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Relazione Miriam Gandolfi

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Relazione Miriam Gandolfi
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I SIGNIFICATI DEL SILENZIO. UN METODO PER ACCEDERE AL MONDO
DEL SOGGETTO AUTISTICO E DELLA SUA FAMIGLIA.
La psicologa Miriam Gandolfi – Martinelli è supervisore del gruppo che presso il
Centro Sociale di Cortaccia si occupa di persone con autismo.
Il metodo ideato propone un ribaltamento nel modo di considerare i soggetti autistici e
in particolare prevede di provare a guardare il mondo con i loro occhi. Nella seguente
relazione spiega quali sono i presupposti teorici che stanno alla base di questo nuovo
modo di lavorare e quali sono i risultati finora ottenuti.
Prima di proporvi il mio contributo desidero ringraziare sentitamente, oltre agli ospiti,
dott.sa Rossi e Prof. Buccino, che avete già potuto apprezzare, la dottoressa Liliana di
Fede, perché è grazie a lei se oggi possiamo essere qui a scambiarci idee ed esperienze.
Chi mi conosce sa che non sono incline ai complimenti di circostanza, perciò questo
ringraziamento non solo è sentito, ma ha a che fare proprio con l’essenza del contributo
che cercherò di proporvi.
Infatti quando Liliana e Johanna mi hanno chiesto, due anni fa, di dare supervisione al
gruppo che si occupava di pazienti autistici ed in particolare dei problemi che si erano
creati con l’accoglimento di un nuovo utente molto difficile da gestire, ho posto loro
una specie di ricatto: avrei accettato se avessi potuto proseguire un lavoro di ricerca
iniziato tre anni prima, ma che procedeva molto lentamente per la difficoltà a contattare
un numero sufficiente di bambini con diagnosi di autismo e le loro famiglie.
Vi direte che in fondo non sembra un gran ricatto. Il problema è che accettare di
lavorare con me significava rovesciare a testa in giù la lettura del paziente autistico. Il
modo di lavorare che proponevo, come questo lavoro che Vi propongo ora, non è un
metodo per guidare a, e lavorare con, quei soggetti particolari che chiamiamo autistici.
È un metodo per guidare a, e lavorare con, cuccioli di esseri umani di cui alcuni
vengono nominati autistici, per tutta la vita.1
Bene. Tornando al ricatto non solo ho ricevuto carta bianca, ma la responsabile di
struttura, Johanna Marsoner, ha coinvolto e trascinato in questa avventura tutto il
personale, così abbiamo messo a testa in giù e piedi in aria, non solo tutti gli assistenti
della struttura abitativa, ma anche le altre figure professionali fino a spingere la preside
1
La visione di questi pazienti è secondo me rappresentata dal dipinto di Paul Klee dal
titolo “Ha testa, mano, piede e cuore”, 1930.
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della scuola media in cui era inserito il nostro Struwwelpeter a chiederci un incontro con
tutti gli insegnanti e lei stessa. Anche in quella occasione non ci siamo mossi per dire
cosa fare, ma per mostrare loro come si vede il mondo da sotto in su, cioè come
avevamo imparato a guardare con gli occhi del nostro Pierino Porcospino. Perché faccio
riferimento a questo personaggio molto noto nelle storie pedagogiche del mondo
tedesco? Questo personaggio si riferisce al famoso “ragazzo selvaggio” trovato nei
boschi di Hammeln nel territorio di Hannover, nel 1725. A lui fu assegnato dal futuro
re d’Inghilterra Giorgio I, il nome di Peter, ed è considerato il primo caso di autismo
studiato. Ecco perché ho scelto il suo nome per presentarvi i ragazzi dei quali vi parlerò.
Dopo il primo anno di lavoro con i nostri Struwwelpeter si è contagiato anche un
Convitto di Brunico, attraverso Rosalba Dalceggio, e così il gruppo dei “capovolti” si è
allargato. La signora Sacco di cui farete anche la conoscenza nel pomeriggio era già nel
club per altre vie, poiché il bimbo di cui lei si occupa era ed è tuttora nel primo gruppo
originario della mia ricerca. Ormai vi è chiaro che cercherò di trascinarvi in questo
viaggio a testa in giù, spero senza disturbi vestibolari o gastrici.
Cercherò di seguire con voi lo stesso percorso seguito con i miei collaboratori.
Il personale allora, come voi oggi, si diceva: “E’ un’esperta. Speriamo che abbia
qualcosa di utile da dirci su come ottenere che Pierino/Peter la smetta di denudarsi, di
urinare o defecare in giro, o la smetta di tuffarsi nel piatto del vicino gettando nello
scompiglio tutto il tavolo, che ci dica come fare a impedire che si ferisca contro i muri,
scardini le porte e, soprattutto, ci mandi al pronto soccorso.
Potremmo sintetizzare questa richiesta con il seguente schema
ESPERTO
ESPERTO
OPERATORE
GENITORE
CONTENERE
ADDESTRARE
CONVINCERE
IMPORRE
GUIDARE
DISSUADERE
CASTIGARE
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BAMBINO / AUTISTICO
Ma se il bambino non la vuol capire, dovremo concludere che è proprio
cocciuto
testardo
-
furbo
cattivo
problematico
grave
impossibile da riabilitare.
Un vero Struwwelpeter!
Come si vede la richiesta di intervento procede in modo lineare e unidirezionale da colui
che sa di più a colui che sa di meno. Gli esseri umani hanno tuttavia una curiosa
tendenza, come sostiene Bateson, se non una vera e propria malattia: quella per cui
confondono la conoscenza con il potere. Cioè la possibilità di controllare l’altro,
obbligandolo a fare ciò che ritiene giusto. Chi si occupa di bambini, di bambini con
difficoltà del comportamento e ancor di più se con comportamento autistico, sperimenta
a proprie spese che chi ne sa di più è totalmente disarmato di fronte ad un rifiuto netto
opposto dal bambino. Tuttavia gli adulti, che soffrono sovente di disturbi
dell’apprendimento, insistono ad applicare comunque il metodo del repetita iuvant, per
cui se butti a terra qualcosa ti obbligo a raccoglierlo, se sporchi ti obbligo a pulire, se
non mangi si sta qui finché non lo fai, se mi dici “cacca” ti porto al bagno e poi non la
fai (e lo sapevo già che mi volevi fregare, perché in realtà volevi solo attirare la mia
attenzione) si sta sul water finché non capisci che così non la ottieni.
Dallo schema si vede dunque come è l’adulto/operatore che sceglie e invia i comandi in
risposta a comportamenti del bambino / paziente. Benché, come tutti sappiamo, bambini
sani o portatori di qualche problema la spuntino sempre sull’adulto se decidono di non
concedergli l’illusione che è lui il grande/l’esperto a condurre il gioco. Sì, avete capito
bene, è il bambino che ci fa sentire competenti sia come genitori che come operatori.
Tant’è vero che quando qualcosa fallisce, prima ci sentiamo in colpa e poi decidiamo
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che è il bambino ad essere proprio terribile o malato, io dico “rotto”. E allora insistiamo
a contenerlo, addestrarlo, convincerlo, ecc.
Vediamo da dove nasce questa mia affermazione bizzarra.
In uno dei miei recenti viaggi di lavoro salgo sul treno ed entro in uno scompartimento
dove si trovano una giovane italiana, lo capisco da come risponde al mio saluto, e una
giovane mamma di origine africana, con un bimbino che stimo, dalle competenze
motorie, di circa 16/18 mesi. Dietro di me entra nello scompartimento una coppia di
giganti nordici (nel sentirli parlare capisco solo che non sono né tedeschi, né inglesi o
francesi). L’uomo sembra un discendente di Asterix, salvo che i capelli e la barba non
sono raccolti in trecce. La giovane mamma africana raccoglie un po’ di borse e ci lascia
posto. Poco dopo il bimbo in braccio alla mamma comincia ad agitarsi. Tutti i grandi
sorridono, tranne la mamma, che imbarazzata non sa come controllarlo, quindi prima lo
coccola, poi lo fa saltellare sulle ginocchia, infine lo sculaccia un po’, ma il bambino si
divincola, scivola giù e si infila fuori dallo scompartimento trottando lungo il corridoio.
La mamma scatta. Lo acciuffa e si piazza con il corpo a sbarrare la strada in maniera
che il bambino può muoversi in una sola direzione del corridoio, fino alla lunghezza del
braccio della mamma, o entrare nello scompartimento dove ci siamo noi. A quel punto
il bimbo caracolla verso lo scompartimento, ma si trova davanti una delle enormi gambe
del pronipote di Asterix, il quale gentilmente, con un sorriso, piega il ginocchio per
lasciar entrare il cucciolo. A quel punto cosa fa Pierino? Non entra. Guarda negli occhi
azzurrissimi quel gigante e si ferma, l’uomo fa un cenno con il capo, ovviamente in
silenzio, il bambino si gira un po’, guarda la madre, poi riguarda il gigante, poi guarda
le altre tre donne, prima serio, poi sorridente e infine entra. Cammina barcollando fino
al finestrino. Il signore, nel frattempo, ha steso nuovamente la sua enorme gamba. Il
bimbo fa un’inversione di marcia con una certa difficoltà e quando finalmente è girato
trova il passo sbarrato dalla diga umana. Nessuno ha pronunciato parola. Tutti
sorridono. Il bambino si ferma, ma per mantenere l’equilibrio nel treno in marcia, si
appoggia con la manina alla coscia, il signore simultaneamente e casualmente piega di
nuovo il ginocchio e libera il passaggio. A quel punto il bambino comincia ad alternare
un’espressione del viso interlocutoria ad un sorriso sempre più ampio. Varca la soglia,
fa tre passi per riuscire a girarsi, torna verso la gamba, guarda il signore, che, a quel
punto, introduce una variante. Aspetta a muovere la gamba finché il bambino non tocca
volontariamente la sua coscia e, quando il bambino lo fa, tocca a sua volta con la punta
del suo dito il dorso della manina ritirando poi in fretta la mano. Il bimbo arriva, si
ferma, guarda prima l’uomo poi gli altri viaggiatori, tocca l’uomo, questi lo tocca a sua
volta, piega la gamba, il bimbo si gira e ricomincia.
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A quel punto l’uomo ne ha abbastanza di quel gioco e riprende la conversazione con la
sua compagna, pur ponendo attenzione a cedere il passo al bambino, che nel frattempo
alterna l’entrata nello scompartimento con qualche breve esplorazione nel corridoio fin
dove la madre glielo consente. Ogni volta che il bambino si ripresenta sulla soglia dello
scompartimento il signore ritira la gamba in automatico, ma ad un certo punto è il
piccolo che introduce una variante. Benché il passaggio non sia più sbarrato, il bambino
si piazza davanti all’uomo e, tendendo il braccino, punta un minuscolo dito color
cioccolato fondente dritto verso il petto dell’uomo. A quel punto egli scioglie le mani
conserte e con la punta del dito che sembra un salsicciotto tocca la punta di quella
minuscola propaggine richiedente.
A quel punto il bambino fa un enorme sorriso e si assicura con lo sguardo che tutti i
presenti ne siano consapevoli e divertiti.
Il contatto delle due dita, mantenuto per qualche secondo, è diventato il punto fisso che
verrà ripetuto prima dell’avvio delle successive varianti del gioco. Questa
conversazione ludica è iniziata a Brescia ed è continuata fino a Peschiera, che significa
40 minuti, con pause e variazioni progressive.
Il personale che lavora con me si è abituato a osservare i video dei pazienti e a
scomporre le sequenze comportamentali. Purtroppo per questa sequenza dovete
accontentarvi della mia narrazione. Ma l’ho scelta perché spero ci aiuti a cogliere alcuni
elementi essenziali:
1- Tutte le sequenze che vi ho descritto sono avvenute nel più totale silenzio.
Persino la signora italiana ed io non ci siamo mai scambiate parola.
2- Il bambino ci ha insegnato un gioco collettivo in cui tutti eravamo in qualche
modo partecipi.
3- Anzi, il bambino esigeva la nostra partecipazione, ma nello stesso tempo
aumentava la complessità del gioco aggiungendo varianti che lo rendessero
interessante per noi (quando il signore gioca in modo automatico, cioè
disinteressato, il bambino aggiunge le varianti e poi attende come a dire “ora
tocca a te inventare qualcosa”).
Bene. Qui poniamo un primo assioma che ci ha guidato nella rilettura dei pazienti e che
propongo a voi come a suo tempo al personale: il bambino per quanto piccolo è sempre
competente nella relazione, sia nell’attivarla nell’adulto che nel decodificarla
dall’adulto. La funzione di attivare e mantenere la relazione (non l’attaccamento, che è
un tipo particolare di relazione) è biologicamente predeterminata, quindi avviene
tramite la strumentalità di tutte le parti del corpo ed è indispensabile non solo per la
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sopravvivenza biologica, ma per la progressione dello sviluppo di tutte le sue funzioni e
della sua personalità.
La psicologia dello sviluppo degli anni ’70 aveva già messo in evidenza questa
competenza del bambino, o meglio dei cuccioli in genere, ad addestrare l’adulto della
propria specie a diventare un care giver = idoneo ad accudirlo. L’importanza della
scoperta delle cellule specchio risiede proprio in questo: ci fornisce il supporto
neurobiologico di questa osservazione empirica secondo cui, per esempio, è il bambino
che insegna alla madre il ritmo con cui venire allattato, molto più di quanto non lo
faccia la madre. Sottolineo ancora una volta come questa prima conversazione tra madre
e bambino nel momento dell’allattamento (seno o biberon) e di tutto ciò che ci sta
intorno (attaccarlo, posizionarlo, stimolarlo) è, sì accompagnato da suoni ed
esclamazioni dei grandi, ma avviene prevalentemente nel silenzio. Parliamo infatti di
dialogo tonico.
Vorrei dunque proporvi un primo significato da assegnare al silenzio, significato che ci
accompagnerà anche poi da adulti in molte fasi importanti della vita, cito per tutti
l’innamoramento.
IL SILENZIO E’ LO SPAZIO PSICOLOGICO ENTRO CUI SI GENERA LA
POSSIBILITA’ DI ENTRARE IN RELAZIONE CONVERSAZIONALE.
LE REGOLE DELLA CONVERSAZIONE E LA DEFINIZIONE DELLA
RELAZIONE RECIPROCA TRA I CONVERSATORI (chi sei tu per me) SI
AVVIANO PROPRIO GRAZIE ALL’ASSENZA DI PAROLE. COSTITUISCE LA
PREMESSA ALLA CONVERSAZIONE.
1234-
Mi vedi?
Sei disposto a interagire con me?
Che turno seguiamo? (importanza dell’alternanza attività-pausa).
Ti interessa ripetere la sequenza?
L’osservazione sperimentale (Schaffer, Brunner, Fivaz-Depursinge) di queste
competenze precoci del bambino ha modificato radicalmente le teorie sullo sviluppo, sia
delle funzioni che della personalità del cucciolo d’uomo. Così come le interpretazioni
delle disfunzioni e patologie.
Sintetizzo di seguito le conclusioni di queste ricerche sperimentali, che vanno sotto il
nome di “approccio costruzionista” alla psicologia dello sviluppo.
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1- Il bambino, come ogni animale (essere vivente) è biologicamente predeterminato
a cercare, attivare, mantenere relazioni con gli adulti della sua specie.
2- Il bambino conosce il mondo degli oggetti attraverso il rapporto affettivo con
l’adulto, che rappresenta il suo portale verso il mondo.
3- Il bambino è da subito attivo e competente a collegarsi ai desiderata dell’adulto e
contemporaneamente ad attivare nell’adulto l’attenzione ai propri desiderata. (v.
stimolazione nell’adulto del baby talk).
4- Il bambino è in grado di modificare l’adulto, tanto quanto, se non di più, l’adulto
è in grado di modificare il bambino. Essi co-costruiscono la loro relazione.
5- Il bambino è precocemente “socialmente promiscuo”, cioè in grado di percepire
differenze tra gli altri esseri umani e tra i contesti già alla nascita. Secondo gli
studi di Fivz-Depursinge già a tre mesi egli è in grado di differenziare il suo
modo di rapportarsi simultaneamente e in modo diversificato con i vari adulti
che si occupano di lui (padre, madre, parentela, operatori). Potremmo dire che è
originariamente plurilingue anche dal punto di vista relazionale.
6- È in grado di distinguere e comprendere (ovviamente anche con un margine di
errore) il legame che c’è tra due interlocutori.
Lo schema precedente risulta così modificato
CONTROLLARE
ADDESTRARE
bambino
CONVINCERE
IMPORRE
GUIDARE
CASTIGARE
adulto
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Questi elementi sono costitutivi di quella che viene definita mente complessa.
Tale modello esplicativo supera inglobandole le diverse teorie della mente di tipo
stadiale, di cui le più note sono quelle di Piaget e di Freud. Non ho qui il tempo di
approfondire questa differenza tra modello di mente complessa e modello di mente
lineare semplice, che è, tuttavia, sostanziale per comprendere sia il funzionamento che il
disfunzionamento della mente stessa.
La teoria della complessità ha sviluppato il concetto di
MENTE
CONVERSAZIONALE INTERCONNESSA. ESSA E’ GENERATA E SI SVILUPPA
GRAZIE AI PROCESSI DI GESTIONE DEI FLUSSI INFORMATIVI. Tali processi
consentono la contrattazione dei significati da assegnare alla realtà e sono costitutivi
della personalità del soggetto. La gestione dei flussi informativi è più rilevante della
struttura interna del bambino e delle singole funzioni.
Tutto ciò vale anche per bambini con disabilità? Vale anche per bambini che vengono
diagnosticati autistici?
Nel corso del mio lavoro condotto con il collega e coterapeuta dr. Martinelli, per la
costruzione di uno strumento utile a rilevare e studiare le relazioni familiari, abbiamo
potuto verificare che, sì, valgono anche per i bambini con problemi, naturalmente con
un margine di deformazione e di difficoltà di invio e decodificazione dei messaggi, ma i
bambini si rivelano sempre attivi e a un qualche livello competenti. Ciò che abbiamo
potuto osservare grazie a questo strumento, che abbiamo ideato, erano invece le
difficoltà di cui gli adulti “addestrati in modo improprio e inatteso” erano vittime.
Per comprendere meglio questa affermazione torniamo alla sequenza in cui il nostro
giovane conversatore ha insegnato il suo gioco ai viaggiatori.
Abbiamo visto nella descrizione di questa conversazione ludica tra bambino e adulti
come gli ingredienti necessari alla sua realizzazione siano:
1- La competenza del bambino a mettersi in contatto con il mondo esterno (vedo –
sento - mi muovo).
2- La competenza del bambino a decodificare i segnali che gli consentono di
leggere i tipi di relazione in rapporto al contesto:
semaforo verde: l’adulto ci sta, è addestrabile;
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semaforo rosso: l’adulto non ci sta, non è interessato, non capisce cosa
possiamo fare insieme, non è addestrabile.
3- La competenza dell’adulto a mettersi in contatto con il mondo esterno (ti vedo –
ti sento – ti tocco).
4- La competenza dell’adulto a distinguere i contesti entro cui consentire i tipi di
relazione al cucciolo:
Semaforo verde: sono interessato a te e a tutte le specifiche
conversazioni che vuoi propormi. Se tu mi tocchi con un dito io ti tocco
con la mano; sono interessato a proporti nuove possibili conversazioni,
inventate da me: “ Ti tocco con un dito e aspetto la tua mossa.”
Semaforo rosso: sono interessato a te, ma non a questa specifica
conversazione. Es. “non si può correre liberamente nel corridoio; ma
accetto che corri nello scompartimento”.
Tutti questi ingredienti (uso volutamente questo termine perché, come in cucina, non è
il singolo elemento in sé ad essere fondamentale, ma la loro reciproca combinazione)
possono essere presenti in modo diverso e in diversi momenti dell’interazione.
È evidente che un bambino con qualche problema organico o funzionale avrà modi
“altri” di attivare nell’adulto le sue competenze di possibile care-giver, ma è vero anche
che non tutti gli adulti sono buoni allievi.
Nel nostro esempio se il bambino fosse stato più piccolo o impedito da una patologia a
muoversi o a vedere ne sarebbe nata, ovviamente, una conversazione completamente
diversa. Ma orientiamoci per un attimo verso gli adulti. Se la madre avesse nutrito dei
pregiudizi razziali verso i bianchi, sentendosi minacciata avrebbe potuto impedire al
bambino di “parlare” con gli altri viaggiatori. Se avesse temuto, invece, di fare la figura
della madre incapace di controllare il suo bambino e si fosse sentita in soggezione dei
bianchi l’avrebbe impedito comunque. Nei due casi però il significato dell’agire della
mamma sarebbe stato: nel primo caso “io ti proteggo”; nel secondo “non voglio fare
brutta figura”. Ma cosa avrebbe capito i bambino di quella conversazione allargata e
interrotta? “Io vorrei fare qualcosa che non piace alla mamma, se le obbedisco sono
buono, “giusto”, se non le obbedisco sono cattivo, “sbagliato” “.
Se provate a sostituire in questa scena ai viaggiatori altre figure parentali: il padre, le
nonne, un altro figlio, vi balzerà all’occhio come una conversazione ludica
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apparentemente banale diventa rilevante nella costruzione del significato personale di
tutti i protagonisti.
Controllare il bambino o lasciarlo andare dipenderà dal rapporto della madre con le altre
figure parentali presenti. A seconda che tema di essere criticata o pensi di essere
sostenuta reagirà in modo diverso ai possibili diversi commenti: “Ma che schifo! Lo
lasci camminare scalzo in treno!”, oppure: “Non lasciargli toccare lo scompartimento,
che poi si mette le mani in bocca!”, o al contrario: “Poverino, è piccolo lascialo sfogare
un po’!”, oppure ancora: “Lascia che ci pensi io a tenerlo!”. A questo punto ciò che la
madre farà con il bambino non dipende più solamente e prevalentemente dal
comportamento del piccolo, ma da come lei pensa che il bambino e lei stessa verranno
giudicati, meglio, significati.
Quello che mi interessa qui far notare è il modo in cui un comportamento anche
occasionale si trasforma in un significato personale, cioè in un elemento costitutivo del
sé (valgo o non valgo per la madre; sei una strega, sei una fata, per le altre figure
parentali, sono buono, sono cattivo per il bambino).
Questo è un passaggio cruciale per imparare a guardare capovolto, cioè a testa in giù, o,
se volete, dal punto di vista del bambino, compreso un bambino con problemi.
UN BAMBINO CON PROBLEMI E’ L’OCCASIONE PER COMPRENDERE
MEGLIO COME AVVENGONO LE FACCENDE CHE RIGUARDANO LO
SVILUPPO E LA COMBINAZIONE DI TUTTI I FATTORI (BIOLOGICI,
INDIVIDUALI, FAMILIARI, ISTITUZIONALI, CULTURALI) CHE CI RENDONO
ADULTI.
E’ UN EVENTO CHE CI RICHIEDE DI SVILUPPARE UN PENSIERO
COMPLESSO E FLESSIBILE.
A partire dagli anni ’90 tutti i modelli teorici più conosciuti, psicanalisi, cognitivismo,
sistemica, e le rispettive diramazioni, hanno dovuto fare i conti con l’enorme sviluppo
delle neuroscienze. Non è possibile infatti costruire teorie sul funzionamento della
mente umana ignorando il legame mente-corpo, e dunque mente-cervello.
Freud non poteva certo disporre delle informazioni oggi a disposizione degli psicologi.
La sua teoria, comunque geniale, si fonda su un modello teorico che richiama il
funzionamento di una macchina a vapore. Cioè un modello lineare di funzionamento
secondo il principio causa-effetto. Questo modo lineare di pensare la mente è condiviso,
pur nelle loro diversità, da tutte le teorie psicologiche sopra citate.
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Secondo questo modello interpretativo, per esempio, se dentro l’individuo non c’è
molto (in termini di struttura), non può uscire molto. Questa è l’idea normalmente
condivisa quando si parla di un bambino disabile.
Ma gli studi neurobiologici recenti (Ricueur, Changeaux, Searle) ci offrono un modello
di mente assolutamente diverso. Segnalo che la teoria della complessità è stata partorita
da menti di importanti fisici che lavoravano agli inizi degli anni ’80 all’interno del
Center for non-linear Systems, di Los Alamos (Waldrop) oltre che da economisti e da
biogenetisti come Mae Wan-Ho. Dunque da menti non sospette e contorte come quelle
degli psicologi, degli psichiatri e degli psicoterapeuti. La teoria della complessità mette
sempre l’accento su un punto:
TUTTI GLI ESSERI VIVENTI PRESENTANO COME FUNZONE PRIMARIA LA
NECESSITA’/CAPACITA’ DI ORGANIZZARE GLI ELEMENTI PERCETTIVI IN
MODO DA LEGARLI IN MANIERA SIGNIFICATIVA.
Abbiamo visto proprio stamane la funzione in tal senso delle cellule specchio.
In altre parole se volessimo usare un termine a cui ci ha abituato Freud l’istinto di
sopravvivenza non è garantito dall’istinto biologico a nutrirsi e a riprodursi, ma è
garantito dall’istinto della curiosità e del costruire teorie sul mondo esterno
all’organismo attraverso il suo mettersi in relazione con esso, ovvero l’stinto alla
conoscenza. La relazione è il mezzo, è il portale che consente il passaggio tra il dentro e
il fuori. Noi sappiamo che gli animali rifiutano il cibo se imparano a riconoscere che
potrebbe essere avvelenato, o se decidono di lasciarsi morire avendo perso il loro
padrone. Sappiamo che si rifiutano a volte di allattare i cuccioli nati in cattività, o che
diventano omosessuali quando la colonia è troppo numerosa in rapporto alle risorse
alimentari.
Le teorie dalla mente più recenti ci dicono che ciò che muove l’uomo, in continuità con
il suo essere parte della natura, è costruirsi teorie sul mondo, quindi su di sé e sugli altri.
Fare teorie vuol dire assegnare significato sempre e comunque a ciò che vediamo e
facciamo. Un significato così assegnato può essere errato, ma è comunque fondamentale
perché dà l’impressione di poter assegnare ordine alla vita, di poter prevedere e
controllare ciò che succede, e di difenderci dal caos (pensiamo ai riti religiosi, magici,
ecc.).
Se vado al lavoro e il mio collega risponde con un grugnito al mio saluto posso produrre
le seguenti ipotesi: “Avrà litigato con la moglie?”; “E’ un cafone lunatico”; “Cosa gli
avrò fatto di male?”. Questo primato del costruire teorie, cioè attribuire significato ad
ogni evento, negli umani si trasforma in dare significato alle persone.
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UN COMPORTAMENTO DIVENTA UN SIGNIFICATO CHE SI TRASFORMA IN
UNA QUALITA’ PERSONALE:
E’ UN CAFONE
IO SONO SBAGLIATO
Se pensate di nuovo alla scena del treno vedrete come il bambino ha messo in moto
proprio questa capacità:
OSSERVARE – RACCOGLIERE INFORMAZIONI – ASSEGNARE UN
SIGNIFICATO ALLE PERSONE E A SE’ – VERIFICARE SE LA SUA TEORIA E’
CORRETTA (tramite ripetizione).
Da dove gli viene la conferma della condivisione del significato
“ti piace il mio gioco”
Sì. Mi piace.
Sono bravo / sono interessante.
Sì. Sei bravo.
Ho valore.
Hai valore.
La relazione non è altro che il mezzo attraverso cui ottenere le informazioni sul mondo
e su se stessi. Cioè il vero cibo per gli esseri viventi. Per l’uomo e alcuni primati anche
per raggiungere l’autocoscienza.
Proviamo ora a considerare un bambino diversamente competente ad attivare,
mantenere e leggere la relazione con il mondo. Quando dico diversamente competente
non intendo un eufemismo di moda usato per addolcire un problema, intendo
diversamente da quello che noi (adulti, sani, esperti) siamo abituati ad aspettarci perché
anche noi ci muoviamo sempre con approssimazione statistica. Nessuno può infatti
sapere, a priori, se il bambino che ha davanti è per esempio ipo o iper udente, se ha un
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disturbo di distorsione visiva, se ha una diversa percezione tattile e propriocettiva, o
olfattiva.
Si può solo osservare cosa un bambino fa e da lì attribuire significati ai comportamenti
che osservo trasformandoli in modi di essere del bambino e … in diagnosi.
In altre parole è il bambino a guidare l’osservatore nella comprensione del modo in cui
funziona il suo collegarsi al mondo stesso.
Questi sono stati i presupposti con cui abbiamo impostato il nostro lavoro con gli
autistici: ovvero abbiamo capovolto le premesse secondo cui guardavamo le ragazze e i
ragazzi autistici di cui ci occupavamo. Li abbiamo guardati non come mancanti di
competenze, non come necessitanti di controllo contenitivo perché incapaci di
comprendere pericoli per sé e per gli altri, non li abbiamo considerati autoriferiti e
autocentranti perché disinteressati o incapaci di entrare nel mondo.
Ci siamo anche dati il divieto di attribuire loro come unica competenza quella di
“attirare l’attenzione attraverso i comportamenti problematici” dal momento che la
conseguenza logica che porterebbe ad ignorarli si rivela totalmente autolesiva ed
impraticabile per gli operatori.
La premessa, che abbiamo condiviso con gli operatori e poi i genitori, e che ha guidato
il nostro lavoro era totalmente opposta: le persone chiamate autistiche di cui ci
occupavamo sono sempre e comunque competenti nell’attivare le relazioni di cui
necessitano per vivere, cioè per sapere come muoversi nel mondo così come loro
l’hanno capito. Noi eravamo invece incompetenti a comprendere le loro teorie su di noi.
Abbiamo così scoperto quanto fossimo confusi e ambigui noi stessi nell’indicare a loro
come li vedevamo e che tipo di relazione eravamo interessati a stringere con loro (ad
esempio: invece di trattenere una mano che getta per aria la pasta abbiamo cominciato a
dire, mentre lo facevamo, “Se butti la pasta sul soffitto mi fai proprio arrabbiare, se vuoi
che ti faccia compagnia basta che mi tocchi un po’ la mano”).
Abbiamo ipotizzato anche che le modalità conversazionali degli adulti che di loro si
erano fin lì occupati nel corso degli anni, partendo dalle teorie, o dal pre-giudizio, che
essi erano non competenti, non interessati alle relazioni (= autistici), li avevano trattati
secondo questa premessa. Se torniamo al paradosso del mondo capovolto mi spingerei a
dire che sono stati “addestrati” e “costruiti”, ovviamente non volendolo e non trovando
alternative, ad essere trattati da autistici ed a co-costruire la loro identità di autistico.
Ovviamente in questo processo non c’è nessuna malevola intenzionalità, semplicemente
si crea:
L’INTRECCIO E L’INTERCONNESSIONE SIMULTANEA E COMPLESSA DI
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-
UN’ ALTERATA STRUMENTALITA’ DEL BAMBINO NEL SUO
COMPITO DI ADDESTRARE L’ADULTO A CONNETTERLO CON IL
MONDO.
-
E UN’ALTERATA O RIGIDA COMPETENZA DI LETTURA E
DECODIFICAZIONE DA PARTE DEGLI ADULTI NEL COGLIERE E
SIGNIFICARE I COMPORTAMENTI DEL CUCCIOLO.
Vorrei subito chiarire che quando parlo di adulti non intendo riferirmi a madri più o
meno frigorifero o a padri più o meno qualcos’altro. Certamente i genitori sono e
restano le persone più rilevanti per il bambino. Tuttavia parlando di adulti, mi riferisco
anche a tutti gli operatori che entrano a pieno titolo nella co-costruzione di identità sana
o malata del cucciolo.
Nel pomeriggio i colleghi vi illustreranno quanto è stato difficile, benché interessante,
guardare ai loro utenti come competenti e come fonte loro stessi delle informazioni
necessarie per lavorare. Hanno scoperto che bastava chiederle loro, ovviamente in modo
reale, cioè aspettandosi veramente una risposta, ma concedendo anche la libertà di non
dover rispondere in quel momento.
Il bambino non si comporta “male” perché non è capace o perché è rotto; il bambino
può certo compiere errori di attribuzione del significato ad un evento (es. Shock de
chambre), ma ciò avviene sempre in modo plausibile e coerente con le sue esperienze
pregresse.
Il bambino non tace perché non è interessato a mettersi in relazione, al contrario la
sospensione della conversazione, verbale e non, è la fase di ottimizzazione e
massimizzazione della lettura della relazione.
Ho trovato nelle parole di un grande musicista l’espressione perfetta di questo concetto.
“Non c’è silenzio senza pensiero, il silenzio è un modo di cambiare le idee e scoprire
aspetti del tempo che ancora non sono stati messi in pratica (…). Sei intelligente, ma
pensi troppo. (John Cage).
È l’adulto, quindi, che deve procurarsi le informazioni per capire perché il bambino
significa gli eventi e le persone in un certo modo; per esempio ripetendo all’infinito un
comportamento, o pensando che non vale la pena cercare di esprimersi, tanto non verrà
com-preso, oppure ritenendo che cedere ad una richiesta è un atto di sottomissione che
lo rende furioso. Proprio questo ultimo elemento appare chiarissimo lavorando con gli
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autistici, che più vengono costretti, più esasperano i comportamenti che definiamo
patologici. L’adulto non pensa mai abbastanza che i bambini sono la fonte informativa
privilegiata.
Pensiamo all’adulto che insegna ad un bambino a distinguere le cose commestibili dal
resto. (sappiamo che il disordine alimentare nei bambini autistici rappresenta sempre un
grosso problema).
La mamma, o chi per lei, normalmente utilizza nella fase di addestramento
prelinguistico un repertorio binario: “Am pappa”, “Bech cacca”. Ora è evidente che un
bimbo, che usa lo schema mano-bocca per procurarsi le informazioni di cui abbiamo
parlato, comprende la differenza tra queste due affermazioni dalle espressioni del viso e
dal tono di voce dell’adulto. Come Bateson riteneva che sono i topi ad addestrare gli
sperimentatori, così spero vi risulti chiaro come è il bambino ad addestrare l’adulto a
diventare sempre meno ambiguo e più convincente nel dargli i segnali. Se l’adulto
infatti si limita a togliere di mano al bambino la ‘cacca’, egli la riprenderà poco dopo e
il significato attribuito a quell’oggetto non sarà ‘cacca’, ma “Alla mamma piace fare il
gioco weg – da”. Il bambino smetterà di farlo solo se la mamma sarà convincente sul
piano emotivo nell’esprimere “la mamma non vuole, si arrabbia.” La comprensione
semantica della parola cacca arriverà solo più tardi, (le logopedista ci insegnano che non
è semplice distinguere uno dall’altro i suoni pappa e cacca) mentre viene precocemente
condiviso il significato contestuale del comando.
Vediamo quindi come la possibilità del bambino di ricavare informazioni utili a
costruire teorie sufficientemente corrette, dipende dalla:
1. COMPETENZA DELL’ADULTO A DARE MESSAGGI NON AMBIGUI.
2. COMPETENZA DELL’ADULTO A DARE SIA INFORMAZIONI OGGETTIVE
CHE SOGETTIVAMENTE EMOTIVE E IN MODO COERENTE (non si può ridere
mentre si dice di non saltare sul divano)
3. LA COMPETENZA DELL’ADULTO A CONSIDERARE NON SOLO IL
RAPPORTO IO – TU, MA A CONSIDERARE CHE IL BAMBINO VEDE E
GUARDA DA SUBITO RAPPORTI MULTIPLI TU – ALTRO – IO.
(capisce precocemente se può obbedire o no ad un comando a seconda di chi è
presente).
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4. LA COMPETENZA DELL’ADULTO NEL CAPIRE QUANDO E’ CAMBIATO IL
CONTESTO PER CUI PER IL BAMBINO E’ CAMBIATO IL SIGNIFICATO
DELL’INFORMAZIONE.
Ad esempio: dormire o no nel lettone. Se la regola è: a volte si può dormire nel lettone,
a volte no, dormire nel lettone significa “è un premio che mi posso guadagnare, basta
mettersi d’accordo sul prezzo”. Se la regola è: io posso dormire nel lettone solo quando
il papà non c’è, il significato di dormire nel lettone può diventare “sia io che la mamma
speriamo che il papà non ci sia”.
Ecco allora un ulteriore significato del silenzio:
IL SILENZIO E’ IL LUOGO DA CUI EMERGONO
LE PAROLE PER ACQUISTARE UN SIGNIFICATO CONDIVISO
(L’adulto dice: “Hai fame?” Il lattante si agita. L’adulto dice: “Sì, hai proprio fame”.
Magari il bimbo ha il mal di pancia.)
IL SILENZIO E’ IL LUOGO DELLA CONTRATTAZIONE DEI SIGNIFICATI.
“Mi ami?” - pausa- Ma quanto mi ami? – pausa- Ma tanto quanto?”.
Vi propongo ora l’ultima capriola e sintetizzerò quindi come in concreto abbiamo usato
la nostra capacità di guardare e vedere in modo diverso i pazienti autistici.
L’ultimo passaggio si riferisce al fatto che non esistono significati o teorie sul mondo
che non comportino emozioni. In altre parole il com-prendersi significa proprio sentirsi
presi a vicenda, stretti insieme in qualcosa di condivisibile anche se non totalmente
condiviso. (Capisco che il mio bambino pianga disperato quando è lasciato alla scuola
materna anche se non condivido i motivi della sua disperazione).
Vi invito a seguirmi nella seguente situazione. Considerate una coppia in cui uno dei
partner, facciamo per caso l’uomo, arriva a casa in ritardo clamoroso. Trova la
compagna accigliata, silenziosa e scontrosa. Lui ha due opzioni: può ignorarla e lei di
solito, all’aria minacciosa, aggiungerà sbattute di sportelli e stoviglie, risposte
telegrafiche e acide. Oppure lui può tentare di dare spiegazioni: “mi hanno trattenuto in
ufficio; c’era una coda”. Credo che tutti abbiamo fatto l’esperienza che in alcuni casi le
spiegazioni oggettive non solo non sono utili, ma sortiscono l’effetto: apertura della
diga. “Figurarsi, sei il solito inaffidabile! Ecc.!”. se lui prova a giustificarsi “Ma cosa
potevo farci? Non l’ho mica fatto apposta”. La risposta rischia di essere: “Mancherebbe
anche che tu l’abbia fatto apposta!”. Questa sequenza può andare in lunga escalation
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anche drammatica e pericolosa (“Sei come tua madre!”; “Sei come mio padre!”, ecc) a
meno che non si passi a chiedere (l’uomo) e dare (la donna) l’unica informazione utile
che è quella emotiva: “Sei arrabbiata con me?”, “Sono arrabbiata con te!”. E’
esattamente questo che consente di interrompere il circolo vizioso. È necessario cioè
che qualcuno nomini il significato emotivo espresso dal comportamento. È solo questa
condivisione emotiva che ci fa sentire com-presi. Che dà un senso alla transazione
comunicativa.
Questo criterio vale sempre nei rapporti affettivamente rilevanti, quindi sempre nei
rapporti adulto/bambino, e molto spesso nei rapporti di coppia, di fratellanza o amicali.
Vi chiedo ancora di tornare un momento alla coppia di cui vi ho parlato. Vi riporto un
dialogo veramente raccolto in una seduta di terapia. La coppia viene perché è sull’orlo
della separazione. È la signora a sostenere che non ce la fa più, che sta malissimo. Il
marito concorda che la moglie sta malissimo, perché lui non riesce a comprendere i
motivi della tragedia, e quindi pensa che lei sia un po’ esaurita o addirittura depressa.
Salta per ogni stupidaggine, salvo tenere lunghi musi e silenzi pesantissimi.
Chiedo alla signora se può dirmi qual è una di quelle stupidaggini che la fanno saltare.
A fatica la signora cerca e trova l’esempio. “Tutte le mattine trovo il bicchiere del wisky
sul tavolino del salotto. È una vita che chiedo a mio marito di portarlo in cucina”. Il
marito mi guarda e mi dice con aria tra l’ironico e lo sconsolato “Lo vede? Le pare un
motivo per separarsi?”. E la moglie “Come posso chiederti qualcosa di più importante
se non puoi fare una cosa così banale? Il fatto è che io non sono importante per te,
altrimenti lo faresti. E comunque è inutile che ti parli”.
Chiedo alla signora quando e chi la faceva sentire invisibile nella sua famiglia prima di
sposarsi. La signora è stupita. Lei è sempre stata una ragazza modello. Era scontato
essere bravi, nessuno si è mai interessato se lei era brava o no. E da quando si è sposata
nessuno pensa che lei possa avere problemi o bisogni di aiuto. A quel punto fornisco
un’informazione al marito: “Lo sapeva che lei senza volerlo fa delle cose che la rendono
simile a sua suocera?” Lascio a voi concludere sulle sue riflessioni!
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Come si vede
COMPORTAMENTO
bicchiere lasciato sul tavolo
marito insensibile
SIGNIFICATO PERSONALE
nel qui ed ora
moglie invisibile / priva di valore
SIGNIFICATO PERSONALE
altrove nel passato
moglie – bambina invisibile
priva di valore
persone importanti insensibili
Veniamo dunque al metodo seguito in modo coerente con le premesse che ho fin qui
illustrato.
Sintetizzo le premesse.
1- I soggetti autistici sono competenti-interessati ad attivare e mantenere relazioni.
2- Si costruiscono teorie relazionali sulle persone che li circondano, quindi anche
sugli operatori.
3- Ciò che per noi è disfunzionale e indesiderabile, per loro è sensato e congruente,
benché noi non ne comprendiamo il significato.
4- Ogni soggetto ha anche una teoria relativa ad ogni membro della sua famiglia ed
è sempre interessato ed attivo nel mantenere un rapporto psicologico ed affettivo
con essa, benché in modo problematico e sofferente.
5- I pazienti stessi sono la fonte di informazione più ricca a cui attingere per cocostruire significati, e dunque rapporti nuovi.
Partendo da queste premesse possiamo seguire i passaggi con cui adulto e bambino,
compreso un bambino autistico, possono avviare la con-versazione secondo le
modalità naturali con cui si costruiscono i processi comunicativi.
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*L’OPERATORE SOPRAVVALUTANDO L’ASPETTO SEMANTICO DI UN
COMPORTAMENTO
CASUALE
DEL
PAZIENTE
ATTRIBUISCE
ARBITRARIAMENTE UN SIGNIFICATO A QUEL COMPORTAMENTO.
QUESTO PASSO SERVE A SEGNALARE “TI VEDO E TI SCELGO COME
INTERLOCUTORE”. (Pensate alle conversazioni con cani, gatti, ecc.).
* NON E’ IMPORTANTE SE ASSEGNO IL SIGNIFICATO “GIUSTO” O SE IL
COMPORTAMENTO E’ DIVENTATO UNA STEREOTIPIA AUTOMATICA.
(Ciò viene fatto sempre in rapporto ai comportamenti stereotipati o problematici,
che non vengono vietati in forma prescrittiva (no o non devi), ma caricati di un
significato relazionale).
•
L’ATTRIBUZIONE DI SIGNIFICATO DEVE ESSERE PLAUSIBILE
RISPETTO AL CONTESTO E CONNOTATA EMOTIVAMENTE
“Mi sembra che sei agitato, hai paura che il papà non venga a prenderti?”.
* LA FORMULAZIONE E’ FATTA IN FORMA INTERROGATIVA, NON PER
PRETENDERE UNA RISPOSTA, MA PER SEGNALARE CHE RITENGO
L’INTERLOCUTORE IN GRADO, SE E QUANDO VORRA’, DI DARMI UNA
RISPOSTA. (Rispetto del criterio attività-pausa).
* AL COMPORTAMENTO VIENE SEMPRE ATTRIBUITA UNA
INTENZIONALITA’ FINALIZZATA AD OTTENERE UNA RELAZIONE.
Es. Di norma, quando il paziente scappa, viene inseguito al massimo urlando il suo
nome. Invece noi utilizziamo la formula:“Se vuoi che venga da solo con te non
serve che scappi. Mi puoi avvisare toccandomi”.
Es. Il paziente si siede per terra durante una passeggiata, l’operatore cerca di alzarlo
di peso o di ordinare che si alzi. “Sei arrabbiato con me perché ti ho obbligato ad
uscire? Se vuoi torniamo indietro.”.
* UNA VOLTA ATTRIBUITO E CONDIVISO UN SIGNIFICATO SI OFFRE
UN’ALTERNATIVA.
Es. “Se vuoi che stia con te a farti compagnia non serve che dici cacca. Possiamo
sederci qui.”.
* FORNIAMO AL RAGAZZO INFORMAZIONI EMOTIVE SU NOI STESSI IN
RISPOSTA AI SUOI COMPORTAMENTI.
Es. “Se continui a spingermi, mi dai fastidio”. “Se vuoi qualcosa basta che mi tocchi
piano una volta”. Oppure “Se continui ad andare avanti indietro dalla stanza, mi
annoi. Io non ti vengo dietro.” “Sono proprio offeso e arrabbiato con te, che mi hai
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fatto male. Non ho voglia di starti vicino. Sta lì finché non mi è passata.” “Ho avuto
paura che ti facessi male!”.
* SEGNALIAMO LA LORO COMPETENZA AD AIUTARCI NEL CAPIRE CIO’
CHE AVVIENE.
Es. “Mi sembra che sei arrabbiato, ma non capisco. Aiutami a capire perché. Chi o
cosa ti ha fatto arrabbiare?”.
Es. “Sei triste per qualcosa che è successo a casa? A scuola? Nel laboratorio? Puoi
aiutarmi a capire.”
* CONNETTIAMO IL QUI ED ORA CON IL LA’ ALLORA.
Es. “Se a casa – a scuola – ecc. puoi farti correre dietro, qui no. A me non piace fare
il guardiano.”
Es. “Se sei arrabbiato con papà – mamma – maestra – ecc.- ti capisco, ma non puoi
prendertela con me o con altro ospite.”
Es. “Se il nonno ti lascia fare tutto quello che vuoi, qui non si può.”
Affinché questo lavoro di metacomunicazione dei significati sia efficace l’operatore
deve imparare ad anticipare con la verbalizzazione l’escalation dei comportamenti
indesiderati e rivolgersi verbalmente al paziente quando tali comportamenti sono appena
abbozzati. L’attenzione al criterio dell’anticipazione è fondamentale perché è come
l’interruttore, il tasto enter che rende possibile la modificazione del flusso delle
sequenze comunicative. Questo criterio regola il ritmo attività – pausa (=silenzio).
Ripensate all’esempio del nostro bambino in treno. Il bambino è fermo (=silenzio),
l’uomo tocca la manina e si ritira (= silenzio). Il bambino allunga il dito.
Quando usiamo il metodo di decondizionare il bambino ad attirare l’attenzione, in realtà
non facciamo altro che mantenere un ritmo attività-pausa troppo lungo. Se invece do la
mia attenzione per così dire “gratis”, senza che tu me la chieda o me la estorca,
l’alternanza attività-pausa è breve e non richiede né da parte del paziente né da parte
dell’operatore di sollecitare la relazione “urlando”. Ciò che è rilevante è prendere
tempestivamente l’iniziativa alla relazione.
In altre parole l’operatore impara ad interrogare il silenzio.
Ho trovato ancora in uno scritto di John Cage le parole che esprimono esattamente
questo concetto.
“Scoprii che il silenzio non è acustico. È un cambiamento della mente, un mutare
direzione. Dedicai la mia musica al silenzio. Il mio lavoro divenne un’esplorazione
della non-intenzione” per comporre facevo sì che la mia responsabilità consistesse
nel porre domande invece che nel fare scelte”.
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Questo modo di lavorare comporta un allenamento all’osservazione e alla percezione.
Lavoro che abbiamo esercitato sia attraverso l’analisi di video, sia attraverso la
ricostruzione dettagliata verbale delle situazioni.
Non so se vi sembri banale quanto fin qui illustrato, ma posso assicurare che abbiamo
ottenuto nel giro di pochi mesi, negli ospiti, il controllo degli sfinteri, un
comportamento accettabile a tavola, la scelta di un compagno a cui esprimere solidarietà
ed empatia, riconoscendone gli stati emotivi. Alcuni ragazzi hanno cominciato ad
esprimere le proprie emozioni sia fisicamente, con il pianto o il sorriso, sia chiedendo
esplicitamente di usare la C.F. In un caso addirittura un ragazzo si è scelto un operatore
maschio facendogli capire che gli avrebbe insegnato lui la C.F., visto che l’operatore
non la conosceva.
Questi sono tuttavia solo una parte degli effetti del nostro lavoro. Abbiamo accennato
all’inizio che ci siamo mossi nella cornice della teoria della complessità, secondo cui
tutti gli elementi sono in interconnessione simultanea, anche quando ci appaiono silenti.
Questo significava per il nostro lavoro che se fosse cambiato qualcosa all’interno del
gruppo abitativo sarebbe cambiato qualcosa anche verso e dentro la famiglia.
Per questo motivo abbiamo raccolto nel modo più dettagliato possibile la storia delle
famiglie per capire il contesto di apprendimento in cui i nostri pazienti avevano
imparato ad osservare gli altri e loro stessi, ma anche insegnato ai familiari a farsi
trattare in una certa maniera. Sapevamo che se i nostri ragazzi fossero cambiati,
avrebbero preteso che cambiasse qualcosa anche in famiglia. Lo scambio di
informazioni tra operatori e familiari è stato ed è cruciale per aiutare anche questi ultimi
a capovolgere la teoria sui loro figli: da rotti a diversamente competenti, da frantumati a
ricomposti, e su loro stessi: da incapaci o colpevoli o rifiutati a comunque e sempre
interessanti per i loro figli e risorsa preziosa.
Riporto solo un breve episodio con uno dei nostri ospiti più giovani (12 anni).
Appena mi fu presentato il suo video, segnalai alla nostra preziosissima educatrice
Ivonne che Peter le aveva insegnato proprio bene a fare giochi da insufficienti
mentali, d’altra parte lei sembrava interessata proprio a quelli. Da quel momento
seguendo il metodo di attribuzione del significato, che vi ho illustrato, Peter ha fatto
passi da gigante, sviluppando anche un linguaggio coartato, ma che indicava il suo
tentativo di provare a cimentarsi anche con questo mezzo. (evidentemente gli pareva
che ora ne valesse la pena).
Dopo una luna di miele tra il ragazzo, la struttura ( è un ospite solamente diurno, per
pochi giorni la settimana), e la famiglia, Peter segnala all’educatrice che gli piace
molto venire, che anzi vorrebbe venire più spesso, ma quando la mamma lo
accompagna ricomincia a fare un sacco di storie, come all’inizio del suo
inserimento, mettendo la mamma in grave imbarazzo, e facendole venire il dubbio
che forse non viene volentieri. Peter se la prende con Ivonne quando il giorno prima,
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in classe, sembrava innamorato di lei. Sembra proprio una cosa senza senso, finché
Ivonne ha un’intuizione: “Peter, vuoi dire alla mamma che qui ti piace molto, ma
non vuoi che lei pensi che preferisci stare qui invece che a casa?”, “Vuoi che sappia
che stai bene, ma anche che le vuoi bene?”.
Peter si ferma, abbraccia la mamma e si consolano a vicenda.
Questi bambini e ragazzi “congelati”, ci hanno guidato ed hanno guidato i loro genitori,
dentro il groviglio delle loro emozioni. A volte già congelate prima della loro nascita. I
loro genitori sono dunque in maggiore difficoltà a permettersi di sentire e nominare
proprio quelle emozioni che sempre un bambino suscita nei propri genitori, ma certo più
drammaticamente e intensamente se si tratta di un bambino diversamente competente.
In questa sede ometto di presentare la parte relativa al lavoro sulle strutture familiari,
che sarà riportato in una prossima pubblicazione.
Se ci pensiamo un attimo, cosa c’è di più difficile che esprimere quel groviglio di
emozioni che riguarda la rabbia, la delusione, e insieme l’amore e il desiderio verso le
persone amate. Come dire a qualcuno che proprio perché lo amiamo, lo odiamo in certi
momenti, o odiamo noi stessi perché non riusciamo a farglielo capire. Cosa succede
anche a noi, i normali, quando l’aspettativa, biologicamente possibile, di riuscire a
capirsi viene delusa? Quando scopro che ogni tentativo di allineare i nostri canali di
trasmissione fallisce, ci rassegniamo al silenzio.
IL SILENZIO E’ IL LUOGO IN CUI SI AMMASSANO TUTTE LE EMOZIONI
CHE HANNO PERSO IL LORO NOME, CHE NON RIESCONO A TROVARE LE
PAROLE IDONEE PER ESSERE PORTATE FUORI DALL’ANIMA (mente + cuore).
Vorrei concludere con una frase scaturita nel corso di una delle nostre supervisioni.
“Non sono loro, gli autistici, ad essere strani, siamo noi, i sani, ad
essere così ignoranti di noi stessi!”.
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Bateson G. (1979), Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984.
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Waldrop Morris M. (2001), Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos,
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Curriculum
Miriam Gandolfi si è laureata in psicologia presso l’Università di Padova; ha
completato la propria formazione ad Innsbruck, presso la clinica pediatrica universitaria,
e a Milano. È stata primo Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Provincia di
Bolzano. È membro e docente presso la SIRTS (Società Italiana Ricerca e Terapia
sistemica). È docente dell’European Institute of Systemic-Relational Therapies, di
Milano, dove insegna Teorie e tecniche del processo terapeutico..
Ha lavorato come psicologa e psicoterapeuta presso il Servizio Riabilitativo della
Provincia di Bolzano e successivamente presso il Reparto Pediatrico dell’Ospedale di
Bolzano. Dal 1992 prosegue la sua attività come libera professionista presso il “Centro
di Psicologia della Comunicazione” a Bolzano e a Trento.
Svolge attività di formazione e supervisione con personale operante in Istituzioni
pubbliche, che si occupano di minori e riabilitazione. Da alcuni anni sta coordinando
una ricerca sugli aspetti di interconnessione tra sviluppi delle neuroscienze, psicologia
evolutiva e strutture familiari.
Le sue attività di ricerca sono state regolarmente pubblicate fin dal 1979. La sua ultima
pubblicazione è: Il bambino nella terapia. Approccio integrato alla diagnosi e al
trattamento con la famiglia, Gandolfi M. Martinelli F. (2008), Trento, Erickson.
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