre circostanze
probabilmente mi sarei adirato, questa volta ascoltai in reverenziale silenzio, privandomi dell’illusione
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che avrei potuto ignorare quella che invece si dimostrava come inevitabile approvazione. Non mi ero
mai ritenuto responsabile dei gesti altrui, fino a quel momento, ma ora dovevo ammettere a me stesso
che il mio non era un lavoro totalmente nobile. Ricavavo i miei profitti dalle avversità altrui e, sebbene
non ne fossi diretto responsabile, io ero l’emissario d’informazioni che in un modo o nell’altro
avrebbero comportato effetti sia sui mandatari che sui destinatari. Potevo essere la causa di
conseguenze che non avrebbero avuto degli esiti positivi, sia da un lato che dall’altro, sia nel fisico che
nella mente. Ero io stesso un ambasciatore del lato oscuro delle persone sulle quali, in fine, speculavo.
La mia espressione doveva rivelare tutti i timori che provavo in quel momento, giacché Felona
osservandomi notò il mio totale smarrimento.
-Stai provando emozioni nuove vero?- non me lo disse con arroganza e io, rassegnato e sconfitto,
annui -sto realizzando che il mio non è un lavoro nobile, e per realizzare questa comprensione ho
dovuto coinvolgere un’innocente. La cosa peggiore però, è che fino ad ora ho pensato solo a giudicare
il mio lavoro come qualcosa di superficiale, qualcosa che non comportava compromissioni e dal quale
non avrei avuto illazioni. Ora capisco però che è così solo perché pensavo a me stesso- mi sentii come
privato delle forze.
-E questo ti spaventa, giusto?- precisò allora lei.
So che avrei dovuto adirarmi perché mi sentivo esaminato, ma invece provai sconforto, probabilmente
perchè percepivo troppe verità.
-È assurdo, dovrei essere contento, insomma, se questo è l’obiettivo non rischio ripercussioni dovute
ad una vendetta, e invece adesso, preferirei quasi essere proprio la vittima di una rivendicazione, tutto
questo per te ha senso?-Ne ha eccome- rispose la psicologa con una calma disarmante, ma io ero talmente sconvolto che non
volli sapere le sue ragioni.
-In questa storia tutto è nuovo- ammisi.
-Sai, io considererei questa un’opportunità. Hai scoperto in definitiva che non sei un uomo di
cemento, stai scoprendo un lato di te che volevi ignorare. Questo però può diventare un punto di forza.
Più cose conosci di te e più facile può diventare il tuo compito. Comprendere che in definitiva in ogni
essere non vi è solo l’ombra ma anche la luce può solo aiutarti a considerare meglio il tuo successivo
comportamento…Le sue parole mi parvero apparentemente insignificanti, ma evidentemente dovettero avere invece la
forza di smuovere qualcosa che nel mio animo sembrava non essere esistito fino a quel momento, e tale
condizione si rivelò in modo disarmante.
-Sto valutando che forse, non tutti i casi che ho risolto sono stati dei successi. Tra loro vi erano
persone che forse avevano dei motivi per comportarsi in un modo apparentemente immorale, mentre
chi sembrava essere dalla parte della ragione, forse tutte le ragioni non le aveva…- sentii una rabbia
ingiustificata crescere in me mentre ponderavo su come avrei fatto meglio a seguire quell’avvertimento
iniziale e osservai Felona con occhi carichi di sgomento.
-Se non riesco più a mantenere questo distacco, non potrò più fare il mio lavoro- svelai più a me
stesso che a lei.
Il suo conforto divenne più materiale.
-Forse non dovresti vederla in questa condizione drammatica-.
-Stai scherzando? Non saprei cos’altro fare, diventerei una persona inutile-.
-Secondo te quindi, avere delle motivazioni nobili su cui riflettere ti renderebbe inutile?- mi riprese.
-No, hai ragione, ma in che modo comprendere quale sia la cosa giusta allora? Che cos’è giusto per
l’uno e sbagliato per l’altro? E in che modo posso tutelare me stesso da queste scelte?Lei sembrò più stupita dalla mia incapacità di imparare da queste condizioni avverse, piuttosto che
comprendere quanto fosse difficile per me incanalarle nel mio pensiero.
-Salvaguardi te stesso semplicemente facendo la scelta giusta, e la scelta giusta la percepisci tu, nel
tuo profondo, ma devi prima imparare a conoscere te stesso per valutare ciò che è giusto e ciò che è
sbagliato. Ora questo lavoro ti sta mettendo alla prova, ma c’è qualcosa che ancora non sei riuscito a
valutare però, qualcosa che potrebbe essere fondamentale per farti risolvere questi enigmi- disse, ed io
la guardai come se non fosse possibile che vi fosse qualcosa che poteva sconvolgermi ulteriormente.
-E che cosa potrei dover aggiungere a questo punto?95
-Osserva- mi disse -più ci addentriamo dentro questo lavoro e più cose cambiano. Nel capitolo
precedente pensavamo che fosse solo il tradimento che dovevi smascherare, ora si mostra una nuova
condizione, ma se non fosse nemmeno quella che questo fantomatico scrittore vuole risolvere?La guardai confuso, non essendo certo di voler sapere che cosa potesse ulteriormente confondermi saresti in grado di presupporre altre alternative?- le domandai, temendo che potessero esservene,
giacché queste da sole apparivano troppo onerose.
-E se il suo parlare di tradimenti fosse di natura diversa… se non fosse né verso la moglie né verso la
figlia che vuole indirizzare le sue attenzioni?-Alludi a Demetrio?- dissi con timore.
-Pensaci. Lui ha una relazione con la donna di cui l’amico è innamorato, e non solo una relazione ma
addirittura una figlia-.
-Sarebbe questo Demetrio allora che dovrei cercare, e dirgli tutto questo?- impallidii nel brivido che
provai.
-È certo un'altra opportunità. Ma facciamo un passo oltre- sapevo ormai che quando usava quel
termine “oltre”, intendeva qualcosa che io non ero in grado di valutare e che non ero certo di voler
calcolare.
-Lui considera Demetrio qualcosa di particolare, quasi trascendentale… e se tutti questi personaggi
fossero veramente fittizi e il loro riferimento volesse indicare qualcos’altro? Questo scrittore usa un
linguaggio simbolico, e tale linguaggio va decifrato per interpretare altre cose. Se Virginia
rappresentasse ciò che lui considera il tangibile, il materiale ed il fisico, e Demetrio invece fosse la
rappresentazione dell’irreale, dell’invisibile e dello spirituale?Provai un senso di vertigine -dovrei cercare dei fantasmi allora?Lei scosse il capo -no, quello che voglio farti comprendere è che non dobbiamo saltare a conclusioni
troppo azzardate. Tutte queste ipotesi ci conducono a distrazioni che portano solo confusione. È vero,
ora sei turbato, ma tutto è ancora confuso. Dobbiamo comporre l’intero puzzle se vogliamo capirne il
disegno. Che dici, leggiamo un’altro capitolo prima di far visita a Valbordi?Devo ammettere che se quel giorno ero attratto dall’idea di far visita al borgo, adesso la cosa mi
appariva molto secondaria e quasi con ansia annuii, nella speranza che il successivo capitolo potesse
condurci nel concreto di una vicenda in cui non esistevano fantasmi o persone fittizie perché ora, per
quanto assurdo potesse sembrare, desideravo che ognuna di quelle persone fosse semplicemente reale e
che ciò che avrei dovuto fare non fosse altro quanto per cui ero stato pagato: leggere. Lei allora posò di
nuovo gli occhi sul documento e cominciò:
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Solo ciò che possiamo sopportare…
Questo tempo, quello in cui la incontrai al parco, era già il presente e di lì a poco la notizia che
Demetrio stava tornando sarebbe giunta a risvegliare i fantasmi.
Ancora non potevo evitare di ripensare a come le si era avvicinata alla fine della serata, con uno
sguardo che esprimeva solo rimpianto.
C’è chi dice che vi è un equilibrio nel mondo, e forse nell’universo intero. Io non potevo, né volevo
discutere di tale equilibrio che nella mia ristretta concezione restava un argomento astratto. Io non
sapevo se esisteva veramente un equilibrio così vasto, ma di certo sapevo che esisteva a Casterba, e lì,
tale equilibrio non poteva essere minacciato. Io non potevo permetterlo. Gli eventi del passato avevano
contribuito a crearlo, e ognuno aveva avuto il proprio ruolo e la sua opportunità per renderlo tale. Ciò
che era stato doveva essere accettato per come era avvenuto e per ciò che aveva realizzato.
Sconvolgere tale armonia rivangando eventi di un passato lontano equivaleva a frastornare una
serenità che forse non esisteva in nessun altra parte di questo mondo caotico e conflittuale. Demetrio
aveva sbagliato ad andarsene, era stato lui a rinunciare ed ora non aveva alcun diritto di tornare con
l’arma del suo acquisito prestigio a disseminare discordia, e questo, era quello che ero deciso a dirgli.
Così la mattina seguente mi alzai presto per recarmi a Forlìa dove si trovava l’hotel in cui
alloggiava.
Sapevo che c’era qualcosa in tutto questo che non era regolare, ma allora non avevo modo di
comprenderlo.
Quando giunsi all’hotel lui stava facendo colazione. Per la verità, era seduto ad un tavolo con l’aria
di chi stava nell’attesa e per un momento ebbi la sensazione che stesse aspettando proprio me. Quando
lo raggiunsi, infatti, non finse nemmeno sorpresa.
-Tommaso- esclamò -quale piacevole sorpresa- disse, ma la sua espressione non tradiva tale
emozione, al punto che la mia risposta sovvenne istintiva e incontrollabile.
-Mi stavi aspettando?- gli domandai. Osservai la valigetta posta sulla panca vicina a sé e
successivamente il suo accigliarsi.
-Avevamo appuntamento?- mi domandò.
Sorrisi. -No, ma sembravi quasi in attesa di qualcuno-.
Rise a sua volta -sto aspettando il caffé, mi fai compagnia?-Sono qui per questo- dissi allora.
Si rivolse al cameriere e chiese di aggiungere un caffé all’ordinazione, poi mi fissò.
-Allora Tommaso, qual è il motivo della tua visita?-Ti devo parlare-.
-Sì certo, questo lo intuisco. Ma sei certo di fare la cosa giusta?Mi spiazzò perché quel suo commento lasciò in me la tormentosa sensazione che sapesse di cosa
volevo discutere ma, rinunciando a cercare di capire come fosse possibile lo assecondai: -E tu sei
certo di fare la cosa giusta?Arrivò il caffé.
-Io non sono mai certo di niente Tommaso, ma seguo l’istinto-.
-E il tuo istinto ti dice di sconvolgere la vita degli altri?- lo provocai. Sorrise senza imbarazzo e in un
modo che non gli era consueto scherzò, nel tentativo di distogliere l’attenzione dall’argomento
introdotto.
-No, il mio istinto mi dice che oggi è un’ottima giornata per iniziare il servizio fotografico, sai, devo
fare in fretta perché la settimana prossima devo concludere per il contratto con la casa editriceguardò la valigetta e diede un colpetto con la mano -sai, le foto per il libro ambientalistico del
comune…Lo bloccai irritato.
-Non fare finta di niente, sai bene cosa intendo- lo aggredii facendogli intuire che non accettavo di
essere trattato come uno sciocco. Ma ingenuamente non capivo quanto invece lo ero. Demetrio mi
stava solo dando una delle tante opportunità per divincolarmi da qualcosa che avrebbe potuto essere
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di difficile sopportazione per quelle solite menti che menzionavo spesso, ma tra le quali reputavo di
non potermi identificare, non ancora pronte a certe rivelazioni.
Sorseggiò il caffé fumante.
-Il mio istinto Tommaso, mi fa comprendere che il destino mi guida lungo una strada che io devo
seguire. Se questo cammino prevede che debba essere così, allora io non mi posso opporre-.
-Che ne sai tu del destino?- ribadii con rabbia sottolineando con una mimica facciale che reputavo
arrogante la sua certezza di conoscere le leggi di qualcosa in cui io non credevo.
-Purtroppo non ne so nulla, altrimenti lo avrei già risolto. Ma dimmi Tommaso, quante opportunità ci
sono che un bambino si innamori a sei anni di una fanciulla mai vista prima? Potremmo dire le stesse
che un fratello si innamori della sorella?Lo guardai con sospetto, non intuendo, in parole che già gli avevo sentito pronunciare in un tempo
quasi dimenticato, quale nesso potesse avere un simile paragone, ma comprendendo come invece certe
cose apparentemente inspiegabili, possano indurre a credere in quel qualcosa che io potevo invece
definire inesistente. Ma come a quel tempo la reazione che avrebbe dovuto condurmi ad una diversa
valutazione fu sopraffatta dall’istinto e da questo mi lasciai condurre ancora alla concezione che, se
non potevo intuire le allusioni alla sua affermazione, potevo invece ben intendere la conferma alla sua
decisa intenzione a voler ancora provare a instaurare un rapporto con Virginia.
-Che cosa vi siete detti ieri sera?- gli domandai a tradimento. Non finse nemmeno di non sapere a che
cosa alludevo e rispose senza ipocrisia.
-Abbiamo parlato Tommaso, solo parlato. Per non più di dieci minuti- mi rassicurò, e per un
momento, percependo la sua sincerità, mi sentii sollevato. Poi finì il caffé e aggiunse: -Quindi l’ho
invitata a passare una giornata con me-. Se una meteora in quel momento avesse sfondato il tetto non
avrei potuto restare più sconvolto.
-Una giornata? Un’intera giornata intendi?- alzai la voce senza accorgermene.
-Sì, domenica per l’esattezza. Suo marito sarà fuori per due giorni. Sai, una trasferta sportiva, così…Con un certo ribrezzo provai una strana sensazione di già vissuto e nel sentirmi aggredire da
coscienze che non volevo accogliere lo interruppi con irruenza concentrando l’attenzione sul suo gesto
attuale piuttosto che sui miei passati.
-Hai intenzione di corteggiarla ancora?- lo aggredii cercando di controllare il tono della voce in
modo che non sembrasse minaccioso, ma il risultato non fu quello desiderato.
-Non ho mai smesso di farlo Tommaso. In ogni mio pensiero lei è presente e in ogni mia immagine c’è
qualcosa che la ricorda. Forse perfino tu sei troppo superficiale da non essertene accorto, ma se le mie
fotografie sono state tanto apprezzate, è perché in ogni angolo del mondo che ho fotografato, in ogni
luogo della natura che ho ammirato, io vedevo il suo volto…-Ma lei ormai è sposata, ha una famiglia e il suo matrimonio ha finalmente trovato un equilibriomentii sapendo che quell’equilibrio non c’era. Ma non era una menzogna compiuta, era solo una
rivelazione dei fatti così come era nella regolare realtà di una famiglia media -saresti disposto a
sconvolgere tutto ciò? Saresti disposto a distruggere la sua vita e quella della sua famiglia? Saresti
pronto ad affermare che è questo ciò che vuoi? Che è questo il vero senso dell’amore?Mi guardò e la sua apparente calma si tramutò nel consueto aspetto malinconico, quello in cui io
riuscivo a riconoscerlo, e per un momento ebbi l’illusione di essere riuscito a farlo ragionare nel modo
in cui io consideravo fosse lecito ragionare. Ma dimenticavo che avevo a che fare con qualcuno che
non considerava vi fosse un modo lecito di ragionare. Il suo volto si rattristò ancor di più, seppure io
credessi che non fosse possibile, e con un sussurro, quasi non volesse pronunciare quelle parole,
concluse -vi è molto di più della vita a rischio, Tommaso, anche se so che tu non lo puoi comprendere,
non ancora almeno-.
Non sapevo se la sua fosse arroganza o saggezza, ma in quel momento la mia preoccupazione e la
controllata ira, mi impedivano sia di volerlo capire sia di valutarlo. C’era qualcosa in me che si voleva
opporre alla sua insistente bramosia, ma nello stesso tempo vigeva un conflitto che mi impediva di
capire per quale motivo continuavo a volermi intromettere nella vita degli altri e in particolare, nella
sua.
-Tu non puoi scomparire per vent’anni e poi pretendere di ritornare nella vita delle persone per
sconvolgerle. Il passato non può essere ricostruito. Ciò che è stato è stato e di questo devi fartene una
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ragione. Se la ami veramente, devi lasciarla stare. Lei non è pronta a sopportare un’altra esperienza
traumatica come quella cui la stai sottoponendo- predicai con tutta la retorica possibile, ma lui mi
guardò con aria soddisfatta.
-Hai detto cose giuste Tommaso- mi apostrofò, e per un momento mi sentii orgoglioso, ma poi
proseguì -e hai ragione su una cosa in particolare: il passato non può essere ricostruito, ma proprio
perché è stato eretto come una base, un fondamento sul quale va amplificato un edificio sempre più
imponente e robusto, o come una strada che può essere solo prolungata, ed è su ciò che è già stato
costruito che si deve continuare a erigere, in particolar modo se quanto è stato costruito ha seguito
regole e leggi corrette-.
Lo guardai con arroganza -e tu che ne sai di quanto siano corrette le leggi che hanno costruito il tuo
edificio? Molto spesso gli edifici si devono abbattere perché non sono idonei- gli feci notare.
-Solo quelli costruiti dall’uomo Tommaso- disse però lui -su quelli edificati dal destino, l’uomo non
può metter mani, solo assecondarli-.
-Ma tu non puoi sapere che cosa vuole il destino da te- lo aggredii mentre lui prendeva la valigia con
l’attrezzatura fotografica. Mi guardò senza severità, ma con un’intensa serietà nella quale mi parve di
percepire un’accusa che voleva forse indicarmi quanto presuntuoso fosse il mio voler osare dire agli
altri ciò che non potevano fare come se invece io, sapessi tutto ciò che era possibile fare o non fare.
-Tu parli di incapacità di sopportare e io mi chiedo quanto ne possa sapere. Non hai mai dovuto farti
carico di responsabilità che ti possano dare una simile esperienza Tommaso, e quando ne hai avuto
l’occasione, le hai sempre scansate. Posso dirti una cosa però al riguardo: io ho sopportato un
tormento e un’angoscia per la quasi totalità della mia vita. Ho amato un illusione per trentasei anni e
ho vissuto la solitudine per quaranta. A nessuno viene dato di sopportare più di quanto non possa, e
presto te ne potrai rendere conto. La questione però è questa: tu che giudichi tanto le capacità di
sopportazione degli altri, sei pronto a scoprire quanto siano consistenti le tue?Con un brivido raggelante sentii l’angoscia assalirmi. Chiunque altro avrebbe risolto la questione
pensando ad un ridicolo dialogo senza nessuna concretezza, ma io non potevo permettermi questo
lusso. Demetrio mi stava dimostrando la verità dei suoi fatti, il passato era costruito su basi non
progettate dagli uomini e non poteva essere abbattuto come un edificio costruito di mattoni e cemento,
ma solo assecondato, e nelle sue parole io sentivo emergere sempre più la realtà di qualcosa che mi si
stava svelando come un segreto che io non volevo apprendere e tremai al pensiero di che cosa
significava ‘scoprire quanto era consistente la mia capacità di sopportazione’. Era il mio illusorio
altruismo a permettermi di divincolarmi da ogni responsabilità che mi si avvicinava, e ancora fuorviai
l’argomento insistendo sul desiderio di volerlo fare desistere dall’incontrare Virginia.
-Vorrei parlare con te ancora di Virginia- gli dissi e lui sorrise.
-Come vuoi- rispose -possiamo farlo mentre mi accompagni a fare fotografie- mi invitò. Lo guardai
incerto mentre si avviava, consapevole che da quello che avrei scelto in quel momento, sarebbe dipesa
la costruzione di un futuro che proseguiva sulle strade del passato. Per un momento pensai che
abbandonare tutto sarebbe stata la cosa migliore, ma quel presagio che mi spingeva ad insistere stava
scavando nel profondo di un qualcosa che, sebbene ancora non lo comprendessi, mi riguardava. Il suo
sorriso ironico avrebbe dovuto farmi capire molte cose, una delle quali era che se lui era tornato, non
era solo per Virginia, ma anche per me.
Non so quanto la mia espressione potesse apparire sconvolta, ma capii che non potevo nasconderlo dal
modo in cui Felona mi osservava, così come potevo intuire ciò che pensava.
-Mi pare di riconoscermi sempre più in questo Tommaso- dissi senza attendere che lei lo chiedesse.
Scosse il capo -lo fai solo adesso, dopo aver intuito certe condizione del tuo essere- cercò di farmi
notare, ma credo che per una volta, fui io a stupirla.
-Sì me ne rendo conto. Ma ciò non fa altro che avvalorare le mie intuizioni: anche lui ha dovuto
scontrarsi con se stesso prima di capire-.
-Ma noi non sappiamo ancora con chi o che cosa si sia dovuto scontrare-.
Sentii crescere in me una sorta d’irritabilità. Sembrava che lei avesse pronta ogni opzione per le mie
fragili convinzioni.
-Sta raccontando di quanto ha vissuto e fa chiaramente comprendere che di tutto ciò che rivela ora, al
momento dei fatti non era consapevole- le feci notare senza orgoglio ma piuttosto con una certa
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irritazione, di come cominciavo ad analizzare le circostanze. Lei annuì compiaciuta, ma non lasciò
scampo al mio trionfo.
-C’è un piccolo dettaglio che non consideri-.
-E sarebbe?-Lui sta compiendo il percorso a ritroso. Prima di essere distaccato e superficiale, era coinvolto e
riflessivo. Tu quando sei diventato così?Ragionai senza vanto -credo di essere sempre stato così- ammisi deluso non ricordando un qualche
periodo della mia vita in cui l’orgoglio e la presunzione avessero lasciato spazio a riflessioni e
modestia.
-Quindi, se tu fossi come Tommaso, dovresti fare un ulteriore passo-.
-Dovrei tornare ad essere come sono sempre stato quindi?- la cosa quasi mi entusiasmò.
Scosse il capo come rassegnata -devi intuire di che tipo di evoluzione si parla in questo contesto. Le
allusioni di Demetrio qui sono piuttosto esplicite-.
-A che cosa ti riferisci precisamente?- cercai di comprendere.
-Innanzitutto osserva questa- indicò il foglio con un dito e lesse: -Quante opportunità ci sono che un
bambino si innamori a sei anni di una fanciulla mai vista prima? Potremmo dire le stesse che un fratello
si innamori della sorella? inserisce il contesto dell’incesto- mi fece notare. La osservai decisamente
contrariato con un certo ribrezzo al pensiero di un simile obbrobrio, ma cercai di assecondare quello
che invece in lei sembrava entusiasmo.
-Capisco che voi psicologi siate affascinati da questi contesti scandalosi, ma io proprio non me ne
sento attratto- lei sorrise, probabilmente già valutando la possibilità che le si stava propinando di
demolire il mio sarcasmo.
-Questo ti fa onore. Certe cose nella natura ci mostrano ciò che comporta una visione distorta di quel
che dovrebbe essere corretto, il che equivale a concepire la necessità di regole da rispettare e onorare.
Ma l’incesto è una costante spesso riscontrata nelle varie mitologie più importanti come quella egizia,
greca o nordica, e talvolta era anche praticato per consolidare la supremazia di una dinastia.
Simbolicamente rappresenta un tentativo di rafforzamento, di una condizione, di un ideale, strettamente
legato alla persona verso cui è attribuito…-Demetrio sta cercando di dire a Tommaso che lui sta soltanto rafforzando le sue convinzioni?..-È una possibilità…- disse, ma poi parve dubitare.
-Che ti succede? Non sei convinta?Per un momento sembrò estraniarsi dal mondo, allora la chiamai e quasi ebbi l’impressione d’averla
svegliata da un sogno.
-No, stavo solo valutando la possibilità che, come nella mitologia, non tutto sia simbolico-.
Rabbrividii -stai congetturando che Demetrio stia parlando di un incesto reale? E chi ne sarebbe
l’artefice? Le sue sorelle lo odiano e Tommaso non ha mai accennato ad avere sorelle-.
Attese un istante, poi tornò alla sua professionale indagine -no, hai ragione, probabilmente la sua è
solo un’allusione simbolica-.
-Quindi abbiamo dedotto che Demetrio invita Tommaso a considerare la sua autorità, ma tu hai
parlato di diverse allusioni, quali sono le altre?- la mia curiosità prevaricava la concezione dei timori
che ogni scoperta poteva condurmi e lei, perplessa, mi guardò per un istante forse valutando se
proseguire o no, come se fosse intimorita da qualcosa che io avrei potuto dedurre un timore verso la
mia persona, senza immaginare che magari anche lei cominciava a subire condizionamenti che la
portavano oltre un semplice coinvolgimento professionale, ma addirittura personale. Ma deduco
ripensando a quel momento, che dovette dirsi che ormai aveva iniziato e, come fosse stata sotto il
vincolo di un contratto, non poteva più esimersi dal suo ruolo.
-Ecco, osserva qui- indicò un altro punto -dice che vi è molto di più della vita a rischio, ma che cosa si
può rischiare più della vita?Per un momento cercai di ritrovare la mia ironia -il patrimonio di famiglia?- sorrisi.
Lei dovette percepire che il mio era solo un sarcasmo isterico e non si infastidì come aveva fatto in
altre circostanze -l’unica cosa cui può alludere, è l’anima- lo disse tuttavia con una certa serietà, come
se chiedesse pure a me di rimanere concentrato su quanto stavamo analizzando.
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-Sì l’ho intuito, ma speravo che non lo dicessi- ironizzai ancora, ma con molta mestizia. Felona
osservò la mia depressa espressione che tuttavia non rivelava tristezza ma piuttosto, timore.
-Ebbene, ti concedo pure qualche sorta di svago, comprendo quanto possa essere arduo affrontare
simili concetti quando non li si abbia mai considerati, tuttavia esorcizzarli con l’ironia non ti rende
ormai immune dall’averli concepiti. Vedi, il prossimo passo potrebbe anche essere che tu possa
decidere di considerarli come condizioni astratte, irreali e non vere, ma qualcosa di questa esperienza ti
resterà sempre. È questo ciò che si intende con il detto: “L’ignoranza è un bene”. Solo che la nostra
esistenza è fatta di scelte e qualcuna di queste scelte può condurre a scoperte fastidiose. Non potrai più
negare a te stesso i tuoi dubbi… tuttavia, come viene espressamente dichiarato in questo contesto, a
nessuno viene dato di sopportare più di quanto non possa…-Sì, ma ammettere questo significa accettare l’esistenza di quel qualcosa che tu dici che potrei anche
decidere di ignorare-.
-Per questo ti è concesso di scegliere. Se decidi di ignorarlo significa che non lo puoi sopportaresemplificò, e la cosa mi parve estremamente assurda nella sua semplicità, che non mi era possibile
accettarla.
-Come posso ignorarlo ormai, se già ho cominciato a dubitare?-Ti sembrerà impossibile ma ti sei dato da solo le risposte. Stuart Chase ha detto che per coloro che
credono nessuna prova è necessaria, per coloro che non credono nessuna prova è sufficiente. La
questione è tutta lì. I tuoi dubbi ti conducono solo verso la verità, ossia quella che per te è la verità. Se
non credi in queste cose, nessun dubbio potrà condurti al farlo; se invece credi anche minimamente
nella possibilità che vi sia una realtà che va oltre il dubbio, nessuna certezza potrà convincerti del
contrario. La scelta è molto facile da compiere perché in realtà la scelta è già fatta-.
Io non sapevo nemmeno chi fosse Stuart Chase, e in quel momento poco mi sarebbe importato
scoprire che era stato un economista americano i cui scritti riguardavano argomenti di semantica
generale secondo la quale si affermava che gli esseri umani erano limitati nelle loro conoscenze dalla
struttura del loro sistema per cui non potevano sperimentare il mondo direttamente, ma solo attraverso
le loro astrazioni.
-Quindi non ho scampo- dissi.
Lei però non era del mio stesso avviso, non lo era mai.
-C’è sempre un’alternativa. Sta a noi decidere. Vedi, se accetti che il destino ti abbia condotto a questa
distinzione, puoi anche accettare che le pure coincidenze ne siano l’effettiva causa. Questo racconto ti è
capitato tra le mani e tu hai scelto di leggerlo, e per tua scelta ora puoi dedurre che contenga delle
verità che prima non conoscevi. Ma puoi anche considerare che sei stato indotto a farlo e che tutto sia
solo un inganno, e in questo modo giungeresti alla facile conclusione che nulla di quanto è scritto qui
sia corretto per quanto ti concerne e di conseguenza convincerti che il destino non esiste e tu sei
padrone del tuo fato. Può sembrare assurdo, ma è molto semplice-.
-No, non lo sembra più quando inizi a dubitare, e certe scelte non semplificano ma complicanocontestai allora io.
-È ovvio- proseguì però lei -ogni scelta implica un cambiamento. Per esempio, anche la banale scelta
di decidere come vestirsi comporta cambiamenti. Oggi sei sportivo e chi ti vede ti giudica per uno
sportivo, domani sei elegante e chi ti vede ti giudica per un intellettuale. Ma è dalla scelta che fai tu che
la tua condizione muta. Se tu vesti ogni giorno alla stessa maniera, ne tu né gli altri potranno avere
opinioni differenti, e tanto meno dubbi-.
-Questo non mi aiuta. Noi stiamo parlando di scelte da fare secondo ciò che è il nostro sentire. Vestire
in un modo o nell’altro implica semplicemente indirizzare il giudizio degli altri in un determinato
contesto-.
-Esatto. Ma la condizione non è affatto fuorviante. Nelle nostre scelte infatti dobbiamo tenere conto di
molte cose. Ciò che vogliamo essere dipende anche da come vogliamo che gli altri ci considerino e di
conseguenza dobbiamo capire se siano le nostre scelte a condizionare il giudizio degli altri, o se siano
gli altri a condizionare le nostre scelte. Come vedi è sempre di scelte che stiamo parlando-.
-A volte però non ci sono possibilità, le nostre scelte sono obbligate-.
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-Perché è quello che vogliamo credere, ma la libertà di scelta non è condizionata se la scelta sta dentro
di te. Sotto minaccia ciascuno può farti dire che tu sei un aviatore, ma se tu ti senti un marinaio,
nessuno può sottrarti alla tua convinzione-.
-Sarei comunque costretto a vivere da aviatore-.
-Sempre per scelta. C’è chi decide di adattarsi e chi decide di ribellarsi-.
-E se il ribellarsi significa rischiare la vita?Lei si limitò a sorridere, e io, come un allocco restai a considerare come stessi veramente rispondendo
da solo alle mie domande -…c’è molto più della vita a rischio…- sussurrai parafrasando le parole da lei
lette poco prima.
Felona mi guardò soddisfatta -devi solo capire adesso, se sei disposto a sopportare il peso delle tue
decisioni, e poi, fare la tua scelta- disse, quindi mi lasciò nel mio silenzio, poi, come avessi bisogno di
una distrazione m’incitò -che ne dici di fare quella visita a Valbordi adesso?La guardai e annuii -sì, credo che sia giunto il momento- risposi.
-Bene- ribatté lei -così mentre tu guidi io leggo un altro capitolo-.
Non ero abituato nemmeno ad ascoltare la radio mentre guidavo, ma non mi fu difficile concentrarmi
sulla lettura mentre, dopo poco che avevo avviato la macchina lei prese a leggere:
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La verità vi farà liberi…
…Aveva detto che l’avrebbe incontrata domenica, il che mi dava quattro giorni di tempo per
convincerlo, così pensai che accompagnarlo nelle sue escursioni fotografiche poteva essere
un’occasione per sfruttare al meglio quel tempo. Ma io purtroppo ancora pensavo da abitudinario
della normale quotidianità nella quale anche i più grandi problemi non comportano visioni che
superano l’immaginazione e ogni valutazione si riflette in ciò che la realtà ci permette di concepire, di
conseguenza, non valutavo la complessità del dramma in cui mi stavo calando da attore protagonista.
-Sei venuto in macchina?- mi domandò osservando la Mercedes parcheggiata davanti al modesto
hotel.
Lo guardai incerto -stai scherzando?Allargò le braccia facendo intendere che no, non scherzava.
-Beh, sono sette chilometri da qui a Casterba, pensavi veramente di farteli a piedi?- lo dissi con la
spontaneità di chi considera regolare l’uso quotidiano di una macchina per coprire una simile
distanza e, con altrettanta spontaneità rispose lui.
-Non lo so Tommaso, io pensavo di sì. Ma io non possiedo una macchina, quindi per me è normale,
credo, presupporre che sette chilometri non siano una distanza così impossibile-.
Restai quasi interdetto e in parte mi sentii offeso -non dire scemenze Mage- gli risposi invitandolo a
prendere posto in auto.
Quando ci avviammo, in un momento di tregua, approfondii come se non avessi altro di meglio da
dire -se non hai una macchina come ti sposti?- gli domandai.
-Generalmente a piedi- disse lui -a meno che non debba fare un viaggio che mi porta da uno stato
all’altro o distanze che non si possono coprire in un giorno. Ma per questo ci sono i treni, gli aerei o
altri mezzi dei quali di solito si occupa chi richiede la mia competenza- .
Lo guardai incredulo -quindi se non fossi venuto io avresti fatto sette chilometri a piedi?-.
Di rimando lui guardò me con altrettanta perplessità -anche di più. Dopo che sarò giunto in paese
dovrò seguire dei percorsi di esplorazione, anche se conosco già il posto- disse.
-Quindi per te sette chilometri non sono una distanza degna di un mezzo di trasporto?-No. Ho passato giorni interi a camminare per realizzare i miei reportage…-Mi stai prendendo in giro?- dissi indignato, ma lui non rispose, non nell’immediato almeno.
-Hai visto quell’albero?- proferì quindi dopo un po’ improvvisamente.
-Quale albero?- risposi sorpreso. Lui si limitò a sorridere e a quel punto potei verificare che la
persona che mi stava seduta a fianco era lo stesso Demetrio che mi aveva fatto vedere per la prima
volta il fiume, e mi domandai se ora volevo veramente vedere quell’albero con il quale era riuscito a
farmi capire come, nella frenesia ormai automatica della mia vita, mi sarebbe stato impossibile
vederlo nel modo in cui lo vedeva lui.
Giungemmo in centro al paese in poco più di cinque minuti, lui scese e cominciò a guardarsi intorno.
-Quante cose sono cambiate- disse.
Io mi meravigliai. Nella mia consuetudine mi sembrava che non fosse cambiato nulla nell’umile paese
-a me sembra tutto uguale a com’era un tempo, se si esclude la diminuzione della popolazione- dissi.
Lui prese la sua attrezzatura -beh, questi marciapiedi non c’erano vent’anni fa, la strada era più
rovinata e ai lati crescevano ciuffi d’erba ti ricordi? A volte passavano mesi prima che
l’amministrazione decidesse di farla tagliare e spesso diveniva difficile osservare oltre- mi fece notare,
e come fosse una cosa mai esistita io la ricordai quasi come un’illusione. Si incamminò a piedi lungo
la strada ma nell’immediato io non valutai quale direzione aveva preso e, ancora disorientato dalle
motivazioni che mi avevano spinto a cercarlo, lo seguii senza considerazioni. Affrettai il passo perché
essendo partito senza preavviso mi aveva un po’ distanziato.
-Lungo questa strada c’era un’estesa fila di pioppi ricordi? E questo fossato era molto più ampio, ora
sembra un semplice solco tra la terra e la strada- mi fece notare, e improvvisamente mi resi conto che
stava percorrendo la strada che lo avrebbe condotto alla sua vecchia abitazione. Un presagio
tormentoso mi mandò un segnale ambiguo, come se solo in quel momento mi rendessi conto che stavo
per essere coinvolto in qualcosa da cui avrei dovuto restare estraneo. Ricordai la fila di pioppi e anche
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il fossato che d’inverno gelava permettendoci di improvvisarci pattinatori su ghiaccio, ma lo feci con
superficiale disinteresse perché qualcosa di nuovo ora sconvolgeva la mia mente.
-Dove stai andando Mage?- gli domandai preoccupato.
-Sai- cominciò lui -una volta ho letto la frase di uno scrittore in cui affermava che tutto sta nel
cominciare, poi il resto viene da sé. Ho potuto costatare che è vero e quando non so come cominciare
cerco uno spunto apparentemente insignificante, e il resto viene da sé- disse con calma serenità.
Io però, quella serenità la stavo perdendo sempre più -vorrei sbagliarmi Mage, ma ho l’impressione
che tu sappia esattamente da dove cominciare- gli feci notare.
-Infatti- rispose lui -questo non è uno di quei casi, ma se devo fare un reportage sul paese in cui sono
nato e vissuto per oltre venti anni, perché non iniziare da dove tutto ha avuto principio?Sentii nuovamente la sensazione di tormento lanciarmi un avviso di pericolo, ma la distanza da coprire
era ancora breve e la sua casa era già troppo vicina per riuscire a divincolarmi.
-Credi che sia una buona idea?- gli dissi ricordando più a me stesso che a lui, che i suoi familiari non
erano nemmeno andati ad accoglierlo all’arrivo.
-A me pare di sì- rispose, ma senza dare la riposta che io cercavo veramente.
-Intendo dire se credi che sia una buona idea che io ti accompagni- esposi con più precisione, allora
si fermò e mi guardò intensamente.
-Tu hai pensato che fosse una buona idea venire da me questa mattina?-Non era per questo che sono venuto- gli feci notare.
-E’ vero, ma ogni azione comporta delle conseguenze e tu non ne hai tenuto conto, nemmeno quando
io ti ho chiesto di accompagnarmi. Avresti dovuto chiedere dove volevo andare non credi?- mi sentii
come intrappolato e preso in giro.
-Ma tutto questo non ha senso- replicai senza sapere cosa rispondere.
Lui sorrise -ne ha Tommaso, credimi. Ne ha- disse, e di nuovo con la sua semplicità riprese il
cammino.
Io lo inseguii e protestai -ma tu lo sapevi dove volevi andare, anche tu avresti potuto dirlo-.
-Sì, avrei potuto, ma non l’ho fatto. Da tutto questo puoi solo accettare una cosa, che sta
nell’apprendere, o nel non apprendere. Tutto qui-.
-Ma che scemenze vai dicendo? Per te è tutto un gioco come lo era quando eravamo ragazzini?Si fermò di nuovo, e questa volta mi guardò con seria severità.
-Non è mai stato un gioco per me Tommaso. Questa è la differenza tra me e te- mi accusò. Io
ammutolii e lui riprese il cammino.
-Allora, non dovevi parlarmi?- mi ricordò come a sottolineare che io mi ero intromesso nel suo
spazio introducendomi nei progetti che lui aveva per quel giorno. Io guardai avanti, entro poco più di
cento metri saremmo stati davanti al cancello della residenza. Non sarei riuscito a sfruttare quel
giorno per i miei scopi, ma lo intuivo troppo tardi.
-Forse dovremmo parlare di qualcos’altro in questo momento- gli dissi allora. Il timore di essere
coinvolto in qualcosa che avrebbe potuto essere molto imbarazzante in quel preciso istante mi
spaventava più del non riuscire a convincerlo a farlo desistere dall’incontrare Virginia.
Si fermò ancora -ti ascolto- dichiarò e io, sommerso dall’imbarazzo, non seppi cosa dire. Gesticolai
con le mani come a introdurre un discorso, ma dalle mia labbra non uscivano parole.
-Hai paura che possa metterti in una condizione spiacevole?- domandò allora lui.
Mi avvicinai -non sono nemmeno venute al tuo ricevimento, non sono venute ad accoglierti al tuo
arrivo- gli ricordai -cosa credi che succederà quando suonerai alla loro porta?Lo vidi rattristarsi.
-Probabilmente nulla. Continueranno ad odiarmi come fanno da vent’anni, ma non lo scopriremo mai
se non proviamo. Inoltre io devo tornare laggiù, anche se incontrerò persone che forse non mi
vogliono incontrare-.
Sapevo che quell’incontro non sarebbe stato sereno, ma allo stesso tempo vedevo in lui un’esigenza
che quasi necessitava di sostegno, tuttavia non mi sentivo in grado di dargli ciò che cercava e
ricordando la citazione biblica che lui era solito riportare: “La verità vi farà liberi”, ingenuamente
decisi che la verità poteva farmi libero.
-Non credo che io dovrei essere qui in questo momento. Sono un intruso tra di voi non ti pare?-.
104
Lui sorrise -nulla avviene per caso dicevamo un tempo ricordi?- rispose però lui come se avesse
intuito il mio richiamo al passato e con altrettanta scaltrezza avesse voluto annullare il mio spunto.
-Sì, ma se vi sono questioni da risolvere tra di voi, io cosa c’entro? Sono un estraneo-.
-Non necessariamente- disse però lui a sorpresa e io lo guardai senza comprendere.
-Tu sei il proprietario delle terre che un tempo erano loro, sei inevitabilmente coinvolto-. Mi sembrò
un’accusa.
-Non vorrai coinvolgermi in questioni finanziarie di cui nemmeno sono responsabile- mi indignai
allora esprimendo io un’accusa nei suoi riguardi. Il suo sorriso però mi fece comprendere che la sua
era solo un’innocua provocazione e con una percezione di cui avrei fatto volentieri a meno, compresi
che io non ero lì per questo.
-È rimasto qualcosa in sospeso quaggiù Tommaso, e io devo risolvere- mi annunciò rivelando
enigmaticamente il motivo per cui era realmente andato alla sua vecchia dimora, che non aveva nulla
a che fare con il resoconto fotografico, solo che prima che potessi rendermene conto e cercare di
divincolarmi, lui aveva già suonato il campanello.
Scossi il capo -che ci faccio veramente io qui Mage?- lo rimproverai.
Mi guardò come se comprendesse e condividesse il mio disagio -c’è qualcosa che devo fare, e se tu
sei qui, significa che pure tu devi esserci. Il destino non sbaglia amico mio, e il destino ha voluto che tu
questa mattina mi venissi a cercare. Deve esserci una ragione non ti pare?-Se c’è, io non la comprendo e al contrario di te, penso che il destino possa sbagliare, anzi, credo che
abbia sbagliato già troppe volte- dissi con rammarico, ma una giovane ragazza si stava già
avvicinando e definitivamente, non potevo più fuggire.
Era Vanessa, sua nipote, ma lui non l’aveva mai vista, o per lo meno così pensavo. Forse non sapeva
nemmeno di avere una nipote e per un istante pensai di avvertirlo, ma quando la giovane fu davanti a
noi con la sola barriera del cancello che ci divideva, lui non sembrò avere nessuna reazione di
sorpresa e con la stessa meraviglia che apparve sul viso della giovane quando si presentò, restai
sorpreso pure io.
-Ciao- le disse con calma -sono Demetrio, tuo zio- le annunciò. Il viso della giovane parve illuminarsi
con un sorriso di gioia.
-Mio zio? Oddio non ci posso credere- la sua esultanza fu tale che non mi parve nemmeno vera. Mi
aspettavo ostilità nei suoi riguardi, in fondo era cresciuta in una famiglia che non doveva mai aver
parlato bene di lui e tale reazione mi confuse.
-Posso entrare?- domandò poi il Mage. Fu a quel punto che la felicità della giovane si attenuò.
-Vuoi parlare con la mamma?- le domandò, ed era evidente il suo imbarazzo.
-Se tua madre vorrà parlarmi sì, volentieri- rispose. Vanessa aprì il cancello e ci fece entrare, solo
successivamente guardò verso di me e mi salutò in modo cortese dandomi del lei. Era una di Casterba,
dove tutti conoscevano tutti, o per lo meno conoscevano me, l’imprenditore più importante del
territorio. Io le sorrisi con fare amichevole e annuii al suo saluto. Quindi si rivolse al Mage.
-Puoi aspettare qui?- le domandò. Demetrio la guardò, poi osservò la proprietà tutto intorno e
indirizzò il suo sguardo in un punto preciso che si trovava all’interno del giardino.
-Per te va bene se aspetto laggiù, nel giardino?- le domandò.
Vanessa sorrise come se il suo fosse un gioco -sì certo- disse divertita, poi corse verso la casa. Il
Mage si avviò e io lo seguii da vicino.
-Sei sicuro di volere che io resti?- cercai ancora di liberarmi dall’inusuale vincolo.
-Se le cosa ti infastidisce puoi pure andartene, ma sappi che io non sono qui per parlare con le mie
sorelle- e a quel punto compresi che il mio coinvolgimento, per quanto lo riguardava, non era per
avere una testimonianza di quanto sarebbe accaduto tra lui e i suoi familiari, ma per un motivo che
doveva essere legato a un qualcosa che, come nel passato, secondo lui, sarebbe servito a comunicarmi
cose che avrebbero dovuto andare a beneficio di una conoscenza mai approfondita, e a quel punto il
conflitto in me si fece ancora più intenso, incerto se veramente volevo tornare a vivere momenti come
quelli di un’infanzia che avevo rimosso.
Si fermò in un punto preciso e attese, dopo un po’ vidi la nipote al fianco della mamma avvicinarsi.
Demetrio attese che fosse vicina.
-Ciao Loredana- la salutò.
105
Il viso di lei era chiaramente contrariato -ciao- rispose rigidamente -ne hai del coraggio a farti
rivedere- disse con ostilità.
Il Mage la guardò negli occhi.
-Non pretendo che tu capisca, ma sarò ben lieto di spiegarti se vorrai ascoltarmi-.
-Non hai niente da spiegare perché non c’è niente da capire. Sappi che legalmente non ti spetta più
niente-.
La tensione si fece quasi palpabile. Osservai Vanessa farsi timorosa mentre il mio imbarazzo cresceva
a dismisura.
Demetrio scosse il capo -non sono qui per riscuotere nulla, quello che mi serve è solo un po’ di tempo
e ciò che ti chiedo è che tu me lo conceda-.
-Io non voglio parlare con te, e nemmeno Marcella-. Disse riferendosi alla seconda sorella.
Gli occhi di Demetrio si fecero cupi e tristi -sì lo comprendo, e mi dispiace. Avrei molte cose da
raccontarvi, ma credo che ciò che voi vogliate da me siano solo scuse. Io ve le porgo, anche se non
potrete capirle. Il tempo che mi occorre però, non è quello delle scuse. Puoi scacciarmi se vuoi, io qui
non sono più niente, ma c’è qualcosa che devo fare, e devo farlo in questo giardino. Concedimi questo
tempo e poi ti garantisco, che se è questo ciò che vuoi, non mi rivedrai più-.
Per la prima volta il Mage parve vulnerabile e per la prima volta percepii l’odio della vendetta forte
come mai avrei potuto. Potevo quasi vedere una spada tra le mani della sorella, pronta ad abbattersi
sulla sua testa e tranciarla. Era un’occasione unica che mai avrebbe potuto ripetersi. In quel momento
ebbi la chiara sensazione che se qualcuno avesse voluto veramente fargli del male, impedirgli di
restare in quel giardino sarebbe stata la più grande atrocità, una cosa che forse valeva per il Mage più
della stessa vita e, nello stesso modo in cui lo percepivo io, ne ero certo, lo percepiva anche Loredana.
Ciò che più mi stupiva però, era che probabilmente il Mage stesso voleva che fosse così. Qualcosa, in
quel momento, sembrò quasi trasportarmi oltre la razionalità e come se avessi la facoltà di leggere i
pensieri, percepii il maligno desiderio di Loredana di scacciarlo via, consapevole che non vi era
migliore e nessuna altra vendetta. Ma quando la razionalità mi riportò nel mondo reale, vidi l’istante
di esitazione portare gli occhi di Loredana verso quelli della figlia e con lei potei leggervi dentro la più
grande compassione. Fu quello sguardo, credo, a sciogliere il cuore di ghiaccio di Loredana, mentre
Demetrio restava nell’attesa. Furono attimi di tensione, poi Loredana spezzò il silenzio.
-Fai ciò che devi e poi vattene- quindi guardò Vanessa -vieni torniamo in casa- le ordinò, ma la
ragazza esitò.
-Non posso restare?- domandò con apprensione, come se sospettasse che ciò che sarebbe avvenuto lì
avesse in qualche modo un qualcosa che la riguardava, una sorta di legame forse che lei percepiva,
ma non con suo zio, piuttosto, con se stessa e il suo futuro. Loredana si fermò, guardò prima la figlia e
poi il fratello.
Demetrio sorrise -non farò niente di male, niente follie. Starò semplicemente qui, e poi… non avrò
mai più occasione di rivedere mia nipote-.
-Non l’hai mai vista prima di oggi, che differenza può fare ormai?- disse con un’improvvisa
malinconica e rassegnata tristezza Loredana. Di nuovo mi sentii trasportare nell’irrazionale sentendo
la mente del Mage che avrebbe voluto rispondere: “Ti sbagli, sapessi quante volte l’ho vista”, ma
contemporaneamente percepivo anche la convinzione con cui sapeva sarebbe stato inutile cercare di
spiegare, intendendo che sarebbe stato impossibile per lei capire. In effetti, malgrado tutto, lo sarebbe
stato pure per me.
Loredana non disse niente, semplicemente si girò e si allontanò -resta pure- acconsentì, poi con mia
grande sorpresa.
Fissò Demetrio negli occhi -dirò a Marcella e agli altri che sei passato, e comunicherò le tue scuse.
Addio Demetrio- si congedò freddamente da lui. Non credo che si videro più. Io restai il tempo
necessario per vedere Demetrio avvicinarsi ad un punto preciso e poi inginocchiarsi per terra. Poi lo
vidi guardare Vanessa.
-Vieni avvicinati, ti voglio raccontare una storia- le disse proprio come uno zio che parla a una
nipotina, sebbene Vanessa ormai avesse già diciotto anni. A quel punto sentii che la mia presenza lì
non era più costretta. In un modo che non capivo, era come se una forza maggiore mi stesse
svincolando da una sorta di obbligo.
106
Oggi penso che il destino mi aveva condotto laggiù con lui perché dovevo assistere a qualcosa, e ciò
che richiedeva il mio ruolo si concludeva lì, ma in realtà, analizzando meglio i fatti e le sensazioni
provate, il destino mi stava solo offrendo la possibilità di scegliere. Mi ero sentito come vincolato e
quasi costretto a giungere fino a quel punto, nel momento in cui tutto si svelava e risolveva ma, come
ad ogni appuntamento importante verso il quale ero stato condotto, alla fine, la scelta di assistere o
fuggire, veniva lasciata a me.
-È meglio che io vada Demetrio- ricordo di aver detto come temendo che l’attimo di tregua potesse
svanire e tornare a costringermi con quelle catene inconsce che non potevo vedere. Non dovetti
nemmeno cercare una scusa e lui non parve nemmeno volermi fare desistere dalla mia rinuncia.
Semplicemente mi guardò con un triste sorriso nel quale io non percepii l’amarezza per la mia
rinuncia -ci vediamo domani?- disse come a invitarmi a proseguire ciò che avevo lasciato in sospeso, e
io risposi di riflesso -alla stessa ora-.
Tornò al suo impegno e non sembrò nemmeno sentirmi quando mi avviai, non facendo nulla per
trattenermi come aveva fatto in precedenza.
Quando concluse stavamo passando a fianco del cartello limitrofo che ci accoglieva a Valbordi, un
paese che non sembrava affatto così speciale come ci era stato descritto dal custode dell’hotel o come
forse ci aspettavamo, almeno in quell’introduttivo arrivo. La periferia, se di periferia si poteva parlare
per un paese della superficie di soli trenta chilometri quadrati che contava una popolazione di poco
superiore ai tremila abitanti, ci accoglieva con dei giganti di cemento: capannoni prefabbricati che
come guardiani avevano ben poco di accogliente. Una misera zona industriale appariva poco produttiva
e la distesa di campagna che dominava l’intera valle si evidenziava invece come l’unica vera fonte di
lavoro e di guadagno per il paese. Tuttavia i grandi trattori che si sentivano e intravedevano lavorare
nei campi facevano pensare che per quanto estesa fosse la campagna, solo una minima parte degli
abitanti del paese probabilmente lavorava in quel settore ormai industrializzato.
-Non sembra così accogliente come ci era stato descritto- commentai. Felona doveva essere perplessa
quanto me, probabilmente perché lei stessa si era fatta le medesime aspettative.
-Magari il centro è meglio- azzardò a dire mentre incontravamo le prime abitazioni, villette
appariscenti di recente costruzione i cui proprietari dovevano aver pensato che la periferia poteva dare
loro in qualche modo una tutelata tranquillità, seppure non si poteva immaginare che Valbordi fosse un
luogo caotico. Giungemmo in breve ad un incrocio, uno dei pochi rimasti regolati da semafori e alla
luce rossa fermai l’auto. Dei cartelli indicatori blu segnalavano altre località vicine, mentre uno bianco
indicava la direzione del centro. Sorrisi considerando che non doveva essere poi così difficile capire
dove fosse, pensando allo spreco del costo di un cartello non necessario.
-Bene, tra poco lo scopriremo- risposi alla supposizione di Felona -e di quanto hai appena letto che mi
dici?- approfittai della breve pausa, sebbene l’ultimo capitolo non sembrasse aver dato ulteriori spunti
di meditazione, ma Felona mi sorprese.
-Potrei dire molte cose, ma voglio soffermarmi ad analizzare questi inizi di capitoli-.
Il semaforo era ancora rosso -sarebbe a dire?- cercai di comprendere.
-Come li intitola, fino ad ora lo abbiamo trascurato, ma ogni titolo introduce gli argomenti o rimanda
a determinate considerazioni. La verità vi farà liberi, è una citazione biblica- m’istruì, ma questa volta
potei vantarmi un po’ anch’io delle mie limitate conoscenze.
-Sì, questo lo so, l’ho sentito in un film, e ogni tanto io stesso ho fatto uso di questa citazione-.
-Davvero?- mi guardò -e funziona?Io le rimandai uno sguardo incerto -sì- dissi -a volte funziona- osai rispondere.
-Bene, allora dimmi che cosa hai compreso della verità- mi domandò, ma non seppi comprendere se la
sua era provocazione o serietà e la mia risposta proseguì nella direzione logica del discorso già
intrapreso che mi teneva agganciato all’uso della citazione.
-Che ha effetto solo su chi si lascia intimorire dai condizionamenti religiosi- risposi con un pizzico di
superficialità.
-Questo perché il più delle persone percepiscono la verità come una cosa esteriore, relativa alla verità
degli altri, e nessuno considera la propria-.
-Non ti seguo- ammisi, e questo era vero perché lei già viaggiava su un binario differente dal mio.
107
-Nessuno vuole conoscere veramente se stesso, e l’uso dei testi sacri è un ottimo espediente per
rinviare verso altri obiettivi le responsabilità. Chiunque si senta affrontato da un testo sacro si sente
inevitabilmente posto sotto giudizio, e non un giudizio qualunque, ma un giudizio divino, per questo
molte persone si lasciano intimorire quando si citano frasi bibliche, talmudiche, vediche o di altro
genere. Ma i testi sacri, di qualunque origine, parlano direttamente a noi stessi, non sono rivolti
all’esterno, e chi li legge deve comprendere che il testo sta dicendo a lui quello che è scritto, e non che
ciò che sta scritto deve essere divulgato dal lettore- cercò di sintetizzare, credo, ma tale semplificazione
rese il tutto assurdamente più caotico.
-Sì, giusto- risposi io fingendo palesemente di aver capito il suo discorso - che senso ha divulgare ciò
che è già scritto dal momento che ognuno lo può leggere da solo?Lei non si innervosì -ti sembrerà strano, ma la tua ironia ha colto pienamente nel segno. In effetti è
come quando a scuola ti dicevano di fare una ricerca, in realtà lo scopo era quello di farti studiare, non
di riprodurre ciò che già stava scritto in un libro. Trascrivere non ha alcun senso visto che comunque lo
puoi ritrovare in ogni momento sullo stesso libro da cui hai copiato-. La guardai con decisa sorpresa, o
forse dovrei dire con la decisa meraviglia di chi scopre quanto grande sia la sua stupidità nel
comprendere una cosa elementare cui però mai si è prestato attenzione.
-Stai cercando di farmi capire quanto sarebbero semplici certe situazioni se solo ci impegnassimo un
po’ a prestare la giusta attenzione?-No, sto cercando di dire che le cose sono semplici solo nella misura in cui noi le semplifichiamo, e
sono complicate nella misura in cui noi le vogliamo complicare-.
Non ero certo di aver compreso -non credo che ci sia molto da complicare in una frase come quella,
“la verità vi farà liberi”, è più che altro una condizione morale. Significa che devi dire la verità se non
vuoi rischiare la galera-.
-Dal tuo punto di vista, o da quello giuridico se per te è preferibile, ma moralmente ciò non fa molto
onore a chi ne usurpa l’utilità solo per un fattore di comodo usando i testi sacri per manipolare il
pensiero e le concezioni della gente. Ma il concetto è: che cos’è per te la verità?Il discorso si divulgò in una maniera tale che non mi accorsi della luce verde e restai fermo al semaforo
-prego?- le domandai incerto.
-La verità, che cos’è per te? Se tu stessi leggendo la Bibbia, questa frase sarebbe rivolta a te dalla
Bibbia stessa e quindi per comprendere cosa il libro vuole dirti devi avere una tua concezione della
verità- mi invitò a riflettere.
-Beh, vediamo, in questa circostanza direi che il libro mi sta dicendo che la verità è ciò che mi rende
libero, perché è più facile sostenere la verità piuttosto che la menzogna- pensai di essermela cavata
bene.
-Giusto- riprese allora lei -ma quella che tu ammetteresti è la tua verità, e se tale fosse in contrasto con
la verità di chi ti ascolta, per esempio io, tu per me mentiresti-.
La osservai con stupore, meraviglia e smarrimento -ma se dovessimo vederla da questo punto di vista,
nessuno direbbe la verità- dissi allibito per la sua incoerenza -questo tuo ragionamento, se messo in
pratica condurrebbe all’anarchia e al caos più totale, la verità va intesa come una regola cui il soggetto
deve sottostare-.
-Sì, giusto, ma chi impone le regole, come fa a decidere quale sia la verità?-Il tuo è un discorso senza logica, un mondo senza regole condurrebbe nel caos più totale. Vorresti un
mondo così?Attese un istante, poi rispose -no, ed è quello che questo tizio ci sta dicendo dall’inizio del racconto
esponendolo attraverso dei simboli. Quando ci dice che la natura esige rispetto, ci dice che vi sono
regole da rispettate, così quando ci parla di omosessualità ci dice che vi sono infrazioni tollerabili
mentre quando ci parla di incesto ci riferisce di altre che invece non possono essere accettate. Nel
primo caso forse, possiamo vedere un’infrazione, ma senza conseguenze avverse o malvagie, nel
secondo invece le conseguenze ci sono, e possono essere evidenti. È un altro modo di interpretare la
lettura simbolica, così, quando ci parla di verità, dobbiamo capire che cosa vuole veramente intendere.
La verità umana è fatta di regole umane, imperfette e frangibili. Non a caso secondo Platone le leggi
avrebbero dovute essere state fatte da persone che una volta finita la compilazione avrebbero dovuto
tornare a vivere nella società, dopo aver dimenticato di essere state loro a scrivere quelle leggi. Con
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questa consapevolezza tali persone avrebbero dovuto per forza scrivere delle leggi giuste, perché loro
stessi le avrebbero subite, e noi lo abbiamo appena dimostrato, se tu o io dovessimo scrivere delle leggi
le scriveremmo secondo la nostra concezione del giusto e sbagliato, e secondo la nostra concezione
della verità…Sorrisi con un’alterata espressione di sarcasmo -la tua è pura utopia, per quanto io possa essere
d’accordo con te. La cosa tuttavia non risolve la questione: esiste una verità che non è assoluta, ma
secondo la nostra concezione del giusto o sbagliato, è quanto di più vi si avvicina- sentenziai.
-È possibile- replicò allora lei -ma se la verità che consideriamo noi non è la verità che ci chiede di
considerare il testo sacro?- mi confuse nuovamente mentre il semaforo tornava rosso.
-Accidenti- imprecai accorgendomi che avevamo perso la nostra occasione di superare l’incrocio -alla
faccia della semplicità- le dissi -mi stai facendo impazzire lo vedi? E in quale altro modo la dovremmo
considerare?-Ti ricordi di quando abbiamo ragionato sulle domande e di come quando non si conosce una risposta
sia necessario cercare la domanda?-Certo che me lo ricordo, mi pareva una stupidaggine e tu mi hai dimostrato il contrario, e allora, cosa
c’entra adesso?-C’entra eccome perché vedi, il vangelo di Giovanni cita testualmente: “Conoscerete la verità e la
verità vi farà liberi”, non dice “comprenderete la verità”, ma “conoscerete”, il che cambia le cose-.
-Ma in che senso? Mi sembra che tu stia veramente complicando quanto hai detto essere semplice- lei
scosse la testa.
-Rifletti un momento, se qualcuno ti domanda come ti chiami tu ti presenti e a quel punto uno può dire
di conoscerti, almeno per nome, quindi quando Giovanni dice “conoscerete la verità” è possibile che
non intenda la verità in senso letterale come potremmo interpretarla noi, ma figurato-.
-Vuoi dire che farebbe riferimento a una persona fisica?-O a qualcosa che va oltre, visto che si parla di un testo sacro. Se qualcuno domanda cosa sia la verità,
noi dobbiamo capire cosa sia la verità prima di poter rispondere, ma visto che abbiamo compreso che la
verità intesa per come la interpretiamo noi è solo soggettiva, forse dovremmo cambiare la domanda e
chiederci non cosa sia la verità, ma piuttosto “Chi sia la verità”-.
Restai stupefatto, e solo il suono del clacson dietro di noi mi riportò nella realtà in cui di nuovo stavo
perdendo l’occasione di sfruttare la luce verde del semaforo per superare l’incrocio. Lasciai la frizione
e partii con uno slittamento delle gomme sull’asfalto -è assurdo- dissi avviandomi -e comunque che
cosa centrerebbe con tutto il resto? Perché è andato a casa sua e che cosa ha fatto in quel giardino?Sentii un’esclamazione di meraviglia da parte di lei e concentrandomi sul paese vidi un centro che non
avrei immaginato. Valbordi, dominato da un ristrutturato castello e da abitazioni che parevano
rimandare ad un antico borgo medievale, ci apparve come una piccola città storica in miniatura.
Parcheggiai nel piazzale davanti il castello e, meravigliati più per l’inattesa sorpresa che per l’effettivo
fascino del piccolo centro, scendemmo dalla macchina e osservammo intorno a noi. Tutto era
concentrato in una ristretta area circostante il castello. Non molto lontano vi era la chiesa del paese con
un’insegna di marmo che evidenziava la sua antica appartenenza al dodicesimo secolo mentre un parco
creato da poco con giardini e marciapiedi di chiara fattura moderna sembravano tracciare un percorso
tra la piazza dove in un palazzo storico era situata la sede del comune, la chiesa e il castello, e al centro
una statua suggestiva che doveva essere stata realizzata da uno scultore locale, rappresentava in uno
stile surreale un guerriero coperto da un’armatura che, spezzandosi in diverse parti evidenziava la
natura femminile del soldato nei particolari che ne stavano celati sotto. Dalla parte spezzata dell’elmo
fuoriusciva una folta capigliatura e la breve parte di viso rivelata mostrava un occhio che lo scultore
aveva saputo rendere incredibilmente espressivo dando l’impressione che la combattente fosse furiosa
ma triste allo stesso tempo. Nella parte spezzata del petto invece un seno da amazzone lasciava
intravedere il particolare più evidente della natura femminile della guerriera, mentre il movimento
impresso, con la spada sguainata pronta a protendersi in avanti, accentuava il senso dell’azione. Era
certamente una statua ben fatta, impeccabile nella sua esecuzione tecnica e splendida nel suo lucido e
levigato color bianco marmoreo. Ci soffermammo ad ammirarla perché, in effetti, pur essendo arte
moderna in un contesto storico, non stonava ma contribuiva a rendere completo e affascinante il
piccolo centro. Ci dirigemmo poi verso il castello osservando le due imponenti torri e leggendo la targa
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di marmo a fianco dell’arco dov’era situata l’entrata per le visite che informava essere del tredicesimo
secolo. Un secondo cartello informativo, meno suggestivo e più tradizionale, informava che nel castello
erano situate la sala consiliare, l’ufficio del turismo e la biblioteca comunale, poi, un po’ meno
evidenziato, vi erano gli orari di apertura al pubblico. Nel pomeriggio gli uffici e le visite iniziavano le
loro attività alle sedici e trenta. Osservai il mio orologio, erano le sedici passate da poco, così
decidemmo di entrare in un piccolo locale lì vicino, ordinammo qualcosa da bere e nell’attesa
proseguimmo la lettura del documento. La disputa di sguardi non lasciava alternative, io avevo guidato,
a lei toccava leggere, così, senza poi tanto esserne dispiaciuta, Felona sfogliò di nuovo il documento e
riprese:
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E sotto scorre il fiume…
…La mattina successiva, come la precedente, lo trovai ad attendermi davanti ad una tazza di caffé.
Mi unii a lui e non accennai per niente al giorno prima. Non desideravo sapere che cosa era avvenuto
dopo che me ne ero andato, cominciando a credere che l’ignoranza era un bene, ma restavo convinto
che se Demetrio voleva farmi conoscere qualcosa avrebbe trovato un modo per farlo. Il giorno
precedente mi aveva trascinato in quell’inganno per una ragione, ne ero certo e, come per sfida,
lasciai che fosse lui a prendere l’iniziativa. Se lo avesse fatto, avrei avuto le mie conferme e avrei
potuto accusarlo apertamente del paranoico plagio della mia mente. Ma Demetrio non accennò a nulla
di ciò che mi aspettavo e per un istante ne restai deluso.
Sempre nell’arco di quel breve istante, fui addirittura tentato di provocarlo e, rendendomi conto per
una volta di come la mia volontà fosse fragile, imposi a me stesso l’ordine che mi ero imposto e rifiutai
l’invito della curiosità ad istigare.
Una sorta di orgoglio mi pervase e con un sorriso beffardo pensai che se Demetrio aveva ragione sul
destino, e che se il destino mi aveva condotto laggiù per un motivo, il destino stesso avrebbe fatto in
modo di rendermi conscio di quanto era avvenuto in quel giardino, continuando a negare che la mia
curiosità di conoscere era più forte della volontà del non sapere e non esaminando così, che nello
stesso momento in cui pensavo di averlo raggirato, il destino si stava preparando a darmi
dimostrazione di quanto non fosse possibile imbrogliarlo.
-Allora, dove si va oggi?- dissi mascherando dietro una fragile allegria i timori che mi tormentavano.
Demetrio finì il caffé -vorrei dirti che è una sorpresa, ma non credo che i luoghi di Casterba possano
più sorprenderti ormai- .
-Credo proprio di no- risposi. Non sapevo quanto mi sbagliavo, lui invece ne sembrava ben
consapevole.
Ci avviammo con la mia auto e come il giorno prima mi fermai in centro.
Lui mi guardò -vai ad ovest, verso il fiume- mi disse.
-Non vuoi camminare?- ironizzai.
-Cammineremo, non preoccuparti, cammineremo-.
Mi avviai verso ovest, come mi aveva chiesto e ben presto superai i confini del paese.
-Non devi fotografare Casterba?- gli feci notare.
-Un cartello limitrofo non significa fine di un territorio Tommaso, tu che ne possiedi la maggior parte
dovresti saperlo-.
Sorrisi -è un’insinuazione?-.
Anche lui sorrise -voglio fare delle foto al vecchio mulino. Prima di andarmene qualcuno produceva
ancora farina ricordo-.
Provai un senso di sconforto nel comprendere che stavo per informarlo di qualcosa che non sapeva.
-Il mulino è stato chiuso. Il proprietario è morto e nessuno ha raccolto la sua eredità. Del resto a chi
interessa ormai fare un lavoro divenuto monopolio dell’industria?-.
Lo vidi amareggiarsi -l’ho saputo. Ho chiesto del vecchio mugnaio, mi sarebbe piaciuto scambiare
qualche parola con lui. Lo ricordo come un omone dall’aria gentile ma triste-.
-Beh, la sua non è stata una storia allegra- dissi.
Saverio, quello che da tutti era stato conosciuto come il “mugnaio”, aveva macinato il grano nel suo
mulino ad acqua mantenendo la tradizione di famiglia, proseguendo nell’eredità che gli aveva lasciato
il padre che ancora macinava quando gli scambi di prodotti in ben poche occasioni avvenivano con un
pagamento in forma di denaro. Io lo ricordavo quando ancora passava per il paese con un piccolo
furgoncino a vendere la farina alle famiglie di Casterba, ma mio padre mi aveva raccontato di come,
in anni precedenti, il suo viaggiare per il paese fosse a cavallo di una bicicletta con la quale trainava
un carrello per trasportare i sacchi.
Era stato nei tempi in cui cominciavano a circolare più veicoli a motore piuttosto che biciclette che
aveva perso la moglie mentre aspettava un figlio in un incidente. Un autista che doveva aver viaggiato
troppo a lungo per avere ancora riflessi lucidi l’aveva travolta in una giornata invernale di nebbia e
ghiaccio. Furono due i drammi in quel tempo, la perdita subita dal mugnaio e la disperazione di
quell’autista che in seguito si seppe aveva tentato di suicidarsi. Forse proprio la compassione per
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quella disperazione aveva aiutato il mugnaio a superare il suo dramma, con la comprensione che la
sofferenza di chi era stato causa dell’involontario incidente, forse, poteva anche essere maggiore della
sua. Il mulino era tutto ciò che gli era rimasto, ciò che gli poteva far mantenere vivo il ricordo della
famiglia perduta e ciò per cui i suoi antenati avevano lavorato. Ciò per cui non poteva cedere. Ma non
avendo eredi, la proprietà era stata abbandonata ed ora era ridotta ad una sorta di rudere.
-Mi pare un buon motivo per rendergli omaggio, non credi?-Resterai deluso da quello che vedrai. Il mulino è ormai un rudere-.
Il sorriso che gli vidi parve sarcastico -la gente ama la tristezza Tommaso. Per quanto possa
sembrare un paradosso le persone se ne nutrono, ma non ne comprendono la ragione. Credono che
osservare le miserie degli altri li distragga dalle proprie, ma non appena sentono qualcuno lamentarsi
di qualcosa subito esaltano i propri problemi come se non potessero accettare che qualcuno soffra più
di loro. Le persone sono strane, aspirano alla libertà e alla felicità ma esaltano la prigionia e la
tristezza, e ancora non ne comprendono la ragione. Ma è per questo che la storia del mulino farà un
gran effetto, te lo garantisco-.
Lo guardai percependo in me una sorte di malumore. Benché non me ne fossi mai preoccupato,
dovevo ammettere che le sue erano parole veritiere, le persone sembravano apprezzare la tristezza
come se fosse un cibo raffinato da ordinare al ristorante. Quello che non riuscivo ad accettare però
era quell’accusa con la quale definiva l’incapacità di queste persone di non comprendere perché
fossero tanto attratte dalla tristezza.
-Forse non la comprendono perché non dovrebbe esistere- lo provocai -non credi?Mi guardò facendomi capire che intuiva tutta la mia indignazione, ma non rispose alla domanda,
ovvero, non lo fece nel modo che mi aspettavo.
-Ogni cosa ha una ragione di essere in questo mondo, altrimenti perché dovrebbe esserci? È tutto qui
il mistero Tommaso-.
Spontaneamente preferii rinunciare ad inoltrarmi in quella conversazione, probabilmente per un
istinto di protezione verso me stesso, anche se ancora non capivo che in quelle poche parole Demetrio
mi aveva dato l’unica risposta possibile e per non peggiorare la mia condizione psichica, lasciai
perdere e continuai il viaggio.
Il mulino faceva parte del territorio di Casterba, ma stava oltre i confini delimitati dalle insegne e
bisognava fare un giro di circa cinque chilometri oltre l’ultimo confine segnalato. La proprietà, o
meglio, ciò che restava della proprietà, era dominata da un grande cortile dove entrai e parcheggiai
l’auto. La casa, costruita con il vecchio stile degli anni precedenti le grandi guerre, dominava come un
antico guardiano sulla campagna circostante e dietro di lei il fiume, che in quel tratto raggiungeva
forse la sua massima estensione, scorreva lento, calmo e tranquillo prima di giungere alle chiuse che
lo costringevano, un tempo, a cedere parte delle sue acque ad un canale artificiale dove una serie di
riduzioni forzavano i placidi flussi in violenti correnti che con la loro forza facevano girare le pale del
mulino mettendo in movimento la macina dalla quale si sarebbe ricavata la farina. Demetrio scese
dalla macchina e si fermò a contemplare la decadenza dell’intera struttura, osservando con riverente
tristezza ciò che doveva apparirgli come un mausoleo.
Io mi avvicinai -è triste vero?- dissi, ma lui alzò un braccio e sibilò una volontà di silenzio.
-Ascolta- pronunciò quindi sussurrando. Io mi misi in ascolto, ma non sapevo di che cosa.
-Lo senti?- domandò allora. Una serie di rimembranze avrebbero dovuto farmi ricordare quei suoi
improvvisi silenzi di venerazione, ma quei tempi li avevo cancellati e proprio attraverso ciò da cui
tentavo di fuggire rischiavo ora di lasciarmi trascinare verso il tunnel delle memorie.
-Che cosa?- gli domandai. Lui mi guardò, poi, senza rispondere, estrasse la macchina fotografica e
per la prima volta potei osservare l’abilità della sua arte. Lo vidi osservare attentamente ogni
particolare dell’ambiente e come se stessi assistendo ad una celebrazione sacra non osai intralciarlo.
Passarono alcuni secondi, forse qualche minuto mentre i suoi occhi parevano scrutare la prospettiva
migliore, o forse la luce. Poi vidi le sue mani alzarsi lente e accostare il mirino oculare al viso.
Osservai la direzione verso cui puntava l’obiettivo e nel vedere la macchina zoomare verso le finestre
della casa pensai che forse la sua scelta non era stata la più indovinata. Ma il sole, che spuntava da
dietro, oscurava parte della struttura e forse, pensai, quello che stava cercando era un tipo di effetto
ombra. Fu solo dopo aver sentito l’otturatore aprirsi e chiudersi in quel veloce clic che appresi con ciò
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che stava per dirmi, non senza meraviglia, che nel silenzio reverenziale con il quale aveva atteso di
individuare il punto fotografico da immortalare, non era stato in concentrazione visiva: -Se ascolti
bene, gli oggetti che ci circondano, di qualunque cosa siano fatti, ti parlano- disse muovendo alcuni
passi.
-Cosa?- gli domandai non certo di aver compreso bene. Si fermò, rivolse l’obiettivo verso un altro
punto e scattò di nuovo.
-Sono loro a chiamarti, sono loro a dirti dove osservare e poi, a darti il permesso di ritrarli-.
Provai un brivido. Per scattare le sue foto usava la vista solo per calcolare prospettive e luci, ma
utilizzava l’ascolto per trovare i soggetti, solo che non era un ascolto tradizionale.
-Stai scherzando?- gli dissi. Sentii un altro scatto, poi lo vidi dirigersi verso il retro e quando lo
raggiunsi lo vidi quasi in estasi davanti al fiume, con lo sguardo di chi incontra un amico dopo
lunghissimi anni. Uno sguardo che non aveva avuto per me.
-Non lo senti più vero?- disse allora, e io provai ancora quel brivido che avrei potuto definire di
timore se avessi voluto essere modesto. Ma quello che sentivo era puro terrore. Non risposi e restai in
attesa. Non so per quanto, sicuramente non pochi secondi e nemmeno minuti. Se avessi avuto un
orologio avrei potuto calcolare forse un quarto d’ora prima che le sue azioni tornassero al lavoro.
Scattò una foto del fiume calmo -è così che scatto le mie foto Tommaso- disse rispondendo alla
domanda precedente -ascoltando la voce dei soggetti e chiedendo loro il permesso di ritrarli. Loro mi
danno il consenso e mi mostrano la migliore prospettiva. A volte però sono contrari, non per ostilità,
ma per un’esigenza di rispetto- disse, e io ancora restai in silenzio.
Si girò e fotografò le pale lacerate disfatte e ferme del mulino con il canale artificiale dai rilievi
logorati dalla mancata manutenzione -e a volte sono loro a ringraziare per rispetto. Qui è esistita una
condizione di pace, di armonia, in cui la grande tristezza ha potuto trovare risposte a domande su una
realtà dall’apparenza incomprensibile. L’acqua che scorre ha condotto la sua voce e la sua saggezza
oltre le barriere dell’odio e dell’avversione perché l’anima che dimora qui aveva necessità di
comprendere-.
-L’anima che dimora qui?- dissi io spaventato, come se temessi veramente che in quell’edificio
esistesse un fantasma.
-L’anima di uno spirito Tommaso, uno spirito della natura che sussurra a tutti coloro che passano da
qui. A tutti coloro che possono ascoltare, anche se non sanno sentire, di quanto questo luogo sia stato
permeato di benevolenza, di comprensione e di saggezza, e di quanta pace e serenità sia ancora
possibile ricevere e riconoscere quaggiù se solo lo si sa intendere. Uno spirito che considera sia inutile
e ipocrita sprecare l’energia di questa condizione, ed è triste, perché nessuno di quanti passano nelle
vicinanze di questi luoghi riesce a comprendere la difficoltà che un uomo ha sopportato per rendere
tale regno tanto pacifico-.
Attese qualche istante, poi si avvicinò al fiume e si chinò ad accarezzare l’erba che cresceva sulle rive
-qui- riprese poi con un tono che di nuovo mi fece rabbrividire -si è combattuta una battaglia, dove
l’odio è stato sconfitto dalla comprensione. Qui si è svolta una ricerca dove la tristezza ha condotto
alla cognizione che la morte, per quanto tragica e triste, ha una sua logica ed un senso…-Un senso?- replicai con un accento di disapprovazione -e quale sarebbe? Sembra che tu voglia
elogiare la tristezza e la sofferenza Mage. Non sarai anche tu una di quelle persone che si cibano di
tormenti?- quasi non mi accorsi dell’ingiuria espressa nelle mie parole.
Lui si alzò e prese a camminare lungo le rive del fiume -come potresti dire che cosa sia la felicità se
non hai conosciuto la sofferenza? Credi che un uomo allegro, gioioso e spensierato possa dirti che
cosa sia la felicità? No, se vuoi conoscere cosa sia la felicità lo devi chiedere a chi ha sperimentato la
tristezza, il dolore, la sofferenza. Queste sono le persone che possono parlarti di felicità -.
Lui continuava a camminare e io continuavo a seguirlo -vuoi dire quindi che lo scopo della morte è
farti apprendere la felicità?-.
-Lo scopo della morte, se proprio vuoi cercarne uno, è farti comprendere la vita. Tu non ascolti
Tommaso-.
-E devi morire quindi per sapere che cos’è la vita?-
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-Devi morire- rispose -per comprendere di non aver vissuto Tommaso. Questo è il triste destino di
molte persone. La vita non esisterebbe senza la morte perché senza la morte la vita non sarebbe
nemmeno considerata. Come potresti sapere di essere vivo senza sapere di dover morire?-Questa è la cosa più assurda che abbia mai sentito Mage. La morte porta solo sofferenza, non c’è
nulla di buono nella morte-.
-Davvero? Eppure si sono viste scene di esultanza alla morte di un dittatore, e c’è pure chi gioisce
per la morte di una persona antipatica…-Il tuo è un subdolo inganno. Non è questo che intendevo…-Devi stare attento a ciò che dici, l’inganno è sempre in agguato e come vedi può insinuarti in
qualunque momento-.
-Va bene saccente presuntuoso- mi irritai -resta il fatto che comunque dittatori e carnefici sono
provocatori di sofferenze e dolori, sono anche loro indispensabili?-Sempre nello stesso presupposto di una conoscenza. Potresti desiderare la pace senza sapere che
cosa sia la guerra?-E non potrebbe esserci semplicemente la pace e basta?-Sì. Ma come potresti riconoscerla se non avessi avuto modo di confrontarla con qualcosa? Immagina
Tommaso, di essere nato in una dimensione dove esiste solo la luce e null’altro e quindi tutto ciò che tu
hai visto è sempre stato solo e semplicemente luce. Sapresti dire che cosa sia la luce?Per un momento mi sentii svuotato e come se realmente mi stessi staccando da ogni materiale
consistenza, mi parve di fluttuare in un vuoto inconsistente, dove nulla aveva senso, tranne il pensiero
che in quel vuoto non avevo percezione di alcunché, come se nulla di ciò che fluttuava in tale
dimensione avesse un significato e di nulla potessi avere conoscenza perché tale vuoto, non era
confrontabile con nulla. Non so quanto durò tale condizione, mi parvero solo pochi istanti, ma non
poté essere così perché quando la mia mente si riallacciò alla realtà mi trovavo in un posto che da
tanto tempo avevo cercato, seppure in maniera inconsapevole, di evitare, e la camminata che ci aveva
condotto fin lì non poteva essere durata pochi secondi.
-Allora Tommaso, cosa mi rispondi?- la sua domanda sembrava posta come se per lui quell’arco di
tempo ipnotico in cui io mi ero estraniato dal mondo non fosse esistito. Come se la sua concezione lo
avesse reso consapevole che io ero da un’altra parte con la mente e semplicemente, avesse atteso il
mio ritorno per lasciarmi esplorare quella realtà sonnambula di cui quasi non avevo avuto coscienza.
Ma ciò che riuscii a valutare io nell’immediato, era che mi trovavo in un luogo nel quale non avevo
presupposto saremmo stati e l’istintiva reazione fu legata al pensiero di non apprezzarlo.
-Che ci facciamo qui?- domandai come se lui potesse e dovesse spiegarmelo.
Mi guardò -sperimentiamo Tommaso- disse -sperimentiamo. La vita può essere tragica, ma se noi
abbiamo scelto di viverla vi è sicuramente una ragione- disse, e io mi irritai.
-Non ho più voglia di sentire le tue ideologie sull’infinito Mage. Dimmi che cosa ci facciamo qui- lo
aggredii. Lui girò lo sguardo nella direzione opposta e osservò il ponte sul fiume.
-Sei più stato sul ponte Tommamso?- mi chiese allora -lo hai mai attraversato?Cercai di controllare la mia irritazione perché la percepivo generata dalla paura. Il ponte mi aveva
ricondotto a memorie lontane e per un nesso ancora incompreso sentivo un’analogia tra quei ricordi e
la strana conversazione appena avuta. Ricordai soprattutto quando mi aveva parlato delle guerre
combattute nelle vicinanze del fiume e delle presenze bonarie e malvagie che si opponevano da un lato
e dall’altro.
-Possiedo tutta la terra circostante Mage. Certo che ci sono stato sull’altro lato del ponte- dissi con
arrogante orgoglio, ma per lui non fu difficile frantumarlo.
-Non ti ho chiesto se sei stato dall’altro lato, ti ho chiesto se hai mai attraversato il ponte- precisò, e
di nuovo provai un tormentoso senso di panico. Erano passati quasi quaranta anni da quando mi
aveva condotto la prima volta in quel luogo e solo adesso mi rendevo conto che quel ponte io, non lo
avevo mai attraversato. Ero stato sull’altra riva decine, forse centinaia di volte era vero, ma
raggiungendola sempre attraverso strade che non prevedessero l’attraversamento del fiume e in
particolare, di quel ponte. Lo vidi riprendere a scattare foto e muoversi in direzione del ponte.
-Aspetta Mage- cercai di fermarlo, ma lui non era tipo da obbedire a un ordine privo di un senso.
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-Vi sono diversi tipi di morte Tommaso, non solo quella fisica, e noi, sperimentiamo, semplicemente,
sperimentiamo- continuò invece a dire incurante della mia resa di fronte al passaggio -siamo anime
che cercano di comprendere cosa sia la pace e per questo creiamo la guerra. Ma tra la comprensione
e l’ignoranza, vi è un ponte da attraversare e solo l’accettare che nel fiume che vi scorre sotto
fluiscano tutte le conoscenze di cui necessitiamo può condurci al considerare che, solo dopo aver
compreso, il nostro desiderio può essere quello di non desiderare- si avviò sul ponte e si apprestò ad
attraversarlo.
-Aspetta Mage- cercai ancora di fermarlo, ma inutilmente.
-È la tua occasione Tommaso- gli sentii dire mentre si allontanava, e nel tempo che parve fermarsi
potei intuire molte cose: che il desiderare di non desiderare ciò cui ci si rifiutava di voler essere poteva
spiegarsi solo con la comprensione che, una volta intuito che cosa fosse il male, l’accettarlo non
significava approvarlo ma piuttosto il non volerlo sperimentare ne praticarlo; che la morte era parte
della vita, ma che la vita era comunque più potente perché ovunque la vita continuava a sussistere, se
fosse stato il contrario, nulla sarebbe esistito; che la morte stessa quindi, era un’alleata della vita e
che il comprenderlo poteva rendere più accettabile la perdita e che spesso, era proprio per questo che
capitava di perdere qualcosa o qualcuno: per rendersi conto del privilegio cui eravamo beneficiari per
poter, con tale comprensione, realizzare al meglio il nostro dono di esistere e non dover alla fine dei
nostri giorni considerare di aver vissuto inutilmente. Ma compresi anche che forse vi era un'altra
realtà che si celava nelle parole da lui stesso espresse, e che fossimo veramente noi a decidere di
sperimentare la vita e che, di conseguenza, la nostra esistenza non fosse frutto di un caso; compresi
che questa esperienza, se così doveva essere, era una nostra scelta perché avevamo deciso di imparare
qualcosa, seppure ancora mi era oscuro a quale scopo. Ma tra tutte queste intuizioni, in quell’attimo di
tempo fermo, compresi pure che solo attraversando quel ponte potevo vincere i miei timori e che solo
seguendolo forse avrei potuto capire come fermarlo, perché ciò che lui voleva era che attraversassi il
ponte. Solo allora avrebbe accettato di darmi un’opportunità. Ma quando il tempo riprese a scorrere
lui era già sulla riva opposta e proseguiva il cammino mentre un dubbio troppo atroce riconduceva il
mio pensiero nel rifugio mentale nel quale non era accettabile ammettere quanto avevo percepito in
quei brevi istanti come realtà, e con quel tormentato istinto annientatore, la paura mi fece
comprendere che quel ponte, non lo avrei attraversato…
Guardai Felona con aria insoddisfatta.
-Deluso?- mi domandò allora lei.
-Mi aspettavo di scoprire che cosa avesse fatto in quel giardino- ammisi.
-Quindi non hai seguito questo capitolo?- si preoccupò.
-No, al contrario, l’ho seguito eccome, e devo dire che un po’, almeno all’inizio, mi ha commosso, poi
mi ha spaventato. Tuttavia restavo legato al capitolo precedente, mi aspettavo che succedesse qualcosa
che ci avrebbe ricondotti a quel giardino, in modo da capire quale fosse la giusta domanda-.
-Credo che non vi sia una giusta domanda, penso che vi siano molte domande e che tutte portino
semplicemente alla risposta che noi desideriamo, che non sarà necessariamente quella giusta. In questo
momento però, mi piacerebbe capire qualcosa di più sulle tue sensazioni, hai detto di esserti
emozionato e poi di aver avuto timore, perché?-Non mi stai psicanalizzando vero?-Lo faccio in ogni momento se è proprio questo che vuoi sapere, quindi non chiederlo più e se la cosa
non ti va a genio, puoi proseguire da solo- si indignò.
-No, va bene, scusami, io stavo scherzando. È ovvio, siamo due professionisti che non riescono a
dividere il piacere dal lavoro ed è comprensibile…-Allora? Vuoi temporeggiare o preferisci proseguire?- si spazientì mentre io non potevo cancellare il
mio imbarazzo.
-Va bene, va bene, non ti innervosire- riflettei cercando di prendere tempo -è che continua a tornarmi
la sensazione che tu sembri precederlo ogni tanto- ammisi.
Lei mi guardò sorpresa, non so se dallo stupore per non averlo notato o se per quello che poteva
sembrare un complimento di perspicacia -che cosa intendi?-.
-Hai accennato solo questa mattina al detto sull’ignoranza, ed ecco che questo lo introduce nel
successivo passaggio. Tommaso non vuole sapere che cosa sia avvenuto in quel giardino e lo giustifica
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proprio attraverso l’ignoranza, in modo da far comprendere che il non sapere spesso semplifica le cose.
Ma lui certe cose già le conosce, la sua ignoranza è precisamente solo un ignorare, un fingere di non
sapere. Poi sembra sfidare il destino e la sua sfida alla fine gli si ritorce contro. La storia del vecchio
mulino è triste, ma la presunta presenza degli spiriti la rende un po’ lugubre… e per finire c’è quel
ponte che ogni tanto ritorna. Il fatto è che è molto confuso e non capisco il perché di questo passaggio.
Voglio dire, l’autore ci racconta una vicenda ma non la conclude lasciandola in sospeso, e poi passa
oltre raccontando qualcosa che sembra non avere alcun collegamento…-E così non riesci a vederne il nesso?-No, proprio mi confonde- risposi, ma non evitai di notare quasi un distacco in lei, come se ancora
stesse in parte pensando a ciò che le avevo fatto notare io poco prima.
-Eppure ancora una volta ti rispondi da solo, dovresti ascoltare di più ciò che dici- si affrettò a riferire
dopo un attimo di esitazione .
La guardai con inevitabile smarrimento -non capisco- ammisi.
-Lo hai detto tu stesso: non capisci il perché di questo passaggio e poi aggiungi che lascia tutto in
sospeso. Ebbene, il ponte ha una chiara connotazione simbolica, rappresenta il collegamento tra una
riva e l’altra e un ponte è sempre sospeso. È un passaggio, e in quasi tutte le tradizioni i ponti che
rappresentano collegamenti di tipo spirituale, sono definiti ponti spada, che si assottigliano sempre più
divenendo sottili fili taglienti. Rappresentano le difficoltà e la necessità di affrontare prove pericolose.
Il ponte rappresenta una tradizione fra due stati interiori in conflitto, tuttavia è necessario attraversarlo.
Eluderlo, come ha fatto Tommaso fino a ora, non risolve nulla…-Quindi questo capitolo altro non è che una riva opposta? Scoprire che cosa ha fatto in quel giardino
dipende dal capire il senso di questo intermezzo?-Credo che il giardino ci svelerà molte cose, ma evidentemente prima di raggiungerlo bisogna
comprendere altre condizioni, percorrere altre vie-.
-Una via che passa sopra un ponte, e sotto il quale scorre un fiume… e il fiume rappresenta la vita che
scorre, giusto?-Il fiume rappresenta molte cose, lo scorrere dell’acqua può rappresentare il procedere delle forme,
della fertilità, della morte e del rinnovamento. Si può considerare la discesa delle acque verso l’oceano,
la risalita della corrente e anche, la traversata da una riva all’altra. Direi che quest’ultima concezione è
quella più attinente al nostro caso e la traversata corrisponde al superamento di un ostacolo che separa
due ambiti. Tommaso non riesce ad attraversare il ponte, e tutto ciò che sta apprendendo da Demetrio a
mio avviso, non sono altro che nozioni, o protezioni se le vogliamo vedere in questo modo, per
attraversare il ponte-.
-Protezioni?- domandai sempre più confuso.
-Esistono tradizioni iniziatiche che fanno uso dei sogni per giungere a determinate consapevolezze,
ma i sogni sono pericolosi-.
Sorrisi -vedi che faccio bene a non sognare?- tornai a ironizzare.
Lei non si lasciò influenzare dalla mia scortesia e proseguì -sognare è una pratica naturale e quando
questo avviene non si corre nessun rischio perché si resta in una sfera personale, protetta. Ma quando il
sogno è indotto e quindi si compie un viaggio forzato, secondo queste tradizioni, si fa irruzione in una
dimensione proibita nella quale non si potrebbe entrare. È come se si possedessero le chiavi di un
palazzo proibito al pubblico. Chiunque si introduce in questo palazzo è soggetto alle misure di
sicurezza di tale ambiente e necessita di protezione per poter proseguire. Oppure come quando si
viaggia in uno stato straniero, per passare la frontiera hai bisogno di un passaporto, poi necessiti di una
guida e di qualcuno che garantisca per te se devi fare determinati affari. Ecco, è così che funziona, se
non possiedi questi requisiti, sei a rischio di ogni legge di quel luogo-.
-E il passaporto, la guida e i garanti li devi avere prima di partire giusto?-Esatto-.
-Quindi Demetrio gli sta offrendo queste garanzie?-È una possibilità- osservò l’orologio -è ora, il castello sta per aprire, andiamo a visitarlo?Restai un po’ incerto, tutte quelle novità che io mai avevo considerato cominciavano a prendere in me
una certa attrazione, ma come succedeva con lo scritto, cominciavo a pensare che ogni cosa richiedeva
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dei tempi per essere ben compresa, rinunciai quindi a insistere per avere altri dettagli e accettai di
optare per la visita.
Giunti al castello fummo accolti da una giovane commessa che ci osservò stupita quando la
informammo che eravamo interessati alla visita. Disse di attendere un attimo e si allontanò, la
sentimmo quindi discutere con quella che doveva essere la responsabile.
Dopo un po’ tornò -scusate- ci disse -ma non siamo preparati a ricevere visitatori nei giorni feriali-.
-Davvero?- domandò Felona apparentemente interessata -eppure la guida dice che si tratta di una
località piuttosto frequentata dal turismo- sventolò il piccolo opuscolo che aveva preso all’entrata.
La giovane commessa bionda sorrise imbarazzata -sì infatti. La nuova giunta comunale ha puntato
molto sul turismo e ci stiamo impegnando parecchio, ma ancora non siamo a livelli professionali. Nei
giorni festivi abbiamo diverse comitive, l’assessorato alla cultura è riuscito a prendere accordi con
l’ufficio del turismo della città e alcuni operatori turistici hanno inserito le fonti di interessi di questa
zona tra le loro attrattive. Quelle che arrivano per il momento sono comitive organizzate di stranieri in
visita alla città. Sono pochi ancora i turisti fai da te, specie nei giorni feriali come dicevo- spiegò, poi ci
invitò a seguirla e con orgoglio cominciò a descriverci il maniero, dalla storia alla struttura ai reperti
che erano situati nelle varie sale.
-La torre di sinistra, recentemente ristrutturata è sicuramente la parte più importante- ci disse
guidandoci verso le scale che la salivano -da sopra si può osservare quasi tutto il centro e avere una
visuale del territorio circostante- ci informò, e una volta giunti sul terrazzo del torrione restammo
piacevolmente meravigliati da un panorama che non avremmo immaginato. Valbordi era situato in una
specie di conca e dal basso non si sarebbe detto che la valle che lo circondava fosse così entusiasmante.
Oltre il piccolo centro storico e le abitazioni circostanti, si poteva osservare una distesa di campi
coltivati, ma anche una serie di boschi e prati dove, tra uno scorcio e l’altro si poteva osservare lo
scorrere di quello che si poteva definire un fiume.
-Meraviglioso- commentò Felona -quello è un fiume?-Sì- rispose la ragazza -non è un fiume importante, ma si raccontano leggende su di esso-.
-Davvero? Che tipo di leggende?- si interessò Felona, e anch’io cominciai a sentirmi attratto.
-Beh, ce n’è una in particolare che riguarda una creatura mitologica, che racconta di una guerriera
invincibile perché si diceva essere una semidea, figlia di una divinità. La storia ce la consegna come
una combattente di natura nordica durante il periodo delle invasioni avvenute nel medioevo, di essa si
racconta che era una condottiera e che il suo esercito era imbattibile. Probabilmente la storia
tramandata oralmente ha contribuito e elevarne il prestigio e poi il folklore locale l’ha trasformata in
una sorta di eroe mitologico-.
-Chi è la protagonista di questa leggenda? Io sono molto attratta dalla mitologia- non so se Felona era
sincera o cercasse solo di scoprire qualcosa, ma propendevo più per la sua leale sincerità, sembrava
proprio interessata alla leggenda.
-Era chiamata Marantega- svelò allora la giovane -si diceva che fosse una creatura acquatica, figlia di
Reititia, una dea pagana dell’antica civiltà veneta, e che non fosse una vera guerriera ma piuttosto una
protettrice della natura…- non nascondo lo stupore che entrambi provammo a quella prima descrizione.
Io ricordai di come nei primi capitoli del documento ci fossero stati degli accenni a questo nome:
“Marantega”, seppure descritto come uno spirito delle natura, ma il collegamento era chiaro, perché la
ragazza stessa l’aveva definita una protettrice della natura e se lo avevo notato io, di certo non poteva
non averlo fatto Felona.
-Lei offriva i suoi servigi a chi rispettava la natura, combatteva per la protezione della natura e quindi,
secondo la leggenda privilegiava gli eserciti i cui condottieri avevano un occhio di riguardo per il
territorio. La statua che sta al centro della piazza la rappresenta perché è divenuta il simbolo del paese.
È stata prodotta da un artista locale e il progetto prevede che attorno venga costruita una fontana per
suggellare la sua appartenenza al regno acquatico, un po’ come nelle grandi città d’arte. Si racconta che
Marantega fu tradita da uno dei condottieri per cui combatté e che restò vittima della sua stessa
vendetta…Io e Felona ci osservammo increduli di sentire così tanti collegamenti con la nostra vicenda in quel
racconto -come si chiama il fiume?- domandò poi improvvisamente Felona interrompendo la ragazza
nel momento in cui sembrava entusiasmarsi di più.
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-Quello?- sembrò incerta sulla risposta -si chiama Tregnon…Lo avevamo trovato.
-Ma è un fiume minore, sebbene il suo ruolo nella leggenda sia di fondamentale importanza. I racconti
folcloristici lo hanno designato come dimora della Marantega e attorno alle sue rive, in alcuni tratti
almeno, il progetto dell’ente ambientale prevede siano costruiti dei parchi naturalistici…-E il mulino?- la interruppe di nuovo Felona, e la ragazza a questo punto la guardò con sospetto.
-C’è un progetto sul mulino, ma lei come fa a sapere della presenza di un mulino? Non è ancora stato
inserito nell’opuscolo- domandò. Felona dovette intuire il suo azzardo e cercò, con successo devo dire,
di rimediare.
-Avevo uno zio che abitava da queste parti e siccome io scrivo su un giornale, quando ho saputo del
tentativo di rilanciare turisticamente questa zona ho pensato di venire a vedere. Pensavo che il mulino
fosse compreso tra le attrazioni…La ragazza parve rianimarsi al sentir dire che la sua visitatrice era una giornalista, e ogni suo sospetto
e reticenza svanì -lungo le rive del fiume c’è un mulino è vero, ma a dire il vero è fuori dei confini di
Valbordi, anche se sta sempre nel suo territorio, è nella frazione di Casterba e c’è un progetto per
ristrutturarlo e renderlo un ristorante dove proporre piatti tipici…-Casterba?- lo esclamammo assieme e lo stupore della giovane fu decisamente evidente.
-Sì- disse un po’ riluttante. Felona, più svelta di me a riprendere le redini della situazione rimediò
abilmente a quell’impulso simultaneo che avrebbe generato sospetti perfino nel più ingenuo dei custodi
di castelli.
-Qui non si fa accenno a nessun Casterba, e nemmeno sembra segnato sulle cartine geograficheobiettò.
La ragazza non nascose un leggero impaccio -sì, la storia di quel paese è un po’ complicata. Non lo si
può più definire un paese ormai perché è una sorta di borgo disabitato. Lì la giunta comunale ha
difficoltà a intervenire perché tutte le terre sono di proprietà di una grande multinazionale agricola,
tuttavia si è recuperata la chiesa del quindicesimo secolo sulla quale si stanno facendo studi dei suoi
affreschi, poi c’è il mulino e in fine, la parte più complessa, la ristrutturazione del vecchio parco giochi
proprio sulle rive del fiume…A quelle parole entrambi osservammo la giovane guida come se di fronte a noi ci fosse veramente la
Marantega.
-Perché il paese è stato abbandonato?- domandò Felona.
La giovane abbassò gli occhi come se quella di Casterba fosse una ferita che non si voleva
commentare.
-Beh, riguardo la leggenda e il folklore locale, gli anziani di un tempo solevano spaventare i bambini
raccontando che Marantega era una specie di strega che viveva tra le acque del fiume e nei pozzi.
Facevano questo perché volevano intimidire i bambini in modo che stessero lontani dalle zone di
pericolo, ed era una soluzione efficace. Poi, col tempo queste condizioni mutarono, i ragazzini non
subivano più certe influenze e così un imprenditore fece costruire un parco per le famiglie e lo intitolò
alla Marantega, a quel punto la figura mitologica venne mutata in protettrice. Per far sì che i bambini
frequentassero il parco con le famiglie, veniva raccontato che la Marantega proteggeva le acque e che il
parco era sicuro perché lei vegliava sui suoi ospiti. Questo avveniva sempre per fare in modo che i
bambini giocassero nel parco e non si allontanassero, era un sistema per averli sotto controllo e una
speranza per assicurare un futuro al paese. Il desiderio dell’imprenditore era che Casterba non venisse
dimenticato e attraverso il ricordo delle tradizione indurre i giovani a non desiderare trasferirsi in altre
località. Ma tragicamente, fu proprio questa nobile iniziativa a generare la sorte avversa, come se il
destino cui si cerca di fuggire finisca per essere incontrato proprio sulla via per evitarlo…- provai un
brivido perché per un momento mi sembrò di trovarmi di fronte non ad una giovane guida inesperta,
ma piuttosto, un’anziana saggia spuntata da un’illusione allucinogena di un tempo passato… -e una
volta, un ragazzino più spavaldo degli altri si allontanò dalla zona protetta sotto la sfida di non temere
le altre aree del fiume esterne al parco, forte della convinzione che ad ogni modo, in quello stesso
fiume non vi erano pericoli. Ma vi è un luogo lungo il fiume in cui la conformazione geologica lo rende
quasi, seppure per un breve tratto di non più di una trentina di metri, simile ad un torrente di montagna
dove si formano piccole cascate e la corrente sembra farsi turbolenta. Questo ragazzino si avvicinò a
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quel punto e per dimostrare il suo coraggio ai coetanei, nel tentativo di attraversare sui sassi scivolosi
finì per cadere nell’acqua. Il panico fece il resto e il piccolo annegò. La tragedia sembrò gettare sul
paese una specie di maledizione, anche perché gli altri bambini cominciarono a raccontare di aver visto
una creatura afferrarlo e tirarlo giù. Quando il corpo del ragazzino fu tirato fuori dall’acqua vi erano
rami spezzati aggrovigliati attorno alle sue gambe. Rami secchi che dovevano essere caduti nel fiume
dagli alberi del bosco vicino e che probabilmente causarono un senso di allucinazione nei compagni
che li indusse a credere che quei rami fossero gli artigli della Marantega, e così un po’ alla volta il
parco cominciò ad essere abbandonato giacché i bambini cominciarono a temerlo. Successivamente
l’imprenditore che aveva costruito il parco cedette tutte i suoi possedimenti alla multinazionale e
l’avvento delle tecnologie industriali rese la manodopera quasi totalmente superflua riducendo la forza
lavoro di una percentuale drastica, così con il decadimento della risorsa lavorativa più grande che era
appunto l’agricoltura, scomparve gran parte delle risorse occupazionali. I giovani cominciarono ad
abbandonare il paese mentre i vecchi si trasferivano con loro o finivano in qualche casa di riposo, o a
riposare nei cimiteri… quindi la grande industria un po’ alla volta si impossessò di tutto e ora ciò che
resta del paese sono pochi ruderi, un cimitero quasi abbandonato e qualche piccola risorsa che si sta
cercando di recuperare- concluse la triste storia.
Felona attese in reverenziale rispetto, poi domandò -è lontano questo paese fantasma?Scoprimmo che distava poco più di cinque chilometri in direzione sud e subito pensammo che
dovevamo andarci, ovvero, io lo pensai, Felona, preferì attendere. Così rientrammo all’hotel e dopo una
doccia e prima di pranzo, nella camera di Felona, mi accomodai per sentire leggere:
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Il battito di un cuore lontano…
…Tornando a casa ebbi come l’impressione di essere un giocatore di scacchi la cui scacchiera aveva
come caselle nere il passato e bianche il futuro, racchiuse da una cornice di legno che, come quel
ponte, rappresentava un’esile presente. Su questa scacchiera non vi erano molte pedine, o almeno non
ve ne erano molte nella partita che stavo giocando io. L’unica cosa certa era che a condurre il gioco,
non ero io. Forse avevo fatto le mosse sbagliate e forse era giunto il tempo di cambiare gioco. Non mi
restava molto tempo, con Demetrio avevo già sprecato due giorni senza concludere niente se non
lasciarmi trascinare ulteriormente in contesti dai quali mi ero staccato da troppo tempo e nei quali
non volevo essere ricondotto, così, intuendo che non sarei riuscito ad allontanarlo dal suo intento,
decisi di dirottare le mie attenzioni sulla controparte in causa.
La chiamai la sera stessa, giacché essendo la sua mente meno complessa, farla ragionare sarebbe
stato più facile e forse sarei riuscito a convincerla dell’assurdità del loro progetto. Forse sarei riuscito
a convincerla della non nobiltà dei principi di colui che era tornato a corteggiarla.
Non riconoscevo quale fosse la ragione della mia insistenza, ma era come se percepissi che dallo
svolgersi degli eventi di quei giorni, sarebbe dipeso il mio futuro, seppure continuassi a credere che
era per il bene di altrui persone che lo facevo.
-Ho bisogno di parlarti- le dissi senza nascondere la mia ansia. Lei mi invitò a casa sua, ma non
potevo affrontarla davanti alla famiglia, così la esortai a prendere qualcosa fuori. Ovviamente non
potevo sperare che un appuntamento così improvviso non mancasse di imprevisti e giustamente lei, per
ovvi motivi che non starò a spiegare, rimandò all’indomani. Mi fu difficile accettare che quel ritardo
limitava sempre più i tempi, ma ero fiducioso che lei fosse molto più comprensiva e malleabile di
Demetrio. Così disertai l’escursione fotografica del venerdì e attesi il pomeriggio, quando dopo la fine
della giornata lavorativa Virginia mi avrebbe atteso per quel drink. Non ci incontrammo al bar del
paese, troppa indiscrezione a Casterba. Eravamo seduti al Book, una specie di circolo alla periferia
della città. Una sorta di pub letterario dove spesso venivano organizzate serate culturali e dove
l’atmosfera era accogliente e tranquilla.
Parlammo un po’ di noi, ma non passò molto tempo perchè il dialogo si indirizzasse all’argomento
per cui l’avevo invitata. Dopo un po’, infatti, senza tanti giri di parole, lei stessa mi invitò a esprimere
ciò per cui avevo apprensione. Cercai di introdurre l’argomento e i miei relativi dubbi con discrezione,
ma mi accorsi dall’espressione delusa di lei quanto l’indiscrezione fosse superflua.
-Mi sembra di trovarmi a una sera di più di vent’anni fa Tommaso, solo che al posto tuo c’era luidisse -con lo stesso imbarazzo e con una risposta da dare che sapevo bene quale fosse ma che mi
costava una gran fatica. Fosti proprio tu a mettermi in quella condizione ricordi?- sorrise.
Io non potei evitare di fare lo stesso -eravamo dei ragazzi allora, tu avevi solo diciassette anni. Le
cose sono cambiate te ne rendi conto vero?Con uno sguardo rivelatore mi fissò indignata -oh certo che me ne rendo conto. Sono cambiate molte
cose Tom, e tutte sono andate nel modo inverso a come le avevamo previste- parlò al plurale, come se
intendesse coinvolgere anche me in quel suo ricordare, e forse era proprio questa la sua intenzione,
solo che io non compresi se voleva rendermi responsabile con l’intenzione di farmi notare che pure io
non avevo esattamente avuto ciò che speravo, o se la mia complicità era relativa solo a quel
particolare periodo della nostra vita. Optai per la seconda alternativa perché in realtà io non credevo
che la mia vita fosse un fallimento.
-La mia vita non è stata come l’avevo immaginata. Ho rinunciato a molte cose. Dovrei dire di essere
felice è vero, ho un lavoro, una famiglia, una figlia adorabile… eppure è come se non avessi nulla. È
tutta qui la vita Tom?La domanda mi spiazzò perché non so in quante occasioni io stesso mi fossi posto la medesima
questione e nemmeno so quale sia stato il momento in cui tale concetto fosse sorto. Forse è un po’
come il sonno che ti coglie nell’istante in cui non lo puoi concepire. Così come nessuno può dire quale
sia il momento in cui si passa dalla veglia al sonno, allo stesso modo nessuno probabilmente
percepisce quale sia il momento in cui la vita passa dall’entusiasmo alla noia. Ma il mio silenzio fu
piuttosto rivelatore perché ormai io dalla vita non mi aspettavo altro e l’unica risposta che potevo dare
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era che sì, la vita era tutta qui. Ma io non avevo molto su cui recriminare data la circostanza che in
fondo mi costringeva a condividere l’opinione di chiunque mi conoscesse che ero nato fortunato e che
non avevo mai dovuto realmente affrontare problemi dai quali non avrei potuto uscirne senza una
soluzione, vista la mia posizione privilegiata, e da questo silenzio lei dovette percepire una sorta di
tradimento. Forse si aspettava che io le dicessi che non era così, che nella vita vi erano molte altre
cose oltre l’avventura e la notorietà, ma non avevo colto quel momento in cui si dovrebbe comprendere
che a volte mentire è più utile della verità, e in quella nota di desolante ammissione silenziosa, ella
ebbe il pretesto per fare le sue rivelazioni.
-Lui mi ama ancora Tom- disse con fermezza, e io percepii come se la terra sotto i piedi si
sgretolasse privandomi della solida stabilità su cui sempre mi ero appoggiato.
-Come fai a dirlo?-Gliel’ho letto negli occhi- rispose con la più classica delle sentenze.
Non riuscii a trattenere uno sbuffo ironico -andiamo Virginia, queste sono frasi da telenovela. Sono
passati ventiquattro anni da quella sera. Le persone cambiano, io sono cambiato, tu sei cambiata, e
anche lui è cambiato. Lui ti odiava quando se ne è andato- marcai su quelle parole, come se volessi
convincere più me stesso che lei, ma non potevo dimenticare come gli occhi di Demetrio fossero diversi
a quel tempo.
-Perché mi fai questo Tom?- la vidi quasi piangere -se n’è andò perchè non poteva sopportare di
starmi vicino senza avermi, e tu lo sai bene. Ero io che lo odiavo. Ma l’odio non è mai stato un
sentimento che avrei potuto pensare di coltivare nel mio essere, eppure riuscii a generarlo. Solo dopo
ho compreso che non odiavo lui, ma voi-.
La fissai sorpreso -io? E cosa c’entro io- replicai non accettando l’accusa.
-Fosti tu l’artefice della rivelazione Tom, e conseguentemente l’artefice di tutte le dicerie e le
malelingue che ne seguirono. Fu un periodo stressante per me. Era lui l’oggetto di scherno dei nostri
compaesani è vero, ma io ero l’oggetto di collegamento per la loro perfidia. Nel perverso desiderio di
volerlo umiliare io ero divenuta la leva su cui fare perno e con lui stavo per finire nel bersaglio del
crudele disprezzo. Se non l’avessi allontanato da me, sarei rimasta per sempre associata a lui e a tutto
ciò che lui rappresentava per Casterba a quel tempo. Io ero immatura e sciocca, ma non riuscivo ad
accettare di rischiare di divenire oggetto di derisione, non a quel tempo-.
Ripensai al suo cambiamento improvviso e compresi come inevitabilmente, non potevo sottrarmi alla
responsabilità di aver avuto un ruolo determinante in tale metamorfosi.
-Fu allora che iniziai a conoscere l’odio e le sue varie sfumature. A quell’età si crede di essere adulti,
ma si è ancora bambini e la cattiveria che ancora si esprime è la stessa che un bambino manifesta per
cercare di apparire più grande. Noi eravamo così, e ogni espediente è favorevole in quelle circostanze
per vincere una battaglia. Io presi una decisione: non volevo essere l’esclusa e per far questo dovevo
liberarmi di lui e rendermi attraente agli occhi di tutto il resto-. Abbassò lo sguardo lasciando
intendere quanto male le faceva ricordare.
-Avrei dovuto cercare di conoscerlo meglio, dargli un’opportunità, fregarmene di ciò che si diceva
intorno a noi, ma non ebbi la forza per farlo, e il destino mi ha punita-.
Il destino, ancora lui si stava intromettendo tra me e la mia missione. Era una parola che tornava
troppo spesso in questi giorni e cominciavo a detestarla, imponendomi di non volerla considerare
come l’inevitabile segno che solo i più sensibili possono intendere come circostanza.
-Avremmo dovuto conoscerlo meglio entrambi- risposi allora intenzionato a non lasciarmi penetrare
dall’angoscia -ma forse solo per comprendere che il lasciarlo andare via era la cosa migliore- cercai
di intromettere la mia subdola velleità mirata a sconsacrare e rendere angusta la vera personalità di
Demetrio, in modo da renderlo meno affascinante di quanto appariva ora ai suoi occhi. Lei mi fissò
quasi disgustata.
-Cosa vorresti dire? Tu lo veneravi, lo consideravi l’alternativa alla noia, un’isola della mente su cui
fuggire… era questo che mi dicevi di lui: poteva condurti dove tu non osavi spingere l’immaginazione,
ricordi?-.
Era vero, le avevo detto questo e per un istante non seppi come reagire per abbattere quella
rappresentazione di lui.
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-Sì, è vero. Ma ero un ragazzo sognante. Allora vedevo il mondo come uno spazio senza confini e
Casterba mi spaventava. Il futuro mi spaventava…- inorridendo mi sentii aggredito dalle mie stesse
parole, e non osai continuare per il timore di comprendere che stavo rivelando qualcosa a me stesso.
Così, fu solo con il pensiero che proseguì la mia frase “pensare di restare confinato a Casterba mi
terrorizzava. Avevo tutto un mondo davanti, una vita e un universo che mi attendevano… lui mi
permetteva di fuggire da questo terrore… ma se lo avessi assecondato che cosa ne sarebbe stato di
me? Il confine di Casterba mi terrorizzava solo perchè sapevo che questo era il mio posto e ancora non
sapevo come affrontarlo o meglio, come accettarlo…” non lo espressi, ma nei miei occhi tale
comprensione e manifestazione fu evidente, e lei la percepì nella sua totalità.
-E non pensi che la stessa paura e gli stessi timori potevo percepirli anch’io? Che cosa abbiamo
risolto Tom? Guarda ciò che siamo diventati. Tu sei l’ombra di tuo padre e io una triste illusa, moglie
di un marito che rimane legato a questo fallimento di matrimonio per dovere verso sua figlia, non
certo verso me. Siamo il fantasma di un passato fatto di sogni, realizzati solo agli occhi di chi ci vuole
così. Ci siamo ribellati per orgoglio Tom, ma a che cosa? La nostra disubbidienza ci si è ritorta contro
e ora la vogliamo giustificare con un’integrità morale di cui siamo vittime. Credi veramente che sia
questo ciò che volevamo dalla nostra vita?La guardai, ma non potevo cedere a quel momento di sconforto. Lei non capiva che la realtà non
consisteva nella visione di Demetrio.
-Io credo di sì Virginia. La realtà è fatta di solide certezze e non di teoriche illusioni-.
Di nuovo le vidi quello sguardo accusatore -le teoriche illusioni hanno condotto Demetrio lontano,
mentre noi siamo ancora qui, nei nostri confini- mi disse e un’intuizione mi diede la possibilità di
pensare di aver trovato la via giusta.
-Le illusioni di Demetrio lo hanno condotto lontano perché lui ha rifiutato ogni responsabilità
Virginia, non dimenticarlo. Ha abbandonato tutto, non si è preoccupato di nessuno, non è nemmeno
tornato al funerale di suo padre- mi sentii meschino dopo aver ascoltato e creduto alle giustificazioni
che Demetrio, perché si fidava di me, mi aveva confidenzialmente rivelato, ma dovevo giocare tutte le
mie carte.
-Credi che avrebbe potuto realizzare le stesse cose se si fosse preso qualche responsabilità? Se avesse
dovuto provvedere alle esigenze di qualcuno e prendersi cura di una famiglia? Come credi che sarebbe
andata a finire tra voi due, pensi che sarebbe riuscito a rinunciare al suo mondo per te?- pensai di
aver colpito i suoi sentimenti e aperto una breccia nelle sue convinzioni, ma ancora mi sbagliavo.
-Forse non avrebbe realizzato parte dei suoi sogni, ma magari avrebbe realizzato parte dei miei non
credi? L’amore del resto non è questo? Rinunciare a qualcosa per qualcuno-.
-E’ ridicolo, e tu come ti saresti sentita a vederlo confinato in un perimetro a causa tua?-La rinuncia deve essere reciproca Tom. Tu sei convinto che avrebbe dovuto essere lui a rinunciare ai
suoi sogni e non consideri che avrei potuto essere io invece disposta a rinunciare ai miei? Tu non lo
credi possibile perché ritieni che questa illusione di benessere sia corretta, ne devi essere convinto
altrimenti rischieresti di intromettere dubbi nella tua realtà che ritieni ancora un valore cui non puoi
rinunciare e non capisci di esserne invece schiavo. Così mi vuoi convincere che non sarei riuscita a
condividere i suoi sogni, gli stessi che tu mi hai sottratto e che ora vuoi impedirmi di realizzare, ma
solo perché tu ne hai paura-.
-Paura?- quasi balbettai -ma che stai dicendo? Sembri quasi delirare. Io non ho nessun sogno da
realizzare… ho tutto ciò che desidero…- ma nella mia incapacità di reagire con fermezza alle sue
rivelatrici parole, che ancora non volevo accettare, la vidi sorridere nostalgicamente.
-No Tom. Tu non hai realizzato niente perché i tuoi sogni li hai buttati via, certo che non fossero loro
a farti vivere, e ora temi che se io non posso più condividere la tua stessa realtà perché quella di
Demetrio mi appare migliore, si possa spezzare quell’instabile equilibrio che hai creato dentro te
stesso. Io ti servo così perché tu sei come ogni altra persona di questo vile posto: hai bisogno che tutti
siano così come sono per non dover mettere in discussione ciò che tu stesso sei: uno di loro-.
Concluse con un’amarezza che mi lasciò senza parole e l’unica cosa che riuscii ad aggiungere fu
una specie di supplica -non andare con lui domenica-.
Mi guardò sorpresa che io sapessi del suo appuntamento e intuì, di conseguenza, che già avevo
cercato di dissuadere lui.
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-Perché, perché insisti tanto Tommaso? In fondo è la mia vita. Vent’anni fa ti sei intromesso e oggi lo
fai di nuovo. Cos’è che ti spinge a pensare che cosa sia meglio per me?Era il bivio, quello che vedevo nel sogno e come nel sogno, non sapevo né come vi ero arrivato, né
quale strada prendere. Non sapevo affatto perché lo stavo facendo, ma sentivo un irresistibile bisogno
di insistere.
-Siamo amici Virginia, ti chiedo di riflettere. Demetrio è ora un uomo affascinante, è facile farsi
attrarre da lui oggi, ma sei certa che lui sia la soluzione a quelli che tu consideri i tuoi problemi? Non
ci pensi alla tua famiglia, a Massimo, a Nausica, loro che cosa c’entrano, come reagiranno?Mi guardò silenziosa e in lei parvero scorrere infiniti pensieri.
-Massimo- sospirò delusa -amava la mia immagine e quando la donna fatale che ero divenuta tornò
ad essere la donna semplice che sono sempre stata, ha cercato quell’immagine altrove. Avrei dovuto
continuare a fingere di essere ciò che non sono perché lui mi restasse fedele. Ma quanto sarebbe
durata? Uno come lui non resiste al richiamo dell’istinto. Tu non lo conosci come lo conosco io. Ha
cominciato a tradirmi dopo pochi mesi che eravamo sposati e ancora mi domando come sono riuscita
a sopportarlo… forse per quella debolezza che a volte costringe noi donne a sentire comunque
l’esigenza di avere qualcuno vicino per quell’istinto più animale che umano in cui la femmina ricerca
la protezione del maschio… o forse solo per rispettare quell’immagine che gli altri vogliono vedere di
te mostrando che tutto va bene…- fece una pausa e io quasi mi lasciai coinvolgere dal dramma di
quella tristezza.
-Ma da quando c’è Nausica le cose sono cambiate- dissi. Vidi il suo volto illuminarsi, ma di una luce
fredda perché Nausica era tutto ciò che ancora le faceva credere che la vita non era un tormento e
sorridendo parve condurre il suo sguardo altrove.
-Sai Tom- riprese allora con voce calma e suadente -una notte d’estate di qualche anno fa, Nausica è
venuta in camera mia, così come fanno i bambini quando fanno brutti sogni, ti è mai capitato con tuo
figlio?Sorrisi -sì certo- dissi, poi lei proseguì.
-Si avvicinò e io le domandai che cosa succedeva. Lei mi fece una domanda strana. Non aveva fatto
brutti sogni, mi domandò se anch’io sentivo la voce della notte…Un brivido mi trapassò il corpo intero e la voce di Virginia quasi si dissolse come un eco lontano, e al
suo posto percepii quella di Demetrio…
“…È un suono che sembra un’eco che pare allontanarsi e poi ritorna, sembra un battito, un battito di
cuore lontano. Tu lo senti mai?”
Eravamo sulle rive del fiume quel giorno. Erano i giorni in cui lui mi rivelava i suoi segreti e mi
insegnava ad ascoltare la voce degli spiriti “sarà un gufo” avevo cercato di dargli una spiegazione io.
Lui aveva atteso “all’inizio lo pensavo anch’io, ma una notte andai nella stanza della mia sorella più
giovane, e le domandai se anche lei lo sentiva. La sua stanza dava sullo stesso lato della mia e d’estate
le finestre erano sempre aperte. Lei non lo sentiva, eppure era ben chiaro anche lì”. Io, solo una volta,
e solo per pochi secondi, ebbi l’impressione di percepire nel cuore della notte, un’eco, ma il tutto durò
solo pochi istanti e la mattina nemmeno lo ricordavo o forse, avevo semplicemente deciso di
dimenticarlo. Fu quello il tempo in cui le conversazioni con Demetrio cominciarono ad inquietarmi e
fu quello il tempo in cui cominciai ad ignorare le voci degli spiriti, finché non le sentii più. Quando la
mia mente riprese il controllo sentii la voce di Virginia ricondurmi nel mondo reale…”
-…Diceva che quella voce sembrava il battito di un cuore che proveniva da lontano. Un genitore
normale l’avrebbe assicurata che non esistono cose del genere, che forse quello che sentiva era un
gufo o qualche altro effetto notturno. Ma in quel momento percepii come se, privarla di quel suo
fantasioso mondo, avesse equivalso a privarla di una personalità pura, genuina, ingenua forse, ma
naturale e sincera. Era come se per lei quella presenza fosse importante e non rappresentasse una
minaccia, ma piuttosto una protezione. Le sorrisi e le dissi che era la voce delle fate, e che non doveva
avere paura. Fu un sorriso quasi ingenuo il suo mentre rispondeva che lei non aveva paura, ma che
voleva sapere se anch’io le sentivo. A quel punto avrei dovuto dirle che quando si diviene adulti, le fate
e le voci buone non si sentono più, ma la verità è che io spero che lei possa continuare a sentirle. Le
dissi semplicemente che non tutti le possono sentire, ma quando se ne andò io mi misi in ascolto, ma
non sentii alcun battito. Perfino il mio cuore sembrava fermo- bevve un po’ d’acqua -guardami Tom,
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guarda entrambi. Lui mi ama come quando aveva sei anni, e quello era un amore puro. Mi ama come
quando mi rivelò il suo amore quando ne aveva sedici, e quello era un amore ferito, e mi ama come
quando se ne andò perché ormai quello era un amore insopportabile. Tu mi dici che dovrei pensare a
quello che faccio, a non essere egoista. Ma tra me e Massimo ormai non vi è più amore. Certo Nausica
ha avuto il potere di renderlo responsabile, di riavvicinarlo alla famiglia, ma noi due siamo quasi
estranei. È lei a tenerci uniti, ma in che modo? Vent’anni fa io avevo dei sogni, sapevo che la mia vita
non sarebbe stata quella di una principessa, ma l’avevo immaginata come una cosa speciale. Credevo
che il vincolo del matrimonio avrebbe incatenato anche l’eterno amore. Non volevo avventure strane o
ricchezze improvvise, ma solo un po’ più di attenzioni e un po’ più di tempo per la famiglia. Sai, quei
giorni trascorsi tutti assieme in un parco o fare qualche viaggio. Ma se mi guardo oggi, vedo questo
giorno che è la fotocopia del giorno prima e del giorno dopo. So qual è il mio futuro semplicemente
guardando il mio passato. So che domani mi alzerò presto, preparerò la colazione, accompagnerò mia
figlia a scuola, farò la mia giornata lavorativa tale e quale a quella del giorno prima, tornerò a casa la
sera, preparerò da mangiare, guarderemo un po’ di televisione senza dirci nulla e poi andrò a
dormire. Forse faremo l’amore, ma non sarà piacevole, sarà solo uno sfogo, e il tutto, solo per
ricondurmi a ricominciare, ogni giorno uguale all’altro, giorno dopo giorno, in una noia continua,
nella quale neanche il classico imprevisto che può accadere, non ha più la possibilità di cambiare
qualcosa- tacque per un po’, e io compresi che era per impedire alle lacrime di rivelare la sua voglia
di piangere -io non voglio che questo sia il futuro di Nausica, non voglio questo per lei. Io voglio che
lei continui a sentire la voce della notte, voglio che continui a sentire quel battito di cuore lontano, e
che abbia il desiderio di andarlo a scoprire. E voglio sentirlo anch’io- concluse.
Avrei dovuto stare in silenzio, avrei dovuto capire. Ma c’era l’orgoglio dell’uomo in me e soprattutto,
la paura di quel risveglio che io non volevo più sentire, perché farlo, avrebbe significato
compromettere l’equilibrio che Virginia aveva messo in discussione e che non potevo permetterle di
guastare. Accettare le sue condizioni significava mettere in discussione troppe cose e tutte le certezze
che ero riuscito a costruirmi in tanti anni -e tu credi che Demetrio possa darti questo?-Tu dovresti saperlo meglio di me, o te li sei dimenticati quei tempi? Ti tuffasti dalla collina nella
gola del Tregnon per fare colpo sui ragazzi e sulla ragazze, ma non riuscisti a nascondere a me che fu
lui a rivelarti il segreto del fiume, te lo ricordi?- la sua voce si fece minacciosa e un po’ mi spaventò.
Balbettai qualcosa imbarazzato, ma poi mi ripresi -erano solo fantasie di bambini. Eravamo
suggestionati dai racconti degli anziani, oggi chi ci crede più?-Forse Tom. Ma senza di lui non lo avresti fatto-.
Più la conversazione andava avanti e più ne perdevo il controllo al punto che la rabbia stava
prendendo il sopravvento su di me, e la rabbia, si sa, non è mai una buona alleata. Non rispondevo più
alle insinuazioni di Virginia perché ormai ero stato sopraffatto anche da lei. Avevo pensato che
sarebbe stato facile con lei perché immaginavo che la sua mente fosse ancora incontaminata dai sogni
e dall’impossibilità di realizzarli. Credevo che la sua mente fosse incapace di concepire alternative ad
una realtà che doveva essere così come era, ma mi ero sbagliato e il tempo aveva finito per
contagiarla ed ora, incapace di somministrarle quella medicina che un tempo aveva immunizzato me
da tale contagio, reagivo col puro intento di far apparire Demetrio come un’eresia verso l’unico dio
venerabile: la realtà.
E così facendo non mi rendevo conto di pormi al livello di chi un tempo lo considerava un’anomalia.
-Demetrio è tornato per fermasi, per mettere radici. Non ti proporrà una vita avventurosa Virginia,
non sarai al suo fianco per viaggiare per il mondo e l’impegno che sta per prendere con il gruppo
editoriale probabilmente lo porterà a diventare un uomo qualunque, un dirigente che sarà più
impegnato col lavoro che con la famiglia. E dovrai trasferirti, portare Nausica lontana da qui. Rifletti.
È veramente questo che vuoi?-Forse sarà come dici tu, ma per un po’ almeno, potrò provare l’amore vero e forse Nausica, potrà
parlare liberamente del suo cuore notturno-.
-L’amore vero?- scattai con impulsività -tu lo hai respinto vent’anni fa, non ti è passata per la mente
che lui possa essere tornato per vendicarsi?-
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La vidi rattristarsi -dove trovi tanta rabbia Tom?- mi domandò delusa, ma io ero incapace di
controllarmi ormai e pur riconoscendo di averle provocato un dolore, ero convinto che se continuavo
su quella via l’avrei persuasa a rinunciare.
-Non c’è nessun cuore notturno Virginia, e Demetrio non è il padre di Nausica- le ricordai, ma quel
mio commento parve sortire un effetto imprevisto.
Lo sguardo di Virginia mutò in un’espressione dall’apparenza perfida nel quale mi sembrò quasi di
percepire una sorta di accusa -avere figli non significa essere padri…- si interruppe come se avesse il
timore di dire cose che non avrebbe voluto, quindi rilassò tutte le sue ire e con espressione di sentenza
aggiunse -Domenica andrò con lui e tu non lo puoi impedire, e domani lui sarà alla scuola a parlare
con i bambini. L’ho invitato perché possa raccontare loro di cose diverse da quelle che sentono
continuamente. Forse il loro futuro è già segnato, diventeranno ingegneri, commercialisti,
imprenditori, infermieri, avvocati o semplici operai, ma almeno così sapranno che vi sono anche altre
cose nella vita e chissà, magari qualcuno di loro troverà la sua ispirazione…Provai un brivido che potrei definire mortale. Subito il pensiero corse a mio figlio Dennis, che
sarebbe stato tra i bambini che lo avrebbero ascoltato e l’istinto mi portò ad un’ultima reazione prima
di permetterle di allontanarsi -commetti un errore Virginia. Demetrio non è più quello che credi. Lui
venera la tristezza come un Dio e afferma che la sofferenza è necessaria. Credi veramente che sia
questo ciò che i tuoi alunni devono ascoltare?Si fermò e per un attimo supposi di vedere dubbio in lei, ma ancora una volta mi sbagliavo.
-Se ritiene che tristezza e sofferenza siano indispensabili non credi che la ragione possa trovarsi in
una sorta di sperimentazione? Ma tu come puoi saperlo? Non hai mai sperimentato né l’una né l’altraRestai in silenzio e incapace di rispondere la osservai allontanarsi, cercando di capire che cosa era
andato storto.
Avrei dovuto dominare la situazione, ma non avevo valutato che dominare condizioni di quel genere
significava dover dominare l’avversario e la mia, sebbene mascherata da un intento bonario, era stata
un’aggressione che mi si era rivolta contro e travolto dagli eventi che non riuscivo a controllare,
perdendo la cognizione del tempo mi trovai ad un certo punto a passeggiare nell’oscurità della notte
mentre rientravo e pensavo a Demetrio che la mattina successiva avrebbe parlato ai ragazzi delle
scuole elementari. Era l’ultimo giorno che avevo a disposizione per vincere la mia guerra e già
comprendevo di averla persa. Glauco era infine riuscito a sconfiggere Diomede, non con la forza ma
con la perseveranza e l’astuzia. Solo che l’astuto guerriero non sembrava soddisfatto della semplice
sconfitta, lui voleva distruggere ogni memoria del nemico e qualcosa di peggio della sconfitta
personale mi tormentava. Tra coloro che l’avrebbero ascoltato l’indomani c’era anche mio figlio,
Dennis, e mentre già cominciavo a preoccuparmi che anche lui potesse subire il suo contagio
riflettendo su cosa avrei dovuto raccontargli per dirottarlo da ciò che avrebbe sentito dirgli, la
memoria tornò nuovamente indietro nel tempo...
-Perché non le rivela che Nausica è figlia sua?- domandai pensando che quel passaggio fosse
estremamente importante.
-È in una sorta di trappola. Lei vive un triplo conflitto e non può risolverlo perché è più sola degli
altri- rispose Felona avvicinandosi al computer portatile.
-Che cosa intendi?- domandai confuso dalla sua affermazione.
-Non conosci l’universo femminile vero? Tommaso ignora che Nausica è sua figlia e si è costruito un
castello che lo ripara da ogni pericolo. In questo momento non potrebbe accettare una simile
rivelazione perché la considererebbe solo un tranello, un espediente per cercare di dover prendere una
decisione e schierarsi. Lui è troppo radicato ormai nelle sue certezze, ha rifiutato ogni sua convinzione
e tradito la fiducia in se stesso e in ciò che sapeva di essere per diventare ciò che gli altri desiderano
che sia. Una tale rivelazione significherebbe fargli crollare il castello addosso e schiacciarlo sotto il
peso di responsabilità che non è disposto e non vuole accettare. Virginia lo comprende bene perché, al
contrario, di castelli deve averne abbattuti molti. Ha visto crollare il sogno del vincolo matrimoniale,
deve celare il segreto di una falsa paternità, fingere con la figlia e convivere con tali angosce e poi, il
dramma più devastante: il senso di colpa. L’odio che l’ha devastata, il castello più grande, sotto il quale
è stato sepolto l’unica figura nobile di tutta la vicenda: Demetrio. Lei combatte tre draghi che sa di non
poter sconfiggere ed è costretta a tenere ben chiuso il suo scrigno perché, come vedi, nessuno è
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disposto ad aiutarla. Tutti combattono per se stessi, in questa vicenda non vi è un eroe, un cavaliere
pronto a salvare la principessa rinchiusa nella torre, e il drago, sempre più insofferente, rischia di
bruciarla col fuoco che gli arde nel petto-.
Compresi che con la metafora del drago e del fuoco Felona intendeva la condizione interiore di
Virginia e per un momento provai una infinita angoscia.
-Sai- le dissi -io comincio a sperare che tutta questa vicenda sia veramente solo il frutto di un racconto
di fantasia-.
Lei mi guardò dopo aver finito di allacciare i collegamenti con la rete telefonica del computer cominci ad avere compassione per i protagonisti?- mi domandò.
-Solo per questa donna, gli altri mi sembrano tutti dei falsi filantropi- dissi, poi la osservai mentre
cominciava a lavorare sul computer -ma che stai facendo?- le domandai.
-Cerco qualcosa di più su Casterba. Se è esistito ci sarà pure una traccia da qualche parte- provai un
brivido.
-Spero quasi che ti stia sbagliando e che non ci sia nessuna traccia. Questo paese comincia a mettermi
i brividi con tutte quelle storie di spiriti. Ma che cosa cerchi di preciso?-Il bivio- disse lei, e io di nuovo rabbrividii -l’autore fa spesso riferimento a questo bivio, e su questo
Casterba racconta vicende alternative. Gli spiriti cui fa riferimento hanno origine tutti da lì. La
Marantega, il battito del cuore notturno, gli spiriti della natura e poi, in quest’ultima lettura, Virginia
accenna alle fate della natura, ma Nausica non fa riferimento a fate o spiriti, lei parla solo di un’eco che
le ricorda il battito di un cuore lontano-.
-E allora?-Le fate sono il simbolo della magia, dello spirito e dell’immaginazione. Rappresentano la
trasformazione che può esaudire o eludere i desideri più ambiziosi e nella concezione umana
rappresentano i progetti che non si sono mai potuti realizzare. Virginia da un chiaro segnale di ciò che
vuole ma allo stesso tempo ammette le difficoltà della loro realizzazione, cerca un aiuto e questo aiuto
lo vede nella possibilità di concedere a Nausica ciò che a lei è stato tolto-.
-E stai cercando questo su internet?Scosse la testa -no, cerco informazioni sul bambino annegato. Hai mai sentito dire il detto “state
attenti a ciò che desiderate perché potreste ottenerlo?”Riflettei ma non ricordavo nulla di simile -direi di no-.
-È una citazione di tipo alchemico, che potrebbe essere paragonata alla teoria del caos. Come abbiamo
visto nella teoria del caos sono eventi reali a far scatenare altri eventi, in questa condizione invece,
secondo una legge alchemica o karmica, a seconda di ciò in cui si crede, il pensiero o il desiderio
potrebbe essere così intenso da mettere in movimento delle forze o energie che noi ignoriamo esistere,
un po’ come se attirassimo verso di noi attraverso presenze che potremmo definire angeliche o
demoniache a seconda dei casi, degli aiuti che cominciano a manipolare il destino per condurci alla
realizzazione dei desideri. Ma ciò che noi desideriamo non viene mai conquistato senza doverne pagare
un prezzo. La tragedia di quel bambino ha messo in moto eventi tali da far scomparire un paese, e se
Virginia dovesse aver cominciato a ragionare in questa direzione, il suo senso di colpa diverrebbe ancor
più distruttivo-.
-Stai cercando quindi di capire, che cosa ne sia stato di Virginia?-In un certo senso. Ma non credo che nonostante tutto ella possa sentirsi responsabile di questo,
dovrebbe raggiungere un livello di delirio veramente devastante per sentirsene responsabile. Ma
qualcun altro avrebbe potuto farlo-.
I miei brividi erano ormai una scarica continua -alludi a Demetrio?- dissi temendo la risposta.
-È quello che voglio cercare di capire. Voglio scoprire se Demetrio possa essere stato in grado
veramente di metter in moto tutto questo-.
-Lo riterresti quindi un manipolatore del destino? E credi che sia possibile una realtà simile? Presenze
che circolerebbero in mezzo a noi col potere di far cambiare gli eventi o manipolarli a loro
piacimento?-No, non a loro piacimento, ma secondo una conoscenza che non a tutti viene concessa…- si
interruppe perplessa, come se si fosse resa conto di aver risposto meccanicamente, senza riflettere e
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quindi di aver detto qualcosa che forse non voleva o alla quale forse nemmeno lei credeva o, peggio,
rifiutava di credere. Quindi mi guardò incerta.
-Tu credi che possa esistere qualcosa che va oltre l’immaginabile?- disse con non so quale
convinzione.
-Prima di oggi no, non lo credevo, ma devo essere sincero, ora più che mai non so più cosa pensare-.
-Io invece ne sono certa. Sono sicura che vi siano forze che noi nemmeno possiamo immaginare, e
sono convinta pure che vi siano uomini che sappiano controllarle o che, per lo meno, ne conoscano le
vie, e Demetrio, non dimentichiamolo, è stato tra gli sciamani, gli stregoni e i vari visionari di tutto il
mondo-.
-Non mi dirai che temi di avere a che fare con un negromante?Mi guardò perplessa e per la prima volta notai in lei una sorta di sconvolgimento e di incertezza.
-Perché qualcuno dovrebbe scrivere un documento del genere? E perché dovrebbe mandarlo a
qualcuno che nemmeno conosce?- sentii di nuovo un brivido trafiggermi, e questa volta ne percepii,
nella paura, l’origine.
-Stai dicendo che questo tizio potrebbe conoscermi?-Se fosse così, potrebbe ritenerti l’unico in grado di risolvere questa follia, per questo dobbiamo
scoprire se la storia di Casterba è vera. Ma qui non risulta niente… dovremmo andare in quel paese
fantasma, e scoprire se i fantasmi esistono davvero-.
-O i demoni- dissi io senza più sentire brividi perché ormai il freddo mi aveva reso un unico blocco di
ghiaccio.
Ci lasciammo, credendo che la notte potesse concederci quel riposo di cui avevamo bisogno, ma
entrambi eravamo talmente sconvolti che ad un orario piuttosto inoltrato della notte, alzai la cornetta
del telefono e composi il numero della camera di Felona. Il suo rispondere subito mi fece capire che
come me non riusciva a dormire. Mi vestii in fretta e dopo pochi minuti, nella sua stanza, stavo
ascoltando:
127
19
Inferi o Empirei?
…Lo ricordavo bene il tuffo. Dopo quel gesto la collina si era trasformata, divenendo per noi una
sorta di parco acquatico e tutti mi erano grati perché ora molte ragazze unitesi al gruppo osavano
mettersi in costume, generando l’euforica bramosia che di lì a non molti anni avremmo cominciato a
sperimentare nell’abbandono degli istinti primordiali. Era così che stava avvenendo la nostra
mutazione, nel modo in come da ragazzini che cominciavano a crescere cambiava anche il modo di
vedere l’universo femminile, cominciando a percepire una diversa attrazione nei confronti della
sessualità proprio nell’eccitazione provocata al solo pensiero di poterle osservare in costume.
Forse fu proprio questo uno dei motivi che indusse gli adulti a proibirci di continuare ad andare alla
collina, tuttavia fu un periodo intenso quello che precedette il divieto. Ma quanto era stato difficile
quel primo tuffo. La collina sarebbe ben presto divenuta un luogo dimenticato se non fosse avvenuto.
In effetti il recarci laggiù solo per dimostrare di non temere i racconti degli anziani ormai stava
diventando una noia, e la mia affermazione che mi sarei tuffato nel fiume, aveva rianimato l’interesse
per la collina.
Quel giorno si erano radunati quasi tutti, ragazzi e ragazze, e tra loro, c’era anche Virginia. Sentivo
che la collina aveva un ruolo importante, il Mage me l’aveva donata e quell’atteggiamento ormai
dispregiativo dei compagni mi dava come l’impressione di un’offesa verso qualcosa che invece doveva
avere un valore smisurato che tuttavia, io stesso non comprendevo appieno. Era il rispetto che dovevo
portare, e a quel tempo io credevo che per dimostrare tale rispetto dovevo fare in modo che tutti
apprezzassero la collina, ma mi sbagliavo. Ero io l’unico che doveva portare rispetto, e chiunque altro
avesse voluto farlo, non lo avrebbe dovuto fare solo perché la collina rappresentava una sfida o un
divertimento. Ero ancora molto lontano dal comprendere che cosa significava rispetto, e in quel
momento certo, non ero nemmeno in grado di valutarlo. Mi trovavo sulla riva del fiume e a poco meno
di tre metri sotto di me vi era la profonda gola scavata dall’acqua. Per un bambino di dieci anni quei
scarsi tre metri apparivano come le scogliere dei fiordi norvegesi e i poco più di due metri di
profondità della gola potevano sembrare la fossa delle Marianne. L’unica mia condizione favorevole
stava nel fatto che ero un buon nuotatore e che il giorno prima, il Mage mi aveva assicurato che quel
lato del fiume era sicuro. Niente creature maligne né spiriti ostili, tuttavia, nel momento in cui mi ero
trovato seminudo sul ciglio della riva col fiume che sembrava osservarmi in attesa di capire quanto
potente era la mia sfida, il cuore cominciò a battermi come un tamburo africano nel petto e
l’incertezza quasi mi paralizzò.
Avevo lanciato la sfida perché non volevo che la collina fosse disprezzata e tutti avevano reagito
come era logico aspettarsi. Nessuno credeva che l’avrei fatto e tutti avevano affermato che non ci sarei
riuscito. Qualcuno se ne era uscito con le leggende sulle creature acquatiche che infestavano il fiume
tra cui la famigerata Marantega, la madre di tutti gli spettri del Tregnon, ed io nel mio orgoglio avevo
rilanciato con più fervore la mia sfida. Quel giorno ero al centro dell’attenzione forte delle mie
convinzioni, fino al momento in cui mi ero trovato sulla riva. Era stato in quel momento che i dubbi mi
avevano assalito. Tutti eravamo convinti di non credere ai racconti degli anziani, ma nessuno aveva
mai osato sfidarli e io avevo, oltre a quel dubbio, la convincente prova che nella natura esistevano
spiriti ed entità reali. Il Mage me li aveva fatti conoscere, ero perfino giunto a credere di aver sentito
la loro voce, e se il Mage si fosse sbagliato su quali entità abitavano nella fossa delle Marianne, ciò
che stavo per affrontare non era un semplice tuffo, ma il rischio di essere preda della Marantega o
qualche altro Leviatano. Non so quanto tempo passai sulla riva, ma fu abbastanza da far in modo che
dietro di me cominciassero a serpeggiare prima i sussurri maligni di chi già mi dava del codardo, poi
le risate di scherno e quindi le vere imprecazioni e derisioni. Ad un certo punto quegli oltraggi e
irrisioni parvero le grida di una folla da stadio e io sentii che intorno a me qualcosa cominciava a
cambiare. Era come se percepissi l’ira della natura e, colto io stesso dalla rabbia mi girai verso la
folla e gridai -Silenzio-.
Fu tanto l’impeto che imposi nel mio urlo che subito tutti tacquero. Attesi un istante, poi mi girai di
nuovo verso il fiume, chiusi gli occhi e cominciai a respirare profondamente cercando una
concentrazione che non mi preparava al tuffo, ma piuttosto, a sentire la natura intorno a me e a
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comunicare con essa, come se cercassi la sua approvazione. Quando saltai lo feci quasi senza
rendermene conto. Dietro di me c’era il silenzio e, sicuramente, lo stupore di tutti gli occhi che mi
fissavano. Il salto sembrò infinito al punto che ebbi come l’impressione di volare al rallentatore,
leggero come una piuma. Fu l’impatto con l’acqua a farmi sentire pesante come un sasso e
improvvisamente, lasciato il mondo dell’aria per quello dell’acqua, mi sentii attirare verso il basso
come se una presa solida mi avesse afferrato a trascinato negli abissi. Aprii gli occhi e cercai di
vedere gli artigli della Marantega sulle mie caviglie e il suo ghigno diabolico tirarmi verso il fondo
della fossa, certo che non mi sarei più liberato e che la collina sarebbe divenuta un vero luogo del
terrore, poi, la presa si allentò. Percepii il momentaneo fermarsi del tempo mentre la gravità cedeva
creando quell’istante di stallo in cui il corpo restava sospeso tra l’attrattiva verso il basso e la
levitazione verso l’alto. In quel momento ebbi la possibilità di ammirare le profondità del fiume come
se stessi esplorando gli abissi marini e le voragini della terra, sentendomi come in un sogno, ai confini
tra gli inferi e gli empirei. Vidi qualcosa che ancora oggi stento a voler riconoscere come qualcosa di
differente da un’allucinazione. Tutto era assurdo e affascinante allo stesso tempo e per un attimo mi
sentii sedotto dalle lusinghe dell’abisso inferiore, poi la sospensione scomparve e sentii il mio corpo
ricevere come uno stimolo nel quale la gravità prendeva a respingerlo verso l’alto. Sapevo che sarebbe
bastato un piccolo movimento per oppormi e spingermi verso quella seduzione di cui non comprendevo
il fascino, eppure, ben consapevole che opporsi per cedere al fascino dell’abisso significava rischiare
la morte, esitai… poi i polmoni cominciarono a bruciare e l’istinto mi dominò come avrebbe fatto in
futuro e, da buon obbediente agli stimoli naturali, risalii verso la superficie…
Non so come i presenti avessero vissuto quei momenti, forse per loro non era successo niente di
straordinario, sicuramente per loro il tempo non si era fermato, e non so nemmeno come avrebbero
reagito se non fossi riemerso. Credo che nessuno di loro si sarebbe tuffato per vedere se mi ero
impigliato in qualche radice o se ero stato catturato da qualche spirito maligno o rimasto preda del
fascino di una Sirena. Solo ora mi rendo conto che il loro grido di entusiasmo era solo un’esaltazione
per ciò che da quel momento avrebbe rappresentato la collina e che quindi la mia gloria non era
dovuta all’impresa eroica compiuta, ma solo ad un’opportunità consegnata.
È triste accorgersi dopo tanti anni che gli amici veri sono rari e comprendere che la considerazione
che gli altri hanno nei tuoi confronti, spesso, è solo una questione di interessi. Tuttavia, non si può
ignorare ancora una volta che, nelle azioni e nei fatti del destino, vi sono sempre dei messaggi
rivelatori.
Quel giorno mi si rivelò che un amico mi aveva confidato delle reali verità mentre altri mi avevano
solo usato per dei loro successivi scopi. E nonostante tutto, il tempo mi avrebbe condotto a tradire
colui che aveva dimostrato senza voler nulla in cambio che cosa era la lealtà, il rispetto e l’amicizia,
restando fedele invece a chi, col tempo, si sarebbe rivelato individualista, approfittatore e indifferente
a tutto ciò che non rappresentasse un suo personale interesse. Ai tempi del tuffo divenni una sorta di
leggenda e tutti volevano essere amici della leggenda; da ragazzo la mia condizione economica e il
mio aspetto avevano la capacità di attirare le donne, e tutti volevano essere amici di chi aveva così
tante amicizie verso le quali indirizzare le attenzioni del proprio istinto primordiale; da adulto,
proprietario di una grande azienda che si stava espandendo, molte erano le conoscenze importanti e i
contatti politici che avevo acquisito, e tutti volevano essere amici di chi aveva sempre una contatto
utile. Ma la verità era che tutti mi erano amici per una sola ragione, e tale ragione non era mai
l’amicizia, ma l’interesse. Perché mai lo comprendessi solo adesso, mi riusciva difficile da concepire.
-Ecco, questo è un punto di svolta. Lui riconosce che Demetrio gli ha donato qualcosa di prezioso. Ha
messo a rischio se stesso perché offrendogli la collina, lui rischia di tradire gli spiriti della natura.
Tommaso deve comprendere il sacrificio dell’amico, ma è troppo complicato per lui, egli non riesce a
capire che Demetrio quel dono glielo fa esclusivamente per un suo beneficio e non chiede in cambio
nulla. Tommaso invece lo divide con gli altri sperando che tutti possano comprendere il valore di
Demetrio… in questo modo tradisce entrambi. Il momento del tuffo è decisamente essenziale, guarda la
descrizione che ne fa, dice di passare dal mondo dell’aria a quello dell’acqua e l’acqua in questo caso
rappresenta gli abissi, lui si sente pesante e ha l’impressione di essere trascinato verso il fondo da una
qualche creatura: gli abissi rappresentano il profondo inesplorato, quello che sta dentro di noi e che non
osiamo indagare per il timore di scoprire cose che non saremmo in grado di sopportare. La superficie è
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sicura perché lì possiamo giudicare gli altri, gli abissi sono spaventosi perché dobbiamo giudicare noi
stessi…-Sì, però afferma di aver subito l’attrazione per le lusinghe di quel mondo inesplorato, come se fosse
l’abisso ad attrarlo più della realtà-.
-Perché ancora vive in una situazione condizionata dal pensiero di Demetrio. Prima di donargli la
collina Demetrio lo conduce in quel profondo e misterioso mondo fatato che null’altro è che il mondo
interiore. Demetrio non ha mai mostrato spiriti o demoni, ne ha solo parlato, ma mai ha potuto
rivelarli…-E i suoni notturni? Dove li metti?-Certo è vero, quelli sembrano effettivi, ma Tommaso non li sente, non ancora, dice di credere di
averli sentiti, ma non è così, e probabilmente tutto dipenderà da quel tuffo. Ecco perché Demetrio gli
cede la collina. Demetrio intravede in Tommaso la potenziale comprensione del mondo fenomenico e
cerca di condurlo in quel paese delle meraviglie che è l’unico a potergli dare spunti necessari per la
ricerca di se stesso. Per Demetrio è evidente che il vero mondo da conoscere è quello che sta in noi, per
poter comprendere il mondo che sta all’esterno, e lui soffre nel vedere come tutto ciò che sta al di fuori
siano considerazioni superficiali e banali, o effimeri vuoti dove la mente vaga nell’oblio…-Non vuole dunque che Tommaso sia l’interlocutore tra lui e Virginia?..-No, o per lo meno non in quel momento. Quando Tommaso si propone come intermediario Demetrio
non acconsente, sa che lui non è pronto…-Ma nemmeno lo impedisce-.
-Non può competere con qualcosa di più grande…-Il destino?-Infatti, non lo può e non lo vuole contrastare. Egli vede nelle forze della natura, tra cui il destino,
intelligenze superiori alle quali si sottomette e accetta di servirle secondo il loro volere…-Non ti sembra un po’ folle?-Se mi trovassi nel mio studio e qualcuno mi parlasse liberamente di tutto questo, probabilmente
cercherei di condurlo verso altre vie. Ma qui tutto è differente. La follia conduce spesso alla
distruttività, o di se stessi o di chi viene ritenuto la causa del proprio malessere… qui vi è una paziente
attesa. Demetrio ha lasciato che il destino lavorasse per lui e ha intrecciato una complessa ragnatela, ma
il suo scopo sembra essere ancora quello di rivelare ciò che si nasconde nel profondo dell’animo di
Tommaso e il legame che unisce lui a Virginia… non chiedermi quale possa essere perché, devo essere
sincera, io stessa comincio a entrare in confusione… Ad ogni modo vedi? Tommaso ammette di essere
certo che i suoi amici della collina non sarebbero accorsi in suo aiuto se non fosse riemerso, ma il modo
in cui lo acclamano dopo l’impresa fa passare il tutto in secondo piano. La gloria di cui è protagonista
gli fa dimenticare ogni altra considerazione e in quel momento si smarrisce definitivamente… fallisce
la prova e diventa l’anonimo al quale Demetrio non è più disposto a consegnare il suo destino…In silenzio restammo entrambi a riflettere su qualcosa che sembrava nello stesso tempo assurdo e
logico, impossibile e reale, sconvolgente e provvidenziale, senza riuscire ancora a comprendere con
chi, cosa o perché avessimo a che fare. La mano di Felona sfilò il foglio appena letto e sotto ne
apparve uno quasi completamente bianco, questa volta però non riuscii a sorridere al pensiero che per
le sole cinque parole scritte su quel foglio avrei guadagnato mille euro. Entrambi osservammo ciò che
introduceva qualcosa che nei romanzi tradizionali sarebbe stato classificato come parte seconda, dove
invece stava scritto a caratteri molto grandi:
130
Il secondo confine:
la realtà
Ci guardammo entrambi con una luce inquieta negli occhi e tra di noi non ci fu necessità di
consultazione, ambedue eravamo sempre più curiosi e senza attendere, la psicologa cominciò a leggere:
131
1
Le nuove favole…
…Seppure l’intuito e l’istinto mi conducano a completare gran parte delle vicende come se le avessi
vissute direttamente, dandomi la sensazione di ricordi ripescati da sogni che si potrebbero definire
vigili, molto di ciò che racconterò da questo momento, è il resoconto di confidenze che i protagonisti
che hanno vissuto come me questo intenso periodo, mi hanno narrato. È difficile da spiegare,
principalmente perché è difficile per me stesso comprendere, ma è come se in quel periodo e in quella
zona, vigessero delle forze singolari, definibili forse in una sorta di natura oscura che andava al di là
della nostra possibilità di averne il controllo, che spingevano le persone che ruotavano attorno alla
figura di Demetrio, come se lui stesso fosse dominatore o servo di tali forze, a raccontarmi, per
volontà spontanea e per volontà indotta, quanto avveniva. Mentre io, sempre sotto l’influsso di tali
forze, non riuscivo ad impedirmi di immagazzinare ricordi dai quali mi è ora impossibile liberarmi.
Forse per tale motivo li sto raccontando, come se vi fosse la speranza che ogni parola raccontata si
possa cancellare automaticamente dalla mia memoria o magari, che possa una volta concluso
l’assurdo racconto, svegliarmi e accorgermi che si è trattato solo di un sogno.
In definitiva, non sarebbe poi così banale poterlo considerare un sogno giacché, come già espresso,
molti dei dettagli di cui potrei apparentemente sembrare a diretta conoscenza, mi giungono invece
come immagini simili a ricordi di un sogno, nel quale però, essendo io il sognatore, io stesso non
esistevo se non come osservatore. Non so come questo sia possibile, né voglio cercare di rendervelo
comprensibile. L’unica cosa che posso dirvi è che, nel momento in cui le persone mi facevano
partecipe dei loro racconti, io subivo l’effetto di assurde allucinazioni che mi davano l’impressione di
poter vivere nel loro racconto, immergendomi in un passato dove ero esistito altrove ma che, nel
ricordo, mi conduceva in loro presenza…
La mattina successiva infatti, per darvi un’idea di che cosa da quel momento sarebbe avvenuto nella
mia vita, io non ero presente all’incontro che Virginia aveva organizzato alla scuola elementare tra lui
e gli alunni, ma è inutile esprimere quanta curiosità vi fosse in me di sapere come era andata, oltre
all’ansia che ancora mi metteva in apprensione nel tentativo di impedire che tra lui e lei si potesse
ripristinare un rapporto che io continuavo a considerare troppo pericoloso. Quel giorno mia moglie
era di turno all’ospedale e io mi avviai a prendere nostro figlio all’uscita da scuola. Era una cosa del
tutto normale, che non avrebbe destato nessun sospetto, se in me non fosse stata visibile
quell’espressione ansiosa e timorosa. Lo incontrai mentre usciva accerchiato da ragazzini entusiasti e
affascinati con la tipica esuberanza ed euforia che i bambini hanno per quelle novità per loro magiche
e avventurose. Immaginai con quale semplicità era riuscito ad affascinarli e la mia apprensione crebbe
quando vidi che uno dei bambini più attirati dal suo personaggio era proprio mio figlio.
-Dennis- lo chiamai. Il piccolo si girò e mi corse incontro. Parlava a raffica di Demetrio e dei suoi
racconti, io gli sorrisi e finsi di ascoltarlo, mentre in realtà il mio sguardo era fisso sul Mage.
Non so se il destino influisca su ogni cosa per crearne le condizioni prestabilite, ma in quel momento
mio figlio fu chiamato da una voce di bambina. Non mi preoccupai di lasciarlo raggiungere l’amica
che l’aveva chiamato e mi avvicinai al Mage.
-Allora come è andata?- gli domandai. Osservai la macchina fotografica che portava a tracolla,
oggetto del suo lavoro che doveva aver sicuramente presentato ai ragazzi ma che, non escludevo,
avrebbe usato per immortalare qualche attimo di quel tempo. Cercai di distrarmi pensando a cosa
avrebbe potuto fotografare nella piazza di Valbordi dove l’unica attrattiva, se così si poteva definirla,
era il vecchio castello trascurato e decadente, ma percepii subito che Demetrio sentiva la mia ansia e
probabilmente la mia contrarietà nei suoi confronti.
-Bene direi, questi bambini sembrano molto più educati di quanto lo fossimo noi- disse.
Sorrisi -non esserne troppo sicuro- risposi solo per allentare la tensione.
Lui mi fissò -tuo figlio ti assomiglia molto- disse, e io provai un brivido.
-Sei il primo che me lo dice. Dicono tutti che assomiglia a sua madre- risposi come se il nostro fosse
un comune dialogo mentre i miei occhi si spostavano sulla figura di Virginia che stava uscendo dalla
scuola, come se in realtà non volessero stare fissi su Demetrio. Lui sorrise, quindi mi diede
l’opportunità di comprendere che tra noi non potevano sussistere comuni dialoghi.
132
-Non intendevo fisicamente Tommaso- rivelò, e di nuovo quel brivido mi aggredì.
Scossi il capo -è immune alla fantasia Demetrio- gli dissi come se cercassi in qualche modo di
proteggerlo da qualcosa -non sente canti notturni o voci nel vento, e non teme i racconti del terrorecontinuai come se volessi contrattare il suo esonero da un complotto che ancora non conoscevo.
-Nessuno è immune dal proprio destino Tommaso- rispose però lui, e io mi sentii assalire da un
istinto protettivo che generò in me una sorta di impotente rabbia.
-Non sarai venuto qui per cercare di plagiare i nostri figli mi auguro- lo aggredii con controllata
severità.
Di nuovo vidi quel suo sorriso -io non voglio e non posso plagiare nessuno. Non so che cosa tu
intenda con queste parole. Io sono qui per una sola ragione Tommaso, ed è vivere la realtà seguendo
la mia strada, e così come voglio che sia per me, lascio che gli altri vivano la loro occasione seguendo
la propria via- mi scansò e si avviò, ma allontanandosi aggiunse -tuttavia, c’è sempre qualcuno che
cerca di forzare il destino altrui-.
Non potei impedirmi di fermarlo -che cosa vorresti dire?- volli sapere, pur sicuro che un istante dopo
me ne sarei pentito. Mi guardò e il suo sguardo fino a pochi secondi prima sereno si fece cupo di
quella solita malinconica mestizia. Fissò i miei occhi come se ciò che stava per dire fosse rivolto a
loro.
-Gli occhi dei bambini sono carichi di quella rara ingenua purezza, capace di rivelare ogni cosa nello
stesso modo in cui gli occhi degli adulti rivelano nella loro tormentata afflizione quanto cercano
inutilmente di nascondere dietro una maschera di finta serenità. Lo strumento è lo stesso, cambia solo
il modo in cui lo si usa- disse, quindi si voltò e si allontanò senza che potessi nuovamente fermarlo.
Furono poche le occasioni che ebbi di rivederlo dopo quel giorno, e per questo i ricordi che racconto
sembrano presi da un sogno. So però che in quell’occasione, per un momento, mi parve quasi di
sentirmi fuori del tempo con quelle parole che non riuscivo a comprendere, se non nel modo sintetico
degli adulti, che sembravano un’eco eterno nella mia mente, finché il volto di Virginia che mi passava
vicina non mi riportò alla realtà.
-Virginia- la chiamai. Lei si fermò e mi sorrise sorpresa come se non mi avesse visto e per un
momento pensai se, per un po’, non mi fossi veramente smaterializzato.
-Tommaso- disse il mio nome senza aggiungere la classica forma di sorpresa che era comunque
sottointesa -che cosa ci fai qui?Mi sentii imbarazzato come un adolescente che si appresta al suo primo invito perché, per avere
maggiori dettagli su come si era svolta la relazione tra Demetrio e i bambini, mi stavo apprestando a
proporre un invito che non avevo messo in preventivo.
-Sono passato a prendere Dennis, sai Anna ha il turno in ospedale, e mi chiedevo se ti va di prendere
qualcosa assieme-.
-Adesso?- disse come se io stessi ignorando qualcosa. In effetti era mezzogiorno passato ed entrambi
avevamo i bambini da accompagnare a casa. Allargai le braccia come a giustificare che non sapevo
cosa rispondere, ma intuivo che lei già sapeva che volevo continuare il discorso del giorno precedente.
-Vorrei solo scusarmi per come mi sono comportato ieri sera- dissi, senza sapere nemmeno io se
veramente volevo legittimarmi o se ancora intendevo insistere sulle mie convinzioni. Mi guardò con
aria dubbiosa in chiaro contrasto col volermi assecondare o mandare via, poi sorrise.
-Senti io non posso fermarmi, ma se vuoi puoi accompagnarmi a casa. Massimo e via, possiamo
mangiare qualcosa insieme da me se ti va- mi propose, ma in quel momento mi sovvenne un senso di
responsabilità e pensai a Dennis. Forse avrei dovuto ragionare di più sulla motivazione di quel
sorgere di responsabilità poco propense e capire che un altro allarme mi induceva a farmi cercare
alternative al proseguimento dell’insolito appuntamento. Ma non lo feci, blaterando parole che quasi
non volevo dire.
-Beh, accetterei volentieri ma non so se mio figlio…La vidi sorridere e la cosa portò distensione nel mio animo, anche se ancora ignoravo l’origine del suo
sorriso.
-Non credo che gli dispiaccia questa piccola variante- allora mi girai indirizzando lo sguardo nello
stesso punto in cui guardava lei e mi accorsi, con sorpresa favorevole, che l’amica che l’aveva
chiamato e con cui stava giocando, era Nausica.
133
A Casterba non c’erano bambini a sufficienza per tenere aperte le scuole, così i nostri figli
studiavano nella scuola del più grande e moderno Valbordi. Seguii Virginia a casa sua in macchina e
l’aiutai a preparare da mangiare. In quei momenti mi sentii come ringiovanito e mi sembrò di essere
un ragazzo assieme alla sua fidanzata che preparano da mangiare in cucina con l’entusiasmo di chi
prevede un risvolto più segreto, mentre ancora non ha subito il contagio della monotonia. Lei aveva
acceso la radio e una musica di sottofondo ci accompagnava mentre i bambini giocavano nella sala
adiacente.
-Sembra quasi un appuntamento tra fidanzati-. Le parole mi uscirono di bocca quasi senza controllo
spinte fuori da un istinto che non sembrava appartenermi, e non so perché lo dissi, so solo che subito
dopo me ne pentii razionalizzando che non era stato un commento idoneo. Immaginai la sua reazione
contrariata prima di osservare quale effetto il mio azzardato e inopportuno commento aveva sortito,
ma stupito, vidi che lei sembrava approvare come se avesse pensato la stessa cosa. Solo nel momento
in cui mi scorse osservarla la sua espressione si fece triste di una malinconia che pareva condurla in
altri tempi e in altri ricordi.
Non aggiunse niente se non un piccolo dettagli tecnico -stai attento tu alla cottura mentre preparo la
tavola?- disse, e l’impressione che ebbi era quella che avesse l’esigenza di allontanarsi, non so se da
me o dai ricordi.
-Certo- le risposi, e lo sconveniente dialogo si concluse lì.
Non osai azzardare nessun argomento compromettente mentre mangiavamo, sia per la presenza dei
bambini, ma soprattutto perché, quell’insolita condizione mi appariva così eccitante che quasi non
volevo fosse interrotta. Io e Virginia eravamo stati molto uniti, e l’amicizia che ci legava, in un certo
momento della nostra vita, aveva rischiato di divenire molto più intensa. Era successo qualcosa poi
che, come se ci avesse colti in modo sintonico, ci aveva fatto desistere dal trasformala in una relazione
più complessa, come se entrambi fossimo stati timorosi, o consapevoli, che il trasformarla da amicizia
a relazione, ci avrebbe inevitabilmente condotti all’estraneità. Un preludio, forse, a ciò che significava
la vita matrimoniale quando due persone, dopo aver esaurito ogni scoperta, divenivano indifferenti
l’uno all’altra. La nostra amicizia era un’isola felice e quella sorta di sacrificio, era forse l’unica
possibilità di non farla sprofondare negli abissi. Anche lei probabilmente stava pensando le stesse
cose, e tutto pareva mostrare un quadretto di come avrebbe dovuto essere una famiglia felice. Poi il
pranzo finì, i bambini andarono a giocare in giardino e noi due restammo soli.
Non ci volle molto perchè il dialogo passasse dalle quotidiane banalità, ai ricordi e in fine, al Mage.
Gli domandai come era stata la mattinata con lui e lei sembrò entusiasmarsi. Mi spiegò che avevano
fatto riunire tutte le classi perché anche gli insegnanti delle altre aule erano stati entusiasti della sua
proposta ed io, con quella condizione di allucinazione, potei immaginare lo svolgersi delle azioni
mentre lei le raccontava. Vedevo l’eccitazione dei bambini e la classica confusione che facevano
quando venivano riuniti in gruppo. Poi vidi lui al centro della sala e potei, seguendo le indicazioni di
Virginia, vedere con che incredibile abilità, come se fosse uno psicologo per bambini invece che un
documentarista, riusciva in pochi minuti ad attirare l’attenzione dei bambini. Ci volle poco e intorno a
lui si fece silenzio. Si presentò, mostrando prima di tutto la macchina fotografica con il potente
teleobiettivo, descrivendo l’attrezzo del suo lavoro. Virginia continuava a raccontare e io a
immaginare. Così lo sentii parlare ai ragazzi di aver conosciuto i nativi d’America e intuii come
nessun argomento poteva essere più adatto a catturare la loro attenzione. Sarebbe stato così anche per
noi, sebbene ai nostri tempi i pellerossa rappresentassero i nemici dei cow boy dei film western. Per i
bambini moderni invece, gli indiani avevano un aspetto diverso, come se loro possedessero una cultura
superiore a quella che avevamo noi, ed erano interessati ai loro aspetti più mistici, come se le figure
ritratte nelle fotografie che il Mage mostrava, rappresentassero fisionomie più simili agli eroi dei
cartoni animati dei tempi moderni. Eroi che avevano poteri che oltrepassavano i concetti materialisti e
che gli indiani, nella visione di quei bambini, dovevano possedere. Sentii uno di loro domandare che
cosa significava il copricapo piumato dei grandi capi tribù che ancora in alcune comunità indiane
venivano esibiti come ricordo delle tradizioni degli antenati, e la risposta che sfrecciava veloce nella
mia testa con cui il Mage abilmente parlava della mente creativa.
-Le piume rappresentano la mente creativa, le idee, il pensiero. Più piume vi erano sulle loro teste più
saggezza e ideali creativi erano posseduti. Gli antenati degli indiani credevano che la perdita delle
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piume, per esempio in una battaglia, significasse la perdita della mente stessa-… lo sentii parlare loro
dei totem e poi la voce di Virginia sovrapporsi alle risposte del Mage, e continuavo a vedere le assurde
immagini allucinogene che mi circondavano mentre lo sentivo parlare degli aborigeni australiani,
degli Inuit eschimesi e di altre civiltà dal sapore quasi mitologico, intuendo nell’entusiasmo fiabesco
dei bambini, lo stesso entusiasmo attraente subito da Virginia, finché la realtà cominciava a
riprendere il sopravvento sull’allucinazione e potei vedere il suo viso radioso quasi esultare.
-Avresti dovuto vederli Tom, io non credo di aver mai visto i bambini tanto entusiasti. Lo studio
spesso è noioso per loro, credo che oggi abbiano imparato più di quanto hanno studiato in tutto un
anno. Demetrio mi ha fatto capire che i bambini devono essere educati con la fantasia, con l’allegria.
Devono essere contenti di apprendere, altrimenti, finiscono per essere come noi adulti, malcontenti di
quel che facciamo e soprattutto dall’essere obbligati a farlo-.
Sentii ancora l’allarme suonare in me, ma ancora pensavo che ad essere in pericolo fossero le
persone che mi stavano intorno, in questo caso Virginia e i bambini.
-Sai che il Mage è sempre stato così estroso. Lui ha sempre vissuto in un mondo tutto suo. Non deve
essere stato difficile per lui entrare in sintonia con i bambini, in un certo senso io credo che lui stesso
sia ancora un bambino-.
Mi guardò contrariata -sembra quasi che non lo apprezzi più, eppure un tempo eri proprio tu ad
esaltarlo-.
Scossi il capo -no non è questo che intendo. Dico solo che bisogna saper controllare certi entusiasmi-Credi che mi stia lasciando soggiogare?-Penso semplicemente che non sia il caso di alimentare false illusioni. Sai, i bambini sono facili prede
dell’illusione- credevo di avere il controllo del dialogo e non mi rendevo conto di contrastare il suo
rinato entusiasmo.
-A volte Tom, mi chiedo se in questo mondo un po’ di sana follia non faccia bene. Tu vorresti che tuo
figlio fosse privato anche dei pochi anni di serenità che si può permettere? Vorresti già vederlo alla
guida della tua azienda senza nemmeno aver potuto provare un minimo di spensieratezza? Non pensi
più a come eri tu da giovane?- fu in quel momento che cominciai a rendermi conto d’averla offesa.
-Certo che no. Io voglio che ogni bambino viva la sua infanzia con spensieratezza. Ma so anche che i
tempi sono cambiati e oggi tutto va molto più veloce. Il tempo della fantasia è limitato, la realtà avanza
più rapida di quanto possiamo rendercene conto- dissi.
-Sì, forse hai ragione. Oggi non possiamo più raccontare favole ai nostri figli perché noi non siamo
più i loro educatori. Oggi li possiamo piazzare davanti ad uno schermo dove possono osservare tutte le
fantasie che vogliono, consapevoli che non sono altro che immagini create da una macchina di fattura
umana. Non si stupiscono più di nulla- sorrise malinconicamente -se dicessimo loro, oggi, che nel
fiume abitano sirene o maranteghe, riderebbero, e non avrebbero timori di nessuna collina, come
invece avevamo noi. E forse, l’unica vera favola che ancora possiamo raccontare loro, è proprio
nascosta nella realtà- sospirò quasi al limite della commozione e io, naturalmente, provai la necessità
di doverla confortare.
-Virginia, tu sei solo un po’ depressa. Devi stare attenta a Demetrio, lui vive ancora nel passato, nel
suo mondo di sogni, ma questo non va bene nel mondo reale. Nel mondo reale non si vive di sogni-.
Mi guardò comprensiva, ma di un tipo di comprensività biasimante -è assurdo che proprio tu dica
queste parole. Tu eri come lui un tempo, e desideravi ardentemente che anch’io potessi vedere il suo
mondo. Che cosa ti è successo? Perché ora quel mondo ti spaventa tanto?-.
-A quel tempo io desideravo che lui potesse stare con te perché ero un romantico, un sentimentale
sognatore forse, ma non immaginavo che la sua follia sarebbe durata per sempre. Ero un ragazzo
istintivo e inconsapevole, in un certo senso credevo di aiutarlo, volevo che potesse inserirsi in quella
società che lo allontanava, se avesse avuto una ragazza la sua immagine ne avrebbe giovato e lo
consideravo troppo timido per avvicinarti, per questo mi intromisi… ma credimi, sono contento oggi
che voi due non vi siate messi insieme-.
Di nuovo mi propose lo stesso sguardo comprensivo e biasimante -sei ancora molto protettivo, come
lo eri allora- mi disse come un elogio. Poi mi guardò come se cercasse veramente consiglio in me.
-Temi che accettare i suoi corteggiamenti sia un errore?135
-Ne sono certo Virginia. Lui ha vissuto liberamente senza mai sapere veramente che cosa significhi
rinunciare a qualcosa per qualcuno. Non sa che cosa sia una famiglia, credi che riuscirebbe a restarti
fedele? Credi che potrebbe dare a Nausica ciò che gli da il suo vero padre? Ha girato il mondo, ha
vissuto da zingaro, ha conosciuto uomini e donne, e sicuramente avrà avuto molte amanti. Saresti
proprio disposta a rischiare tutto ciò che hai per un azzardo simile? Credimi Virginia, Mage è il
passato. Un passato che non ti appartiene più-.
-E così dovrei lasciarlo prigioniero di quel suo passato?-Non credo che lui si senta prigioniero-.
-Allora perché sarebbe tornato?Mi sentii spiazzato da un controllo che credevo di essermi aggiudicato ma che invece non possedevo
affatto, comprendendolo in una domanda per la quale non avevo una risposta.
-Forse è solo vendetta. Ricordi come disse che avrebbe voluto vedere le nostre reazioni se fosse
scoppiata una guerra? Ecco, in quel momento dimostrò il suo lato nascosto, la sua ira, talmente
violenta da poter coinvolgere un’intera popolazione-.
Il viso di lei si fece inespressivo e triste, come se di colpo le sue illusioni si fossero infrante come un
fragile cristallo caduto al suolo. Mi sentii in colpa per questo, ma comprendevo che a volte, per evitare
un danno maggiore, era necessaria un’azione violenta. I suoi occhi si spensero in un triste vuoto dove
il presente rappresentava un’oscura voragine, il futuro un profondo baratro e il passato, una fredda
caverna.
-Ti capita mai- iniziò a dire -di sentirti come invischiato in un grande pantano dal quale non riesci a
liberarti? Ti capita mai di sentirti come imprigionato? Ti succede mai di sentirti così sconfortato da
giungere a chiedere alla vita una seconda opportunità?Allargai le braccia in segno di vacuità -la mia vita è a posto. Ho tutto ciò che posso desiderare- dissi
semplicemente, senza rendermi conto che così facendo, frantumavo il ponte di cristallo attraverso il
quale, per poco, ero riuscito ad unire i nostri confini.
Lei sembrò delusa e come se non avesse più senso andare oltre, perché già sapeva che non avrei
compreso, parve volermi dare ciò che cercavo, ossia, la sua rinuncia a seguire Demetrio.
-Oggi gli ho detto che non sarei andata con lui- lo disse con distacco, quasi volesse vedere quale
sarebbe stata la mia reazione.
Cercai di contenere il mio entusiasmo ma già la mie parole risaltavano più limpide e libere -e lui
come ha reagito?- gli posi la classica domanda cercando di rimanere neutrale, ma facendo intuire la
mia ammirazione per la sua sensatezza.
Sorrise.
-È rimasto calmo e impassibile, quasi sapesse già…- si fermò perché si rese conto che le parole che
avrebbe detto non erano quelle che avrebbero dovuto essere. Quelle parole, in una condizione normale
avrebbero dovuto essere “che sarebbe andata così”, ma non era quello che pensava, e come colto
ancora da una necessità di aiuto mi sentii in dovere di concludere io la sua frase -come se sapesse già
quello che sarebbe avvenuto dopo? Come fosse a conoscenza del futuro?- le dissi, e lo feci con
disinvoltura, perché ormai la notizia ricevuta mi concedeva una tranquillità nella quale rivelare certe
sensazioni non comportava più alcun rischio. Percepivo che l’equilibrio del tempo non era più
minacciato e non avevo timore ad esprimermi liberamente, ma lei mi guardò sospettosa e io mi sentii
in dovere di spiegare.
-So come ci si sente. Sono le stesse sensazioni che provavo io quando stavo con lui, prima che gli
eventi cambiassero…- mi resi conto che stavo andando oltre un confine che non potevo rischiare di
oltrepassare, ma lei già aveva intuito.
-Prima che io lo respingessi intendi dire?- Non era una domanda.
Tornare nel passato, me ne rendevo conto, era sempre più pericoloso -sono passati tanti anni
Virginia- tornai a ripetere come un disco rotto senza rendermi conto che tali parole ormai non
avevano più alcun senso -non vale la pena di continuare a tornarci su- ripetei la classica affermazione
con la quale si cerca di spazzare via una conversazione non gradita.
Lei annuì, ma in modo nostalgico, poi tornò a rivolgersi alle nostre vite -non ti viene mai la voglia di
fare qualcosa di diverso?- mi resi conto che in lei vi era un forte conflitto e che dovevo fare attenzione
a ciò che avrei detto.
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-C’è sempre qualcosa che si vorrebbe fare o cambiare, è normale. Ma le nostre condizioni ci mettono
di fronte a delle responsabilità, abbiamo fatto delle scelte e da ciò che decidiamo di fare adesso
potrebbero dipendere conseguenze che coinvolgerebbero altre persone, ora è questo che dobbiamo
comprendere come nostra responsabilità- cercavo di farla ragionare razionalmente, ma più le mie
parole apparivano razionali e più lei sembrava allontanarsi.
-I ragazzi oggi erano entusiasti. Per la prima volta forse, ho visto passione in alcuni di loro, come se
nei loro occhi si rivelasse che il mondo non è fatto solo di ciò che la nuova educazione familiare
erudisce come se nella vita non vi fosse altra alternativa che costruirsi una posizione sicura attraverso
il lavoro, i soldi e i compromessi. Sai- mi guardò con uno sguardo illuminante che in altre circostanze
sarebbe stato affascinante, ma in quel momento io vi scorsi dentro una sorta di delirio -per un
momento ho immaginato che in loro si realizzasse la visione di una realtà alternativa, come se si
rendessero consapevoli che il mondo è ancora popolato di fiabe- poi si fece triste -ai nostri figli non
possiamo più raccontare fiabe Tommaso- ripeté -perché ormai non siamo più noi i dominatori del loro
mondo-.
Per un momento ricordai a come mi ero sentito fiero quando avevo detto al Mage che mio figlio non
aveva timore dei racconti del terrore -è così che deve essere. Noi eravamo una generazione plagiabile,
loro sono una generazione libera- dissi con un tono quasi dittatoriale, e lei mi guardò contrariata.
-Sai, mentre li guardavo ascoltare i racconti di Demetrio, avevo la sensazione di vederli sognare.
Loro non hanno più fantasie, eppure oggi per loro, era come per noi guardare i film di Sandokan ai
nostri tempi. Per noi era una realtà irraggiungibile, un sogno che potevamo vivere solo attraverso i
racconti dei libri e dalle prime immagini televisive, per poter liberare la nostra mente verso un mondo
fatto di sogni. Loro non avrebbero potuto provare quelle stesse emozioni perché per loro ormai
Sandokan è un personaggio del tutto ordinario. Sanno che si tratta di finzione e tutto intorno a loro è
finzione perché non è più possibile raccontare favole… a meno che queste favole non diventino reali.
Demetrio oggi ha risvegliato in loro questa emozione capisci?-.
Scossi il capo perché non riuscivo a capire dove voleva parare, o meglio, volevo rifiutare di capire
mentre lei continuava a descrivermi le sue sensazioni.
-I nostri figli vivono in una realtà dove ogni cosa è scontata, sanno già che diverranno contabili,
avvocati, operai. Sanno già che cercheranno di farsi una posizione rispettabile nella società
scegliendosi una carriera vantaggiosa, sono plagiati, non dai racconti delle maranteghe, ma dalle
insidie della necessità. Tu dici che sono una generazione libera, ma come possono essere liberi se non
hanno sogni?-Non si vive coi sogni Virginia- ribadii, e furono le parole peggiori che potessi dire.
-È triste Tommaso quello che dici. È triste sapere che la fuori c’è un Sandokan in ognuno di quei
ragazzi. Un Sandokan che potrebbe vivere ogni giorno come se non fosse ogni giorno, ma che è stato
annientato non dalla caccia dei colonizzatori occidentali, ma dalla loro nuova ideologia economica-.
-Stai dicendo parole senza senso, che cosa significa vivere ogni giorno che non sia ogni giorno?Sorrise amaramente -sono passati tanti anni Tommaso e noi siamo come invertiti. Molti anni fa tu
trovavi il tuo sogno e cercavi di farlo vivere a me, oggi tu rinunci al tuo mentre io cerco di
riconquistarlo. Io vedo la luce negli occhi dei ragazzini spegnersi lentamente, come quella che si è
spenta nei miei. La perla di Labuan poteva sentirsi viva perché i suoi giorni erano giorni in cui poteva
svegliarsi la mattina sapendo che non era come svegliarsi ogni mattina, con un futuro già conosciuto
nelle azioni del giorno precedente-.
- Lady Marianna Guillonk, la perla di Labuan, è morta giovane però - dissi allora io e lei annuì.
-E noi Tommaso, non stiamo forse morendo? Credi che il tempo faccia qualche differenza? Quando
la noia della consuetudine ti assale, è come essere già morti. Sapere che la fuori può esserci un
Sandokan che non sogna di diventare un famoso avvocato o un prestigioso uomo d’affari, dà ancora
qualche speranza non credi?-Le favole dei giorni d’oggi, Virginia, sono fatte di eroi dello sport e idoli dello spettacolo, questa è la
sola realtà alternativa che puoi dare alla nuova generazione, e quello è un ideale molto più pericoloso
che accettare un ruolo più stabile nella società moderna. Credimi, raccontare favole non è la via
migliore per i nostri figli. Vuoi spingerli verso un mondo così pericoloso? Dare loro delle solide
certezze almeno li può salvaguardare da pericoli più oscuri. Non c’è niente di ignobile nel desiderare
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di essere un avvocato o un contabile. Non lasciarti ingannare dal fascino oscuro di un sognatore che
non è mai riuscito a liberarsi dalle sue catene-.
-Ti sbagli Tommaso. Eroi dello sport e idoli del cinema non sono affatto differenti da contabili,
avvocati, dirigenti o operai. L’unica cosa che varia è la condizione sociale, ma fanno tutti parte di una
condizione statica, per tutti, ogni giorno è segnato dal giorno precedente e da quello seguente: ogni
giorno uguale all’altro. E questo perchè non hanno nulla per cui combattere, nessun tesoro da
difendere, nessun drago da combattere, nessuna principessa da salvare, nessun sogno da alimentare…
puoi essere forte e potente quanto vuoi, ma non hai niente se tutto ciò che ti resta è solo e
semplicemente, la noia-.
Ogni mia certezza stava svanendo -tu cerchi qualcosa che non puoi avere, qualcosa che non esiste, e
lo sai, altrimenti non avresti rifiutato di andare con lui-.
Mi guardò come si guarda uno stupido -ho rinunciato perché ho pensato a Nausica. Gli ho detto che
dovevo pensare a lei, non potevo mandarla allo stadio con il padre, e nemmeno parcheggiarla come un
motorino nel giardino dei nonni. Lei è mia figlia, e voglio che abbia il meglio, non sono stupida e so
che una di queste certezze è la famiglia, solo per questo ho rinunciato…-.
-Ciò significa che hai fatto la scelta razionale, e come vedi, è la razionalità che ti guida-.
Annuì di nuovo e io compresi che le mie certezze si stavano frantumando sempre più.
-Ma la famiglia a volte può essere distruttiva se non ha solide fondamenta…- proseguì, e io più che
mai mi sentii come una nave senza vele.
-La tua è una famiglia con solide fondamenta- cercai di contrastarla.
-Davvero?- disse però lei -domenica Massimo sarà lontano centinaia di chilometri per una stupida
partita di calcio, e Nausica sarà a casa dei nonni a giocare con persone che non sono certo la sua
famiglia- rivelò con amarezza, ma io non ero disposto a cedere, e non comprendevo che ora era
nuovamente l’orgoglio a dominarmi e non la razionalità. La mia era diventata una sfida.
-Tuttavia hai pensato a lei, il che ti fa capire che credi ancora nella possibilità di poter salvare la tua
famiglia-.
-Sì- disse -ho pensato a lei, e ho pensato a quello che mi hai detto tu, e ho pensato a Demetrio, e al
mio passato- abbassò gli occhi -io non voglio che lei si spenga come ho fatto io Tom, e tutto questo mi
ha condotta a rinunciare- disse, e per un momento io pensai che sarebbe stato meglio lasciarla sfogare
senza cercare altre scomode verità da rivelare sul Mage.
-Hai fatto la scelta migliore, credimi- mi limitai a dirle sorpreso ancora dall’assurda necessità di
confortarla, ma quando vidi il suo sguardo tornare su di me, compresi il mio fallimento.
-…Ma lui conosce il futuro vero?- disse, e nel perfido sorriso che le vidi sulle labbra, compresi
l’abbattersi di un presagio oscuro precipitare su di me.
-Ha detto che vuole farmi vedere un posto meraviglioso, e che Nausica poteva venire con noi- rivelò,
e io mi sentii talmente vinto da non riuscire nemmeno a reagire.
-Andrò con lui domenica Tommaso e né tu né altri questa volta potranno cercare di manovrare il mio
destino. Io voglio liberarmi da quelle che tu chiami catene e voglio cogliere questa seconda
opportunità. Voglio scoprire che là fuori c’è ancora posto per un Sandokan che ha il coraggio di
vivere nuove avventure, in cui svegliarsi ogni giorno non è svegliarsi nello stesso giorno, e se il rischio
è finire come la perla di Labuan sarò felice di rischiare e di accettarlo, se non altro, anche fosse solo
per un giorno, avrò riscattato un’intera esistenza di noia-.
-Me la ricordo sai, la perla di Labuan, lady Marianna, l’amore impossibile del pirata Sandokan. Ero
molto giovane quando lo sceneggiato venne proposto alla tv, e piansi quando lei morì, forse perché
anch’io me ne ero un po’ innamorato- dissi, lasciandomi andare a sentimentalismi che un tempo non
avrei potuto tradire.
Felona mi guardò e sorrise compiaciuta per quella mia rivelazione romantica -è molto significativo
questo accenno ai personaggi di Salgari. Lo sai che scrisse tutti i suoi racconti senza aver mai visitato i
luoghi descritti nelle sue avventure?Annuii -ho sentito dire, da uno studente credo, che un certo Pirandello diceva che esistono nel mondo
persone che possono permettersi di vivere le proprie avventure, per coraggio o per condizioni
favorevoli, altre che invece sono destinate a tradurle semplicemente in sogni. Spesso è così che
nascono i grandi scrittori-.
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-Mi stupisci, non ti facevo così colto-.
Sorrisi accettando l’ironica puntualizzazione -e infatti non lo sono. Io mi limito a dire ciò che ho
sentito e che per un banale scherzo della natura la mia memoria immagazzina. Se devo paragonarmi ai
ragazzini di questo capitolo mi rivedo come un indocile e indisciplinato scolaro. Non ho mai
apprezzato lo studio e non ho mai coltivato una cultura che potesse rendermi più interessante di quanto
non sono. Ciò che ho imparato è stato solo opportunismo, ho intrapreso una carriera nelle forze
dell’ordine perché mi sembrava la via più semplice per assicurarmi un lavoro e quando ho scoperto di
non essere adatto a ricevere ordini ho usato quello che avevo imparato per costruirmi un lavoro, del
quale adesso, non vado più molto fiero-.
-E non ti riconosci in ciò che esprime Virginia?La guardai decisamente contrariato -certo che no. Lei parla di sogni e di avventure, è vero, ma le sue
sono avventure nobili e sogni dignitosi. I suoi sono eroi che si battono per il bene altrui, non per
diffamarli…-Hai solo perso di vista una parte del tuo impegno, tuttavia sei stato un Sandokan, uno che ha saputo
gestire la sua vita secondo un ideale non condizionato dai compromessi delle autorità-.
-Sono comunque soggetto all’autorità- sottolineai.
-Tuttavia molto spesso infrangi i regolamenti-.
Sorrisi con una certa malizia -sì, lo ammetto-.
-A volte è necessario fare scelte difficili per comprendere quale sia la cosa giusta, e a volte è
necessario commettere degli errori per capire che non sempre la si compie l’azione giusta. Se oggi tu
comprendessi che un tuo cliente è più perfido della vittima che ti fa sorvegliare, come ti
comporteresti?-Dopo tutto questo intendi?Allargò le braccia facendo intendere che quello che io definivo “tutto questo” null’altro era che una
nuova esperienza.
-Non lo so- ammisi -sarei comunque vincolato da un contratto, ma sinceramente, moralmente mi
sentirei meschino-.
-Vedi? È tutto qui. È difficile fare la scelta giusta e spesso tale scelta può diventare compromettente
per noi stessi. Decidere che qualcosa è sbagliato, nel tuo caso per esempio, significherebbe
compromettere il tuo lavoro e rischiare di perderlo…-Ma se accettare di rispettare le condizioni contrattuali significasse esporre a gravi rischi la vittima
che magari ha agito in un determinato modo per esasperazione e nella quale si riscontrano più
giustificazioni del committente, non significherebbe compromettere altrettanto la mia nobiltà?-È da come decidiamo di comportarci che decretiamo chi siamo o cosa vogliamo essere. Giusto o
sbagliato è solo una questione di punti di vista: c’è chi non ha scrupoli per salvaguardare se stesso e chi
invece accetta di subire in prima persona piuttosto di danneggiare gli altri. È un dura legge di natura,
ma l’uomo, in condizioni di necessità, non è diverso dagli animali-.
-E qual è la necessità in questo caso?-La paura, il timore di scoprire qualcosa che non si vuole ammettere. Virginia continua a rimandare ai
sogni, alle fate, agli eroi che combattono per liberare le fanciulle dal drago… Tommaso teme di
affrontare il drago, come se lui stesso si sentisse parte di quel drago, e in effetti lo è. Il drago qui può
essere paragonato alla condizione sociale, una creatura che ha sedotto e imprigionato tutte quelle menti
che hanno fatto della loro condizione un requisito di quotidiana inerzia. Nella simbologia del drago, la
creatura malvagia non è il drago, ma chi lo alimenta. Il drago è pronto a lasciarsi sacrificare, egli
custodisce il tesoro che sta sepolto nelle profondità delle caverne e gli esseri avidi si lasciano trascinare
in quelle caverne oscure, ma non potranno mai sottrarre il tesoro al drago perché la bestia è troppo
potente per loro, egli possiede le forze più grandi del cosmo. Egli, come creatura anfibia è acqua, è aria
attraverso le sue ali, è terra perché vive nelle profondità ed è fuoco che arde nel suo petto. Il cavaliere
che lo sfida deve essere puro di spirito e pronto ad affrontare il viaggio negli abissi della terra. Ma
quegli abissi rappresentano il profondo di se stesso e l’oro che cerca è solo simbolico. L’oro si origina
nel profondo della terra, ma è un oro fisico, l’oro che si genera nel profondo del nostro essere, è
l’animo nobile. Solo allora il cavaliere può liberare la sua bella, e la sua amata null’altro è che la
comprensione del suo lato maschile e femminile come un'unica realtà. Ecco, a quel punto il drago è
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pronto al sacrificio, e per lui sarà un nobile sacrificio perché ciò che ha custodito non è altro che quanto
appartiene a quel cavaliere. Allora il drago si lascerà uccidere e diverrà la forza di quel cavaliere, messa
al servizio di un bene superiore. Questa è la simbologia del drago. Virginia sta affrontando il suo drago,
Tommaso lo rifugge…-E il Drago di Tommaso è Demetrio?Scosse il capo -Demetrio è una figura ambigua, forse può essere un tramite, ma non è certo un drago-.
La guardai pensieroso -credi che a Casterba scopriremo qualcosa?-Io penso che sia proprio lì che questo scrittore ci vuole condurre, tuttavia penso che abbiamo bisogno
di molte altre informazioni prima di affrontare i fantasmi di quel luogo-.
-Ma non abbiamo più molto tempo. Non possiamo più rimandare e domani dovremo pur decidere di
andarci…-Sì, ma prima di domani abbiamo ancor qualche ora-.
-Vuoi andare avanti?-Tu vuoi dormire?-Non ho più sonno-.
-Bene, allora vediamo cosa ci dice il prossimo capitolo- abbassò gli occhi e come una macchina
instancabile riprese a leggere:
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2
…Il virus
…Ciò che non vogliamo vedere a volte, lo riflettiamo negli altri. Virginia parlava di sogni che non
aveva mai vissuto, io di sogni che era meglio dimenticare. A volte però, quel che non vogliamo vedere
lo troviamo riflesso proprio in coloro che giudichiamo, magari con il pretesto giustificante che la
nostra sia una nobile causa convincendoci che ciò che facciamo è per il loro bene, giungendo perfino
ad avere la presunzione di sapere ciò che è bene e ciò che è dannoso per coloro che secondo noi
necessitano di protezione.
Forse quel che non volevo vedere stava proprio nelle parole celate di Virginia. Lei si era svegliata e
vedeva nella realtà l’infrangersi di un sogno sognato e mai realizzato; io mi ero addormentato e
vedevo nella realtà dalla quale non potevo liberarmi, il sogno svanito di un’illusione di cui avevo
avuto paura. Esiste una contraddizione nel sogno, che consiste nel non capire che stai sognando, il che
conduce all’asserzione logica dell’essere svegli, nella quale ci si potrebbe chiedere se veramente si è
desti, e spesso, per sfuggire a questo sospetto, ci convinciamo, come se ne fossimo costretti, che la
realtà che stiamo vivendo sia l’unica possibile, nella quale, per sopravvivere è necessario sentirsi
adeguati.
Me ne andai deluso e amareggiato, ma sperando in cuor mio, contrastando la mia stessa razionalità,
che la realtà che stavo vivendo non fosse altro che l’estensione di quel sogno dal quale ancora non mi
ero svegliato e che mi permetteva di mantenere il sospetto che nella follia paranoica cominciava a
coinvolgermi al limite della schizofrenia. Avevo bisogno di stare da solo e dopo aver affidato Dennis
alla colf, mi allontanai sulla mia Mercedes. Non so per quanto guidai e dopo aver parcheggiato, non
so per quanto camminai, ma so che iniziai ad immaginare un assurdo scenario dove il sogno diveniva
la realtà che stavo vivendo, non valutando che così facendo rischiavo di inoltrarmi nel caotico
labirinto fatto di doppie personalità che vivono contemporaneamente due vite parallele, confondendo
così me stesso nell’alienante disordine nel quale non riuscivo più a distinguere la mia identità, e
avviandomi verso l’inevitabile soluzione destinata agli schizofrenici: la follia.
Solo che, per un’assurda ragione, la mia mente era ormai vittima di un complotto che sembrava avere
origine proprio nella dimensione del sogno e, incapace di sottrarmi a tale paranoia, cominciai a
congetturare su quella realtà che poteva apparire liberatoria proprio perché irreale. Era un sogno
iniziato molti anni prima, del quale io ero il protagonista e il Mage una comparsa. Tutto doveva essere
iniziato su quel ponte, e forse per questo, nella realtà che stavo vivendo il Mage mi aveva chiesto se
non lo avevo mai attraversato. Mi sovvenne un diabolico sorriso perché per un istante quella mi
sembrò la soluzione di tutto: simbolicamente il ponte rappresentava il sogno nel quale ero ancora
invischiato, e le sue estremità ne raffiguravano il principio e la fine. Non avrei dovuto fare altro che
proseguire e raggiungere l’altra riva. Ma era successo qualcosa su quel ponte, e per un mistero che
solo i sogni sanno concepire, avevo perso il controllo e il sogno aveva iniziato a dominare la realtà
costringendomi a generare delle alternative ingannevoli che tuttavia si trasformavano in insidie e
tranelli verso me stesso. Se avessi potuto osservare la mia espressione in quel momento,
probabilmente, avrei visto il riflesso di una follia latente manifestarsi negli occhi che brillavano di
insensata paranoia. Con perfida cattiveria sentii un profondo odio assalirmi nel convincermi, in
quell’attuale delirio, che una figura aliena si era intromessa nel mio sogno manipolandolo per
diventarne l’imperatore, e questa figura aliena era il Mage. La paranoia mi stava ormai conducendo
alle più devastanti ossessioni, e tuttavia nella totale alienazione mentale, tali paranoie erano così
lucide e convincenti che la trama che stavo costruendo mi sembrava più reale di quanto potessi
immaginare. Il Mage non possedeva un suo sogno, non poteva perché il suo mondo reale era già un
mondo fantastico dove i sogni diventavano l’espressione della realtà che lui rifiutava, così l’unica
alternativa che gli restava per poter fuggire da tale condizione odiosa e continuare a vivere per sempre
nel mondo onirico, era di impossessarsi del sogno di qualcun altro. Sì, doveva essere andata così. Era
stato per questo che aveva iniziato a coinvolgermi nella sua realtà, per riuscire a ipnotizzarmi e
penetrarmi la mente, al fine di rubarmi lo spazio dei sogni, l’unico che ci appartiene veramente, allo
scopo di sperimentare la realtà che lui non poteva conoscere. Come un vampiro si era introdotto
costringendomi in qualche modo a invitarlo a entrare, cominciando, una volta insinuatosi, a succhiare
il sangue, ossia l’energia vitale. In questo caso il vampiro Mage stava succhiando l’energia onirica
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devastandomi a poco a poco. In un determinato spazio del tempo onirico però, dovevo aver intuito
qualcosa e per tornare a dominare il mio sogno, lo avevo allontanato usando i residui di forze rimasti,
e per mantenere l’illusione favorevole e benigna, lo avevo sostituito con altri protagonisti di cui
Virginia era stata la figura principale. Ora però qualcosa si stava guastando e da brecce che
sembravano aprirsi nella mente, dei germi aggressivi come virus si stavano intromettendo aggredendo
le mura difensive del sogno. Attraverso l’agente del caos stavo nuovamente perdendo il controllo e il
sogno stava per tornare vittima dell’invasore che proprio come un virus aggrediva il corpo dal quale
tornava a succhiare energie vitali, disgregando e squilibrando l’armonia che avevo creato…
Improvvisamente mi parve di svegliarmi e nell’oscurità della notte quasi non mi rendevo conto di
quanto avevo camminato. Non sapevo nemmeno come e quando ero entrato al “Book”, ma so che
davanti a me vi erano più bicchieri vuoti e al tavolo con me non c’era nessuno. Dopo essere uscito dal
locale vagai per la città trovandomi ad un certo punto ad osservare il fiume che l’attraversava con
l’illuminante sensazione che tutto sembrava solo una riproduzione più grande del piccolo Casterba.
Poco più avanti vidi il famoso ponte pietra che collegava le due rive della città, e ancora con qualche
sintomo dell’assurda paranoia addosso, ipotizzai un’illogica combinazione: forse quel ponte era una
verifica. Sotto vi era un fiume, e il fiume rappresentava tutto ciò che scorreva nella mia vita, reale e
irreale, con i suoi eroi, i suoi mostri, le sue fantasie e le sue verità. Forse il sogno stava prendendo
un'altra forma, forse lo scenario della città rappresentava una forza maggiore, ossia la mia forza, che
aveva la capacità di sovrastare quella del Mage e forse, se avessi attraversato quel ponte, sarei uscito
dal sogno e lo avrei sconfitto e, se pur convinto di aver vagato in uno stato di trance solo perchè mi ero
immerso troppo nell’assurdità di quel pensiero, in ciò che, se ne avessi avuto il coraggio, avrei
riconosciuto essere disperazione, mossi un passo sul ponte e, con una incerta sicurezza, mi accinsi ad
attraversarlo. Una sorta di orgoglioso vanto mi assalì nel momento in cui mi sentii padrone delle mie
paure e con una sicurezza ritrovata attraversai l’intero ponte senza timori, per convincermi una volta
giunto dall’altra parte che quello, non era il ponte del mio sogno e che la triste verità, era che questo,
non era nemmeno un sogno.
Con la mia ritrovata disperazione, raggiunsi il parcheggio dove avevo lasciato l’auto e col desiderio
di dimenticare tutto e lasciare che ognuno fosse condotto dal proprio destino, mi accinsi a tornare a
casa. Solo che, sempre più cercavo di staccarmi dalle mie paranoie e più mi accorgevo di
inabissarmici dentro. Se il mio desiderio, infatti, era adesso che ognuno si lasciasse condurre dal
destino dove esso voleva, non potevo evitare di pensare che anch’io ero soggetto al suo volere. Un
volere che avevo cercato di contrastare ma che adesso pareva schiacciarmi inesorabilmente con
responsabilità di cui non avevo cognizione e così, mentre rientravo, assurdamente mi guardavo intorno
alla ricerca di qualche elemento illogico che mi desse la conferma che ancora ero immerso nel sogno
schizofrenico. Se ciò fosse avvenuto, avrei potuto riprendere il controllo del sogno e anziché temere di
essere pazzo, esultare per la semplicità di una soluzione che sarebbe consistita nel semplice svegliarsi.
Ma la verità era che tutto ciò che mi circondava era pura e semplice realtà, la stessa che mi
circondava da quaranta anni e che quindi, per essere un sogno, da eguale tempo avrebbe dovuto
esistere. Sorrisi quasi inconsciamente perché a quel punto, il mio pensiero si stava trasformando per
dirigersi nella direzione opposta, ovvero: se non potevo fuggire dalla realtà allora, perché non vivere
il sogno? Per questo sorrisi amaramente, pensando a come sarebbe stato assurdo risvegliarsi dalla
realtà e comprendere che la vera consistenza si celava in tutto ciò che ci appare assurdo nei sogni,
rendendomi conto di quanto inutile fosse il mio intromettermi nelle vite altrui. Certo Virginia
rappresentava una figura importante nella mia vita reale. Eravamo stati buoni amici ed eravamo stati
capaci di controllare, quasi completamente, quegli istinti che ci avrebbero impedito di mantenere tale
condizione. Una cosa di cui andare fieri perché non avrei saputo dire in quanti avrebbero potuto
riuscirci. Evidentemente però, nulla dura per sempre e forse, era destino che anche quell’amicizia
avesse termine. Io potevo comunque dire di averci provato, ma lei era la sola depositaria del suo fato,
e se voleva rischiare di perdere ogni cosa, io non mi sarei più opposto.
Non potevo farlo, non se l’altruismo rischiava di compromettere la mia sanità mentale. Lanciai un
grido e con un gesto della mano simulai la scacciata dei miei tormentati pensieri come si scaccia una
mosca, decidendo una volta per tutte che quella era la realtà e che in quella realtà, non mi sarei più
fatto coinvolgere da altruismi non richiesti. Decisi, sentendomi convinto, di dimenticare tutto… e forse
142
ci sarei anche riuscito, se non fosse che ormai il Mage si era veramente insidiato nel sogno reale come
un virus tornando a ronzare nei miei pensieri nell’istante stesso in cui lo scacciavo, e per tale virus,
pareva non vi fosse antidoto.
-Sta diventando paranoico- dissi.
-Cerca di invertire la realtà col sogno, sta fuggendo da un tormento che non riesce ad accettare-.
-È ossessionato dai ponti- proseguii io in quello che sembrava essere divenuto un dialogo sconnesso
in cui entrambi parlavamo di cose diverse. Ma io ero legato alla simbologia del ponte perché fino ad
ora quello avevo appreso, e non avevo ancora imparato a considerare i nuovi argomenti che l’autore
inseriva nei capitoli -è abbastanza ovvio che teme di riattraversare quel ponte, ciò che non capisco è
perché-.
-Sta combattendo con un problema di adattamento, è lui stesso a erigere il ponte, solo che prima del
ponte ha eretto le rive opposte- in quel momento cominciai a percepire che qualcosa mi stava
sfuggendo.
-Come sarebbe, come può aver eretto le rive e anche il ponte?-Ha scavato anche il fiume se non basta- aggiunse allora lei.
-C’è forse qualcosa che mi sono perso in questa lettura?- le domandai.
-I vampiri- esclamò allora lei, e perplesso attesi la descrizione del loro contesto.
-La tradizione vuole che coloro che sono stati vittime dei vampiri divengano a loro volta vampiri,
sono nello stesso tempo privati del loro sangue e contaminati…-È questo che intende quando fa riferimento al virus?-È possibile. Ma l’interpretazione va intesa sulla correlazione del persecutore perseguitato. Il vampiro
rappresenta la brama di vivere che rinasce ogni qual volta tale brama la si crede placata e che invano
tentiamo di soddisfare finché non si riesce a dominarla. Il vampiro ha necessità di nutrirsi ma non
annienta le su vittime, le rende uguali a lui e trasferisce sull’altro la sua fame divoratrice quando essa è
soltanto un fenomeno di autodistruzione. In pratica l’essere si tormenta e divora da se e non
riconoscendosi responsabile dei propri fallimenti immagina e accusa qualcun altro…-Per questo crea la realtà alternativa e deduce la realtà sogno, invece che al contrario? Credi che abbia
creato o solamente immaginato Demetrio e tutte le altre figure come ammette in questo capitolo?-No, ma temo che abbia finito col desiderare che tutte queste reali figure fossero irreali al punto da
non riconoscere più il confine tra la realtà e la fantasia. Solo che alla base di tutto vi è l’incapacità di
adattamento, è successo qualcosa nella sua vita che non vuole accettare o non vuole ammettere… è così
che si annienta il vampiro, smettendo di accusare gli altri e assumendosi le proprie responsabilità,
accettando la propria sorte di mortale, ma finché tale condizione sopravvive significa che non si è
risolto un problema di adattamento a se stessi: psicologicamente si definisce essere corrosi divorati, e si
diventa un tormento per se stessi e per gli altri-Accidenti, hai appena fatto la diagnosi perfetta di questo schizoide- dissi con un fischio introduttivo,
ma il fatto che lei avesse fatto uso della sua professione mi legittimò a fare uso della mia e, potendomi
inoltrare nel mio campo professionale per un attimo mi sentii padrone della situazione -l’aver tradito la
moglie, la relazione con l’amica e una figlia illegittima, potrebbero essere degli elementi da tenere in
considerazione non ti sembra?-.
Questa volta Felona si lasciò contagiare dall’inevitabile sarcasmo -sì, sicuramente hanno una parte in
questa fuga dalla realtà. Ma ho come l’impressione che non siano le vere cause del suo rifiuto. Prima di
questi eventi deve essere avvenuto qualcosa che ha innescato tutte queste reazioni, qualcosa che gli ha
dato la capacità di rimuovere dalla mente ciò che non vuole accettare come una responsabilità…-E cos’altro potrebbe avere da nascondere? Solo queste condizioni sono sufficienti a rendere pazzo
chiunque, se poi si aggiunge il fatto di cercare di celarle non solo agli altri ma addirittura a se stessi,
finire per credere a realtà alternative mi sembra il danno minore- dissi con disprezzo.
-Sì, ma lui parla di virus prima che di vampiri, inizia il capitolo stesso con questo titolo. Demetrio
entra nella sua sfera personale molti anni prima di questi eventi, ma diviene vampiro solo quando torna,
prima di questo, l’amico è un virus. Inoltre in questo capitolo fa molto riferimento al sogno, quindi è
sotto questo aspetto che forse dovremmo indirizzare la nostra interpretazione. Nei sogni il virus
esprime l’alterazione delle nozioni in nostro possesso, indica un malessere che contamina le nostre
emozioni o i nostri sentimenti…143
Non riuscivo a competere con la sua mente, in un certo senso lei ragionava troppo velocemente per
me e non potendo starle dietro non potevo nemmeno permettermi di negare la correttezza delle sue
argomentazioni, e fu solo a causa di questa confusione che forse ebbi quell’intuizione che mi colse
come un fulmine e mi impedì di stroncare quelle riflessioni troppo complicate per la mia limitata mente
e che, per ironia della sorte, parve mutare la via del suo stesso ragionamento.
-E se si riferisse ad un virus tecnologico?- lei mi guardò stupita, probabilmente non immaginando
l’origine di tale intuizione.
-Sì, voglio dire, Demetrio torna nell’era tecnologica. Alla sua partenza computer e altri accessori
informatici erano ancora risorse limitate, solo una visione del futuro, ma al tempo del suo ritorno sono
una realtà effettiva, e il termine virus ormai è quasi più frequente in questo ambito che in quello
scientifico-.
-Hai ragione…- restò perplessa un istante, poi mi fissò con intensità -all’inizo del racconto,
nell’introduzione lui non definisce Demetrio un disadattato perché differente dagli altri, ma
un’anomalia del sistema, termini molto in voga di questi tempi… questo condurrebbe ad una soluzione
più tangibile: il virus tecnologico potrebbe indicare una rottura o un difetto nel nostro sistema di
comunicazione…-E Tommaso è piuttosto afflitto dal non riuscire a farsi ascoltare- aggiunsi senza nascondere un
pizzico d’orgoglio intuitivo.
-E se il vampiro fa parte del sogno, egli è afflitto dall’incapacità di risolvere questioni per lui gravose,
questioni che lo stanno prosciugando di tutte le energie… nel muro del suo sogno si stanno aprendo
delle brecce, come lui stesso ammette, e dei germi corrosivi stanno per sgretolare le sue barriere-.
-Sta ipotizzando la sua pazzia?-No, ce la sta annunciando-.
La sentenza di Felona mi fece rabbrividire e il suo sguardo mi fece agghiacciare da quanto seria era la
sua espressione, sembrava temesse per la salute di qualcuno che nemmeno conosceva.
-Forse per stanotte tutto questo ci basta, che ne dici?- la mia voce sembrò essere la mano che la
tratteneva e la trascinava in salvo dal baratro in cui stava cadendo, e la sua espressione fu quella di chi,
sentendola, veniva svegliata all’improvviso da un sonno profondo.
-Sì- rispose -non penso sia necessario andare oltre-.
Non credo che riuscì a dormire quella notte o, se lo fece, dovette avere un sonno agitato come il mio.
La mattina, prima di avviarci alla scoperta di quelli che potevano sembrare i nostri fantasmi, le confidai
che forse aveva ragione sui sogni. Si possono anche non ricordare, ma da come avevo dormito male,
sicuramente dovevo averne fatto di terribili. La nostra fu una colazione semplice e veloce, pur sapendo
che ci aspettava una lunga giornata, nessuno di noi due sembrava avere appetito.
144
3
L’inconscio collettivo…
…Non avrei dovuto considerarlo un caso quando mia moglie lo associò, come avevo fatto io a un
virus. Ma lei era una epidemiologa e spesso fare riferimenti o cercare di dare dimostrazioni usando
l’esempio dei virus era per lei una sorta di deformazione professionale. Restai comunque sorpreso la
mattina, mentre facevamo colazione tutti assieme, quando gliene parlai. Sia per il modo in come
l’argomento fu introdotto, sia per come lei aveva reagito. Conosceva Virginia, i nostri figli avevano la
stessa età e si incontravano spesso alla scuola quando era lei ad andare a prendere Dennis. E fu
proprio Dennis ad avviare il pretesto della discussione.
-Mi sono divertito molto ieri papà- disse prima di metterci a tavola -ci andiamo ancora a casa di
Nausica?Anna lo guardò incuriosita, poi guardò me. Quando avevo saputo che Demetrio sarebbe tornato, le
avevo raccontato qualcosa di più su di lui e inevitabilmente anche su Virginia. Lei sapeva della nostra
amicizia e non aveva nessuna ragione, ne nessun sospetto, per credere che il mio interesse per lei fosse
dovuto a qualcosa di più di quell’affetto di vecchia data.
-Sei stato da lei ancora per quella faccenda?-mi domandò. Risposi affermativamente senza
imbarazzo.
Scosse leggermente la testa -non capisco perché te la prendi tanto a cuore- disse -in fondo è la sua
vita, non dovresti intrometterti, rischi di farti coinvolgere in una storia dalla quale potresti avere poi
difficoltà ad uscirne-.
La guardai perché parlava tranquillamente, elargendo consigli che non erano ordini e senza nessun
isterico pensiero possessivo. Mi ritrovai a pensare a come fossero state strane le circostanze del nostro
incontro. Non perché inusuali, al contrario, era stato un incontro del tutto ordinario, come possono
essercene stati migliaia di altri avvenuti in quel modo. L’avevo incontrata sul treno tra Verona e
Padova. Io studiavo all’università di Bologna, lei a Padova. Ciò che può essere considerato strano, nel
mio caso, è che Anna era una bella donna ma non del genere di ragazza che ero abituato a frequentare
a quei tempi. Aveva un bel fisico, ma quello che attirava maggiormente il mio interesse in una donna,
era la forma e la bellezza del viso. Virginia non era molto alta, il suo era un fisico sportivo che
eccedeva nell’abbondanza piuttosto che nella penuria e la sua era una pelle olivastra, tendente
all’abbronzato. Aveva un viso simmetrico, con occhi profondi e scuri, capelli lunghi e neri, labbra che
non erano né sottili né carnose, equilibrate, zigomi alti e guance un po’ paffute che quando rideva
disegnavano due fossette seducenti sul viso. Anna era alta, magra forse più del dovuto e la sua era una
pelle chiara, di quelle che rischiano scottature se esposte al sole. Il suo era un viso allungato con un
naso adunco. Aveva occhi quasi sporgenti e molto chiari, pure i capelli erano chiari e corti, l’esatto
opposto di Virginia. Anna era piuttosto comune, e non faceva niente per rendersi evidente il che, per
come ero io a quei tempi, circondato da belle donne, anche se non potrò mai dire se perché mi
considerassero attraente o più semplicemente per la mia condizione economica, non era certo il modo
giusto per far sì che io mi interessassi a lei, e forse, nemmeno era ciò che lei aveva in mente. Ma forse
era scritto nel destino, o forse si trattava di una sorta di condizionamento comune, un po’ come la
descrizione che Jung faceva dell’inconscio collettivo in cui ciò che abbiamo ereditato dall’esperienza
comune di tutta l’umanità, immagazzinata e accumulata nel corso dei secoli, sarebbe emerso
attraverso il percorso evolutivo risiedendo nella psiche sotto forma di archetipo. Mi chiedevo in quel
momento se per me non fosse avvenuto un condizionamento di quel genere in quanto, avendo degli
obblighi e delle aspettative nei confronti della società che mi circondava, non fossi già a livello
inconscio condizionato al punto che in lei vedevo il tipo di donna giusta da avere al fianco per
affermare in termini di approvazione collettiva il mio stato sociale.
Studiava medicina, ed era una donna classica, una perfetta figura che avrebbe contribuito a fare
della mia futura famiglia una casata rispettabile e nobile. E in definitiva, per quanto riguarda il
soddisfare le esigenze sociali, potevo dire di aver avuto la giusta intuizione.
Nel giorno in cui avveniva quel dialogo io dirigevo l’azienda di mio padre, e lei era una responsabile
del dipartimento di prevenzione di Verona. Ma nel mio pensiero era tornato ad insinuarsi il destino e
se dovevo considerare l’archetipo dell’inconscio collettivo, non potevo evitare di valutare che tale
ipotesi considerava una serie di circostanze genetiche tramandate nei secoli tra le diverse generazioni,
145
contribuendo a tramandare una sorta di memoria che, inevitabilmente, mi connetteva alle assurde idee
di Demetrio che già molto tempo prima mi aveva fatto riflettere sulla possibilità che noi ci portassimo
dentro rimasugli di esperienze passate. Esperienze che non erano della vita attuale, ma di un’esistenza
precedente per cui il nostro perpetuo viaggio nel mondo fisico non era altro che l’estensione di un
cammino interrotto dove, per qualche ragione, dovevamo riprendere, sistemare o continuare qualcosa
di già iniziato.
Quella mattina, dopo che lei era uscita per accompagnare Dennis a scuola e poi recarsi al lavoro,
assorto in questi pensieri, mi estraniai isolandomi nel mio studio a pensare contro la mia volontà a
come in effetti fosse strano che la donna con cui avevo scelto di condividere la mia vita, fosse sotto
l’aspetto fisico l’esatto contrario della donna che avrei desiderato e la giustificazione di un’approvata
immagine sociale non mi bastava più. Mi ritrovai così combattuto tra il pensiero conflittuale di essere
vittima di un condizionamento sociale e il desiderio ripulso di potermi esprimere per ciò che ero. La
domanda però, a quel punto diveniva: chi ero?
Improvvisamente mi sentii smarrito e sconvolto in una sorta di vortice immateriale con l’atroce dubbio
di non essere chi credevo o ciò che volevo essere. Eppure, tale concetto non mi aveva mai sfiorato
perché per tutti i quarantadue anni della mia vita, avevo sempre creduto di sapere bene chi fossi, che
cosa avrei dovuto fare e quale fosse il mio ruolo nella società. Nemmeno in quegli anni di allucinanti
conversazioni con gli spiriti della natura, mai avevo presupposto che il mio potesse essere un ruolo
diverso, ed ora ero terrorizzato dalla possibilità di non riconoscermi più. Tormentato ripensai al
passato analizzando ogni passo della mia vita, rifiutando con forza di aver subito un plagio morale dal
condizionamento avuto nell’educazione familiare e accettando con resistenza di aver invece subito un
abuso dalla suggestione imposta dal contatto con una mente perversa come quella di Demetrio. Ma più
mi forzavo di convincermi di questa realtà e più una forza alternativa mi spingeva ad invertire le
condizioni, portandomi di nuovo nell’assurdo delirio in cui immaginavo che una seconda personalità
esistente in me stesse cercando di emergere, facendo sentire sbagliato tutto ciò che avevo accettato, e
corretto tutto ciò che avevo rifiutato, costringendomi quasi a considerare che la moralità con cui avevo
condiviso i sogni familiari aveva finito per ottenebrare ciò che in realtà ero o volevo essere e
nell’ossessione, tornai ad immaginarmi vittima, e non più protagonista, di un sogno troppo reale
perché sapevo che se avessi accettato la realtà di non essere quello che ero, avrei dovuto mettere in
discussione tutto ciò che possedevo, sia fisicamente che mentalmente e ciò avrebbe significato
rinunciare a tutto e ricominciare a qualcosa che appariva troppo assurdo e difficile. Per questo, nella
realtà che stavo vivendo, io dovevo essere un sogno, e Demetrio, null’altro era che la sua
rappresentazione.
Non credo avesse avuto molta voglia di leggere, ma l’introduzione con la quale l’autore intitolava il
capitolo dovette avere una particolare attrattiva per Felona, e quella fu l’ultima lettura e l’ultima
discussione che potemmo avere prima di scontrarci con la realtà surreale del paese fantasma.
Stavamo giungendo a Valbordi e di lì ci saremmo avviati verso quel Casterba che ancora non
sapevamo come definire, se paese, borgo dimenticato, sogno o realtà.
-Ho sentito parlare spesso di questo inconscio collettivo, ma non ho mai capito di che cosa si trattassecercai di alleviare una sorta di tensione che stava per assalirci. Lei non sembrava più tanto euforica
come era stata nei giorni scorsi, quasi che l’indagine avesse cominciato a coinvolgere più lei di me.
-Si tratta di un concetto elaborato da Jung che qualcuno potrebbe definire l'anima dell'umanità; la
coscienza dell'umanità che accoglie a se tutte le esperienze degli individui poi trasmesse alle
generazioni successive-.
Restò sul vago evidenziando nella sua estraneità come la condizione che la stava assorbendo
cominciasse ad intimorirla, dimenticando che io non avevo alcuna preparazione in materia.
-Ah certo, ora è tutto molto più chiaro- cercai di distrarla con ciò che consideravo in quel momento un
non inopportuno sarcasmo. Lei si girò verso di me e finalmente sorrise, come a scusarsi attraverso
l’espressione che lasciava intuire il suo imbarazzo.
-Jung elaborò questa teoria partendo da un sogno in cui riconosceva tracce di memorie che non
appartenevano al suo vissuto…-Cose che riteneva quindi di non poter sognare?146
-Esatto, egli descrisse un sogno in cui esplorando casa sua scendeva nei sotterranei fino a scoprire
resti di vestigia romane e poi, discendendo sempre più penetrava in una caverna incontrando reperti
primitivi e teschi umani, da cui dedusse essere quello il mondo dell’uomo primitivo che stava in se
stesso. Per lui il sogno divenne un’immagine guida che rappresentava una specie di diagramma di
struttura della psiche umana e iniziando ad analizzare i suoi sogni cominciò ad individuare queste
tracce di un passato storico e immagini mitologiche che non appartenevano al suo vissuto, concependo
così l’esistenza di uno spazio più vasto e ricettivo che chiamò inconscio collettivo-.
-Stai recitando il tuo libro di psicologia studiato all’università?- cercai ancora di rendere la situazione
un po’ ironica per farle intendere che non capivo niente di quanto stava dicendo.
Sorrise e assecondò la mia incomprensione -la questione era che se l’inconscio individuale poteva
essere facilmente dimostrato attraverso le esperienze personali tramite i ricordi, l’inconscio collettivo
oltrepassava tali limiti per conferire nello spazio personale un’impronta rappresentante tutto il genere
umano, qualcosa che appartiene a tutti, si collega e riunisce ogni livello di esperienza attraverso
l’ereditarietà di sistemi che hanno uguale validità in ogni cultura, area geografica e periodo storico.
Così, in questo territorio svincolato da ogni concetto di spazio e di tempo hanno origine i miti e gli
archetipi per cui nei sogni acquisiscono maggiore rilevanza gli aspetti legati alla spiritualità, all’istinto
e all’irrazionale-.
-Se ho ben capito, e non credo di averlo fatto, questo inconscio collettivo sarebbe una sorta di
memoria temporale tramandata attraverso le generazioni, quindi noi saremmo condizionati non solo dal
nostro passato individuale, ma dal passato di tutta l’umanità?-Esatto, l'inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall'inconscio
personale per il fatto che non deve la sua esistenza all'esperienza individuale e quindi non è
un'acquisizione personale… il contenuto dell'inconscio collettivo, che supera le esperienze personali, è
formato essenzialmente da archetipi, modelli originari usati come valori esemplari. Se nella nostra
memoria, o nei nostri sogni appaiono esempi di cui noi non abbiamo coscienza perché non ne abbiamo
mai avuto esperienza in questa realtà, tali archetipi, secondo l’inconscio collettivo, provengono da
memorie ereditate o… da esperienze di vite passate-.
Ecco, ora anch’io potevo sentirmi assalito dalla sua stessa mesta angoscia e capire l’origine della sua
seria preoccupazione.
-E tu ci credi a queste cose?- le domandai evidenziando nel tono della mia voce la scomparsa di ogni
ironia.
La sentii sospirare -per fare il mio lavoro le ho dovute studiare, all’inizio le ritenevo poco credibili.
Professionalmente mi sono imposta di valutarle solo ai fini di trattamenti terapeutici, ma prima di
adesso, non ho mai voluto considerarle come realtà possibili, seppure non le abbia nemmeno mai
potute escludere-.
-Temi di scoprire che possano essere realtà plausibili?Improvvisamente mi sovvenne l’intuizione che mi dava la sensazione che le parti si stessero
invertendo, fino a poco prima ero io quello che temeva di scoprire cose che avrei preferito continuare a
ritenere irreali, mentre ora era lei a doversi scontrare con la difficile realtà di scoprire che ciò che si
poteva anche ignorare perché mai provato, stava, o poteva divenire realtà.
-Non so cosa dire, certo il modo in cui le introduce è decisamente subdolo. A livello psicologico direi
che questo individuo è perfidamente geniale…-Forse è pure lui uno psicologo-.
-O forse è qualcuno che ha superato una certa barriera e ha osservato oltre…-Oltre a che cosa?-Oltre a quel muro che ancora non ci ha detto di aver valicato…- concluse, e la sua serietà parve
condurci, attraverso la strada che stavamo percorrendo, in una diversa dimensione. Improvvisamente
tra noi si instaurò un insolito silenzio mentre le strade cominciavano a farsi più strette e dissestate, la
campagna circostante sempre più deserta, gli alberi e le rive dei fossati meno curate e l’aria quasi più
fredda, perfino il cielo pareva cambiare lentamente tonalità, passando da una limpida nuance d’azzurro
chiaro a un sempre più ostile grigio uggioso, come se l’aria circostante fosse parte di una realtà che non
apparteneva allo stesso tempo.
147
L’auto cominciò a sussultare sulle strade sempre più sconnesse tanto da farmi rallentare fin quasi a
passo d’uomo. Un fitto bosco che si stagliava davanti al nostro orizzonte ostruiva la visuale di quel
luogo cinereo dentro al quale ci stavamo inoltrando, finché in prossimità del bosco stesso mi trovai ad
affrontare una curva che sembrava far cambiare completamente direzione alla strada, svoltando quasi di
centottanta gradi in direzione sud, ed ecco che finalmente il fantasma ci apparve in tutta la sua solidità.
Una sontuosa villa fu la prima costruzione che incontrammo, seppure la sua magnificenza doveva
essere rimasta una peculiarità del passato. Pensai ai racconti della guida al castello e considerai che in
fondo non dovevano essere poi tanti gli anni in cui Casterba era divenuto un fantasma, tuttavia ricordai
un documentario in cui si descriveva come la natura fosse rapida a riconquistare ciò che gli era stato
tolto e osservai come l’edera aveva invaso le mura della villa mentre radici ed erbacce si erano
impadronite del cortile. Poco più avanti un cartello sembrava essere stato inghiottito da una pianta di
glicine, non era riconoscibile ma probabilmente era il cartello limitrofo che delimitava i confini di
quello che un tempo doveva essere stato Casterba. Andando avanti incontrammo un corso d’acqua sul
quale la strada passava sopra come un ponte e io mi domandai se si trattasse del famigerato fiume
Tregnon. Un'altra casa abbandonata e invasa dalle piante ci accolse sulla via, dietro di essa un'altra
curva tornava ad indirizzarci verso nord ovest e poco distante finalmente intravedemmo la sagoma di
qualcosa che sembrava riportarci in una realtà concreta. Al di sopra delle coltivazioni di mais e girasoli,
uniche condizioni curate in quell’ambiente, si stagliava la sagoma di un campanile ancora in buono
stato. La guida ci aveva detto che la chiesa era uno dei beni recuperati dal comune e quando la
raggiungemmo, in effetti, potemmo constatare come il piazzale, dove un monumento ai caduti di guerra
ricordava che anche lì qualcuno aveva segnato la storia, fosse curato. Felona mi chiese di fermarmi e io
l’assecondai, come se per riflesso già avessi intuito, o meglio, deciso, che la chiesa valeva la pena di
essere visitata.
Non si può dire che facesse freddo, anzi, il clima era torrido come in tutto il resto della regione,
eppure una sorta di inquietudine contribuiva a rendere l’atmosfera circostante impersonale, e non
permetteva di opporsi ad una sorta di brivido che pareva causato da ciò che si sarebbe potuto definire,
freddo. Secondo l’opuscolo che ci eravamo portati dalla biblioteca di Valbordi la chiesa era
parzialmente custodita, il che significava che qualcuno, forse un impiegato comunale, giacché
sembrava che la curia non si preoccupasse più molto di un monumento in cui non si tenevano più
funzioni religiose, provvedeva ad aprire le porte, accendere le luci e qualche altro servizio negli orari
previsti di apertura e poi ripassava per chiudere. Ritenere che non vi fosse l’esigenza di una presenza
costante in quella che avrebbe dovuto divenire una sorta di attrazione turistica ci fece intuire che
all’interno non avremmo certo trovato cose preziose e ci avvicinammo all’entrata senza particolari
aspettative. Salimmo i quattro gradini in marmo e prima di oltrepassare la soglia dell’imponente
portone, evidentemente ristrutturato, ci fermammo un attimo, come colti da una riverente inquietudine.
Avrei potuto dire, per una sorta di timore reverenziale, che qualcosa di irreale stesse dominando l’area
circostante e che, in un modo quasi minaccioso, ci stesse osservando come un guardiano che si accerta
che gli intrusi abbiano i nobili requisiti pretesi da una rigorosa morale divina, a non profanare la
sacralità di un luogo da esso protetto, al punto che lasciai, poco cavallerescamente, che fosse Felona a
precedermi. Spinse in avanti la porta e il lieve cigolio che emise mi fece rendere conto del silenzio che
regnava tutto intorno. La luce del sole illuminò la navata centrale riflettendosi sul marmo del
pavimento bianco e grigio. Felona oltrepassò la soglia, osservò alla destra dove dal muro sporgeva un
acquasantiera pensile nella quale immerse la mano. Non credevo che avrebbe trovato qualcosa e mi
sorprese vedere le gocce di acqua santa sulla punta delle dita che la luce del sole riuscì ad illuminare
prima che la porta, spinta da una chiusura a molla moderna, si richiudesse dietro di noi. La vidi farsi il
segno della croce e poi inchinarsi verso l’altare dove dietro un tabernacolo in buono stato si poteva
ammirare una pala di discreta fattura, o almeno così la potevo definire io nella mia bassa cultura
artistica. Quando la porta si richiuse, la lucentezza del luogo di culto si affievolì ma non divenne
lugubre come mi sarei atteso. Il silenzio dominante era veramente reverenziale e per un momento mi
parve quasi di profanare, con la mia inclinazione laica, un vero luogo sacro. Attraversammo piano e in
silenzio il corridoio tra i banchi che un tempo accoglievano i fedeli ancora in buono stato, e
osservammo gli affreschi e le tele come se effettivamente ci trovassimo all’interno di un museo. Felona
poi si avvicinò a uno degli altari laterali dove erano posate statue di santi e di madonne e dove, davanti
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a ogni uno, quattro in tutto, due a destra e due a sinistra, erano posti dei candelieri dove il presupposto
custode doveva aver preventivamente acceso qualche candela con lo scopo di attirare la volontà di
offerte da parte di qualche improbabile visitatore. Mentre mi guardavo attorno, sentii il tonfo di una
moneta cadere nel contenitore metallico e l’eco prodotto mi fece pensare che quella era probabilmente
l’unica moneta che il custode avrebbe trovato all’ora della chiusura. Mi voltai e vidi Felona accendere
un cero e posizionarlo davanti la statua di non so quale santo. Restai leggermente perplesso e impiegai
un po’ prima di reagire.
-Aspetta- dissi e, avvicinandomi mi apprestai a fare anch’io la mia offerta. Non sapevo quanto aveva
gettato nella cassetta Felona, osservai se vi fosse un qualche avviso che indicasse una quota minima
ma, non essendovi alcuna indicazione fui colto dal panico. Nel mio portafogli c’erano diverse monete,
ma non sapendo quale fosse l’alternativa migliore, optai per quella di maggior valore e gettai una
moneta da due euro nella cassetta, quindi presi un cero e lo posi vicino a quello di Felona.
-A chi lo dedichi?- mi domandò.
La guardai imbarazzato -prego?- le risposi.
-Di solito quando si fa un offerta in un luogo sacro, si chiede una grazia per qualcuno. Tu per chi
vorresti chiederla?Non ci voleva un genio per comprendere che io non ero un frequentatore di chiese e nemmeno un
credente, e imbarazzato balbettai una risposta eludente.
-Non saprei, ci dovrei pensare. Tu a chi l’hai dedicata?-A me stessa- rispose senza indugi.
-Davvero? E si può fare?- le domandai, ma senza ironia perché nella mia serietà lasciavo trasparire
l’ingenua ignoranza. Lei sorrise e tornò a volgere lo sguardo verso la statua.
-Allora la dedico a te pure io-. Mi guardò perplessa e stupita allo stesso tempo.
-Sì, in fondo non ho nessun altro a cui dedicare pensieri o grazie- ammisi, e il suo stupore si trasformò
in una sorta di tristezza che per la prima volta riuscì a contagiarmi. Era la prima volta in effetti che mi
rendevo conto di quanto ero solo nella mia vita che sempre avevo considerato fin troppo piena.
Non disse nulla e lentamente indietreggiò, poi si scansò di lato e andò a sedersi a uno dei banchi per la
preghiera. La osservai in silenzio, pensando ancora alla mia condizione appena scoperta, quindi la vidi
prendere il fascicolo e sfogliarlo. Quando si fermò mi guardò e mi invitò a sedere vicino a lei. Intuii
che voleva leggere e ne restai sorpreso.
-Vuoi leggere qui?-.
-Tranquillo, non stiamo profanando nulla- mi rispose giustificando la mia preoccupazione. Mi sedetti
vicino a lei fiducioso, in fondo io di chiese e luoghi di culto non ne sapevo niente e per la prima volta
potevo anche permettermi di pensare che se vi fossero state ripercussioni divine, avrei sempre potuto
dire che non era stata colpa mia.
Girò il foglio e quando la sua voce prese il tono di lettura, l’eco prodotto dalla sala liturgica, parve
quasi spedirci in una dimensione, come avrebbe detto lei, oltre:
149
4
Il teatro delle marionette…
…I pensieri allucinanti che avevo ponderato per l’intera mattinata cominciarono ad infuocarmi la
testa e quando, stanco come se avessi lavorato tutto il giorno, mi andai a coricare come fosse notte
anziché ancora mattina, mi trovavo in uno stato febbricitante che, nel sonno convulso e frammentato,
mi portò un incontrollato stato di delirio. Non so se sognai, in quanto non potevo più, in quel
temporaneo periodo di profondo turbamento, distinguere il sogno dalla realtà e quindi non so quanto
le parole che avevo pronunciato nel sonno agitato potevano essere riconducibili al sogno o alla realtà.
So che quando mi svegliai fremevo di brividi freddi ed ero fradicio di sudore. Ero preda di una febbre
convulsiva in una condizione di assoluta crisi fisica ed Anna, con la voce che mi rimbombava nelle
orecchie, mi avvertiva di non alzarmi per nessun motivo, sebbene mi mancassero le forze per farlo. Il
tormento mi assalì al pensiero che quello era l’ultimo giorno che avevo per impedire che Demetrio e
Virginia realizzassero il loro assurdo progetto. Quando poi Anna uscì per tornare al lavoro lasciando
chiare istruzioni alla domestica, sotto l’effetto dei medicinali antifebbrili e dei tranquillanti che mi
aveva somministrato, caddi in un sonno profondo ma tormentato e a quel punto, potei accertarmi della
realtà, non dei sogni, ma degli incubi. Incubi che non avrei ricordato nell’immediato e che, col passare
dell’effetto dei tranquillanti si facevano sempre più spezzettati a causa del sonno che mi coglieva e
abbandonava alternativamente. La sera quando Anna tornò si mostrò preoccupata perché il mio
aspetto era vistosamente debilitato e quando misurò la febbre il rilevatore indicò un quaranta e oltre.
Per un po’ insistette che sarebbe stato meglio recarsi all’ospedale, ma io, in un breve attimo di lucidità
mi opposi con resistenza, pensando che forse l’indomani avrei ancora potuto avere del tempo per fare
desistere uno dei due dall’assurdo impegno. Ma la dose di tranquillanti che mi venne somministrata
per dormire fu tale che la mattina nemmeno mi svegliai e quando cominciai a riprendere cognizione
del tempo, era già pomeriggio. L’unica cosa che mi rimase da fare nel momento in cui scoprii la realtà
di quanto fossi impossibilitato ad impedire che il fato seguisse il suo corso, fu quella di accettare che
ormai tutto era in movimento, che Demetrio stava già seducendo Virginia e che, in un modo che
ancora mi era oscuro, tutto ciò avrebbe avuto ripercussioni sulla mia stessa sorte.
Rassegnato e angosciato, mi lasciai trasportare dal torpore e nell’unica consolazione che i sintomi
della forte febbre avevano impedito ad Anna di associare il mio sconforto all’idea di Demetrio e
Virginia, mi abbandonai all’oblio, nel quale, lampeggianti figure di allucinazioni cominciarono a
trafiggermi la mente con lancinanti dolori simili a spilli conficcati nel cervello, provocandomi fitte di
dolore simultanee alle percezioni illusorie, che mi lasciava solo il tempo di percepire immagini
sfuggevoli che solo con l’aiuto dell’immaginazione potevo cercare di interpretare. Immagini oscure
che sembravano estensioni degli incubi febbrili che non ero stato in grado di ricordare la notte
precedente, di luoghi tenebrosi paragonabili ad antri o caverne che nell’immaginario chimerico
prendevano la forma di abissi infernali nei cui baratri si alternavano suoni che sembravano lamenti di
gente sofferente, come vittime di una violenza, un sopruso o una tortura. In qualche immagine più
nitida mi parve di vedere la forma di una frusta accompagnata dal traumatico sibilo, e certi lampi
rossi mi facevano poi pensare al sangue riversato dalle ferite inflitte. Ebbi la visione di mani
incatenate, come a indicare una sorta di prigionia e poi, certa, la figura di un volto diabolico che
l’immaginazione mi condusse a riconoscere nell’aspetto di un drago, ma che per una strana
convinzione non potevo definire un drago. Pensai, o forse fu un'altra visione, al dipinto di JeanAuguste-Dominique Ingres, “Ruggero libera Angelica”, che avevo avuto l’occasione di osservare in
una visita a Londra alla National Gallery, nel quale era raffigurato Ruggero che, giunto in volo
davanti ad Angelica incatenata, combatteva contro un mostro dalle sembianze di drago, ricalcando il
più tradizionale racconto di Perseo e Andromeda. Ma il contesto storico artistico dell’opera con il
quale cercavo di giustificare le allucinazioni della mia mente distorta dal delirio, non era sufficiente a
dissuadermi dall’associare Angelica, o Andromeda, con Virginia, e a impedirmi di percepire nel drago
l’animo malefico di Demetrio che come un aggressore attentava alla sua virtù seducendola con
l’ausilio di forze oscure delle quali aveva appreso le arti grazie ai suoi incontri con sciamani e
stregoni dell’Africa nera. La mia razionalità mi portava a concepire che tali contesti erano irreali e
che la stregoneria altro non era che la sottomissione a sostanze oppiacee e droghe di svariati generi.
Ma la mia razionalità era ormai messa fuori gioco da una continua incostante messa in discussione
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della stessa, e in questa visione non potevo impedirmi di vedere come nella figura di Ruggero io fossi
l’eroe che poteva salvarla dal demone. Non avevo ben chiara comunque la storia tratta dall’Orlando
furioso in cui l’eroe giunto a cavallo di un ippogriffo, affascinato dalla bellezza della fanciulla
liberata, rimanendone sedotto e innamorato, subisse come una sorta di tradimento dalla stessa che
usando un anello magico scompariva e si sottraeva a lui. Le mie condizioni erano troppo precarie e
deboli tuttavia per avere la lucidità necessaria a creare un nesso tra quelle visioni e la realtà vissuta.
Inoltre ancora non potevo collegare quell’immaginario tradimento ad una condizione di cui ancora
non avevo consapevolezza, e quando ne avessi avuto la lucidità per farlo, tali immagine erano già
troppo disperse nell’archivio dei sogni e dimenticate così come si dimenticano tutti i sogni…
Non osavo quasi parlare in preda ad una suggestione nella quale non mi riconoscevo. Non era la prima
volta che entravo in una chiesa, sebbene mai per mio volere. Avevo avuto molte occasioni nel mio
lavoro di pedinare sospetti all’interno di luoghi sacri, e perfino di avere discussioni d’affari nel
circoscritto perimetro di un apparente luogo neutrale. In questo frangente però, qualcosa cambiava.
Forse l’atmosfera quasi mistica generata da quel silenzio e quella totale solitudine dove nessun altro
visitatore o celebrante poteva distrarre l’occhio divino dalla mia figura. Osservai così Felona quasi
intimorito e nel rivolgermi a lei bisbigliai un sussurro come se temessi di poter essere ascoltato.
-Mi ricordo uno spettacolo di marionette che rappresentava l’Orlando furioso, ma non so niente della
storia- le confessai.
Lei non sembrava preoccupata dal mio stesso timore di profanazione e parlò liberamente, consapevole
che comunque l’unica presenza in grado di ascoltarci, quella divina, poteva udire anche il minimo
bisbiglio.
-Si tratta di un poema cavalleresco, come il Parsifal che già ha citato, o come le gesta di re Artù. Lo
paragona al mito di Perseo e Andromeda dove in entrambi vi è una fanciulla da liberare, un cavaliere e
un mostro. Nell’Orlando Furioso tuttavia Angelica è sfuggevole, tra lei e i suoi spasimanti vi è una
continua alternanza di fuga e rincorsa e i cavalieri si scontrano in duelli apparentemente insignificanti
per eccesso di ardori, passioni ed eccitazioni piuttosto che nobili intenti-.
-Sì, ma il ricordo di cui narra l’autore è relativo ad una liberazione, egli parla di un dipinto in cui
l’eroe salva la bella dal drago-.
-E qui però introduce il raffronto con Perseo e Andromeda, e non manca di associare le due figure
dell’Orlando con quelle mitologiche. L’Orlando furioso probabilmente riconduce simbolicamente in
questo contesto alla confusa rincorsa in cui Tommaso prima cerca di spingere Virginia verso Demetrio,
poi la vuole allontanare. Lui vede in Demetrio ora il drago e Virginia è la fanciulla da liberare. Ricordi
quando abbiamo parlato della simbologia del drago? L’eroe ha sempre bisogno di una presenza
femminile per sconfiggere il drago, ma tutto è relativo. Il drago rappresenta i pericoli, la figura
femminile la parte inconscia del profondo sé che l’eroe deve affrontare e comprendere. Tommaso non
interiorizza ed espone queste figure simboliche all’esterno. Poi fa riferimento ad Andromeda, anche lei
prigioniera del mostro mitologico di Medusa, ma Medusa è una vittima…-Una vittima? Io sapevo che era un mostro terrificante che poteva pietrificare solo con lo sguardo-.
-Sì, questo è ciò che tutti conoscono del mito di Medusa, ma in pochi sanno che la sua condanna è
stata inflitta da una dea, esattamente come accadde a Elena di Troia. Medusa era una splendida
fanciulla di cui Poseidone approfittò proprio nel tempio di Atena e per questo subì l’ira della dea che la
trasformò nell’orrendo mostro-.
-Si vendicò contro Medusa invece che contro Poseidone? E perché mai lo avrebbe fatto?-Poseidone era fratello di Zeus e sarebbe stato impossibile vendicarsi di lui senza attirare l’ira del re
dell’Olimpo, ma in questo modo Atena si vendica due volte. Annienta la bellezza della fanciulla di cui
è gelosa e ne fa ricadere la colpa su Poseidone…-Quindi ella fa pressione sul possibile rimorso del Dio che dovrebbe sentirsi in colpa per la sorte di
Medusa sapendo di essere stato la causa scatenante della sua ira?-Esatto-Ma a pagarne le conseguenze sono sempre i più deboli e mai i veri responsabili-.
-Infatti, inoltre per una divinità di questa tradizione non vi è pentimento e Atena stessa lo sa, per cui il
suo è solo un gesto di ira nel quale traduce il suo sfogo. Il punto quindi resta: che colpa aveva Medusa?
Chi ha scatenato il mostro lo ha fatto per un condizionamento riflesso. Così i sogni che Tommaso fa nel
151
suo stato febbricitante lo conducono a questo: lui crea il mostro trasformando Demetrio in Medusa; lui
incatena la fanciulla trasformando Virginia in Andromeda o Angelica; lui deve liberarla identificando
se stesso in Perseo o Ruggero…-Ma lei fugge-.
-Infatti, ecco perchè confonde i poemi cavallereschi con la mitologia Greca. Nell’Orlando furioso
Angelica è sfuggevole e nessuno riesce a possederla, ma nel mito di Andromeda invece Perseo la libera
e la sposa…-Quindi lui è combattuto tra ciò che gli sfugge e ciò che vorrebbe conquistare-.
-Già, solo che ciò che lui vuole conquistare non è né la sconfitta del drago né la liberazione della
principessa… lui insegue se stesso senza sapere ciò che cerca-.
-E questo è ciò che rappresenta l’immagine dell’antro? Quello in cui dovrebbe discendere per
affrontare il drago, ovvero se stesso?-Sì, solo che prima deve riconoscersi nelle vesti del drago, per questo rifiuta di riconoscere ciò che
deve combattere e ciò che deve liberare, perché una volta accettato questo, dovrà mettere in discussione
ogni cosa-.
Non mi ero reso conto che il nostro dialogo restava come un eco tra le pareti della chiesa, e prima che
potessi farle notare che forse la sede in cui ci trovavamo non era la più adatta alle nostre analisi, sentii
la sua vece annunciare il successivo capitolo:
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5
Vittime di Crono…
…Tutto si era concluso nel modo più inatteso. Lui aveva rinunciato e alla fine se ne era andato e io
non sapevo ancora né perché, né come si fossero svolti i fatti. Eppure sentivo che niente era terminato.
Era successo come venti anni prima. La mia febbre era perdurata per tutta la settimana, alternando
momenti di lucidità ad altri di delirio e allucinazioni e infine qualcuno mi aveva detto che stava
partendo.
L’ambasciatore di tale missiva era stato Val, che nella mia ancora incompleta guarigione, mi
appariva come un messaggero di natura oscura. Era successo il venerdì, ad una settimana esatta
dall’inizio dei sintomi febbrili, e sebbene lo stesso Val mi avesse assicurato che il suo incontro con
Demetrio la mattina stessa fosse stato casuale, io, forse perché ancora deliravo o forse perché ero
ormai troppo coinvolto nelle assurde congetture sulla realtà del destino, del fato e degli eventi
prestabiliti, non potevo considerare le sue parole come oggettive. Mi aveva detto di averlo incontrato
mentre usciva dalla sede comunale dove si era recato per consegnare foto e relazioni riguardanti il
materiale da usare per il libro storico sul paese e quindi lo aveva salutato, rivelandogli che durante la
settimana trascorsa, dopo aver discusso con i responsabili dell’azienda editoriale con la quale avrebbe
dovuto collaborare, aveva infine deciso di rifiutare il lavoro e, poiché non aveva un buon rapporto con
gli addii, aveva pregato Val di portare i suoi saluti a tutti coloro che li avrebbero potuti apprezzare.
Ma lo stesso Val non era così affidabile come intermediario e, poiché anche lui era in procinto di
partire, non più per uno dei suoi viaggi all’avventura ma per questioni di lavoro, aveva pensato di
passare a me l’incarico. Mi aveva avvertito che sarebbe partito l’indomani e che non importava certo
che io fossi stato tanto sollecito, potevo tranquillamente rimettermi e poi, se qualcuno avesse chiesto,
dire semplicemente quanto il Mage aveva riferito a lui: “Demetrio aveva rifiutato il lavoro ed era
tornato alla sua vita di reporter naturalista”. Val era stato molto sbrigativo ma quando gli domandai
se sapeva qualcosa di più, per la prima volta forse, lo vidi farsi riflessivo e, come se ad un tratto una
sorta di intuizione quasi inconsapevole lo costringesse a soffermarsi su un pensiero mai considerato,
placò la sua esuberanza e, sedendosi, parve riflettere su considerazioni mai considerate. Certo lui non
poteva sapere a cosa mi riferivo ma, nonostante tutto, la sua superficialità si fece meditativa e con una
certa complessità il suo pensiero si fece quasi analitico. Iniziò dicendo che Demetrio era una sorta di
nomade che, come lui, non poteva restare legato per troppo tempo ad un luogo. Ma fu proprio dalla
semplicità di questa constatazione che Val parve intuire quanto in realtà, di semplice, non vi fosse
nulla nel comportamento di Demetrio. Mi guardò e come se vedesse riflesso in me lo stesso suo dubbio
mi parlò come se dovesse fare una rivelazione che solo lui aveva intuito.
-Sai- cominciò -io credo che le persone come Demetrio abbiano dentro qualcosa che va oltre ciò che
sono le persone comuni- io lo ascoltai in silenzio perché avevo la sensazione che in quel momento si
stesse compiendo un prodigio. Qualcosa che poteva rivelarmi come io non fossi così folle da lasciarmi
trascinare dal pensiero che una vita può essere trascorsa nell’assoluta inconsapevolezza o
superficialità, rendendomi conto che quello a cui stavo assistendo era un dramma, perché quando ciò
accade, è come svegliarsi da un sogno, o peggio, da un incubo, per comprendere dopo tanta inutilità,
di non aver mai considerato qualcosa di più grande di un viaggio, un lavoro o perfino un amore e per
un momento, fui tentato di fermarlo. Ma sapevo che ormai era tutto inutile perché anche lui a questo
punto era una vittima di Crono che avviava quel tempo dal quale non era più possibile tornare
indietro. Così restai ad osservare la sua espressione irriflessiva e spensierata, farsi inquieta e
meditativa e, come un persecutore, rimasi ad osservare il germogliare del suo tormento.
-Io e te abbiamo un ruolo, magari non ben definito, siamo diversi… io viaggio molto e anche se ora lo
faccio per lavoro, il motivo principale resta un mio desiderio personale, senza una vera motivazione, tu
hai messo radici e hai organizzato la tua vita in modo diverso, ma entrambi ci siamo realizzati e
abbiamo consolidato il nostro ruolo, come se avessimo trovato ciò di cui abbiamo bisogno… le
persone come Demetrio invece, successo, viaggi e notorietà non sembrano essere quel che cercano
veramente, per loro, tutte queste cose appaiono addirittura superflue: sembrano sempre alla ricerca di
altro, come fossero tormentate da un’esigenza di un qualcosa che nemmeno loro comprendono fino in
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fondo…- mi guardò con intensità -sai, io credo che Demetrio non possa restare prigioniero di un luogo
perchè ancora non ha trovato il suo luogo, o il suo ruolo-.
Non potevo rivelargli come io credevo il contrario, ovvero che eravamo noi a non conoscere ancora
il nostro ruolo.
-È forse per questo che ha deciso di riprendere il suo cammino…- non proseguì, ma il suo silenzio mi
rivelò come ormai in lui qualcosa stava cambiando irrimediabilmente. Provai quasi tristezza e come a
volerlo distrarre dalla malinconia che pareva coglierlo gli domandai se secondo lui Demetrio aveva
desiderio che i suoi saluti fossero portati a qualcuno in particolare.
Lo vidi riprendere la sua solita espressione -non saprei, io credo che sia tu la persona cui teneva più
di tutti, ma allo stesso tempo tu sei anche quello che lo conosce meglio-.
Ci salutammo e lo lasciai andare, consapevole che se per lui Demetrio se ne andava per trovare il
suo ruolo, io sapevo che al contrario, era per lasciare che fossimo noi a cercarlo. Ma qualcosa era
rimasto in sospeso e quel suo partire improvviso per me, non era affatto per un’incapacità di mettere
radici, così come la sua rinuncia a quanto, in apparenza, era tornato per concludere non era causata
da un fallimento ma piuttosto da un progetto già calcolato. A mio avviso, nemmeno quel fantomatico
lavoro aveva mai avuto una reale consistenza e come vent’anni prima, turbato, ero andato da lui, per
conoscerne la ragione.
Per un motivo che non so spiegarvi, avevo la certezza che la mattina successiva non avrei avuto più
alcun sintomo di febbre o altri malesseri, come se la mia indisposizione fosse stata in qualche modo
legata alla necessità di non intromettermi nelle questioni che lo riguardavano, sebbene accettare una
simile verità sarebbe stata come ammettere che Demetrio era veramente una sorta di stregone, e solo
questo, poiché ancora volevo mantenere una certa integrità mentale, mi permise di conservare i miei
dubbi.
Venti anni prima gli avevo chiesto se era per lei che se ne andava e lui aveva risposto che lo faceva
perché aveva avuto una buona proposta di lavoro. Questa volta gli avrei chiesto se la proposta di
lavoro non era come se l’aspettava.
Lo trovai dove mi attendevo che fosse, o meglio, dove sapevo che era. Vent’anni prima ero andato a
trovarlo direttamente a casa sua, questa volta, forse per il timore che la mia visita lo inducesse a
ripensare alla sua decisione, lo andai a trovare direttamente alla stazione, dove era in attesa del treno
che lo avrebbe condotto in un'altra città per poi proseguire verso una destinazione presumibilmente
ancora ignota. Eppure, malgrado la sua partenza avesse dovuto essere un sollievo, come vent’anni
prima, una sensazione di disagio mi inquietava.
-La proposta di lavoro è ottima- rispose -di quelle che uno della mia professione e età non esiterebbe
ad accettare- rispose come se non dovesse aggiungere altro ad una domanda che, in effetti, esigeva
una sola risposta. Inevitabile dunque la ribattuta, sapendo che la risposta voluta non era quella
desiderata, in quanto la domanda stessa non era stata posta per avere tale risposta.
-Allora perchè hai rifiutato?- questa volta non fu elusivo, lui sapeva bene quel che cercavo e io avevo
l’impressione che il suo obiettivo questa volta non fosse d’essere ambiguo, ma di darmi esattamente
ciò che volevo. Tuttavia ancora sembrava volermi offrire delle vie di fuga, come a dimostrare nella sua
lealtà, di lasciarmi libero nello scegliere le mie protezioni.
-Non sono tornato per un lavoro Tommaso, e tu lo sai. Perché continui ad insistere a voler conoscere
più di quando dovresti? Ormai intendi i rischi del voler proseguire su territori sconnessi dai quali poi
non puoi più tornare indietro. Se hai imparato a leggerne i segni, devi averlo sperimentato in qualche
occasione nei confronti di altri…Sussultai in modo contenuto perché avevo l’impressione che la sua allusione fosse a quanto avevo
scoperto solo la sera prima nei confronti di Val, il che mi conduceva a considerare che nemmeno
l’aver mandato lui da me come emissario fosse stato casuale ma piuttosto ben premeditato. Non attese
che io lo invitassi a continuare, il mio pensiero fu veloce e il suo dialogo non si era interrotto.
-In fondo anche tu hai avuto ciò che volevi no? È il senso di colpa a spingerti verso questo
precipizio?- non comprendevo che cosa avesse voluto intendere con quell’ultima affermazione, ma in
un certo senso, non potevo evitare di sentirmi in parte colpevole.
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Una colpa che doveva avere avuto origini molto più lontane nel tempo, ma sempre in un tempo che io
valutavo riconducibile ad una data precisa e che si collocava nell’intervallo racchiuso nell’età che
andava tra i quindici e i venti anni.
-È stata lei a dirti di andartene?- gli domandai.
-Sapere che è andata così ti farebbe stare meglio?- ribatté lui.
Non sapevo se mi avrebbe fatto stare meglio, e non risposi. Osservai l’esile bagaglio ai suoi piedi. Una
piccola valigia che si poteva definire una sorta di bagaglio personale, come quelli che sono concessi di
portare all’interno di un aereo sotto forma di bagaglio a mano, e che non conteneva niente che potesse
far pensare all’idea che uno dovrebbe avere di un soggiorno prolungato. Nell’immediato però non
pensai che quello era il medesimo bagaglio con il quale doveva essere arrivato. Certo se la sua
intenzione era quella di trasferirsi avrebbe potuto essere anche una cosa normale, visto che in
definitiva tutte le sue cose avrebbero poi dovuto giungere in un secondo momento. Tuttavia la stessa
condizione di doversi trasferire avrebbe dovuto presagire la prevenzione della necessità di più oggetti
personali per il soggiorno. Se avessi valutato queste cose, forse avrei cominciato a fare congetture
diverse sulla sua consapevolezza a non dover restare a lungo, e quindi al pensiero che lui già sapeva
come sarebbero andate le cose. Ma allo stesso tempo, se lo avessi fatto, sarei nuovamente precipitato
nel baratro dell’assurda idea che lui prevedesse il futuro e avrei rischiato di gettare la mia mente in un
caos delirante. Forse era questo che intendeva con quell’affermazione. Sta di fatto che non pensai a
nulla e lui si sedette sulla classica panchina della stazione.
Mi guardò -hai mai avuto il sospetto di non avere il controllo della tua vita, ma che sia la tua vita ad
avere il controllo su di te?- mi disse, ma io non ero intenzionato a lasciarmi condurre verso astratti
discorsi irrazionali.
-No, sono dell’idea che la vita deva essere semplicemente vissuta e che se qualcosa non va nel modo
in cui avremmo voluto non sia colpa né nostra né del destino- lo dissi con un chiaro riferimento alla
sua condizione con Virginia e lui annuì intuendo quale fosse stata la mia allusione. Evidentemente
però, non era a quello cui stava pensando.
-Quindi se tu non fossi stato figlio di una famiglia economicamente ben disposta ma di un padre
ubriacone e una madre di mala educazione, credi che la tua vita sarebbe stata la stessa?Lo guardai indignato, sapendo che non avrei dovuto rispondere ma incapace di controllare l’istinto.
-Certo le condizioni possono avere qualche influenza, ma non sono una giustificazione per gli eventidissi.
-Capisco- rispose semplicemente lui e il suo successivo non aggiungere nulla mi fece irritare.
-Andiamo Mage, non puoi pensare che la tua condizione sia la causa che ti ha impedito di stare con
Virginia. Lei desiderava altro, tutto qua-.
-Il che ci riconduce inevitabilmente alle nostre condizioni. Se io fossi stato l’altro che lei desiderava,
non credi che le cose sarebbero state diverse?Fu con arroganza che risposi, senza rendermi conto che in quel modo contraddicevo me stesso magari se tu fossi stato diverso, non avresti nemmeno desiderato di volere lei non credi?Lui sorrise e annuì compiaciuto -sì è vero. Quindi io dovevo essere così per desiderare lei, e se lei mi
ha rifiutato, è possibile che ci fosse una ragione che va oltre le nostre concezioni. Tu che ne dici?provai una sensazione di forte disagio perché, nonostante la confusione che mi stava sorgendo nella
mente, mi rendevo conto che in tutta quella insensatezza, vi era qualcosa di sensato.
-Tu vuoi assolutamente giustificare un evento nello stesso modo in cui facevano gli antichi. Creando
miti dal concetto incomprensibile, come se l’avvenire dei fatti sia guidato da forze di natura
sovrumana. Ma non è così che funziona. La realtà è quella in cui viviamo, siamo tutti diversi con gusti
e idee diverse…-E tuttavia c’è chi può permettersi di realizzare i propri progetti e chi invece no. Rifletti Tommaso, e
se noi dovessimo invece essere esattamente ciò che siamo? E quindi il nostro realizzare o no i nostri
progetti non fosse solo questione di potere o no?...-Smettila con questi discorsi, non siamo più ragazzini Mage- lo interruppi perché sentivo troppo
opprimente quel vorticoso caos mentale, allora lui si fece cupo e serio.
-Dimmi Tommaso, cosa hai pensato la notte in cui è morto Marco?- lo guardai con una sorta di
paura negli occhi.
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-Sono stato male, come tutti quelli che lo conoscevano-.
-Non dire stupidaggini. Marco non era apprezzato e non aveva amici, se escludiamo noi due, Val e
Vincent. forse si può dire che qualcuno ci sia rimasto male certo, ma che la sua morte abbia avuto una
conseguenza nelle coscienze di qualcuno, lo dubito proprio-.
-Forse avrebbe dovuto averla nella tua- lo aggredii -visto che della morte degli altri non sembra ti
importi un gran che. Non venisti al suo funerale, sebbene dici che era tuo amico, e come facesti con tuo
padre, giustificasti la mancanza con l’impegno del tuo lavoro- mi stavo irritando e non mi rendevo
conto che le mie parole erano di una durezza tale da poter ferire chiunque. Ma lui restò impassibile
mentre chi si sentiva ferito ero io.
-Io c’ero- mi disse allora, e improvvisamente ricordai il racconto che mi aveva fatto sull’esperienza
che aveva avuto in occasione della morte di suo padre. Cercai di rendere incredibile ciò che aveva
detto, convincendomi a forza che tutto quello che avrebbe detto era solo il frutto di una mente malata…
ma quando mi aveva raccontato la storia del sogno e di suo padre, non avevo avuto esitazioni a
crederci.
-Andiamo Mage, non affibbiarmi la storia delle esperienze oniriche. La verità è che tu non c’eri ed è
inutile cercare di crearsi alibi ai quali puoi credere solo tu per giustificarti-.
-Io non ho detto che ero al funerale. Io ero lì, quella notte. Ero sul treno- mi confessò, ed io provai un
forte freddo e lo guardai come si guarderebbe un traditore. Il gelo però mi aveva bloccato perché
intuivo che la tempesta ghiacciata doveva ancora abbattersi su di me -e c’eri anche tu- continuò
infatti.
-Stai delirando- dissi -io quella notte ero a casa mia. Stavo addirittura dormendo. Se non hai ben
chiaro i fatti, ti ricordo che l’incidente è avvenuto alle tre del mattino-.
-E per questo fu facile definirlo un incidente. Ma tu sai che non andò così vero? Vincenzo aveva
pianificato tutto. Fermarsi con l’auto sulle rotaie appena dietro una curva per non dare il tempo al
macchinista di accorgersi dell’ostacolo, e attendere, ascoltando per l’ultima volta Jim Morrison e la
sua preghiera americana. Ascoltando quelle parole tanto simili a quelle che anche lui scriveva,
sentendo per l’ultima volta quella frase: “non andrò, preferisco una festa di amici alla grande
famiglia”. Un tempo le ascoltavi anche tu le canzoni di Re Lucertola, ricordi?Cercai di dire qualcosa ma riuscivo solo a balbettare -e io che vuoi che ne sappia?... Che stesse
ascoltando Jim Morrison o Janis Joplin non sarebbe poi stato così stupefacente, lui ascoltava solo
quelli… questo non significa certo che io ero con lui… tu, tu stai facendo accuse pesanti Mage…Non ascoltò le mie obiezioni -ci fu un bel trambusto. Tuoni di lamiere contorte, urla di gente mentre il
treno deragliava, lo stridore dei freni e le scintille delle ruote d’acciaio sulle rotaie, e i pianti… poi
improvvisamente intorno a noi si fece silenzio ricordi?-Io non ricordo niente perchè non c’ero-.
-Quando uscii dal treno, tutta quella confusione non sembrava nemmeno esistere. Nel buio si
vedevano fiamme e fumo, si potevano scorgere le ombre di chi accorreva e di chi cercava di fuggire,
ma erano solo ombre. Tutto ciò che era limpido, era la macchina contorta schiacciata dal treno, il
volto sfigurato ed esanime di Marco e tu seduto al suo fianco, con un foglio tra le mani. Io ti ho visto e
tu hai guardato verso di me, ma non mi hai riconosciuto-.
-Ma che follia stai dicendo. Se fossi stato nella macchina con lui sarei morto anch’io-.
-Tu non eri nella macchina con lui, ma nel sogno con me-.
Risi istericamente -ecco dove volevi arrivare, ma se io non ti ho visto…- mi fermai, volevo continuare
dicendo “significa che il sogno era solo tuo”, ma improvvisamente sentii un’angoscia tale assalirmi da
crearmi vertigini e nausea. L’avevo fatto quel sogno, e l’avevo perfino ricordato, per pochi secondi,
come succede quando si sogna e ci si sveglia di soprassalto, perché era stato un incubo e non un
sogno. Ed ora, quell’immagine tornava ad assalirmi come uno stato di già vissuto. L’ombra che si
stagliava contro le fiamme e il brusco risveglio che mi aveva impedito di riconoscerla, era rimasta a
turbarmi per tutto il giorno. L’avevo rimossa rapidamente, quell’ombra che si avvicinava su uno
sfondo reso tetro dal fiammeggiare del fuoco, così come avevo rimosso quelle parole scritte su un
foglio che non avevo letto, non ancora, ma che sapevo essere un inno alla solitudine. La solitudine di
chi, con l’arte nel cuore ha tante cose da dire ma nessuno che le vuole ascoltare. Le parole di una
canzone che aveva scritto e consegnato a me pochi giorni prima, una canzone senza note, una canzone
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d’addio, e che io ancora non avevo letto… e l’ombra che camminava verso di me, teneva tra le mani
un foglio… ecco perché avevo rimosso il ricordo dell’assurdo sogno, perché se avessi letto quel testo e
avessi intuito la solitudine di chi lo aveva composto, forse avrei potuto evitare l’assurdità dell’insano
gesto di cui non potevo ritenermi responsabile e improvvisamente provai ancora più freddo mentre lo
sguardo del Mage restava fisso su di me.
La notte successiva all’incidente, provai gli stessi sintomi che avevo avuto solo fino a poche ore prima
di quel momento, era stata la prima di una serie di crisi febbrili, durata solo una notte dopo la quale
ogni tormento relativo a qualsiasi coinvolgimento nel destino suicida dell’amico musicista era
scomparso, come svanito nel nulla dalla mia memoria, così come svanisce la nebbia al calore del sole.
Guardai Demetrio che sembrava sapere tutto e scossi il capo con angoscia.
-Che cosa vuoi dire, che sono responsabile del suo gesto? Che il destino stava consegnando nelle mie
mani il suo fato? E anche se fosse stato? Anche se avessi avuto un messaggio premonitore, che cosa
avrei dovuto fare? Avrei dovuto recarmi da lui e dirgli di non fare quello che aveva in mente
basandomi sulla supposizione di un testo scritto per una canzone? Secondo te è normale poter pensare
che uno ti annunci la sua morte? Credi che sia facile poter decidere se qualcuno o qualcosa ti sta
annunciando il futuro? Quelle parole potevano significare tutto e niente. Credi che sia così semplice
capire il pensiero altrui?...-No, affatto- disse con semplicità disarmante -e quello che hai fatto era probabilmente l’unica cosa
che dovevi fare-.
Lo guardai con una chiara espressione di incredulità. Come poteva avermi accusato solo due secondi
prima di poter conoscere eventi di un presupposto futuro e poi, nel medesimo istante assolvermi dal
non averlo cambiato?
-Averlo lasciato morire se potevo impedirlo, sarebbe stata la cosa giusta?-La cosa giusta non è mai possibile capire quale sia. In un modo o nell’altro le tue azioni sono
corrette per quanto saranno utili a te, e io non sono qui per accusarti, né per rivelare verità che non
conosco. Io ricordo quel sogno, ma solo in questo momento tu mi confermi che era anche il tuo. Ma
mentre a te sembra assurdo, per me invece appare tutto chiaro-.
Provai una forte rabbia nel sentire la rivelazione che mi aveva fatto -così mi hai ingannato. Tu non
sapevi se io l’avevo sognato-.
-Sì è vero. Ma cosa cambia? Se rifletti un po’, arriverai a comprendere che non sono stato io a
ingannarti ma che eri tu a ingannare te stesso. Tenerlo nascosto non cambia i fatti, e sentirti in colpa
non ti dà la possibilità di comprendere-.
-Comprendere che cosa? Che il tuo stramaledetto destino si diverte a giocare col nostro inconscio e
poi ce lo sbatte in faccia?-No. Semplicemente che il destino non sta giocando e che né tu né io possiamo mutarlo, se non per
ciò che riguarda noi stessi. Non avresti potuto fare nulla per Marco semplicemente perché ciò che
avresti potuto dargli erano solo altre illusorie parole di conforto. Un conforto di cui lui non sapeva
che farsene. Devi credermi quando ti dico che il destino ci offre tutte le opportunità di cui abbiamo
bisogno, e anche lui ha avuto le sue, ma ha fatto le sue scelte, ed ora dovrà attendere altre
occasioni…-Io non voglio più ascoltare le tue follie. La vita è una sola e quando è andata è andata, nessun altro
destino, nessuna altra opportunità-.
-Forse. Io non metto in discussione che anche la tua sia una possibilità, ma forse proprio per questo,
se è come dici tu, non dovremmo sottovalutare le nostre opportunità.-E quale sarebbe stata la mia opportunità?-Se Marco non fosse morto inutilmente? Se tu riuscissi a dare alla sua sorte un significato, credi che
potresti accettare che il suo destino abbia avuto un senso e che ciò potrebbe concedere anche a te di
cogliere la tua opportunità?-E quale significato potrei mai dare ad un gesto simile?-Forse tu non hai ricevuto quel messaggio per impedire che il fato si compisse. Forse tu dovevi
semplicemente comprendere che ogni giorno, nei fatti che si svolgono, anche nei più insignificanti, o
durante la notte anche mentre dormiamo, noi riceviamo informazioni-.
-E il destino sarebbe disposto a uccidere per renderci consapevoli di questo?157
-Non è il destino che decide la nostra sorte, il destino non è un assassino. Tuttavia spesso è
necessario un forte trauma per renderci consapevoli. Su quella sorte, nessuno, nemmeno il destino
poteva intervenire. Perciò, il destino ha deciso di usarla per un altro scopo e di fare un dono ad un
altro soggetto. Questo lo puoi accettare o rifiutare, condividerlo o rinnegarlo, ma da come deciderai di
usarlo, solo tu ne subirai le conseguenze. Io accetto la morte di chi mi sta intorno e la stessa cui io
vado incontro e sento più vicina ad ogni giorno che passa, perché sono in grado di concepirla come
una risorsa. Io sono in grado di accettare il bene e il male perché pur nella sua atrocità è solo
attraverso tale condizione che posso comprendere quale via seguire…- si fermò per un istante e i suoi
occhi presero la solita inevitabile tristezza -…io posso accettare di rinunciare a Virginia perché ho
capito che la mia rinuncia mi condurrà a qualcosa di essenziale e che ciò era inevitabile perché anche
lei necessita di trovare le sue risposte… risposte che non avremmo potuto trovare insieme in questa
vita, sebbene ancora le sia impossibile comprenderlo… io posso fare tutto questo perché ora sono in
grado di sopportarlo…- il treno fischiò in lontananza e Demetrio si alzò dalla panchina.
-Aspetta- cercai di trattenerlo, ma lui mi fissò col suo sguardo triste.
-Tu sei in grado di sopportarlo?- mi disse e subito pensai a Marco, lui, non era stato in grado di
sopportarlo.
-Io ho ancora molte cosa da chiarire con te- quasi lo aggredii nel tentativo di scrollarmi di dosso i
pensieri delle molte responsabilità che improvvisamente mi assalivano.
-No Tommaso, tu non hai più nulla da chiarire con me. Tu hai ottenuto ciò che volevi, sei riuscito a
impedire che l’universo di Virginia perda il suo equilibrio, ma quello che devi capire adesso è se il tuo
di universo sia ancora nel giusto equilibrio, o se lo sia mai stato. Tu hai fatto delle scelte e ora le
dovrai comprendere, e una volta comprese, affrontarle. Perché dalle nostre scelte può dipendere non
solo il nostro avvenire, ma anche quello di altre persone… persone alle quali siamo troppo legati e che
in un altro tempo, potremmo trovarci a dover lasciar andare…Il treno si fermò e le porte si aprirono con un sibilo -Demetrio- lo chiamai mentre si apprestava a
salire, ma lui non si voltò.
-Il tempo scorre Tommaso, rifletti sul tuo termine- disse soltanto. Poi lo vidi avvicinarsi al
controllore.
-Ha il biglietto signore?- sentii l’uomo in divisa domandare.
-No, la biglietteria è guasta-.
-Allora lo facciamo adesso, dov’è diretto?-Dove va questo treno?-Ferma a Padova, poi Venezia, Mestre e poi su fino a Udine-.
-Udine andrà bene…- furono le ultime parole che gli sentii dire mentre lo osservavo incapace di
fermarlo, andarsene a bordo di un treno senza destinazione…
Osservai, più che il suo silenzio, la sua perplessa inquietudine e come colto da un presagio
sfavorevole sentii sorgere in me un timore. Ella appariva rapita da un’estasi mistica e osservava davanti
a sé come se in quell’ambiente definito sacro, avesse veramente incontrato qualcosa o qualcuno di
venerabile. Ebbi quasi timore a destarla da quel momento estatico, ma osai rischiare l’ira di chi poteva
essere l’artefice di tale condizione perché io cominciavo a sentire sorgere in me un dubbio atroce e
sempre più, in questa avventura, non volevo restare solo.
-Felona- la chiamai con un sussurro. Lei ebbe un sussulto e mi guardò con sorpresa, come se si
destasse da un sogno -va tutto bene?- mi preoccupai, non so se più per lei o per me. Lei si lasciò cadere
il fascicolo sulle ginocchia e in quel rilassamento quasi obbligato vidi svanire ogni sua forma di
sicurezza e certezza.
-Tu hai mai considerato la possibilità di non essere ciò che sei?- mi domandò e io percepii l’insidia di
un tranello che tuttavia non era lei a tendermi ma piuttosto un qualcosa che non potevo comprendere,
forse quell’entità che l’aveva estasiata e che io non ero stato in grado di cogliere. Cercai di svincolarmi
e allo stesso tempo, per riportarla al suo stato di normalità di distoglierla dall’argomento.
-Ne abbiamo già parlato di queste cose, che senso ha ritornarci su adesso?- le feci notare.
Mi guardò con i suoi profondi occhi scuri -no, abbiamo parlato dell’essere e del non essere,
ponderando la possibilità di vivere come sogni piuttosto che come realtà. Quello che intendo ora è se ti
sei mai chiesto se quello che fai è ciò che avresti voluto fare, o ciò che avresti dovuto-.
158
Fui io, a quel punto, a guardarla con ambiguità -e come non può uno sapere ciò che vuole?-Non tutti possono fare ciò che vogliono- rispose lei.
-È vero, ma non tutti sanno ciò che vorrebbero fare- le risposi come se all’improvviso i nostri ruoli si
fossero invertiti e io fossi divenuto lo psicologo, ma lei scosse il capo.
-Quando ho iniziato questa indagine con te, sono stata attratta da questo documento. Da psicologa ho
intravisto la possibilità di studiare una nuova condizione, ma credo di essermi imbattuta in qualcosa da
esaminare che va oltre un semplice caso clinico: due persone diverse e le loro reazioni, ossia tu e lo
scrittore…- per un momento la consapevolezza di essere considerato un caso clinico mi procurò un
certo fastidio, ma lei non parve darvi importanza e proseguì.
-Ora mi sento come se io stessa fossi sotto esame. Ho avuto modo di imbattermi in circostanze simili
già in altre occasioni ma i pazienti che a causa di una depressione rifuggono in questi stati di
allucinazione, si rivolgono alla spiritualità nella speranza di trovare una sorta di sollievo, benessere,
consolazione o semplice conforto, sono reali casi che si risolvono con più o meno semplici diagnosi e
terapie. Qui non vi è depressione. L’accettazione di uno stato cui non può opporsi, come se il
protagonista lo considerasse necessario, lo colloca ad un livello superiore. Questo individuo non
avrebbe alcuna necessità di terapie psicologiche, egli accetta di vivere la sua vita come la vita vuole che
lui viva…-E questo ti sembra che non sia sufficiente per renderlo psicolabile?- le feci notare che in definitiva
quello che lei definiva un accettazione, altro non era che un rifugiarsi in una sorta di delirio spirituale.
-No, hai ragione, ma il problema è che non è lui a raccontarlo. Non fosse per l’amico che si sente
oppresso dalle sue angosce, Demetrio non ne parlerebbe, questo lo conduce ad un livello superiore. Che
la sua accettazione sia un rifugio o no, a questo punto ha poca importanza perché lui comunque ha
superato il dramma. Tommaso invece vive questo dramma come se veramente credesse che Demetrio
sia portatore di un messaggio, un araldo divino che gli sta trasmettendo un insegnamento…-Ed è questo a turbarti?- le domandai come se ciò non avesse senso.
Mi guardò come se fosse incerta se mettermi al corrente di ciò che pensava, e quando lo fece, cominciai
a intuire il perché.
-Come può una persona suscitare determinati stati d’animo in ogni individuo che incontra? Tommaso
è combattuto tra il venerarlo e l’odiarlo, Virginia prima lo odia e poi lo ama, Val comincia ad avere
percezioni di vita… perfino le sue sorelle che lo odiano non riescono a scacciarlo e a vendicarsi…- poi
restò in silenzio e allora fui io ad essere colto da un temibile dubbio.
-E tu? Che cosa ha risvegliato in te?- sembrò quasi che le avessi rivelato un segreto inconoscibile.
-È questo il punto. Ora non sono più certa del perché mi sono lasciata trascinare in questa avventura, e
non sono più certa di essere ciò che sono o di fare ciò che voglio. È questo ciò che l’araldo cerca di
dirci? Vuole farci comprendere chi o cosa siamo? O se veramente siamo ciò che crediamo di essere?La confusione cominciò ad assalirmi e provai un senso di vertigine.
-Non devi mettere in discussioni le tue certezze Felona, pensa a questo individuo come a un lavoro…-Ma è proprio questo il punto: le certezze ci rendono immobili, i dubbi ci portano al movimento. La
mente comincia a riflettere nel dubbio e a cercare risposte. La certezza muove solo l’istinto, e l’istinto
è prerogativa degli animali. Se ci lasciamo annientare dalle certezze, che cosa ci rende diversi dagli
animali? È il drago che ci domina capisci? Senza il dubbio non cercheremo mai di liberare la bella
imprigionata, vagheremmo alla ricerca dei nostri desideri per soddisfare i nostri impulsi come i
cavalieri erranti dell’Orlando furioso e non andremo mai contro il mostro da noi stessi creato come
Perseo…-Sì, ma Perseo sconfigge un mostro che non ha colpe, lo hai detto tu…-Perché è stato generato da qualcosa di esteriore, e lui lo ha compreso nel momento in cui riconosce
Andromeda, la sua sposa, il suo lato interiore, imprigionato da chi ha generato il mostro. Lasciandoci
trasportare dall’inerzia di ciò che ci circonda e seguendo quanto riteniamo corretto solo perché così è la
percezione collettiva, noi accettiamo di alimentare il drago e non vediamo le catene che ci
imprigionano sotto la sua custodia. Perseo sconfigge il mostro creato da volontà esterne alla sua e poi
diviene re, imperatore di se stesso. È questo che ci sta dicendo. Siamo ciò che siamo non per nostro
volere ma per un volere altrui, come le marionette dello spettacolo che rappresentava il tuo Orlando
furioso- sentenziò, e io provai un brivido e percependo la minaccia cercai di ribellarmi.
159
-Io so ciò che sono e ciò che faccio, e non ho alcun dubbio su ciò che devo o non devo essere- reagii
alla minaccia di quel risveglio di cui parlava ora lei e a quel punto vidi riflesso nel suo sguardo il
timore di ciò che non volevo avvenisse: l’essere abbandonato.
-Allora forse dovresti continuare da solo- mi disse e lo smarrimento che provai mi fece quasi perdere
l’equilibrio.
-Non dirai sul serio?- quasi balbettai.
-Nella mia professione, quando si comincia a dubitare significa che è tempo di smettere, è come
quando un investigatore viene scoperto- disse.
-Ma tu non stai lavorando- cercai di farla desistere da quel momento di smarrimento.
-E chi te lo dice?Non potevo permettere che mi abbandonasse, mi ripetevo che senza il suo aiuto non avrei risolto nulla,
ma la realtà che non volevo ammettere e che nascondevo a me stesso era che avevo paura. Tutti i timori
che Felona cominciava a percepire, sebbene ne potessi avere conferma solo in quel momento, io già li
avevo percepiti e se la verità mi avesse condotto in condizioni insopportabili non avrei potuto
affrontarlo da solo, e tutto ciò che volevo in quel momento era appunto non rimanere solo. Mi resi
conto che era la prima barriera della mia armatura a spezzarsi. Io non avevo mai considerato l’essere
soli una debolezza, ma piuttosto un punto di forza: nessun vincolo, nessuna responsabilità, pura e
semplice libertà di cui non avrei dovuto rendere conto a nessuno… fino a quando non sarebbero sorte
difficoltà che solo in quel momento imparavo a valutare. L’essere soli era un bene finché tutto era
bene, ma nella paura e nella difficoltà, la solitudine diveniva panico e inerzia.
-Non puoi lasciarmi solo, senza di te non riuscirei a comprendere nient’altro di questo intrigo- quasi
l’implorai e lei mi guardò con sospetto.
-È solo questo che vuoi?- mi domandò, e io compresi che ciò che chiedeva in quel momento era
sincerità, quella che io non potevo rivelare.
-Senti, probabilmente è solo questo posto a metterti in crisi, è un luogo di suggestione e magari tu ne
hai subito l’influenza, che ne dici se usciamo?Chinò il capo e si lasciò andare in un sospiro deluso -lui ha avuto un messaggio premonitore
attraverso un sogno in cui si fondevano le vite di tre persone. Se avesse creduto in questa possibilità
forse avrebbe potuto cambiare le sorti di una delle tre…- disse, ma io stavo sfuggendo alle sue
deduzioni perché ora la mia mente era dominata dal timore di quella solitudine che solo ora
comprendevo di non desiderare, e in quella paura cominciai ad assecondarla quasi senza rendermene
conto.
-Non avrebbe potuto fare niente, l’araldo stesso glielo ha confermato ricordi?- cercai di usare le sue
parole per indurle nuovo entusiasmo -Demetrio ha ammesso che non poteva cambiare il destino
dell’amico suicida-.
-Infatti, non poteva cambiare il destino perché il destino non è prestabilito, ma usa gli eventi per
trasmettere messaggi- disse allora lei.
-Ma il suo messaggio era ambiguo, come poteva Tommaso prevede ciò che sarebbe avvenuto
interpretando il testo di uno che vuole fare il cantante? Poeti, cantanti, scrittori, sono ambigui per
natura, se su ogni loro scritto dovessimo percepire dei messaggi o pensare che ci stiano chiedendo
qualcosa, cadremmo in uno stallo mentale. Nessuno può capire se ciò che ha ricevuto è qualcosa di
simile a quel che afferma Demetrio, così come può effettivamente pensare di intervenire Tom?-È proprio questo il punto: come possiamo capire i segni del destino? E poi Demetrio non si riferiva a
Marco quando dice che il messaggio era rivolto a lui, dice che il gesto del cantante è il messaggio
stesso-.
La mia espressione si fece preoccupata -tu non ti rivolgi al sogno premonitore intendendo che la sorte
da cambiare è quella di Marco- sussurrai come illuminato da un’intuizione senza lume.
-Erano in tre in quel sogno, uno agiva, uno sapeva, l’altro era ignaro-.
-Se Tommaso avesse compreso il messaggio del sogno, avrebbe cambiato la propria sorte? È questo
che intendi? E quale sarebbe il messaggio… quale sarebbe stata la sua sorte?Felona parve fondersi nei suoi tormenti e i timori che provava non sembravano aiutarla -sei certo di
volerlo scoprire? Perché io comincio a dubitare di voler sapere- disse, e in quel momento potei
distinguere il brivido di freddo o di sorpresa da quello della paura.
160
-Io non posso più fermarmi Felona, e ho bisogno del tuo aiuto-.
-Perché?- mi domandò, e questa volta sapevo che se avessi esitato di nuovo, l’avrei persa.
-Perché non voglio essere solo quando lo scoprirò. Perché ho paura- ammisi.
Quello che le vidi sul volto non fu soddisfazione, ma piuttosto rilassamento.
-Io comprendo la tua paura e sono contenta che finalmente sia riuscito ad ammetterla, ma il fatto è che
ora anch’io inizio ad averne e non sono certa di riuscire ad andare fino in fondo-.
La fissai con intensità -ti prego Felona, non abbandonarmi- la implorai.
-Hai ragione- disse allora con uno sguardo assorto nel quale io ancora non potevo comprendere quale
sarebbe stata la sua decisione -questo luogo è troppo suggestivo, meglio uscire-. Si alzò in piedi e io la
seguii e, ancora nell’incertezza, mentre mi avviavo verso l’uscita, forse per la prima volta, mi ritrovai a
pregare in una chiesa. La penombra della chiesa fu sostituita dalla luce del sole e improvvisamente
l’atmosfera grigiastra che ci aveva accolti a Casterba parve svanire. Il cielo fuori era divenuto limpido e
il sole brillante, e tutto sembrava avere nuovi colori.
Felona si sedette sui gradini della chiesa -che cosa fai?- le domandai.
-Rifletto... Stavamo cercando qualcosa che fosse il vero turbamento di Tommaso, e ogni volta che
compare un elemento più tragico, ancora non sembra essere sufficiente-.
-Che cosa intendi?-Come reagiresti se qualcuno ti dicesse che potevi salvare un amico se solo avessi posto più attenzione
a ciò che faceva, diceva o ti regalava?-Credo che il senso di colpa mi schiaccerebbe psicologicamente-.
-Infatti, eppure, nemmeno questo sembra essere il dramma peggiore per Tommaso-.
-Ma che cos’è- dissi con una sottile ironia involontaria -un demonio? E poi, come fai a dire che ancora
non abbiamo scoperto la causa dei suoi tormenti? Lui aveva rimosso ogni ricordo ma ora è costretto ad
ammetterli-.
-Sì, ma Demetrio lo scagiona e questo per lui è sufficiente perché ancora ha fiducia in lui e soprattutto
ha necessità di sentirsi scagionato, così se Demetrio gli dice che lui non ha alcuna responsabilità, lui ci
crede e lo accetta-.
-Allora è tutto più semplice: lui fugge dalle responsabilità e ogni giustificazione per lui è sufficiente.
La diagnosi è che è un codardo, ha paura delle sue stesse azioni-.
-No, non è così semplice. Lui non può ancora accettare le sue azioni perché Demetrio gli rivela anche
che il messaggio del destino non era per Marco, ma per lui-.
Restammo in silenzio e io mi sedetti vicino a lei -che cosa lo rende così complicato?- le domandai.
Mi guardò -è la vita stessa ad essere complicata, al punto che ogni cosa non è mai sufficiente-.
Io attesi qualche secondo -e allora, che facciamo?-Scopriamo qualcosa di più- non osai oppormi, in quel momento tutto ciò che desideravo era che
restasse e la sua affermazione appariva come un consenso, così restai in silenzio e l’ascoltai riprendere
la lettura:
161
6
L’araldo degli dèi…
…Me ne restai lì, fermo immobile fino a quando non mi fu più possibile scorgere la sagoma del treno
che scompariva all’orizzonte con una strana ma non insolita sensazione addosso. Quella classica
impressione che sarà capitato a molti di sentire, nella quale si ha come la percezione di aver mancato
qualcosa, tipo un appuntamento importante o, appunto, di aver perso un treno. Era come se
comprendessi che in quei pochi momenti, o in quei tanti anni, non avessi fatto o detto qualcosa che
avrebbe potuto cambiare le cose o, peggio, al contrario, se ciò che avevo detto o fatto, certe cose le
aveva veramente cambiate, ma non nel modo in cui avrebbero dovuto essere. Eppure, non percepivo in
me alcuna colpevolezza, come se ad un certo punto fossi divenuto conscio che le realtà di Demetrio
erano le uniche verità possibili: io non potevo cambiare le sorti del destino e di quanto avevo fatto o
non fatto non avevo maggiori responsabilità di quanto chiunque altro non potesse averne in ciò che
nella propria vita aveva fatto o non fatto. Non potevo sentirmi colpevole per Marco perché non avrei
potuto comprendere la sua disperata richiesta d’aiuto, nemmeno se avessi letto la sua canzone prima
del dramma; non potevo ritenermi responsabile della tristezza di Virginia perché, in definitiva, era
stata lei a compiere le sue scelte senza valutarne le opportunità e le conseguenze; e infine, non potevo
ritenermi responsabile della solitudine di Demetrio, della quale lui stesso se ne era reso responsabile,
e quasi totalmente convinto della mia innocenza, improvvisamente mi sentii svuotato, stanco e
indebolito, come se su di me fossero passati ulteriori venti anni e fossi improvvisamente invecchiato.
Fu con tale sensazione che mi sedetti sulla panchina dove pochi minuti prima era stato seduto lui ad
aspettare il suo treno. E su quella panchina restai ad osservare i treni che passavano o che si
fermavano e poi ripartivano, e si scambiavano sui binari che ne deviavano la direzione come se in
quella stazione vi fosse una sorta di centro dell’universo in cui si incrociavano i bivi del destino. Restai
lì a lungo, perdendo la cognizione del tempo alla ricerca di un binario sul quale cercavo di
immaginare potesse passare il mio treno, ma senza però individuare quale tra questi poteva essere,
rendendomi conto in modo quasi inconsapevole che, probabilmente, quel treno era già passato da
tempo, e io lo avevo mancato.
Restai lì, e il tempo passò tra un totale caos che mi sconvolgeva la mente in un insieme di pensieri,
ricordi e immagini che quasi non riuscivo a distinguere come sogni o allucinazioni, e continuai a
restare lì, in quello stato, fino a quando una voce mi chiamò con un imbarazzante tono di sorpresa.
-Tommaso? Signor Tommaso D’amanti?Alzai lo sguardo e con sorpresa vidi davanti a me Vanessa, la nipote di Demetrio, scesa dal treno
appena giunto.
-Vanessa- dissi con la classica espressione di stupore -che sorpresa- esclamai.
Lei mi guardò con altrettanto stupore -direi che lo stesso vale per me. Che ci fa qui? Sta aspettando
qualcuno?- mi domandò. Riflettei sul tipo di risposta da dare cercando una giustificazione, ma l’istinto
prevalse e mi indusse a rispondere con l’unica alternativa plausibile: la sincerità.
-No. Mi trovo qui perché ero venuto a salutare tuo zio- le rivelai. La sua espressione si fece seria in
un tentativo di contenimento della tristezza.
-Ah già. È partito oggi lo so. Ma perché lei è ancora qui? Il suo treno doveva partire stamattina
presto. Forse ha ritardato?- mi sentii spiazzato e imbarazzato. Il treno di Demetrio in effetti era partito
in orario e adesso erano le due del pomeriggio.
-No, il treno è partito in orario… è che io mi sono un po’ perso nelle mie nostalgie e riflessioni, sai,
la stazione è un baule di ricordi- cercai di giustificare banalmente. Lei sorrise, ma malinconicamente,
come se avvertisse nelle mie parole una sorta d’angoscia che condivideva.
-Lei era assieme a mio zio il giorno che è venuto a trovarci, mi ricordo. Eravate buoni amici?- mi
domandò.
-Sì, direi di sì- risposi -e tu, che ci facevi su quel treno?Rise come se la mia fosse stata una domanda sciocca o impertinente -frequento il liceo artistico a
Verona- rispose con semplicità -non ho ancora la patente e perciò uso il treno-.
-Ah giusto-.
-Beh ora devo andare-. Parve incerta, come se temesse a lasciarmi solo e immaginai di avere
l’espressione di chi sta meditando il suicidio. La stazione poteva essere un ottimo posto anche per
162
quello. Tuttavia l’esitazione diede ancora al mio istinto lo spunto per azzardare un gesto che,
coerentemente, un uomo della mia età avrebbe valutato in modo molto più ponderato prima di
compiere -Vanessa- la richiamai.
Lei si girò e mi guardò dubbiosa. Io stesso esitai e in quel momento entrambi sembravamo intuire ciò
che doveva avvenire ma nello stesso tempo chiederci se era giusto che avvenisse. In un gesto
imbarazzante, mi portai le mani giunte al mento, ricordando una sorta di riflesso condizionato che
spesso era tipico di Demetrio. Fu così però che mi resi conto come in quel modo mi sembrasse di
riuscire a equilibrare la mente e ordinare i pensieri, quindi, dissi ciò che volevo senza cercare tante
giustificazioni o giri di parole -che cosa è successo quel giorno?Lei mi guardò, ma il suo stesso imbarazzo parve lentamente attenuarsi. Le vidi fare un lieve sorriso.
-È strano che me lo chieda sa?- rispose. Pensai di non aver saputo interpretare né le mie sensazioni,
né le sue, così posi le mani in avanti come a cercare di allontanarla da me in segno di resa.
-Se non ti va di raccontarmelo va bene, anzi ti chiedo scusa per l’invadenza…- giustificai la sua
riluttanza sentendo il desiderio di scappare dall’imbarazzo. Ma al tentativo di allontanarmi come in
una sorta di fuga lei si avvicinò frettolosa e mi invitò a fermarmi.
-No, non è per questo- disse, e io restai bloccato più dalla sua ripresa che dalla mia curiosità.
-È che mio zio mi aveva detto che qualcuno avrebbe potuto capire molte cose da quello che gli avrei
visto fare, e ha aggiunto che se un giorno mi fossi sentita di doverlo esporre a qualcuno, avrei potuto
farlo se avessi pensato che era giusto. Semplicemente, non mi aspettavo che qualcuno me lo avrebbe
chiesto, tutto qua- lo disse con sguardo disarmante, e io sorrisi senza rendermene conto.
-Tuo zio era un tipo particolare vero?- lei annuì.
-C’è un piccolo ristorante non molto lontano, se ti va posso offrirti il pranzo e ne parliamo- le proposi
senza valutare che, ad uno sguardo malizioso, la mia poteva apparire una proposta di natura diversa
da quella che immaginavo, non pensando, per una volta, che la perfidia umana non aveva invece
ritegno dignitoso e preferiva ponderare il lato inopportuno o contrario della nobiltà pur di avere la
possibilità di screditare la dignità altrui a favore della propria, deviando l’attenzione, se non dai gesti
effettivi, dai pensieri che regnavano nel loro stesso animo.
Mi stavo rendendo conto che cominciavo a comprendere a livello inconsapevole ogni condizione che
una mente riflessiva avrebbe dovuto intuire ogni qual volta nel proprio istinto sorgeva un giudizio o
una considerazione, al punto che capivo come ogni condizione, gesto o realtà oggettiva poteva
effettivamente rappresentare una rivelazione simbolica e mi domandai quanto più influenti potevano
essere stati quei quattro giorni con Demetrio di tutto il tempo che con lui avevo trascorso prima.
Comprendevo certi atteggiamenti umani perché io stesso li avevo sperimentati, ma non li avevo mai
considerati perché prima di adesso, anch’io li avevo usati per quel motivo: distogliere l’attenzione da
me stesso per indirizzarla sugli altri con l’unico scopo di vedere negli altri ciò che non volevo vedere
in me.
Era per questo che Demetrio era tornato?
Per risvegliare un pensiero addormentato che molti anni prima si era inserito nella mia mente non
ancora pronta a capirlo?
La voce di Vanessa mi distolse dalla riflessione -si va bene. I miei lavorano e quindi non hanno
motivo di preoccuparsi se non rientro proprio all’orario di arrivo. Inoltre vorrei conoscere anch’io
qualcosa di più su mio zio. L’importante è che rientri prima di mia madre, e che lei non sappia che in
questi giorni ho rivisto ancora mio zio. Lei può promettermi che non lo verrà a sapere?La domanda mi spiazzò -lo hai rivisto?- le domandai quasi balbettando.
-Da dopo che è venuto a trovarmi? Sì, eccetto domenica, tutti i giorni. Allora, può farmi questa
promessa?Cominciai a pensare, seppure non sapessi bene a che cosa, ma dovetti estraniarmi dal mondo per un
periodo più lungo di quanto immaginassi perché dopo un po’ risentii la voce di Vanessa come
provenisse da molto lontano e nel risvegliarmi notai la sua espressione quasi preoccupata -allora, può
farmi questa promessa?-Sì certo… puoi stare tranquilla-.
-Non aggiunge nulla di più a quanto abbiamo già appreso-.
-Dici che la presa di coscienza di Tommaso sia un particolare insignificante?163
-No certo, ma questo non conferma altro che ciò che abbiamo già dedotto: lui cerca giustificazioni ai
suoi gesti ed ora ha la possibilità di consolidarle-.
-Vero, ma ciò non lo scagiona, gli crea solo una momentanea tregua che egli stesso evidenzia nel
sentirsi improvvisamente invecchiare, come se volesse scacciare via da sé tutti quegli anni nei quali
dovrà continuare a convivere con questi pesanti fardelli. E poi, potrebbe anche essere come dici tu, a
meno che tu non consideri questo incontro come non casuale-.
-Che vorresti dire?-Che stando a quanto descrive l’autore, sembra che ogni passaggio non sia casuale. Lui va alla stazione
perché sa che da lì non potrebbe più fermarlo e quindi fa una scelta: decide di opporsi ad un istinto che
già prevede, ma non considera che questa scelta non è sua, gli è imposta. Non ha altro modo per
opporsi al suo istinto e quindi, è come se alla stazione ci venisse guidato, e a condurlo lì è l’amico
fotografo, quell’araldo messaggero che ora conclude la sua spedizione. Egli se ne va ma consegna a lui
i suoi messaggi attraverso altri emissari. Tommaso si perde nelle allucinazioni dei ricordi e permette
così a Demetrio attraverso Vanessa, di insediarsi nuovamente nella sua vita. Non riesce a liberarsi di
lui. Ti rendi conto? Ogni passaggio di questa storia sembra prestabilito, come se veramente qualcuno lo
avesse previsto in anticipo-.
-Forse non dovremmo lasciarci condizionare troppo però, ancora non sappiamo quanto ci sia di vero
in questa storia… e se alla fine ci accorgessimo di avere a che fare con un romanziere fallito e
scoprissimo che tutto è solo invenzione?Annuì -sì, questo te lo concedo. Bene, allora vediamo di scoprirlo perché io comincio veramente a
sentirmi inquieta- non si alzò dai gradini e io la guardai incerto.
-Vuoi continuare a leggere?- le domandai come se continuare a restare inermi lì sui gradini della
chiesa mi sembrasse una perdita di tempo.
Lei mi fissò furtiva -volevi sapere che cosa è successo in quel giardino no?Non risposi a parole, mi limitai a sorriderle condividendo la sua perspicacia e in tal modo l’autorizzai
a proseguire. Lei abbassò gli occhi e proseguì col capitolo successivo:
164
7
“Spirito libero…”
…Ci appartammo in un piccolo ristorante fuori provincia, dove non rischiavo di essere riconosciuto
e dove, dopo aver ordinato un piatto di ravioli al formaggio, mi apprestavo ad ascoltare il racconto di
Vanessa.
…Quando iniziò a raccontare ebbi come l’impressione di estraniarmi dal mondo e la sua voce si fece
come quella di un narratore fuori campo che descriveva l’allucinazione immaginaria che, come in un
film, si proiettava nella mia mente dandomi l’impressione di essere io stesso presente all’evento come
se quel giorno non me ne fossi mai andato e potessi, con lei, vedere e sentire ogni evento. L’ultima
cosa che avevo visto prima di andarmene, era stato Demetrio che si chinava e con un gesto lieve
accarezzava l’erba del prato, ora, nella mia visione narrata, io non mi allontanavo e restavo con lei ad
assistere allo strano rituale dell’enigmatico celebrante.
-Questo è un luogo sacro- sentii l’eco del film immaginario.
-Un luogo sacro?- replicava Vanessa in una ripetitività indagatrice.
-Certo, sebbene si possa dire che ogni luogo di questa terra sia sacro. Ma è ciò che avviene in un
determinato posto a riconoscergli quel diritto-.
-E qui è successo qualcosa?Attraverso il racconto che svaniva nella mia mente sotto forma di allucinazione, vidi Demetrio annuire.
-In un determinato spazio del tempo, sì-.
Quando io avevo affrontato i medesimi argomenti che ora Demetrio trattava con la nipote, ero rimasto
affascinato e decisamente coinvolto, ma non avevo mai avuto la sagacia intuitiva necessaria a farmi
comprendere che mi si stava rivelando qualcosa che poteva andare oltre l’immaginario del conosciuto,
e mi sorprese vedere, nella reale allucinazione del passato, come invece Vanessa, per nulla intimorita
né scettica, fosse dotata di quell’intuito e perspicacia che con mancanza di nobiltà le invidiavo,
rendendomi conto di quanta similitudine ci fosse in lei con Demetrio.
-Parli di un tempo che potrebbe non essere il nostro? Un tempo che magari non abbiamo
conosciuto?- domandò. Seppure chino con lo sguardo fisso verso il prato, non potei evitare di vedere il
rilassamento dei muscoli facciali dello zio distendersi in una sorta di sorriso favorevole.
-O che forse abbiamo semplicemente dimenticato- rispose, e inevitabilmente l’intuitiva nipote rivelò
la sua curiosità.
-Che cosa è successo in questo luogo?Demetrio parve farsi pensieroso, come se riflettesse sulle conseguenze che potevano avere nelle menti
delle persone certe rivelazioni cui non erano abituate o pronte a considerare. Ma doveva già aver
valutato che Vanessa era preparata a questo.
Girò lo sguardo verso sud e fissò l’orizzonte spoglio guardando qualcosa che non c’era, ovvero, che
stava solo nei suoi ricordi.
-Laggiù- cominciò a dire -lungo le rive di quel fossato che divide la terra che un tempo era di mio
padre…- io mi voltai come fossi il riflesso di Vanessa che simultaneamente al mio gesto immaginario,
indirizzava lo sguardo verso la direzione indicata dagli occhi di Demetrio, e guardai il fossato che
appariva come una linea di confine, nel quale un basso livello di acqua stagnante sembrava
prigioniera di un perimetro dalla provenienza ignota, o casuale. Era uno di quei fossati regolati da
delle chiuse da cui si pescava l’acqua per irrigare le coltivazioni nei caldi mesi d’estate, ma che
simbolicamente dava la sensazione di una prigione per quell’acqua che pareva non avere altre vie di
fuga se non quella, appunto, di sottomettersi all’attesa di essere spruzzata attraverso un sistema idrico
sulla terra e a cui non restava quindi che rassegnarsi al suo ruolo di servitrice al servizio di un
padrone che non le aveva offerto altra alternativa, né chiesto alcuna approvazione. Un triste disagio
mi colse perché, per quanto mi sembrasse scontato che lo scopo dell’acqua fosse quello di irrigare e
servire la terra, mai mi ero posto il problema di riflettere sulla possibilità che la stessa necessitasse di
un riconoscimento, e fu con un brivido che scacciai quella sensazione perché l’intuizione che mi
portava era al limite dell’insopportabile: io, e in questo caso mi potevo considerare come il
rappresentante dalla maggioranza che costituiva la società civilizzata, non riuscivo a quantificare un
compenso se questo non poteva essere misurato in denaro, o in qualche altro mezzo di scambio
effettivo, che non fosse la semplice gratitudine. E scacciando via la triste comprensione, tornai a
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concentrarmi sul racconto illusionistico riprendendo ad osservare, attraverso la voce di Vanessa, il
racconto di Demetrio.
-…Vi era una lunga fila di alberi sui quali io mi divertivo ad arrampicarmi inventandomi come eroe
di una foresta inesplorata, ricca di figure immaginarie e avventure da vivere-.
Come accadeva quando raccontava storie simili a me, usava intromettere degli intervalli di tempo,
piccoli silenzi che staccavano l’immaginazione dalla realtà facendo divenire il racconto una
alternanza di ricordi che, fusi assieme, avrebbero alla fine dato la comprensione del tutto.
-In primavera quegli alberi venivano potati e i rami tagliati accatastati ai confini della terra
coltivabile. Poi in estate si tagliavano in piccoli tronconi e si lasciavano asciugare al sole, così da
avere legna da ardere per l’inverno. Ma fino a quando i rami restavano intatti, io mi divertivo a
rimuoverli per costruire delle sorte di grotte nelle quali mi concepivo esploratore di mondi sotterranei.
In quelle grotte esploravo le oscurità profonde della terra, gli abissi e i tenebrosi arcani degli inferi,
mentre sugli alberi indagavo l’immensità dell’universo, l’infinito e i misteri degli empirei. Avevo meno
di sei anni quando compivo queste esplorazioni- sorrise con approvazione alla letizia incantata
manifesta sul viso di Vanessa che sembrava una bambina che ascoltava una bella fiaba. Lei però
ancora non sapeva che le fiabe di Demetrio non avevano mai un lieto fine.
-Già allora ero affascinato da tutto ciò che mi circondava, con un gran desiderio di scoprire quali
fossero i misteri della natura. Ma come un bambino di sei anni, ancora facile al plagio e alla
corruzione delle limitazioni imposte dai pensieri condizionati…- di nuovo vi fu una piccola pausa, quel
silenzio che io sapevo introdurre una nuova fase. Al contrario di me però Vanessa ascoltava senza
interrompere, come se sapesse che ogni parola aveva un senso e che malgrado l’apparente confusione,
tutto quanto avrebbe in fine avuto una logicità.
-…Sai, a quel tempo la televisione cominciava a diventare un bene accessibile quasi a tutti, non certo
nella quantità di oggi, ma quasi ogni famiglia ne possedeva una. Anche noi ne avevamo una, ma non
c’erano molte possibilità di scegliere programmi da vedere. Tra i pochi tuttavia, ce n’era uno che io mi
divertivo a guardare la sera con mio padre. Era un documentario naturalistico che parlava di animali
con immagini provenienti dall’Africa, dall’America, perfino dall’Artide e dall’Antartide, luoghi che
per me a quei tempi erano mitologici. Scoprivo tante cose interessanti per la mia ricerca sui misteri
della natura in quei documentari. Una volta, ne vidi uno in cui si spiegava che certi animali, come
sistema di difesa, si fingevano morti per salvarsi da possibili predatori- di nuovo il suo dialogo si
spostò in una diversa direzione -sai, a sei anni, come ti ho detto, non si è ancora immuni da certi
contagi. Ricordo che un girono, a scuola, l’insegnate ci spiegò che in natura esistono animali dannosi.
Io non potevo capire che cosa intendesse con tale termine perché nella mia visione in natura non
esisteva nulla di simile, ma eravamo in un paese rurale, dove l’agricoltura era la risorsa dominate.
Anche mio padre era un agricoltore e quel giorno, tra le altre cose, ci venne detto che tra questi
animali dannosi vi erano anche le talpe, che scavano nella terra cibandosi di larve, vermi e tante altre
cose che si trovano nel sottosuolo, comprese le radici, e che a causa di questo loro scavare potevano
danneggiare le culture dei campi…Il silenzio successivo introduceva ciò che era il senso del racconto e come se fosse il preludio di un
dramma, il sorriso compiaciuto di Vanessa cominciò ad attenuarsi, assieme alla comparsa di una triste
serietà sul volto del narratore.
-Io ero un eroe, un esploratore, ma anche un difensore del bene… il destino a volte, ha strani modi
per farci comprendere le cose- lo disse osservando Vanessa, poi tornò a fissare l’orizzonte -e tal volta
il suo modo di rivelare richiede sacrificio e sofferenza. Spesso è difficile capire quali siano i suoi
intermediari… ma quel giorno di fine primavera, mentre uscivo dalla mia esplorazione sotterranea, il
fato volle che uno di quegli animaletti vellutati, decidesse di farsi un’escursione in superficie, forse per
raggiungere un'altra postazione, un'altra tana-.
Vi fu ancora una pausa ed io percepii che in quel punto del racconto, si concentrava il cuore del suo
narrare, e un timore inquietante mi fece desiderare di allontanarmi. Ma in quell’allucinazione io ero
l’ombra di Vanessa, perché solo interrompendo il suo raccontare potevo fuggire e ancora una volta
compresi di trovarmi in quella contrastata condizione nella quale le mie facoltà di scelta erano assenti,
e accettando di essere io stesso responsabile di quanto stavo per apprendere, lasciai proseguire il
racconto e la relativa allucinazione.
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-Quanto si può affermare che il fatto di decidere di farsi quella escursione fosse casuale alla
simultaneità con la mia uscita dalla grotta di rami? E che nel mio voltarmi verso la fila degli alberi
dove avrei iniziato a esplorare i cieli, la traiettoria del mio sguardo incrociasse il tragitto della
talpa?… era un animaletto innocuo, ma quali inganni celava tale innocenza? Io sapevo che era
dannoso, io avevo ricevuto quell’informazione vitale… e tale distruttore si trovava sulla terra che mio
padre coltivava… ma soprattutto, io ero un eroe, e agli eroi non è data la possibilità di esitare. Un
eroe deve agire…- emergeva una sorta di rabbia ora nel suo racconto.
-…Quanto si può affermare che il fato sia stato casuale nel farmi raccogliere quella pietra
perfettamente levigata come se fosse un proiettile che si trovava proprio davanti ai miei piedi? E
quanto si può dire che lo stesso fato abbia influito sull’istinto di scagliare con violenza quel proiettile
verso il nemico con una precisione tale da far credere che il sasso, scagliato di puro istinto senza
nemmeno prender la mira, non fosse guidato dalla mano di un dio, come Apollo aveva guidato la
freccia scoccata dall’arco di Paride per trafiggere il tallone di Achille?- ogni cosa di quel racconto ci
stava trascinando in una sorta di oblio, per me sconvolgente, per lei provvidenziale.
-Potei sentire il tonfo della pietra che colpiva il fianco dell’animaletto, e nel silenzio che si insinuava
attorno a me, il soffio sofferente dell’aria che veniva sottratta ai polmoni… poi il silenzio totale e
l’immobilità del tempo nell’arrestarsi della corsa della talpa che restava immobile, colpita a morte…
ma il fato non aveva ancora concluso la sua vicenda. Sì, perché io pochi giorni prima avevo visto quel
documentario, e forse quella talpa era uno di quegli animali strategici e ingannevoli che fingevano di
essere morti per sfuggire al loro assalitore. Ma a un eroe non sfugge nulla, un eroe è sempre allerta,
ed è paziente. L’eroe attende e l’antieroe, commette sempre un errore, così, nella sua limitata
comprensione, una talpa, per quanto astuta, non può rendersi conto che il gesto di sfregarsi la parte
colpita nel tentativo di alleviare il dolore, può rivelare il suo inganno. Così quando vidi quella
zampetta rosa strofinare il fianco colpito, ebbi la certezza che stavo per essere ingannato… non vorrei
dirti come finì la triste esistenza del vellutato animaletto, vorrei risparmiarti l’atrocità del mio gesto
perché nell’incapacità di trovare il coraggio di colpire con una bastonata rapida e risolutiva, e nel
credere che tale espediente fosse meno traumatico e doloroso, fu con il fuoco che purificai l’immondo
animale dannoso…- la smorfia di tristezza, dolore e ribrezzo che si manifestò sul viso di Vanessa non
fu sufficiente a spiegare la rabbiosa angoscia che si poteva percepire nella voce di Demetrio, mentre la
commozione negli occhi della ragazza, poteva riflettere quella che appariva nei miei.
-Che male poteva mai fare un animaletto come quello? E in che modo noi possiamo determinare che
cosa sia utile o dannoso? Una semplice talpa poteva veramente distruggere un’intera coltivazione? Mi
domando ora, quanto sia stato dannoso io per il vellutato animaletto…- poi ci fu silenzio e per un
istante, tornando nella realtà, osservai l’espressione malinconica e commossa di Vanessa che
sembrava, nel raccontare, percepire le stesse sensazioni di suo zio.
Provai angoscia per lei e mi sentii colpevole perché mi ritenevo responsabile di tale condizione -se
non te la senti di continuare non farlo, io posso capire quanto sia doloroso…-No affatto. Mi intristisce ricordare come sentivo forte la sua emozione, ma parlarne mi far star bene,
è come se… sentissi di doverlo fare-.
Se le avessi detto che immaginavo che quel suo sentire, più che desiderare di raccontare, non mi
sorprendeva, ma che un po’ mi spaventava, avrei dovuto ammettere a me stesso che intuivo troppo in
lei di suo zio e quasi, adesso, desideravo non voler più proseguire nel sapere. Temevo che l’avrei resa
dubbiosa, non delle sue facoltà che pure non era ancora conscia di avere, ma probabilmente, della sua
sanità. Se le avessi detto questo avrebbe cominciato a domandarsi se non ci fosse qualcosa che non
andava in lei e sicuramente se lo avesse chiesto alla maggior parte delle persone che conosceva,
quella sarebbe stata la risposta che avrebbe ricevuto, ma se lo avesse chiesto a me, si sarebbe sentita
dire che non c’era niente di sbagliato in lei, perché ormai io cominciavo a credere che l’anormalità
fosse più in me e in quelli come me. Così quasi non la sentii quando ricominciò a raccontare, ma fu
l’allucinazione a rendermi partecipe di quanto mi ero perso mentre pensavo alla mia normale
anormalità.
-Lei era qui- aveva ripreso a raccontare, ricordando a come Demetrio le avesse indicato il posto in
cui la talpa era morta.
-Come fai a esserne così sicuro dopo tanti anni?- l’avevo sentita domandarle.
167
-Posso sentirlo- affermò lui.
-Lo puoi sentire? E come?Vidi Demetrio alzare gli occhi e fissarla -le cose di questo mondo sono emanazioni di spiriti vitali, li
puoi definire energie se ti fa sembrare il tutto più accettabile. Ma ogni corpo, ogni elemento, ogni cosa
visibile e percepibile come manifesta o fisica è la rivelazione di qualcosa che sfugge ai nostri sensi e
che possiamo solo intuire, percepire e indagare, come i sogni. Tutto ciò che è fisico, ha un suo relativo
nel non fisico e tutto esiste per volontà di qualcosa che sta al di sopra di qualunque cosa noi possiamo
interpretare e spiegare scientificamente. La natura è invasa di spiriti che appartengono a ciò che è o è
stato manifesto, ma questo né la scienza né la religione lo possono dimostrare, e allora l’unica
possibilità che noi abbiamo di cogliere tale verità sta in noi- allargò le mani e con semplicità affermò ci puoi credere o non ci puoi credere. Sta tutto in te-.
Vanessa lo guardò con un’espressione che era estasi e dubbio allo stesso tempo -e tu ci credi?- la sua
riposta fu un’affermazione di assenso col capo e un’espressione che evidenziava la semplicità con cui
gli era impossibile non crederci.
-Ma qualunque cosa io dica o faccia, non potrò mai dartene dimostrazione e rendertela
comprensibile. In questo momento gli spiriti della natura ci parlano e io li sento, ma non posso
dimostrartelo. Ecco perché sta solo in te crederci o non crederci-.
-Ma tu affermi che percepisci la sua presenza- insisté Vanessa senza immaginare in quale tormentoso
labirinto si stava inoltrando. Io avrei voluto fermarla, dirle di non approfondire, di non uscire dal suo
giardino per scoprire che non avrebbe più potuto farci ritorno, consapevole di quanto traumatico fosse
dover mettere tutto in discussione e considerare, ad ogni azione compiuta, quali conseguenze essa
possa avere su ciò che qualcuno chiama eternità, senza immaginare o valutare che forse, questa
eternità è più reale di quanto lo sia un giorno da umano. Ma probabilmente lei era già entrata in quel
labirinto e forse tutto ciò che cercava erano risposte che potessero darle una conferma a ciò che già da
tempo percepiva sotto forma di tormento.
-Sì, è per ciò che questo è un luogo sacro. Ogni energia lascia il suo segno nella natura, e certi spiriti
seguono un destino preciso perché, conseguentemente ad una loro evoluzione di consapevolezza, sono
pronti a donare ciò che sono, per approfondire le altrui coscienze…-Stai forse cercando di dirmi che quella talpa si è fatta uccidere di proposito?Demetrio sorrise ancora, fece trascorrere un breve silenzio, poi riprese.
-Anni fa, mentre mi trovavo in Australia per documentare le condizioni dei nativi nel moderno
contesto sociale, incrociai lo sguardo di un’anziana aborigena. Lei era inserita nella nuova civiltà, ma
manteneva la conoscenza delle sue tradizioni. Il mio compito era quello di documentare con la
fotografia e quando la vidi, il mio istinto di reporter mi fece intuire la potenzialità estetica del
soggetto, così puntai l’obiettivo e mi preparai a scattare. Lei non disse nulla e non si oppose, era
pronta a lasciarsi congelare in quello scatto. Ma quando l’obiettivo fu a fuoco e la luce perfetta, potei
percepire qualcosa di misterioso nel suo sguardo, una luce, un bagliore che non si poteva prevedere
potesse esserci in occhi tanto profondi, proprio perchè era necessario riuscire ad osservare in quella
profondità. Ti assicuro che quello sarebbe stato lo scatto migliore della mia carriera da fotografo. Ma
un impulso più forte dell’istinto umano mi fece esitare e lentamente abbassai l’obiettivo e rinunciai
allo scatto. A quel punto l’anziana sorrise e io mi avvicinai a lei sebbene non avesse fatto alcun gesto
per invitarmi. Era stato il suo sguardo e il suo sorriso a pormi quell’invito. Mi disse che io avevo molte
cose da risolvere, alcune appartenenti ad un tempo sul quale non potevo intervenire, altre invece che
ancora potevano essere sciolte, ed era così che andava. La percezione della consapevolezza si
acquisisce nel tempo e nello spazio in cui ci è possibile agire e che risolvendo ciò che è in atto, era
possibile risolvere anche ciò che è rimasto in sospeso. È così che si comincia, poi, tutto avviene di
conseguenza. Non mi rivelò in che modo avrei potuto risolvere le mie questioni, ma mi fece capire che
lo avrei intuito… questa è una delle tante cose che sono in sospeso e una delle poche su cui posso
ancora agire. Uno spirito se ne è rimasto qui in attesa che io potessi avere quella comprensione, ha
deciso di restare prigioniero per darmi un’opportunità, e adesso noi lo libereremo-.
-Noi?- esclamò con timore Vanessa, e Demetrio annuì.
-Se vuoi, puoi sentirla la sua energia, è qui, e non solo per me, ma per chiunque ne voglia beneficiare.
Ti va?168
Nella mia mente stavo gridando di no, imprecando che non le venisse sottratta l’innocenza che le
avrebbe permesso di vivere serenamente, per essere sostituita con lo struggimento del tormento che
l’avrebbe invece angosciata per il resto dei suoi giorni, ma restavo solo un ombra e il mio no si
tramutò in un sì nella sua voce. Demetrio la invitò a inginocchiarsi davanti a sé.
-Unisci le mani come se stessi pregando- le disse -e poi accostale al suolo, lievemente, come se lo
volessi accarezzare- lei seguì le istruzioni e quando avvicinò le mani al suolo, il movimento che le vidi
fare di accarezzare l’erba, lo intuivo, non era un movimento volontario, ma una sorta di inconscia
azione che pareva guidata da un filo invisibile.
-Chiudi gli occhi- la invitò Demetrio, lei lo fece e a un certo punto le sue mani si fermarono, quindi
iniziò il rito.
-Ora lascia andare la tua mente altrove, disperdi ogni pensiero invadente, concentrati sul silenzio-.
Demetrio sembrava sapere, anzi ero convinto che sapesse, quando lei era pronta al passo successivo e
quelle sue pause erano solo lo spazio necessario a far sì che lo raggiungesse.
-Ora puoi sentire attorno a te i suoni distinti di ciò che sembra non avere voce. Il cinguettio degli
uccelli che ti parlano, il canto dei grilli, suoni limpidi e solidi. Lasciali andare, falli svanire nella tua
mente come un’eco fino a sentire i suoni più sottili. Li puoi percepire prima come profumi, quelli dei
fiori, dell’erba, della terra, perfino delle pietre… lascia andare anche loro come quell’eco nella tua
mente, falli svanire fino a non percepire più nemmeno il profumo… ecco, ora puoi ascoltare le voci più
evanescenti, labili, eteree… le voci degli spiriti…Per un momento il viso di Vanessa si distese in una sorta di rilassamento estatico e io provai sollievo,
ma subito dopo le sue palpebre si strizzarono e quell’espressione serena si contorse in una smorfia di
dolore. Istintivamente aprì gli occhi e io potei vedere il terrore in essi e con forza cercò di ritrarre le
mani per scappare, ma Demetrio la trattenne con forza.
Lei scosse la testa terrorizzata -no- pronunciò e lui la trattenne con più forza al punto da farmi
pensare che in lui si stesse rivelando una sorta di rabbia che io attribuivo indirizzata contro la sorella
che lo aveva rifiutato, cosicché adesso lui aveva deciso di vendicarsi sulla figlia.
-Fermati, non scappare, resisti- le disse però, e lei quasi iniziò a piangere.
-C’è freddo laggiù, un freddo gelido e oscuro, un freddo di morte…-Perché sei stata abituata a vedere la morte come qualcosa di negativo. Ma non esistono energie
negative in natura. Perfino dove sono avvenuti fatti orribili le energie che rimangono lo fanno solo
perché chi le sente possa capire. È la nostra limitata concezione a farcele percepire come negative. Ti
hanno insegnato che la morte è dolore e sofferenza, ed è vero, ma solo perché la morte lascia un vuoto
in ciò che prima era una realtà concepibile. Ma la morte non è dolore, non è sofferenza, non è male.
La morte è vita. Osservati intorno, la vita prevale, se esistesse solo la morte non ci sarebbe nulla di
vivo. La morte esiste perché ci sia possibile concepire la vita, comprenderla come qualcosa che dovrà
finire, ma solo a un livello fisico, in quel livello in cui noi possiamo divenire consapevoli e risolvere
tutto ciò che ci tormenta. Noi esistiamo per evolverci e comprendere che non siamo semplicemente ciò
che conosciamo, ma qualcosa di più grande e che ancora non abbiamo compreso. La morte, è solo un
passaggio, un ponte sospeso su un fiume…Non so come reagì lei ma io provai un brivido che non poteva essere allucinogeno, era reale e una
rapida e folgorante visione mi portò di fronte al ponte che ancora non ero riuscito ad attraversare
come se in realtà, il mio tempo si fosse fermato in quel luogo. Scacciai via l’immagine intrusa e tornai
nell’allucinazione di Vanessa. Forse mi ero perso qualcosa, e non so quanto potesse significare, ma
nel momento in cui tornai a osservare in quel sogno, vidi Vanessa sorridere con gli occhi chiusi e le
mani nuovamente rivolte verso il suolo.
-Sì, ora la sento- diceva -è calda e ha colori luminosi… e mi parla- aveva sentito la voce degli spiriti
e io non potevo più liberarla dal suo destino. Aprì gli occhi e osservò lo sguardo fiero di suo zio.
-Non lasciare mai che qualcuno ti condizioni, non fidarti di chi ti dice di conoscere il destino o il
divino. Tutto ciò che ti appartiene è quanto ti basta per comprendere. Perfino ciò che hai appreso da
me oggi, non lasciare che ti condizioni. Noi siamo singole unità destinate a unirci in un unico grande
oceano, ma ognuno di noi ha un percorso diverso, ciò che gli spiriti ti comunicano, è solo ciò che
necessita a te, per questo la loro voce è differente per ognuno di noi. Loro ci dicono solo ciò che può
servire a noi stessi e ciò che necessita a me, è differente da quel che necessita a te. Ricordalo bene
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questo, e non temere di seguire la tua via, anche se dovesse sembrare difficile, anche se qualcuno
dovesse deriderti o calunniarti. Ascolta quello che sta in te e quando ti sembrerà che nessuno ti possa
comprendere, esprimiti con loro… loro ti comprenderanno e ti parleranno sempre-.
Lo guardò con l’espressione di chi voleva ringraziare ma non sapeva cosa dire, poi, lui sembrò
cancellare tutto con la sua seria malinconia.
-Ora è tempo di liberarla- disse -questo spirito ha compiuto il suo destino-.
Vanessa lo guardò -e come facciamo?- disse credendo di avere ancora un ruolo.
Demetrio le sorrise -è facile, lo vedrai. Allontanati- le disse poi, e Vanessa parve delusa.
Di nuovo Demetrio la guardò comprensivo -lei era qui per me. Non si è sottratta a darti i suoi
benefici, ma sono io che devo risolvere questo evento- la rassicurò.
Vanessa mosse alcuni passi indietro comprensiva, poi si fermò e restò a guardare, così come restai
io. Demetrio chiuse gli occhi e si lasciò trasportare in quel mondo dove poco prima aveva condotto
Vanessa, poi si chinò, mise le mani a terra, ai lati del posto dove secondo lui si era sacrificata la talpa,
abbassò tutto se stesso fino a fare poggiare la fronte a terra, quindi alzò i piedi in modo che le uniche
parti del corpo che lo sostenevano erano le mani, le ginocchia e la fronte, tutto il resto era sollevato da
terra.
Restò così per qualche secondo, poi in un sussurro pronunciò -ho capito…Vidi Vanessa alzare gli occhi verso il cielo e sorridere, e intesi che stava vedendo qualcosa che io non
riuscivo a scorgere e con mio disappunto mi resi conto di quanto mi fossi allontanato dal tempo in cui
anch’io avrei potuto vedere. Ma ormai non credevo più e nonostante tutto ritenevo che la sua fosse
solo un’illusione, non più concreta di quanto lo fosse la mia allucinazione. L’ultima cosa che potei
vedere fu lo sguardo di Vanessa che osservava compiaciuta lo zio che sollevava il viso dal terreno, e
l’ultima cosa che potei sentire di quell’allucinazione fu la sua voce che diceva -se ne è andata…-Io devo andare laggiù- esclamò impulsiva non appena ebbe concluso il capitolo.
-Come?- reagii sorpreso e spaventato.
Lei mi guardò con occhi supplichevoli e ripeté -devo andare in quel giardino- disse, come se
all’improvviso fosse divenuta lei l’investigatrice e io stessi perdendo il mio ruolo primario nell’assurda
avventura.
-E che cosa vorresti andare a fare in quel giardino?- le domandai sentendo crescere in me al contrario,
un timore che mi diceva di doverne stare lontano. Improvvisamente l’idea di essere andato a Casterba
non mi parve più tanto buona. Percepivo in questo paese fantasma qualcosa di oscuro e maligno e mi
rendevo conto che ciò che per me era ambiguo e sospettoso aveva invece su Felona un effetto contrario
che la conduceva a sensazioni percettive sulle quali adesso le era impossibile non indagare, e sempre
più mi sembrava che i nostri ruoli si stessero invertendo.
-Devo sentire quella presenza, devo sapere…- si interruppe come se avesse intuito di aver rivelato più
di quanto voleva.
-Sapere cosa?- non esitai io però questa volta, sapendo, attraverso l’esperienza sul mio lavoro, che era
proprio in quei momenti di fragilità che la pressione delle domande poteva condurre l’interrogato al
cedimento. Lei mi fissò e io vidi la resistenza di chi è combattuto tra il rivelare e il nascondere.
-Che cosa credi che ci sia in quel giardino? Cosa speri di trovare? Lo spirito di una talpa che ti sta
aspettando per rivelarti i misteri dell’universo? Credi veramente che possano esistere simili cose?
Felona, tu sei una psicologa, una scienziata che studia la mente umana, prima di ogni altra persona
dovresti essere razionale e comprendere che nulla di quanto sta scritto in questo testo è razionalecercai di dissuaderla dalle percezioni del suo istinto, ma ancora non mi rendevo conto che il mio
improvviso stato analitico che mi aveva condotto nel ruolo dello psicologo contro quello in cui si era
calata lei dell’investigatore, manifestava in realtà una paura alla quale io mi opponevo semplicemente
per il desiderio di non voler conoscere.
-E perché improvvisamente tutto dovrebbe essere razionale? Perché non hai più dubbi? Temi forse di
scoprire realtà che non ti ritieni in grado di accettare? Io sono una psicologa è vero, e questa tua
resistenza mi trasmette paura. Di che cosa hai paura?Improvvisamente mi sentii come una di quelle vittime che smascheravo, e come esse cercavano inutili
giustificazioni o reagivano con l’impulsivo istinto di negare l’evidenza, allo stesso modo mi comportai
io.
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-Paura?- cercai di nasconderla negandola, pur avendola ammessa pochi minuti prima.
-Io non ho paura, semplicemente non credo in ciò che viene detto in questo testo e comincio a credere
che ci stiamo lasciando suggestionare in un modo di cui potremmo poi doverci pentire-.
-Quindi se vi fosse una rivelazione in questo racconto e noi potessimo avere la possibilità di esserne
testimoni, tu non vorresti comprenderla?-E perché? Se siamo sopravvissuti fino ad ora non possiamo continuare a farlo con le nostre limitate
conoscenze?-Quindi tu sei uno che preferisce vivere nell’ignoranza?-Se questo mi tiene lontano da certi pericoli perché no? E poi, se dovessi scoprire che niente di quanto
cominci a pensare adesso è reale, ne sopporteresti la delusione dopo esserti illusa?Felona si fece riflessiva -sì, su questo hai ragione. Ma, l’ignoranza comunque non può proteggerti da
alcun pericolo, anzi, caso mai ti ci condurrà, quindi non è possibile considerare anche l’alternativa?-Quale alternativa?-E se invece reale lo fosse? Se avessimo la possibilità di scoprire che tutto ciò che non possiamo
dimostrare ma solo credere per fede è reale? Se ci fosse anche una sola possibilità non vorresti
sfruttarla?-E per quale ragione? Che cosa ne otterresti?-Verità- esplose -verità su qualcosa che non ci renda inutili sfoghi della natura; verità che non ci
facciano sentire il risultato di un’esigenza istintuale; verità che ci rendano consapevoli che la nostra
presenza è qualcosa di più che una casualità, che siamo qui per una ragione…-E qual è la ragione? Il bene supremo? E poi quale sarebbe questo bene supremo?-Forse non siamo ancora in grado di sapere quale sia la ragione e che cosa sia il bene supremo, ma
sapere che siamo destinati a qualcosa di più grande dell’inerzia, ti pare poco?-E se scoprissi che invece è proprio il caso a farci esistere? Vorresti correre il rischio? Non preferiresti
restare nel tuo dubbio che tuttavia ti concede pur sempre la speranza?-E che cos’è la speranza se non una corrotta consolazione che induce ad una superficiale volontà di
sopravvivere? Se così deve essere almeno che sia spontaneo, se siamo prodotti del caso bene, almeno
vivremo in totale tranquillità consapevoli che ciò che siamo lo siamo solo per piacere… ma se siamo
qualcosa oltre il caso, allora il nostro divenire non può essere solo piacere, possesso o indolenza, e se il
fato ci da segnali, allora dobbiamo essere pronti a coglierli… a me la speranza non basta più DamianoEra da tempo che non pronunciava il mio nome, e quasi per un effetto fatato la mia resistenza
cominciò a cedere.
-E che cosa succederà dopo? Cosa faremo se dovessimo scoprire qualcosa che non vorremmo sapere?-Succederà semplicemente ciò che deve succedere- disse, e senza domandare che cosa ne pensavo si
incamminò. Allora la rincorsi e la presi con forza per un braccio.
-Felona- la richiamai -non siamo qui per questo- le dissi con la decisione che consolidava
ulteriormente la mia paura, e nello sguardo col quale mi guardò, la percepii attraverso la sua
comprensione, così come compresi la mia sconfitta.
-E per cos’altro allora? Se vuoi puoi rinunciare, nessuno ti obbliga, così come nessuno ha obbligato
me e seguirti fin qui. Ma non sottovalutare che tu mi hai coinvolta e forse quel pacco non era
indirizzato solo a te, così come la talpa ha potuto rivelare qualcosa anche alla nipote di Demetrio. Forse
io sono stata coinvolta per qualcosa di diverso da quello che riguarda te e forse il motivo per cui io
sono qui è proprio questo. Come puoi sapere tu che cosa devo fare io? E come puoi pretendere di voler
controllare la mia vita? Vattene pure se vuoi, ma io andrò in quel giardino e cercherò ciò che devo
cercare, con o senza di te-.
Restai immobile senza riuscire ad impedirmi di ammettere che aveva ragione. Lei era stata coinvolta
da me, ma, e ora ragionavo come lo scrittore del romanzo, quanto potevo essere certo che fossi stato
veramente io a coinvolgerla anziché essere solo un tramite del destino? Ora anch’io mi trovavo ad un
bivio, ma con la consapevolezza che se avessi rinunciato mi sarei reso responsabile di un fato che non
mi apparteneva o che, peggio, dovevo condividere.
-Io non controllo la vita di nessuno, ma ciò che tu vuoi fare non ha senso- cercai un’ultima via di fuga.
-E quello che fai tu ne ha? La tua rinuncia dove dovrebbe condurti secondo te? Volevi il mio aiuto?
Allora dovevi essere pronto ad accettarne ogni conseguenza, questo lo avevamo stabilito fin da subito
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mi pare. Io comunque non voglio costringere nessuno ad ostacolare il proprio istinto perciò fai pure la
tua scelta. Rinuncia se temi di non poter sopportare certe possibili rivelazioni, ma lascia che io capisca
le mie necessità. Se non sei disposto a farlo, allora vai avanti da solo per la tua strada mentre io seguo
la mia, in ogni modo, non potrei più aiutarti se prima non risolvo le mie controversie. Ho iniziato quasi
per gioco e mi sono ritrovata coinvolta in qualcosa che va oltre la mia immaginazione. Ho scoperto
cose che prima consideravo possibili solo per convenienza senza mai espormi alla possibilità di
comprendere quanto sia reale ciò che consideriamo e ciò che valutiamo. Ho aperto gli occhi su nuovi
orizzonti adesso, e voglio scoprire quanto è profonda la tana del bianconiglio. Decidi, le nostre strade si
possono separare qui e ognuno di noi può esplorare i propri orizzonti e superare i proprio confini da
solo, oppure, accettare che l’uno possa essere indispensabile all’altro. Qualunque cosa decida di fare, io
seguirò la mia via-.
Non avrebbe avuto bisogno di quella requisitoria perché già avevo deciso di seguirla nonostante le
mie paure, ma adesso non potevo dirle che quei confini di cui parlava io temevo di averli già superati e
in realtà temevo che lei non potesse far altro che darmene conferma. Temevo che ciò che avrebbe
potuto scoprire fosse la verità che Demetrio aveva rivelato a Vanessa e se così fosse stato, non avrei più
potuto avvalermi di quei dubbi che, fino a quando non vi è una conferma, possono comunque restare
semplici dubbi e, sebbene consapevole che tutto questo non potevo affrontarlo da solo, pur con la
migliore compagna che potessi desiderare al mio fianco per scoprirli, ancora non mi sentivo pronto.
Tuttavia, l’alternativa che consisteva nel continuare o rinunciare e che per un momento era sembrata
lunga secoli, in cui la seconda scelta mi era parsa la più ragionevole, sembrava, come quell’istante
lungo secoli, lontana migliaia di chilometri, già oltre l’universo conosciuto perché ormai cominciavo a
credere che se il destino aveva veramente la possibilità di condurre verso verità che si vogliono
ignorare, come già aveva fatto in altre circostanze evidenziate da Demetrio, per quanto avessi
rinunciato, prima o poi mi avrebbe ricondotto verso la stessa via, e a quel punto magari, sarei stato
veramente da solo.
Chiusi gli occhi e annuii -va bene, d’accordo. Andiamo laggiù- dissi, rinunciando definitivamente alla
mia beata ignoranza.
Ci avviammo senza quasi sapere dove andare, ma dalle indicazioni del racconto l’antica dimora di
Demetrio si trovava oltre il cimitero del paese partendo dalla chiesa. Non fu difficile individuare la via
che conduceva al cimitero, a Casterba vi erano tre strade e un solo incrocio sul quale erano ancora
visibili le indicazioni dei segnali. Le case che ci circondavano non erano ruderi, ma si vedevano i segni
di decadimento e dell’abbandono. Vetri sporchi e rotti dalle intemperie, erbe alte nei cortili, radici
sporgenti dalla terra e rampicanti che si impadronivano dei muri con facilità, cancellate arrugginite e
reti di recinzione abbattute.
Superammo le abitazioni e come descritto nel racconto, poco più avanti incontrammo il cimitero. Non
facemmo caso allo stato di conservazione della necropoli che, contrariamente alle case disabitate
sembrava invece ben mantenuto e proseguimmo senza sapere dove eravamo diretti. Una serie di alberi
ci accompagnava lungo la via, oltrepassammo una strada laterale e ci trovammo di fronte ad una
struttura che se fosse stata custodita si sarebbe potuta definire moderna.
-Ecco ci siamo- disse improvvisamente Felona.
Io rallentai -come lo sai?- le domandai, sempre più timoroso di scoprire che i suoi sensi stavano
diventando simili a quelli del fantomatico Demetrio.
-Il racconto dice che la sua casa era la più vicina al cimitero, e questa è la prima che incontriamo. Non
può essere che così-.
Avrei potuto obiettare che quel racconto non era attendibile, ma la consapevolezza che la sua
deduzione era più storica che sensitiva mi condusse ad una consolazione nella quale ancora potevo
percepire il beneficio del dubbio e le lasciai la sua convinzione. In fondo, se si fosse sbagliata, non
avrebbe potuto verificare i suoi sospetti e il tutto sarebbe stato per me solo che un beneficio.
Lasciai la macchina in strada, consapevole che non poteva dar fastidio a nessuno e ci avvicinammo al
portone. Osservai la ruggine che lo stava divorando, poi, con galanteria, spinsi per aprirlo, ma, come
avevo fatto alla chiesa, non osai entrare per primo. Felona non si preoccupò di quella mancanza di
cavallerismo e proseguì nella sua esplorazione. Il cortile era stato conquistato da erbe invadenti e gli
alberi alzavano il suolo con le loro radici. Le case, due villette, denotavano lo stesso degrado delle altre
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dimore abbandonate, assalite dalle piante rampicanti e cariche di muffa e ruggine sugli infissi. Le
finestre erano chiuse come se l’abbandono fosse stato programmato. Forse le case erano state messe in
vendita, ma ormai in quel luogo nessuno sembrava più voler abitare. Vidi Felona inoltrarsi in una zona
di arbusti più intensi che mi fu facile identificare con il giardino..
-Stai attenta- le raccomandai, ma lei non parve sentirmi e proseguì. La seguii con riluttanza e la
osservai mentre sembrava cercare qualcosa come se stesse giocando a mosca cieca. Capii che cercava
di affidarsi ai suoi sensi. Io restai ai margini di quello che un tempo doveva essere stato un giardino e la
lasciai girare a vuoto tra gli arbusti per più di mezz’ora, poi la vidi fermarsi e per un istante il respiro
mi si bloccò. La sua immobilità mi faceva presagire qualcosa di inquietante e dopo qualche esitazione
andai verso di lei. Quando le fui vicina vidi che davanti a lei, nel punto in cui si era fermata, una
chiazza di terra sembrava sterile e tra l’erba invadente una piccola porzione di terra era priva di ogni
forma vegetale.
-Senti qualcosa?- le domandai con timore. Lei si chinò, pose le mani a terra e per qualche secondo
accarezzò l’area circostante, poi la vidi scuotere il capo sconsolata.
-No- sussurrò decisamente dispiaciuta, e quando si alzò i suoi occhi erano velati da una triste
commozione. Teneva in mano un sasso levigato e lo fissava come fosse un gioiello falso. Per un
momento ebbi la visione di una freccia scoccata da un arco e il fiotto di sangue di un tallone trafitto,
poi tutto svanì.
Sentii il sasso cadere a terra e la sua voce rassegnata sussurrare una triste rivelazione.
-Ero sicura che l’avrei sentita, ma qui non c’è niente- ammise. Avrei voluto ricordarle che nel
racconto Demetrio aveva liberato lo spirito della talpa e che ora lo spirito del vellutato animaletto,
come lo definiva lui, non faceva più parte di questo mondo, ma razionalmente pensai alla mia
opportunità di poter continuare a credere che tutto ciò che era dubbio doveva restare tale e il mio
conforto cambiò direzione.
-Magari noi non siamo ancora pronti- osai dire, sapendo bene che la reazione che avrei ottenuto
sarebbe stata quella che desideravo, ossia, farle ammettere che la mia ragione, era più ragionevole della
sua.
-No, avevi ragione- disse infatti poco dopo -le illusioni sono solo illusioni e la realtà è solo realtàdecretò sconfitta. Io non osai andare oltre e lasciai che il silenzio suggellasse quel verdetto. Ma
ignoravo che il silenzio, talvolta, può avere più voce del rumore e mentre la invitavo a raggiungermi
fuori da quel groviglio di giardino, il suo sguardo si diresse verso la casa e si soffermò sul balcone del
piano superiore. La vidi esitare e fissare un vuoto verso il quale anch’io, istintivamente, andai a
guardare.
-Che c’è?- le domandai. Lei tornò a guardarmi, ma lo fece con quell’espressione assorta che già altre
volte le avevo visto, come se venisse destata da un sogno.
-Niente, ho avuto solo la sensazione di vedere un movimento sulle scale- disse. Io allora indirizzai il
mio sguardo nuovamente verso la casa e la fortuna mi soccorse facendomi scorgere la sagoma di un
gatto che correva verso la campagna. Non valutai che l’animale poteva essere piuttosto lontano per
poter aver coperto il tragitto dalla scala al punto in cui io lo osservavo in quel momento, e lo considerai
solo come un’occasione.
-Era un gatto- le dissi -eccolo laggiù- lo indicai. Lei lo guardò correre e sorrise. Uscì dal roveto e si
sedette su quella che un tempo doveva essere una panchina da giardino.
-Ti va se leggiamo stando qui?- mi propose. Io non me la sentii di disapprovare pensando che
assecondarla potesse servire ad alleviare la sua delusione.
-Vado in macchina a prendere il documento- le dissi. Quando tornai, mi sedetti vicino a lei e
cominciai a leggere:
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8
Il Cerbero infernale…
…Inutile dire che fu un’esperienza sconvolgente e che a ogni mia intromissione in qualcosa che da
tempo avrei dovuto lasciar perdere, mi conduceva sempre più in un profondo meandro di sensazioni e
timori che quanto stavo cercando non era di proteggere qualcun altro dall’insidia di una nuova
visione, ma piuttosto di tentare d’allontanare da me quelle comprensioni apprese in un tempo in cui
ero stato troppo incauto e mi ero lasciato trasportare nell’inebriante universo parallelo fatto di
considerazioni che avevano l’unica facoltà di creare dubbi e tormenti. Ma non volevo convincermi che
ero io a voler rifiutare tale possibilità perché l’accettarla significava assumersi troppe responsabilità e
nella mia assurda guerra ero convinto che se fossi riuscito a convincere qualcuno che le lusinghe di
Demetrio erano solo false illusioni di una mente troppo creativa, allora avrei potuto convincere me
stesso. Solo che, per riuscire in tale proposito, non potevo rivolgermi a persone come me, ma a
persone come Demetrio, e solo adesso, e troppo lentamente, comprendevo che Demetrio quelle persone
le aveva selezionate e tutti coloro che avevano in qualche modo fatto parte della sua vita, non come
semplici conoscenti, ma come interpreti del suo pensiero, erano affini a lui e con lui, collegate da un
misterioso intreccio.
Vanessa ne era stata la rivelazione definitiva, ma questo significava che anche Virginia faceva parte
del suo labirinto, così come ne aveva fatto parte Val, che lo aveva dimostrato quando era venuto ad
avvertirmi della sua partenza e così come, inevitabilmente, ne facevo parte io, che da lui ero stato
coinvolto molto tempo prima, forse perché ero il più arduo da risvegliare.
La mia era diventata una sorta di crociata perché per me quell’incombenza era troppo pesante e io
volevo vivere la mia vita senza nessuna responsabilità, nella normalità di una condizione regolare.
Ecco perché mi ero accanito così tanto con Virginia. Cominciavo finalmente a capire. Vanessa era
troppo coinvolta, Val non aveva mai dato segni di tale complicità ma Virginia poteva ancora essere
dissuasa. Lei non era ancora stata convinta del suo legame e se fossi riuscito a strapparla dalla tela di
quel ragno, allora potevo liberare anche me stesso perché avrei dimostrato che lui non era ciò che tutti
costoro credevano, e Vanessa poteva ancora essermi utile in questa guerra.
Così, quando la riaccompagnai alla stazione dove aveva posteggiato la bicicletta, le domandai se ci
potevamo incontrare ancora. Le dissi che all’indomani avrei potuto raggiungerla in città all’uscita da
scuola e che poi l’avrei accompagnata io a casa.
Lei accettò.
Non so se in quel momento fosse già talmente in sintonia con la mente di Demetrio da comprendere
quali erano le mie intenzioni, e senza considerarla un rischio, proseguii nella mia azione perché tutto
ciò che mi restava adesso era ancora il riuscire a dissuadere Virginia dal considerare Demetrio
un’alternativa alla sua noia. E il caso questa volta volgeva a mio favore, infatti, lui era partito e lei
rimasta.
Vendetta tramite un tentativo di seduzione fallito era la mia strategia.
Quando lasciai Vanessa erano le quattro, giusto in tempo per raggiungere Virginia all’uscita dal
lavoro pomeridiano alla scuola, così mi feci trovare lì quando uscì. Quando mi vide ebbe un gesto di
stizza e cercò di scansarmi, ma io la rincorsi.
-Virginia fermati- le gridai dietro. Lei proseguì senza darmi retta, allora affrettai la mia corsa e
prima che potesse raggiungere l’auto la bloccai.
-Per favore Virginia ascoltami- la implorai.
Mi fissò con rabbia -che cosa vuoi ancora? Non sei soddisfatto? Non ti basta averlo allontanato?
Non è ciò che volevi? Lui è andato e io sono rimasta. Questo ancora non ti basta?Mi ritrovai assalito da accuse che non comprendevo, o almeno, che comprendevo ma di cui non mi
sentivo responsabile -ma cosa dici?- le domandai interdetto.
-Lo hai convinto ad andarsene, lo hai convinto a non distruggere la mia vita felice. Non ti basta
questo?-Io non l’ho fatto. Non sapevo nemmeno che se ne era andato. Sono stato chiuso in casa per tutta la
settimana in preda a crisi febbrili. Non sono stato io a convincerlo a partire. È stata una sua scelta- le
rivelai allora e, vedendo la sua espressione sciogliersi in tristezza, compresi che adesso potevo
finalmente vincere.
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Lei si era costruita una falsa giustificazione e condannando me come distruttore delle sue illusioni si
era creata l’alibi che le potesse dare ancora la convinzione che la realtà non era quella che stava
vivendo.
-Perché mi tormenti ancora Tommaso? Perché non puoi lasciarmi dei sogni? Delle illusioni?-Perché tutto ciò che Demetrio poteva offrirti erano solo questo: illusioni-.
Rise amaramente con gli occhi che trattenevano con fatica lacrime di tradimento -e dunque è meglio
vivere questa realtà abulica e indolente fatta di noia e rimpianti?-Ma che cosa vai cercando Virginia? Tu vedi le cose da un punto di vista sbagliato. Tu sei realizzata,
lui è un vagabondo…-E che cosa avrei realizzato di tanto importante?-Nausica non significa niente per te? Non credi che valga la pena di sopportare un po’ di difficoltà
per il suo bene?- cercai di far leva sulle sue responsabilità, ma lo sguardo che le vidi,
improvvisamente, mi diede l’impressione di aver commesso un errore.
Di nuovo sul suo viso apparve quel sorriso amaro -Tom, sei così ingenuo…- disse, e io non riuscii a
capire. Vidi in lei una sorta di conflitto, come se fosse combattuta sulla necessità di rivelare qualcosa e
l’impossibilità di farlo, e quando tornò a rivolgersi a me lo fece deviando verso un altro argomento,
sebbene potesse sembrare il contrario.
-Come dovrebbe farmi sentire meglio il pensare al suo futuro se poi il suo futuro sarà condizionato
dal seguire un percorso simile al nostro?- la guardai incerto, non comprendendo perché intendesse
coinvolgermi in questo contesto e di nuovo rise come se mi prendesse in giro.
-Guardati Tom, non riesci nemmeno a riconoscere te stesso. Tu sei convinto che la nostra sia la
giusta realtà. Sei convinto che la vita sia fatta di quotidiana routine, lavoro, impegni, frenesia…
nessuna distrazione ma solo responsabilità. Forse questo va bene per te, e forse potrai convincere tuo
figlio che anche per lui è giusto così… ma io, dovrei convincere Nausica che quello che voglio per lei è
quello che ho avuto io? Noia? Responsabilità nei confronti delle aspettative altrui? Essere ciò che le si
chiede di essere invece che ciò che lei vuole essere? Io sono stanca Tom, mi sento vecchia, sento il
tempo che fugge via e non ho nulla da raccontare che possa essere di conforto. Se mi guardo indietro
vedo solo fallimenti per quanto la gente consideri che io sia stata una vincente. Io volevo qualcosa di
più per Nausica, e Demetrio, era colui che avrebbe potuto darle quel qualcosa in più…-Ma ti ha abbandonata, e questo dovrebbe farti capire che quel qualcosa in più non esiste-.
Il suo sguardo si fece severo e accusatore -vuoi sapere la verità Tom?- mi domandò con voce
provocante e decisa, e di nuovo io non fui più tanto convinto di volerla sapere.
-Sono stata io-.
-Cosa?-Sì, hai capito bene. Sono stata io a lasciarlo andare-.
-Tu non puoi assumerti ora le sue responsabilità Virginia. Lui non merita il tuo tormento…-Parli di responsabilità Tommaso, proprio tu che non sai nemmeno accettare quelle che hai di
fronte?- non capivo quali fossero le sue accuse e interdetto balbettai parole senza senso.
-Io non ti comprendo Virginia-.
Di nuovo sorrise e di nuovo lasciò in sospeso qualcosa che non sapeva rivelare -sono stata con lui
domenica, ed è stato il giorno più intenso della mia vita e ho capito una cosa… Lunedì ci siamo
incontrati di nuovo, sono stata io a invitarlo. Ho voluto vederlo alla collina, ovvero là dove c’era la
collina, la sua collina ricordi? La stessa che donò a voi per le vostre esibizioni. Ancora non capite
Tom che tutto quello che siete stati a quel tempo lo dovete a lui? E forse è per questo che non lo
sapevate apprezzare e ancora non lo accettate-.
Cercai di obiettare, ma lei mi impedì di interromperla -sono andata decisa perché lui mi aveva chiesto
di seguirlo e prima di andare ero risoluta a farlo. Ma poi, su ciò che resta della collina, rivedendo tutti
i ricordi del mio passato, di come ero ambiziosa e di come fossi timorosa di non riuscire a soddisfare
le aspettative della gente al punto da rinnegare tutto ciò che poteva essere un ostacolo, ho visto me
stessa rifiutare quanto avrebbe potuto compromettere la mia perfezione. Lui era l’anomalia che la
gente non sarebbe riuscita a spiegarsi. Una ragazza come me, bella, colta, sincera, assieme a un
nomade, senza religione né fede, senza dimora, senza stabilità… chi avrebbe potuto immaginare
quanta strada avrebbe fatto e soprattutto, chi avrebbe potuto immaginare che un giorno sarebbe stato
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disposto a rinunciare a tutto per qualcuno che in passato lo aveva malamente rifiutato? Eppure lui era
pronto a farlo Tom. Era ancora nobile, come a quel tempo. Non me la sono sentita. Non volevo essere
la causa della sua prigione…- mentre parlava cominciavo a capire e, egoisticamente, valutai più
sensato non rivelarle che la prigione di Demetrio era proprio quella apparente libertà in cui lui era un
nomade solitario che fuggiva dal suo rifugio solo perchè non poteva accettare che tutti coloro che
avrebbero dovuto partire, non capivano di non essere al loro posto. Ancora ero convinto che la cosa
migliore per Virginia era di restare lì, dove ero convinto fossero le sue radici. Quelle che invece
Demetrio aveva tagliato per esigenze diverse, ma che erano rimaste lì e che come un Cerbero infernale
sembravano sorvegliare chiunque cercasse di fuggire dall’antro della bestia, e la lasciai proseguire.
-Tutto mi sembrava irreale, impossibile e non compresi quanto in realtà stavo distruggendo finché
non ci trovammo sul ponte, quello che dal lato del parco costruito sulla collina, collega al lato del
bosco. Era tutto deciso ormai, senza dirci nulla sapevamo entrambi quello che volevamo, mancava
solo il suggello di un bacio. Ma sul centro del ponte, quando lui si avvicinò e chinò il viso verso di me,
nel momento in cui le sue labbra sfiorarono le mie, una strana brezza mi portò il senso di un tormento
che non potevo sopportare. Mi fu chiaro solo dopo quel brivido l’impossibilità di accettare la
responsabilità di divenire la sua carceriera e istintivamente girai il viso di lato rifiutando il sigillo. In
quel momento i suoi occhi si fecero tristi ma comprensivi e il tempo parve fermarsi. Attese, come se
sperasse che ci ripensassi, ma io, come il tempo, restai ferma. Ho sentito le sue mani lasciare le mie e
come in una sensazione telepatica ho percepito la sua comprensione. Non disse nulla. Semplicemente
mi accarezzò la guancia lievemente, poi se ne andò in silenzio, rispettando il mio desiderio di piangere
in solitudine… ecco come è andata Tom-.
Non sapevo cosa dire, ma ancora ero convinto che aveva fatto la cosa giusta e, ingenuamente, cercai
di convincerla di quanto il suo gesto fosse stato il più sensato.
-Hai fatto la cosa giusta Virginia- cercai di dirle, ma la sua reazione fu di rabbia.
-E tu che ne sai di cose giuste?- ebbi ancora la sensazione che ci fosse qualcosa di scorretto in quelle
sue reazioni, e insistendo a convincermi di considerare Demetrio il soggetto delle sue accuse evitavo di
sentirmene parte. Rinunciai a capire, ma avevo bisogno di sapere ancora una cosa da lei per poter
concludere il mio atto di convinzione.
-Dove siete stati domenica?- le domandai senza rendermi conto della mia mancanza di sensibilità.
Lei mi guardò con aria sdegnosa -hai avuto ciò che volevi Tom, ora lasciami in pace- rispose, e senza
darmi la possibilità di spiegarle salì sull’auto e se ne andò.
Il capitolo finiva così, sospesi la lettura e attesi.
-Vai avanti- disse però Felona.
-Nessuna riflessione su questo Cerbero?- cercai di provocare qualche sua impulsiva reazione al
sentirsi istruttrice accettando l’umiliazione di essere io l’alunno ignorante, più per allontanarla
dall’ancora sua presente delusione che per avere un vero e proprio quadro della situazione.
-L’inserimento del guardiano dell’Ade non è certo casuale, come ogni altra simbologia del testo. Ma
l’incertezza di comprendere quanto di questo testo sia reale e quanto sia attribuibile alla fantasia, non
mi conduce ad un’analisi concreta-.
Ciò che le sentii dire mi procurò una certa confusa preoccupazione -che vuoi dire?- tentai di farmi
spiegare.
Lei mi guardò -finché avevo ben distinta la condizione di narratore come semplice protagonista che
cerca di indagare se stesso attraverso una propria biografia, mi era ben definibile comprendere che ogni
allusione era riferita a lui medesimo ed ero quasi certa che in conclusione alla fine tutto ciò che
avremmo trovato null’altro era che un uomo che cercava solo delle verità su se stesso. Ma quando le
indagini di questo narratore si sono trasportate all’esterno e proiettate su di noi, le sensazioni sono
mutate. È come se ora tutti questi elementi non fossero più parte del narratore ma di noi stessi, e
l’indagine si sia spostata dall’analisi di un soggetto esterno alla nostra interiorità. Non sono più sicura
che stiamo indagando sull’identità di chi ha scritto il racconto, ma piuttosto su quella di chi lo legge-.
Restai letteralmente allibito e, contrariato, contestai -non puoi lasciarti coinvolgere in questo modo. È
vero, il racconto è suggestivo e per un certo tempo pure io ho provato i tuoi stessi timori, ma ora che
abbiamo risolto la questione dell’irrealtà, l’unica cosa che ci rimane da fare è concentrarci sull’identità
di questo scrittore e capire che cosa vuole- le chiarii il mio parere.
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Mi guardò con ostilità -e in che modo la questione sull’irrealtà sarebbe stata risolta?Per un istante mi sentii come preso in giro -non abbiamo trovato niente in questo giardino giusto? Era
qui che si concentrava ogni possibile prova di un fattore reale che ci potesse dare conferma che questo
folle non si fosse inventato tutto giusto? Ebbene, qui non hai trovato niente di quello che cercavi- quasi
la sgridai.
-Tu ne sei certo vero?-Sicuro-.
-Allora ti consiglio di non farti troppe illusioni. Il fatto che qui non abbiamo trovato niente non
significa che ciò che cerchiamo non ci sia, ma più semplicemente che noi ancora non siamo in grado di
sentirlo o di vederlo. Non cercare vie di fuga, tu temi questa condizione quanto la temo io, se non di
più, e cercare di aggirare l’ostacolo ti rende come Tommaso che non ha mai attraversato quel ponte-.
-Non puoi paragonarmi a lui- le dissi infastidito dalla comparazione.
-E perché? Temi di poter scoprire di avere qualcosa in comune con lui?-Può darsi, ma preferisco pensare che si tratti di un’invenzione e che magari questo tizio sia solo uno
che cerca una vendetta perché a questo punto per me è preferibile, quindi ora mi interessa solo capire
che cosa vuole da me-.
-Lui vuole i tuoi tormenti, e adesso anche i miei- esplose allora lei.
-No Felona ti sbagli- contestai io -lui cerca di scatenare questi tormenti, è un istigatore e forse è
questo il suo modo di vendicarsi, ma non certo contro di te, lui lo ha indirizzato a me il pacco e tu ne
sei rimasta coinvolta. Ora io devo scusarmi se questo ti ha causato traumi, me ne sento responsabile,
ma è mio dovere a questo punto ricordarti che tu non sei coinvolta. Questo millantatore ce l’ha con me
e tu devi solo aiutarmi a capire che cosa vuole-.
Mi espressi con vigore e forse pensando d’essere riuscito a penetrare la mente della mia attuale collega,
ma questa mi guardò come colta da un’illuminazione.
-Il senso di colpa. È da questo che cerca di fuggire- disse.
-Come?- domandai io tornando al mio stato di stupore continuo.
-Tu ora ti senti responsabile per la mia delusione e per il mio avvilimento. Per la prima volta ti
comporti cavallerescamente accettando di assumerti ogni responsabilità perché vedi crescere in me
un’ansia di cui ti senti responsabile, ma come dici non dovresti esserlo perché io ho accettato di esserti
complice- la guardai allibito percependo l’allusione. Se lei aveva ragione e questo individuo aveva
scritto ogni cosa sapendo che sarebbe giunta questa fase in cui lei avrebbe associato il mio senso di
colpa nei suoi confronti a quello dell’autore, allora significava che tutto era previsto, e io questo non lo
potevo accettare.
-Andiamo Felona, non può essere stato così calcolatore, come avrebbe potuto sapere…- ma mi fermai
scioccato, quasi tremante percependo come il millantatore ci stava rendendo tanto vulnerabili.
-Non possiamo lasciarci ingannare in questo modo Felona- le dissi decidendo che dovevamo reagire se cominciamo ad accettare che possa aver previsto che tu saresti stata mia complice e che pure tu
avresti dovuto avere un ruolo in questa circostanza, allora dovremmo dedurre che questo racconto è
stato scritto da un essere che travalica la sfera umana, e saremmo costretti ad accettare che solo una
figura avrebbe potuto giungere a tanto…-Il destino- rivelò lei.
-Sì, ma né io né te possiamo accettare una simile evenienza-.
-E quindi tutto tornerebbe al vaglio della casualità e il nostro incontro e tutto il resto non avrebbe
senso… ma allora perché insistere nella ricerca?Tacqui per un po’, ma non potevo rassegnarmi all’idea di quella sentenza.
-Senti Felona, in che cosa credi adesso? Voglio dire, non hai avuto conferma delle tue sensazioni e
quindi, o non esiste ciò che abbiamo dedotto o non siamo pronti per affrontarlo. Se tu dici che ancora
non sei convinta della realtà io sono disposto a concederti il beneficio del dubbio. Ma dobbiamo
risolvere questa questione perché ormai lasciarla in sospeso significherebbe solo continuare a
tormentarci-.
Tornò a guardarmi e incredibilmente annuì -è la cosa più sensata che ti ho sentito dire da quando ci
conosciamo. Siamo stati travolti da questo inganno e tuttavia io ancora sono incerta. Tutti i dubbi che
questo racconto mi ha generato però vanno risolti, hai ragione, e se per farlo dobbiamo indagare noi
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stessi, l’unica pista che abbiamo è continuare a indagare su questo folle- rividi il suo spirito combattivo
rianimarsi e ne approfittai.
-Bene, allora, quale significato ha questo cane dell’inferno dantesco?- esibii la mia limitata cultura
ricordando che Cerbero era il cane a tre teste posto da Dante a guardia degli inferi. Ma la mia
esibizione subì un traumatico impedimento.
-Nessuno. Nell’inferno di Dante Cerbero è a guardia del terzo cerchio, quello dei golosi, ma qui il
cibo non c’entra niente. Infatti deve riferirsi al Cerbero della mitologia greca, guardiano degli inferi con
il compito di impedire ai vivi di entrare e ai morti di uscire e le cui tre teste simboleggiavano la
distruzione del passato del presente e del futuro. E qui siamo in un limbo dove il narratore non
riconosce più né passato, né presente e inevitabilmente, non vede futuro. Egli è smarrito dall’ossessione
di qualcosa che ancora non comprende. C’è un grande senso di colpa in lui, o magari più di uno, ma ciò
che sta cercando di non vedere ancora è celato al suo ricordo, per questo non vuole che le cose
cambino…La guardai da un lato contento di sentirla tornare a fare le sue analisi, dall’altro preoccupato perché
queste si stavano prepotentemente confondendo alla realtà che stavamo vivendo e fissandomi comprese
i miei dubbi.
-Ora non ci possiamo più fermare amico mio. Solo così possiamo capire se il tuo sentirti in colpa è
solo una casualità o se la nostra realtà si sta fondendo al racconto. Siamo come legati da un filo
invisibile e credo che nessuno di noi due voglia restarci annodato- riferì.
Io la osservai con approvazione -no hai ragione- risposi, celando che l’unica mia volontà di restare
legato a lei adesso era solo per un affetto che cominciava a coinvolgermi troppo e che sinceramente,
cominciavo a temere.
-Allora continua e scopriamo dove vuole condurci- le sentii dire. Io avrei voluto andare via da quel
luogo, ma proporre di muoverci in quel momento mi parve improvvisamente compromettente. Era
rischioso interrompere adesso, e senza indugi, proseguii:
178
9
Quando si diventa adulti?..
…Il giorno seguente, come da programma, incontrai Vanessa all’uscita da scuola. Ormai la mia vita
aveva perso il ritmo quotidiano e in un modo che non comprendevo come fosse avvenuto, affari e
famiglia erano passati in secondo piano. Risolvere la questione Demetrio era divenuta per me di
primaria importanza, seppure non vi fosse apparentemente più nulla da risolvere visto che lui era
definitivamente svanito dalla realtà mia e di Casterba. Ma tutto era così intenso, che non riuscivo a
considerarlo e inconsciamente continuavo ad agitare un mare senza vento. Vanessa mi salutò con
allegria quando mi vide e mi venne incontro. Era una giornata calda e Vanessa indossava gonna estiva
e maglietta a maniche corte, tuttavia, nella mia convinzione di non fare nulla di male, non valutai ciò
che le persone che ci osservavano e che ragionavano in una limitata dimensione mentale potevano
pensare, né immaginai che qualcuno che ci conosceva poteva vederci, sebbene inconsciamente proprio
per questo le avevo dato appuntamento in città. Così, quando ci sedemmo al tavolo del ristorante dove
le offrii il pranzo ero totalmente disinvolto e le domandai perché mai avesse voluto incontrare suo zio
anche nei giorni seguenti. Il mio piano era quello di farla ragionare su quanto era avvenuto e poi di
raccontarle quale era stata la mia esperienza con Demetrio, pensando che se fossi riuscito a farle
capire che in realtà suo zio non era altro che una comune persona con uno spiccato senso
dell’immaginazione, avrei avuto la possibilità di insinuare il dubbio nella sua mente.
-Sono tornata da lui perché volevo conoscere di più sulla sua attività e sulle sue esperienze di
viaggio- rispose con semplicità, e tale semplicità mi spiazzò perché non sapevo in che modo avrei
potuto indurla a raccontarmi i dettagli delle loro conversazioni, quindi decisi di cambiare strategia.
-Tu avresti voluto conoscere meglio tuo zio?- le domandai.
Lei sorrise -ho avuto poco tempo per stare con lui, ma questi pochi giorni sono stati sicuramente più
interessanti di tutti i miei anni di studi- le sorrisi di rimando.
-Sì, ma tu non hai ancora iniziato i veri studi-.
-Intendi quelli universitari?- domandò con perspicacia.
-Sì- sorrisi divertito -è lì che comincia la vera istruzione e dove costruisci la formazione per affrontare
al meglio il tuo futuro-.
Lei si fece pensierosa -è strano- disse, e io la guardai con sospetto -il tuo sembra un discorso al
contrario rispetto al suo- rivelò.
Finsi stupore -davvero? Perché, lui che cosa ti ha detto?-.
-Ha detto che non sempre un diploma è sinonimo di conoscenza e formazione e in effetti, lui potrebbe
esserne un esempio- espose, e una sorta di allarme mi mise in uno stato di attenzione e agitazione.
-Non ti avrà convinta ad abbandonare gli studi spero- non mi rendevo conto che il mio poteva
sembrare un atteggiamento troppo affettivo, nel senso che solo un padre poteva permettersi di
discutere le scelte di una figlia, e Vanessa non era mia figlia. Lei però mi guardò proprio come se così
fosse e io mi sentii in dovere di assicurarla.
-Non farti idee sbagliate Vanessa. Non sono qui per dirti cosa devi fare del tuo futuro, è solo che a
volte è facile farsi influenzare da esempi che magari possono sembrare allettanti, ma la realtà in cui
viviamo non è così semplice. Non tutti hanno la fortuna di avere certe doti naturali come tuo zio, alla
maggior parte di noi servono molti sforzi per riuscire nel proprio lavoro- il mio tentativo di risolvere
però sembrò peggiorare le cose e lei iniziò a guardarmi con sospetto.
-È bizzarro- iniziò poi con aria pensierosa.
-Che cosa?-È strano come sia tutto così corrispondente-.
Un’insolita esitazione cominciò a cogliermi -che vuoi dire?- le domandai mentre si faceva sempre più
meditativa.
-Beh, certe coincidenze relative a quanto mio zio diceva. Per esempio su come molti pensano di
sapere che cosa sia meglio per me o per gli altri e soprattutto di come mi sarei trovata di fronte a
particolari condizioni su cui riflettere in questi giorni. Sa, mio zio ha detto che qualcuno avrebbe
potuto essere molto interessato al mio futuro, ma credevo che si riferisse ai miei famigliari, non
pensavo che sarebbe stata una persona estranea-.
179
Mi sentii in trappola e sorrisi con imbarazzo. Demetrio aveva previsto anche questo e precedendomi,
annullava ogni mia possibilità di annientarlo.
-Vanessa, ti assicuro che questa è una pura coincidenza. Io ero molto amico di tuo zio e dopo tanti
anni sai, cercavo solo di capire che cosa avesse fatto- tentai di riconquistare la sua fiducia ma nel finto
sorriso con cui cercò di accettare il mio imbarazzo compresi che ormai i suoi sospetti l’avevano
allarmata al punto da non potermi più concedere tale fiducia.
-Io non ho intenzione di lasciare gli studi, è solo che non voglio farmi condizionare- disse con
distacco.
Cercai di riguadagnare terreno assecondandola -condizionare da qualcuno che potrebbe indirizzarti
verso la scelta sbagliata?- le domandai.
-No. Non voglio fare in modo che quanto studierò finisca per inquinare il mio pensiero. Mio zio ha
detto che l’istruzione è importante, ma che questa non deve prevaricare sulle idee e sui pensieri che si
hanno. Io pensavo di indirizzarmi verso filosofie e scienze politiche, ma ora sto riflettendo su quanto lo
studio di qualcosa che riguarda il pensiero potrebbe condizionarmi nelle future scelte-.
La guardai con perplessità -sì non è errato ciò che dici, ma quando si diventa adulti si riesce a
distinguere la propria capacità di ragionare non credi?-E quand’è che si diventa adulti?Provai un brivido e improvvisamente mi parve di trovarmi di fronte a Demetrio -beh, quando ci
rendiamo consapevoli della nostra facoltà di scelta- cercai di risponderle con una certa coerenza.
Lei mi fissò -ci sono persone che rimpiangono tutta la vita le scelte fatte in passato, sono queste le
persone adulte?-Fare delle scelte sbagliate non significa non essere adulti, anzi, al contrario, spesso sono quelle che
ti fanno crescere-.
-Sempre che la scelta sia spontanea e personale, e non condizionata o valutata in conseguenza a
quanto qualcuno si aspetta da te, non crede?-È naturale che la gente si preoccupi di dare consigli, in fondo da ciò che realizzerai dipenderà il
futuro non solo tuo ma anche di chi sarà coinvolto nei tuoi spazi- le dissi cercando di farle
comprendere che le responsabilità di una persona non erano solo soggettive, ma anche collettive.
Credevo di recuperare affidamento, ma non sapevo quanto il breve contatto con Demetrio era stato
influente su di lei.
-È proprio questo il punto signor D’amanti. La gente si aspetta qualcosa da ognuno di noi, sembra
che gli altri abbiano già deciso cosa o come deve essere una determinata persona. Se uno viene da una
famiglia prestigiosa, dovrà mantenere quel prestigio. Se uno ha una condotta esemplare non può
permettersi errori. Sembra che tutti stiano lì ad aspettare le mosse degli altri, e questo non ha senso se
non per il fatto di giustificare qualcosa che non si apprezza di sé. Io per esempio sono la classica
rappresentazione di come dovrebbe essere una figlia modello. Se scegliessi di fare filosofie e scienze
politiche, avrei sicuramente l’approvazione di tutti quelli che mi considerano nobile, e l’invidia di tutti
quelli che attendono un mio errore da giudicare. Ma se decidessi di fare la musicista rock deluderei i
primi e farei felici i secondi, e in questa decisione dovrei tenere conto di chi con me subirebbe lo stesso
giudizio. Quindi, in che modo una persona è libera di fare una scelta se deve valutare le considerazioni
degli altri? Chi è alla fine che decide quando si è abbastanza adulti da poter essere veramente
responsabili della propria vita?-Mi sembra che tu la stia facendo più grande di quel che sembra- non sapevo più cosa dire e
improvvisamente mi sentii fuori luogo.
-Eppure, sebbene i miei genitori siano persone responsabili e per bene, mia madre non ha esitato a
rinnegare suo fratello. Quale dovrebbe essere il giudizio corretto? Per tutti il suo rinnegare è corretto,
solo perchè mio zio non ha rispettato alcune regole che qualcuno ritiene essenziali, e la cosa peggiore
è che nessuno è disposto a concedergli una possibilità di riscatto. Perfino mia madre rifiuta di
ascoltarlo…- si interruppe come se temesse ad aggiungere qualcosa, ma io lo intuii solo troppo tardi,
dopo che ormai le avevo dato l’opportunità di proseguire.
-Ma che stai dicendo? Tuo zio è considerato una celebrità, tutti lo hanno accolto con entusiasmo…-Solo per interesse. Se lui non fosse divenuto ciò che è nessuno lo avrebbe accolto in quel modo. Tutti
lo hanno solo sfruttato. Sarebbe stato lo stesso se fosse tornato da perdente come se ne era andato?180
-Ma tu che ne sai?- lei si stava irritando, ma fu la mia reazione a dare più esibizione d’incapacità di
sostenere il dialogo, e sapere che la persona che mi stava annientando in quello scontro verbale era
poco più che un adolescente, mi fece dubitare delle mie capacità persuasive facendomi rendere conto
sempre più che il mio valore stava più nella tradizione di famiglia e nei suoi possedimenti, piuttosto
che nella mia vera personalità.
-Mi ha raccontato che non era molto considerato quando se ne è andato, e non lo era nemmeno
quando è tornato. A nessuno importava nulla di più di quanto lui poteva offrire, e malgrado sotto i finti
sorrisi tutti lo stessero giudicando. Nessuno gli avrebbe chiesto quali fossero state le sue motivazioni
per fare ciò che aveva fatto e forse era meglio così perché nessuno avrebbe creduto a ciò che poteva
raccontare-.
Percepii di nuovo quell’allarme che avrebbe dovuto indurmi a cedere, ma l’istinto prevaricava ogni
mia sensazione e come nei tempi trascorsi , la curiosità mi spinse a fare la scelta sbagliata.
-Che cosa vuoi dire?- volli sapere.
-Lei gli avrebbe creduto se le avesse raccontato di aver parlato con suo padre la notte stessa in cui è
morto?Provai un forte brivido.
-Ascolta Vanessa- iniziai allora a dirle veramente con il tono di chi vuole convincere qualcuno di
qualcosa che lui ritiene giusto -forse è tempo che tu sappia chi era veramente tuo zio perché è facile
per una giovane come te subire l’influenza di un fascino seducente come il suo. Successe lo stesso
anche a me e forse per questo, meglio di chiunque altro io posso dirti chi era- lei mi guardò sospettosa
e io compresi di aver detto la cosa peggiore che avessi potuto.
Sentivo nuovamente di trovarmi su un bivio e da ciò che la ragazza mi avrebbe permesso di
raccontarle ero certo potesse dipendere il suo futuro e ciò che invece continuavo a non considerare,
era come nei miei gesti io vedessi sempre lo svolgersi del futuro altrui anziché il mio.
La giovane mi guardò con aria confusa tra il dubbio e la delusione -io ascolterei volentieri la sua
esperienza con mio zio, ma percepisco una sorta di negatività nel suo desiderio di parlare di lui. È
come se in lei vi fossero dei timori, ma perché mai dovrebbe preoccuparsi per quello che deciderò di
fare? Ho avuto pochi momenti di sincera armonia nei dialoghi con mio zio e quello che speravo adesso
era di poter condividere altrettanti bei momenti con chi era stato sua amico un tempo. Sembra però
che quel tempo non esista più. Ora capisco cosa intendeva dire quando parlava di Shiva il
distruttore…Provai una terribile sensazione di angoscia nel sentirmi accusare di essere un distruttore, ma non
potevo impedirmi di concentrare la mia attenzione sull’affermazione relativa al fatto di poter
condividere esperienze su chi “una volta era stato suo amico”. Demetrio doveva averle parlato così,
era abbastanza evidente, ma ciò che più faceva male era il pensiero che tali parole significavano che
lui non mi considerava più suo amico e, con una terribile rivelazione, non potei impedirmi di
comprendere che io stesso lo avevo considerato un avversario fin dal primo attimo del suo ritorno
piuttosto che un amico e la distruzione di cui mi si accusava era semplicemente ciò di cui ero stato
artefice, e le successive parole della giovane mi gettarono in un intenso sconforto facendomi percepire
come la mia stessa follia mi aveva condotto a distruggere ogni cosa, al semplice scopo di
salvaguardare una stabilità circoscritta ad un paese nel quale io ero apprezzato solo per le
opportunità che avevo da offrire.
-Sembra che tutti lo abbiano odiato- la sentii proseguire -e chi non ha riservato a lui il suo odio al
tempo che stava qui abbia usufruito di questo ritorno per esprimerglielo. Perché tutti ce l’hanno con
lui, che male ha fatto?Mi sentii meschino e impotente e l’unica cosa che riuscivo a considerare erano le mie scuse.
-Senti Vanessa, mi dispiace. Tutto ciò che mi premeva era raccontarti di lui così per come l’ho vissuto
io. Credimi, io ho sofferto quando se ne è andato, e non ero molto più vecchio di te a quel tempo. Ma
adesso capisco che i nostri tempi erano diversi e che tu non sei come me, ma assomigli più a lui…improvvisamente, nel ruolo di distruttore non mi ci volevo più riconoscere e come destato da un sogno
evanescente mi stavo chiedendo per quale assurda follia mi fossi così intestardito a voler allontanare
tutti da lui. Qualcosa tuttavia mi aveva condotto a considerare i pericoli che lui rappresentava, ma
come era sempre stata mia abitudine fare, quei pericoli li vedevo rivolti verso gli altri e come se fossi
181
un eroe benefattore inconsciamente mi ero sentito in obbligo di correre in aiuto alle sventurate vittime,
anche se solo in quel momento comprendevo che non sapevo di che cosa fossero mai state vittime. Io
ero terrorizzato dal ricordo di un vecchio pensatore che mi aveva insegnato a riconoscere i segni del
destino, e proprio per questo, perché non potevo accettare la realtà di un destino che non mi
permettesse di gestire la mia vita, riconoscevo in lui una minaccia e un avversario. Così, non vedevo in
lui la nobiltà di chi ancora seguiva le regole dell’ospitalità e dimenticando di essere stato io suo
ospite, l’avevo visto solo sotto la veste del Glauco guerriero.
In fine, Diomede, nel quale io mi identificavo, era stato sconfitto.
Accompagnai a casa Vanessa e nello scusarmi con lei le chiesi semplicemente di dimenticare ciò che
era successo. Lei mi guardò con aria comprensiva, come se intercettasse non il mio rammarico, ma la
mia intuita consapevolezza di quanto ero stato inadeguato e ingiusto nei confronti di Demetrio e di
tutti coloro che, nel bene e nel male, gli erano vicini. Per un momento ebbi l’impulso, come a volerla
confortare, di dirle che non tutti lo odiavano e che c’era qualcuno che invece lo amava. Allo stesso
tempo mi resi conto di due cose: la prima, che rivelarle di Virginia significava entrare in una sfera
troppo personale che non sapevo se sarebbe stata apprezzata da Demetrio, la seconda, che
conseguentemente avrei dovuto rivelarle che io stesso quell’amore avevo cercato di annientarlo. Non
so in che modo l’intuito o l’istinto mi fermarono e mentre lei al mio richiamo attendeva di sentire
cos’altro le volevo dire, un pensiero rapido mi fece definitivamente rinunciare al mio ruolo distruttivo.
-Auguri per il tuo futuro- le dissi con sincerità. Lei mi sorrise, e in quell’innocente sincerità, decisi
che era giunto il tempo di chiudere definitivamente col passato e con Demetrio. Ma si trattava di un
passato che ero stato io a risvegliare, non Demetrio, e se avessi saputo ragionare come lui, avrei
capito che lo scorrere della sabbia nella clessidra, una volta avviato, non era più possibile fermarlo.
-Shiva non è una divinità induista?- ricordavo qualche mio residuo di lettura di una specie di romanzo
in cui dovevo aver incontrato l’accenno alla divinità. Riflettei un attimo dopo su come fossi sempre io a
porre la prima domanda mentre lei ad ogni fine di capitolo si faceva sempre più riflessiva, e mi chiesi
quanto quella sua riflessività cominciava a preoccuparmi, giacché in ogni sua rivelazione, nonostante
sembrasse lei a sentirsi sempre più tormentata, ero io a divenire più timoroso.
-Da quel poco che so dovrebbe essere una delle principali. Perché qui lo si considera quindi un
distruttore?- osai comunque proseguire.
-È uno dei suoi maggiori attributi. Shiva era considerato una deità terrificante negli Inni Vedici delle
origini dell’induismo, ma con la diffusione del concetto di trimurti egli venne identificato
principalmente con il suo aspetto dissolutivo e rinnovatore-.
-E che cos’è la trimurti?-È una nozione che indica i tre aspetti di una singola divinità o, in questo caso della divinità suprema-.
-Perché in questo caso?-Perché Shiva è una delle tre divinità che la rappresentano assieme a Brahma, il creatore, e Visnu, il
conservatore-.
-Ma perché distruggere?-L’associazione a Shiva è determinante. L’aspetto distruttivo di Shiva rappresenta la conclusione di un
ciclo, così da poter permettere a Brahma di iniziarne altri. Perciò il suo carattere distruttore non è da
intendersi sotto un aspetto negativo. Nella visione induista l’aspetto distruttivo di Shiva è applicato
contro le forze maligne. Io credo che Demetrio si riferisse a se stesso, nel senso che la sua azione ha
condotto Tommaso a riconoscere la negatività delle sue gesta, infatti non riesce più a sostenere
nemmeno un dialogo con un’adolescente, e da questa consapevolezza ha inizio la distruzione di quel
lato oscuro di cui Tommaso ancora non aveva cognizione-.
-Si atteggia da divinità?- dissi perplesso -sarebbe sintomo di delirio dal punto di vista psicologico
giusto?-Sì- sorrise -psicologicamente sarebbe una diagnosi azzeccata, ma il suo interesse è solo simbolico. La
comprensione deve essere personale e spontanea, per questo Demetrio introduce così tante forme
simboliche. Il simbolo ha il potere di rivelare, ma nel modo più indiretto poiché se l’intuizione non è
individuale e soggettiva non sarà altro che una trasmissione di informazioni pressoché inutili per chi le
apprende-.
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Ripensai alle poche nozioni che io avevo di Shiva e intuii come in effetti il semplice aver letto qualcosa
non mi era stato di alcun bisogno. Ora, malgrado l’informazione mi venisse trasmessa, attraverso tutto
ciò che potevo aggiungere alle mie esperienze, cominciavo a comprendere meglio quanto mi si
spiegava.
-Io non posso accettare un giudizio su me stesso se questo giudizio non lo esprimo io stesso, è questo
che intendi?-In un certo senso. La distruzione che Tommaso ha cercato di effettuare in realtà non era altro che una
distruzione del suo ego, o di qualcosa che ancora non riesce ad accettare di se stesso. Ma deve
comprenderlo da solo, altrimenti continuerà a sentirsi come colui che deve annientare piuttosto che
colui che deve annientarsi-.
-Per questo ha cercato di rendere Demetrio insignificante agli occhi di chi lo apprezza? Cercava di
distruggerlo prima di essere da lui distrutto?-Esattamente. Il suo accanimento verso Demetrio in realtà è un’aggressione contro se stesso, che alla
fine doveva condurlo a quell’unica comprensione…-Ma come può uno comprendere di dover annientare se stesso?-È tutto qui il succo del discorso. Ciò che questo racconto sta esprimendo è che per comprendere
qualcosa o qualcuno prima dobbiamo comprendere noi stessi. In fondo lo hai appena detto, devi essere
tu a giudicare te stesso, ma noi commettiamo l’errore di giudicare sempre al di fuori di noi, ecco in
cosa consiste la distruzione. Quando sapremo giudicare noi stessi, forse potremo giudicare gli altri, ma
più probabilmente, non ne avremmo bisogno-.
-Ma che senso ha tutta questa follia? Perché inscenare un tale labirintico intrigo? Qual è la ragione per
cui Demetrio si accanisce tanto?-Non è Demetrio ad accanirsi, è Tommaso. È lui ad aver innescato l’intera sequenza del domino, e lo
ha fatto fin dal momento in cui ha cercato di capire chi era Demetrio, fin dai momenti dell’infanzia-.
-Ma poi ha rinunciato, quindi è Demetrio che insiste-.
-No ti sbagli, perché una volta che l’ingranaggio è stato messo in moto non si può più fermarlo.
Ricordi la Genesi? Il Cherubino con le spade fiammeggianti impedisce il ritorno nel giardino
dell’Eden. Demetrio non ha chiesto nulla a Tommaso, lui ha scelto da solo di uscire da quel giardino e
ne ha accettato le conseguenze. La sua solitudine è una di queste e lui la accetta, ma allo stesso tempo
lui si rende responsabile di chi vuole percepire il suo mondo e non può più fermarsi perché non può
accettare di lasciarlo nell’oblio. Tommaso è uno di quei avventati che ha scelto di uscire dal giardino,
ma una volta fuori si è perso… e Demetrio sta cercando di indicargli la via-.
I nostri sguardi si incrociarono e non so chi tra noi due avesse quello più stupito -è assurdo- sussurrai
non volendo crederci -se questa fosse la realtà, si potrebbe dire che stiamo parlando di una sorta di
entità superiore, una specie di angelo o di spirito guida. Siamo certi di voler accettare queste
circostanze?Lei mi guardò condividendo, forse per la prima volta, i miei dubbi e le mie insicurezze.
-È sicuramente la scelta più difficile da compiere, ma ormai ci siamo addentrati troppo in questo che
tu definisci labirinto. Demetrio potrebbe essere un angelo, uno spirito guida, o solo uno con una
consapevolezza leggermente superiore alla norma che lo conduce semplicemente a sentirsi responsabile
di ciò che magari involontariamente ha iniziato, ma così come lui, anche noi non possiamo smettere-.
-E non potrebbe essere semplicemente un pazzo?-Sì, e se così sarà, non potremmo altro che sentirci sollevati non credi? Ma se ora non scopriamo se
era pazzo o trascendente, in noi resterà solo l’incertezza del dubbio e il rimpianto di non aver saputo
accettare la sfida- concluse e io, nonostante tutto, annuii.
-Pazzesco- sussurrai e lei mi guardò incerta.
-Sto pensando che se avessi intuito un simile intrigo, forse avrei ponderato di più sulla possibilità di
rinunciare al mio compenso- ammisi.
Lei sorrise con una sorta di sincero divertimento -questo evidenzia come nella vita il denaro e i
possedimenti non siano tutto…-No, infatti- ammisi sconsolato, quindi mi sentii sottrarre il documento dalle mani e poco dopo sentii
la sua voce riprendere a leggere:
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La notte dei tori…
…Avevo deciso di dimenticare tutto, e quasi ero convinto che ci stavo riuscendo, quando quella sera,
quasi alle dieci, il campanello suonò alla mia porta.
Fuori si stava scatenando un temporale primaverile e pioveva a dirotto e io, che stavo guardando la
televisione assieme a mia moglie mi domandai, non meno perplesso di lei, chi potesse mai essere a
quell’ora. Non so se fu una fortuna che mi alzassi io per andare ad aprire o se fosse il fato a fare in
modo che così avvenisse, ma quando aprii la porta mi parve di precipitare in uno dei miei sogni
infantili.
La pioggia, l’oscurità e il volto di Virginia, reso quasi tetro dalle luci dei riflettori del giardino che
provenivano dal basso, mi condussero ad una lontana visione che come in una rimembranza di quelle
che ti fanno credere di aver già vissuto una condizione simile, mi stordirono al punto tale che
nell’immediato non riuscivo a comprendere che cosa stesse dicendo.
-Oliero- ripeteva in sequenza -alle grotte di Oliero- mentre io imbarazzato e incapace di reagire
domandavo a lei che cosa ci faceva lì. Ma lei ripeteva quel nome e continuava a fare riferimento a
certe grotte. Dal salotto Anna domandò a voce alta chi fosse e io mi resi conto che non potevo né
spiegare, né comprendere.
-Un imprevisto cara- dissi istintivamente e subito dopo, a voce più bassa mi rivolsi a Virginia.
-Che cosa succede? Perché sei qui?- lei mi guardò con sguardo disarmante e impaurito.
-Domenica, siamo stati alle grotte di Oliero- cominciò allora ad essere più chiara.
-Che tipo di imprevisto?- gridò dal salotto Anna. Dovetti improvvisare, ma non mi riuscì tanto
difficile.
-Dei tori amore. Sembra che dei tori siano fuggiti dal recinto- guardai Virginia e le dissi di non
muoversi perché sentii Anna alzarsi per venire a vedere.
Chiusi la porta e le andai in contro -che succede?- mi domandò incrociandomi.
Infilai una giacca alla svelta -devo andare a vedere di che si tratta. Mi dispiace ma non posso
permettere che quelle bestie rischino di fare danni-.
-Devo avvertire qualcuno?- mi domandò senza sospettare nulla.
-No- risposi con troppa irruenza -il mandriano qui fuori ha già allarmato gli altri responsabili delle
stalle. Si tratta solo di recuperarli- poi con un’intuizione che poteva dare il senso della drammaticità
ma molto incisiva sulla menzogna che stavo inventando aggiunsi -ha chiesto anche l’intervento di
alcuni cacciatori, forse sarà necessario abbatterli-.
Anna sussultò dandomi la conferma che credeva a quanto le raccontavo -ci vorrà molto?- domandò.
La guardai con l’espressione di chi sa che sta mentendo ma non vuole rivelarlo.
-Non lo so, forse è meglio che non mi aspetti alzata- le dissi.
Quando uscii lei mi stava ancora guardando e io lo feci in fretta per impedirle di vedere chi fosse il
mandriano venuto ad avvisarmi. Sapevo che le menzogne non rimangono mai tali per tanto tempo, ma
non pensavo alle conseguenze che questa poteva avere, anche perché al momento non potevo valutare
di avere altre alternative. Non osavo immaginare se avessi raccontato la verità, pur essendo il mio solo
un gesto di altruismo, cosa avrebbe potuto scatenare la rivelazione che a quell’ora uscivo con una
ragazza con la quale in tempi passati ero stato molto intimo.
Mi accorsi solo dopo essere salito in macchina che Virginia era bagnata fradicia e che con lei non vi
era alcun mezzo di trasporto.
-Mio Dio Virginia, ma sei venuta a piedi?- le domandai. Tremante di freddo annuì e io pensai che
doveva essere proprio disperata. Misi il riscaldamento al massimo, ma sapevo che non poteva essere
sufficiente.
-Ti prenderai una polmonite se non ti asciughi alla svelta-. Avviai la macchina e corsi in direzione
della città deviando però verso una località più turistica, dove sapevo che avrei trovato un Hotel
disponibile ad ospitarci per una notte. Non era mia intenzione approfittare dell’occasione, solo volevo
che Virginia potesse farsi una doccia e mettersi addosso abiti asciutti. Prenotai in un modesto hotel a
tre stelle in una località della valle della Lessinia dove, malgrado gli sguardi ambigui degli inservienti
ancora in servizio, nessuno pose domande. La stagione turistica non era ancora nel pieno delle sue
attività e non fu difficile trovare una stanza libera, prendemmo alloggio e dissi a Virginia di farsi una
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bella doccia. Quando uscì, indossava l’accappatoio, aveva i capelli ancora bagnati e, nonostante
l’angoscia nei suoi occhi, appariva sorprendentemente attraente. Avevo messo i suoi vestiti ad
asciugare appendendoli sul balcone protetto da una veranda. Quindi, le domandai di spiegarmi tutto.
Lei iniziò.
-Siamo stati a Oliero- disse -una località vicino a Bassano del Grappa, dove vi sono delle grotteattese un istante in modo riflessivo, poi scosse il capo.
-Mi dispiace per il casino che ti sto combinando, ma non posso tenermi dentro tutto e tu sei l’unica
persona alla quale posso rivelare questo tormento- disse quasi mettendosi a piangere.
Mi avvicinai a lei e nella solita necessità di conforto l’abbracciai -avanti non ti preoccupare. Si
sistemerà tutto, in quanto a me, non devi sentirti in colpa…-Ma Anna, che cosa penserà?-Non preoccuparti, posso giustificare tutto. Ora raccontami. Che cosa ti ha turbato tanto?Attese qualche secondo, un po’ per pensare, un po’ per rilassarsi.
-All’inizio è stato tutto molto tranquillo e piacevole, il viaggio in treno, la passeggiata per il parco.
Poi quell’idea, ovvero, quel suo ammettere che voleva farmi vedere qualcosa. Lo definì uno spettacolo
della natura. Io non dubitavo di nulla, nemmeno quando mi parlò di queste grotte, in definitiva, erano
solo componenti naturali che non rappresentavano alcuna insidia. Inizialmente giustificò questa sua
voglia di condurmi alle grotte perché erano state uno dei primi soggetti che aveva fotografato come
professionista. Mi aveva detto che le foto erano apparse su una rivista naturalistica, e io non avevo
avuto dubbi. Entrammo con l’ausilio di un battello perché queste grotte sono accessibili attraverso il
fiume Brenta, poi cominciammo la visita. La guida spiegava la struttura geologica della formazione
calcarea e della roccia e dentro vi era una semioscurità perché le luci usate per illuminarla erano a
basso voltaggio, per non rischiare di danneggiare l’equilibrio naturale. C’era un percorso da seguire
e non tutti restavano presso la guida. Molti si attardavano e anch’io dopo un po’ cominciai ad essere
attratta, più che dalle parole della guida, dalla struttura della grotta. Demetrio camminava affianco a
me, ma quando a un certo punto io cominciai a provare freddo, lui rallentò il passo e si mise dietro di
me. Sentii le mani di Nausica lasciare le mie e cominciai a camminare da sola tra le stalattiti della
grotta. Mi accorsi solo per un istinto protettivo che potevo lasciarla andare perché con la coda
dell’occhio vidi che Demetrio la prese per mano il che significava che lei passava semplicemente dalla
mia protezione alla sua, e allora potei cominciare a lasciarmi trasportare dalle sensazioni, e dopo un
po’ quelle sensazioni si trasformarono in una specie di estasi e a un certo punto, mi sentii come parte
di una realtà che non sembrava consistere-.
Provai un forte brivido perché le sue parole mi condussero verso una lontana reminiscenza dove
qualcosa mi portava nella memoria flashback di immagini che parevano lontane nel tempo ma che,
come déjà vu mi portavano alla concezione di qualcosa di già vissuto.
Virginia intanto proseguiva il racconto inconscia delle mie sensazioni.
-Ad un certo punto, la grotta nella quale stavo passeggiando mi sembrò mutare, come se io stessa
mutassi con lei e l’ambiente in cui stavo non fosse più lo stesso. È strano e so che può sembrare
difficile da comprendere, ma avevo come l’impressione di essere trasportata in una dimensione
diversa, come se stessi sognando-.
Fu questo uno dei momenti in cui la mia razionalità poté trovare una ragione per essere messa in
dubbio. Fu questo uno dei momenti che mi riportò a quell’assurda concezione che la realtà poteva non
essere reale e mettermi di nuovo sulla via della discussione su come ciò che stavo vivendo fosse vero o
pura fantasia. Fu questo uno dei momenti in cui ripresi a domandarmi se non stessi vivendo, come uno
spettro ignaro, una morte di cui non ero consapevole. E fu questo uno dei momenti in cui mi sentii più
disarmato e impotente che mai, mentre avrei potuto dirle che non era poi così strana la sensazione che
stava cercando di spiegarmi, sapendo che a quel punto avrei dovuto rivelarle tutti i miei dubbi e
sospetti sulla realtà. Ma se lo avessi fatto, avrei rischiato di compromettere il suo intelletto, avrei
rischiato di innestare troppi meccanismi oscuri della mente e soprattutto, avrei rischiato di essere io
stesso trascinato in quel meandro di pensieri in cui nuovamente sarei tornato vittima dei dubbi, del
caos e dell’assurdo, nel quale non volevo più tornare. Così non dissi nulla, e la lasciai raccontare.
-Ad un certo punto ho percepito come un vuoto intorno a me, la grotta si è fatta più grande dandomi
la sensazione di un’enorme cattedrale naturale. Poi ho visto luci di fiaccole e mentre stavo lì al centro,
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ho sentito la presenza di persone attorno a me. Non erano reali, così come non era reale la visione che
stavo per avere. Alcune persone si materializzavano come se fossero già state nella grotta, altre invece
giungevano come se vi stessero entrando e tutto aveva l’apparenza di un rito che si stava svolgendo.
Mi si rivelarono veloci passaggi, proprio come avviene nei sogni, che mi davano la sensazione di salti
temporali. Vidi che nella grotta le persone avevano preso posto in vari siti, dividendosi in gruppi, che
non erano forse assegnati ma piuttosto casuali, come quando ci si trova in un luogo dove si cerca un
posto per assistere ad uno spettacolo e si finisce per prendere posto vicino ad altre persone che magari
non hanno tra loro alcun legame. Io ero tra i presenti e osservavo, ma era come se tra la folla stessi
cercando qualcuno…Il suo racconto si confondeva sempre più all’allucinazione che mi faceva rimembrare immagini
sfuggevoli di un qualcosa di già vissuto che, ostinatamente, insistevo a non voler ricordare come un
sogno simile.
-…Poi, con un sorriso, ho visto il volto di chi stavo cercando…- ancora rabbrividii e subito l’istinto
mi impose di fermarla, semplicemente perché non volevo conoscere il volto della persona che lei stava
cercando. Ma la reazione fu lenta e l’istante passeggero bloccò l’impeto istintivo, e lei proseguì.
-…Fu solo per quel sorriso però che capii di averlo individuato, perché la visione immaginaria mi
distolse dall’incontro con un altro salto temporale e…- vidi le lacrime apparire sui suoi occhi e
percepii l’angoscia che le provocava il ricordo -…so che quella persona era la vittima che il salto
temporale mi aveva portato a osservare. Era un uomo incatenato ad una delle colonne della cattedrale
di pietra. Lo avevano appeso ad una catena che lo costringeva a tenere le braccia alzate sopra la testa
e la schiena rivolta verso il tormentatore. Indossava una tunica bianca, ma l’espiazione di non so
quale condanna consisteva nell’essere fustigato e la tunica fu presto strappata e intrisa del rosso del
suo sangue che sgorgava dalla pelle lacerata ad ogni colpo. E furono tanti, talmente tanti che il suo
sangue cominciò a colare verso terra. E allora mi accorsi che sotto di lui vi era come una cancellata,
un inferriata che lo teneva sospeso sopra un pozzo dal quale sentii un ringhio raccapricciante e
compresi che in quell’antro vi era una bestia, non so di che genere, ma doveva trattarsi di qualcosa di
malefico ed ebbi la sensazione che ciò che si effettuava era un sacrilego sacrificio umano nel quale la
bestia veniva nutrita col sangue fresco di una persona che doveva essere ancora viva…Provai io stesso ribrezzo perché nel suo racconto percepivo il sopraggiungere di immagini analoghe
alle visioni di quel tempo lontano che con forza avevo rimosso dalla mia memoria e adesso, con
altrettanta difficoltà stentavo a riconoscere. Ma non potevo negare che quei flash back, erano il
materializzarsi di sogni lontani. Volevo fermarla, ma ormai non potevo più resistere all’esigenza di
comprendere in che modo la sua visione poteva essere collegata al mio passato da sognatore e inoltre,
mi rendevo conto che ormai da troppo tempo avevo oltrepassato quel punto da cui non si può tornare
indietro, certo che se fossi tornato nei miei sogni, avrei visto l’angelo con le spade fiammeggianti
sbarrare l’ingresso a quel giardino nel quale avrei tanto voluto rientrare.
-…Poco dopo il ruggito, ho sentito il tocco di Demetrio riportarmi alla realtà e quando l’ho guardato
in volto dovevo avere un’espressione talmente terrorizzata che per un momento ebbi la sensazione che
lui nemmeno mi riconoscesse…- a quel punto la mia ansia si fece delusione. Avevo voluto
interromperla per non conoscere altro del suo racconto, ne avevo avuto l’intenzione, ma ora che non
potevo carpire nessun altra informazione, mi rendevo conto che in realtà volevo conoscere e sapere
quanto era avvenuto in quella grotta. Volevo sapere che fine aveva fatto il sacrificato, chi o cosa era
quella bestia, dove e quando si era svolta la cerimonia e soprattutto, perché… ma lei era stata
interrotta e quasi potevo essere certo che l’interruzione non era stata casuale. Sperai di poter avere
altre descrizioni e sebbene pieno di domande da porre, non intervenni a fermare il suo parlare che,
dopo la rivelazione, poteva riportarla ad una certa calma. Non furono molte le parole che aggiunse,
ma in esse vi fu forse la rivelazione che aspettavo, anche se allora non la compresi e forse, non la
comprenderò mai.
-…Credo che Demetrio abbia percepito la mia inquietudine o che abbia dovuto pensare che stavo per
avere un crollo fisico perché quando mi scosse, la sua apprensione non era dovuta al fatto di non
riconoscermi ma piuttosto al timore che io stessi per svenire. Non credo che lui abbia capito cosa mi
sia successo, so solo che la mia ansia mi portò quasi al collasso quando in quell’assurda visione, il
mio sguardo si era spostato dalla frusta che colpiva per l’ennesima volta la carne del perseguitato
186
lacerandola con una violenza tale da farmi scorgere il bianco delle ossa, alla mano di chi la
governava…Non so se scorse il mio brivido perché nell’assurdità della mia visione stavo già cominciando a
percepire che erano mie le dita salde sull’impugnatura della frusta, ma le sue parole mi rassicurarono
un istante dopo.
-…Mi aspettavo una mano forte, robusta e magari contorta, nodosa e resa callosa dalle tante volte
che aveva usato quello strumento. Invece era una mano leggera, sinuosa, delicata, con una pelle liscia
e vellutata, tanto candida da far pensare impossibile avere quella forza lacerante. Eppure i suoi colpi
erano impressionanti, duri e distruttivi. Seguii così la lunghezza del braccio coperto dal chiaro di una
tunica bianca prima che lo stesso potesse rialzarsi per far scivolare la stoffa all’indietro e poi tornare
a colpire con quella forza dirompente che non riuscivo più a tollerare. Guardai le sue spalle esili dalle
curve lisce come le piume di un cigno e compresi che quel braccio apparteneva ad una figura
femminile…Ancora un tremito accompagnò il mio turbamento nello stesso brivido che provò lei mentre con
angoscia crescente già mi pentivo del sollievo di non poter riconoscermi nella figura del flagellatore.
-…Con tormento lasciai scorrere lo sguardo sul collo, intravidi i capelli e poi gli occhi e infine, il
viso dell’esile carnefice …- mi guardò angosciata, e aggiunse: -…il mio viso…La rivelazione fu talmente scioccante che per un momento dimenticai che si trattava di una visione,
ma lo sconcerto che lei fosse la carnefice, mi lasciò impreparato ad una reazione e l’unica cosa che
potei fare, fu di lasciarla piangere…
Mi preparai a sentire l’analisi di quella nuova rivelazione, non immaginando dove questa ci potesse
condurre e senza valutare ciò che avevo considerato pochi minuti prima, ancora una volta fui io a
parlare per primo.
-Sconvolgente- esordii -sognare di essere una carnefice deve essere veramente tremendo- ma non so
perché lo dissi, dal momento che io, non ricordando i miei sogni, non potevo essere la persona più
indicata a considerare ciò che si poteva provare in sogno.
-Dal punto di vista psicologico sì- rispose Felona -il sogno, specie se poi il ricordo è così intenso, è
paragonabile alla realtà- disse quasi comprendendo la mia necessità di capire quale effetto poteva
effettivamente avere un sogno nella psiche umana -e il trauma può essere così intenso da paragonarlo
ad una colpa reale, come se l’azione vissuta in sogno fosse veramente avvenuta. Tuttavia non è
sorprendente che possa avvenire un evento simile-.
-Che significa?-Virginia si sente colpevole di molte cose, ha rifiutato Demetrio per due volte, la prima per odio, la
seconda per amore. Ella si sente di dover espiare una colpa piuttosto grande per la sua personalità-.
-E traduce il suo tormento nel sogno? Ma allora dovrebbe essere lei la vittima-.
-E infatti lei è la vittima. Ma il sogno ha una sua forma, a meno che non si abbiano certe capacità, non
lo si può controllare e quindi se il sogno è premonitore o rivelatore di qualche cosa, lo fa attraverso la
sua interpretazione-.
-Vuoi dire che il sogno è come i simboli? Lo si deve comprendere e interpretare giusto?-Esatto. In questo caso Virginia vuole punirsi per il dolore causato a Demetrio, ma il sacrificio è
un’espiazione delle colpe che lei invece non è riuscita a concedersi, così offrendosi come vittima, il suo
senso di colpa sarebbe placato, solo che in questo momento lei non è in grado di placare la sua
inquietudine e quindi la esalta…-Offrendo in olocausto la sua integrità e condannandosi come una sorta di demone?- interpretai io
l’atto simbolico del sogno.
Felona annuì con compiacimento professionale ma non soddisfatto -ma c’è di più. Il sogno di
Virginia, potrebbe non essere il suo sogno- disse, e a quel punto io mi sentii come Teseo nel labirinto,
ma senza il filo di Arianna.
-Cadremmo nel delirio pure noi se ci lasciassimo convincere di queste cose, te lo ripeto anche se tu
non sembri volerle considerare- le ricordai, ma ormai io stesso ero consapevole che non potevamo più
ignorarle.
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-Ciò che possiamo o non possiamo accettare ormai, non dipende più da noi- disse infatti lei -ora
l’unica possibilità che abbiamo è di avere una visione totale della condizione di questa vicenda, e non
mi stupirei di scoprire che l’uomo flagellato fosse proprio Demetrio-.
-Ma questo sarebbe assurdo- la interruppi, ma solo per un istante perché lei sembrò nemmeno sentire
la mia contrarietà.
-Rifletti, la grotta è ricorrente. La sogna Tommaso, la cita Demetrio e ora la incontra anche Virginia. I
loro sogni si stanno fondendo, proprio come già è avvenuto nel caso dell’incidente di Marco-.
-Ma se così fosse allora la volontà di Demetrio sarebbe veramente quella di vendicarsi-.
-Solo se lui ha il controllo del sogno, ma lui non dice di poter manipolare i sogni, lui li ascolta e li
interpreta. Se avesse questa possibilità, non avrebbe lasciato morire l’amico musicista-.
-Allora perché?-Perché se la vittima sacrificale non è Virginia, non può essere altri che lui stesso…- l’unica cosa che
fece invece che rispondermi fu di fissarmi con intensità, facendomi intuire che sospettava una
motivazione ma che ancora non era sicura delle sue intuizioni, mancavano gli elementi determinanti
per averne conferma e poter quindi convalidare l’ipotesi, così prese il documento e veloce ricominciò a
leggere:
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“Vittima e carnefice…”
…Avrei voluto approfondire, ma c’erano due inconvenienti ad impedirlo. Virginia era talmente
stanca e provata dopo il racconto che vedendola così logorata le suggerii di mettersi a letto e cercare
di dormire e, quando dopo un po’ vidi che finalmente si era addormentata, pensai che Anna doveva
essere preoccupata e che non potevo certo aspettare la mattinata per rientrare se avessi voluto non
destare sospetti. Così, nel pieno della notte scesi giù al banco della ricezione, pagai il conto e lasciai
una mancia al custode con l’informazione di chiamare un taxi alla signora quando si fosse alzata.
Avevo lasciato anche un biglietto a Virginia con dei soldi per avvertirla delle mie motivazioni. Quindi
me ne andai, con l’idea fissa però, che quell’argomento doveva essere approfondito. Quando rincasai
erano le cinque del mattino e Anna era ancora sveglia.
-Allora tutto bene?- mi domandò.
Cercai di essere elusivo -sì, tutto a posto. I tori non erano fuggiti, erano solo usciti dal recinto ma
non si erano allontanati dalla proprietà, cercavano di entrare nella stalla delle vacche, sai…- cercai
anche di essere ironico -si è trattato solo di farli rientrare-.
-E ci è voluto così tanto tempo?-Beh, non è mica facile domare un toro in calore- dissi con superficialità -ma tu che ci fai ancora
sveglia?-Ero preoccupata-.
La guardai sorpreso -non è la prima volta che succede un’emergenza- le dissi, ma il mio senso di
inquietudine giungeva da un fattore che rendeva la mia preoccupazione più guardinga, come se in
realtà percepissi che Anna non credeva totalmente alla storia dei tori e cominciasse a sospettare di
qualcosa -dai cerchiamo di dormire un po’- le suggerii.
L’indomani, quando Anna già era uscita per recarsi al lavoro e dopo aver accompagnato Dennis a
scuola, presi il mio cellulare e composi il numero dell’hotel per avere informazioni. Restai non poco
sorpreso quando l’inserviente mi informò che la signora della stanza 126 non era partita. Non so quale
istinto mi condusse a sentire una forte ira assalirmi, ma so che fu lo stesso che mi fece deviare il corso
del mio viaggio verso l’ufficio per recarmi invece all’hotel. In quei giorni stavo completamente
trascurando gli affari e non avevo idea delle conseguenze, né per questo, né per quello di cui mi stavo
occupando. Quando entrai nell’hotel la mia ira era evidente e altrettanto evidente era il pensiero che
dovette formarsi nella mente dell’inserviente alla receptions. Sicuramente avrebbe riso se il mio
sguardo fulminante non gli avesse fatto comprendere che non era il caso di azzardare commenti
subdoli. Mi diressi con velocità alla stanza e bussai con violenza e, accorgendomi che la porta era
aperta, entrai con irruenza. Ero furioso e credevo che non sarei riuscito a controllarmi, ma quando
vidi il suo sguardo disarmante, ogni mia ira si spense e, come rigenerato verso una sorta di
compassionevole comprensione, divenendo a mia volta incredulo mi avvicinai e le domandai cosa
stava succedendo. Lei mi guardò con espressione vacua, mi aspettavo che sarebbe scoppiata a
piangere di lì a poco, invece, con una disinvolta malinconia riferì.
-L’ho sognato di nuovo- e io restai ammutolito.
-Ho sognato la grotta, ho sognato il rito e l’ho visto…-Visto chi?- le domandai dimentico ormai di ogni ira.
-Lui, il martoriato-.
Rabbrividii per non so quale ragione, ma con l’impressione che la ragione che volevo ignorare fosse
quella di una realtà e non di un sogno.
-Ho sognato tutto Tommaso. Ho visto chi era l’uomo che cercavo. Ho visto il nostro ritrovo e un
incontro che non lasciava dubbi: eravamo amanti, e allo stesso tempo consapevoli del nostro destino.
Un destino che dovevamo condividere…-Non ti capisco Virginia, parli di un sogno come se fosse reale…- non sapevo se cercavo di
convincere lei o me, ma a Virginia non importava e continuò.
-…Un destino che dovevamo condividere ma che è stato spezzato, per questo è stata risvegliata la
bestia…A quel punto la mia barriera protettiva cedette e quasi incredulo le domandai -ma chi era, che cosa
hai visto, e quale sarebbe questo destino?189
-…Era Demetrio. Lui era il mio amante. Con lui dovevo condividere il mio destino, ma non era un
destino qualunque. Era un destino di sofferenza e di tormenti. Io ho avuto paura e l’ho abbandonato.
Ho risvegliato la bestia…-Sono sciocchezze Virginia. È solo un sogno-.
-No, sono tanti sogni. Questa notte ne ho fatto un altro, e ho capito. Ho capito chi eravamo e ho
capito quando l’ho abbandonato e perché. Ho avuto paura, e così facendo ho spezzato sia il mio che il
suo destino. Lui è qui per me, ma io devo capire da sola ciò che devo fare, ed è come se tutto ciò che è
stato fatto, in altri tempio in altre vite forse, abbia perso ogni senso finché io non avrò ritrovato ciò
che ero. Per questo lui non può stare con me, e per questo io continuo a rifiutarlo. Ma adesso ho
capito, e ciò che conta è che io possa mantenere questa consapevolezza…-Stai dicendo cose senza senso Virginia. Hai la febbre, è evidente dopo tutta la pioggia di questa
notte, tu non sai…-No Tommaso, sei tu che non sai, e che continui a rifiutare di sapere. Anche tu eri in quella grotta, ti
ho visto….A quel punto provai angoscia, tormento e paura, e non volli andare oltre -questa storia è durata fin
troppo per me. Ora non ne voglio più sapere. Non so perché mi sono lasciato trascinare dalla vostra
assurda alienazione, ma non resterò ad ascoltarti un attimo di più. Io ho fatto ciò che potevo per
proteggerti, ma in fondo questa è la tua vita, se la vuoi rovinare, libera di farlo, ma non coinvolgermi
più- non le diedi tempo per replicare e fuggii via...
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12
Il guardiano del bivio
Se avessi potuto osservare la mia espressione, avrei potuto ritenere di essere vittima di chi ha appena
visto un fantasma cui non può credere.
-Per tutti i diavoli, di nuovo, lo avevi intuito- dissi intimorito da una sensazione inquietante.
-Demetrio è lì per un bene superiore- parlò come se nemmeno se ne rendesse conto, con espressione
vana e voce inespressiva, lo sguardo perso nel vuoto, smarrita come chi si perde nel deserto e sente la
rassegnazione di non poterne uscire.
-Il sacrificio a livello simbolico rappresenta la rinuncia ai legami terreni per amore dello spirito e della
divinità. Ora è chiaro che per Demetrio queste sono condizioni di grande valore, egli è uno spiritualista
convinto, tuttavia lui ha già compiuto la sua rinuncia, e non una volta ma due. Lascia Virginia perché
comprende che ancora lei non può sostenere le sue verità e accetta di immolarsi, non per il suo bene,
ma per quello di lei. Negli antichi riti sacrificali, il sacrificio di un animale aveva il significato
simbolico dell’annientamento del proprio lato istintuale e bestiale. Nei riti mitraici un toro veniva
sacrificato e l’iniziato posto in un pozzo veniva cosparso del sangue dell’animale che colava su di lui.
La parte bestiale dell’animo moriva e il suo sangue nutriva la parte divina, qui le condizioni sono
inverse, è il sangue di Demetrio che va a nutrire la bestia…-E la bestia, a questo punto, chi sarebbe?..-Abbiamo tre figure centrali in questo sogno: la carnefice che diviene tale solo perché non è in grado
di espiare le sue colpe, il sacrificato che si lascia immolare per un bene più grande, e la bestia che, in
definitiva, divora entrambi…-Quindi la bestia è Tommaso?-No, non lo credo. Il sacrificio di Demetrio è appannaggio di entrambi, anche Tommaso, come
Virginia ne è beneficiario, quindi lui non può essere la bestia, ma entrambi devono capire quale sia il
loro ruolo, quindi potranno capire anche quello del sacrificato, altrimenti tutto sarà inutile…-Parliamo sempre di sogni, vero?- mi preoccupai, ma il suo sguardo mi fece provare un brivido
raccapricciante.
-Ormai, non ne sono più convinta- disse, poi mi guardò quasi con ansia -la sua allusione ai tori come
scusa per allontanarsi dalla moglie, non è casuale e ormai il confine tra sogno e realtà è così sottile che
il dividerli l’uno dall’altro potrebbe non essere più possibile…-.
Non ebbe bisogno di aggiungere altro perchè io potessi intuire che il riferimento era orientato al rito
dei tori sacrificati nelle cerimonie mitraiche, e scosso da una sorta di vertigine mi sentii avvolgere da
una sensazione di smarrimento, come se improvvisamente non mi sentissi più padrone del mio corpo e
ciò che percepivo fosse evanescente. Tutto intorno a me sembrava ormai etereo, come il movimento
che le vidi fare subito dopo mentre alzandosi dalla panchina si apprestava a salire i gradini della scala
che conducevano al balcone del piano superiore della casa.
-Dove vai?- le domandai, ma lei si muoveva come in una sorta di trance e il suo era lo sguardo di chi
credeva di aver percepito qualcosa, forse un richiamo invisibile che io non potevo udire, come invece
non potevo ignorare la misteriosa attrazione che quel luogo suggestivo alimentava in noi al punto da far
sembrare di aver la capacità di condurci fuori del tempo, o peggio, fuori dalla realtà. Consapevole che
me ne sarei pentito la seguii e una volta giunto sul balcone, con le mani poggiate sulla ringhiera
arrugginita, osservai lo stesso orizzonte che mirava lei, dove, al di là di un campo di girasoli si
stagliava la struttura del cimitero con le sue croci che si alzavano dalle cripte delle tombe contro il cielo
limpido. Restò a fissare quella che avrebbe dovuto essere una lugubre struttura edile ma che, al
contrario di tutto ciò che in quel paese era lugubre e decadente, appariva invece fin troppo curata e
fascinosa. Quindi scese le scale e si avviò verso i confini della proprietà per abbandonare la villa. Io la
seguii ma quando fui fuori della proprietà la vidi avviarsi proprio verso la necropoli.
-Felona, che cosa succede?- le domandai. Osservava un orizzonte che avrei voluto definire vuoto, ma
intorno a noi, malgrado la solitudine, tutto poteva esserci fuorché il vuoto. Girai la testa e osservai
ancora nella sua stessa direzione, oltre le fila di pioppi che sembravano soldati a guardia della strada
dove si elevava la struttura funebre, e una non piacevole sensazione mi colse. Non ebbi il tempo di
reagire, forse non ebbi nemmeno la voglia di farlo e, seguendo i suoi passi lenti, la seguii proprio verso
la costruzione che non risaltava tra i miei desideri di visita. Sapevo che non sarei riuscito a trattenerla,
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lei avrebbe seguito il suo istinto e i suoi impulsi che tuttavia, sebbene inquietanti, non potevo evitare di
valutare che proprio questi ci avevano condotti a scoperte sempre più profonde.
Davanti alla struttura si fermò.
-Sei certa di voler entrare?- fu l’unica cosa che osai dire.
-Osservalo- mi disse abbandonando l’espressione posseduta -non è come le altre costruzioni di questo
paese, è curato, come se qualcuno se ne occupasse…Osservai la struttura architettonica e non mi restò altro da fare che confermare ciò che già avevo
intuito. Il cimitero non era decadente, certo sul perimetro esterno vi erano segni di intemperie, sui muri
c’era della muffa, ma nulla che potesse essere paragonato alla decadenza delle case abbandonate.
Inoltre, se il mio sguardo oltrepassava il cancello in ferro battuto, privo di ruggine e pulito, potevo
osservare un interno curato, senza erbacce e spazzature varie, privo di foglie marce come se qualcuno
le avesse spazzate via, addirittura si potevano scorgere colori di fiori e le lapidi parevano pulite come se
nessuno le avesse dimenticate.
Due furono le cose che mi passarono per la mente. La prima era che chi aveva abitato quel paese se ne
era andato, ma non aveva dimenticato i suoi morti, e quindi di tanto in tanto passava a riordinare le
proprie tombe… ma se così fosse stato, possibile che noi fossimo giunti in un giorno in cui nessuno
aveva deciso di compiere quell’atto di riconoscenza verso i propri antenati?
La seconda fu meno realistica e più spaventosa e la mente non riuscì a trattenerla.
-Stiamo sognando?- domandai a Felona e lei accentuò la mia ansia.
-E di chi è il sogno, mio o tuo?-Io non sogno- cercai di ricordarle per scrollarmi di dosso la responsabilità dei fatti, ma lei me li
addossò tutti.
-Allora forse, se non te ne rendi conto, sei tu stesso il sogno- disse.
-Non scherzare- le risposi, ma con il timore che sembrava quasi essere una supplica -io sono reale
quanto lo sei tu-.
-Allora verifichiamo quanto è reale la nostra realtà- continuò, e così dicendo avanzò fino a
oltrepassare il cancello. Ancora una volta io lasciai che fosse lei a superare per prima la soglia, poi,
come per accertarmi che non vi fossero ulteriori pericoli, osai seguirla.
All’interno del perimetro circoscritto del piccolo cimitero, vi era il silenzio assoluto. Osservammo le
lapidi che stavano nella parte iniziale che parevano gli officianti di un rito d’accoglienza. Ai lati della
struttura vi erano tombe più sontuose, per la sontuosità che si poteva incontrare in un piccolo paese un
tempo abitato, si intende.
Erano tombe di famiglia, dove gli antenati restavano insieme anche dopo la morte, poi vi era la
cappella comune, una struttura dove non vi erano sedi familiari ma dove i defunti venivano posti in
appositi loculi chiusi da una piastra di marmo decorato anziché essere sepolti nella nuda terra. Vi erano
poi piccole lapidi, sopra le quali vi erano poche incisioni. Lì erano poste le urne con le ceneri dei
defunti che avevano preferito la cremazione alla sepoltura, e le poche incisioni denotavano come la
pratica fosse stata così recente da non permetterne una determinante divulgazione prima
dell’abbandono del paese. Ci aggiravamo furtivi alla ricerca di un indizio che ci desse la conferma della
nostra non irrealtà, cercando di capire perché quel cimitero fosse così ben curato, ma il silenzio era
talmente intenso da far sembrare che lì più di ogni altro luogo del paese regnasse la solitudine, finché
una voce non ci fece quasi rabbrividire al limite del rischio d’infarto.
-Cercate qualcuno?- ci sentimmo dire e ad entrambi parve come d’essere assaliti da un morto
redivivo. Sussultando e sobbalzando per lo spavento indirizzammo la nostra vista dal lato da cui
avevamo sentito provenire la voce e con sorpresa ci trovammo ad osservare un uomo seduto dietro una
lapide, con una folta barba, vestiti fuori moda ma non sgualciti, capelli lunghi e una chitarra in mano.
Era sdraiato all’ombra della lapide con la schiena poggiata sul retro del marmo, e per un momento,
l’impressione che avemmo fu proprio quella di osservare un fantasma.
Felona si portò una mano sul petto come se cercasse di frenare i battiti del cuore che aveva preso a
correre troppo forte, poi, dopo un breve periodo di ripresa osò domandare -lei chi è?- ma la risposta fu
piuttosto scortese e inaspettata.
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-Chi siete voi?- ribadì il supposto musicista. Io mi sentii assalire da un senso di difensiva aggressività,
ma Felona non voleva, o non era intenzionata a mostrare ostilità e rispose prima che io potessi
intervenire.
-Mi chiamo Felona- si presentò con cortesia. Sentii uno stridulo accordo partire della chitarra e una
litania a me incomprensibile emessa dalla voce dell’intruso che non era certo più intonato della chitarra
scordata: -ma mentre ancora esulta Sorona, Felona inizia il lento declino, inesorabile la notte scende e
l’equilibrio ben presto finisce…-Ma che diavolo significa?- dissi in un accenno d’irritazione, sospettoso mentre un’aggressiva
indignazione mascherava un crescente timore. Felona, al contrario, appariva meno sospettosa, più
interessata e più calma.
-È un brano tratto da Felona e Sorona, un disco delle Orme, un gruppo dei tuoi tempi. È strano che tu
non lo conosca-.
-Già, è strano amico mio, tu sembri uno di noi- disse lo sconosciuto e io pensai che con quel termine,
“uno di noi”, intendesse un coetaneo e ciò mi causò un senso di indignazione.
-Bada a come parli vecchio, io non sono tanto anziano- gli feci notare con presunzione.
-Nemmeno io se è questo a spaventarti, anche se il mio aspetto può trarre in inganno- parve volermi
rassicurare sulla mia ancora presupposta giovinezza.
-Dovresti stare attento al tuo giudizio- aggiunse però di seguito, e ciò, anche se non ne comprendevo
la ragione, mi fece fremere.
-Resta però ambiguo il fatto che tu conosca una con un nome simile, e non ti sia mai chiesto che tipo
di provenienza possa avere un appellativo tanto insolito- sorrise perfidamente, ma io lo colsi come un
atto che voleva mettermi in difficoltà allo sguardo di Felona, senza valutare come la perspicacia dello
sconosciuto lo avesse indotto a considerare il modo in cui mai mi fossi dimostrato veramente
interessato all’insolito nome che la mia compagna d’indagine portava, e dall’espressione della donna,
mi resi conto che effettivamente la mia era stata una superficialità di non poca importanza, che poteva
condurre al pensiero di quanto il mio scarso interesse per il particolare, potesse rivelare un mancante
interesse per quella che avrebbe potuto divenire una relazione più profonda. Ora non mi era difficile
capire come Felona aveva intuito quanto il mio approccio fosse già programmato come semplice
avventura. La guardai dispiaciuto e con lo stesso atto espressivo chiedevo scusa per non essermi
preoccupato di interessarmi a quelle spiegazioni che una donna si sarebbe attesa già dal primo incontro.
-Felona e Sorona, è un disco delle Orme del 1973 che narra la storia di due pianeti, uno felice e
luminoso, governato da un Dio potente e protettivo, ma inesorabilmente solo…- iniziò a spiegarmi.
-Felona- l’aiutò nella spiegazione lo sconosciuto arpeggiando altri accordi stonati.
Felona attese, poi continuò -…L’altro oscuro, grigio, nebbioso e triste…-Sorona- la interruppe di nuovo lo strampalato musicista continuando i suoi accordi disarmonici.
Felona lo osservò con attenzione, quindi continuò -entrambi sono all’oscuro dell’esistenza l’uno
dell’altro, ma gli abitanti di Felona nella loro serenità dimenticano il Dio protettore che gliela fornisce
causandone il senso di solitudine. A questo punto il protettore di Felona volge lo sguardo verso Sorona
e pianifica l’incontro dei due mondi affinché possa esservi tra loro un confronto e un risveglio per
cercare di creare l’equilibrio perfetto, ma è a questo punto che si consuma il dramma…Un nuovo accordo partì dalla chitarra e di nuovo lo sconosciuto cantante intonò una strofa stonata -la
felicità non puoi trovarla in te, ma nell’amore che agli altri un giorno darai- cantò e io lo guardai
irritato.
-Come un attimo prima di un esplosione, il tempo si ferma e trascende nell’unica rivelazione
possibile: l’equilibrio non è raggiungibile nell’unione tra bene e male, i due pianeti vivranno sempre
opposti e complementari, e in mezzo a loro ci saremo sempre noi…- proseguì Felona.
Dalla chitarra partirono altri accordi, incredibilmente armonizzati questa volta, e come se il musicista
stesso esultasse, trionfante la sua voce si fece precisa e accordata, e quell’ultimo verso mi parve
talmente intonato da farmi dubitare che si trattasse di un dilettante.
-La fine è il cerchio, il cerchio è la vita, e si distrugge per poi costruire. Si aspetta sempre il nostro
giorno, non cambia niente all’infuori del tempo-.
-Soli, ma comunque autonomi- aggiunse Felona, mentre io vedevo rincorrersi in me immagini
sfuggevoli di tori sacrificati, divinità e mostri vari che inghiottivano mondi o li distruggevano per poi
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sputarli o erigerli nuovamente, nuovi, migliori e più luminosi. Poi Felona mi guardò e tornando a
spiegare le origini del suo nome mi sottrasse a quell’assurda visione.
-Mio padre adorava quel disco, per questo mi chiamò Felona, sono certa che se avesse avuto un'altra
figlia, l’avrebbe chiamata Sorona-.
Il musicista sottolineò la tristezza della donna con un accordo di la minore e questa volta io non provai
irritazione, fino a quando lo sconosciuto si rivolse a me.
-E tu, come ti chiami?- mi domandò, ma io lo fissai come se non avesse il diritto di rivolgersi a noi
con quel tono confidenziale.
-Non credo che ti riguardi- gli risposi malamente.
L’apparente vecchio rise divertito -calmo amico, la mia è solo cortesia ospitale- disse, poi si fece serio
e aggiunse -e comunque non ha importanza- e osservò Felona come a indicare che il suo interesse era
più attirato dalla ragazza che da me.
Io provai di nuovo quell’irritazione protettiva nei suoi riguardi, ma le mie azioni parevano essere
sempre in ritardo e prima che potessi intervenire con qualche ingiuria Felona precedette ancora il mio
impulso e assecondando lo sconosciuto cominciò ad intavolare un dialogo.
-Quella chitarra non è tua vero?- le sentii dire e la sua spontanea domanda mi sconcertò. Sembrava
che lei avesse già intuito qualcosa che a me ancora sfuggiva e non capivo cosa. Per quanto mi
riguardava era evidente che avevamo a che fare con un vagabondo che aveva trovato in quel cimitero
una buona dimora.
Il vecchio accarezzò la cassa armonica della chitarra acustica e per un momento parve intristirsi.
-Questa? No, non è mia, me l’ha regalata un amico, in verità me l’ha lasciata in eredità- il suo sguardo
e la sua voce si fecero poi leggermente superficiali -ho imparato qualche accordo e qualche arpeggio,
così, per rispetto e lealtà verso il suo pensiero rivolto a me… ma non sono un musicista- ammise.
-Questo spiega le tue stonature- cercai di intervenire io, ma né lui né Felona parvero darmi ascolto,
come se in realtà la mia voce non fosse nemmeno pervenuta.
-No- sentii infatti dire poco dopo Felona -tu non sei un musicista, sei un giocatore- affermò, e un
brivido cominciò a farmi intuire qualcosa che avrei preferito non scoprire.
Il vecchio si fece serio e triste allo stesso tempo -già, e anche piuttosto bravo- ammise con un sospiro
che pareva introdurre la triste amarezza che gli comparve negli occhi, poi, quasi rassegnato aggiunse solo un po’ sfortunato-.
La sua espressione parve perdersi negli spazi del tempo e la voce si fece flebile e afflitta -si inizia con
qualche birra scommessa al biliardino, poi ci si lascia coinvolgere nelle gare di briscola, quindi si passa
a cose più serie, e alla fine ci si ritrova seduti ad un tavolo verde con qualche asso tra le mani e pochi
spiccioli nelle tasche…-Vincent, tu sei Vincent- esclamai io interrompendolo impulsivamente come un partecipante ad un
quiz che ricorda improvvisamente la risposta di una domanda di cui sa la soluzione ma non riesce a
rammentarla.
-Eureka- esclamò con un accentuato ironico eccitamento il chitarrista -perspicace il tuo amico, che
lavora fa l’investigatore?- domandò rivolto a Felona con evidente ironia.
Pensai di poterlo sorprendere -esatto, proprio così- gli risposi e lui mi guardò come a volermi far
sapere che già lo aveva intuito.
-Che cosa ci fai qui?- domandò Felona ignorando il mio scontro con l’intruso.
Lui riportò lo sguardo sulla ragazza e i suoi occhi si addolcirono -ma non dovrebbe farle lui le
domande?-Non fare il cafone e rispondi- gli ordinai io e lui, ma non solo lui, anche Felona, mi guardò con
disapprovazione.
-Io ci vivo qui, questa è la mia casa-.
-Sei un tombarolo? Come gli abusivi messicani che vivono tra le tombe dei cimiteri?-domandò
cercando di non essere offensiva Felona, ma l’uomo rise.
-No, io ci vivo qui, sono il custode- e indicò con il pollice una piccola casetta di legno che stava ai
margini del perimetro cimiteriale.
-Cosa?- esplosi io col mio imbarazzo -ci prendi in giro?L’uomo sorrise compiaciuto, poi posò lo sguardo sul documento che Felona teneva tra le mani.
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-Non si parla molto di me in quel fascicolo vero?- disse, e la sorpresa non poté che lasciarci
letteralmente stupefatti.
Felona abbassò gli occhi sul carteggio e come se temesse un pericolo la vidi stringere le mani sul
documento.
-Come sai di questo fascicolo?- le chiese con una gentilezza che ancora non le avevo scoperto.
L’uomo la guardò e per un istante vidi in lui la stessa premura e tristezza che molto spesso credevo di
percepire in Felona.
Un lieve sorriso apparve sul viso del custode e la sua voce parve quasi giungere da un altro tempo.
-Le somigli così tanto- disse, ma né io né Felona fummo certi di aver capito le sue parole, tuttavia
Felona azzardò la ricerca di un chiarimento.
-Come? A chi ti riferisci?L’uomo sorrise di nuovo -non ha importanza mia giovane principessa- disse, e io mi sentii invadere
dalla rabbia per i suoi inopportuni corteggiamenti.
-Non atteggiarti da seduttore sbruffone e rispondi alla sua domanda. Tu che ne sai di questo
fascicolo?- non trattenni l’irritazione.
L’uomo tuttavia mi guardò senza reazione, impassibile e tranquillo e con superficialità si limitò a
dirmi -tu invece non assomigli a nessuno, non credo che dovresti essere qui-.
Vidi Felona scossa da un brivido e io stesso non potei sottrarmi ad un senso di angoscia, ma non
volevo cedere alla follia di un vecchio reso insano di mente dal suo passato di ubriacone -ne ho
abbastanza delle tue insinuazioni, dicci che cosa sai di questo scritto-.
Il nomade, che sembrava essere meno nomade di noi, mi guardò serio e nella riflessione che gli vidi
sul volto ponderai che stava pensando se rispondere alla mia maleducazione o se mandarmi all’inferno.
Penso che la sua volontà propendesse per la seconda alternativa, ma per un istante provai una di quelle
sensazioni di cui ignoravo l’origine ed ebbi come l’impressione che la sua voglia di mandarmi al
diavolo venisse contrastata dall’esigenza di sentirsi in dovere di rivelarmi qualcosa che probabilmente,
nel suo contorto pensiero, era suo dovere fare.
-Abito in questo paese da una vita bello, so molte cose che tu ancora ignori- mi rispose con difficoltà,
evidenziando quel contrasto interiore che pensavo di aver percepito.
-Non sembra poi così vero. Dici che non si parla di te nel documento, allora come mai sappiamo chi
sei?- lo sollecitai di nuovo.
Accennò a nuovi accordi, facendoli suonare correttamente, forse per dimostrare che poteva
permettersi di fingersi stonato quando lo desiderava e rivelarsi corretto in altre circostanze, come a
voler dire che non mi sarebbe stato possibile capire quando potermi fidare di quel che diceva.
-Tu non ascolti, sei troppo presuntuoso, per questo non hai ancora capito. Io ho detto che non si parla
molto di me in quel fascicolo, non che non si parla affatto di me. Qualche breve accenno,
indispensabile e inevitabile, ma poi tutto si conclude, del resto, chi vuole avere a che fare con un
ubriacone?-Chi ha scritto questo documento?- domandò Felona, e lui sorrise fissandomi ironicamente.
-Dovrebbe farlo lei l’investigatore, fa domande molto più sagge di te- mi accusò provocando la mia
ira.
-Lo sai chi l’ha scritto o no?- tuonai io lasciandomi dominare dalla rabbia, ma in risposta ebbi due
nuovi accordi di chitarra.
-Stai calmo amico, non credo che siano molte le alternative che ti restano-.
Parlava in modo strano, come se fosse a conoscenza di segreti che mi appartenevano, ma io ero troppo
sospettoso e irritato per capire certi messaggi subliminali.
-È stato Tommaso D’amanti?- domandò Felona distraendo la mia attenzione dal pensiero sfuggevole.
Il custode si fece serio, ma solo per un po’, e quando tornò a parlare, non rispose alla domanda -ci
siete già stati alla grotta?- domandò.
-La grotta di Oliero?- cercò indizi di nuovo Felona, ma il chitarrista scosse la testa.
-No, su quella avete già tutte le informazioni che vi servono. Andateci se volete, farete una bella gita,
ma non troverete nulla che vi serva laggiù. Se cercate delle risposte, e voi cercate delle risposte, tutto
quello che vi occorre è qui- disse.
-In questo cimitero?- insisté Felona.
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Il giocatore sorrise -intorno a voi, ovunque in questo paese, e anche in questo cimitero- disse
elusivamente.
-Perché invece di fare il misterioso non ce le dai tu le risposte visto che sai tante cose?- lo provocai
allora io.
-Risposte?- rise -io non so proprio niente amico mio. Io ho molte più domande che risposte, e poi,
siete voi che state facendo un’indagine, e io non so nemmeno perché. E forse non lo sapete nemmeno
voi, dico bene? Questo paese è morto, non vedo che cosa ci sia da ricercare quaggiù-.
-Se questo paese è morto, tu che ci fai qui?- Felona aveva un approccio decisamente più fruttuoso del
mio, sebbene io restassi convinto che era la sua figura attraente a renderla più affabile agli occhi del
barbone.
L’uomo parve nuovamente entrare in quello spazio del tempo in cui i ricordi sembrano spade taglienti
usate per infliggere torture ad un prigioniero inerme -sai mia bella amica- esordì mentre io cercavo di
trattenere la mia ira ad ogni suo apprezzamento -la gente è strana. Molto strana. Se sei intelligente ti
detesta, se sei stupido ti disprezza. Se sei in uno stato di abbondanza desidera la tua rovina, se sei in
difficoltà tutti sembrano preoccuparsi di te, ma in quell’istinto premuroso, nessuno in realtà si
preoccupa di aiutare gli altri, ma solo di migliorare la propria apparenza. Chi può parlare male di un
benefattore? Dietro ogni azione di beneficenza si cela, tuttavia, un interesse personale, e poco importa
che sia un interesse vantaggioso economicamente o esteticamente, l’importante è che ci sia qualcosa da
guadagnare. Non si parla di me in quel libro perché a nessuno importa di un ubriacone ai margini della
società. Tuttavia Casterba non è sempre stato così. Quando il consiglio amministrativo di Valbordi ha
cominciato a prospettare soluzioni che avrebbero coinvolto il settore turistico, anche Casterba avrebbe
avuto la sua parte e io ero un vagabondo che non avrebbe potuto contribuire all’immagine favorevole
che si avrebbe voluto dare di questo borgo rurale. Così i ben disposti altruisti, hanno fatto in modo da
inventarsi un lavoro per l’ubriacone e hanno concepito questa soluzione, e io sono diventato il custode
del cimitero, il sorvegliante delle anime, il guardiano del bivio…- tossì come se il dire troppe parole in
un solo momento gli costasse eccessiva fatica, poi mi guardò scacciando ogni forma di tristezza dal
viso e mi interpellò.
-Ehi amico, ce l’hai una sigaretta?-Non fumo- dissi mentendo.
-Custodisci anche la chiesa?- domandò intanto Felona.
-Certo, apro ogni mattina, chiudo ogni sera e raccolgo le offerte. E sono certo che questa sera troverò
qualche moneta nella cassetta-.
-Ma perché sei rimasto?Rise divertito -ma allora non mi ascoltate, io ci lavoro qui. Il declino di Casterba è stata la mia
fortuna. Il paese è morto e io risorto. Nonostante tutto il progetto turistico va avanti e io continuo a
percepire il mio misero stipendio. Non che mi serva molto, io di un’auto come quella laggiù non saprei
che farmene. Questo è il mio regno ormai, nessuna complicazione, nessun imprevisto, niente
responsabilità…-Niente più gioco- provocai di nuovo, ma l’uomo sorrise ancora.
-No ti sbagli-. Frugò nelle tasche e tirò fuori degli oggetti che mi mostrò: erano dei dadi. Ma lo fece
rapidamente, chiudendoli velocemente nel pugno quasi a non volerli veramente mostrare.
-Me li ha dati un amico- disse, poi aggiunse -gioco spesso con i miei fantasmi- batté una mano sulla
lapide vicina, ma io non ero certo che intendesse quel tipo di fantasmi -il gioco dei dadi è uno dei più
entusiasmanti. Semplice e rapido, almeno ad un osservatore esterno. Ma quando tu tieni il destino tra le
mani, lo scuoti e senti il tintinnio dei cubi tra il vuoto del pugno semichiuso, allora il tempo intorno a te
si ferma, senti il brusio delle voci che svanisce e dopo un po’ c’è solo il silenzio con te. Allora devi
ascoltare con attenzione perché il destino ti concede solo un istante, e devi essere bravo a coglierlo, un
momento prima o un istante troppo tardi e l’attimo fuggente può essere fatale. Se cogli quell’istante e
riesci a lanciare nel momento in cui senti il richiamo dei tempi eterni fermarsi, il destino po’ cambiare,
ma se manchi anche di un solo breve inutile istante quel momento… osservi i dadi che corrono lungo il
tappeto verde, e per tutti è una corsa breve mentre per te è infinita, l’eco dei secoli ancora sta nella tua
mente ma non sai se lo hai colto nel momento giusto, e vedi i dadi che rotolano, e ogni giro sembra
eterno, li vedi incocciare contro la parete, tornare indietro e continuare a rotolare sempre lenti, come se
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stessi osservando il pigro cammino di una lumaca che cerca di risalire la corteccia di un albero. E senti
i suoni del loro ritmico tamburellare contro il tavolo che appaiono come percussioni di tamburi africani
e il tempo è fermo, eterno… poi, quando il tempo riprende a scorrere, i dadi sono fermi e il tuo destino
è cambiato…Mi guardò e non so se il suo sorriso fosse dovuto alla meraviglia che stavo provando o al semplice suo
essere ironico -che dici, ti va un lancio?- mi domandò.
Allora il fascino svanì e io tornai alla mia consueta irritazione -non ho mai giocato in vita mia e non
comincerò certo adesso- risposi.
-Peccato- fu la sua risposta.
-Che cos’è successo a questo paese?- continuò l’indagine Felona.
Lui guardò di nuovo verso di me -vedi? Lei si che sarebbe una buona investigatrice. Perché non vi
scambiate i ruoli? Ma forse lei fa un lavoro troppo impegnativo per te, che cosa sei, una psicologa?disse portando lo sguardo su di lei.
Ebbi l’impulso di prenderlo a schiaffi ma Felona mi bloccò parlando rapidamente -sì, sono una
psicologa e lo sto aiutando in questa ricerca. Tu ci puoi dire qualcosa oppure no?-La gente se ne è andata- disse con semplicità.
-C’entra qualcosa l’incidente del bambino al fiume?Guardò Felona con dubbio, poi scosse la testa -può avere influito sulle decisioni di abbandonare un
luogo ormai ritenuto maledetto, ma non è per questo che la gente se ne è andata-.
-Perché sarebbe stato ritenuto maledetto?-La gente dei piccoli paesi è superstiziosa- disse con superficiale disinteresse -credono al Dio della
Bibbia e al diavolo della divina commedia, e credono alle storie degli antenati, alle favole e all’uomo
nero…-E anche alla Marantega?- questa volta fu Felona a provocare, ma il vecchio sembrava impossibile da
istigare.
-Sì, anche a quella. E credono ai santi, soprattutto quando le cose cominciano ad andare male, e
pensano che se un luogo viene profanato i santi lo abbandonano e tale luogo resta privo di protezione-.
-Ma qui non vi è nessuna profanazione, i luoghi sacri, la chiesa, questo cimitero, sono intatti e
rispettati-.
-Non sono questi i luoghi sacri che devono essere rispettati, sono luoghi eretti dall’uomo, non dalla
natura-.
-Allora, che cosa è stato profanato?-La terra, il rispetto che le si doveva e… la collina dove qualcuno pensava vi fosse la dimora di
qualche spirito dalla natura ignota-.
-E Demetrio, c’entra qualcosa?- continuò l’interrogatorio.
Il custode parve illuminarsi -il Mage?-Già, proprio lui. È stato lui a darti quei dadi vero?- lo incalzò.
Il vecchio, che tuttavia ora comprendevo apparisse vecchio solo per le sue vicissitudini, annuì.
-Ha detto di averli ricevuti in dono da una zingara incontrata in uno dei suoi viaggi in un paese dei
balcani, ma ha detto anche che la stessa gli riferì che non erano per lui e che quando sarebbe giunto il
momento avrebbe saputo capire per chi erano. Io non so se lui potesse veramente capire queste cose o
se fossero solo fantasie come quelle che potevo avere io da ubriaco, fatto sta che li consegnò a me-.
-E quando avvenne?-Il giorno prima che se ne andasse-.
-Così tu lo hai incontrato?-Io l’ho visto ogni singolo giorno del suo breve tempo in cui è rimasto in paese. Veniva qui tutti i
giorni, salutava i sui vecchi e poi veniva da me. Abbiamo bevuto buoni bicchieri di vino assieme, lo
portava lui-.
-Hai parlato con lui tutti i giorni? E di che cosa parlavate?-Del tempo, come tutti coloro che non hanno nulla da dire. Di come cambia, del freddo e del caldo…poi la sua espressione tornò a perdersi nelle nebbie di un altro tipo di tempo -parlavamo del passato, del
presente, e anche del futuro…-E che cosa diceva del futuro?197
-Lui? Niente, ero io che prevedevo il futuro. Non ci vuole poi tanto sai? La gente qui aveva già
cominciato ad andarsene da tempo. Casterba era già un paese di vecchi vent’anni fa… i giovani rimasti,
non avevano la capacità di gestire questo luogo come avevano fatto i loro antenati… se avessero saputo
mantenere le tradizioni degli spiriti e delle maranteghe, quel bambino forse non sarebbe annegato nel
fiume, ecco la vera maledizione dove sta-.
Vidi la malinconia in lui.
-Quei vecchi avevano la forza di credere nelle tradizioni, nei valori del lavoro e dell’onestà. Casterba
viveva sulla struttura del lavoro contadino e finché la grande industria non ne prese il dominio, qui
poteva esserci prosperità per tutti. Ma lavorare costa fatica, e i giovani sono facili preda delle lusinghe.
Desideravano di più, benessere, cellulari, computer, case fatiscenti pieni di aggeggi elettronici…
macchine di lusso- mi guardò con un accenno di accusa, intendendo che io ero simile a quei giovani di
cui parlava -ma meno fatica per conquistarli, e quando la manodopera cominciò a scarseggiare, il
lavoro dei braccianti fu sostituito dalle macchine e quando queste cominciarono a divenire troppo
costose, i vari proprietari cedettero le loro terre alle multinazionali, risultato, più produzione ma meno
lavoro. Ora potete vedere grandi coltivazioni, ma nessuno che lavora. Per coltivare decine di ettari ora
bastano tre persone e a Casterba non vi erano molte prospettive. Così per cercare un lavoro ritenuto
dignitoso i giovani cambiavano paese, luoghi più fruttuosi orientati verso una nuova economia e un
progresso industriale. I vecchi morivano o venivano parcheggiati nei ricoveri, le case furono messe in
vendita ma il degrado generale non le ha mai rese molto accoglienti e, giorno dopo giorno, il paese è
stato dimenticato…-.
-E tutto questo dopo che Demetrio è stato qui?-Demetrio era un amico. Molti hanno cercato di farlo passare per una sorta di stregone che ha portato
la sua maledizione sul paese. Molti hanno voluto vedere in lui una sorta di vendicatore esperto delle arti
oscure. Molti hanno affermato di averlo sentito ammettere di esser stato al cospetto dei sacerdoti del
vudù. Ma nessuno si è mai veramente soffermato a discutere con lui. Se lo avessero fatto avrebbero
capito che lui voleva solo il meglio per questa gente. Niente arti oscure, niente desideri di vendetta,
niente rituali satanici, ma solo ciò che doveva essere. Solo che per capirlo, bisogna essere disposti a
comprendere se stessi, cosa impossibile da fare finché si cerca di giustificare i propri fallimenti nelle
responsabilità degli altri. Così Demetrio divenne un capro espiatorio, sebbene nessuno potesse
dimostrarlo. Il fatto è che ognuno di noi ha necessità di scaricare le proprie responsabilità sugli altri, e
quando fa comodo, si crede anche nelle fattucchiere, negli stregoni, perfino nelle maranteghe dei fiumi
e in tutte quelle cose impossibili che razionalmente non ci si azzarderebbe nemmeno a nominare-.
-E tu? Su chi scarichi le tue responsabilità?Mi guardò con rabbia questa volta -su quelli come te- disse -ricchi presuntuosi che credono di poter
dominare ogni cosa. Dimmi amico, in tutti i momenti che avresti voluto prendermi a pugni hai valutato
che io vivo per la strada da sempre? Sei certo che malgrado la tua preparazione atletica e le tue
conoscenze di autodifesa saresti in grado di sopprimermi. Certo che non la hai fatto, sei troppo
presuntuoso e arrogante… ma la tua giovane amica qui sì, lei sì che lo ha fatto. Per questo non mi ha
mai provocato…- lasciai scorre il silenzio considerando le sue ragioni e pensando, per la prima volta,
che mai avevo presupposto di avere a che fare con qualcuno che in qualche modo, per fortuna, abilità o
anche rabbia, avrebbe potuto sopprimermi, accorgendomi di quanto la mia arroganza mi avesse
condotto a ritenermi sempre al di sopra delle parti e un brivido mi sorprese prima che il giocatore
riprendesse -le responsabilità che ho sono mie e solo mie, e questa è l’unica cosa di cui posso essere
certo. Ho una moglie da qualche parte, e una figlia che non ho mai visto, e che non vedrò mai…Felona sussultò e il vecchio lo notò beffardamente.
-Sì lo so- ammise successivamente -so che da qualche parte una giovane ragazza considera un uomo
che non è suo padre il suo vero genitore. E io che cosa dovrei fare, andare a rovinarle l’esistenza
rivelandole chi è il suo vero padre? Un ubriacone che ora gioca a dadi con i fantasmi e che vive in un
cimitero? Tutti abbiamo delle responsabilità, riconoscerle ci rende migliori, in grado di poterle in
qualche modo riscattare, seppure ciò comporti rinunce e sacrifici- mi guardò -tu non credi vecchio
mio?-Come sai del documento?- gli domandai sviando da quella confessione. Il vecchio estrasse un
pacchetto di sigarette.
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-Hai almeno da accendere?- mi chiese. Non osai innervosirmi per l’inganno precedente, intuendo che
lui aveva compreso che pure la mia era stata una menzogna e gli lanciai una scatola di cerini. Si accese
la sigaretta e rispose -perché ero con lui mentre lo scriveva- disse, e lo stupore non ci assalì
semplicemente, ma ci lasciò letteralmente confusi e senza parole.
Quando si decise a darci ulteriori chiarimenti era già a metà sigaretta.
-Tommaso venne qui, dopo qualche giorno che Demetrio se ne era andato. Era piuttosto sconvolto e
mi disse che doveva consegnarmi una cosa. Voleva portarmela il giorno seguente, ma visto che io di
tempo ne avevo molto, decisi di andare da lui la sera stessa. Ciò che doveva darmi era questaaccarezzò la chitarra -non so quanto fosse vero, ma mi disse che il Canta aveva lasciato scritto che
venisse donata a me perché mi riteneva il più simile a lui. Diceva che ero un poeta, e chissà, forse
quando ero ubriaco lo ero davvero, io non me lo ricordo. Vidi che Tommaso stava scrivendo qualcosa
e senza chiedergli il permesso lessi qualche foglio. Subito si irritò, ma poi mi disse che aveva bisogno
di comprendere… non so che cosa. Mi rivelò che erano le sue memorie e io gli chiesi di non parlare di
me, giacché non volevo essere immortalato come l’ubriacone del paese. Gli concessi di lasciare quel
poco che già aveva scritto, poi me ne andai, e poco dopo se ne andò anche lui-.
-Tommaso? Tommaso ha lasciato Casterba?- dissi perplesso.
-Ha ceduto i suoi averi, ha lasciato tutto alla famiglia ed è sparito- rivelò.
-E dove è andato?-E chi può dirlo, se uno decide di sparire non va certo a raccontare dove se ne va-.
Guardai Felona -che cosa facciamo adesso?- le domandai come se all’improvviso niente avesse più
senso.
-Avete già visitato il parco?- disse allora il vecchio.
Felona lo guardò -no, non pensavamo di andarci, pensavamo di visitare il vecchio mulino-.
L’uomo scosse il capo -un altro viaggio inutile. Il mulino non vi rivelerà niente-.
-E tu che ne sai di ciò che dovrebbe o non dovrebbe rivelarci?- sostenni con rabbia il mio disappunto
nei confronti di quell’uomo che si atteggiava da falso profeta.
-E il parco invece?- domandò Felona senza preoccuparsi della mia collera.
Nemmeno il giocatore sembrava averci fatto caso.
-Troverete solo un luogo trascurato, ma se seguite la pista lungo il fiume potreste trovare qualcosa di
interessante. Ad un certo punto fa una deviazione, se seguite la deviazione incontrerete delle cose, se
abbandonate la pista e seguite il fiume ne troverete delle altre… potreste avere delle sorprese-.
-Come ad esempio un ponte?- domandò Felona.
L’uomo allargò le braccia -ho detto sorprese, che cosa intendiate voi per sorprese, dipende solo da
voi-.
-Non ho più voglia di ascoltare questo folle- dissi allora io e invitando Felona a seguirmi cercai di
allontanarmi.
-Ehi, investigatore- lo sentii però chiamarmi, e istintivamente mi voltai -io non ho più niente da
aggiungere, ma tu sei certo di non voler fare un tiro?- mi mostrò i dadi, ma prima che potessi
rispondere lo vidi lanciare. L’istinto fu più forte di me e attesi di vedere l’infinito rotolare dei dadi
fermarsi a poca distanza da me. Mi avvicinai e osservai il risultato. I dadi erano completamente
bianchi, nessun pallino, nessun numero.
-Certo con i numeri sarebbe tutto più facile vero?- gli sentii dire e lo guardai senza riuscire a
trattenermi dal cedere alla provocazione.
-Che cosa significa?-Che non siamo padroni di niente, che non possediamo nulla- rise -è così vecchio mio, malgrado la
mia nullità io sono più ricco di te- disse -malgrado tutto, alla fine del tempo, io non avrò niente da
abbandonare qui, nulla per cui rimpiangere di aver tanto accumulato…-Dimentichi tua figlia- lo aggredii intenzionalmente come per vendetta, sapendo quanto più doloroso
fosse la perdita di una persona piuttosto che di una macchina.
-Lei non è mai stata mia, così come tu non sei tuo e nemmeno la tua bella non ti appartiene. Non
abbiamo niente, non possediamo niente al di fuori dei nostri pensieri, e tutto ciò che possiamo pensare
di portare con noi alla fine, null’altro è che questo… nulla-.
Mi voltai e cercai di portare con me Felona, ma lei ancora fissava il vecchio.
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-C’è dell’altro?- le domandò prima di partire.
Il vecchio osservò il libro tra le sue mani -quello- disse.
Felona lo guardò, era il libro di fotografie che Demetrio aveva realizzato per il comune.
-Ti interessa, vuoi tenerlo?- glielo pose come dono, ma il vecchio scosse la testa.
-Che cosa potrei farmene? Conosco questi luoghi come la mia anima grigia-.
-Allora cosa c’è qui dentro?-Niente che non possiate trovare girovagando per il paese- disse, poi osservò me -ma la grotta che
cercate, è lì dentro…-
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Il parco
…Molte sono le cose che avrei dovuto capire mentre uscivamo da quel mausoleo, soprattutto molte
sarebbero state le cose che avrei dovuto valutare, ma trovarmi in un paese disabitato ridotto nella
condizione di fantasma nell’arco di un breve decennio, in quel momento mi sembrava del tutto normale
e plausibile. Così mi appariva normale e plausibile che un vecchio ubriacone potesse custodire
un’architettura commemorativa di cui non sembrava importare a nessuno e perfino normale e plausibile
esserci imbattuti per la prima volta in uno dei protagonisti del racconto, anche se il più inatteso, come
mi parve del tutto normale e plausibile, seppure non lo avessi compreso subito, che tale incontro non
dava scampo all’unica alternativa possibile: tutto era reale. Così non mi parve più tanto strano essere
circondato da eventi che una mente razionale avrebbe cercato di considerare con maggior attenzione.
La stessa Felona avrebbe dovuto apparirmi piuttosto ambigua. L’interpretazione di simboli e la
conoscenza della mitologia poteva essere comprensibile, ma la sua cultura sembrava travalicare i settori
di quelli che riguardavano il suo ambito lavorativo giungendo perfino alla conoscenza della musica
moderna che non sembrava proprio essere un territorio inerente al suo lavoro, e poco importava che la
sua conoscenza fosse dovuta al fatto che il padre le aveva messo quel nome per onorare un disco
apprezzato, ma la coincidenza che quell’ubriaco nomade custode avesse introdotto tra noi quel testo
musicale intuendo subito la relazione tra lei e il vecchio disco era a dir poco stupefacente, e a quel
punto avrei dovuto cominciare a divenire sospettoso… solo che ormai le coincidenze e le combinazioni
fatali stavano diventando per me una costante regolare, e più che preoccuparmi di approfondire,
cominciai a preoccuparmi dell’atteggiamento troppo frenetico e ansioso della mia improvvisata collega.
Felona non sembrava più considerare la mia presenza come la parte centrale dell’indagine, ma
piuttosto come una comparsa in cui lei era divenuta la protagonista e turbato la inseguii mentre, invece
che dirigersi alla macchina per tornare in albergo, si avviava verso nuove mete.
-Felona- la chiamai -dove vai?- le gridai dietro.
-Voglio vedere il parco- disse con la stessa espressione con cui poche ore prima aveva affermato di
voler vedere la casa.
Osservai l’orologio da polso, erano passate le cinque -non c’è tempo adesso. Vieni, torniamo
all’albergo, torneremo domani- provai a dissuaderla, ma ormai avevo imparato a riconoscere quello
sguardo e sapevo che non sarei riuscito a trattenerla.
-No, voglio vederlo adesso- si impose.
-Perché?- le domandai solo per avere una ragione per seguirla.
-Perché ho bisogno di capire-.
Volevo farla ragionare sfruttando la scusante della sera che stava calando, ma dietro di noi sentii il
cigolio del cancello che si chiudeva e nel voltarmi vidi il custode uscire. Lo osservai chiudere il
cancello e poi voltarsi verso la strada, ma prima di avviarsi esitò, si fermò e ci fissò.
-Seguite la piccola strada alla vostra destra- ci disse -il parco non è lontano, prima che riesca a far
battere alle campane le cinque e mezza sarete già arrivati- ci avvertì, e io compresi che si stava
dirigendo alla chiesa.
-Vattene via- gli gridai irritato, ma nel farlo non mi accorsi che Felona mi stava sfuggendo e prima
che potessi fermarla già stava lungo la strada indicata dal custode situata tra il cimitero e la mia
macchina ancora davanti alla ex casa di Demetrio.
-Aspetta- la inseguii, poi mi sentii pungere e vidi che nell’inoltrarmi lungo il piccolo viale ci stavamo
avviando in una giungla di sterpaglie, rovi e ortiche.
-Accidenti Felona- le dissi raggiungendola -ma non vedi dove ti stai inoltrando?- le feci notare. Notai
alcuni strappi sui jeans che nemmeno doveva essersi accorta di aversi procurata e poi notai la sua
espressione quasi ipnotizzata.
-Felona- la richiamai, ma in quel momento una specie di radura si aprì di fronte a noi e la giungla
parve dissolversi e cambiare aspetto, così come avrebbe potuto avvenire quando in una casa si passa
dalla cantina al soggiorno.
-Eccola- esultò Felona e guardando davanti a me scorsi la strada di cui parlava il custode del cimitero,
con il fiume che la costeggiava. Felona si incamminò e raggiunse la strada, poi si avviò nella direzione
opposta alla corrente del fiume. Io la raggiunsi ma ormai mi sentivo sempre più di un passo indietro
201
rispetto a lei, e quell’inseguirla continuamente mi dava quasi la sensazione della manifestazione
simbolica della mia incapacità di sostenere la velocità del suo pensiero.
-Ti rendi conto di quello che stiamo facendo?- le domandai, ma lei non era disposta a concedermi
tregua.
-Se non ti va di seguirmi puoi anche tornare indietro-.
-Non è questo, è che sembri improvvisamente impazzita. Fra poco sarà sera e non mi sembra una
buona idea…-Il sole non calerà prima delle nove, abbiamo tutto il tempo che vogliamo-.
-Sì va bene, ma perché improvvisamente tanta frenesia?…- ancora non avevamo camminato per molto
lungo il fiume ma prima di potermi rispondere, ammesso che avesse voluto farlo, esultò di nuovo.
-Eccolo- disse, e nello stesso tempo sentii le campane suonare i rintocchi delle cinque, più il mezzo
colpo della mezz’ora. Mi distrassi ad ascoltare il rintocco dell’ora serale e lasciai che Felona entrasse
all’interno di quello che fino a pochi anni prima era un parco per famiglie. La seguii a distanza e
all’interno di quel perimetro la mia mente sembrò venire assorbita dalla stessa condizione di estasi che
vedevo negli occhi di Felona. Osservai il recinto fatto di legno che ancora non era stato aggredito dalle
intemperie grazie ai trattamenti anticorrosivi, sebbene muschi e piante rampicanti già lo avvolgessero,
poi osservai le piccole giostre equestri per bambini, con gli ingranaggi manuali arrugginiti e le sagome
dei cavalli bianchi sporche e decadenti per lo stato di abbandono. Una certa tristezza mi avvolse mentre
nella mente mi parve di sentire le grida festose dei bambini che un tempo non lontano dovevano aver
frequentato il parco, quindi vidi il ponte costruito sul fiume e mi accorsi del piccolo avvallamento che
rendeva il parco lievemente collinare e mi resi conto con un brivido inconsueto, che eravamo dove tutto
aveva avuto inizio: sulla collina.
Poco più in là Felona si era seduta su una delle tante panche del parco e scrutava lo scorrere del fiume.
La raggiunsi e mi sedetti vicino a lei.
-È straordinario- le dissi. Lei mi guardò e io continuai -ho come la sensazione di percepire le presenze
di coloro che sono stati qui- confessai.
Lei sospirò -io invece non sento niente- rivelò.
La guardai perplesso -che cosa ti aspettavi?- le domandai con aria consolatoria.
I suoi occhi mi fissarono con intensità, poi rispose con una domanda -perché quell’uomo ha detto che
le somiglio così tanto?Io la osservai percependo ansia e tormento -è un vecchio solitario che ha passato una vita da
vagabondo, chissà a chi si riferiva- cercai di convincerla che non era il caso di fare affidamento sulle
parole di un vecchio che doveva avere il cervello immerso nello scotch.
-Ma ha detto di aver vissuto da sempre in questi posti-.
-E chi può dire quanta verità ci sia? E comunque anche lui forse si è innamorato di qualcuno e tu
gliel’hai semplicemente ricordata, tutto qua-.
Sorrise senza convinzione -avevo come l’impressione di trovare qualcosa in questo posto, quasi mi
ero convinta che fosse un luogo dove ero già stata. Ma adesso, mi accorgo che è solo un posto
qualunque…Mi sentii in imbarazzo e quasi stupido a tentare di confortarla, e non sapendo come alleviare la sua
delusione, le proposi di proseguire la lettura.
-Senti, hai ragione, abbiamo ancora tempo prima che il sole cali. Perché non ne approfittiamo per
andare avanti a leggere?- lei annuì e mi passò il fascicolo.
-Va bene, ma leggi tu, io non me la sento- disse. Non mi opposi e distogliendo lo sguardo dal fiume
cominciai a leggere. Restai stupito quando spostando l’ultimo foglio mi trovai davanti a quel terzo
titolo su cui stavano scritte solo cinque parole, e per le quali ancora una volta avrei guadagnato altri
mille euro, ma senza lasciar intravedere strane sensazioni cercai di apparire disinvolto e lessi:
202
IL TERZO CONFINE:
LA SCELTA
203
1
Non si fugge, ovunque si fugga…
…Sarebbe andato tutto bene dopo quell’ultima visita, dopo quell’ultimo incontro, dopo l’angoscia e
i tormenti provati, dopo aver visto i sospetti sul volto di Anna e compreso che stavo per compromettere
ogni cosa di quanto avevo creato, e aver così deciso di impormi il più assoluto distacco e la totale
indifferenza.
Ripresi le mie consuete attività e mi disinteressai di ciò che voleva o avrebbe fatto Virginia,
escludendomi da tutto il resto e pensando solo a me stesso. Non volevo più saperne di Demetrio e delle
sue assurde esperienze sciamaniche, non volli più sapere cosa faceva, dove era o cosa pensava. Evitai
perfino di entrare nelle edicole per non rischiare di imbattermi in qualche rivista che portasse in
copertina una delle sue fotografie, e volendo perfino evitare Casterba per non sentire parlare di lui,
presi l’abitudine di andare a far colazione nel paese di Forlìa, in un bel locale dai colori caldi e
semplici quadretti alle pareti, dove nulla riportava a elementi nostalgici o a rischi di ricordi fastidiosi.
Mi lasciai tutto alle spalle e in pochi giorni dimenticai l’assurda parentesi di quello spazio di tempo
della mia vita, ignorando definitivamente la vita degli altri e i loro assurdi fastidi, imponendomi di
lasciare Virginia al dramma in cui io stesso l’avevo gettata, convincendomi che di tale conseguenza lei
sola era responsabile, soprattutto per non avermi dato retta, e lasciandola così definitivamente sola.
Il locale dove mi recavo ogni giorno da dopo la notte dei tori, era una pasticceria che serviva
colazioni alla mattina, aperitivi a mezzogiorno e caffé la sera, con una sala discreta e dei tavoli di
dimensioni varie dove, su alcuni, si poteva sedere in non più di due persone sui quali, uno come me,
poteva starsene tranquillamente a consultare il tradizionale quotidiano del giorno senza essere
disturbato. La mia era una colazione semplice e normale che variava a volte tra il cappuccino o il
caffé. A volte mi intrattenevo più del solito perché magari trovavo qualche notizia interessante sul
giornale. Una giovane cameriera mi serviva sempre con un amabile sorriso, contribuendo a potenziare
l’aria favorevole del locale e a scacciare pensieri inopportuni, così, potendomelo permettere e per
favorire quel criterio di accoglienza, lasciavo una discreta mancia ogni giorno.
Per una settimana quella terapia si mostrò vantaggiosa e successivamente, si fece praticamente
necessaria. Dopo tre mesi ero divenuto un’abituale cliente, al punto che avevo cominciato a
familiarizzare con la cameriera e con i proprietari. L’estate era passata e come al solito, Anna e
Dennis l’avevano trascorsa al mare dove io li raggiungevo nei fine settimana in quanto, essendo il
periodo estivo il più impegnativo per un’azienda agricola, non potevo permettermi di allontanarmi dal
lavoro, così i gestori e gli inservienti della pasticceria erano divenuti quasi una seconda famiglia. Era
tutto passato. Tutto dimenticato. Casterba era divenuto per me solo il paese in cui avevo dimora, ma la
mia stessa casa mi era quasi sconosciuta ormai giacché ci tornavo solo la sera, per dormire. Avevo
affittato un piccolo ufficio a Forlìa, con la motivazione che questo mi avrebbe fatto apparire più
professionale ma che in realtà null’altro era che il pretesto per porre ancor più distacco dai luoghi da
cui volevo praticamente estirpare le mie radici. Non mi preoccupavo di ciò che potessero pensare gli
abitanti del paese che non mi vedevano più al bar del centro a fare colazione né nelle occasionali
serate in cui mi fermavo per un aperitivo prima di cena. Mi era facile immaginare come avessero
cominciato a considerarmi troppo sofisticato per loro e intuire i commenti ironici sul mio nuovo
atteggiamento da superiore, percependo comunque che per loro, finché fornivo lavoro, potevo fare ciò
che volevo. Mi capitava solo in rare occasioni di domandarmi anche a cosa avesse iniziato a pensare
di me Virginia, ma ormai avevo trovato un equilibrio nel quale la tranquillità mi aveva reso un uomo
nuovo e, in quei rapidi escursi mnemonici, mi sovveniva di pensare che se Demetrio era tornato per
sistemare le cose con le persone con cui aveva lasciato qualcosa in sospeso, per quanto mi riguardava,
ritenevo che ciò che aveva lasciato in sospeso con me fosse proprio quell’esigenza di farmi
comprendere quanto fosse meravigliosa l’ignoranza e la serenità con la quale si poteva vivere senza
pensare a nient’altro che ai propri ideali e al proprio lavoro. E tutto sarebbe andato alla grande, se
solo avessi valutato che in quel paese vi era la stazione, e che in una stazione passavano treni che la
gente prendeva per spostarsi da una località ad un'altra, e che molte di queste persone erano studenti,
e che alla fine dell’estate i studenti riprendevano a frequentare le scuole, e che per andare alla
stazione molti di loro passavano davanti a quella pasticceria, e che tal volta si fermavano per fare una
veloce colazione. Fu così che in una mattina di fine Settembre, mi sentii chiamare da una voce
204
familiare. Alzai lo sguardo a mi trovai di fronte a Vanessa. Restai talmente sorpreso che reagii con il
classico effetto di chi non si aspetta, o magari non vorrebbe aspettarsi, di trovarsi in una situazione
simile.
-Vanessa, che sorpresa- dissi imbarazzato.
-Oserei dire lo stesso signor D’amanti- rispose lei.
Mi ripresi, e ricordando le galanterie dovute la invitai a sedere proponendomi di offrirgli la
colazione.
-Volentieri- disse lei mentre alcuni ragazzi la chiamavano -ma ho il treno tra qualche minuto-.
-Capisco, frequenti l’università?- domandai cercando un cortese breve dialogo.
-Sì- rispose sorridente.
-E allora, che indirizzo hai scelto?-A dire il vero frequento l’istituto di belle arti a Venezia-.
-Ah- esclamai sorpreso -niente filosofia? Niente scienze politiche?Sorrise con un pizzico di amarezza e scosse il capo -no, quelli erano indirizzi cui si rivolgevano più i
miei genitori. Credo che sia l’arte però la disciplina attraverso la quale mi posso esprimere meglio…disse, e io percepii, anche se solo per un breve istante, un’influenza esteriore che l’aveva guidata verso
tale scelta.
Poi il nostro dialogo fu interrotto ancora dai ragazzi che la chiamavano -devo andare adesso signor
D’amanti, ma spero di rivederla, viene spesso qui?- mi sentii domandare. Di nuovo scattò in me
quell’allarme che ormai da molto tempo non percepivo più e fui tentato di dirle di no. Ma ormai
pensavo di essere immune a possibili altri coinvolgimenti e il rapporto che avevo instaurato con i
gestori del locale e gli inservienti era divenuto così affettivo che quasi mi parve di commettere un
tradimento se avessi mentito.
-Tutte le mattine-.
-A bene- disse lei con un sorriso accattivante -io sto a Venezia tutta la settimana, ma rientro per il
fine settimana, magari capita di vederci ancora- disse.
-Volentieri- risposi con una sincerità che quasi mi convinceva a desiderare rivederla. Poi una voce
ironica la chiamò di nuovo, lei sorrise, mi salutò con la mano e si allontanò. Mentre usciva sentii uno
degli amici chiedere senza preoccuparsi di farsi sentire “chi era quel vecchio”. Non sentii la sua
risposta ma mi venne da sorridere pensando al tempo in cui anch’io ero così.
Passai il seguito del giorno senza particolari timori, ma la notte, qualcosa cominciò a turbarmi.
Credevo di aver pensato a tutto. Tornando ad occuparmi dei miei affari avevo deciso di occuparmi più
della parte burocratica dell’azienda, delegando il controllo dei lavori nella campagna a persone
fidate, evitando così di imbattermi in luoghi che avrebbero potuto condurmi a determinati ricordi.
Schivando il paese evitavo di imbattermi in qualcuno che avrebbe potuto rivolgermi domande
inopportune. Con Anna avevamo perfino concordato che ormai Dennis doveva cominciare ad abituarsi
a staccarsi un po’ da noi, così avevamo deciso che sarebbe stata la domestica ad accompagnarlo a
scuola, e in questo modo evitavo di rischiare di imbattermi in Virginia. Avevo previsto e organizzato
ogni cosa che potesse evitarmi di incrociare qualcosa o qualcuno che potesse ricollegarmi a Demetrio,
ma non avevo valutato il suo miglior amico: il destino, e di conseguenza non avevo saputo prevedere
questa situazione. Mi inasprii verso me stesso per questo inconveniente, cercando di convincermi che
comunque era una cosa da poco. Vanessa non rappresentava una minaccia e potevo gestirla con
facilità. Inoltre gli eventuali incontri non sarebbero stati così intensi visto che lei doveva prendere un
treno. Ma si sa che il destino sa giocare d’azzardo meglio di chiunque altro e se è necessario, sa anche
barare e quella notte tormentosi sogni tornarono a perseguitarmi, sebbene il mattino successivo non
ricordassi nulla…
Alzai lo sguardo dal racconto e osservai Felona che sembrava più rilassata.
-Ha mollato- le dissi.
-Già, sembra così. Tuttavia il racconto non è concluso e già introduce argomenti che preludono ad una
impossibilità di evitare le proprie responsabilità. È abbastanza ovvio che la nipote di Demetrio deve
avere un ruolo importante-Però non ci sono indicazioni simboliche in questo capitolo giusto?-Sembrerebbe- ammise lei.
205
-Il che lo rende meno attraente degli altri-.
-Al contrario, lo rende più essenziale. Lui si isola, abbandona tutti quanti, non vi sono riferimenti
simbolici qui ma vi sono molti allacciamenti. La vittima e il carnefice che sono entrambe vittime della
loro disperazione, sembrano essere veramente vittime di questa sua intolleranza e indifferenza…-Ti riferisci al sogno di Virginia? Quello della grotta?-Infatti-.
-Questo quindi dovrebbe confermare che Tommaso è la bestia?Felona mi guardò, ma appariva stanca, più che fisicamente, mentalmente.
-Non lo so ancora e non riesco a pensare in questo momento- voltò lo sguardo e guardò il fiume.
-Ti va di fare una passeggiata lungo le rive?- me lo domandò come fosse un invito tra fidanzati, ma un
nuovo istinto mi propose un inevitabile sospetto.
-Vuoi vedere quel ponte vero?Si limitò a sorridere e lo fece in un modo tanto sincero che per la prima volta non riuscii a contrastarla.
-Va bene, abbiamo ancora un paio d’ore di luce e non credo che sia poi così lontano-.
Ci alzammo e contemporaneamente sentimmo il rintocco dei sei colpi di campana. Mi domandai se il
custode andava avanti e indietro dal cimitero alla chiesa ogni mezz’ora per battere le campane che
segnalavano le ore solo ai morti e per un attimo tale possibile follia mi fece divertire.
Felona mi guardò -perché sorridi?- domandò.
-Penso a quel folle di custode e lo immagino correre avanti e indietro dal cimitero alla chiesa per
suonare le ore-.
Felona sorrise a sua volta -non credo che quel campanile sia così vecchio da non avere un
meccanismo autonomo, ricorda che è stato ristrutturato da poco. Probabilmente il custode ha solo
lasciato il cimitero per andare a chiudere la chiesa- mi fece notare.
Il mio sarcasmo ironico a livello di pensiero si smorzò nel comprendere come mi fossi ingannato da
solo e sospettoso sulle mie capacità valutative non risposi. Camminammo per un po’, forse dieci,
quindici minuti, poi trovammo la deviazione di cui eravamo stati avvertiti e lì ci fermammo.
-Chissà perché la pista subisce questa deviazione. Chissà perché non hanno voluto continuare a
seguire il corso del fiume- dissi sospettoso.
Felona però era più perspicace di me -è stato Tommaso D’amanti a far costruire il parco e la pista
ricordi?-Sì- risposi, ma senza riflettere.
-Lui aveva paura di quel ponte, e probabilmente per questo ha voluto la deviazione. Voleva costruire
un percorso che non lo conducesse a quel luogo- precisò.
Non potei contraddirla, ma solo pensare che lei invece a quel ponte voleva andarci, mentre io non ne
ero certo -ma tu vuoi vederlo quel ponte, vero?-Se seguirete il percorso vedrete delle cose, se seguirete il fiume ne vedrete delle altre, ricordi? Così
ha detto il custode-.
-Il matto- ironizzai io e per la prima volta la feci sorridere -ha detto anche però che potremmo avere
delle sorprese, sei certa do volerlo fare?-Non sono più certa di nulla, ma ho voglia di sapere se veramente su quel ponte si possono percepire
quelle presenze di cui parla Demetrio-.
Io ormai cominciavo a temerle quelle presenze, ma ciò che avevo provato nel parco non mi era parso
maligno e forse l’unica cosa che veramente temevo erano le mie percezioni. Sapevo che gran parte
erano dovute alla suggestione e tutto ciò che volevo ora era tornare a essere ciò che ero sempre stato e
comprendevo che per farlo dovevo affrontare le mie insicurezze. Le percezioni erano solo suggestioni,
ne ero ormai certo, e vincerle significava sconfiggere i tormentosi dubbi dell’irrealtà che pensavo
potessero insinuarsi nella mia mente e quel ponte, poteva essere la prova definitiva.
-Ci tieni così tanto ad avere quei sentori di cui parla Demetrio?Mi guardò con una semplicità disarmante che non aveva necessità di parole.
-E se poi dovessi pentirtene?-Sono disposta a correre il rischio-.
-Va bene, andiamo- acconsentii.
206
Pensai che non doveva essere lontano, ma guardandomi indietro già non scorgevo più il parco e
ricordai a come in precedenza, nell’arco del racconto, Tommaso avesse descritto come dal ponte non si
poteva scorgere la collina perché il fiume faceva un deviazione. Lasciammo il sentiero che non
accompagnava la deviazione del fiume e ci inoltrammo sulla terra battuta. Il fiume, come descritto nel
racconto, non era imponente, ma ciò che mi colpì maggiormente fu la limpidità dell’acqua, cosa assai
rara ormai nelle zone rurali delle campagne inquinate dai pesticidi e dagli scarichi delle industrie
vicine. Era ovvio quindi che anche la popolazione contribuiva, e quel silenzio che denotava la
mancanza della presenza umana quasi diveniva benevolo. Non era un silenzio totale ovviamente,
intorno a noi si potevano sentire tutti i suoni della natura, il canto dei grilli, il volo degli uccelli che di
tanto in tanto si alzavano al nostro passaggio, lo scorrere dell’acqua stesso era percepibile e le
simpatiche risate di anatre che nuotavano tranquille nel fiume provocavano allo stesso tempo ilarità e
serenità. Una certa tranquillità mi invase al pensiero che, se ciò di cui si parlava nel racconto era
veritiero, ormai gli spiriti della natura dovevano essersi placati in quell’isolamento in cui l’uomo non
poteva più arrecare ferite e senza rendermene conto mi accorsi di essere, forse per la prima volta in vita
mia, in contemplazione.
Lo eravamo entrambi, e per questo il nostro passeggiare era silenzioso. Una certa armonia sembrava
rincorrerci in quel momento, ma solo dopo pochi secondi l’incanto si spezzò quando davanti a me vidi
Felona fermarsi in un atteggiamento che esponeva allarmismo. Eravamo giunti al ponte, ma ciò che
trovammo fu la sorpresa alla quale il custode doveva aver fatto riferimento: il ponte non c’era più.
Ovvero, di quel ponte restava un’esule rovina. Sembrava essere stato abbattuto, ma non avrei saputo
dire se dalla furia di qualche tempesta o se per l’intervento di azioni umane. Comunque fosse,
dell’oggetto che rappresentava il nucleo centrale e magari la soluzione stessa di tutto il racconto, non
restavano che poche assi e qualche palo di sostegno che si affacciavano sulla riva nella forma di un
rudere che spezzava la possibilità di attraversare e sperimentare ciò per cui eravamo andati. Non so
spiegare quale fosse la mia condizione, da un lato mi sentivo sollevato perché in tutta onestà avevo
temuto il ponte, dall’altro mi sentii come preso in giro perché seppure timoroso, non potevo verificare
la consistenza della realtà che il semplice passaggio del ponte avrebbe potuto confermarmi.
Sicuramente percepii la delusione di Felona che lenta si avvicinò alle rovine.
-Stai attenta- la richiamai vedendo che si avvicinava troppo. La vidi poi metter un piede su una delle
poche assi rimaste e temendo che potesse compiere un’azione troppo azzardata mi affrettai a
raggiungerla.
-Fermati, è pericoloso- le dissi. Lei mi guardò tra tristezza e ironia.
-Che pericolo può mai esserci? Al massimo non farò che cadere nel fiume, ma non mi sembra che sia
poi così rischioso- disse. Guardai il fiume, in effetti il livello dell’acqua era basso e la sua limpidità non
faceva temere possibili contagi.
-Beh, non si può mai dire- la trattenni ancora.
Lei rise -temi che possa essere trascinata negli abissi dalla Marantega?Non so se il suo fosse sarcasmo o serietà, e non so quanto riuscissi a distinguere tra le due opzioni
quale potessi preferire, sta di fatto che solo per il timore di apparire sciocco la lasciai andare. Lei mosse
un secondo passo e io sentii le assi scricchiolare.
-Pensi di poter sentire qualcosa? Non c’è più niente di quello che cercavamo- le dissi allora con
l’aggiunta di una discreta severità.
Lei arrivò fino all’estremità delle rovine e osservò lo scorrere lento dell’acqua. Guardò a destra, e poi
a sinistra.
-Guarda- mi invitò poi, e io dubitai sulla convinzione che sarebbe stata una buona idea assecondarla.
-La curva da cui il fiume appare improvviso, è percepibile anche da qui- mi disse portandomi al
ricordo di come nel racconto si evidenziasse la differenza tra un lato e l’altro del fiume -dai avvicinatimi invitò.
-Non credo che quel rudere possa sostenerci entrambi- mi opposi solo per avere una giustificazione
per non verificare.
-Avanti, non aver paura- continuò però lei. Allora mi avvicinai, misi un piede sulla prima asse e sentii
nuovamente il legno scricchiolare.
207
-Non è una buona idea, finiremo entrambi dentro- brontolai, ma era evidente che il mio riferimento a
ciò che non consideravo una buona idea non era l’essere entrambi in bilico su una rovina che al
massimo avrebbe potuto portarci a fare un bagno imprevisto.
-Tanto meglio, la Marantega avrà così due nuovi amici- ironizzò lei.
-O due nuove vittime- corressi io, poi finalmente osai avanzare e rendendomi conto con sorpresa che
quel piccolo rimasuglio di legno era più stabile di quanto non avessi pensato, mi sporsi per osservare il
lato sinistro del fiume. Dietro le sterpaglie, in effetti, era visibile uno scorcio di quella curva definita
maledetta, ma l’impressione non era che vi fosse qualche condizione di pericolo. Certo, valutai che la
corrente era più forte e forse agli occhi di bambini come lo erano Demetrio e Tommaso al tempo del
racconto quella differenza poteva apparire più esagerata, ma ciò che mi sovvenne più facile da pensare,
era alla pace degli spiriti della natura e temendo di restare vittima di qualcosa cui non volevo credere,
optai per la soluzione che era stata la suggestione dei bambini a creare quell’effetto che ora noi
sospettavamo di dover temere. A quel punto sentii uno scricchiolio più forte del legno e per un attimo
pensai che quel mio pensiero doveva aver adirato gli spiriti che ora si vendicavano facendo cedere la
struttura per consegnarmi alla Marantega. Sussultai e rabbrividii, ma tutto passò quando abbassando gli
occhi per prepararmi alla caduta nel fiume vidi che lo scricchiolio non era originato da nessuno spirito
indignato, ma da Felona che dopo essersi tolta i sandali, si era seduta facendo penzolare i piedi sul pelo
dell’acqua del fiume.
-Ma che fai?- le domandai.
-Voglio stare qui per un po’, magari succede qualcosa non credi?Mi guardai attorno -e cosa potrebbe succedere? Sembra di essere nelle paludi della terra nera della
Baronia-.
Felona mi guardò sorpresa -e che ne sai tu delle paludi nere delle Baronia?-Niente, mi ci imbattei una volta casualmente facendo una ricerca su internet. In realtà cercavo un
paese che stava tra Avellino e Benevento…-Per una tua indagine?-No. Qualcuno mi aveva consigliato il posto come luogo di vacanza-.
Rise divertita -e come è andata?-Ho cambiato località, mi sembrava troppo complicato arrivarci-. Fui lieto di quel breve momento di
rilassatezza, poi però l’atmosfera intorno a noi tornò a farsi troppo seria. Felona guardò il libro, non
quello del racconto, ma quello delle fotografie di Demetrio e si fece pensierosa.
-Chissà cosa intendeva quando ha detto che la grotta si trova in questo libro-.
-Forse non dovremmo fare troppo affidamento su quel tizio non credi?-Forse- rispose, ma intanto cominciò a sfogliare il libro. Io non sapevo che fare, quasi ormai
desideravo che non vi fossero altre scoperte che potessero complicare ancora di più quella condizione,
in fondo tutto ciò che mi era stato chiesto di fare era di leggere il dannato documento e ormai eravamo
quasi alla fine, così nell’inerzia del tempo che scorreva come il fiume, sapendo che sarebbe stato inutile
chiedere a Felona di avviarsi verso la macchina, mentre lei sfogliava il libro di fotografie, io decisi di
proseguire la lettura. Presi il documento e sedendomi vicino a lei, ma facendo attenzione a non lasciar
cadere i piedi nell’acqua, iniziai a leggere:
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I tempi cambiano ma tutto resta uguale…
…La settimana riprese il suo corso e già il Mercoledì quasi non pensavo più a Vanessa. Poi giunse di
nuovo il Lunedì e quando Vanessa venne a salutarmi, compresi quanto truffatore era il destino.
-Salve signor D’amanti- disse.
Alzai lo sguardo dal giornale come la settimana prima e la salutai -ciao Vanessa-.
Lei sorrise con malizia -che dice, me la offre stamattina la colazione?- azzardò con sfacciataggine
umoristica.
Io sorrisi con accondiscendenza -volentieri, ma non rischi di perdere il treno?- le ricordai.
Il suo sorriso mi fece alludere a qualcosa -dicono che c’è stato un incidente. Qualcosa si è rovesciato
sui binari e ci sarà un po’ di ritardo-.
Il mio umore cambiò, ma mantenendo un sorriso compiacente lasciai sfuggire la classica
esclamazione di sorpresa, mentre nella mia mente, in cui emergevano ricordi che non volevo ricordare
collegati ad un incidente sui binari, cominciavo già a pensare a come controllare l’imminente
conversazione -mi dispiace- dissi.
Lei sorrise ancora -ah, non è un problema, l’unica noia è il dover attendere. Così ho pensato di
venire a vedere se lei era qui. Sa con gli amici si discute sempre delle stesse cose e poi, alcuni di loro
sono così stupidi…-Già- sorrisi divertito -e di solito sono quelli che si credono i più furbi vero?- si istaurò un clima di
allegria.
-Già è proprio così- rise lei.
-I tempi cambiano ma tutto resta uguale in fondo- dissi con una constatazione spontanea e meditativa
allo stesso tempo -allora, cosa prendi?-Un caffé andrà benissimo-.
Feci un gesto verso la cameriera e indicando la mia tazza di caffé le feci capire di portarne un altro.
-Allora Vanessa, come ti trovi all’istituto di belle arti?- cercai di prendere il sopravvento sulla
conversazione e mi rivolsi a lei in modo confidenziale come a dimostrare disinvoltura.
-Non male, per adesso-.
La cameriera arrivò e pose il caffé sul tavolo -e questa bella signorina chi è Tom, tua nipote?scherzò evidenziando il clima di intimità instaurato tra me e quel locale.
Le sorrisi -Sì, direi che si può dire di sì-.
Vanessa mi guardò con aria sospettosa, come se intuisse la mia necessità di mascherare qualcosa che
in quel momento non riusciva bene a comprendere, ma che avrebbe potuto benissimo apparire come
una sorta di interesse da parte mia nei riguardi della cameriera. Cosa che avrebbe dovuto rendermi
guardingo, perché in fondo in quel momento era come se mi si stesse prospettando ciò che il destino mi
riservava in quella mia fuga dal mondo.
-Deve essere veramente un cliente affezionato, la chiamano perfino Tom- notò con perspicacia.
Sorrisi imbarazzato -sì, te l’ho detto, mi fermo qui tutte le mattine prima di avviarmi in ufficio-.
-E come mai proprio qui signor D’amanti?- domandò. Questa volta lo percepii l’allarme in me e,
come non avevo mai fatto, compresi che era il momento di seguire il suo invito. Ma il destino aveva già
lanciato i suoi dadi truccati, e della mia perspicacia che mi consigliava di deviare l’argomento verso il
quale mi stava conducendo Vanessa, per evitare di parlare di Casterba e rischiare di dover dare
spiegazioni che erano inopportune per il mio equilibrio egli si stava facendo beffe, e in un modo che
avvenne troppo rapidamente perché me ne rendessi conto, fui proprio io, nel tentativo di modificare
completamente il discorso, a introdurre ciò, o meglio, colui, di cui non volevo parlare.
-Guarda che lo puoi fare anche tu sai?- le dissi.
-Che cosa?- domandò senza comprendere l’apparente insensata risposta.
-Chiamarmi Tom, come fanno tutti-.
Vidi la sua espressione farsi meno allegra, non seria, ma meno allegra, e il campanello d’allarme che
era suonato in me all’improvviso mi parve la risata del destino.
-Non sarebbe appropriato- le sentii dire. Dovevo intuire che non era il caso di approfondire, ma
l’istinto in me era ancora troppo forte da avere ancora il suo ruolo dominante e del mio non saper
cos’altro dirle se ne fece un’opportunità.
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-Che cosa non sarebbe appropriato?- pensavo solo ad un atto di cortesia da parte sua, ma mi
sbagliavo.
-Mio zio ha detto che il nostro nome è sacro. È il primo dono che riceviamo e non è casuale, ha un
senso e non si dovrebbe permettere a nessuno di deformarlo o rovinarlo…Improvvisamente compresi che l’allarme non era mai stato tale ma piuttosto, l’irrisione che io stesso
facevo di me nel rendermi conto di quanto inutili fossero i miei sforzi di sfuggire ad una forza troppo
grande per essere contrastata, portandomi alla consapevolezza che mai avevo avuto il controllo del
mio destino e che mai avrei potuto dominarlo, e fu con rassegnazione che restai ad ascoltarla, perché
ormai non potevo più impedire a Demetrio di far parte di ciò che mi apparteneva.
-Ha detto che lui ha conosciuto i nativi americani, che gli hanno insegnato come si crea un totem.
Ogni uomo ha un totem, e questo totem è presente nel suo nome. Noi non abbiamo la cultura e quindi
le capacità che hanno loro di osservare quale sia il nostro totem, ma esso è racchiuso nel nostro nome,
quello che riceviamo in dono alla nostra nascita. Dobbiamo solo comprenderlo e poi imparare a
riconoscerlo, e lui mi ha insegnato come si fa. Io sono: “Eco di un Desiderio d’Armonia”- rivelò, e io
mi sentii travolgere dal vortice contro il quale fino ad ora avevo nuotato per sfuggirgli, e solo in quel
momento sentii che l’energia mi abbandonava e che mi sarebbe stato inutile continuare lottare, così,
l’unica cosa che mi restò da fare, fu di assecondare la sua forza che mi inghiottiva.
-E che cosa significa?- le domandai.
La sua espressione si fece un po’ triste.
-L’eco è una riflessione del suono ed è associato alle montagne e quindi alle altitudini. Il totem
rappresenta il lato nascosto del nostro essere, lo spirito se vogliamo, quindi il mio è uno spirito che
aspira alle altezze del cielo, il mio desiderio è rivolto all’armonia e conseguentemente io sarei una
persona che cerca di armonizzare ciò che mi circonda, dalle più profonde creazioni della natura
rappresentate dalle rocce di cui è formata la montagna contro le quali si riflette il mio desiderio, fin
alle più alte vette che sospingono il mio riflesso oltre i regni delle nuvole, affinché il mio desiderio
possa contagiare ogni spazio dell’universo-.
Sorrisi. -Già, tu sembri proprio così. Ma ci credi veramente?-Certo- rispose indignata -se vuole posso insegnarle a trovare il suo di totem, non è difficile sa?-Basta…- La interruppi un po’ malamente -no Vanessa. Io non credo in queste cose- le dissi, e lei mi
guardò con sospetto.
-Mio zio dice che da bambini lei era l’unico ad ascoltare le sue storie sugli spiriti della natura, come
mai adesso non ci crede più?Temevo di stare per avviarmi in una condizione sgradevole e sentivo la necessità di uscirne, ma
Vanessa era suadente, così mancai, o forse lo feci volontariamente, di riconoscere nella profondità dei
suoi occhi luminosi ma malinconici, lo stesso sguardo dello zio, e non riuscii ad essere severo con lei.
-Da bambini si crede in molte cose Vanessa, ma poi queste cose passano, la vita cambia, subentrano
responsabilità, doveri… non si può più vivere nel mondo delle fiabe…- dissi con rassegnazione,
occludendo che in verità troppe cose ancora in me di quel mondo irreale apparivano più reali di
quanto non volessi ammettere, e non potevo dirle che effettivamente temevo quale avrebbe potuto
essere l’esito che mi avrebbe condotto a scoprire quale fosse il mio totem.
Lei abbassò gli occhi -già, la capisco- disse sconsolata, come se anche lei stesse combattendo contro i
draghi del tempo, divoratori di quello spazio in cui non vi era posto per le fantasie. Una voce che
potrei definire provvidenziale la chiamò da fuori.
-Ehi Vanessa- si sentì dire in un rozzo dialetto -hanno liberato i binari il treno arriva tra cinque
minuti- la chiamò.
Lei mi fissò tra la tristezza e la comprensione -sembra che sia ora di andare, grazie per la colazionemi espresse riconoscenza, quindi si alzò mentre le rispondevo -non c’è di che-.
La vidi sorridere e allontanarsi, quindi, spinto da un istinto che avrei voluto considerare inconscio
ma che ad un attenta valutazione, sapevo essere tutt’altro che sconosciuto, la richiamai.
-Ehi Vanessa, che cosa succede a Casterba?- le domandai riconoscendo così in quell’istinto
l’impossibilità di estirpare le mie radici.
Lei si fece riflessiva -non è che ci passi molto tempo, ma tutto scorre come il solito…- per un po’ mi
sentii sereno, poi una notizia che poteva avere risalto sulle altre parve sovvenirle alla mente e
210
aggiunse -a, sa che Virginia e Massimo stanno per divorziare?- non so se fece in tempo a vedere il mio
stupore perché subito dopo si girò e uscì dal locale, lasciandomi solo con quell’angoscia che non mi
permetteva nemmeno di finire la colazione, consapevole che le mie responsabilità mi avrebbero seguito
ovunque fossi fuggito…
-E così alla fine ce l’ha fatta, ha distrutto ogni cosa-. Dissi ancora io, ormai conscio del mio ruolo di
disturbatore del silenzio.
-Nonostante tutto- rispose Felona sconsolata, in quel mentre la guardai e improvvisamente provai
paura per lei: i suoi piedi erano completamente immersi nelle acque del fiume.
-Per l’amor del cielo Felona, togli quei piedi dall’acqua-.
Lei mi guardò sorpresa come se vedesse in me una figura diversa, poi sorrise divertita.
-Di che cosa hai paura? Della Marantega? Ormai dovresti essere convinto più di me che si tratta solo
di una creatura immaginaria-.
Sì, dovevo esserne più convinto di lei, eppure quella sua limitata immersione nelle acque di quel
particolare fiume mi metteva in ansia.
-Non dire scemenze e fa come ti dico- continuai a insistere. Lei parve trovare nei miei timori un
motivo di gioco divertente, e come una bambina capricciosa osò sfidarmi nel modo che solo i bambini
testardi sanno fare, con quella loro particolare cattiveria irritante, e cominciò ad agitare i piedi
tormentando la placida calma del fiume schiaffeggiando rumorosamente l’acqua inerme. Non so che
cosa mi prese ma ebbi come l’impressione che quel gesto tormentoso potesse apparire al fiume come
una sorta di mancanza di rispetto e come sotto l’effetto di droghe allucinogene, tra le increspature
dell’acqua ebbi come l’impressione di vedere il volto irritato di una figura tormentata avvicinarsi
minacciosamente.
-Smettila!- gridai come esasperato cercando di scacciare dalla mia mente la visione che non potevo
accettare come reale, ma mentre lei continuava a farsi beffe delle mie ansie e a tormentare l’acqua del
fiume, il volto della creatura acquatica si fece più distinto alla mia vista e nel braccio che si allungava
per afferrare i piedi indisponenti percepii tutta l’insidia di quella presupposta minaccia. Cercai di
trattenere il mio istinto a salvarla dal demone, ma mentre lei sembrava non accorgersi di nulla io
vedevo la sagoma della Marantega farsi sempre più vicina e pericolosa e fu con impeto violento che
alzandomi in piedi la presi dalle spalle e la trascinai via dalla riva. Nello stesso momento ebbi il tempo
di vedere nella mia mente la mano del mostro uscire dall’acqua e mancare la sua preda per un soffio,
mentre l’espressione di Felona si faceva seria e iraconda.
-Ma che ti prende?- mi accusò.
“Ma non l’hai vista?” avrei voluto risponderle. Improvvisamente però mi resi conto che ciò che avrei
detto avrebbe compromesso la mia stabilità mentale.
-Quel rottame di ponte non è stabile e la tua agitazione poteva farci cadere entrambi in acqua- motivai
allora con la prima cosa che riuscii a dire come giustificazione.
-E allora? Temi così tanto un bagno?- ribadì lei. Ancora una volta mi sovvennero parole che ponderai
più saggio non dire. “In questo fiume sì” avrei voluto rispondere, invece trovai una nuova
giustificazione più adatta -certo che no, ma poi l’avresti spiegato tu il nostro presentarci fradici d’acqua
agli albergatori?-Che si impicchino gli albergatori, e tutti quelli che vogliono avere spiegazioni- reagì in un modo che
non mi aspettavo.
-Ma cosa ti prende?- le domandai cercando di calmare gli animi. Lei mi guardò prima con aria ostile,
poi parve calmarsi, pur mantenendo un atteggiamento contrariato.
-Non lo so, d’un tratto ho avuto voglia di giocare, di sentirmi ancora come una bambina va bene?rispose con severità, ma allo stesso tempo con una voce viziata, proprio come quella dei bambini.
Restai a guardarla sospettando, ma senza poterlo veramente credere, che l’insolita atmosfera di quei
luoghi mistici potessero avere veramente proprietà allucinogene.
-Che dici, torniamo indietro?- le proposi. Lei fissò il ponte con un aria corrucciata come se osservasse
un giocattolo che le era stato sottratto.
-Voglio vedere oltre la curva del fiume- disse poi. Percepii un ritorno alla normalità nella sua voce
mentre sentivo le campane rintoccare la successiva mezz’ora trascorsa e nell’insieme dei suoni della
natura accompagnati da quei rintocchi, non potei riflettere su come entrambi in quei pochi minuti
211
eravamo stati preda di percezioni illusorie da bambini. Io avevo visto un mostro marino, lei aveva
avuto un ritorno ipnotico all’età infantile. Non sapevo quanto tali percezioni potessero essere veritiere e
non potevo più valutare quanto avrebbero potuto essere pericolose, ma mi rendevo conto che stavo per
perdere il controllo della situazione, così decisi di scendere ad un compromesso.
-Va bene, ma poi torniamo indietro, si sta facendo tardi-.
-Agli ordini- acconsentì lei ancora sotto un leggero influsso dell’ipnotico ambiente.
La curva del fiume non era lontana, ma le sterpaglie rendevano il tragitto più insidioso e difficoltoso,
giungemmo così alla meta con i vestiti sporchi d’erba e alcuni strappi in più. Mi resi conto che non
sarebbe stato comunque possibile dare spiegazioni a chi ne avesse cercate delle nostre condizioni senza
suscitare un sospetto che nei soggetti curiosi non poteva destare che un'unica supposizione, e a quel
punto pensai che fosse il caso di mandare veramente al diavolo chiunque non sapeva farsi gli affari
propri e sorvolai sul particolare, concentrandomi come invece faceva Felona sulla distesa di pioppi che
formava un piccolo bosco attorno alle rive del fiume.
Forse per il fatto che il sole cominciava a calare, forse per il fatto che il bosco era posizionato in
direzione nord-ovest e le ombre degli alberi sembravano rivolgersi verso di noi, la sensazione che
provai fu di rischio, intimidazione, e provai un intenso brivido freddo. All’improvviso tutto nelle
vicinanze di quel bosco mi parve freddo e poco ci mancò che cominciassi a tremare.
Intimidito, cercai di distrarmi -senti qualcosa?- domandai a Felona.
Lei restò in silenzio per un po’, e in quella breve pausa sperai che potesse confermare che pure lei
provava le stesse sensazioni, così avrei potuto dedurre che non stavo impazzendo. Poi però, la sua voce
mi deluse.
-No, niente- parve sconsolata, seppure non quanto me -anche se le figure dei pioppi non mi
rassicurano- aggiunse, e un po’ mi sentii confortato. Attesi, aspettando che lei osservasse attentamente
il luogo. Non so perché, ma avevo la sensazione che nonostante tutto in quel suo sguardo reverenziale
ci fosse una percezione che la portava a cogliere qualcosa, e che tutto ciò che le occorreva era solo del
tempo. Speravo in realtà che potesse essere così ed ero, a quel punto, disposto a concederle tutto il
tempo che le sarebbe stato necessario, pur di sentirmi dire “percepisco qualcosa”, invece, dopo un po’
la vidi voltarsi e accettare le mia condizione.
-Va bene, torniamo indietro- disse.
A bordo della macchina non discutemmo di nulla. Osservammo entrambi il custode del cimitero che a
sua volta ci guardò allontanarci. Non accennò ad alcun saluto ma il suo sguardo aveva qualcosa di
sospetto e il sorriso che gli vedevo mi dava la sensazione di un ghigno perfido che celava dietro la finta
modestia la conoscenza di qualcosa che non ci era stato rivelato. Accelerai perché cominciavo a temere
che quel luogo fantasma stesse cominciando a condizionarmi con suggestioni streganti e che tutto ciò
che era accaduto in questi luoghi era solo il risultato di una magistrale opera di persuasione, e pensai
che lo scopo dello scrittore fosse quello di sperimentare le sue doti suadenti. Se così fosse stato non
avrei potuto fare altro che complimentarmi con lui una volta che lo avessi scoperto, dopo di che lo
avrei mandato al diavolo, come avrei voluto fare con l’inserviente che ci accolse all’entrata
dell’albergo del quale si intuivano subito i pensieri maliziosi mentre osservava le nostre vesti sgualcite,
invece lo ignorai e recandomi nella mia stanza per una doccia, diedi appuntamento a Felona per la
cena.
All’appuntamento eravamo entrambi scossi e solo in quei minuti di rilassata solitudine probabilmente
ambedue avevamo potuto pensare a cosa ci era accaduto lungo il fiume. Era evidente che tutti e due
eravamo consapevoli che qualcosa di insolito ci aveva sedotto, ma con altrettanta evidenza nessuno dei
due sembrava disposto a parlarne. Conversammo poco e mangiammo meno, trovandoci d’accordo
sull’unica soluzione di continuare a leggere il racconto. Così dopo il caffé ci appartammo sul terrazzo e
alla luce artificiale di un neon proseguimmo la lettura. Fu lei a leggere:
212
3
I fulmini Divini…
…Era avvenuto tutto troppo in fretta e quella mancanza di controllo sull’istinto che avrei dovuto
creare nell’isolamento forzato cui mi ero sottoposto, senza che me ne rendessi conto, mi fece intuire
quanto fragile era la mia volontà e in un modo che non avrei voluto la mia fuga si concluse con la
reazione contraria e inaspettata.
Fu così che feci il mio ritorno a Casterba.
La notizia che Virginia stava per divorziare aveva sconvolto l’instabile equilibrio, o forse dovrei dire
l’insano equilibrio, che ormai credevo di aver dominato, ma che mai c’era stato.
Per non so quale delirante utopia, vedendomi ancora nelle vesti del buon samaritano, nel mio
subconscio speravo ancora di poter riuscire a sistemare quelle cose che nel mio mondo apparivano
contorte e che, sempre per una non ben definita ragione generata dalla mia illusione di controllo,
dovevano essere corrette. Volevo chiarimenti da lei, o meglio, questo era solo ciò che credevo di
volere, ma ciò che avvenne altro non fece che confermare quanto illuso ero stato ed ero ancora. Aveva
cercato di dirmelo tante volte, e forse io stesso ne ero consapevole, ma ormai ero divenuto un gran
maestro nel nascondere a me stesso qualunque cosa desiderassi sopprimere. Molti furono i pensieri
che mi avvolsero in quel momento e molte le frasi che la mia mente percepì come se le sentisse solo in
quell’istante: “sei così ingenuo…” mi aveva detto una volta lei…
Molte espressioni mi si fecero lampanti nella mente nel momento in cui mi sentii dire da Virginia:
“Nausica è tua figlia Tom” e nello stesso tempo vedevo mio figlio giocare con lei con una luce negli
occhi che forse Demetrio avrebbe saputo riconoscere meglio di me.
“…Quante possibilità ci sono che un bambino di sei anni si innamori di una bambina mai vista?
diciamo le stesse che un fratello si innamori della sorella?..” aveva detto una volta il Mage in un
tempo vicino ma che mi appariva lontano secoli mentre nella confusione cercavo di trovare una via di
scampo…
-Non è possibile- avevo risposto, ma già la mia voce era un’eco lontana mentre, fintanto che lei mi
spiegava i motivi che l’avevano spinta solo una sera dopo ad alimentare il desiderio di suo marito
usando stratagemmi che solo una donna conosce per risvegliare il desiderio di un uomo senza più
attenzioni per la propria moglie, io rivedevo quella lontana notte di Novembre dopo la sfuriata con
l’amica del bar, la nebbia della notte e la sua voce che mi riprendeva, il mio accompagnarla a casa, il
suo sfogo per un matrimonio che stava andando alla deriva, il mio desiderio di confortarla, il mio
accettare l’invito ad entrare in casa per riscaldarmi, la nostra complicità di sguardi e infine,
all’interno della stanza riscaldata, il bacio e quell’abbraccio in cui si stavano per sfogare tanti anni di
desiderio represso…
-È successo una sola volta- cercai la classica giustificazione, e al suo ribadire che una volta era più
che sufficiente il mio rifiuto più consistente accentuò l’allontanamento da lei, che ormai non poteva più
accettarmi nemmeno come amico.
-Non puoi esserne certa-. Avevo cercato la via di fuga più classica, ma una donna sapeva bene, oltre
ogni prova scientifica, di che cosa poteva o non poteva essere certa in determinate circostanze, e
tuttavia nemmeno per gli scettici uomini del mio genere, le prove scientifiche potevano essere discusse.
Lei aveva previsto la mia reazione, non poteva dimostrare che il DNA esaminato fosse il mio, ma
poteva dimostrare che non era quello di Massimo.
-Non sono stata con nessun altro oltre a lui- mi rivelò facendomi cadere il mondo addosso.
-Che vuoi fare adesso?- Le domandai con la chiara ansia di chi prevedeva la catastrofe, ma lei mi
aveva rassicurato.
-Ho già detto a Massimo che Nausica non è sua figlia, e a Nausica voglio poter contenere il trauma il
più possibile finché è abbastanza giovane da poterlo superare con minori difficoltà, ma sta tranquillo,
non gli ho rivelato chi è il vero padre. Del resto a quei tempi ero una donna ancora desiderabile. Non
mi è stato facile fargli pensare che fossi una di quelle che voi definite sgualdrine, così non mi è stato
difficile fargli credere anche che non posso sapere chi sia il vero padre-.
-Ma così perderai tutto- avevo risposto, senza però offrirmi di ammettere le mie responsabilità.
-Non ho nulla da perdere perché non ho avuto mai nulla se non Nausica, ed è l’unica cosa che voglio
avere. Per Massimo è come una liberazione. Si è trattenuto dallo schiaffeggiarmi solo perché deve
213
aver pensato a quante volte lui ha tradita me, e non solo prima del matrimonio. Gli resterà tutto, e non
dovrà nemmeno preoccuparsi di passare gli alimenti a una figlia che non è sua…-E io, cosa pensi che dovrei fare?-Dipende da te Tom- aveva risposto, e da come guardai Dennis comprese che non ero pronto ad
onorare i miei obblighi, ma che avevo una paura folle di perdere ogni cosa.
Forse lei sapeva già che uno come me era comunque destinato a perdere ogni cosa e con le ultime
parole che mi rivolse mi svincolò dai doveri.
-Se non sei disposto ad assumerti la responsabilità della verità Tom, devi solo accettare che né io né
lei dovremmo più fare parte della tua vita- aveva detto, poi aveva chiamato Nausica e senza più
guardarmi se ne era andata.
Questo fu il primo dei mattoni del muro a crollare, lei e Massimo conclusero le pratiche pochi giorni
dopo mentre io ancora combattevo con le mie angosce. Avevo proibito a Dennis di giocare ancora con
Nausica, inventando una bugia del tipo che non era una buona cosa che non familiarizzasse anche con
gli altri suoi coetanei, ma la mia precauzione, oltre che inutile, aveva contribuito a far cedere ancora
di più quel muro. Dopo aver chiuso le pratiche del divorzio Virginia era partita senza dire niente a
nessuno e aveva portato con se la bambina sottraendo così al destino il rischio dell’incesto, ma quel
mio sospetto atteggiamento di proibizionismo nei riguardi di nostro figlio, aveva avuto la capacità di
intaccare il rapporto di fiducia tra me e Anna, poi, non so come, la voce che più spesso mi ero
incontrato con una giovane ragazza, la cui presupposta identità era stata rivelata nell’arco di pochi
giorni, aveva definitivamente fatto inclinare i rapporti tra noi e di lì a pochi mesi io stesso mi trovai
alle prese con un divorzio mai immaginato. Il muro si sgretolò definitivamente quando Vanessa, la
“nipote di Demetrio” e mia presunta corteggiata, mi aveva detto che non potevamo più incontrarci.
Anche se al suo giuramento non avrebbe tenuto fede per un’ultima volta.
In un arco di tempo che secondo la questione della relatività io potevo definire un istante, avevo
perso l’amicizia di Demetrio e quella di Virginia, avevo frantumato il mio matrimonio, avevo perso
non uno ma due figli (giacché con Dennis non potevo avere che un fine settimana al mese e al quale
non potevo rivelare nulla della sua segreta sorella), avevo perso la possibilità di piacevoli
conversazioni con un’amabile adolescente che si avviava a combattere il suo drago, e mi ero giocato
la reputazione di onesto e corretto uomo di moralità, non avendo più onore e non potendo più essere
degno di fiducia né di godere di alcuna rispettabilità.
Alla fine, per una follia di cui solo nel punto terminale potevo rendermi conto essere una mia
responsabilità, avevo perso tutto, e la torre dentro la quale mi ero rifugiato era crollata come percossa
dai fulmini divini.
Dentro di me capivo che tutto ciò che avevo voluto evitare, era tutto ciò che avevo desiderato:
quell’aspirazione di conoscenza che Demetrio poteva trasmettermi, ma che alla fine mi aveva
spaventato; l’amore represso per una ragazza che solo grazie a Demetrio avevo potuto apprezzare,
fino a seppellire nel mio più profondo interiore il desiderio di possederla motivato dietro un’inutile
giustificazione di lealtà che celava solo la paura delle responsabilità; il mio apparire integro,
incorruttibile e retto, nascondendomi alle spalle di una finta vita dignitosa al fianco di una donna che
non potesse rappresentare nessuna immoralità, quando invece in me non vi era niente di dignitoso,
onorevole e meritevole…
Niente. Non avevo più niente, né conoscenza, né amore, né dignità. E di tutto questo, l’unico
responsabile era Demetrio, colui che aveva dato inizio a tutto e colui che, in un modo o nell’altro, mi
avrebbe condotto a concludere tutto…
-È finita, e questa volta definitivamente. Ha perso tutto e finalmente rivelato tutti i suoi orrori- dissi
quasi rilassato.
-Già- rispose riflessiva Felona -ma perché?Io cercai dentro di me una risposta plausibile, che però non aveva alcun senso.
-Paura?- dissi quindi privo di convinzione.
Felona mi guardò -se osserviamo da una prospettiva diversa, quest’uomo non è altro che una vittima,
qual è la sua vera colpa?-
214
-Esaminando i fatti? È stato la causa del tormento di due possibili amanti, ha generato una figlia che
non riconosce, ha causato la distruzione di due matrimoni, non ha salvato l’amico dal suicidio e ha
contribuito al disonore di una ragazza innocente. Ti basta?- le feci notare.
-Sì- riprese lei -ma guarda le circostanze. Lui ha cercato prima di aiutare un amico a coronare il suo
tormento amoroso e nel farlo è rimasto lui stesso vittima di tale tormento. Ha rinunciato a Virginia per
lealtà nei confronti dell’amico. Poi ha sposato una donna che non amava veramente ma che era giusta
agli occhi della società, infine ha ceduto all’unico impulso che non ha saputo controllare e si è ritrovato
con una figlia illegittima di cui non era consapevole… l’evitare il suicidio dell’amico non è da
considerare, nessuno credo potrebbe giungere a tale rivelazione solo da una lettera che nemmeno
conosciamo, e per quanto riguarda Vanessa, con lei non ha fatto assolutamente nulla di male, sono le
ingiurie degli estranei a coinvolgerla nei suoi tormenti, quindi se osservi bene, Tommaso non è altro
che il prototipo della vittima sociale, una sorta di Elena di Troia o di Medusa. Nonostante la sua
ricchezza vive in una gabbia: la famiglia lo vuole alla guida dell’impero, istruito e ben educato; la
società lo vuole come garante del loro futuro, un condottiero capace che sappia gestire le proprie
risorse in modo da poter garantire lavoro e futuro all’intera comunità del paese; le regole morali e
quelle cattoliche, lo vogliono padre di famiglia sposato ad una moglie per bene, rispettabile e fedele…
non ha niente di suo- disse, e a quel punto, con un’intuizione istintiva io non so se sorpresi più lei o me
stesso.
-Tranne il pensiero- dissi.
Felona si soffermò a riflettere, poi sussurrò -tutto ha inizio con una scelta- e io la guardai pensieroso
mentre proseguiva nella sua indagine psicologica -Demetrio era il suo pensiero- rivelò.
-O ciò che meglio lo poteva rappresentare- corressi io -tradire Demetrio è come aver tradito il suo
pensiero, credi che sia qui l’origine del suo senso di colpa?Scosse il capo -lui non ha tradito Demetrio, ha tradito se stesso rinunciando di accettare ciò che era, e
da quel momento ogni sua scelta è stata condizionata dai timori di non sapere più che cosa voleva
veramente, perché in realtà ciò che cercava era di compiacere gli altri… lui è la vittima- concluse.
-Ma nella grotta- azzardai io -lui non è né vittima né carnefice, lui è la bestia, il drago…-Perché lui non è consapevole della sua condizione, o meglio, la rifiuta e il modo migliore per
sopprimerla è divenire lui stesso il drago da sconfiggere-.
-E quindi si crea tutti i nemici possibili che lo possano sconfiggere?-No, lui vuole combattere i suoi nemici, perché nella condizione bestiale prevale l’istinto, e lui è
convinto che il nemico sia all’esterno. Non sa che per vincere deve sconfiggere se stesso-.
-Quindi le sue parole conclusive, sono una minaccia. Demetrio è stato l’inizio di tutto e Demetrio sarà
la fine: “Lo sta minacciando”- affermai.
-Sembrerebbe così- confermò Felona.
-E così lo andrà a cercare- supposi io -ma dove se non sa neppure da dove cominciare?-Ti sbagli, lo sa da dove cominciare- mi sorprese però lei, quindi indicò il documento e suggerì -vai
avanti-.
Io esitai solo un istante, poi cominciai a leggere:
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4
Lo scrigno di cartone…
“…Quando ci si ritrova improvvisamente soli e si contempla in silenzio il fallimento della propria
vita, non sono molte le alternative che si prospettano e devo ammettere che in quegli ultimi giorni
passati a Casterba, più rari erano i momenti per cui avessi desiderio di vivere piuttosto che quelli per
cui desiderare morire, e meno ancora rari quelli in cui desiderassi non essere nemmeno mai nato. In
una sua canzone Franco Battiato diceva che “più si invecchia e più affiorano ricordi lontanissimi”,
forse però questi ricordi avevano bisogno di forti traumi per riaffiorare. Stavo avendo comunque
motivo di constatare che era così e in quei giorni molti erano i ricordi di un’infanzia serena, tra cui
quel giallo ocra che un tempo mi aveva fatto credere di essere morto e non essermene accorto. Forse il
mio più intenso desiderio era proprio che quella fosse la realtà, ma il dolore che provavo era troppo
forte perché potesse appartenere ad un morto, ad uno spettro o a una fantasia. Se fossi morto in
quell’età, tutto ciò che avrei potuto continuare a vivere, seppure per l’eternità, sarebbero stati solo i
ricordi e le esperienze fatte fino a quel punto. Così non potevo fare altro che accettare la verità di una
realtà fata di dolori, sbagli e assurdità di cui ora pagavo il prezzo con la solitudine. E ormai poco mi
importava che la gente del paese mi osservasse per ciò che ero, così non avevo più nemmeno bisogno
di fuggire da Casterba, dove ero rimasto nella mia casa vuota dopo che Anna se ne era andata
portandosi via nostro figlio e nelle mie passeggiate solitarie nel parco, giacché la gente cercava di
evitarmi limitandosi a salutarmi per una finta cortesia quando mi incrociava, ma soprattutto io
cercavo di evitare loro, il mio pensiero tornava sempre più spesso a Demetrio, ai suoi spiriti e alle sue
filosofie che mi avevano corrotto la mente e sconvolto il cervello, e lentamente il mio odio e la mia
voglia di vendetta giungevano a distrarre il desiderio di non essere mai esistito con la sostituzione che
era lui che non avrebbe mai dovuto esistere. Avrei voluto andarlo a cercare, ma non sapevo da dove
cominciare, finché un giorno, in una sera di ottobre mentre il sole calava sulle pianure quasi paludosi
di Casterba e io osservavo seduto su una panchina del mio parco i riflessi rossi sulle acque del fiume,
una figura si avvicinò a me e con cautela e discrezione si fermò a guardarmi. Alzai lo sguardo e dopo
tanti giorni di sofferenza, provai finalmente un minimo di sollievo.
-Vanessa- esclamai -che ci fai qui?La ragazza mi propose un sorriso amareggiato -sono venuta a salutarla- mi confidò.
-Salutarmi? Perché, te ne vai?- le domandai.
Lei annuì controvoglia e io restai immobile ad ascoltare quel sollievo svanire. Intorno a noi c’era il
vuoto, non c’era nessuno, avrei dovuto dirle di andarsene prima che qualcuno ci vedesse assieme
tornando ad alimentare quelle voci che impedivano così perfino ad un uomo di poter avere un’amicizia
sincera. Ma il genere umano era così: era più facile e più divertente vedere la malizia nelle altrui
forme piuttosto che la sincerità. Invece la invitai a sedere vicino a me, perché sapevo che doveva dirmi
qualcosa e allo stesso tempo sapevo che quello sarebbe potuto essere il mio ultimo momento di
serenità.
-Mi trasferisco. I miei mi hanno trovato un appartamento a Venezia e pensano che per me sia meglio
così- disse.
Non risposi, ma comprendevo che il meglio per lei era di allontanarsi da questi luoghi maledetti dove
le voci non potevano essere fermate altro che con un atto di odio, così come era stato per Virginia con
Demetrio.
-Capisco- mi limitai a dire dopo un po’ pensando che era meglio saperla lontana ma senza
risentimento nei miei confronti, piuttosto che vicina ma piena di rancore.
Vidi la sua espressione farsi triste -io ho cercato di fare in modo che la gente…- non le permisi di
andare avanti perché temevo una crisi di pianto.
-Non devi preoccuparti Vanessa, non è colpa tua. Le persone sono fatte così. Sono piene di limiti e
per non osservare ciò che li rende peggiori di noi evidenziano i difetti degli altri. È sempre stato così e
non cambierà mai. A me importa solo che noi due sappiamo qual è la verità- la confortai e lei mi
guardò con un sorriso sincero che avviò pure in lei una necessità di appoggio nei miei riguardi.
-Se può farla stare meglio, i miei genitori si fidano di me e non credono alle dicerie della gente, è solo
che loro…216
Le presi una mano, ma subito, rendendomi conto che quel gesto poteva sembrare dare conferma a ciò
che qualcuno avrebbe voluto che fosse, la ritrassi -lo capisco- la rassicurai, poi cercai di cambiare
discorso, e non so quanto ne potessi essere contento.
-Eri venuta per dirmi qualcosa?Sospirò, come incerta se dover andare avanti o rinunciare, ma poi realizzò che in fondo quella era la
ragione per cui aveva azzardato ad incontrarmi, rischiando di alimentare di nuovo i pettegolezzi su di
noi.
-È per mio zio- disse. La mia espressione si rabbuiò e lei notò il mio difficile controllo dei nervi. Ebbi
l’impressione che si ritrasse da me e subito compresi che se Demetrio aveva compromesso ogni mia
conformità, lei non ne aveva nessuna colpa e quindi non era con lei che dovevo adirarmi. Così respirai
e ritrovando la calma la guardai sorridendo.
-Va bene, ti ascolto- le dissi con una cortesia che non credevo di poter avere ancora in qualche luogo
del mio animo astioso.
-È che lei mi ha chiesto spesso di lui, e ora so che non vorrebbe più sentirne parlare. Mio zio però mi
ha detto che spesso, chi aspira ad un bene superiore deve saper accettare che tutto ciò che riceverà in
cambio, sarà solo odio e incomprensione-.
La guardai con meno accondiscendenza -voleva che mi dicessi questo?-No- si affrettò a rispondermi -lui non mi ha mai detto di venirle a comunicare niente. Non mi ha mai
spinto a fare nulla e di voi mi ha raccontato solo delle vostre gite sulle rive del fiume. L’unica cosa che
diceva di lei, era che avevate una gran bella anima, ma che il tempo l’aveva corrosa-.
Non riuscii ad arrabbiarmi e a farla smettere e mentre osservavo i suoi occhi abbassarsi come se
avesse compreso di aver detto qualcosa che forse non voleva. Improvvisamente la mia stessa ira
cominciava e sciogliersi. In pochi secondi cominciavo a comprendere come quella stessa ira mi stesse
impedendo di valutare cose che forse non volevo considerare e come di quei ricordi lontanissimi solo
in quel momento mi apparisse il suo sguardo sempre sincero e mai ostile, giungendo a domandarmi
quanto colpevole fosse Demetrio più di quanto non lo ero stato io nel tradirlo e, con l’anima che
sembrava tornare in pace la invitai a proseguire.
-Quando il nonno morì- iniziò allora a raccontare -io aiutai la mamma a mettere in ordine le sue cose
e in un cassetto trovai una scatola. Non era niente di più comune di una semplice scatola come quelle
in cui si infilano le scarpe, ma a me diede la sensazione di uno scrigno di cartone. Quando l’aprii
trovai una grande collezione di lettere. Erano tutte indirizzate al nonno, giungevano da varie parti del
mondo e avevano tutte lo stesso mittente…-Demetrio- sussurrai con un sorriso nel quale non riuscii a percepire la mia malinconia e la mia
sincerità.
-Non so quante ne avesse scritte, e non so quante volte il nonno le avesse lette, erano sgualcite dalle
tante volte che erano state lette e io compresi che quelle erano la compagnia che lui preferiva. Credo
che le sue parole scritte fossero molto più gratificanti delle visite che sembravano forzate dei figli
vicini. Io non sapevo che un giorno mio zio sarebbe tornato, ma nascosi la scatola e di tanto in tanto
ne leggevo una. Non credo di aver mai trovato tanta poesia e gratitudine in nessun testo letterario.
Una volta, nei pochi giorni che ci incontrammo, io rivelai questo segreto a mio zio…-Si arrabbiò?- le domandai, ma solo per permettergli di prendere un po’ di fiato perchè sapevo che
Demetrio non avrebbe potuto farlo.
-No- rispose infatti scuotendo il capo -anzi, ne sembrò felice, poi mi chiese di portarle con me il
giorno dopo-.
-E che successe?- le domandai a quel punto incuriosito.
-Lui le prese in mano e come se sapesse il contenuto di ogni una, parve rivivere i momenti in cui le
scriveva. In ogni lettera lui descriveva i luoghi intorno a sé e che fossero deserti, monti, praterie, laghi,
mari oceani, o anche paludi, aride steppe o deserti ghiacciai, lui sapeva descrivere tutte le meraviglie
che ci vedeva in ogni angolo visitato… erano scritti dalla grande suggestione e dal grande fascino…ricordai a come mi aveva descritto il suo modo di attendere il consenso degli spiriti della natura per
scattare le sue foto, e potei immaginare la poesia dei suoi scritti. Vanessa intanto continuava.
-Poi mise le lettere sul tavolo e mi disse che avrei dovuto sceglierne una. Io osservai a lungo, quindi
ne presi una ma lui le aveva capovolte in modo che non potessi vedere da dove proveniva, disse che
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quella che avrei scelto era quella che il destino avrebbe voluto che mi appartenesse… poi, una volta
eseguita la scelta, raccolse le altre e mi disse che avrei dovuto bruciarle. Naturalmente restai sorpresa,
ma lui spiegò che quelle lettere appartenevano all’universo ormai, e che bruciandole, sarebbero
tornate a chi le aveva ispirate, così che potessero riprendere il ciclo nel ruolo che era loro destinato-.
Sorrisi come un bambino che ascolta una bella favola -le bruciasti?- le domandai.
-La sera stessa- rispose lei -feci come mi aveva detto. Cercai un luogo all’aperto. Lui disse che avrei
capito quale sarebbe stato quel luogo. Inizialmente lo cercai nel mio giardino, ma non provavo alcuna
sensazione, così cominciai a passeggiare per la campagna, mi avviai verso le rive del fiume perché
sapevo che lui lo apprezzava in modo particolare, quindi giunsi al vecchio mulino, lì provai una
sensazione di benessere, come se qualcuno mi stesse parlando…-Le bruciasti lì?-No, la sensazione era più simile ad un’indicazione, come se venissi spinta a proseguire il mio
cammino. Raggiunsi un ponte, lo attraversai e poi… mi diressi verso il bosco-.
Provai un brivido. Il bosco era un lato oscuro e come se stessi vivendo quel momento sentii la mia
mente consigliarla di andare verso la collina, era lì che avrebbe dovuto andare, ma subito mi ricordai
che la collina non c’era più. Su ciò che restava della collina, infatti, stavamo discutendo e prima che io
potessi dire qualcosa la sentii concludere il racconto.
-Entrai nel bosco e inizialmente provai freddo-.
Temetti che Demetrio l’avesse ingannata mandandola in quel luogo dove gli spiriti malvagi
l’avrebbero contagiata, spingendola poi ad avere su di me quell’effetto che avrebbe contribuito al mio
declino. Allora mi resi conto che rischiavo di cedere nuovamente al mio delirio e ricercando la calma
tornai ad ascoltarla.
-Per un po’ ho avuto paura e ho pensato che avevo mal interpretato le indicazioni, pensai di tornare
indietro, ma poi vidi un’insenatura dove il fiume, tagliando il bosco con due successive curve, appariva
come un serpente che strisciava tra gli alberi e lì vicino ve ne era uno con delle possenti radici che
emergevano dal suolo. Mi avvicinai senza percepire ostilità, poi un soffio di vento spazzò via le foglie
cadute e davanti a me si presentò una roccia triangolare. Mi chinai e per un momento tutto intorno si
fece silenzio, come se la natura intera mi assecondasse. Posai la prima lettera e con il fiammifero che
avevo portato accesi il fuoco. Le bruciai una ad una e a ogni fuoco la sensazione di freddo diminuiva e
l’ombra del bosco pareva svanire, divenendo sempre più luminosa. Alla fine restai ferma in
contemplazione. Nel bosco si udivano i passeri cinguettare, i grilli cantare e lo scorrere del fiume lento
sussurrare. Fu una grande emozione…-lo immagino- non potei che ricordare quei momenti di emozioni vissuti tanti anni fa.
-E la lettera che hai tenuto per te? Di che cosa parlava?-Di una grotta- disse, e improvvisamente tutto mi fu chiaro…
218
5
Patti col diavolo?
Osservai Felona e, più che riflessiva, per la prima volta la vidi stanca.
-Vuoi che vada avanti?- le domandai, ma la sua era un’espressione assorta, come se stesse sognando a
occhi aperti. L’idea di conoscere il contenuto della lettera era per me allettante, ma io stesso, dopo
quell’estenuante giornata, mi sentivo troppo stanco e per una ragione inconscia, la sua risposta non mi
sorprese.
-No, non sono riuscita a seguire bene quest’ultimo capitolo, mi sento stranamente debole, ho voglia di
riposare. Andiamo a dormire, continueremo domani- affermò, e io acconsentii.
Dormii come un ghiro e non credo che la mia sia stata una notte agitata, anche se prima di
addormentarmi ebbi come la sensazione che a provocare la nostra stanchezza non fosse stato il lungo
camminare che avevamo fatto tra strade sterrate e percorsi lungo le rive di un fiume, ma piuttosto
quell’apparente salto temporale in cui entrambi ci eravamo sentiti come bambini, come se il viaggio
reale fosse stato quello, e il percorso a ritroso nel tempo fosse stato così estenuante da privarci di ogni
energia. Mi svegliai che il sole era già alto, come al solito, e mi sentivo riposato, ma già temevo la
sfuriata di Felona che probabilmente mi stava attendendo con l’ordinazione del pranzo già fatta. Mi
vestii alla svelta e rimasi sorpreso quando, scendendo verso la sala d’attesa, non la incontrai ad
attendermi. Mi preoccupai e subito domandai al custode se l’aveva vista. Eravamo gli unici ospiti fissi
in quei giorni e il custode non aveva difficoltà a capire a chi mi riferivo e quando mi rispose che non
era ancora scesa e che le inservienti ai piani si stavano lamentando perché sulla porta della sua stanza
stava ancora appeso il cartello “non disturbare”, presi il telefono e digitai il numero della stanza.
Ascoltai il telefono suonare per un po’, quindi sentii una voce assonnata rispondere.
-Pronto?- le sentii dire quasi con fatica e mi resi conto di averla appena svegliata.
-Felona, stai bene?- le domandai. Dovette osservare l’orologio da qualche parte e la sentii imprecare.
-Accidenti com’è tardi-.
Cercai di tranquillizzarla -avanti non è successo niente, un po’ di riposo sovrappiù non può farti male.
Senti vuoi che ordini qualcosa da mangiare mentre ti vesti?- non la sentii dubitare il che invece procurò
dubbi in me.
-No, non c’è tempo, puoi salire?- mi domandò.
-Sì, certo, arrivo subito- risposi. Chiusi la comunicazione e osservai la faccia divertita del custode e,
nell’intuizione dei suoi pensieri la mia voglia di prenderlo a pugni tornò a farsi più forte in me. Lo
ignorai e salii le scale per andare da lei.
Bussai -è aperto- sentii dire.
Entrai e ascoltando lo scroscio dell’acqua intuii che stava sotto la doccia.
Attesi finché non sentii l’acqua chiudersi -tutto bene Felona?- le domandai.
Uscì dal bagno con un asciugamani avvolto sulla testa e cominciò a vestirsi.
-Perché non mi hai svegliata prima? Io odio perdere tempo- rispose irritata.
-Forse perché non mi sono svegliato io prima?- le risposi.
Mi guardò attraverso lo specchio -già, in questo più che in ogni altra condizione non sei per niente
affidabile- disse.
Trovai la situazione divertente -almeno hai dormito bene?-.
Mi guardò contrariata -fin troppo- rispose adirata, poi, quasi con timore aggiunse -sei riuscito a
sognare questa notte?-Niente sogni, come al solito- risposi fiero del mio sonno senza intrusi, ma subito vidi il suo timore
tramutarsi in paura. Posò l’asciugacapelli che ancora la sua chioma era umida e l’effetto con cui tale
condizione le lasciava cadere i capelli sulle spalle la rendeva affascinante e mi fece provare un
inebriante e piacevole desiderio, non fosse stato per quello sguardo preoccupato, forse avrei cercato di
approfittarne.
-Ricordi cosa ti ha detto il custode del cimitero ieri quando ti ha visto?Riflettei, ma non avendo avuto molta stima per quell’uomo non avevo memorizzato gran che delle sue
parole.
Strinsi le spalle -ha detto tante cose- risposi con superficialità.
Lei riprese a vestirsi velocemente -ha detto che tu sembravi uno di loro- mi ricordò.
219
Sorrisi trattenendo una risata -ah sì, è vero, ha detto così, solo che non è vero, io non sembro così
vecchio come invece appare lui-.
-E se non si fosse riferito all’età?- mi fece notare, e la mia spavalderia svanì.
-E a che altro avrebbe potuto riferirsi?- le domandai, ma lei mi guardò come se la risposta fosse
troppo complicata e invece che spiegare mi confessò -non ho fatto sogni questa notte, e io sono una che
sogna sempre-.
Restai perplesso, ma solo per un po’, poi ripresi il mio umorismo -e solo per questo temi di diventare
come me? Avrai avuto semplicemente un sonno pesante come accade sempre a me. Ieri eravamo
entrambi molto stanchi…-Beh io non voglio essere come te…- mi aggredì, e io pensai che la sua reazione era eccessiva e che
qualcosa in lei si stava facendo piuttosto preoccupante.
-Non mi sembra il caso che tu ne faccia un dramma- cercai di riconciliare la calma. Nel frattempo lei
aveva indossato un nuovo paio di jeans e una maglietta con degli strani disegni che nemmeno doveva
aver valutato se idonea o no, ma che probabilmente era stata la prima che aveva trovato.
-Devo tornare laggiù- disse.
-Dove?- le domandai.
-Al cimitero-.
-Per fare che?-Ho pensato a qualcosa mentre stavo sotto la doccia, e devo capire cosa voleva dire quel vecchio-.
-Perché? Temi che la sua allusione potesse avere qualcosa di differente da ciò che era?-Non lo so, ma è quello che voglio scoprire-.
-E non vuoi mangiare qualcosa prima?-Non ho fame-.
Pochi minuti dopo eravamo sulla strada per Casterba, e senza che il nostro viaggio fosse interrotto da
discussioni, mentre entrambi ci inoltravamo nei nostri pensieri, quelli di lei relativi a ciò che doveva
scoprire e i miei relativi al dubbio di voler sapere che cosa voleva scoprire, giungemmo davanti al
cimitero dove trovammo il custode nello stesso punto dove lo avevamo lasciato il giorno prima,
appoggiato alla stessa lapide con la sua chitarra a suonare accordi stonati.
-Buon giorno mia splendida principessa- salutò Felona, poi guardò me, forse attendendosi una mia
reazione, ma io restai impassibile.
-Che cosa vi conduce nuovamente nella mia dimora?- domandò.
-Quando è morto Marco?- domandò subito Felona.
-Nel 1997- ripose senza esitazione il giocatore.
-Quanti anni aveva?Il vecchio la guardò e nei suoi occhi non c’era sospetto ma piuttosto intuizione -puoi scoprirlo da sola
principessa- le disse.
Io feci un passo avanti -perché non rispondi invece che parlare per enigmi?Mi guardò, ma senza rabbia o astio nei miei confronti -sai di chi è la lapide su cui sto appoggiato?- mi
fece notare, e allora sia io che Felona finalmente ci apprestammo a porgere i nostri omaggi alla salma
che ci stava davanti. Credo che il nostro stupore fu lo stesso, sulla lapide vi era un nome a noi noto “–
Marco Aplicante 18 - 06 - 1970 – 11 – 08 - 1997 –”, poi sotto, vi era una lunga incisione e
osservandola ci accorgemmo che la lapide era piuttosto recente.
Io guardai il vecchio -come mai questa lapide appare più in buono stato delle altre? Te ne prendi cura
personalmente?-Niente affatto- rispose con calma il giocatore -è solo che è più nuova. È stata sostituita di recente-.
-Che cosa rappresenta la scritta?- domandò Felona.
-L’epitaffio? È la sua canzone- ci informò.
Io e Felona ci soffermammo a leggere: “È difficile comprendere, più facile giudicare, ma per chi non
ha mai provato la sensazione di smarrimento che si prova in un mondo statico, quando tutto
nell’interiorità del proprio mondo è in movimento, niente di quanto si possiede, si ottiene o si realizza,
può essere sufficiente.
L’artista non è colui che si affida al commercio, nell’artista vero non c’è niente di commerciale. La
vera arte nasce dalla comprensione di un tormento. Il vero artista nasce con la presa di coscienza
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della propria anima, imprigionata in un involucro che la rende inerme, poiché intorno a sé percepisce
prigionieri senza coscienza.
Non c’è più nulla per quella dannazione, se non l’atroce grido disperato che l’artista esprime in ogni
sua forma.
Quando vi capita di domandarvi perché persone che sembrano in apparenza avere tutto, fama,
successo, notorietà, ricchezza, e quanto più si voglia aggiungere, finiscano per compiere atti definiti da
voi comuni mortali gesti insani, non soffermatevi alla visione di un’esteriorità che limita la
comprensione al semplice fattore di ciò che appare, ma cercate di oltrepassare quella invisibile ma
spessa barriera che oscura le vostre menti, cercate attraverso le loro opere di penetrare in profondità,
esaminate ogni dettaglio di ciò che hanno lasciato, di ciò che hanno fatto, di ciò che hanno vissuto… e
allora forse, comincerete a sentire un sussurro, all’inizio vi farà paura e qualcuno fuggirà, ma se
saprete sopportare l’iniziale sgomento, il sussurro si farà più limpido e diventerà una voce… ascoltate
quella voce finché non la sentirete gridare, finché non sentirete ancora le urla di quelle anime
imprigionate nella disperazione di un nulla che avvolge ogni particolare del vivere quotidiano… le
sentirete gridare da lontano quelle voci, e non saranno nascoste tra gli oggetti accumulati in tanti
giorni d’affanno, non saranno rinchiuse in ville lussuose o macchine potenti, non proverranno da una
cifra scritta su banconote né da diamanti stretti da catene d’oro… saranno lì, semplicemente presenti,
perché quando le sentirete gridare, non saranno più le voci prigioniere degli altri, ma sarà il sussurro
della vostra anima che comincia a mormorare, e già da quel momento, il suo sussurro sarà il grido più
feroce che abbiate mai sentito…”
Restammo in un silenzio contemplativo, ma poi io fui preso dal mio superficiale distacco nel quale
non volevo riconoscere, più che una canzone, un messaggio disperato.
-E sperava di diventare un cantante scrivendo queste cose?- dissi.
-Piuttosto lungo come epitaffio, è una lapide impegnativa- commentò invece Felona.
Il giocatore non sembrò nemmeno aver sentito il mio inutile commento -non credo che fosse la
preoccupazione di chi l’ha commissionata-Chi l’ha fatta incidere? I suoi genitori?- domandò.
-Erano due contadini anziani, non sapevano nemmeno che lui scrivesse canzoni- la informò
superficialmente.
-Allora chi? Tommaso D’amanti?- domandai io.
Il giocatore sembrò rassegnarsi alla mia mancanza di deferenza.
-Tommaso non ha nemmeno mai fatto visita alla sua tomba se non al suo funerale, presumo non
sappia nemmeno dell’epitaffio perché l’ultima volta che l’ho visto qui è stato per incontrare Demetrio,
e a quel tempo la lapide ancora non era stata sostituita-.
-Allora non può essere stato che Demetrio- espose Felona.
Il vecchio sospirò -io non credo che Demetrio sia tornato per un lavoro, ma per risolvere molte
questioni. So che andò a trovare i genitori del Canta, forse per raccontargli cose strane relative ai suoi
sogni e ai suoi spiriti, forse li voleva solo confortare. La lapide è arrivata qualche settimana dopo la sua
partenza. Non so chi sia stato, ma se dovessi azzardare un nome, direi di sì, è stato lui-.
Mentre ascoltavo osservai Felona che sembrava assorta in una specie di pensiero matematico.
-Aveva 27 anni- disse dopo aver calcolato l’età del defunto.
Vidi il vecchio sorridere -già, come le tre j eh? Curioso vero?-E lui amava le tre j vero?- disse Felona mentre io non capivo di cosa stavano parlando.
-Ehi, che diavolo sono queste tre j?-Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, morti tutte e tre a 27 anni- rispose in modo autonomo
come se non se ne rendesse conto Felona.
-Per non dimenticare il più famoso di tutti- disse il giocatore.
-Robert Leroy Johnson- annunciò Felona -lui stesso morto a 27 anni-.
-Già- confermò il giocatore e subito dopo iniziò a suonare la chitarra, ma in un modo che di stonato
non aveva nulla e la musica che propose pareva quasi ammaliante, e quando concluse, né io né Felona
sembravamo più aver domande da fare. Ovvero, io di domande ne avevo molte, ma non erano al
chitarrista che le dovevo porre ma alla mia compagna d’indagine che, senza più chiedere nulla al
221
vecchio ma con l’aria sconvolta si voltò e si apprestò a uscire dal cimitero. La seguii e quando fummo
fuori la vidi barcollare e subito mi apprestai a sostenerla.
-Ehi, tutto bene?- le domandai, ma era evidente quanto fosse scossa.
-Sì, tutto bene- rispose, ma io non le credevo.
-Insomma, mi vuoi spiegare che cosa è successo la dentro? E chi è questo Robert Johnson?La sua espressione si fece di una serietà mai vista -è stato un chitarrista blues vissuto tra gli anni 30
del secolo scorso, alcuni dicono il più grande di tutti, e su di lui circolano leggende inquietanti- parve
non voler aggiungere altro, ma ormai doveva aver compreso che qualunque cosa avesse a che fare, o
che si ritenesse dovesse avere a che fare con il nostro caso doveva essere condivisa.
-E che cos’ha a che fare con noi?- la incalzai.
Si fermò, combattuta dal non voler condividere la sua intuizione e la comprensione di non potermene
tenere all’oscuro.
-Robert Johnson visse in un modo piuttosto travagliato, si sposò a diciotto anni con una quindicenne
che l’anno successivo morì nel dare alla luce un figlio, da quel momento diventò un girovago, un
donnaiolo e un ubriacone. Una leggenda vuole che la sua passione per la musica lo abbia condotto a
stringere un patto col diavolo che in cambio della sua anima gli avrebbe fornito le qualità per suonare la
chitarra come nessun altro-.
-E tu credi a queste stupidaggini?- le dissi, ma la mia voce tremava come se io stesso in realtà stessi
valutando la consistenza di tali evenienze.
-I suoi testi parlavano di spettri e demoni, e tal volta facevano esplicito riferimento al suo stesso patto
col Demonio. E poi c’erano i racconti dei vari musicisti che avevano denotato la sua iniziale goffaggine
nel suonare la chitarra, straordinariamente mutata nelle ultime apparizioni. Inoltre si racconta che
Johnson scomparve dopo la morte della moglie per un anno, e fu dopo quel periodo che ricomparve
dotato di quel mostruoso talento. Le voci dell’epoca tramandano di un incontro avvenuto ad un
crocevia sperduto allo scoccare della mezzanotte…Risi sarcasticamente come a voler esorcizzare quel racconto che già mi faceva rabbrividire -chissà
perché sempre a mezzanotte- fu la formula che usai per il mio esorcismo, ma lei non si interruppe
-…Un incontro con un misterioso uomo nero che gli avrebbe concesso il talento in cambio della sua
anima…- ribadì.
Io la osservai in silenzio per un po’ -non vorrai introdurre l’elemento demoniaco in questa assurda
vicenda vero?Sembrò ancora riluttante a voler proseguire, ma poi, forse per punire la mia costante insistenza nel
voler essere reso partecipe dei fatti, lasciò da parte ogni riluttanza e aggiunse quel particolare che più di
tutti gli altri avrebbe dovuto sortire l’effetto richiesto, e sicuramente, il conseguente mio
sconvolgimento.
-In realtà la versione ufficiale racconta che nel suo vagare Johnson avrebbe incontrato un misterioso
bluesman di nome Zinneman che gli avrebbe fatto da maestro…- la nuova versione cominciava a
piacermi di più e già mi stavo per rilassare, poi però Felona continuò la storia -la cui figura tuttavia
risulta celata da un velo misterioso in quanto l’unico dato riguardante la biografia di questo misterioso
insegnante riguardava la sua abitudine di suonare nei cimiteri, tra le tombe, al punto da essere
riconosciuto come emissario del Demonio-.
A quel punto compresi in che modo Felona temeva di collegare la vicenda del nostro autore con il
misterioso chitarrista del nostro cimitero, e istintivamente mi voltai a osservare tra le tombe del
camposanto, rabbrividendo nello scorgere il profilo del giocatore che strimpellava la sua scordata
chitarra, a volte stonato e altre volte, assolutamente armonizzato. Felona si incamminò e io sconvolto la
seguii.
-Insomma Felona, vorresti veramente insinuare che quell’uomo potrebbe essere un emissario del
demonio?-Certo che no, o meglio non ci voglio credere, ma sai quanti sono i grandi musicisti morti all’età di 27
anni? Brian Jones fondatore dei Rolling Stones, Hendrix, Morrison, Joplin, Kurt Cobain, Amy
Winehouse… tutti con una loro particolare storia, una particolare vita…-Ma quelli hanno avuto la notorietà che avevano cercato, Marco Applicante per cosa si sarebbe
venduto, per un’epigrafe in un cimitero abbandonato che nessuno avrebbe mai letto?222
-Ti dimentichi di noi- mi rispose contrariata.
-Cosa?- mi mostrai incomprensivo.
-Noi l’abbiamo letta giusto?-Sì, ma questo non significa nulla. Non puoi paragonare noi alla massa del grande pubblico che seguì
tutti quei grandi artisti-.
-Forse perché tu non hai ben compreso le parole di quell’epigrafe. Un artista non cerca veramente la
fama, ma la possibilità di esprimersi, anche se per pochi…-Ma se lui sapeva che non sarebbe mai divenuto un grande artista…- cominciai a sintonizzarmi col
pensiero di Felona che mi guardò e annuì.
-L’unico modo che gli restava per esprimere il suo messaggio era divenire parte di quel famigerato
club-.
-Ma lui aveva fatto leggere solo a Tommaso il suo testo, e probabilmente sapeva che Tommaso non
avrebbe saputo interpretare la sua volontà…-Tommaso no…- disse allora Felona rivelando ora la sua vera paura -ma uno come Demetrio sì-.
-E quando Demetrio sarebbe venuto in possesso di tale scritto se nemmeno Tommaso ormai ne
conservava più la copia?- domandai già intuendo la risposta con la contemporanea consapevolezza che
non avrei voluta saperla.
-Il sogno- confermò infatti con prontezza Felona -quando Demetrio racconta il sogno dell’incidente
lui dice che stava sul treno nel sogno, con un foglio in mano-.
-Demetrio avrebbe ricevuto il testo in quel sogno?- scossi il capo sconvolto -questo non possiamo
accettarlo Felona. Né te né io. Non possiamo permetterci di uscire dalla nostra razionalità-.
-Lo so, ma ormai non credo che siamo più in grado di comprendere quanta razionalità ci sia ancora in
noi- le sentii dire, poi, come un macabro sigillo sui nostri tormenti, sentimmo il giocatore cominciare a
cantare e a suonare, e ciò che proveniva dall’interno del cimitero era una canto affascinante e allo
stesso tempo macabro.
Felona guardò verso il piccolo cimitero e impallidì -andiamo via- disse, e io, senza indugi
l’assecondai.
223
6
Le cattedrali di marmo
Non avevamo fatto null’altro quel giorno.
Non avevamo camminato per nessuna via o campagna di Casteraba; non avevamo visitato monumenti
o edifici; non avevamo nemmeno letto nessun altro passaggio del documento. Ce ne eravamo tornati
all’hotel ignorando perfino lo sguardo irrisorio dell’antipatico custode che ci osservava discutere
animatamente pensando nella sua limitata concezione a una lite tra amanti, e la sera era calata presto.
-Non possiamo accettare l’idea di una vita parallela ad un sogno, in fondo il custode ne è una
dimostrazione: è reale ed è addirittura uno dei protagonisti dell’assurdo racconto- continuavo ad
insistere io per scacciare i troppi tormenti che l’accettazione dell’alternativa possibilità mi avrebbe
condotto a dover sopportare, ma lei, pur ammettendo l’impossibilità di simile oggettività, tornava
insistentemente ad inserire la costante del sogno come inevitabile punto di contatto tra due realtà
apparentemente separate e impossibili da unire nell’unica plausibile spiegazione di tutti gli eventi
vissuti, il che riconduceva sempre alla medesima conclusione: stavamo sognando o stavamo vivendo
nella realtà? E se stavamo sognando, di chi era il sogno e, quindi, chi era l’unico essere reale di quel
sogno, dal momento che il sogno poteva essere di una sola persona? Per un attimo, o meglio, per molto
più di un attimo, temetti veramente che la pazzia fosse l’unica vera spiegazione a tutto.
-Ma come potrebbero i sogni intervenire sulla realtà? È materialmente impossibile- avevo detto quindi
ad un certo punto dell’animata conversazione per cercare un punto d’incontro tra noi che ci facesse
rendere certi della nostra concreta materialità, e in quel mentre, finché il sole calava, dalla veranda sulla
quale discutevamo osservammo senza particolare interesse una macchina che stava parcheggiando
nell’area riservata all’hotel.
La guardammo solo perché da quando eravamo lì non avevamo visto nessun altro cliente fermarsi per
pernottare e immaginavamo che a quell’ora un’auto lussuosa poteva appartenere solo a qualche
affarista che si trovava in zona per viaggio di lavoro, pensando, almeno io, che quella notte avremmo
avuto un ospite in più nell’hotel.
-Ci sono persone che predispongono il loro futuro su ciò che sognano- mi sottrasse quindi alla
momentanea distrazione la voce di Felona senza impedirsi di esaminare l’uomo che scendeva dall’auto
appena giunta. Io stesso tentai di farmi un’opinione del tutto disinteressata dell’individuo, solo per
staccare la mente dai troppi tormenti, pensando che doveva trattarsi di una sorta di rappresentate, uno di
quelli che girano il mondo per lavoro e sono costretti a indossare abiti eleganti e scomodi anche in
piena estate. Portava camicia bianca e giacca scura che non doveva essere molto rinfrescante. I
pantaloni erano abbinati alla giacca a formare un completo raffinato e sicuramente ricercato. Ciò che
mi parve stonare fu il cappello nero che poco si addiceva a mio avviso ad un agente di commercio.
-E nessuno glielo impedisce, ma credere in una cosa non significa renderla reale- risposi tornando a
concentrarmi su di noi usando tutto il mio cinico realismo disinteressandomi dell’uomo che si
avvicinava.
-È come noi le interpretiamo e dalle nostre conseguenti azioni che le rendiamo concrete- rispose lei
mentre il suo sguardo invece restava fisso sull’ospite -così come qualcuno è disposto a combattere una
guerra in nome di un dio di cui non ha cognizione né conferme, non è molto diverso- continuò senza
deviare la visuale, tanto che l’uomo dovette percepirlo il suo insistente sguardo e passandole accanto la
salutò portandosi la mano sulla tesa del cappello accennando il classico gesto di chi se lo sta per
togliere in segno di rispetto, ma senza realmente levarlo. Felona annuì contraccambiando il saluto con
un altro accennato gesto di consenso, mentre io pensavo che il cappello che l’uomo in nero non aveva
voluto togliere, serviva a mascherare una probabile calvizie.
-Infatti, quel dio, come i sogni non sono dimostrabili- riportai la sua attenzione sull’argomento.
-Ti sbagli, dei sogni abbiamo cognizione, e al contrario di un dio presunto, essi sono reali, e magari
sono proprio loro il ponte tra la nostra incognita cognizione di dio-.
L’uomo ci superò ed entrando nella sala di ricevimento dell’hotel scomparve alla nostra visuale
mentre io restavo indifferente, a pensare al ponte che Tommaso non riusciva a superare.
-La tua allusione al ponte non è casuale vero?-Assolutamente no. Forse cominciamo a capire il vero timore di Tommaso-.
-E cioè quello di accettare un dio che domina il nostro destino e che programma guerre e catastrofi?224
-No, quello di accettare che un dio simile non esiste-.
-Ha paura di scoprire che siamo solo il frutto di casualità chimiche?-No, ha paura di scoprire che dio non è ciò in cui gli hanno insegnato a credere, ma qualcosa di
totalmente diverso. Qualcosa che forse non sa nemmeno che noi esistiamo e che non si preoccupa dei
nostri guai. Qualcosa di così vasto che il nostro pensiero a confronto è solo una virgola in un
enciclopedia. Ha paura di dover rinunciare a tutte le sue certezze e dover perdere ogni cosa, perfino la
ragione, così come gli sta accadendo-.
-E per fare questo, ha bisogno del diavolo? Quello esiste?-Così come il bene e il male e ogni condizione per cui sia necessario un contrario per essere
riconosciuta. Quel Dio da cui fugge però non ha contrari. Quel Dio è ogni cosa, e lui, rifiutandolo
accetta il dio degli uomini e conduce il demonio nei suoi sogni…-Ma se Marco gli consegna il testo della canzone nella realtà, non può essere il demonio dei suoi
sogni…- la guardai con sgomento e con altrettanto sgomento mi fissò lei.
-Dementrio parla di un foglio che tiene in mano durante quel sogno, e si presume che tale foglio sia il
testo della canzone di Marco…-Vuoi dire che il Canta gli consegna il testo nel sogno?-No, Marco non c’è nel sogno, lui è reale. Nel sogno c’è Tommaso…-E quindi sarebbe stato Tommaso a consegnargli il testo?-Lui non lo accetta, dopo qualche giorno già se ne dimentica, lo consegna a qualcun altro scaricando
ogni responsabilità… e se fosse Demetrio il demonio dei suoi sogni?- disse a quel punto.
-Un demone che si lascia martirizzare?- obbiettai io.
-Il diavolo è un ingannatore- mi fece notare.
-Ma tutto ciò che Demetrio ha fatto, sembra avere come scopo la rivelazione di una verità…-Ma noi non sappiamo quale sia la verità che lui vuole rivelare-.
-E il guardiano del cimitero? Il giocatore, cosa c’entra?-È stato a lungo con Demetrio nei giorni del suo ritorno ricordi? Ce lo ha detto lui-.
-Avrebbe stretto un patto con lui?-O lui è il diavolo, e a stringere il patto è stato Demetrio-.
-Ma per quale ragione?-Forse per un atto di disperazione. Lui è pronto a rinunciare all’amore di Virginia per permetterle di
comprendere qualcosa che ancora non vede, ma non cede al tentativo di risvegliare il vecchio istinto di
Tommaso…-E si venderebbe l’anima per questo?-Per lui sono cose importanti, ricordi quando aveva detto a Tommaso che c’era molto di più in gioco
della vita? Lui è convinto che vi sia una condizione più alta e per impedire che questo sfugga alle due
persone che gli sono più care, è disposto a rinunciare a ogni cosa-.
-Fino ad accettare di dannarsi per l’eternità?-.
-C’è qualcosa che va oltre nel sacrificio. Il martirio è l’estrema rinuncia, e qualcuno ha detto che più
alto è il prezzo che sei disposto a pagare, più grande sarà la ricompensa che riceverai. Se paghi con la
vita, potresti avere in cambio la vita eterna. Così diceva Osho. Demetrio potrebbe andare oltre…-E chi è adesso questo Osho?- domandai esasperato.
-Un mistico e maestro spirituale del secolo scorso i cui insegnamenti enfatizzavano l'importanza della
meditazione e della consapevolezza, dell’amore, della celebrazione, e della creatività, qualità che egli
riteneva soppresse dall'adesione a sistemi di credenze statici come le tradizioni religiose. Fu, infatti, un
forte critico delle religioni organizzate e dei sistemi di potere ad esse legati. Per screditarlo gli si
attribuirono una serie di scandali, ma il suo pensiero ha finito comunque per influenzare grandi
masse…-Va bene, va bene, ho capito- la interruppi stanco di conoscere ogni volta nuove identità troppo
coinvolgenti per ciò che stavo attraversando in quel periodo.
Ricordo quindi che restammo in silenzio a lungo e un po’ mi sentii colpevole di quel momentaneo
tormento che ci avvolgeva.
-Non abbiamo letto nulla oggi del nostro racconto, che ne dici, proviamo ad andare avanti?- dissi dopo
un po’ per interrompere il fastidioso silenzio.
225
-Credo che non abbiamo altre alternative-.
-Bene- dissi allora, e leggermente agitato iniziai a leggere: “le cattedrali di marmo”.
…-Hai con te quella lettera?- le domandai con l’ansia che mi faceva dimenticare parte del mio auto
controllo che forse poteva generare sospetti sulle mie invenzioni. Ma Vanessa non parve notare tale
particolare e al contrario sembrò felice di assecondarmi.
-La porto sempre come fosse il mio portafortuna, un amuleto avrebbe detto lui-.
-Credi che sarebbe indiscreto se volessi leggerla?- le domandai ricomponendo la mia sincerità. Lei
mi guardò un po’ sospettosa, ma non credo che fossero sospetti su di me, quanto piuttosto sulla
sacralità della lettera.
-Forse le regole delle buone maniere mi impedirebbero di far leggere la posta altrui, sebbene io per
prima le abbia infrante. Forse, lasciare la lettera nelle mani di altre persone potrebbe apparire
profanatorio…- disse, e per un momento mi sentii colto da una sensazione di smarrimento temendo che
non avrei mai saputo cosa stava scritto nella lettera perché Vanessa ne era divenuta custode gelosa e
soprattutto leale, come se il suo fosse un tesoro da difendere così come i cavalieri templari
difendevano le loro reliquie. Ma poi compresi che il suo era solo un atteggiamento di rispetto verso
suo zio, e per il nonno cui era indirizzata la lettera e verso il quale lei aveva avuto sentimenti di vera
stima, e per la lettera stessa, quando per farmi comprendere le sue nobili norme di devozione aggiunse
-ma non credo che potrei commettere nessun sacrilegio se la lettera la leggessi io. Per lei può andar
bene?- mi propose.
La guardai riconoscente -ne sarei onorato- dissi con sincerità. La vidi frugare nella borsa ed
estrarre un astuccio di metallo che appariva una sorta di scrigno il cui contenuto si mostrava per lei
più prezioso di qualunque gioiello. Osservai i suoi gesti come se assistessi ad un rituale, vedendo le
sue delicate dita far scattare prudentemente la chiusura dell’astuccio, aprire con un lento gesto il
prezioso forziere mentre gli occhi si illuminavano come se davanti a loro apparisse il più grande dei
diamanti, prendere con delicatezza il foglio sul quale erano evidenti i segni del tempo e l’usura delle
molteplici occasioni in cui era stata esaminata come se si trattasse di una fragile reliquia, e poi
dispiegare con attenzione quella che sembrava quasi una pergamena. Nel disvelarsi del foglio, vidi
apparire i segni calligrafici che osservati dalla distanza da cui li potevo solo parzialmente vedere
apparivano geroglifici di altri tempi, poi, mentre i riflessi arancio del sole si facevano più intensi,
cominciai ad ascoltare la sua voce che come il canto di un angelo recitato in un contesto sacro,
sembrava portarmi fuori del tempo.
“Ciao” esordiva Demetrio nella lettera, e poi non aggiungeva nessun aggettivo tipo papà, genitore o
vecchio, né osava scrivere il suo nome come fosse superfluo giacché il padre sapeva che a lui era
indirizzata quella missiva, non immaginando che magari un giorno anche altri l’avrebbero letta.
“Mi trovo oltre il quarantacinquesimo grado sud, tra le acque del lago General Carrera, nella
Patagonia del Cile, tra le pareti di quelle che qualcuno ha giustamente definito “Cattedrale di
marmo”, un ambiente unico composto da un dedalo di caverne di marmo parzialmente coperte
d’acqua. l’azzurro cobalto del lago, riflesso tra le pareti delle caverne crea uno scenario irreale,
suggestivo e fiabesco. Qui dentro il cielo prende consistenza nel marmo e la terra si unisce ad esso in
un turchese azzurro verde, dando l’impressione che ogni cosa, cielo, terra e mare, siano un'unica
consistenza; come a rivelare con la densità più pura dell’elemento apparentemente più inanimato della
terra, la roccia, o il marmo in questo caso, che cielo e terra sono una cosa sola, così come una cosa
sola sono corpo e spirito, umano e divino, finito e infinito…
Ovunque, riflessi sfuggenti richiamano l’attenzione verso un particolare che la luce modifica
rapidamente, facendo credere che tra le lucide pareti creature fiabesche, fate, angeli o anche
maranteghe, sorveglino attraverso occhi luminosi, ma non visibili ad una coscienza limitata come
quella umana, che chiunque si addentri in tale meraviglia porti con sé il rispetto dovuto a ciò che la
natura ha generato solo per mostrare quanto meravigliosa sia l’opera del grande artista… forse per
tale ragione queste grotte sono di così difficile accessibilità all’uomo, perché a pochi è concesso di
vedere oltre ciò che il proprio limite concede. Osservo meravigliato e attendo… attendo che uno spirito
mi conceda il consenso di congelare in un’immagine la sua essenza, affinché il mio intervento profano
in un tempio sacro della natura non possa divenire sacrilego. Sono qui per questo, per fare fotografie,
e qualcuno osserva stupito e magari irritato che non mi accinga a fare il mio lavoro… avremo solo
226
questa occasione, ma io sto in silenzio e in contemplazione… chiudo gli occhi e non oso pensare a ciò
che i colleghi della squadra ipotizzano di me… il luogo è troppo sacro per mancargli di rispetto. Il
silenzio mi avvolge, tra i costoni della cattedrale risuona solo il mormorio del mare contro le pareti di
marmo e io sto in silenzio… poi percepisco la carezza sul viso, apro gli occhi e vedo ciò che mi
chiama. Alzo l’obiettivo, inquadro il soggetto, ringrazio e poi… lascio scattare l’otturatore… forse la
più bella foto della mia avventura in questo viaggio terreno… altri richiami poi mi attirano, gli spiriti
della grotta sono riconoscenti del mio rispetto e si concedono agli scatti, mi chiamano e si mostrano in
riflessi, in lievi suoni, in visioni… poi si fermano e cessano i loro inviti… apprendo che è tempo di
chiudere, sigillo l’obiettivo, i colleghi mi osservano ma non commentano e per un momento percepisco
pure in loro la necessità di rispettare la cattedrale. Chiudo gli occhi e congiungendo le mani al petto
mi inchino agli spiriti della natura… qualcuno mi imita… forse, qualcuno ha compreso…”
La lettera finiva così, nella flebile voce di Vanessa che aveva sugli occhi umidi segni di commozione,
mentre io di nuovo ricordavo quando Demetrio mi aveva descritto il suo stile fotografico al vecchio
mulino, e ripensavo alla meraviglia che avevano saputo esprimere quelle fotografie che io avevo
pensato fossero state prese da prospettive errate. Pensai a dove avrei potuto trovare le foto scattate a
quelle cattedrali di marmo, e se pure io avessi potuto vedere in quegli scatti gli spiriti della natura…
ma sapevo che ormai io tali spiriti non li avrei più visti, sentiti ne percepiti, nemmeno nell’incanto
della natura stessa … non li avrei visti nemmeno se mi fossi recato di persona in quelle cattedrali
perché io non stavo tra quei pochi ai quali sarebbe stato concesso di vedere oltre il proprio limitato
concetto umano …
Guardai Vanessa costringendomi a trattenere la stessa commozione che era in lei.
-Grazie- le sorrisi. Lei represse le lacrime mentre il sole ormai calava rapidamente. Ripiegò la
lettera, la ripose nello scrigno e mi fissò con i suoi profondi occhi blu.
-Mi dispiace signor D’amanti- mi disse con una sincera tristezza nell’animo, e io capii che si riferiva
a tutto ciò che era avvenuto in quei pochi mesi. Compresi come si sentisse responsabile di una colpa
che non aveva ma che sentiva di possedere solo perché qualcuno che si riteneva al di sopra di ogni
condizione gliela aveva consegnata. E capii cosa significava essere vittime e schiavi allo stesso tempo.
“Non preoccuparti, non è colpa tua” avrei voluto dirle, ma tutto ciò che riuscii a fare fu un sorriso,
forse il primo di sincero da talmente tanto tempo che non ricordavo più quando fosse stato l’ultima
volta che avevo percepito in me tale sincerità, e per la prima volta, senza dire niente che
comprendesse esigenze di conforto, nella banalità più grande con cui le risposi riuscivo a dare il
migliore dei conforti che mi fosse possibile, perché in quelle uniche parole vi era tutta l’espressione
della mia comprensione.
-Chiamami Tom- dissi con semplice spontaneità priva di ogni malizia. Lei mi guardò reprimendo un
po’ della sua tristezza.
-Abbia cura di lei signor D’amanti- rispose, e io provai un leggero sconforto nel comprendere che
non l’avrei più rivista. Mi limitai a sorriderle riconoscendo nella sua cortesia l’eredità di Demetrio
passare nel suo spirito, e come una percezione di cui non si dovrebbe ma ci si sente sicuri, ebbi la
certezza che in questa vita non avrei più rivisto nessuno di tutti coloro che avevano fatto parte del mio
destino. La osservai voltarsi piano e avviarsi lenta, senza più girarsi. Non era riuscita a chiamarmi
“Tom”. Ma le fui grato per aver mantenuto in quella cortese fermezza, la sua nobile e leale integrità.
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7
Solo tra i fantasmi…
-Tu credi che un demone possa scrivere cose così profonde?- dissi dopo aver concluso il capitolo.
-Io credo che il demonio non sia come ce lo immaginiamo. Né brutto né stupido come chi per un
proprio tornaconto vuole mostrarcelo così. Credo che il demonio che dobbiamo veramente temere sia
quello nascosto in noi, pronto ad emergere, facile alle tentazioni ma soprattutto, abile nell’inganno e
nell’opportunismo. E poi io non ho detto che Demetrio fosse un demonio, ho detto che potrebbe aver
fatto un patto col diavolo-.
-E quindi, secondo te, noi staremmo per svelare questo patto? E una volta scoperto l’inganno che cosa
succede?-Chi può dirlo, forse il diavolo chiede altre anime in cambio della sua…-E sarebbero le nostre?Non mi rispose, ma percepivo come in lei qualcosa stava mutando e temevo che una certa suggestione
cominciasse a possederla. La guardai, e ripescando da una conoscenza che non sapevo dove avevo
acquisito ma che sapevo aver scoperto forse in qualche film o sentito dire di sfuggita da qualcuno
incontrato quasi casualmente, tentai di ricondurla nella realtà concreta rivelandole quello che intendevo
come una sorta di mistero protettivo.
-Ho sentito dire che per restare vittima di queste cose ci si deve credere, ma visto che noi siamo
realisti, ci possiamo ritenere al sicuro- cercai di tranquillizzarla.
Lei però mi fissò con occhi nei quali veniva espresso un concreto timore -ma io ci credo in queste
cose- rispose, e la sua espressione era talmente sincera, che un timore allarmistico mi colse
impreparato, al punto che non riuscii a rispondere. La osservai muoversi lenta, con un quasi
riverenziale timore profano, e allontanarsi silenziosa.
-Ceniamo assieme?- le dissi giacché non avevamo ancora mangiato niente.
-No- mi rispose -sono troppo stanca, vado a dormire- rispose, e io restai incerto ad osservarla
allontanarsi con un’insolita apprensione che mi assaliva. Dopo un po’ entrai e mi recai nella sala da
pranzo. Il cameriere che si avvicinò mi domandò se ero solo quella sera. Risposi di sì informando che
la signora non si sentiva bene. L’altro sorrise solo per compiacere, poco interessato ai motivi della
mancanza della mia compagna. Ordinai un omelette e dell’acqua, nemmeno io avevo tanto appetito, poi
osservai qualche tavolo più in là il rappresentante in nero che si era tolto il cappello e non era per niente
calvo, ma grigio. Con me, era l’unico ospite della sala.
Finita la cena uscii all’aria aperta, sedetti ad un tavolo sulla veranda, ordinai un caffé e mi accesi una
sigaretta. L’aria era calda e stranamente la statale deserta. C’era un’insolita calma, quasi surreale, nella
quale solo qualche timido grillo osava sfidare il silenzio. Osservai le nuvole di fumo prodotte dalla mia
sigaretta e con un’ironica fantasia infantile, cercai di intercettare qualche illusoria figura. Le classiche
scie di fumo prodotte dalle sigarette, mi facevano pensare a code di animali che si agitavano nel vuoto
e poi svanivano nel nulla, incapaci di dar forma ad un concreto corpo, ma poi, alla terza o quarta
sigaretta accesa, non ricordo né quante ne avevo fumate né da quanto tempo me ne stavo lì da solo sulla
veranda, ebbi come la sensazione di vedere qualcosa di diverso nelle sagome che sembravano
distogliere la mia memoria dai pensieri di quei giorni come se la mia stessa mente fosse stata
trasportata altrove, in una sorta di paese delle meraviglie, e le scie di fumo si trasformarono in qualcosa
simile a rombi.
Sorrisi per quel cambiamento e subito soffiai dell’altro fumo come se immaginassi di poter dipingere
con le sue nuvolette. Ciò che avvenne fu molto suggestivo, ma credo che la maggior parte della
suggestione fosse stata introdotta dalla mia sconosciuta immaginazione che non sapevo di possedere.
Tre scie di fumo si innalzarono e attraversarono i rombi non ancora dissolti, poi la nuvola più densa si
unì all’insieme e per un attimo, ebbi la sensazione di vedere formarsi nel vuoto un vascello
evanescente, che si smaterializzò in un istante e si dissolse, lasciandomi il sorriso generato
dall’illusione del fantasma.
Era tardi quando andai a dormire e prima di coricarmi osservai il fascicolo, rendendomi conto che
ormai mancavano poche pagine ancora. Forse il giorno successivo saremmo riusciti a terminarlo.
Non so quanto posso dire se le allucinazioni tra gli stati alterati di sonno e veglia della notte che
trascorsi si potessero definire sogni, non avendo mai avuto ricordo dei miei sogni.
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Benché mi fosse stato detto per certo che tutti sognavamo, non potevo affermare con certezza se le mie
erano allucinazioni vigili o sogni incerti, tenendo conto anche del fatto che avevo avuto decisamente
difficoltà ad addormentarmi, forse per la troppa nicotina e il troppo caffé. Ciò mi faceva sembrare di
aver dormito solo per qualche breve e alterno periodo il che non mi permetteva di essere in grado di
affermare d’aver davvero dormito, ed era in quei brevi periodi che nella mia mente si formavano
allucinazioni fatte di ricordi dell’infanzia, in cui la visione di una farfalla che si posava su un fiore, del
quale non pensavo di aver mantenuto un vero ricordo ma piuttosto una irrilevante memoria di una
circostanza osservata superficialmente tante volte senza porvi particolare interesse, veniva quasi
schiacciata e sostituita dalla forma di un piede possente che indossava calzari che si potevano definire
da antico guerriero. Poi mi coglieva lo stato di veglia con annesso mal di testa, la stanchezza e le
palpebre che tornavano a chiudersi per inoltrarsi in quello stato confusionale dove il suono di spade che
si scontravano tra loro sotto la forza di braccia energiche, si fondeva al rintocco di campane. Quindi di
nuovo la veglia e poi l’oscurità nella quale prima delle allucinazioni apparivano scintillanti ombre che
brillavano di una luce purpurea e mai veramente luminosa, ma che si ampliavano come cerchi generati
da un sasso caduto in uno specchio d’acqua e si espandevano sempre più fino a svanire nel vuoto
inconsistente di quell’oceano oscuro che era la mia mente. Non so quante figure fossero apparse in
quelle allucinazioni, vidi guerrieri che sembravano divenire sacerdoti che portavano in mano fiaccole,
che a loro volta diventavano candele sospese nel vuoto e che poco dopo sembravano illuminare l’antro
di un luogo tetro, oscuro… sentii rumori fastidiosi, ronzii di insetti che solo per pochi secondi si
trasformavano in piacevoli canti di grilli o gracidare di rane, per essere poi sostituiti da ruggiti veri e
propri… in una certa visione mi parve di camminare su un tappeto di serpenti e in un'altra di essere
circondato da migliaia di libellule dalle ali luminescenti… mi vidi all’interno di un bosco oscuro,
sebbene tutto di quelle allucinazioni fosse avvolto da una lugubre ombra di nebbia che sembrava
offuscare ogni cosa in un opaco fumo che sapeva di antico. Odori di legno, muschio, cenere, erba di
prato e acqua che scorre si confondevano ad altri odori meno naturali, fatti di plastica, gomma bruciata,
idrocarburi, ferro arrugginito e altri ancora e solo infine, dopo un tempo che mi parve esageratamente
lungo come fossero passati anni, il sonno senza sogni o allucinazioni mi aveva rapito, e come un tempo
in cui non avevo alcun singolare tormento nella mente, mi svegliai che il sole già illuminava il giorno
da ore.
Osservando l’orologio imprecai vedendo che mancava poco a mezzogiorno. Per un momento mi parve
di essere tornato alla mia vita normale e quasi mi sentii sollevato al pensiero che forse, per la prima
volta in vita mia, avevo veramente sognato e niente di ciò che era avvenuto era reale. Ma poi mi resi
conto che il letto in cui stavo non era il mio, ma quello di una stanza d’albergo. L’insieme
dell’ambiente me ne diede conferma e con essa mi rigettò in quella realtà che avrei tanto desiderato
essere un sogno. Imprecai di nuovo perché mentre i miei ricordi si ricomponevano e prendevano il
posto delle allucinazioni che già cominciano a svanire dalla mia memoria, pensai che Felona questa
volta non mi avrebbe perdonato l’insensibile brutta abitudine.
Passando davanti alla porta della sua camera notai che il classico cartello “non disturbare” non era
appeso e rinunciai subito a quella che già di per sé era una flebile speranza che come il giorno prima si
fosse addormentata pesantemente e fosse ancora tra le coperte del suo letto. Scesi le scale e mi diressi
verso la sala da pranzo certo di trovarla ad attendermi, ma al tavolo dove eravamo soliti sederci non
c’era nessuno, sebbene il posto fosse apparecchiato. Diedi uno sguardo veloce in giro, notando di
sfuggita che nella sala pranzava con una tranquillità quasi impensabile solo l’uomo in nero giunto la
sera prima. I suoi movimenti erano di una lentezza incredibile e ogni volta che inghiottiva un cucchiaio
di minestra, pareva gustarla come se non avesse mai mangiato nulla di tanto saporito. Mi disinteressai
dell’uomo e preoccupato andai verso il banco dell’accettazione dove non incontrai il solito antipatico
custode ma, con mia sorpresa, il loquace e per un certo senso simpatico custode che avevamo
incontrato il primo giorno e che ci aveva parlato di come Valbordi fosse decisamente più interessante di
Frolìa. Fui felice di non dover sopportare il solito irrisorio ghigno e con un po’ d’ansia domandai a lui
informazioni.
-Mi scusi- esordii distraendolo dall’opuscolo che stava leggendo.
-Sì- rispose alzando la testa e osservandomi con uno sguardo cortese e affabile, che certamente si
addiceva a uno che svolgeva quel lavoro ma che non sembrava per nulla forzato, come se tale cortesia
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non fosse la costretta gentilezza imposta dagli obblighi della sua professione, ma fosse sincera e
spontanea. Ad ogni modo quel sorriso affabile ebbe la capacità di tranquillizzarmi e con altrettanta
cortesia le domandai se aveva visto Felona, indicandola ovviamente come la signorina della stanza 411.
Il sorriso del custode si accentuò -la signorina Bussola?- disse chiamandola professionalmente con il
cognome col quale io non l’avevo mai nominata -sì- disse -è scesa che avevo appena preso servizio,
molto presto stamattina. Mi ha pregato di consegnarle questa- estrasse una busta da sotto il banco e me
la porse.
Osservai lo strano, perché inatteso, dono e, confuso balbettai -ma che cosa significa? Dov’è adesso?domandai al cortese usciere.
Il suo sorriso si affievolì come se percepisse che si stava creando un imprevisto non valutato -beh, la
signorina ha pagato il conto della camera e poi è andata via. Mi ha pregato di chiamarle un taxi ed è
uscita-.
-Andata via?- ripetei con aria idiota come se non avessi capito. La mia sorpresa dovette far
comprendere al commesso che tale condizione non era prevista ma con professionalità non osò
intromettersi in quella che doveva valutare una storia finita male.
-Posso fare qualcosa per lei?- si limitò a domandarmi.
Lo guardai come se fosse la prima volta che lo vedevo e senza riuscire a nascondere il mio stato
d’animo sconvolto mi girai e risposi -no grazie- ma quasi non me ne resi conto. Mi andai a sedere al
tavolo e pensando a mille cose senza senso, aprii la busta. Il cameriere si avvicinò al tavolo e domandò
se volevo ordinare.
-Solo un po’ di minestra- risposi inconsapevole, forse condizionato dal fatto che prima avevo
osservato l’uomo in giacca nera gustare una specie di brodo, quindi aprii la busta. Dentro c’era una
lettera, e una strana carta. Iniziai a leggere e nemmeno mi accorsi del piatto di minestra fumante che il
cameriere mi posò davanti.
“Caro Donato” iniziava la lettera “sono stata sveglia tutta notte a pensare, e alla fine ho capito che la
cosa migliore da fare è questa. So che non riuscirai a capirmi e nemmeno a perdonarmi, ma questa
vicenda è diventata troppo traumatica. Ho capito di aver subito troppe influenze e di essermi lasciata
troppo suggestionare da ciò che abbiamo vissuto in questi giorni. Ma quello che ho capito veramente, è
che tutto questo non è avvenuto per una banale coincidenza. Ora non sono nemmeno convinta che quel
documento fosse destinato a te. Ho avuto modo di riflettere molto e di indagare a fondo dentro di me
attraverso i molti ricordi che tutto ciò ha saputo risvegliare in me. Non so in che modo, e non saprei
nemmeno come spiegartelo, perciò mi limiterò a dirti che qualcosa, chiamala sensazione, chiamala
percezione, presentimento o anche semplicemente follia, mi spinge a ricercare qualcosa che temo non
abbia nulla a che fare con te e che non potrei trovare se restassimo assieme. Ho capito che le nostre
strade si sono intrecciate per una ragione, ma che per la stessa ragione ad un certo punto avrebbero
dovuto separarsi e sono certa che quel momento sia giunto. Io so solo che qualcosa mi chiama e che
devo scoprire di che si tratta, ma temo che per me non ci sia altro da sapere… sono certa che troverai
ciò che ancora ti manca nelle ultime pagine del documento, ma per me restare significherebbe solo
perdere l’occasione, o come preferirebbero dire i più teatrali, non aver colto il momento. Sento che se
non seguo il mio istinto e aspetto, quel singolo momento che si potrebbe interpretare come l’attimo
preciso in cui lanciare i dadi, andrebbe perso. Ti chiedo scusa per questa fuga, ma ti lascio qualcosa che
non so in che modo potrà esserti utile. Nulla è un caso e tra le cose che ho capito questa notte,
indagando, vi è anche la consapevolezza che in quel documento tutto ha una sua particolare
motivazione, perfino il numero delle sue pagine. La struttura del testo, infatti, sembra scritta in modo
tale da poter far sì che le pagine risultanti siano quelle desiderate. Non so quanto la mia intuizione
possa esserti d’aiuto, ma tra ciò che potrei dedurre da questa indagine mi sovviene un’ispirazione… ma
non voglio condizionarti, giacché, come già espresso, la mia via probabilmente non combacia con la
tua. Quindi ti lascio questa, come ispirazione e come ricordo del nostro incontro. Non odiarmi. Ciao.”
Restai non so quanto tempo con la lettera tra le dita, e quando osservai la strana carta che mi aveva
lasciato, non sapevo né comprendere di che cosa si trattasse, né perché me l’avesse lasciata. Era una
banale carta da gioco, di cui non conoscevo né origini né senso. Raffigurava un angelo con le braccia
aperte e sotto due figure, una maschile e una femminile, entrambe nude separate da un albero su cui si
attorcigliava un serpente e subito pensai ad una riproduzione della storia di Adamo ed Eva contenuta
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nel libro della Genesi di cui spesso avevamo parlato. Provai a fare mille congetture, ma nessuna aveva
senso e malgrado i molti riferimenti simbolici su cui la psicologa mi aveva istruito, non riuscivo a
capirci niente. L’unica cosa che comprendevo era d’essere affranto e solo dopo parecchio tempo, decisi
che forse era giunto il momento di chiudere con l’assurdo documento, consapevole del fatto che quella
storia mi avrebbe lasciato solo due cose: un prolifico conto in banca che non meritavo, giacché ero
consapevole che non avrei capito nulla di quanto mi era accaduto, e l’amarezza per aver coinvolto e
avviato verso chissà quale assurdità una giovane ragazza che ora sapevo di aver perso definitivamente.
Sospirai e in silenzio, presi a leggere quello che sembrava l’atto finale del racconto: “solo tra i
fantasmi”
…E così tutto si era concluso. Demetrio era andato via per sempre e una di quelle certezze di cui non
si conosce l’origine ma si sa che è concreta, mi faceva capire che non l’avrei più rivisto. Virginia era
partita, probabilmente alla ricerca di un destino che non avrebbe mai compreso, portandosi via quella
figlia che non avrei mai potuto riconoscere e alla quale non potevo dare nulla. Anna mi aveva lasciato,
e con lei avevo perso anche Dennis pure al quale non potevo spiegare le motivazioni della mia
condizione. E infine anche Vanessa era sparita per sempre dalla mia vita, nella quale restavano solo
oscuri e tormentanti fantasmi che dopo tanto aver cercato di seppellire in un cimitero segreto, avevano
rotto i sigilli delle loro catene attraversando le barriere delle tombe che io avevo eretto, senza pensare
che per spettri di quel genere non vi erano lapidi incontenibili. Ero rimasto solo con i lamenti delle
sirene, delle ninfe dei prati, dei demoni delle guerre passate, degli spiriti inquieti mai assecondati,
delle maranteghe e di quel cuore notturno che non sentivo più battere. Fu così che cominciai a
cercarli. Andai sulla collina che non esisteva più, e nessun spirito si fece sentire. Andai al mulino
sperando di poter sentire le voci degli spiriti benevoli, ma non ero più in grado di udirli ormai, o forse
loro non volevano parlare con me. Una notte andai come un ladro perfino nel giardino delle sorelle di
Demetrio, alla ricerca della voce del vellutato animaletto, ma quello era andato via già da tempo.
Percorsi le rive del Tregnon e mi fermai davanti a quel ponte che dopo quello costruito al parco non
serviva più e che le intemperie avevano ormai ridotto a un rudere barcollante, insicuro e instabile. Lo
guardai a lungo, ma senza osare attraversarlo poiché un cartello che lo definiva pericolante avvertiva
di non percorrerlo. Infine mi allontanai da Casterba e andai lontano, in un luogo che, se non fosse
stato per Virginia, nemmeno avrei saputo dove trovare: le grotte di Oliero, dove lei mi aveva
raccontato di aver vissuto una specie di visione mistica. Ci andai in un periodo di poca affluenza
turistica e, corrompendo i custodi e le guide del parco, riuscii a farmi condurre nelle grotte in
completa solitudine.
Mi lasciarono solo, come richiesto, per qualche decina di minuti. Non erano grandi grotte, anzi,
erano così ridotte che per visitarle non occorrevano più di quindici, venti minuti, e io usai quel tempo
per restare in assoluta contemplazione. Era vero ciò che Virginia aveva detto, sembrava di essere
all’interno di una cattedrale di roccia dove le stalattiti erano colonne di varie dimensioni e le levigate
vie di calcare riflettevano una strana luce che dava la sensazione di un pavimento intagliato e poi,
c’erano quelle che le guide definivano “macchie di leopardo”, ossia residui di alghe lasciate dal
crescere e calare delle acque all’interno della grotta. Strane macchie che davano l’impressione di
geroglifici, come incisioni che dovevano raccontare qualcosa, se solo fossi stato in grado di decifrarli.
Alla fine però compresi che tali incisioni erano solo la casuale impronta lasciata da elementi della
natura, che non potevano raccontare nulla se non una particolare conformità geologica che poteva
interessare, appunto, solo i geologi.
Così me ne andai anche da lì senza aver risolto nulla e cominciai a passare in solitudine le mie notti
rinchiuso nella solitaria, grande e ormai inutile dimora e, prima che la mia solitudine mi portasse al
definitivo deperimento, cedetti ogni mio possedimento. Tenni per me solo la dimora dei fantasmi come
a voler trattenere dei ricordi solo per potermi punire e lasciai tutto ciò che avevo ad Anna. Dopo un
po’, rinunciai perfino agli incontri con mio figlio concedendo ad Anna di fare in modo che potesse
dimenticarsi di un padre instabile e senza onore, e lasciai che l’oblio mi divorasse lentamente.
Qualcuno ha detto, e molti lo vogliono continuamente ripetere, che nulla avviene per caso. Io ho
smesso di crederci da molto tempo, ma se così fosse, quanto è avvenuto a me, se non è avvenuto per
caso, deve avere per forza un senso di punizione. Forse hanno ragione quelli che pensano che quanto
si fa in una vita verrà restituito o pagato in un'altra… io in questa vita ho avuto molto sul piano
231
professionale, ma alla fine mi è stato sottratto tutto, e con questo spero di aver pagato ogni mio debito,
sia questo dovuto ad Adamo ed Eva, al Cherubino con le spade fiammeggianti, a Glauco o Diomede, a
Ruggero, Orlando, Angelica, Perseo o Andromeda. Ai draghi o ai fantasmi, alle maranteghe o agli
spiriti della natura, a Demetrio o chi per lui… e l’unica cosa in cui spero adesso, è solo un po’ di pace,
seppure qualcosa mi induca a credere che tutto non sia ancora concluso…
232
8
Un ultimo un drink…
Voltai la pagina aspettandomi che nell’ultimo foglio che restava da esaminare mi si svelasse ogni
arcano perché, pur intuendo che il racconto era concluso, contavo su un epilogo che mi svelasse ogni
cosa, o per lo meno, il motivo di tutto quell’assurdo racconto, perché, che tutto si concludesse così non
lo potevo accettare in quanto, di ciò che mi aspettavo non mi veniva smascherato niente… ma dietro
alla pagina contrassegnata col numero 320, non c’era più niente. Solo un semplice foglio bianco con
scritto in piccolo nel lato basso a destra il numero 321, e nemmeno il pensiero che solo per leggere quel
semplice numero compivo il mio dovere e acquisivo il diritto a ritenermi meritevole del compenso
accordato, mi fece sentire svincolato, restandomene così con una tormentata delusione e un vuoto tra le
mani che mi conduceva al singolo pensiero che l’unico scopo del maniaco scrittore sembrava
veramente quello di pagare qualcuno che leggesse il suo folle romanzo confuso e scadente che, se non
fosse stato per le molteplici delucidazioni datemi da Felona, sarebbe stato anche incomprensibile.
Se era di un giudizio quello di cui questo pazzo aveva bisogno, allora avrebbe fatto meglio a rivolgersi
ad un critico letterario che a mio parere sicuramente gli avrebbe consigliato di cambiare mestiere
giacché nemmeno un accademico con una cultura al di sopra delle righe, ma solo un visionario forse,
avrebbe potuto comprendere ciò che aveva cercato di descrivere, se veramente la volontà di descrivere
qualcosa ci fosse stata. Così, adesso, quei trecentoventunomila euro che stavano al sicuro nel mio conto
svizzero mi sembravano ben poca cosa rispetto a ciò che avevo perso e a ciò che non avevo trovato, e
tuttavia, malgrado la mia incapacità deduttiva che mi assicurava che ormai non avevo più nulla da
decifrare né da scoprire perché le mie facoltà limitate non mi avrebbero condotto da nessuna parte, una
sorta di eco rimandava nella mia mente le parole conclusive del racconto in cui l’astruso artista
scriveva che tutto ancora non era finito.
Cercai di soprassedere e dimenticare, convincendomi che se non era tutto finito per lui, sicuramente lo
era per me. Io avevo svolto appieno il mio incarico e quei soldi me li ero guadagnati tutti perché avevo
letto fino all’ultima pagina, compresa quella lasciata in bianco come succede nelle stampe dei migliori
romanzi dove alla fine si va sempre alla ricerca di un qualcosa in più, e lo scrittore non mi dava nessun
altro indizio per cui svolgere una ricerca che, non dovevo dimenticarlo, nemmeno mi era stata
commissionata.
Pensai, “che andasse all’inferno”, lui, la sua identità segreta che non aveva voluto svelare e il suo
stramaledetto e stupido romanzo mediocre e, deciso a saldare il conto con l’hotel e tornarmene a casa,
mi alzai dal tavolo dove avevo letto l’ultimo inutile capitolo e mi recai al banco della ricezione. Notai
con disappunto che non vi era nessuno ma non avendo voglia di infastidire alcunché, decisi che potevo
attendere qualche minuto e approfittarne per scolarmi un ultimo drink. Così mi recai al bancone del bar
dove, con mia sorpresa, osservai l’uomo in nero, solitario davanti ad un bicchiere di qualche cosa.
Ordinai un Burbon con ghiaccio che mi fu servito in pochi secondi e, in seguito al primo sorso, presi il
pacchetto di sigarette per accenderne una ma, con mio disappunto, mi accorsi che il pacchetto era
vuoto. Stavo per imprecare quando una scatola quasi nuova di sigarette strisciò sul banco e giunse fino
a me. Mi voltai e vidi l’uomo in nero sorridermi e fare un gesto a indicare di servirmi. Ringraziai e
presi il pacchetto tirando fuori una bionda, poi presi i fiammiferi, ma subito il barman mi riprese.
-Mi scusi signore, ma non si può fumare all’interno del locale- mi ricordò con gentilezza.
“Dannazione” pensai, ma cordialmente annuii e lo ringraziai. L’uomo in nero si avvicinò.
-Beve Bourbon americano?- mi domandò. Non credevo di essere in vena di chiacchierare, invece lo
guardai con affabilità e risposi.
-Un drink perfetto, specie se accompagnato da una buona sigaretta, peccato che qui…-Si può uscire- mi propose -anche a me piace farmi una sigaretta dopo un buon scotch- prese il
pacchetto e si avviò. Io ero appena rientrato e non ero molto convinto di voler tornare sotto il sole, ma
avevo tra le mani un bicchiere di ottimo Bourbon e quella era probabilmente l’ultima sigaretta che avrei
fumato prima di sera, così lo seguii.
Lo vidi sedersi ad un tavolo dove un albero gettava un po’ d’ombra e mentalmente lo ringraziai. Lo
strano tizio mi porse l’accendino e io accesi la sigaretta offertami.
233
-Non discuto sul Bourbon americano, ma secondo me non c’è niente di meglio di uno scotch- alzò il
bicchiere con il liquido marrone all’interno -un buon scotch scozzese invecchiato venticinque anni che
ti fa sentire il sapore del legno in cui è stato rinchiuso per tanto tempo-.
Lo guardai e sorrisi osservando che nel suo drink non c’era ghiaccio e pensai che con quel caldo, o era
matto o era un vero intenditore che non apprezzava annacquarne il sapore.
Prese a sua volta una sigaretta e l’accese, poi mi porse la mano -mi chiamo Lucio. Lucio Ferro- si
presentò.
Mi scappò un monosillabo ironico che bloccò un’imminente sarcasmo -chissà quante ironiche battute
avrà dovuto sopportare- dissi per giustificare la mia apparente sgarbatezza.
-Beh, soprattutto da ragazzo, ma non ci faccio più molto caso ormai. Anzi, in certi momenti è ottimo
per rompere il ghiaccio-.
-Davvero? Rompere il ghiaccio con chi?- domandai, non per curiosità ma solo per una gentile forma
di cortesia nell’avviare un dialogo che non sembrava avere nulla di interessante e che, in quel
momento, probabilmente, era l’unico tipo di dialogo che potevo sostenere.
-Sono un agente assicurativo, sì, mi occupo di assicurazioni. Un articolo difficile da trattare e ho a che
fare con tante di quelle persone che non sempre è facile trovare il modo giusto per iniziare una
conversazione amichevole che poi deve trasformarsi in una conversazione d’affari. Le battute ironiche
sul mio nome spesso introducono la prima parte-.
-Capisco. Quindi ha saputo fare di necessità virtù-.
Sorrise -e lei invece, perché sperduto tra queste desolate valli?-Affari- risposi con superficialità, non sapendo come giustificare la mia presenza lì.
-Di che si occupa?- non notai che il tono della sua voce si era fatto più cupo e serio, come se per lui
fosse veramente importante sapere la motivazione della mia presenza lì.
-Indagini- dissi, ma subito dopo me ne pentii.
-È un investigatore?- si incuriosì. Lo guardai cercando di prendere un po’ di tempo per pensare a una
frottola da raccontargli non avendo voglia di imbattermi in curiosi che volevano sapere come era la vita
di un investigatore privato, pensando che fosse movimentata e avventurosa come quelle che venivano
proposte nei film americani, ed ebbi occasione di osservare il suo volto che sembrava bruciato dal sole
come se fosse uno che passa giornate intere a prendere la tintarella. Doveva essere sui cinquanta a
giudicare dalle rughe sotto gli occhi che, tuttavia, potevano trarre in inganno visto lo stress cui doveva
essere sottoposta la pelle nella continua abbronzatura. Ma i capelli grigi e la piccola cornice di barba
con cui adornava il mento, anch’essa grigia, non potevano essere ingannevoli.
-In un certo senso. Faccio indagini di mercato. Sa, le agenzie mi assumono per capire quanto si possa
investire su un territorio in fatto di commercio, e visto che da queste parti sembra ci sia in atto uno
sviluppo commerciale a livello turistico, sono qui per rendermi conto dell’eventuale potenziale del
territorio-.
Mi stupii per quanto bene mi era venuta la bugia, seppure non fossi totalmente persuaso della
convinzione del mio interlocutore che si accigliò e mi guardò con sospetto.
-Deve essere un lavoro impegnativo- sorseggiò il suo scotch -di responsabilità, voglio dire-.
-Sì, in effetti- risposi senza aggiungere altro.
-E quell’aria affranta, sta ad indicare che le prospettive non sono buone?- mi domandò, e la sua mi
parve una domanda del tutto innocua, da vero curioso o da vero solitario che ogni tanto sente l’esigenza
di scambiare quattro parole con qualcuno.
-In realtà le prospettive apparirebbero buone. No- continuai senza sapere bene il perché -in realtà sono
un po’ giù di morale perché stamattina la mia compagna se ne è andata via- confessai.
Lo vidi di nuovo accigliarsi -la ragazza del taxi?- disse con un’accentuata sorpresa che non superò la
mia.
-Lei l’ha vista?- gli domandai come se mi fosse stato rivelato il segreto dei misteri dell’area
cinquantuno.
-Se allude alla giovane che stava con lei ieri sera sì, anzi, abbiamo scambiato quattro chiacchiere
assieme mentre attendeva-.
-Davvero, e che cosa le ha detto?234
Mi guardò con sospetto -niente di importante. Abbiamo parlato del più e del meno come facciamo io e
lei. Lei però non mi ha detto di essere un agente di mercato. Ha detto di essere una psicologa e che
doveva incontrarsi con qualcuno. Io pensavo che fosse andata via per una questione di lavoro, non
credevo che voi due foste… pensavo fosse sua figlia-.
Mi portai una mano al sopracciglio e intuendo l’allusione con uno sbuffo ironico cercai di rimediare
all’incomprensione, ovvero, a quella che volevo far apparire come un’incomprensione.
-No, ma non è come crede. Sa, io mi occupo della parte strutturale dell’indagine, lei è più rivolta alle
risorse umane, solo che è agli inizi ed è un po’ permalosa così…-Ah, capisco- disse con la classica superficialità che denotava come non credesse ad una sola parola di
ciò che avevo detto. Sospirai lasciando intuire che non volevo approfondire, poi, come se fossi stato
sorpreso da un lupo mannaro in una notte di luna piena, sussultai e con impulsività interrogai -aspetti,
ha detto che doveva incontrarsi con qualcuno?L’uomo mi guardò con un sospetto strano negli occhi, quasi fosse stato più sorpreso dal fatto che non
lo avessi chiesto prima.
-Sì, ha detto che stava aspettando un taxi che l’avrebbe portata in un posto perché doveva incontrare
una persona-.
-Che posto? E chi era quella persona-.
Allargò le braccia -amico mio, io non sono invadente fino a quel punto. Non l’ho chiesto e lei non lo
ha detto, anche perché il taxi è arrivato poco dopo- confessò.
Mi sentii oppresso e rassegnato, e forse a causa della mia incapacità di ragionare coinvolsi lo
sconosciuto più di quanto avrei dovuto fare.
-Lei sa cos’è questa?- gli mostrai la carta che Felona mi aveva lasciato.
La guardò senza gran meraviglia -è una carta dei tarocchi- mi spiegò.
-Prego?- dissi lasciando intendere che non capivo.
-Un arcano, uno di quelli che certe persone usano per predire il futuro. Cose da ciarlatani ma che
sembrano far guadagnare un bel po’ di soldi-.
-E cosa significa?- domandai.
-Ah, nello specifico non saprei, ma è evidente che si tratta di una dichiarazione-.
-Dichiarazione? Ma che cosa vuol dire?-Amico mio, se quella non è sua figlia, la cosa mi pare abbastanza evidente: sopra la carta c’è scritto il
nome dell’arcano, non vede? Gli amanti. Non so che cosa sia avvenuto tra voi due, ma credo che quella
ragazza si sia innamorata. Forse non doveva incontrarsi con nessuno. Forse stava solo scappando da
qualcuno che, in qualche modo deve averla respinta- bevve la rimanenza del suo scotch, poi sorrise.
-Amico mio, fossi in lei, mi darei da fare per trovarla se la sua aria affranta mi rivela ciò che penso.
Ad ogni modo buona fortuna-. Disse, e alzandosi se ne andò via.
235
9
La doppia faccia della perfezione…
Osservai con stupore la carta e iniziai ad esaminarla più dettagliatamente. Era vero che sopra la figura
stava scritto così: “Gli manti”. Osservai quindi meglio nel dettaglio e mi accorsi che sotto, composto in
cifre romane appariva un numero: il sei.
Improvvisamente mi sovvenne l’intuizione di cui Felona faceva accenno nella lettera che mi aveva
lasciato, in cui diceva che perfino il numero delle pagine non doveva essere casuale e io riflettei su
quell’ultima pagina del documento che portava scritto null’altro che il numero conclusivo del
dattiloscritto: 321. Mi allontanai e, in disparte nella sala degli ospiti tirai fuori il documento per
osservarlo. Mi resi conto che se il racconto fosse stato scritto con caratteri normali non sarebbero state
necessarie tante pagine e intuitivamente concordai con Felona: neppure quello era un caso. L’autore
aveva di proposito scritto in quel modo, in maniera da far sì che il fascicolo fosse composto da un
numero di pagine precise e mi domandai perché. Ma l’intuizione successiva che fu quasi più rapida
della domanda mi stava già conducendo alla risposta. Non ero mai stato una cima in matematica, ma
non ci voleva molto a sommare le tre cifre che componevano le pagine del racconto e con una sorpresa
minima mi accorsi che tre più due più uno dava come risultato sei. Tutto quel racconto era collegato al
numero sei, e Felona mi aveva detto che ogni cosa in questo mondo aveva un significato simbolico e
forse, ricordandomi di alcuni dialoghi fatti non so più con chi su tematiche che coinvolgevano sistemi
numerologici legati alla cabala, compresi che i numeri forse più di ogni altra cosa di significati
simbolici ne avevano fin troppi. In particolare, forse perchè lo avevo visto in qualche film, sapevo che
il sei era un numero spesso accostato al diavolo. Un brivido mi colse giacché negli ultimi dialoghi
relativi alla nostra ricerca ci eravamo imbattuti nell’argomento “diavolo”, seppure in un modo che
sembrava discordarsi da tutto ciò che ci aveva condotto fino a Casterba e per quanto riluttante a voler
accettare determinate condizioni, l’imprevisto di quel numero ora mi metteva a disagio. Tuttavia, con
l’entusiasmo di chi ha appena fatto un’importante scoperta, mi apprestai a riprendere la mia ricerca. Era
evidente che c’era qualcosa che dovevo scoprire legato a quella carta e seppure le prospettive non
fossero luminose ma piuttosto oscure, la nuova traccia stava già agitando in me una certa adrenalina
eccitante, un turbamento che non potevo ignorare. Felona aveva intuito qualcosa, poi per una ragione
che mi sfuggiva se ne era andata, come se non volesse, per timore o addirittura per protezione,
coinvolgermi. Aveva scritto in quella lettera che lei doveva seguire una strada e io un'altra, ma l’indizio
che mi aveva lasciato ci teneva ancora legati l’uno all’altra e io, al contrario di lei, non credevo che le
nostre strade si dovessero dividere, non ancora per lo meno. Il problema era che io non sapevo niente di
tarocchi, numeri e cose del genere, e sospettavo che nemmeno l’uomo in nero ne sapesse più di quanto
mi aveva già detto. Corsi quindi al banco della ricezione, ma invece di chiedere il conto mi rivolsi al
custode gentile e gli domandai -avete una biblioteca qui?-Nell’albergo? No signore. Ma ne troverà una ben fornita nel piazzale adiacente al municipio- mi
informò. Senza attendere corsi fuori e con un nuovo entusiasmo mi convinsi che lì avrei trovato anche
Felona.
Uscito di corsa dall’albergo salii rapidamente sulla Mercedes e senza rendermi conto che il piazzale
municipale distava non più di tre chilometri accelerai con foga, facendo slittare e stridere le gomme e
immettendomi sulla statale in un modo tanto avventuroso che se nelle vicinanze vi fosse stata una
pattuglia della polizia oltre ad una sontuosa multa mi avrebbero certamente ritirato anche la patente.
Fui fortunato e non trovai forze dell’ordine in quei pochi minuti di strada ma subito mi si rivelò
l’inutilità dei rischi presi rendendomi conto che la mia frenesia veniva ricambiata dalla mancanza di
parcheggi per cui fui costretto a lasciare l’auto a qualche centinaia di metri di distanza.
Speravo che la biblioteca osservasse orario continuato perché ormai era tardi, e ora imprecavo contro
il mio maledetto vizio di dormire troppo. Se Felona era stata alla biblioteca in cerca di qualche indizio
relativo al numero sei probabilmente era ancora lì, solo per questo speravo nella regola dell’orario
continuato che le avrebbe dato modo di precedermi nella ricerca e potersi così fare burle di me solo per
dimostrare l’inefficienza della mia pigrizia della quale, per una volta, me ne sarei rallegrato.
Mi avvicinai alla porta e spinsi ma, con mia delusa e non sorpresa scoperta, costatai che la porta era
chiusa. All’interno tuttavia vidi una signora che stava catalogando dei documenti. Bussai sui vetri e
attirai la sua attenzione. Questa mi guardò e dal suo sguardo percepii una spiacevole sensazione. Era
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una signora sulla cinquantina dall’aria austera e poco cordiale che dopo avermi osservato tornò a
dedicarsi al suo lavoro ignorandomi completamente. Allora bussai di nuovo con insistenza finché la
vidi interrompere il suo lavoro e voltarsi con aria indignata, annoiata e rigida. Si avvicinò alla porta,
girò le chiavi e aprendo solo uno spiraglio mi informò: -La biblioteca è chiusa, riapre alle quattro
signore. Ripassi più tardi-.
-Mi scusi- la fermai prima che potesse chiudermi fuori -per caso è venuta qui una giovane donna
questa mattina?-.
La bibliotecaria mi guardò sospettosa e subito mi resi conto che non potevo contraddirla. Io ero uno
sconosciuto che si presentava fuori orario e invece di chiedere informazioni su libri o documenti che
erano gli articoli trattati in una biblioteca, domandavo informazioni su persone che l’inserviente non
era autorizzata a fornire. Ma le mie priorità andavano oltre determinati protocolli e proseguii.
-Si tratta di una ragazza giovane, capelli neri, lunghi…- simulai i capelli passandomi una mano lungo
il viso -occhi azzurri, alta più o meno come me… non è di queste parti-.
La signora però mi guardò con maggior sospetto e dedussi che non era convinta di ciò che le dicevo.
-Siamo ricercatori universitari- iniziai quindi a cercare giustificazioni più credibili -io a dire il vero
sono un docente…- mentii -stiamo facendo un’indagine territoriale sui fiumi di questa zona e
cerchiamo informazioni di tipo storiche relative ai paesi coinvolti…- istintivamente mi accorsi di avere
con me la busta che conteneva il documento incriminato, dove assieme stava il libro di fotografie
riguardanti Casterba e Valbordi scattate da Demetrio, così per dare più credibilità alla storia mostrai il
fascicolo.
-Vede? Cerchiamo documenti relativi alla vie fluviali del territorio e credo che la mia collega sia
venuta a fare ricerche qui, ho urgente bisogno di parlarle, allora ha per caso visto questa giovane…-Non è venuto nessuno questa mattina- mi interruppe sbrigativamente, certamente poco convinta della
mia spiegazione e con un’aria che faceva presumere che se avessi insistito un altro po’ avrebbe finito
per chiamare le forze dell’ordine. Mi ritrassi istintivamente e l’austera signora si apprestò a chiudere la
porta. Poi però un istinto imprevisto mi condusse ad un altro azzardo che solo dopo avrei dedotto
pericoloso ma coraggiosamente tornai ad affrontare la commessa.
-Un momento solo- dissi -avete dei libri di numerologia?- le domandai facendo chiaramente cadere la
storia del ricercatore geologico.
-Prego?- rispose di rimando l’arcigna.
-Sì, insomma, libri che parlano di numeri, significati, simboli… cose del genere-.
-Certo che ne abbiamo, nel reparto dedicato all’esoterismo, ma non è molto fornito-.
-Mi concederebbe qualche minuto per fare una ricerca? Sarò veloce- assicurai, ma l’arcigna non era
ben disponibile.
-La biblioteca è chiusa le ripeto, torni più tardi- disse.
Riflettei sulla possibilità di renderla più sensibile e a costo di umiliarmi, presi un tono supplichevole.
-Potrei almeno prenderne uno? si tratta di un’emergenza- implorai. La vecchia sembrò intenerirsi per
una lievissima sufficienza, che tuttavia non le permetteva di andare oltre ad un suo ulteriore dovere.
-Dovrebbe avere la tessere della biblioteca per poter prelevare dei volumi, e lei non mi sembra di
queste parti-.
Fui sul limite dell’imprecazione -per favore- implorai di nuovo ed estraendo il portafogli tirai fuori la
mia carta d’identità -posso lasciarle questo documento e anche un deposito in denaro se serve-.
La donna guardò la carta, poi osservò la mia espressione supplichevole.
-Che cosa cerca esattamente?- mi domandò, e io fui colto dal panico dell’impreparato.
-Non saprei, qualcosa sui numeri ma più rivolto al loro significato esoterico che matematico- cercai di
spiegarle.
-Aspetti qui- mi disse. La vidi avviarsi lungo un corridoio e tornare dopo un po’ con un libro dalla
copertina plastificata color bianco in mano. Me lo mostrò dandomi così la possibilità di scoprirne il
titolo: “i misteri dei numeri”. Non so quanto potesse servirmi ma mi parve adatto alla ricerca, sebbene
ancora non sapessi cosa cercavo.
-Grazie, gliene sono veramente molto grato. Lo riporterò oggi stesso- dissi, e allungai la mano per
prenderlo, ma la bibliotecaria ritrasse il libro.
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-Abbiamo solo questa copia, il suo valore è di ventotto euro- mi fece notare facendomi perdere ogni
possibile considerazione di stima che avrei potuto avere nei suoi confronti. Estrassi dal portafogli tre
banconote da dieci e le misi tra le sue mani, poi feci per riporre il mio documento ma l’arcigna fu più
lesta di me e me lo strappò dalle mani.
-Questa la tratterrò io- mi guardò sospettosa -in caso dovessi catalogarla come cliente non affidabilemi disse.
-Una fotocopia non le basta?- rimbeccai allora io.
La donna sorrise perfida -non c’è tempo. La biblioteca riapre alle sedici- mi disse, e senza troppe
cortesie mi spinse fuori chiudendo la porta.
-Bisbetica- sussurrai senza preoccuparmi di far intravedere il labiale attraverso i vetri trasparenti della
porta che stava chiudendo, e il suo sorriso si smorzò in un serio rimprovero dispregiativo.
Restò per qualche secondo ad osservarmi sospettosa, probabilmente ancora pensando di chiamare i
tutori dell’ordine, al che pensai che era meglio allontanarsi e tornare nell’orario di apertura. Guardai
l’orologio al polso che segnava poco oltre l’una e desolato cercai una panchina dove iniziare a leggere
il libro. Il mio sistema di lettura non era certo regolare, in effetti, non sapendo nemmeno ciò che
cercavo, sfogliavo velocemente le pagine dedicandomi inizialmente al sommario per perdermi
rapidamente in una serie di titoli tipo “i nomi delle cifre indiane”, “numeri e teoria dei numeri” “le cifre
e la stampa”, tutte cose che mi apparivano assurde e inutili alla mia ricerca. Mi spazientii e
demoralizzato, pensai che il libro carpito all’arpia non mi sarebbe stato di alcuna utilità e per un
momento mi lasciai tradire dal pensiero che la vecchia strega sapeva ciò che cercavo e mi aveva
deliberatamente sabotato ma poi, mentre stavo per richiuderlo pensando che non ne avrei ricavato
nulla, nello scorrere dei capitoli vidi qualcosa di attinente. Un capitolo che si intitolava “i misteri del
sei e del ventotto”. Del ventotto ovviamente non mi importava nulla, ma quel sei appariva
propiziatorio. Rallegrato sfogliai il libro fino alla pagina indicata dal sommario ed entusiasta presi
subito a leggere, felice di costatare che il capitolo non era poi così lungo. Ben presto però cominciai a
sospettare che per avere un quadro preciso di quello che cercavo avrei dovuto leggere l’intero libro. A
pagina duecentoventicinque, dove iniziava il capitolo cui ero interessato, infatti, si facevano riferimenti
al sei come numero perfetto e ai sui molti riferimenti biblici primo tra tutti la creazione avvenuta in sei
giorni e altri accenni a cose di cui non conoscevo nulla e di cui non sarei comunque riuscito a dedurre
le giuste interpretazioni. L’unica cosa che potevo desumere era che ancora una volta mi imbattevo in
quella misteriosa creazione che stava divenendo quasi una dannazione e iniziai a percepire una certa
avversione verso chi aveva scritto il libro della Genesi con le sue odiose simbologie. Subito dopo si
passava al numero ventotto facendo notare come il primo versetto della Genesi, ancora lei, era
composto di ventotto lettere, corrispondenti al secondo numero perfetto sottolineando poi come anche
lo stesso numero fosse più volte menzionato in altri versi. Ma io di tutto questo non sapevo che
farmene, né sapevo che cosa si intendesse per numero perfetto. Stavo per cedere quando nello scorrere
le pagine a ritroso nella speranza di trovare ciò che cercano di solito coloro che non sanno cosa cercare
nel modo confusionale che non conduce mai a nessuna soluzione, mi imbattei nella definizione di
numero perfetto con cui si indicavano quei numeri che erano uguali alla somma dei loro divisori,
tuttavia la cosa non mi sembrava poi così interessante a livello esoterico. Mi appariva piuttosto un
insignificante studio matematico che mi faceva pensare che in realtà il libro che mi trovavo tra le mani
fosse effettivamente uno studio matematico che non serviva al mio scopo, finché non lessi, quasi per
noia più che altro, che i numeri perfetti erano molto rari giacché, sebbene due fossero molti vicini tra
loro, il sei e il ventotto appunto, per trovarne un terzo bisognava addentrarsi fino al conteggio di
quattrocentonovantasei, i quali a loro volta rappresentavano gli unici tre numeri perfetti compresi tra lo
zero e il mille. Il quarto numero perfetto si trovava addirittura oltre l’ottomila. Per un momento il
mondo dei numeri cominciò ad affascinarmi, e con la mente che probabilmente cominciava a
familiarizzare con la tipologia di comunicazione simbolica, iniziai a pensare che cosa ci fosse di così
perfetto nel racconto che mi era stato donato, o meglio, che cosa ci vedesse di perfetto il suo autore
perché era evidente che se il suo scopo era stato quello di farmi scoprire i misteri del sei e la sua
relazione con la perfezione matematica, era con questo concetto di perfezione che voleva farmi
confrontare. Sei quindi, era un riferimento alla perfezione, dedussi, ma a quale? Per quanto mi
sforzassi, non ci trovavo nulla di perfetto in ciò che mi era stato raccontato. Presi la carta contenuta
238
nella busta che mi aveva lasciato Felona e la osservai. Forse non tutto era relativo al sei, e magari quel
numero indicava proprio la carta stessa, così pensai che forse avrei fatto meglio a chiedere un libro sui
tarocchi. Osservai l’orologio accorgendomi con sorpresa meraviglia di quanto veloce fosse stato lo
scorrere del tempo dal momento in cui avevo iniziato ad entusiasmarmi nella ricerca e che mancavano
solo pochi minuti alle quattro, così mi avviai verso la biblioteca, dove mi sarei fatto restituire i trenta
euro dalla strega e avrei consultato un libro in tutta tranquillità, facendomi beffe della sua impotenza di
fronte all’impossibilità di allontanarmi ancora malamente da un ente pubblico. Prima di avviarmi
provai a comporre il numero di casa di Felona, non avevo quello del suo cellulare, ed era già la terza
volta da dopo che se ne era andata, ma come nelle precedenti occasioni a rispondermi fu la segreteria
telefonica. Chiusi la comunicazione e mi avviai verso la biblioteca cercando distrazione nel prepararmi
psicologicamente ad affrontare la strega della biblioteca. Giunsi che mancavano ancora cinque minuti
alle sedici e notando che la porta era aperta pensai che la strega, o si era presa gioco di me, o a casa non
godeva dello stesso potere che aveva in quella biblioteca e così sfuggiva dalla schiavitù per divenire
dittatrice nell’unico regno in cui potesse sentirsi importante. Mi avviai tenendo il libro bene in vista,
come a voler dimostrare che non ero un ladro , ma quando spinsi la porta ed entrai, mi sorprese
l’accoglienza di una giovane ragazza dai capelli biondi, gli occhi azzurri e un’espressione molto più
cordiale della vecchia strega dell’ora precedente.
-Salve- mi salutò come se per lei non fosse occasionale avere a che fare con clienti mai visti.
-Buon giorno- risposi quasi balbettando per l’imbarazzante sorpresa.
-Posso fare qualcosa per lei?- mi domandò dopo un po’ notando il mio imbarazzato silenzio.
Allora mi ricomposi -sono venuto a restituire questo- le feci vedere il libro -sono passato circa…riflettei sul fatto che avrei dovuto dare troppe spiegazioni se avessi detto che ero stato lì in orario di
chiusura e quindi sorvolai -sono passato stamattina…- dissi, sperando che la strega non le avesse
raccontato del nostro incontro.
-E lo ha già letto?- disse scherzosamente la giovane, ma nell’immediato io non colsi l’ironia.
-Veramente no, ma non credo fosse quello che cercavo-.
-Davvero?- disse come se le sembrasse strano -mi faccia vedere- prese il libro e lo esaminò.
-Lei è un matematico?- mi domandò.
Scossi la testa -no, oltretutto ho lasciato un deposito…- la informai con maggior imbarazzo.
La giovane mi guardò sorpresa -un deposito?-Sì, e un documento. La collega che ho incontrato stamattina aveva fretta di chiudere, così ha preteso
deposito e carta d’identità- le rivelai.
La giovane rovistò nel cassetto e trovò il documento con dentro i trenta euro.
Sorrise e scosse il capo con indulgente tolleranza -Adelina- sussurrò, poi si rivolse a me -le chiedo
scusa, ma Adelina è sempre un po’ scontrosa- si scusò per la collega e improvvisamente io mi sentii
come in dovere di giustificarla.
-Beh, magari non aveva tutti i torti. Sa come si dice fidarsi è bene…La giovane mi esaminò e dal mio abbigliamento dovette dedurre che non ero certo un pezzente -sì
certo, ma così si esagera. Non ha il diritto di sequestrare documenti, avrebbe potuto fare una fotocopia
e poi, non credo che qualcuno sia così disperato da commettere il furto di un libro che può comunque
trovare in una qualsiasi buona libreria-.
-Lei me lo avrebbe lasciato senza precauzioni?- le domandai per testare la sua sincerità.
-Avrei fatto una fotocopia del documento certo, ma non le avrei chiesto un deposito- disse
restituendomi documento e soldi.
-Aveva fretta- insistei a giustificare, e lei sorrise.
-Non ci si mette mica un’ora per una fotocopia- precisò allora l’altra -ma piuttosto- continuò -perché
ritiene che non sia il libro che cercava? Ha bisogno di qualcosa in particolare?- mi domandò.
Non fui molto riluttante, primo perchè ero cosciente di avere bisogno di una mano nella mia ricerca,
secondo perché la giovane nuova bibliotecaria, oltre che carina, mi dava la sensazione di una persona
affidabile.
-Sto cercando riferimenti simbolici sul numero sei per…- improvvisai una scusa imprevista che mi
fece esitare un po’ -…una ricerca di tipo esoterico-.
-Ah, è uno studioso dell’occulto?- esclamò baldanzosa la giovane e il mio istinto mi tradì.
239
-No- dissi troppo frettolosamente, e subito mi trovai a dover dare spiegazioni -a dire il vero lo sto
facendo per un’amica, è lei che si interessa a queste cose, io in realtà non so da dove cominciareammisi, e l’imprevisto si trasformò in opportunità.
-Davvero? Allora è fortunato, io sono un’appassionata di queste cose, magari me la fa conoscere
questa sua amica- mi propose.
-Ne sarei felice, le chiederò se vuole incontrarla, nel frattempo potrebbe consigliarmi qualcosa di
adatto?-Certo, vuole portare via il libro o lo vuole consultare qui?-Per il momento preferisco consultarlo, voglio solo capire se ci sono cose che le possono interessare
sa…Mi guardò sospettosa -vuole fare un regalo e vuole essere sicuro che sia quello giusto?- ammiccò con
complicità e assecondarla non mi parve poi così drammatico.
-Sì, in effetti- cercai perfino di arrossire.
-Bene, mi segua- e mi condusse per lo stesso corridoio percorso dalla strega della mattina fino ad una
piccola sala.
-Questa è la nostra sezione dedicata al mistero, all’occulto e a tutte le cose arcane, non è molto fornita
perché da queste parti non sono molti ad interessarsi a queste cose, ma ciò le procurerà comunque la
dovuta tranquillità. Se è orientato verso la numerologia le potrei consigliare questo-. Tirò fuori un
piccolo libretto intitolato “il messaggio segreto dei numeri” e me lo introdusse.
-Descrive le simbologie bibliche dei numeri con riferimenti alla cabala. Se invece cerca qualcosa di
meno impegnativo le posso consigliare il dizionario dei numeri e poi questi- estrasse velocemente
alcuni libri e li pose su un tavolo vicino.
-Non esiti a cercare altro se lo desidera e se ha bisogno di qualcosa mi chiami pure-.
-La ringrazio- le dissi mentre si allontanava, sbalordito dalla sua cortesia. Quindi mi misi alla ricerca
trovandomi ben presto in una condizione di totale caos dove il sei mi si presentava come numero
perfetto, numero dell’ambivalenza, numero dell’esagramma, del bene e del male, numero solare e
quindi divino e allo stesso tempo numero del diavolo e dopo un po’ mi trovai a domandarmi come
poteva un numero essere allo stesso tempo attribuito a Dio e al Diavolo e mi chiesi perché mai tante
persone perdessero il loro tempo in idiozie del genere. Pensai che chi si dedicava a queste speculazioni
doveva avere o un’elevata dote di follia nel cervello o un elevato tempo da perdere e, temendo di non
trovare nulla che potesse servirmi, quasi con disperazione mi portai le mani al viso. Non so per quanto
restai così, tanto che a riportarmi alla realtà fu la voce della giovane commessa.
-Allora tutto bene?- mi domandò, probabilmente notando la mia disperazione, la stessa con la quale la
osservai e scuotendo il capo ammisi -no, non proprio-.
-Non sono ciò che cercava neanche questi volumi?- mi domandò premurosa e stranamente sentii di
potermi fidare di lei al punto da confidare, se non tutto, alcune piccole verità.
-Il fatto è- cominciai riflettendo su come avrei potuto esporre il mio dilemma -che questa mia amica si
diverte a… come dire… giocare?Lei mi guardò con sospetto, forse pensando a giochi di tipo poco decorosi e sentendomi in imbarazzo
cercai di rimediare rapidamente.
-Lei è appassionata di queste cose e cerca di coinvolgermi attraverso delle specie di cacce al tesorovidi la sua espressione rilassarsi -così qualche giorno fa mi ha spedito questa cosa- estrassi una busta -e
io ho pensato che avesse qualcosa a che fare con ciò che si aspetta che io le regali- mentii in modo
spudorato ma con un senso di giustificato senso della responsabilità, come avviene in quei casi in cui
certi adulti dicono a certi bambini che a volte, se lo si fa a scopo di bene, anche mentire è giusto.
-Anniversario?- sorrise di nuovo con complicità e io non vidi alcuna ragione per lasciarle quella sua
visione romantica. Piegai la testa e con una smorfia di ironica rassegnazione finsi di non poter
nascondere il segreto inesistente.
-Posso vedere di cosa si tratta?- mi domandò. Non desideravo altro giacché speravo in un aiuto non
previsto.
-Sì, certo- e le passai la busta. La giovane aprì l’involucro e tirò fuori la carta.
240
-Ma questo è un arcano dei tarocchi- esclamò senza esitazione con quello che potrei definire
addirittura entusiasmo, e io la guardai stupito, come se non mi sembrasse vero che tante persone si
interessassero a cose così inutili.
-Sa di cosa si tratta?- la giovane sorrise, anzi, quasi rise.
-Ma certo, e specificatamente definiti universali. Il sei è il numero relativo all’arcano, ma il suo
significato simbolico sta più in ciò che rappresenta la carta-.
-Davvero? E che cosa rappresenta?-La scelta- disse senza esitazione, e di nuovo mi sentii sospingere all’interno del racconto dove la
scelta, o le scelte, sembravano aver condizionato ogni situazione di quell’intrigante racconto.
La giovane si sedette vicino a me, non andò nemmeno a cercare altri libri tra gli scaffali e, come se dei
libri non avesse bisogno, cominciò a darmi indicazioni sulla carta.
-L’arcano degli amanti rappresenta il libero arbitrio degli esseri umani, ecco vede? Le due figure,
quella maschile e quella femminile osservano in direzioni opposte, le direzioni verso cui dirigere la
propria scelta, verso il basso, osservando la terra, istinto e materialità. Verso l’alto, osservando la figura
divina, intelletto e spiritualità. In queste direzioni vi è ogni cosa, tentazioni, seduzioni, desideri,
comportamenti, sentimenti… tutto. La lama numero sei rappresenta quindi il concetto di scelta, ma
anche di dubbio, di decisione o di incertezza, così gli sguardi si possono rivelare anche nel simbolismo
degli opposti tra cui è necessario scegliere. Gli amanti possono anche rappresentare una prova, un
esame da superare come per esempio una tentazione cui resistere… ad un livello più terreno si fa
sentire molto forte la componente sentimentale e può indicare il rapporto tra uomo e donna,
l’innamorarsi e anche il colpo di fulmine…Provai un brivido che pareva prodotto proprio da un fulmine e pensai a Demetrio e a quel suo amore
per Virginia nato all’età di sei anni. Poi sentii la giovane proseguire.
-Gli arcani non hanno la pretesa di predire il futuro come molti pensano, ma solo di dare indicazioni.
La scelta in questo caso non dovrebbe riguardare un unico proprio vantaggio, ma un bene comune, sia
rivolto a se stessi che agli altri-.
La guardai con l’espressione riconoscente, ma ancora incerto -e perché è contrassegnato dal numero
sei?La giovane rise di nuovo, ma non per sarcasmo, piuttosto per il piacere, forse, di poter descrivere tante
di quelle cose da cui lei era attratta e di cui pochi, secondo quanto aveva detto poco prima, si
interessavano.
-Il sei indica l’equilibrio che nasce dall’unione degli opposti. Per questo il suo simbolo geometrico è
l’esagramma, conosciuto anche come stella di Davide-.
-I due triangoli che si intrecciano?- questo lo ricordavo.
-Esatto. Sotto questo aspetto nell’arcano degli amanti il sei rappresenta la scelta tra due strade, una
diretta verso l’alto, la via spirituale, e l’altra verso il basso, che riguarda la parte più materiale
dell’uomo, quella più fisica. Il sei rappresenta l’unione perfetta perché le due parti che lo compongono
hanno lo stesso peso, tre più tre, rappresentato dai lati dei triangoli, che nel simbolismo indù viene
rappresentato con il cerchio del tai chi, da noi conosciuto come il più classico simbolo della vita, quel
cerchio con i due opposti bianco e nero che si intrecciano in una spirale con un pallino bianco sullo
sfondo nero e viceversa…-Ho letto però che è anche associato al diavolo- la interruppi, non per competere con lei o per
provocarla, ma per avere una visione più completa visto che la giovane sembrava ben preparata.
-È ovvio- mi rispose, e io non ci vidi niente di tanto ovvio, al punto che la fissai come se mi prendesse
in giro.
-Ma allo stesso tempo è definito anche il numero perfetto che rappresenta il sole e quindi Dio. Come
può una cosa rappresentare sia Dio che il Demonio?- dissi per giustificare la mia perplessità.
La giovane rise di nuovo nello stesso modo affabile di prima e riprese, felice di poter continuare a dare
tante indicazioni.
-Proprio per il fatto di essere l’interazione tra due entità perfette che si attraggono e allo stesso tempo
si respingono-.
Ammetto che cominciavo a sentire un crescente mal di testa -il diavolo sarebbe un entità perfetta?domandai incerto di poter comprendere.
241
-È una questione di punti di vista, di prospettive se vogliamo. Il bene e il male sono due concetti
decisamente diversi, ma solo perchè all’opposto l’uno dell’altro, tuttavia nel male supremo come
possiamo negare la suprema perfezione?-Sì, ma si parla di una perfezione distruttiva- le feci notare.
-Solo in parte- disse però lei -il bene resterebbe un concetto astratto se non fosse per la sua
componente opposta. Per fermare un criminale, come ad esempio Hitler, fu necessario un atto di
distruzione. A volte è necessario distruggere per poter ricostruire…- pensai a Shiva e al suo concetto di
distruttore che avevo incontrato nel percorso di lettura del racconto.
-Quindi Dio e Diavolo sono complementari?- cercai di comprendere.
-No, sono alleati. L’uno non può esistere senza l’altro. Se esistesse solo la luce lei saprebbe dire che
cos’è la luce?Riflettei. Istintivamente stavo per rispondere affermativamente, ma poi mi resi conto che se avessi
vissuto in una dimensione di sola luce, probabilmente non avrei saputo riconoscerla perché non avrei
avuto nulla con cui confrontarla e come un ebete rimasi in silenzio. Alla giovane però era chiaro che il
mio silenzio era una conferma di comprensione di quanto aveva cercato di dimostrare, quindi tornò ad
occuparsi della descrizione del sei.
-Il sei è considerato semplicemente numero del diavolo come opposto al numero divino.
L’esagramma, stella di Davide o stella a sei punte è un simbolo solare perché comunque la si ponga
ella indica tutte le direzioni, così come il sole che risplende in ogni direzione. Rappresentando noi la
divinità sotto forma di luce ed essendo il Sole la fonte di luce più grande che noi conosciamo,
identifichiamo nel sole il Dio supremo, ma allo stesso tempo se dovessimo invertire la prospettiva della
luce, il sole nel suo contrario diverrebbe la fonte di ombra più profonda, l’oscurità nella quale noi
identifichiamo il Diavolo. Ecco perché il sei è numero sia del divino che del demonio-.
Non so in che modo, ma ogni cosa improvvisamente cambiava prospettiva nella mia visione
quotidiana.
-Ogni cosa lo dimostra- proseguiva intanto la giovane bibliotecaria -anche i colori. Il giallo per
esempio è colore dell’oro, il minerale più puro che ci sia sulla terra e per tanto nell’oro noi
riconosciamo il lato divino, ma è anche il colore dello zolfo, che al contrario è un minerale povero e
puzzolente, e in questo collochiamo la presenza del diavolo-.
La osservai stupito e una sorta di provocazione questa volta mi sovvenne -entrambi però hanno
origine dalle profondità della terra- le feci notare.
-Questo perché rappresentano la parte materiale, oro e zolfo sono fisici, luce e ombra no. L’oro e lo
zolfo rappresentano la ricerca che nasce dal profondo e da ciò che scopriamo in noi, la scelta verso il
bene e il male, la luce che proviene dal sole invece ha origine dal cielo, così come l’ombra che essa
produce. Se siamo attratti dall’oro o dallo zolfo è evidente che il nostro percorso di ricerca è molto
materiale e si basa su concetti concreti, fisici, dimostrabili e conoscibili. Se al contrario siamo più
attratti dalla luce e dall’ombra, la nostra ricerca è rivolta più verso ciò che è astratto, immateriale,
percettivo, indimostrabile e inconoscibile-.
Quando concluse, mi sentii come svuotato. Discutemmo ancora per un po’ ma in modo più
confidenziale. Avrei voluto rivelarle che cosa mi aveva condotto a quell’assurda ricerca, ma qualcosa
mi induceva a pensare che ormai ero solo. Solo con quella carta dei tarocchi tra le mani.
242
10
Senza futuro…
Quando tornai all’albergo era già sera e nell’intrigante quanto affascinante ricerca che mi aveva
condotto nell’universo che avevo solo in parte cominciato ad esplorare grazie a Felona, mi resi conto di
aver completamente perso di vista il motivo dell’impegno che mi aveva condotto alla biblioteca, ossia,
proprio ritrovare Felona.
Era partita la mattina, non so a che ora ma probabilmente presto e sicuramente ormai doveva già
essere a casa. Così riprovai a chiamarla al telefono, ma come nelle altre precedenti chiamate a
rispondermi fu la segreteria. Dedussi che doveva essersi recata allo studio e aver ripreso il suo
quotidiano lavoro di terapeuta e come se fossi un cliente che voleva prendere un appuntamento
composi il numero dello studio. Una sorpresa imprevista mi sconcertò con una meraviglia che non
poteva creare più stupore quando una voce registrata dalla sgradevole cadenza meccanica mi avvertì
che il numero composto era inesistente. Pensai di aver sbagliato a comporre il numero e quindi
riprovai, rendendomi conto solo un istante dopo aver dato l’invio che non potevo aver sbagliato un
numero che era memorizzato nel cellulare e al quale già in precedenza avevo chiamato, tuttavia restai
ad ascoltare e di nuovo la voce meccanica, con indifferenza e nessuna irritazione per la mia insistenza,
tornava a ripeter che il numero era inesistente. Valutai che forse il numero era stato cambiato, forse
proprio per impedirmi di rintracciarla come se desiderasse veramente che tra noi non vi fossero più
contatti, ma la cosa mi parve strana e insensata giacché se non avesse più voluto avere niente a che fare
con me le sarebbe bastato dirlo, e ormai la conoscevo abbastanza bene da sapere che non avrebbe avuto
alcuna difficoltà a farlo. Ciò però non mi rallegrò perchè se questa poteva essere una possibilità che
spiegava l’impossibilità di ricontattare lo studio, il mistero di dove fosse Felona cominciò a crearmi
sospetti poco positivi. Riposi il cellulare nella tasca ed entrai nel salone dell’albergo. Il custode del
mattino stava ancora al suo posto, attendendo probabilmente la chiusura del suo turno e io fui contento
di potermi rivolgere nuovamente a lui invece che al collega irritante prima che svanisse nella
conclusione della sua giornata lavorativa.
-Mi scusi- attirai la sua attenzione avvicinandomi al banco.
-Prego?- mi rivolse ancora l’affabile sorriso con la cortesia dell’impiegato diligente.
-La signorina Bussola…- dissi, poi attesi come ad assicurarmi che comprendesse di chi stavo
parlando.
-Quella dell’appartamento 411?- confermò.
-Sì, esatto, questa mattina, ha chiamato un tassì per andarsene giusto?-Sì esatto, l’ho chiamato io stesso- mi rispose con l’inossidabile cortesia.
- Mi scusi se insisto, ma non le ha detto per caso dove era diretta?Allargò le braccia in segno di negazione, ma poi parve sovvenirgli alla mente qualcosa.
-Non ha parlato di dove volesse andare, ma mentre stavo sbrigando le pratiche della chiusura del
conto, disse qualcosa a proposito di un cimitero, anzi, ora che ci penso mi ricordo che domandò se io
conoscevo il custode del cimitero di Casterba-.
-Davvero?- come i miei occhi, le mie speranze ripreso a illuminarsi.
-Sì, forse perché sapeva del mio interesse per Valbordi e conseguentemente per quel paese che ormai
non esiste più, sa, come le raccontavo…Stava per riprendere la sua loquace discussione sulle differenze tra i paesi nei quali era vissuto, ma io
non avevo tempo ne possibilità di lasciargli avviare un argomento che mi avrebbe portato via tempo
prezioso.
-È possibile quindi che si sia recata laggiù?- gli domandai come se lui dovesse in qualche modo
saperlo. Il suo sguardo mi fece comprendere l’assurdità della mia domanda, ma non nel modo in cui
l’avevo interpretata io, ma piuttosto per una rivelazione che non consideravo, non ancora almeno.
-Ne dubito- rispose -Casterba è un paese fantasma ormai, laggiù vi sono solo case diroccate e cani
randagi e che io sappia, non esiste nessun custode del cimitero, soprattutto dopo il terremotocomunicò.
Stupito provai quasi terrore -di quale terremoto parla?- gli domandai.
-Quello del 2012- rispose con la serenità di chi pensava che quella calamità fosse ancora ben lucida
nelle menti di chi aveva un’età compresa tra la mia e la sua, ma proseguì, forse in valutazione del
243
ragionevole dubbio -tra la primavera e l’estate di quell’anno l’Emilia Romagna fu colpita da una serie
di scosse di terremoto comprese tra il quarto e il sesto grado della scala Richter. La formazione
geologica del sottosuolo fece sì che le scosse si divulgassero nel tempo per diversi giorni, ma le onde
d’urto si propagarono anche ai paesi vicini della Lombardia e del Veneto, e Casterba, non molto
lontano dall’epicentro, non ne restò immune. Essendo un paese già vecchio, subì diversi danni, molte
strutture crollarono e l’antico cimitero fu una delle più danneggiate. Inoltre il paese era già talmente
piccolo quando era abitato che i defunti venivano sepolti a Valbordi. A dire il vero Casterba non si
poteva nemmeno considerare un paese, già a definirlo frazione si sarebbe esagerato, e comunque il
cataclisma ne segnò la definitiva disfatta e il totale abbandono-.
Restai stupefatto e incredulo. Io avevo visto il cimitero, e ora quell’uomo, che proveniva dagli stessi
luoghi, mi informava di qualcosa che non poteva essere reale.
-Ne è certo? Io sono stato a Casterba e ho visto sia il cimitero che la chiesa. Ci sono case abbandonate
è vero, ma non sembrano poi così mal ridotte-.
Il custode rise -lei vuole scherzare vero? Casterba è disabitato da almeno vent’anni. Io ci sono nato e
già quando ero bambino non c’erano abbastanza ragazzini neppure per tenere aperte le scuole, la chiesa
restò come un monumento, ma per celebrare le messe veniva fatto venire un sacerdote da fuori paese,
in quanto al cimitero, come lo ho detto, credo che gli ultimi a essere stati sepolti laggiù risalgano ad
almeno… sì, almeno vent’anni fa. Io di funerali in quel paese ne ricordo forse due. Mi creda, non c’è
più niente a Casterba -.
-Mi prende in giro vero?- dissi quasi agonizzante, e con un senso di nausea cominciai a ricordare ciò
che stava scritto nell’avvertimento, dove il misterioso scrittore ipotizzava la possibilità di una morte
collettiva di cui ogni concittadino del piccolo paese poteva essere ignaro e continuasse a vivere una
realtà alternativa da non morto e non vivente.
-No signore, e se non fossi abbastanza perspicace per capire che deve aver fatto confusione con i
luoghi della zona, direi che è lei a prendermi in giro-.
Lo disse con gentilezza e sincerità, ma sono certo che se avessi insistito avrebbe cominciato a
considerarmi pazzo da tanto spontanee erano le sue affermazioni.
Restai inebetito per un po’, quindi presi istintivamente il portafogli e annunciai -voglio chiudere il
conto-.
Il gentile custode mi guardò quasi temesse di essere colpevole del mio voler lasciare l’albergo e
temesse un rimprovero dal direttore -ma signore…- balbettò -tra poco serviamo la cena-.
-Lo so, ma non m’importa. Devo proprio andare- dissi consapevole di quanto dovevo apparire strano
agli occhi del giovane inserviente. Lo vidi grattarsi la testa, poi quasi timoroso di scatenare una
reazione che non avrebbe saputo contenere con un certo timore cercò di avvertirmi -la cena di questa
sera comunque…-La metta pure nel conto, conosco le regole- lo giustificai. Senza ulteriori esitazioni prese il registro e
iniziò a digitare tasti per scrivere sul computer, poco dopo il conto apparve sul display e l’ormai inerme
custode me lo mostrò senza dire nulla. Gli passai la carta di credito che con un movimento né rapido né
lento fece strisciare nell’apposita fessura. Attese la risposta dell’avvenuto pagamento e mi consegnò la
fattura. Gettai le chiavi della camera sul banco e senza dir altro mi voltai per andarmene.
-Signore- mi sentii richiamare -non vuole nemmeno liberare la stanza dai suoi effetti personali?Non avevo niente da portare via, escluso qualche ricambio di biancheria intima usata che
scompostamente avevo lasciato nel bagno, e forse qualche inutile scontrino.
-Buttate via tutto quello che trovate, se non vi serve- risposi, e con tutta la follia che dovevo
dimostrare, senza nemmeno ringraziare corsi fuori. Allontanandomi, potei osservare l’unico ospite
rimasto, l’uomo in nero, mentre consultava quella che sembrava una tabella degli orari dei treni, e nella
frenesia, senza preoccuparmene, nemmeno lo salutai.
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11
…Se non vedi il futuro che hai davanti guada quello che hai dietro…
Quando giunsi a Casterba tutto apparve diverso, mutato e totalmente irreale rispetto a come lo
ricordavo, il che mi condusse a pensare che ciò in cui credevo era che fossi entrato veramente in una
dimensione allucinogena, oppure ne ero appena uscito, e quindi quella che vedevo era la realtà che
precedentemente avevo osservato in forma fenomenale. La mia mente cominciò a vorticare in un caos
di follia schizofrenica in cui cominciavo a convincermi che stavo vivendo nella forma di una doppia
personalità in cui, né l’una né l’altra sembravano essere reali, rendendomi così incapace di valutare chi
tra il Donato che aveva visitato il decoroso cimitero e quello che stava guardando adesso il decadente
paese fosse quello effettivo. Le case erano veramente ruderi senza più alcun valore di interesse
commerciale, strutture desolate dai muri instabili, pericolanti edifici che sembravano più vecchie delle
rovine dei tempi antichi. Fragili corpi di mattoni senza anima, privati dello spirito e della memoria,
dove pigre piante nascondevano dietro un superficiale e smorto verde vegetale, un cupo e grigio
tormento che sapeva di desolazione e morte. La chiesa che stavo superando non era restaurata e
ordinata, ma decadente, ostile e sconsacrata, con le campane che pendevano senza oscillazione,
immobili perfino al soffio del vento come zavorre appese al filo del tempo, in attesa di essere sconfitte
dalla gravità, o dalle intemperie del tempo che le stava corrodendo.
L’unica cosa che potevo presumere a quel punto, era che se una vecchia chiesa esisteva su quel suolo
che poco prima mi era stato descritto invece come privo di ogni cosa, probabilmente esisteva anche un
vecchio cimitero che seppure non fosse stato quello che avevo osservato nell’allucinazione precedente,
doveva avere una sorta di ruolo in ciò che più di qualsiasi altra condizione, ora più che mai, cominciava
ad apparirmi come un sogno. E fu quando mi fermai davanti al cancello diroccato e scardinato di tale
rudere che riconoscevo come il cimitero di Casterba, che ricordai le parole di Felona: “Se tu non sogni
allora, forse sei tu stesso un sogno”, aveva detto, e adesso, simile condizione non mi pareva più tanto
folle. Lento fermai la macchina che nel suo lusso appariva come l’oggetto assurdo visibile in uno di
quei dipinti di arte moderna in cui gli autori cercavano di stupire in qualche sciocco modo gli
osservatori, senza magari aver ben chiaro nemmeno loro stessi la banalità di determinati contrasti privi
d'effetto.
Mi avvicinai con timore. L’inferriata pendeva da un lato costringendomi ad un inchino per
oltrepassarla e a una sorta di contorsione in cui dovevo stare attento a far passare gli arti uno alla volta
in una giusta sequenza per non rischiare di incastrarmi o cadere. A quel punto un sospetto mi colse, ma
solo come una speranza in quanto se tale supposto fosse stato assecondato, gran parte dei miei timori
avrebbero potuto prendere una direzione diversa e trovare molte soluzioni che avrei saputo accettare
più della conferma del dubbio che consisteva nell’effettiva esistenza di un custode. Ma già sapevo che
nascosto dietro una lapide, qualcuno mi stava attendendo. Mi guardai introno e quando non lo vidi
iniziai a sperare veramente che il mio dubbio fosse fondato, ma proprio quando stavo per cessare la
ricerca come un bambino che per avere conferma ad una sua speranza non vuole addentrarsi oltre in
una camera buia in cui teme possa nascondersi l’uomo nero e già si sente vincitore perché tuttavia è
riuscito a varcare la semplice soglia della porta, come se il mio uomo nero avesse intuito quel desiderio
di fuggire, un accordo stonato di chitarra spezzò il silenzio circostante e in un solo istante l’illusione mi
condusse fuori del sogno per consegnarmi all’inaccettabile realtà che Casterba era reale, io ero reale, e
quel musicista stonato non era un fantasma.
Voltai lo sguardo verso la provenienza del suono e vidi il manico della chitarra spuntare da dietro la
lapide rovinata, sporca e logorata, senza alcun sintomo di restauro o riproduzione recente.
Rabbrividii, ma conscio, o meglio, inconscio del mio ruolo, mi avvicinai.
-Dov’è?- domandai a colui che consideravo l’emissario del diavolo, forse per intimidirlo come facevo
in certe mie indagini con taluni elementi che con resistenza negavano ogni evidenza. Ma il guardiano
delle anime non era soggetto alle intimidazioni e come mi stesse attendendo, quando parlò compresi
che non avevo a che fare con un indagato riluttante.
-Salve- disse infatti con una calma surreale -guarda chi si rivede. Allora il paese ha veramente del
potenziale turistico se la gente ritorna- ironizzò.
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Lo osservai guardingo, accorgendomi che di tutto ciò che era stato solo il giorno precedente,
l’insignificante musicista, o giocatore, o qualunque altra cosa fosse stato, era l’unica cosa che si poteva
dire essere rimasta uguale, compresa la sua chitarra scordata.
-Non ho tempo per i tuoi giochi- dissi cercando di nascondere la paura che tuttavia doveva trasudare
da ogni mio poro e produrre perfino l’odore di se stessa.
-Dimmi dov’è- lo incalzai cercando di apparire minaccioso, ma ancora il mio atteggiamento non scalfì
la sua calma.
-Devi essere preciso nelle tue domande investigatore, altrimenti la tua indagine rischia di subire
contaminazioni. Dov’è chi?- rispose evidenziando l’inutilità dal mio tentativo intimidatorio.
-Felona- dissi allora rassegnandomi al fatto che non avevo nessun controllo della situazione.
-Ah, la bella assistente? Non lo so. Come mai, ti ha mollato?Improvvisamente mi sentii smarrito perché avevo l’impressione che il vecchio pazzo non stesse
mentendo e con la stessa improvvisazione sentii anche l’incapacità di reagire e di arrabbiarmi al punto
che, stanco e rassegnato crollai a terra sedendomi sulla tomba che stava di fronte al vecchio chitarrista.
Appoggiai come lui le spalle al marmo e mi lasciai cadere il viso tra le mani.
-Sei depresso amico?- mi sentii domandare.
Alzai lo sguardo e lo fissai -tu sai tutto vero?-Tutto cosa?Gettai a terra il documento che stava nella custodia della borsa che ormai mi portavo sempre appresso.
-Sapevi del documento, sapevi quello che stavamo cercando, sapevi come sarebbe finita, è così? Sei
un suo complice-.
-Complice? E di chi?-Del diavolo- proruppi, senza rendermi conto dell’immensa potenza che stava nelle parole appena
pronunciate. Parole che in un contesto normale mi avrebbero assicurato una cella in una struttura per
malati di mente, ma che in un contesto fuori del normale, potevano scatenare eventi ingestibili e
veramente incontrollabili da una mente limitata come la mia.
Il custode mi guardò perplesso -sei sicuro di sentirti bene?- mi domandò quasi fosse veramente
preoccupato per la mia salute.
-Non ho più voglia di essere preso in giro, dimmi cosa sta succedendo. Perché sapevi tutte queste
cose? Chi sei veramente?-.
-Ho riconosciuto il documento perché ho visto mentre veniva scritto- rispose come se realmente la sua
fosse una figura del tutto estranea ai fatti accaduti -e siccome ho ancora una certa capacità di
deduzione, ho immaginato che stavate facendo una ricerca-.
-Perché? Perché immaginavi che stavamo facendo una ricerca?-Perché si dice che il vecchio Tommaso impazzì pochi giorni prima di andarsene, e i pazzi lasciano
sempre qualche segno della loro follia…-Prima di andarsene?- domandai sorpreso.
-Sai- cominciò il guardiano posando la chitarra a terra -la pazzia ha molte sfaccettature e può sfumare
in molti contesti che alla fine si possono considerare: punti di vista-.
-Che cosa vuoi dire?Mi guardò, e come a volermi confermare di quante fossero le sfumature con le quali si poteva
considerare la pazzia sembrò volermene dare una dimostrazione.
-Tu sai prevedere il futuro?- mi domandò, e io valutai quel suo cambio di direzione nel dialogo
proprio come se avessi a che fare con un pazzo, il che non mancò di essere inteso dal custode.
-Ecco vedi? Questo ne è un esempio- riprese la chitarra e strimpellò alcuni accordi, armonici, intonati.
-Perché fingi di non saper suonare?- gli domandai allora dandogli forse un altro esempio della mia
follia che mi conduceva da un’indagine seria ad una apparentemente inutile.
Il vecchio mi guardò -io non so suonare, tal volta mi capita di azzeccare qualche nota intonata…disse, poi mi ripropose la domanda -allora, lo sai prevedere il futuro?-Certo che no, perché dovrei saperlo prevedere?-Perché sei uno di noi- disse riformulando l’allusione già fatta.
-Io non sono per niente come te, o uno di chiunque tu intenda- dissi irritato.
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-Oh sì che lo sei, solo che ancora non te ne rendi conto- rispose con la sua perentoria calma altrimenti- continuò -perché saresti ancora alla ricerca?-Perché ho preso un impegno- dissi anteponendo la mia professionalità perfino alla irreale circostanza
in cui mi trovavo.
-Ma il tuo impegno è finito- disse il vecchio -o devi ancora finire di leggere il documento?- mi
domandò.
Io osservai i fogli sparsi a terra e mi resi conto che, sebbene non comprendessi in che modo poteva
sapere quale fosse il mio impegno, aveva ragione.
-Ma questo fascicolo non mi ha condotto a nulla- dissi allora come se la cosa dovesse importargli.
-E con questo? Rifletti, qual’era l’impegno che avevi preso con il cliente?Non risposi perché ero certo che quell’uomo già lo sapeva -come sai queste cose?- gli domandai
invece.
-So osservare amico mio- mi rispose, poi tornò a suonare -e tutto quello che vedo mi rivela più di
quanto le parole non possano fare- continuò a suonare e io lo lasciai parlare mentre si accompagnava
con tristi arpeggi.
-Sai, la gente di Casterba ha sempre vissuto in una sorta di scrigno dorato, un regno incantato
dominato da un retto imperatore. Il vecchio D’amanti, negli anni dell’abbondanza, assicurava a tutti un
prolifico futuro, ma lui era un uomo che aveva creato il suo impero dal nulla, ovvero, dal poco che la
sua famiglia gli aveva lasciato. Certo quando lui iniziò ad espandere i suoi possedimenti e ad
aumentare il suo capitale patrimoniale erano tempi diversi, tempi in cui uno che sapeva approfittare e
sfruttare le opportunità poteva facilmente costruirsi una fortuna, e il vecchio D’amanti era uno che
sapeva bene come sfruttare le occasioni, ma restava pur sempre un uomo che poteva contare solo sulle
proprie esperienze e sul proprio intuito, perciò, quando il suo patrimonio passò nelle mani dell’erede, il
buon Tommaso, la gente di questo paese si sentì ancora più sicura del proprio futuro. L’erede non solo
poteva contare sugli insegnamenti e sull’esperienza acquisita dal padre, ma aveva anche una solida
istruzione alle spalle…-Laureato in economia e commercio, scienze politiche e legge- sottolineai io.
-Già, immagina la combinazione di una mente scaltra grazie alle esperienze acquisite e la conoscenza
del difficile mondo burocratico moderno. Un vero governatore… solo che la gente di questo paese non
aveva valutato che questo non era ciò che lui voleva essere. Lui è diventato così per soddisfare le
esigenze degli altri, della famiglia, dei sudditi del paese che si aspettavano da lui la continuità delle
tradizioni di famiglia che assicuravano abbondanza e lavoro a tutti… lui era come noi, un sognatore
che si annoiava ai convegni finanziari ma che si eccitava di fronte alle fantasie di quattro folli
visionari… il suo mondo è stato represso, spianato come una collina di detriti su cui erigere un edificio
artificiale, circoscritto da muri di cemento e acciaio e chiuso da porte senza chiavi…Ebbi l’allucinazione di un sogno descritto nel documento e un’intuizione mi fece collegare la sua
allusione alla collina spianata come la metafora simbolica che si traduceva nella realtà della creazione
del parco come il simbolo di una volontà mai espressa.
Il custode intuì il mio pensiero e continuò -…e in questo castello lui era al sicuro solo se accettava di
essere imperatore del volere altrui, dove un sovrano può congiungersi solo con i sui simili…- nella
mente mi saettò veloce una voce che diceva “incesto” mentre l’altro continuava -…in un regno così,
non si può mostrare la propria diversità…- omosessualità fu la parola che saettò questa volta, forse il
simbolo più potente con cui l’umanità sapeva sottolineare la diversità -…ma quando il suo mondo
cominciò a declinare e la sua mente non riuscì più a contenere tutto ciò che aveva represso, la sua
ragione cedette e alla gente non fu difficile condannare la sua pazzia quando lasciò tutto ciò che aveva
alle multinazionali cedendo tutto il suo capitale alla moglie e al figlio per infine, scomparire-.
-Quindi se ne andò- sospirai -e dove? Cercò Demetrio per vendicarsi ritenendolo l’ispiratore della sua
pazzia?Il vecchio scosse la testa -non credo abbia mai ritenuto nessuno responsabile delle sue conseguenze,
non dopo che le ebbe comprese almeno. No, andò a cercare Virginia-.
-Ma non la trovò vero?Scosse di nuovo la testa -come lo sai?- mi domandò, ma io ero certo che già conosceva la risposta.
-È scritto lì- indicai il documento.
247
-A già- disse con aria riflessiva -è che io non so come finisce-.
-Finisce così, con lui che dice che non ha più rivisto nessuno di tutti coloro che hanno fatto parte della
sua vita. Forse si è ucciso?-Ucciso?- ripeté come se la mia fosse stata una bestemmia intollerabile -assolutamente no. Lui fece
qualcosa di molto bizzarro, ma evidentemente non lo racconta in quel libro-Dipende. A cosa ti riferisci?-Non racconta della grotta?-Quella di Oliero? Sì ne parla-.
Di nuovo scosse la testa -no, lui comprese che non trovava Virginia perché la cercava nei luoghi
sbagliati, e la grotta era rimasto il suo unico indizio da cui iniziare la ricerca di Virginia… la vera
ricerca. A proposito, lei è tornata sai?-È tornata? E quando- improvvisamente tutto mi parve secondario a quella notizia, se potevo trovare
lei, potevo avere tutte le informazioni che desideravo.
-Non molto tempo fa- mi sorprese.
-Sii più preciso-.
-Non saprei dirlo con esattezza, io non conto più il passare del tempo da molto ormai, non ne ho più
necessità-.
-Dimmi dov’è- dissi quasi gridando spazientito allora.
-Ci stai seduto sopra- mi rispose allora con più calma del solito, se era possibile, mentre io con un
balzo mi alzavo dalla tomba e con irrispettoso ribrezzo osservavo l’epigrafe sul marmo “Virginia
Turchese 29 05 1969 – 03 06 2023”.
-Sepolta qui? Perché- domandai.
-Secondo il suo volere la figlia l’ha fatta seppellire in questo cimitero, dove stanno tutti coloro che ha
amato-.
-Intendi la sua famiglia?-.
Il guardiano sorrise -allora, cominci a prevedere il futuro adesso?-Non ricominciare con questa assurdità e rispondi alla mia domanda-.
-Non hai ancora capito vero?-.
-Che cosa dovrei capire?-Le risposte che trovi sono nel futuro, per questo il racconto si chiude senza risposte-.
-E come posso vedere il futuro?- gridai esasperato.
-Se non trovi le risposte cerca le domande- disse il guardiano delle anime e qualcosa mi condusse ad
un ricordo che già svaniva nella mia mente.
-Ho già sentito queste parole, sei tu l’anonimo che…- non osai andare oltre perché ogni cosa stava
divenendo veramente, intollerabilmente, troppo assurda.
-Se non vedi il futuro che ti sta davanti, osserva quello che ti sta dietro- propose un nuovo aforisma
impossibile.
-Come può il futuro stare dietro?- dissi cominciando, più che a percepire, ad accettare i segni della
follia in me.
-Torna da dove tutto è cominciato, rivivilo nella tua mente… il futuro vive nel passato…- la voce del
vecchio si confuse alle note di una musica malinconica e rilassante allo stesso tempo che le sue dita
raggrinzite arpeggiavano su quella chitarra che ormai più niente aveva di scordato, e io rividi me stesso
mentre aprivo il pacco, leggevo la nota introduttiva, facevo una telefonato, poi incontravo Felona e
iniziavo la mia ricerca ma… prima di quegli ultimi passaggi c’era stata quella telefonata nella quale
ricevevo un’informazione che mi aveva condotto al ricordo di una vecchia indagine compiuta tra le
valli della Lessinia, in Veneto. Guardai il vecchio suonatore che con un sorriso smise di suonare.
-Casterba non esiste- dissi sconcertato ricordando come l’amica dell’anagrafe territoriale mi aveva
informato di non avere nessun riferimento su un paese chiamato Casterba ma di avere un risultato su un
paese chiamato Casterra. Non attesi la risposta del guardiano e girando su me stesso, con un terribile
sospetto corsi fuori del cimitero, salii sulla mia Mercedes e mi avviai veloce verso la Lessinia. Il
campanile, se le sue campane fossero state quelle dell’allucinazione precedente, avrebbe suonato le
sette, ma di tutta quella folle metamorfosi quasi non mi rendevo più conto ormai e mentre mi
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allontanavo non potei vedere il sorriso del vecchio mentre tra i suoi denti logori sussurrava: -Esiste
amico mio, esiste eccome- poi tornava a suonare le sue malinconiche melodie.
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12
Angeli protettori…
Guidai veloce superando la città attraverso la via della tangenziale, ma pur avendo avuto occasione di
imbattermi già in passato in quel borgo quasi sconosciuto, dovetti affidarmi al navigatore perché mi
condusse oltre la trafficata strada lungo vie di collina che poi si innalzavano verso i monti e divenendo
sempre più strette, mi portavano fin oltre quel paese dove si trovava il suggestivo parco delle cascate
per arrivare dopo un po’ più di un’ora a rimembrare strane reminescenze di quei luoghi dove, oltre che
per le vie suggestive, potevo ricordare anche per gli ottimi vini. Era piccolo Casterra, e alto, sul livello
del mare intendo, oltre mille metri di altitudine, dove la sera calava presto, e le ombre già si
allungavano sul tramonto dietro i monti, e i riservati montanari non sembravano possedere lo stesso
entusiasmo dei curiosi turisti per passeggiate serali. Tuttavia, forse perché ancora non era rientrato a
casa e ancora sfruttava qualche minuto per una bevuta con gli amici, forse perché già se ne era uscito di
casa per un caffé con gli amici, qualcuno sfidava la fatica del lavoratore montano e in quello che poteva
definirsi l’unico bar del paese, ebbi occasione di osservare che un gruppo di anziani stava seduto ad un
tavolo a giocare a carte mentre due giovani discutevano al bancone di argomenti che non potevo
intercettare. Decisi così di fermarmi per domandare informazioni, riprendendo a fare ciò per cui ero
pagato: l’investigatore. Posteggiai la macchina con fatica in un punto che non poteva essere definito un
parcheggio e mi diressi verso il locale.
-Scusate- dissi rivolto a nessuno in particolare. I quattro anziani si girarono ad osservarmi con la tipica
aria sospettosa riservata agli estranei, mentre i due giovani al bancone nemmeno si interessarono
continuando a discutere dei loro argomenti astrusi.
-Sto cercando una persona che abita da queste parti, forse potete aiutarmi- osservai i quattro anziani
pensando che avrei ottenuto più cortesie da loro, o almeno da uno dei quattro. Questi però continuarono
a guardarmi con sospetto e restarono in attesa.
-Si chiama Nausica…- poi pensai che non sapevo niente altro su di lei, ma immaginai che,
conoscendone la storia, il cognome che portava dovesse essere quello della madre che, guarda caso,
avevo scoperto quella sera stessa leggendolo sulla tomba.
-Nausica Turchese- azzardai a precisare allora, poi, osservando la riluttanza e l’apparente ostilità dei
quattro mi disimpegnai in una improvvisata descrizione -è una giovane ragazza che qualche anno fa ha
perso sua madre, si chiamava…-Virginia- sentii una voce estranea subentrare. Una voce che non apparteneva a nessuno dei quattro
anziani, né ai due giovani, né al ragazzo che stava dietro al bancone.
Alzai lo sguardo oltre il tavolo dei vecchi e osservai l’anziana signora che usciva spostando la tenda di
sughero della porta che dal bar doveva condurre all’interno di quella che doveva essere la casa dei
proprietari. Dedussi che doveva essere la madre del ragazzo dietro il banco e che il bar fosse di sua
proprietà, o della sua famiglia.
-La conosce?- le domandai disinteressandomi a quel punto di tutti gli altri presenti.
-La conoscevo- disse. Ovvio, pensai, poi osservai come le espressioni dei quattro anziani si fossero
fatte molto più serie e austere, quasi minacciose, più che verso di me, verso l’anziana stessa, solo che
questa sembrava produrre una sorta di dominio su di loro, come se fosse la monarca di un paese
rimasto fermo nel tempo alle origini delle ere governate dal dominio matriarcale.
-Io sto cercando sua figlia, sa dirmi dove abita?- le domandai percependo la tensione farsi sempre più
intensa. Anche i due giovani avevano smesso di parlare e si limitavano ad osservare le loro birre nei
boccali. Il figlio, o quello che ritenevo essere il figlio, smise per un attimo di asciugare tazzine e
bicchieri, poi riprese in silenzio ma con lo sguardo basso seguiva ciò che avveniva come una spia in
incognito.
-Non esattamente- disse l’anziana disinteressandosi, come non avesse alcun timore di nessuna delle
figure che stavano nel locale, di qualunque tipo di sguardo o di qualunque pensiero potesse percepire
nelle loro espressioni ostili. La guardai a mia volta sospettoso, deducendo che, o non voleva rivelare
nulla, come se fosse una devota sacerdotessa di qualche culto strano praticato tra quei monti e temesse
di profanare un qualcosa che per loro doveva essere sacro, o non doveva essere completamente sana dal
momento che in un paese come quello, più ancora che in uno come Casterba, sicuramente tutti
dovevano conoscere tutti e sapere tutto di tutti.
250
-Virginia è arrivata qui circa dieci anni fa mi pare…- meditò, e io a mia volta feci lo stesso e,
attingendo alle informazioni in mio possesso derivate dal documento misterioso, che quasi ormai
cominciavo a definire “manoscritto segreto”, come quei rotoli di rame di cui si parlava in alcuni
documentari sulla vita di Cristo e argomenti attinenti, dedussi che l’arco di tempo poteva essere
corretto. La donna nel frattempo osservò i quattro seduti al tavolo.
-Sì, anno più anno meno- rispose uno di loro, cercando di simulare un distacco che la tensione tradiva
facilmente. Tornò quindi a rivolgere la sua attenzione verso di me.
-Perché la sta cerando? Che cosa vuole da quella ragazza?Il silenzio parve moltiplicarsi come se in quel momento, perfino gli insetti dell’altura fossero
desiderosi di conoscere il motivo della mia presenza lì e la ragione dell’interessamento verso una
ragazza che forse non era niente di più che una cameriera, ma che per qualche mistero lassù, sembrava
rappresentare una divinità. Mi resi conto che tutto quel mistero e quel comportamento minaccioso,
nascondeva in sé un atto di protezione, come se la gente del posto fosse una sorta di famiglia affettuosa
o di guardie il cui ruolo era di proteggere la principessa del bosco incantato. Questo me li rese
ammirevoli e riconobbi il loro lato onorevole, tuttavia non me la sentii di abbassare la guardia e
prendendo un contegno cattedratico cercai di rassicurarli facendo credere loro di non aver alcun
interesse per la ragazza al di fuori di un contesto puramente professionale.
-Devo consegnarle una cosa, un documento- passai loro questa informazione e mostrai il fascicolo che
avevo ancora nella mia borsa di cuoio per esibire la mia improvvisata sincerità -sono impiegato di uno
studio legale- continuai a inventare, notando subito un certo nervosismo nei riguardi del riferimento ad
uno studio legale, termine che doveva produrre in quei signori una forma di avversione, e subito mi
destreggiai in una soluzione pacifica che li potesse rassicurare e rasserenare.
-Qualche tempo fa presso lo studio per il quale lavoro è giunto questo fascicolo. Le indagini svolte
hanno rivelato che è stato redatto dal padre di Nausica. L’uomo ha mandato un assegno presso lo studio
incaricandoci di consegnarlo alla figlia. Io svolgo attività di investigatore in questo studio- mostrai il
tesserino sperando di acquisire fiducia. In effetti, una parte di tensione parve dissolversi. Lo sguardo
degli anziani si fece più disteso, i giovani ripreso la loro conversazione, il figlio barista riprese ad
asciugare tazze e bicchieri con disinvoltura, e l’anziana cominciò a fissarmi con maggiore interesse.
Ripresi la mia spiegazione -così sono stato incaricato di scoprire l’identità e la residenza della figlia e
di portare a termine il compito per cui siamo stati pagati- dissi.
-Il padre?- esclamò dopo un po’ però uno degli anziani, e per un momento temetti di aver commesso
un errore di valutazione. Quella effimera distensione che avevo percepito, d’improvviso parve svanire.
-Virginia non ha mai parlato del padre di Nausica- disse allora la vecchia con severità ponderando una
mia possibile menzogna -pensavamo tutti che fosse morto, solo per una visione romantica, ma in realtà
ciò che crediamo è che fosse un uomo che le aveva semplicemente abbandonate, o peggio, dal quale
erano fuggite- rivelò le sue preoccupazioni.
Cercai di trovare una rapida soluzione -forse non ne ha mai parlato perché suo padre non l’ha
riconosciuta come figlia- dissi, supponendo che non sapessero molto della loro storia -e lui non ha mai
saputo nemmeno dove si trovasse, per questo si è rivolto a noi. Forse dopo tanti anni è stato colto dal
senso di colpa e vuole rimediare. È tutto scritto nella lettera nella quale si rivolge allo studio legale,
solo che quella purtroppo non l’ho qui con me, fa parte del contratto stipulato tra le parti. Io so solo che
devo consegnare questo documento. Niente altro-.
-Dov’è ora quest’uomo?- domandò uno dei quattro giocatori di carte e io lo osservai percependo che
ora iniziava la parte più difficile da sostenere. Ogni bugia adesso doveva essere credibile e sostenuta, e
tutto doveva essere perfetto perché quella gente cominciasse a fidarsi e a dirmi ciò che mi occorreva.
L’alternativa, con tipi come quelli, consisteva in un sacco di legnate.
-Io di preciso non saprei dirvelo. Non ho un ruolo di consociato nello studio, mi occupo di indagini,
come vi ho detto, ma temo che questo sia il risultato di ciò che si potrebbe definire l’ultimo desiderio di
un uomo…-Vuole dire che è morto?- pretese che fossi più preciso.
Allargai le braccia -da ciò che ho sentito dire dai responsabili, se non lo è, lo sarà presto-.
-Che cosa c’è nel fascicolo?- domandò la donna.
251
La guardai con decisione -non sono autorizzato a divulgare altre informazioni, ma credo si tratti di
lettere. Le posso garantire che lavoro per uno studio che non accetta lavori che mettano a repentaglio
nessuno. Se questo lavoro è stato accettato, sicuramente è stata valutata ogni condizione di sicurezza,
sia per il cliente che ha richiesto lo svolgimento professionale, sia verso le persone che ne saranno
coinvolte-.
-Non c’è mai da fidarsi di niente e di nessuno quando ci sono di mezzo soldi- disse irritato un altro dei
quattro, e io temetti che la situazione si stesse indirizzando verso le legnate e, seppure amareggiato,
pensai che era meglio battere in ritirata.
-Come volete- dissi cercando di apparire il più possibile cordiale. Riposi la busta nella valigetta e feci
per andarmene.
-Virginia non abitava qui- disse allora la vecchia fermandomi, e io la guardai sorpreso, nello stesso
modo in cui la guardarono gli altri.
-Le mie informazioni mi guidano qui…- dissi pacato.
-Sì, ma qui faceva la babysitter - si affrettò ad aggiungere allora uno dei vecchi -ha accudito per anni
la nostra nipotina- disse, e da quel “nostra” dedussi che il giocatore di carte dalle folte ciglia bianche
doveva essere il marito dell’anziana. Lo guardai tra stupore e commozione -era una brava babysitter,
così come era una brava mamma. Non so come possano certi uomini avere il coraggio di trattare male
simili angeli- disse senza nascondere la rabbia nella sua voce roca. Io restai in silenzio.
-Quando si è ammalata Nausica ha preso il suo posto, anche se avrebbe potuto farne a meno-.
-Che vuole dire?- domandai al vecchio che ora cominciava a commuoversi.
L’anziana camminò verso di me e mi accompagnò fuori del locale -Nausica dispone di un capitale,
una sorta di eredità se volgiamo considerarla tale, che gli è stato donato da quel padre di cui nessuno
qui conosce nulla, ecco perché siamo sospettosi…- mi confidò in disparte.
-Le garantisco che le mie intenzioni…-In teoria non ha necessità di lavorare- mi interruppe disinteressata alle mie giustificazioni e ciò che
credevo di intuire era che non sospettava di me, né di voler sapere null’altro di più di quanto già avevo
detto, ma semplicemente assicurarsi che non venisse fatto nulla di male al giovane angelo che era per
loro Nausica.
-Ma Virginia non ha mai voluto beneficiare di quei soldi. Non li ha mai usati se non per mantenere gli
studi della figlia. Tutto il resto lo ha fatto con le proprie forze. La piccola Nausica è cresciuta con
questi valori e dopo che la madre è morta ha continuato a seguirne gli insegnamenti. Tutta la comunità
di questo paese si è data molto da fare per convincerla ad usare quei soldi. Fosse stato per lei, una volta
divenuta unica beneficiaria, li avrebbe dati tutti in beneficenza. L’abbiamo convinta ad usarli per
crearsi un’istruzione, per andare avanti con gli studi convincendola che poi, una volta diplomata,
avrebbe potuto fare ciò che voleva…-Questo paese è diventato la sua famiglia? Per questo siete così protettivi- dissi.
-Qui tutti vogliono bene a quella ragazza- mi disse, e la sua espressione sottintendeva una sorta di
minaccia che faceva intendere che non avrebbero permesso che nessuno le facesse del male.
-Senta- cercai nuovamente di essere rassicurante -io devo solo consegnarle questo, poi sparirò. Non ho
nessun contatto con il padre, non saprei nemmeno dove trovarlo e non potrei nemmeno dire a lui dove
trovare lei, benché non sia questo ciò che nel contratto stipulato chiede. L’unica sua volontà, per ciò
che mi concerne, è che la ragazza abbia questi documenti…-Ma lui potrebbe trovare lei- disse l’anziano dalle folte ciglia avvicinatosi. Non potevo dargli torto,
come ormai non potevo nemmeno dirgli che io quel fantomatico padre nemmeno lo conoscevo e
nemmeno sapevo se esisteva, tuttavia scossi la testa.
-Le ripeto che ho la sensazione che per quell’uomo non ci sia più molta speranza di trovare nessuno,
ma se vuole posso fare ricerche, posso chiedere allo studio…-Nausica abita più in su- disse la vecchia sovrastando ogni gerarchia e ogni altra intromissione Virginia voleva un luogo isolato, amava il silenzio, la natura e la libertà, e voleva che Nausica
imparasse a vivere con ideali sani-.
-Dove?- domandai consapevole ormai di una flebile fiducia che la donna voleva concedermi.
-Oltre il paese, proseguendo verso nord troverà una piccola casa isolata, era un rudere quando
Virginia venne qui. La comprò per pochi soldi, ma si fece apprezzare subito per la sua cordialità e
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disponibilità e molti di noi la aiutarono sistemare il rudere. Non abbiamo mai voluto sapere perché non
facesse uso dei suoi soldi, seppure ci avesse confidato di usarli per gli studi di Nausica e inoltre, in
questi luoghi, a nessuno piace farsi gli affari degli altri. Nausica sta ancora là, ora ha ripreso gli studi e
presto andrà all’università. Lei mi pare un buon uomo, se è vero ciò che ha detto, concluda il suo lavoro
ma poi, la lasci in pace- sembrava quasi una supplica.
-Le do la mia parola- la ringraziai.
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Padrone del destino…
Non fu difficile trovare il luogo indicato, sebbene quando vi giunsi fossero già le nove passate e una
sensazione di inquietudine mi pervase nel momento in cui, parcheggiando l’auto ai bordi della strada,
osservai l’abitazione. La struttura era decisamente dissestata e non la faceva affatto apparire la dimora
di una che possedesse dei beni che andavano oltre un misero stipendio da commessa nella più umile
delle botteghe del borgo di Casterra. Almeno per quello che si poteva notare da fuori. Era una vecchia
casa di montagna fatta di pietra in cui i segni dell’abbandono, benché abitata da forse più di dieci anni,
erano ancora evidenti ma che, nella sua umiltà trasmetteva una certa condizione di serenità che
potevano, anzi, sembravano trasmettere già da quella distanza il senso di modestia e semplicità che
dovevano caratterizzare l’inquilina che la abitava, sebbene ancora non l’avessi conosciuta.
Per un momento ripensai alle parole dell’anziana protettrice, considerando che io, perfetto
sconosciuto, mi stavo apprestando a sconvolgere l’essenza di un’armonia che qualcuno per lei aveva
con difficoltà costruito, domandandomi se avevo il diritto di profanare quel sacro beneficio alla serenità
che rare volte la vita concede a pochi eletti. Ma forse, pensai poi, non esistevano persone che nella
propria esistenza umana potessero raggiungere un tale livello di elezione da poter essere immuni a
stravolgimenti che la vita, a quanto pare, non era disposta ad elargire, e il fatto che io fossi giunto fin lì,
ne era la prova.
Scendendo dalla macchina respirai a fondo l’aria fresca dei monti sperando che l’ossigeno puro
potesse rigenerare la mia mente, ma quel dubbio restò, conducendomi a valutare ancora con quale
diritto mi apprestavo ad entrare nel privato della vita altrui, intuendo solo in quel momento che questo
era ciò che avevo fatto per metà della mia vita, prima come tutore delle forze dell’ordine agli ordini di
leggi infrante per prima dagli stessi che le avevano prodotte, poi da investigatore privato al servizio di
gente che non sempre, per non dire mai, erano guidati da nobili sentimenti. E la mia esistenza mi parve
improvvisamente squallida e misera, basata sui presupposti che la mia sopravvivenza era sostenuta dai
drammi, dalle tragedie e dai difetti degli altri.
Mi riconobbi in un miserabile speculatore, un approfittatore delle negligenze altrui, sulle quali mai
avevo ponderato le circostanze, motivate o meno che fossero, per cui io in fine mi permettevo di
giudicare e in un certo senso, condannare. Così ogni mia certezza e sicurezza si dissolveva nella triste
realtà che forse, tutte quelle imperfezioni che cercavo negli altri, non erano altro che una chimera dietro
le quali mi nascondevo, per non vedere le mie.
Questa era la prima volta che mi trovavo a considerare e a valutare che la persona con cui avevo a che
fare non aveva nessuna colpa, come probabilmente non lo avevano avuta molte altre che avevo finito
per usare, senza mai vagliare quali circostanze o quali trascorsi della loro vita le avessero condotte a
comportarsi in determinati modi, e nel silenzio della montagna, con le ombre del tramonto che
rubavano il posto al giorno per consegnarlo alla notte esitai, considerando la possibilità di lasciare ogni
cosa così com’era. In fondo, l’unica cosa che mi restava a quel punto era la scelta, e io potevo scegliere
di lasciare la serenità o toglierla, a mia discrezione. In quel momento ebbi come la sensazione che una
forza che travalicava la mia volontà mi stesse concedendo un potere nel quale io avevo facoltà di
svolgere un compito di esagerata responsabilità, come se per pochi secondi potessi essere io padrone
del destino e disporne come meglio credevo. Solo che ancora non comprendevo che l’unico destino di
cui potevo essere padrone era il mio, e che le conseguenze che avrei dovuto poi considerare dovevano
essere relative a quanto i mutamenti apportati dalle mie scelte avrebbero influito sul movimento del
destino stesso, e alle condizioni in cui le mutazioni che ne sarebbero convenute nelle altrui presenze,
avrebbero influito sulle mie.
Qualunque scelta avessi fatto, aveva il potere di modificare gli eventi, ma dovendomene assumere la
responsabilità, in fine, era su di me che gravavano le conseguenze e per tanto io divenivo
semplicemente artefice del mio futuro, divenendo unico e semplice responsabile di quanto tale futuro
avrebbe inevitabilmente corrotto o nobilitato il mio spirito. Ma tutto ciò in quel momento era ancora un
debole pensiero passeggero di cui ancora non ero totalmente consapevole perché, da essere umano, la
capacità introspettiva di cui disponevo era toppo limitata e la mia convinzione restava che io potevo
influire positivamente o negativamente solo sul futuro, sul destino e sulle conseguenze generalizzate in
una molteplicità che coinvolgeva solo coloro che stavano all’esterno, ossia, sul destino e sul futuro
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degli altri, ai quali avrei potuto fare del bene o del male solo in conformità alle conseguenze delle loro
azioni, e non delle mie, perché da quelle era dipeso il mio intervento. Conseguentemente, la mia
riflessione si inclinò sulla visione personale di ciò che era giusto o sbagliato nei riguardi di tale
persona, e ogni altra sfuggevole supposizione si dissolse, come in ogni altra circostanza che io in
definitiva non ero il colpevole ma piuttosto, un ministro di giustizia.
Se avessi dedotto che dal mio comportamento sarebbe dipeso il mio mutamento morale e non quello
degli altri, forse avrei valutato che lasciare la serenità sarebbe stata la cosa migliore, giacché non
sempre la verità rispecchia il bene delle persone, ma proprio perchè invece consideravo che il bene
delle persone dipendeva dalla conoscenza della verità, in fine, decisi che se il destino mi aveva
condotto fin lì, il suo volere era proprio quello di rivelare, pensando ovviamente ancora una volta, che
il destino cui mi riferivo era quello degli altri, e non il mio. Così mi avvicinai con passi lenti alla casa.
Mi soffermai davanti alla porta ad osservare con riverenza l’aspetto di antico che ancora rivelava la
struttura mentre dalle finestre si vedeva una debole luce, prodotta forse da una vecchia lampadina a
basso voltaggio accesa, segno che Nausica era in casa, forse intenta a preparare la cena, e mi domandai
come dovevano essere le serate di una ragazza giovane e sola come lei.
Immaginai una serenità malinconica dovuta al vuoto lasciato dalla madre e ai pochi ricordi che ancora
la sua giovane età poteva concedergli come compagni, e per un istante pensai che probabilmente non
stavo portando così cattive novelle, ma anche prospettive di nuovi ricordi che potevano essere accolti
come nuovi amici, nuove ricerche e nuovi stimoli, senza considerare che, ovviamente, le mie erano
solo suggestive giustificazioni. Quindi osai tirare la corda cui stava appesa una simpatica campana di
bronzo con sopra l’incisione di una mucca, probabile regalo di uno degli angeli custodi del paese. Si
sentì un deciso rintocco dal suono limpido e molto più romantico di quello che in una casa moderna
sarebbe stato sostituito da un campanello dallo sgradevole suono elettrostatico. Il tempo intorno a me
sembrò fermarsi e per un istante ebbi la visione della giovane ragazza che fermava ogni sua attività e si
girava ad ascoltare la nota che annunciava una visita inattesa. Aspettati in leggero imbarazzo
accorgendomi che non mi ero nemmeno preparato a dare una credibile presentazione di me, dal
momento che dovevo propormi da sconosciuto. Sentii il movimento di passi veloci che correvano verso
la porta e mi resi conto che forse la ragazza si stava lasciando prendere da un entusiasmo che non
avrebbe dovuto avere in quei luoghi solitari. Pensai quindi che avrei dovuto darle dei consigli, tipo
quello di essere più prudente, ma quando la porta si aprì e la ragazza mi si presentò davanti, mi resi
conto che la visita non era per niente inattesa, seppure non fossi certo io ad essere l’atteso. Subito restai
folgorato dalla sua bellezza. Una ragazza esile, col viso dai lineamenti delicati, lunghi capelli neri
corvini e occhi profondamente blu. Indossava un abito da sera e in mano teneva due orecchini che
probabilmente stava per indossare nel momento in cui aveva sentito il suono della campana. Era
evidente che aspettava qualcuno, il che giustificava la sua corsa ad accogliere l’ospite, come evidente
fu il suo imbarazzo e la sua sorpresa nello scoprire che l’ospite giunto non era quello atteso. Per
qualche secondo, entrambi imbarazzati per l’imprevisto che ci aveva colto di sorpresa, restammo in
silenzio, poi io, che ero l’intruso, notando un timido timore nel suo viso che passava dal sorriso
all’incertezza, cominciai a dare informazioni rassicuranti, cercando di introdurre il motivo della mia
visita e la prima cosa che domandai ovviamente era se lei era Nausica Turchese, il che, dedussi, non era
certo il massimo della rassicurazione che potevo offrire da sconosciuto.
-Sì, sono io- rispose timidamente la giovane -ma lei chi è?- domandò ovviamente.
Mi resi conto che sarebbe stato opportuno presentarmi e qualificarmi prima di chiedere informazioni su
di lei, e a quel punto ogni mia valutazione, considerazione e organizzazione su tutto ciò che mi ero
preparato a dire, svanì dalla mia mente.
-Mi chiamo Donato Mastammi- mi affrettai a presentarmi imbarazzato -sono un investigatore privato
e sono qui per conto di suo padre- la informai dimenticando ogni invenzione fatta precedentemente con
gli angeli custodi, e mi resi conto di correre troppo velocemente vedendo la sua espressione mutare da
imbarazzo in stupore.
Compresi che dovevo ristabilire in fretta l’equilibrio -ma forse sono giunto in un brutto momento,
stava aspettando qualcuno?- domandai più che altro per prendere tempo. Per un attimo sul volto le
riapparve un sorriso che distolse la sua attenzione dall’annuncio appena ricevuto, ma la notizia
traumatizzante fece svanire in fretta l’illusione.
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-In effetti sì- rispose quasi senza ricordare la domanda, subito dopo infatti tornò a ciò che le avevo
introdotto con troppa irruenza -ma cosa diceva su mio padre?Mi resi conto che ormai avevo superato un confine che non potevo in alcun modo arginare, e cercando
di accantonare ogni emozione presi un contegno professionale.
-Sono qui per conto di suo padre- ripetei e a quel punto, come se per la giovane la ripetizione avesse
avuto la necessità di confermare qualcosa che non credeva di aver capito bene, la serietà del suo viso si
fece concreta.
-Intende il mio vero padre?- mi domandò, facendomi capire che ancora aveva vaghi ricordi di
un’infanzia in cui un padre che non era stato suo padre era ancora presente e un padre che era stato suo
padre, al contrario, non era mai stato partecipe nella sua vita.
Ogni mia preliminare preparazione a quel dialogo si smarrì totalmente e come chi si appresta a fare un
discorso in pubblico dopo essersi preparato per giorni e all’improvviso non si ricorda più nulla dovendo
improvvisare, mi trovai completamente spiazzato. Il distacco professionale non mi era per niente
complice e ogni mio sforzo di contegno sembrava totalmente inefficace in quanto, in conseguenza a
tutte le considerazioni fatte poco prima, già mi sentivo affezionato alla giovane e la complessità delle
mie rivelazioni mi si presentavano ora così traumatiche che non riuscivo ad inventarmi nulla che
potesse essere confortante, e dopo un’esitazione di inutile ricerca giustificante, rassegnato ammisi -il
suo vero padre-.
Per un attimo pensai che sarebbe svenuta vedendola impallidire. La sua espressione si fece seria e
brusca per qualche secondo, poi sul viso parve tornare la serenità.
-Io non ho mai conosciuto il mio vero padre, e mia madre non me ne ha mai parlato, se non per dirmi
che l’uomo che per qualche anno della mia infanzia avevo considerato mio padre, in realtà non era mio
padre-.
Mi invitò a entrare. Esitai pensando che avrei dovuto evitare complicazioni, ma non trovavo alcun
sistema per districarmi ormai dalla condizione che io stesso avevo creato. Mi fece accomodare al tavolo
e quasi dimenticando che aveva un appuntamento mi offrì un bicchiere d’acqua, unica bevanda di casa
sua aveva velocemente spiegato con un sorriso riluttante.
-Veramente io sono qui solo per consegnarle una cosa- cercai di velocizzare e chiudere al più presto
l’incontro, rendendomi conto un istante troppo tardi che l’unica cosa che potevo consegnarle era il
manoscritto di suo padre, nel quale avrebbe scoperto verità che sicuramente l’avrebbero condotta a quel
trauma che avrei voluto evitarle e mordendomi il labbro imprecai contro me stesso. Lei però sembrava
interessata ad altro e quasi parve non sentire la mia motivazione.
-Lei lo ha conosciuto?-Prego?- domandai incerto di aver capito la domanda visto che la mia mente stava cercando di
elaborare una soluzione.
-Mio padre, lo ha conosciuto?- pose davanti a me una tazza il cui decoro aveva forse lo scopo di
rendere l’acqua più attraente.
No, non lo avevo conosciuto, pensavo dentro di me, eppure, avevo come la sensazione di conoscerlo da
tempo, forse, a causa di quel manoscritto, da sempre. Tuttavia quella condizione mi offrì uno spiraglio.
-A dire il vero no- le risposi -molti miei clienti preferiscono restare anonimi e mi contattano attraverso
intermediari o attraverso dei documenti in cui mi spiegano il motivo delle loro richieste-.
-Ma lui è vivo?- mi domandò, e di nuovo mi sentii ingabbiato in quella cella da cui credevo di essere
appena uscito.
-Io…- cercai una veloce risposta sapendo che da ciò che dicevo avrei potuto scatenare una
conseguente reazione. Se le avessi detto che era vivo, avrei potuto innescare l’istinto della ricerca, se le
avessi detto che era morto, avrei dovuto giustificare comunque la mia presenza in quelle circostanze e
improvvisamente la citazione biblica, “la verità vi farà liberi”, mi parve un assurdo paradosso.
Qualunque cosa avessi detto a quel punto, avrebbe scatenato una reazione che in nessun modo potevo
controllare. Respirai a fondo e forse per la prima volta in vita mia, mi lasciai veramente guidare
dall’istinto.
-Nausica, io so solo che lei è beneficiaria di un fondo monetario con il quale suo padre ha voluto
assicurarle un futuro. Le ragioni che lo hanno spinto a cercarla non mi sono state rivelate, forse dopo
tanti anni ha avuto una crisi di coscienza, o forse ha solo voluto farle sapere che non ha mai smesso di
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pensare a lei e in questo modo le vuole dimostrare il suo affetto. Sinceramente non so dove sia suo
padre e nemmeno posso dirle se sia ancora vivo o se tutto questo faccia parte di un testamento redatto
in un tempo precedente. Tutto quello che posso dirle è che, nel rispetto di uno scrupolo, credo che suo
padre voglia che lei continui a vivere la sua vita così come ha sempre fatto e non si lasci coinvolgere da
errori che lui o altri hanno commesso in passato. Credo semplicemente che tutto ciò che volesse fare sia
di chiederle perdono e di accettare ciò che è stato-.
Pensai di essermela cavata bene e per un momento mi sentii fiero di me, ma mi resi conto poco dopo di
sbagliare.
-Perché si è rivolto proprio a lei? Lo conosceva?- insisté come se non avesse sentito ciò che le avevo
detto ma con una semplicità che non ammetteva falsità, non potendo accettare che fosse uno
sconosciuto a portarle notizie nelle quali forse non sperava più, o non aveva mai sperato. La guardai in
silenzio cercando di farle capire che non volevo rispondere a questa domanda, ma lei mi fece intendere
che era necessario, giacché per lei era come se le avessi rivelato che lo conoscevo, e quando proseguì,
mi resi conto che io stesso le avevo fornito quell’alternativa.
-Parla di lui come se lo avesse conosciuto. Ho quasi vent’anni ormai e non so nemmeno chi sia stato
mio padre. Forse lei non può capire, o forse gli è stato imposto di non dire niente per proteggermi da
qualche azzardato tentativo di ricerca, ma se sa qualcosa di più su di lui, allora me lo deve dire, almeno
così potrei capire il perchè di tante cose, potrei capire il perchè della tristezza di mia madre, e potrei
capire se mi amava o se…Provai una forte emozione, e quasi senza difese non riuscii a impedirmi di provare quell’assurdo
sentimento di cui tanto si parlava nel manoscritto e, bisognoso quasi di dare un conforto, contro la
citazione biblica, le mentii, pensando che non sempre la verità era a fin di bene e non sempre il mentire
era a fin di male.
-Sì- le dissi -l’ho conosciuto, ma indirettamente e non di persona- mi affrettai ad aggiungere giacché
comprendevo che se avessi esagerato avrei potuto trovarmi nella condizione di dover rivelare troppo e
in quel momento il suono di un clacson che disturbava la quiete della montagna giunse, malgrado
l’inopportuna gravità sgraziata del suo stridente urlo, come un salvatore. Ringrazia il propizio
intervento dell’ospite atteso da Nausica e mi apprestai a concludere la mia fatica, sebbene ancora non
comprendessi cosa realmente avessi concluso.
Vidi la giovane chiudere gli occhi in un atteggiamento di giustificazione -mi perdoni- disse -mi ero
scordata che avevo un appuntamento-.
-Il suo ragazzo?- le domandai, senza immaginare che tra non molto sarei stato rigettato nell’abisso.
-Sì- disse velocemente, ma poi la condizione imprevista ebbe il sopravvento perfino sul cavaliere
azzurro -non ci vorrà molto, gli dirò che ho un imprevisto e di tornare domani-.
Mi sentii intrappolato come un lupo preso in una tagliola e subito pensai che se non mi divincolavo al
più presto la tagliola mi avrebbe troncato le zampe e non sarei più potuto fuggire, ma solo restare in
attesa del cacciatore che mi avrebbe finito, e quel cacciatore, si chiamava “destino”.
-No, Nausica- dissi forse con troppa irruenza -io non posso restare- allargai le braccia in segno
d’impotenza -inoltre ho fatto una promessa e sono vincolato dal segreto professionale- la guardai farsi
cupa e triste.
-E secondo lei io dovrei restare così? Nell’oblio di un’illusione che nemmeno mi attendevo si potesse
verificare un giorno?Provai repulsione verso me stesso e scossi il capo ammettendo nella rassegnazione tutta il mio
rammarico.
-Senti, posso solo dirti che non ti odiava…-E se io la ingaggiassi? Se volessi usare i miei soldi perché lei mi raccontasse di lui, allora potrebbe
parlarmene?-Sarebbe un’assurdità. Perché vuoi…-Sono soldi miei, li posso usare come voglio no? Quanto mi costerebbe?Potevo intuire quanto era sconvolta, e potevo capire solo in quel momento quanto io ero meschino non le costerebbe nulla- le dissi a quel punto lasciando il tono confidenziale che nemmeno mi ero reso
conto d’aver preso per tornare a quello professionale, e il suo volto si fece un misto di speranza e
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dubbio -le chiedo solo di pensarci. Ma le ripeto che io so solo ciò che mi è stato raccontato, per questo
le ho detto che lo conosco solo indirettamente…-Sì, ma io sento che lei può rivelarmi qualcosa da quel poco che ha saputo-. Il clacson suonò di nuovo
ma nessuno sembrò sentirlo.
-Ha detto che doveva consegnarmi qualcosa, è qualcosa che apparteneva a lui?- mi ricordò, e io mi
sentii come il boia che si apprestava a infliggere l’estrema condanna. Chiusi gli occhi e annuii sentendo
di non aver scampo, poi, frugando nella borsa, sentii la mano che, oltre alla documentazione che avevo
deciso di donare a lei perché ritenevo che a lei appartenesse, incontrava un altro elemento presente.
Non mi ci volle molto ad intuire di che cosa si trattasse, la cosa che fu più drammatica fu la brevità
dell’istante in cui mi trovai a dover compiere una nuova scelta. Non volevo distruggere la sua realtà e
quando estrassi la mano dalla borsa, anziché il documento scritto da suo padre, tenevo in mano il libro
di fotografie di Demetrio.
-È un libro che parla di dove è vissuto. Lui ha aiutato il fotografo suo amico a trovare i soggetti per
realizzarlo. Credo che sia l’unica cosa che in qualche modo ritenga potesse avere un legame tra di voi-.
-Demetrio- disse la giovane e io la guardai sorpreso -era il suo amico fotografo, mia madre parlava
spesso di questo fotografo, credo che ne fosse segretamente innamorata, ma diceva che lui era una
specie di nomade… ha in qualche modo a che fare con tutto questo?- il clacson suonò ancora nella sua
completa inerzia da tanto era ignorato.
-Sì ma…- non so quanto potevo osare, e non so nemmeno quanto volevo -sua madre non ne era
innamorata, lo stimava molto certo ma…-Allora lei sa- lo disse quasi come un’accusa. Di nuovo si sentì suonare. La vidi aprire la finestra e
gridare all’ospite qualcosa che aveva a che fare con l’aspettare, poi tornò a rivolgersi a me, ma prima
che potesse parlare io le stavo porgendo un biglietto.
-Tenga questo e ci pensi, le chiedo solo di concedersi qualche giorno. Vada col suo ragazzo ora e
pensi a divertirsi-.
Mi guardò incerta e triste, poi sospirò -lo farò solo se mi promette che se deciderò di chiamarla lei
risponderà-.
Sorrisi in modo amichevole -lo farò- la rassicurai e subito vidi il suo viso stendersi in una sorta di
ringraziamento. Gli occhi le luccicarono mentre il clacson suonò di nuovo.
Mi guardò e a sua volta, scuotendo il capo sorrise -Dennis è un caro ragazzo, ma a volte non è molto
paziente- e mentre il suo sorriso tornava a riportarle serenità sul volto, io mi sentii raggelare.
-Il tuo ragazzo si chiama Dennis?- le domandai mentre sistemava velocemente gli orecchini.
-Sì- rispose.
-E come lo hai conosciuto?- non valutai la mia invadenza improvvisamente angosciato di cercare una
risposta che non ero certo di voler sentire, e lei, nemmeno la notò.
-Al funerale di mia madre. In realtà l’ho solo rincontrato. Eravamo compagni di scuola ai tempi delle
elementari e mia madre era la nostra insegnante, per questo lui era al funerale. Ci siamo incontrati dopo
tanti anni, non è curiosa la vita? Da un dramma è nato comunque qualcosa di nuovo, abbiamo ripreso a
frequentarci e ora, pensi, stiamo addirittura progettando di sposarci… ho perso mia madre ma ho
trovato l’amore- disse con un leggero ma sereno imbarazzo.
Io la guardai -già, proprio bizzarra la vita- risposi mentre per un istante valutai la possibilità di
consegnare il vero oggetto della mia presenza lì, poi l’irritante clacson suonò di nuovo e lei si girò
verso la porta, quindi tornò a fissarmi.
-Allora abbiamo un accordo?Io annuii, sapendo che ora anch’io avevo un buon motivo per cui riflettere sul quanto e sul perché
rivelare ciò di cui ero a conoscenza.
Uscii per primo e lei mi seguì, ci stringemmo la mano, quindi io mi diressi alla mia auto mentre lei si
avviava lenta verso il… fidanzato. Immaginai di che cosa avrebbero parlato e di come quella non
sarebbe stata una normale serata per loro, così come per me quella non sarebbe stata una normale
nottata perché un insolito istinto mi faceva presumere che l’avrei passata in un luogo oscuro.
Vidi la macchina di Dennis avviarsi verso una strada che non sapevo dove portava e sorrisi
amaramente pensando a come il destino aveva giocato subdolamente quella partita. Virginia era fuggita
da Casterba senza rivelare la paternità di Nausica, accettando di essere considerata un’adultera nel
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tentativo di proteggerla e ora, da morta, lasciava a me, un completo sconosciuto, il triste compito di
svelare verità scomode.
Tommaso, suo complice, era stato compromesso da questo evento, eppure, mai si era saputo che il suo
tradimento era stato con Virginia. Tuttavia il destino aveva trovato un modo per punirlo e quel suo
ritrarsi da ogni responsabilità lo aveva condotto verso sentenze ben più gravi. Era stato spinto verso una
sorte ben più angosciosa con l’accusa di un adulterio al limite della pedofilia, visto la differenza,
sebbene entrambi adulti, delle età di coloro che in questo fantomatico giudizio si erano ritrovati
compromessi. E la beffa era che proprio quel tradimento con la giovane Vanessa, mai avvenuto, era
stato il motivo del suo divorzio… ma poco importava ormai fare un esame degli eventi, ciò che restava
da considerare era che attraverso questi nessuno ora sapeva che i due amanti che io avevo appena
osservato fuggire via, erano fratelli. Anna, la madre di Dennis, ritenendo Vanessa la sua rivale e non
Virginia, non sapeva nulla di tutto questo, ed essendo lei all’oscuro della relazione che avrebbe dovuto
essere stata la vera causa del loro divorzio, non aveva ragione di intromettersi tra i due incestuosi
amanti. Tommaso era scomparso, presumibilmente morto, così come era morta Virginia senza mai
rivelare l’identità del vero padre a Nausica, non certo pensando che un giorno lei stessa sarebbe stata la
causa che avrebbe fatto nuovamente incontrare i due fratelli in circostanze di totale inconsapevolezza.
E io adesso, ero l’unico conoscitore della verità e forse solo in quel momento mi si rivelava il motivo
della mia ricerca, e pensai che il destino, veramente giocava con dadi dalle facce prive di numeri.
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I treni ritornano…
Non so per quanto tempo vagai senza una meta lungo strade che non conoscevo, non so nemmeno per
quanto tempo la mia stessa mente avesse errato solitaria tra le vie dei pensieri che quasi nemmeno
sentivo e conseguentemente, non so che cosa fu a condurmi a tornare laggiù. Forse il mio ultimo
contatto con la realtà prima di perdermi nel labirinto del vuoto, legato a quei dadi dalle facce bianche, o
forse la musica trasmessa dal canale radio su cui automaticamente lo stereo si era sintonizzato quando
avevo acceso il motore e che, per quella che non potrei più definire un’ironia della sorte, trasmetteva un
concerto per chitarra classica che si era intromesso come sottofondo ai miei pensieri mentre guidavo.
So solo che era notte fonda, forse più profonda di quanto mai fosse stata, come se il tempo le avesse
aggiunto delle ore in più per renderla più assoluta e oscura, quando giunsi al cimitero di Casterba, dove
il vuoto della luce artificiale che non serviva agli spettri, dava al concetto di notte un'altra prospettiva.
Una piccola falce di luna calante che si avviava verso la fase di luna nuova, non aveva capacità di
gettare sufficiente luce riflessa sulle ombre del paese fantasma e tutto ciò che si poteva distinguere
erano solo sagome oscure di forme che solo la memoria poteva condurre a identificare come lapidi.
Davanti al tetro cancello pensai che una persona normale, in una condizione normale, non avrebbe mai
osato addentrarsi all’interno di un luogo che ad uno sguardo razionale avrebbe proposto il senso di una
maledizione da evitare. Ma io ormai non mi potevo più considerare una persona normale, e sebbene su
tale concezione avessi potuto convincermi che potevo comunque riservarmi dei dubbi, sul fatto che la
condizione in cui mi trovavo non era normale non potevo avere alcun sospetto. Così alla mia vista, o
meglio alla condizione che i fatti vissuti avevano condotto la mia vista, quel luogo tetro e oscuro non
appariva sotto forma di minaccia ma piuttosto di comprensione, e fu con una totale mancanza di timori
che osai oltrepassare l’inferriata diroccata, contorcendomi tra le sue ringhiere scardinate. Mi guardai
intorno, certo non alla ricerca di fantasmi perché malgrado tutto, in quel paese fantasma, l’unica cosa di
sicura era che di fantasmi non ce n’erano. Osservai verso la piccola casa di legno immaginando che il
custode stesse dormendo e per un momento congetturai con perfidia la possibilità di essere io a
spaventarlo spalancando violentemente la porta in piena notte, laddove nessuno avrebbe osato farlo e
dove lui sicuramente non si attendeva che qualcuno lo facesse. Me lo figurai balzare in piedi con gli
occhi spalancati in un atto di puro terrore al pensiero che le anime sulle quali vegliava erano reali e si
erano destate per ribellarsi alla sua pigra sorveglianza, ma mi rendevo conto che stavo solamente per
ingannarmi da solo perché dietro quel tentativo di ironizzare su scherzi che si sarebbero potuto fare
solo da adolescenti, mentre mi incamminavo tra le lapidi, nascondevo il presentimento di sentire degli
occhi su di me, ed ero certo che lì dentro qualcuno non stava dormendo. Tutto ciò che mi auguravo a
quel punto, era che a non dormire fosse proprio il custode e non qualcos’altro, capendo che in
definitiva, per quanto cercassi di nasconderlo a me stesso, avevo paura.
Il silenzio era forse più penetrante dell’oscurità, e quando l’eco si fece percepire al mio senso uditivo,
ogni ironia non avrebbe avuto alcun potere di esorcizzare nessuna paura, e nello svanire dell’umorismo
macabro un brivido mi tolse, oltre al respiro, tutte le certezze, portandomi a credere che quei fantasmi
che mi ostinavo a non considerare probabili, stavano invece fissandomi e magari, anziché alla pigra
sorveglianza del custode era alla sgradita presenza di un intruso che non volevano nel loro regno, che
rivolgevano la loro attenzione.
Quel rumore somigliava ad un ritmico suono di percussioni, ma non di quelle percussioni che si
potrebbero sentire ad un concerto di musica rock o classica che fosse, ma a percussioni prodotte da un
tamburo che se avessi potuto definirlo in qualche modo, lo avrei determinato come fatto di vento, solo
che nella notte più profonda del profondo, non c’era vento, e non c’era niente altro che potesse
percuotere qualcosa che non aveva forma come il vento. La paura mi bloccò e inerme restai ad
aspettare l’assalto degli spiriti mentre l’eco si faceva più intenso e percepibile, poi sembrò come
scappare tra un improbabile rumore d’ali e io finii per immaginare che angeli oscuri si stessero
involando su di me pensando che in fine, tutto si sarebbe concluso tra le braccia di demoni che in
qualche modo avevo offeso, forse perché non avevo saputo gestire ciò che mi era stato affidato con uno
scopo che ancora non avevo compreso. Sentii quindi un fonema acuto che non riuscii a interpretare e
che nemmeno tentai di fare giacché già mi consideravo condannato, finché una voce non mi assalì alle
spalle.
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-È solo un gufo- disse, e improvvisamente l’incanto della paura si indebolì e dopo l’accelerazione, il
cuore cominciò a farsi più regolare. Era bastata la sua voce per ricondurmi alla normale concezione che
fantasmi e demoni non erano reali e nel voltarmi, osservai il custode seduto dietro la solita lapide,
riuscendo a determinare quell’ultimo acuto che non avevo saputo interpretare, quello della chitarra
scordata.
-Rilassati, non ci sono fantasmi qui, ormai anche loro se ne sono andati-.
Restai in silenzio attendendo che la mia ansia si placasse mentre il guardiano mi fissava.
-Sai, una persona sana di mente avrebbe timore ad entrare qui in piena notte- disse, forse per farmi
capire che percepiva i miei pensieri dal momento che la ragione per cui ero lì, ne avevo la sensazione,
già la conosceva.
-Non avrebbe tutti i torti, soprattutto sapendo che ci sei tu-. Gli sentii fare una risata.
-Allora amico, riesci a prevedere il futuro adesso?- mi domandò successivamente, ma io a quella che
supponevo una domanda insensata non diedi molta attenzione.
-No, non ancora- risposi con semplicità, ma già, tra tutto ciò che avrei potuto apprendere quella notte,
se qualcosa avessi comunque potuto apprendere, percepivo come se ignorare la sua prima domanda,
non fosse del tutto sottovalutabile.
-Ancora solo? Non è tornata la tua graziosa collega?- fu la seconda domanda, che era più
un’affermazione.
-No- risposi senza perdermi in ulteriori dettagli.
-Ah, capisco- sospirò -ma forse lei ha capito più di quanto non abbia fatto tu e così ha deciso di
andarsene prima che sia troppo tardi- aggiunse al mio semplice no, e io non potei evitare di sentirmi
minacciato.
-Che cosa intendi dire?Il guardiano mi osservò attentamente.
-Hai trovato quello che cercavi tra le tue montagne?- mi domandò.
-Come sai da dove arrivo?-Perché se sei ciò che dici di essere a questo punto ormai dovresti aver scoperto tutto-.
-E tu che ne sai di che cosa avrei dovuto scoprire?-Non molto, ma se cercavi la figlia di Virginia e l’hai trovata, è 
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