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Il ritorno delle “manette agli evasori”: gli effetti pratici della nuova

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Il ritorno delle “manette agli evasori”: gli effetti pratici della nuova
Il ritorno delle “manette agli evasori”: gli effetti pratici della nuova

normativa nella quotidiana prassi giudiziaria (Avv. Luca Troyer )
1. Introduzione: l’ennesima legge simbolica dell’emergenza
Il titolo della relazione che richiama le “Manette agli evasori”, dunque un modello di
diritto penale tributario precedente alla riforma Copernicana del 2000 è senz’altro
evocativo.
Proprio la capacità evocativa, la plasticità dell’innovazione è ciò che il legislatore
ricercava con la legge di stabilità (D.L. 138/2011 convertito con modifiche con L.
148/2011) quanto al momento penal-tributario: non interventi sulla tipicità delle
fattispecie tributarie, con un eventuale ritorno a delitti di pericolo propri del modello
di diritto penale tributario precedente alla riforma del 2000, quanto modifiche sugli
aspetti sanzionatori, in una duplice ottica di far tintinnare – vedremo se effettivamente
o solo simbolicamente – le ‘Manette agli Evasori’ e di ‘diritto penale riscossivo’
secondo la felice definizione del Prof. Lanzi.
Cioè a dire: un diritto penale che mostra i denti aguzzi del carcere e punta a batter
cassa in un momento di nota difficoltà economica del paese.
Sennonché quando il diritto penale esce dai binari che gli sono propri, dimentico della
sua funzione di prevenzione generale e speciale, di extrema ratio, per occupare spazi
che non gli sono congeniali, gli esiti sulla quotidianità delle aule di giustizia e, in
definitiva, sui cittadini, possono essere negativamente significativi.
Vediamo dunque quello che potrebbe essere il portato pratico delle modifiche già
magnificamente illustrate da chi mi ha preceduto, tenendo presente una doverosa
premessa: in virtù del disposto dell’art. 2, comma 36 vicies bis, del D.L. 138/2011, tutte
le innovazioni di cui qui si discute incideranno esclusivamente sui fatti di reato
realizzati dopo l’entrata in vigore della legge di conversione, indi il 17 settembre 2011.

La relazione di seguito riportata è il frutto, per ampi stralci, della comune riflessione con l’Avv. Alex
Ingrassia.
1
2. La modifica dei presupposti di accesso all’applicazione della pena su
richiesta delle parti: pagare tutto, incassare subito!
La legge di stabilità ha introdotto un nuovo comma 2 bis all’art. 13 del D.lgs. 74/00.
L’art. 13 prevede una circostanza attenuante – la cui portata è stata diminuita dalla
legge di stabilità: si passa, infatti, dalla riduzione della pena fino alla metà alla
diminuzione fino ad un terzo – nel caso in cui l’imputato, prima dell’apertura del
dibattimento di primo grado, estingua mediante pagamento il proprio debito con
l’Erario, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione
all'accertamento
previste
dalle
norme
tributarie,
provvedendo
anche
alla
corresponsione delle sanzioni tributarie.
Il comma 2 bis limita la facoltà di accedere al rito alternativo premiale dell’applicazione
della pena su richiesta delle parti, cd. patteggiamento, proprio alla sussistenza
dell’attenuante dell’art. 13, cioè il pieno adempimento delle obbligazioni tributarie. In
soldoni: se l’indagato o imputato vuole concordare la pena con il PM, godendo del
beneficio di una riduzione fino ad 1/3 della pena in virtù del rito premiale – e in ogni
caso del trattamento favorevole che nella pratica viene accordato a chi patteggia –,
dovrà aver pagato completamente il proprio debito tributario comprensivo di sanzioni.
E qui si notano alcune aporie teoriche e pratiche di tale innovazione legislativa. In
particolare, a mio modo di vedere, se ne possono individuare almeno tre:
1. un’erronea indicazione dei reati cui si applica;
2. un profilo di illegittimità costituzionale ex art. 3 Cost.;
3. una discrasia temporale tra ammissione al patteggiamento ed estinzione del
debito tributario.
In primo luogo non si comprende il richiamo, in ordine all’applicazione delle limitazioni
al patteggiamento, a tutti i delitti del D.Lgs. 74/00 ove solo si consideri che i reati di cui
agli artt. 8 (Emissione di fatture per operazioni inesistenti), 10 (Occultamento o
distruzione di scritture contabili) e 11 (Sottrazione fraudolenta al pagamento delle
imposta) non producono debiti tributari come richiesto dall’art. 13.
2
Quanto al profilo di illegittimità costituzionale per violazione del principio di
uguaglianza, qui ci sono relatori più titolati di me che possono parlarne, ma, se mi è
concesso, non mi pare ragionevole che un soggetto che compie una infedeltà
dichiarativa, garantendosi un risparmio d’imposta, debba pagare per intero il proprio
debito tributario per patteggiare, mentre chi ha commesso, ad esempio, una truffa ai
danni dello Stato per il conseguimento di erogazioni pubbliche, una malversazione ai
danni dello Stato, delitti ugualmente offensivi del patrimonio dello Stato, ritenuti dal
legislatore più gravi della dichiarazione infedele, possa essere ammesso al rito
premiale senza dover versare un euro.
In ordine alla terza aporia, si deve considerare preliminarmente che la giurisprudenza
della Cassazione1 richiede, ai fini dell’applicazione dell’attenuante di cui al citato art.
13, che il debito sia stato completamente pagato al momento dell’apertura del
dibattimento. In particolare, il problema si pone, come noto, ove il contribuente
proceda nelle forme dell’accertamento per adesione, potendo pagare quanto pattuito
con l’Agenzia dell’Entrate anche a rate, fino ad un massimo di 12 rate trimestrali, indi
in 3 anni: ciò non di meno la Cassazione ha riconosciuto la sussistenza dell’attenuante
dell’art. 13 solo nel caso in cui il contribuente abbia terminato tutte le rate, non
accontentandosi di pagamenti parziali pur coperti da garanzie fideiussorie.
Il portato di tale esegesi rispetto alla novella legislativa è presto detto: se il
contribuente vuole patteggiare proceda pure all’accertamento con adesione, ma versi
tutto in un'unica rata o si affretti a pagare prima dell’apertura del dibattimento.
Insomma, pagare tutto, pagare subito.
Sennonché mi pare che in questo contesto ci sia un vero e proprio ‘pastrocchio’ di
termini.
Il contribuente deve assolvere al debito tributario pagandolo per intero prima
dell’apertura del dibattimento di primo grado: ciò implica che prima di tale momento il
debito sia quantitativamente indiscusso tra le parti. In altre parole, il contribuente
1
Si veda sul punto Cass. Pen., Sez. III, 13.5.2004, n. 30580 cui si è conformata tutta la giurisprudenza
successiva.
3
deve accettare la decisione dell’Agenzia dell’Entrate o affrettarsi ad addivenire ad un
accertamento con adesione così da poter pagare quanto effettivamente dovuto.
Chiaro è che se non dovesse trovare un accordo con l’Agenzia delle Entrate e dovesse
perciò adire il Giudice Tributario dovrebbe contestualmente e implicitamente
rinunciare al patteggiamento.
Insomma, facendo un esempio concreto: se effettivamente ho evaso le imposte, ma in
misura nettamente inferiore a quella contestatami dall’Agenzia delle Entrate e non
riesco a trovare un accordo con la stessa ho due strade: adire il giudice tributario
facendo valere un mio diritto, sapendo però che, anche ove avessi ragione, comunque
non potrei più accedere al patteggiamento ove – come probabile – sai decorso il
termine , oppure pagare più di quanto dovuto per beneficiare del rito premiale. Allo
stato mi pare tertium non datur. Nell’un caso e nell’altro non può negarsi però una
frustrazione del diritto di difesa del contribuente.
E ancora si consideri che il termine ultimo per chiedere il patteggiamento per i reati
per cui deve tenersi l’udienza preliminare (come, ad esempio, la dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e la
dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) sono le conclusioni delle parti, cioè un
momento temporalmente antecedente all’apertura del dibattimento di primo grado,
tempo in cui deve essersi compiuto il pagamento del debito tributario.
Che si fa dunque con i termini? Due possibilità:
1. per i reati con udienza preliminare il tempo per adempiere al debito tributario
non è l’inizio del dibattimento come parrebbe dal dato testuale dell’art. 13 ma
le conclusioni della stessa udienza filtro. Si crea così, però, una disparità con gli
autori di reati per cui si procede a citazione diretta che hanno tempo
effettivamente fino all’apertura del dibattimento e ci si muove comunque
nell’ambito di un’esegesi contra legem, dato il tenore letterale del citato art.
13;
2. si ritiene ammissibile la rinnovazione, prima dell’apertura del dibattimento di
primo grado, della richiesta di patteggiamento già compiuta in udienza
4
preliminare e rigettata in mancanza dell’effettivo e completo pagamento del
debito tributario. In questo caso, però, la soluzione contrasta con il tenore
letterale dell’art. 448 del codice di rito che ammette che il giudice del
dibattimento recuperi la pena concordata in caso di rigetto ingiustificato: nel
caso di specie ci si troverebbe però di fronte ad un rigetto giustificato del GUP,
mancando uno dei requisiti di ammissione ovvero il pagamento integrale del
debito tributario.
Difficoltà non minori di coordinamento e difesa dell’imputato si pongono nel caso di
rito immediato. Ove il PM ottenga dal GIP l’emissione del decreto che dispone il
giudizio immediato l’imputato avrà un termine di 15 giorni dalla notifica di tale decreto
per richiedere il patteggiamento e di conseguenza, entro la fissazione dell’udienza,
adempiere al debito tributario.
Si può immaginare che, come sempre quando il Legislatore interviene in maniera
simbolica non ponderando le conseguenze pratiche delle sue innovazioni normative, il
sistema dimostri la sua resilienza: sono abbastanza convinto che nella prassi i GIP e i
GUP permetteranno con lunghi rinvii di udienze la possibilità agli imputati di pagare il
proprio debito tributario.
Ammesso e non concesso che questi siano in grado di pagare il debito tributario. E qui
vengo ad una diversa e comunque assai problematica questione afferente all’ipotesi in
cui l’imputato sia solo un amministratore e che dell’attività di evasione abbia
beneficiato la Società amministrata o che, persino, sia soggetto estraneo alla società
che ha consigliato un’operazione complessa considerata fraudolenta, come un
commercialista.
Se, prima della legge di stabilità, tali soggetti non avessero potuto adempiere al debito
tributario della Società, evenienza praticamente certa, sarebbero stati comunque
ammessi al patteggiamento, senza il riconoscimento dell’attenuante dell’art. 13
ovviamente; con l’introduzione del comma 2 bis all’art. 13, tali soggetti, poiché esclusi
dall’applicazione della pena su richiesta delle parti, saranno giudicati, invece, con il rito
ordinario o con l’abbreviato – se lo richiederanno: non è difficile immaginare l’effetto
5
negativo sul funzionamento della giustizia e sul carico di lavoro dei Tribunali, già come
noto oberati.
Infine, un’ultima questione che spero non si ponga mai nella prassi. Quid juris
nell’ipotesi in cui il debito tributario non sia estinto dall’imputato (l’amministratore o il
professionista eventualmente concorrente nel reato), ma da un soggetto diverso,
come la Società che ha beneficiato del reato?
Dato il tenore letterale dell’art. 13 sembrerebbe sufficiente per accedere al
patteggiamento che il debito tributario sia estinto, indipendentemente da chi vi abbia
provveduto. Ciò non di meno, è il caso di porre all’attenzione di tutti la giurisprudenza
della Suprema Corte relativa alla configurabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 6,
c.p. in ipotesi di concorso di persone nel reato. Tale disposizione prevede
un’attenuante per chi, prima del giudizio, abbia riparato integralmente il danno
mediante il risarcimento e le restituzioni. È interessante qui ricordare che la Cassazione
ha escluso l’attenuante in parola nel caso in cui al risarcimento abbia proceduto un
soggetto estraneo al reato – si pensi all’assicurazione in caso di incidente stradale2 – o
un solo concorrente. In particolare, nell’ipotesi di concorso di persone nel reato,
qualora un solo soggetto abbia provveduto al risarcimento, si richiede agli altri, ai fini
dello sconto di pena, che si siano adoperati per rimborsare il complice più diligente3.
Ci si chiede, dunque, se la giurisprudenza adotterà una tale esegesi soggettivistica
anche dell’art. 13. Una tale lettura della norma non pare in nessun modo auspicabile 4:
si pensi al paradosso del commercialista che ha indicato ad una multinazionale una
modalità per evadere alcune imposte divenendo così concorrente nel delitto tributario
realizzato dagli amministratori, costretto per patteggiare ad inviare una raccomandata
alla società che ha pagato il proprio debito tributario da milioni di euro al fine, mi si
conceda, di “offrirsi di partecipare alle spese”.
2
Si veda Cass. Pen., Sez. Un., 23.11.1988, Presicci, in Cass. Pen., 1989, p. 1181.
3
Questo l’insegnamento costante della Suprema Corte. Si vedano, in particolare, Cass. Pen., Sez. Un.,
22.1.09, n. 5941, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, p. 1483, nonché Cass. Pen., Sez. V, 25.2.2000, Fagiuoli,
n. 996, in Cass. Pen., 2001, p. 1468; Cass. Pen., Sez. I, 27.10.2003, B. e altri, n. 4177, in Cass. Pen., 2004,
p. 4076.
4
Sul punto si veda Lanzi-Aldrovandi, Le recenti modifiche al diritto penale tributario, Cedam, 2011, p. 10
6
In conclusione, a seguito della novella, mentre le imprese potranno anche pianificare i
rischi dell’evasione, tanto più che nella lotta a tale fenomeno non si prevede ancora
nessuna responsabilità per l’ente ai sensi del D.Lgs. 231/2001, per le persone fisiche si
pone un’enorme differenza di trattamento qualora queste siano in grado di adempiere
al debito tributario o meno.
Con una suggestione: chi pagherà il debito potrà avere un duplice sconto sulla pena
pari ad 1/3 per l’attenuante dell’art. 13 e 1/3 per il patteggiamento; chi, come con ogni
probabilità, l’amministratore o il tax planner, non pagherà, non avrà alcuna riduzione
di pena, non potrà patteggiare, finendo così per rischiare una sorta di “prigione per
debiti”, magari persino altrui.
3. Nuovi e più stringenti requisiti per la sospensione condizionale della
pena: “Manette agli elusori”?
Un ulteriore intervento assai significativo che potrebbe avere effetti dirompenti nella
pratica attiene alle condizioni di accesso alla sospensione condizionale della pena
introdotte dalla legge di stabilità solo per i delitti tributari.
In particolare, la novella legislativa ha introdotto il comma 2 bis all’art. 12 del D.Lgs.
74/2000 che dispone: “Per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del presente decreto
l'istituto della sospensione condizionale della pena di cui all'articolo 163 del codice
penale non trova applicazione nei casi in cui ricorrano congiuntamente le seguenti
condizioni:
a. l'ammontare dell'imposta evasa sia superiore al 30 per cento del volume
d'affari;
b. l'ammontare dell'imposta evasa sia superiore a tre milioni di euro”.
Su tale innovazione si innestano molteplici perplessità.
In primo luogo si noti che limitazioni all’accesso alla sospensione condizionale della
pena erano, fino alla legge di stabilità, previste esclusivamente per i reati elettorali di
7
cui agli artt. 54-60 D.p.R. 223/1967 e per la frode alimentare dannosa alla salute ex art.
6, quinto comma, L. 283/19625. Tali limitazioni sono state sottoposte al vaglio della
Corte Costituzionale sotto il profilo del principio di uguaglianza, art. 3 Cost., e di
rieducazione della pena, 27, comma terzo. In particolare, nella decisione 48 del 1962 la
Corte Costituzionale ha ritenuto costituzionalmente legittima la scelta del legislatore di
introdurre limitazioni qualitative, riferite cioè a specifici reati, all’accesso alla
sospensione condizionale, purché:
1. i reati tutelino beni giuridici “di fondamentale importanza in un regime
democratico”, in quanto ciò esclude ogni rimprovero di irragionevole
disuguaglianza;
2. per la tipologia di illeciti, sia necessario che “la pena irrogata esplichi senza
limitazioni la sua propria funzione intimidativa e reintegrativa del diritto”,
cosicché la pena tenda alla rieducazione come richiesto dall’art. 27 Cost..
Orbene, se può comprendersi la fondamentale importanza in un regime democratico
della tutela del libero svolgimento delle competizioni elettorali e della salubrità degli
alimenti, si fa più fatica a ritenere che l’interesse alla piena corresponsione dei tributi
possa rivestire un ruolo tanto rilevante. Può, dunque, dubitarsi della legittimità
costituzionale di tale previsione.
Si consideri, inoltre, che i parametri previsti dalla legge di stabilità per l’accesso alla
sospensione condizionale si riferiscono alla gravità del reato sul piano oggettivo (3
milioni di evasione e 30% del volume d’affari), mentre, in generale, l’accesso alla
sospensione condizionale della pena dipende esclusivamente da una prognosi di non
recidivanza dell’autore del reato, quindi su un elemento che guarda al soggetto più che
al fatto realizzato.
Infine, la stessa previsione legislativa pecca di precisione sia nell’indicazione dei reati
per cui opera la limitazione d’accesso alla sospensione condizionale, sia nella
descrizione del requisito sub a), ove si fa riferimento al concetto di “volume d’affari”.
5
Sul punto Andreazza-Pistorelli-Scarcella, Rel. n. III/13/2011, pp. 11, pubblicata sul sito internet
www.penalecontemporaneo.it.
8
Quanto all’indicazione dei reati per cui non devono verificarsi le condizioni previste dal
comma II bis, il legislatore si riferisce agli articoli da 2 a 10 del D.Lgs. 74/2000:
sennonché, come noto, né l’art. 8 (Emissione di fatture per operazioni inesistenti), né
l’art. 10 (Occultamento o distruzione di scritture contabili) permettono all’autore di
reato alcuna evasione d’imposta.
Quanto alla nozione di volume d’affari questa può essere letta, secondo Autorevole
dottrina6, in due diverse prospettive:
1. il Legislatore si riferisce al concetto normativo – indi tecnico – di volume
d’affari, come previsto dall’art. 20 del D.p.R. 633/1972. Sennonché tale
concetto è applicabile esclusivamente ai contribuenti soggetti IVA e non
sarebbe applicabile né a chi non vi è assoggettato né a chi, pur dovendo, non
ha presentato la dichiarazione IVA;
2. il concetto di volume d’affari va inteso in senso atecnico come giro d’affari.
Sennonché si tratterebbe di un concetto sfuggente, non tipizzato dal
legislatore, in una materia che richiede estrema precisione e si caratterizza per
l’elevato tecnicismo.
Nessuna delle due soluzioni pare pienamente convincente: la prima finirebbe per
sanzionare più severamente chi compie una dichiarazione infedele rispetto a chi la
omette completamente; la seconda consiste in un contenitore vuoto che ciascun
giudice ordinario può riempire discrezionalmente – rectius arbitrariamente.
Infine, mi si permetta un breve excursus per spiegare gli effetti gravi ed
ingiustificatamente incisivi sulla libertà personale che la novella può provocare. Siamo
senz’altro in un momento di “Controlli fiscali sempre più ostili”7 che proliferano su un
sistema normativo farraginoso, complicato da una giurisprudenza particolarmente
creativa: basti sul punto pensare al fenomeno dell’elusione che sta vedendo una corsa
6
Sul punto Andreazza-Pistorelli-Scarcella, Rel. n. III/13/2011, pp. 9 e 10, pubblicata sul sito internet
www.penalecontemporaneo.it, nonché Lanzi-Aldrovandi, Le recenti modifiche, cit., pp. 10 e 11.
7
Questo il titolo di un articolo pubblicato il 29.11.2011 a firma di De Carli su Il Sole 24 ore che riferisce
una ricerca di Ernst & Young secondo cui il 75% delle imprese registra una crescita nel volume e
nell’aggressività dei controlli fiscali.
9
in avanti nelle sue conseguenze sanzionatorie. Il prof. Perini spiegherà il fenomeno
molto meglio di me, io qui voglio solo sottolineare che la giurisprudenza della Suprema
Corte temo si stia muovendo verso il riconoscimento di una rilevanza penale, sub
specie di dichiarazione infedele, all’elusione8, in controtendenza rispetto a precedenti
decisioni sia di merito9 che di legittimità10.
Orbene, se l’elusione che fino a ieri era considerata pacificamente in giurisprudenza
fenomeno estraneo al diritto penale diviene per esso rilevante, non si potrà che
assistere al moltiplicarsi di processi per infedeli dichiarazioni ai danni non solo degli
amministratori delle società, ma, temo, anche dei tax plenners, anche per cifre
consistenti, ben al di sopra dei 3 milioni di euro di imposta evasa.
Se, dunque, rispetto a condotte elusive già sul piano della tipicità e della necessità di
pena si pongono dubbi, l’idea che soggetti condannati per tali condotte, a pene anche
minime nell’ordine di un anno di reclusione, non possano nemmeno essere ammessi
alla sospensione condizionale della pena lascia assai perplessi. L’alternativa in caso di
condanna, in mancanza di tale istituto, sarà, nella migliore delle ipotesi, l’affidamento
in prova ai servizi sociali, nella peggiore la pena detentiva, anche qualora il contributo
dell’amministratore o del tax planner alla realizzazione del reato sia stato minimo.
8
Si veda sul punto la timida, ma preoccupante, apertura della Suprema Corte, Sez. III, 18.3.2011, n.
26723 che chiude laconicamente la propria motivazione affermando che “a parte il rilievo che il
carattere elusivo potrà essere meglio accertato in sede di cognizione, ciò non toglie che, secondo la
adeguatamente motivata valutazione del giudice del merito (che in questa sede non potrebbe essere
censurata nemmeno sotto il profilo della manifesta illogicità) la suddetta condotta, essendosi risolta in
atti e negozi non opponibili alla amministrazione, avrebbe comunque comportato una dichiarazione
infedele, perché nella stessa gli elementi attivi non sono stati esposti nel loro ammontare effettivo”.
9
Si permetta il richiamo, per la disamina della giurisprudenza di merito, a Troyer-Ingrassia, «Il fatto, in
quanto integrante fattispecie di natura elusiva, non è previsto dalla legge come reato»: ovvero
dell’irrilevanza penale dell’elusione fiscale, Nota a Trib. Catania, sentenza n. 2741/2009, in Riv. Dott.
Comm., 2010, pp. 884 e ss., nonché Id., Esclusa nuovamente la tipicità penale dell’elusione. A margine di
un noto caso di presunta esterovestizione tra divieto di presunzioni legali nel processo penale e libertà di
stabilimento, in Riv. Dott. Comm., 2011, p. 453.
10
Si tratta del noto obiter dictum di Cass. pen., Sez. V, 7.7.06, n. 23730. E`inoltre pubblicata per stralcio
con il numero di sentenza 34780 in Corr. trib., 2006, pp. 3045 ss. con il commento di Corso, Secondo la
Corte di cassazione l’elusione non integra un’evasione penalmente rilevante.
10
4. L’aumento dei termini di prescrizione: un “novum” già visto
Infine, la legge di stabilità ha aumentato di 1/3 i termini di prescrizioni per tutti i delitti
tributari fatta eccezione solamente per gli artt. 10 bis (Omesso versamento delle
ritenute certificate), 10 ter (Omesso versamento di IVA), 10 quater (Indebita
compensazione) e 11 (Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte) del D.Lgs.
74/2000, attraverso l’introduzione del comma 1 bis all’art. 17 del predetto decreto.
Si fa così un passo indietro rispetto al D.Lgs. 74/2000 che aveva escluso in ordine ai
termini di prescrizione ogni trattamento deteriore per gli autori di delitti tributari.
A seguito di tale innovazione, plurime sono le questioni che la giurisprudenza dovrà
affrontare.
In primo luogo la laconicità del testo normativo che si limita ad affermare che “i
termini di prescrizione (…) sono elevati di un terzo” non offre un criterio univoco per la
determinazione del periodo oltre il quale il reato dovrà considerarsi estinto. Possiamo,
infatti, immaginare tre diversi criteri di calcolo, così compendiabili in ordine di
crescente durata del periodo necessario a prescrivere:
a. l’aumento di 1/3 opera solo sul termine iniziale, cui si aggiungerà in base all’art.
161 c.p. l’ulteriore lasso di tempo dovuto alla interruzione della prescrizione
(es. termine iniziale 6 anni + 1/3 = 8. A tale termine si aggiunge 1/4 per
l’interruzione e si ottiene il termine finale pari a 10 anni);
b. l’aumento di 1/3 opera sia sul termine iniziale, sia sull’ulteriore termine
aggiuntivo in ipotesi di interruzione della prescrizione (es. termine iniziale 6
anni + 1/3 = 8. A tale termine si aggiunge 1/4 (2 anni), allungato di 1/3 (quindi
32 mesi) per un termine finale pari a 10 anni e 8 mesi);
c. l’aumento di 1/3 opera sul termine iniziale e costituisce anche la misura
dell’aumento del termine massimo in caso di evento interruttivo (es. termine
iniziale 6 anni + 1/3 = 8. A tale termine si aggiunge 1/3, per un termine finale
pari a 10 anni e 8 mesi).
11
Orbene, sarebbe stata senz’altro preferibile una previsione normativa più puntuale:
nel silenzio del legislatore la prima tesi, più favorevole al reo, pare la più opportuna da
adottare.
Quanto alla successione di leggi penali del tempo, data l’intervento del legislatore con
una specifica norma transitoria, che fa operare le modifiche ai termini di prescrizione
solo per il futuro, i problemi che ad una prima lettura della novella potrebbero
emergere attengono alla decorrenza del termine di prescrizione per i reati in materia
di dichiarazione, ove le condotte preparatorie all’evasione siano già state compiute al
17 settembre ma la dichiarazione intervenga dopo tale data, e per l’ipotesi di cui
all’art. 8 (Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) ove l’agente
abbia emesso fatture sia prima, sia a seguito dell’entrata in vigore della legge di
stabilità.
Quanto ai delitti in materia di dichiarazione, ovvero gli artt. 2 (Dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), 3
(Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) e 4 (Dichiarazione infedele), poiché,
come già rilevato in dottrina11, si consumano solo con la presentazione della
dichiarazione opereranno i termini più lunghi di prescrizione nell’ipotesi in cui la
dichiarazione stessa sia stata presentata dopo il 17 settembre 2011.
La seconda questione inerente la successione di leggi penali nel tempo sorge perché il
secondo comma dell’art. 8 dispone che “l’emissione o il rilascio di più fatture o
documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo d’imposta si
considera come un solo reato”. Orbene pare a chi scrive che trattandosi di reato
eventualmente
abituale,
ogni
condotta
di
reiterazione
del
reato
sposti
cronologicamente più avanti il tempus commissi delicti e, di conseguenza, la legge
applicabile al fatto. In definitiva, mi pare possa affermarsi che ove sia stata emessa
anche solo una fattura a seguito dell’entrata in vigore della legge di stabilità non si
ponga alcun dubbio in merito all’operatività dell’aumento del termine di prescrizione.
Diversamente, se il fatto è realizzato prima dell’entrata in vigore del nuovo comma I
11
Lanzi-Aldrovandi, Le recenti modifiche, cit., p. 13.
12
bis dell’art. 17 opererà la norma transitoria contenuta nella legge di stabilità per cui il
termine di prescrizione sarà quello comune, disciplinato dagli artt. 157 e ss. c.p..
5. Alcune sommarie conclusioni a prima lettura
Volendo rischiare un commento a prima lettura delle innovazioni introdotte con la
legge di stabilità al sistema dei delitti tributari di cui al D.Lgs. 74/2000, mi sembra di
poter affermare ci si trovi di fronte ad una legge fortemente simbolica il cui messaggio
dovrebbe essere: “Manette agli evasori”.
Lo si comprende dalle modifiche del D.Lgs. 74/2000 che incidono pressoché
esclusivamente sulle conseguenze sanzionatorie dei delitti tributari, tentando di
rendere il carcere l’unica risposta sanzionatoria ad offese di una certa gravità al diritto
dell’erario alla completa riscossione dei tributi, fin quasi ad evocare alla mente la
“prigione per debiti”.
Se a tale novella si aggiunge un’Amministrazione finanziaria particolarmente solerte
nella ricerca di materiale imponibile evaso, con strumenti fluidi e di creazione
giurisprudenziale come l’elusione, ci si dovrà muovere nella prassi – a mio modesto
parere – nella direzione di una legalità più rigorosa. Tale ricerca dovrà muoversi su due
binari, alternativamente o cumulativamente: attraverso esegesi ortopediche dei giudici
ordinari e, nei casi di iniquità più radicali e insuperabili in base al tenore letterale delle
norme, con il ricorso alla Corte Costituzionale.
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