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V Il fatto nuovo desiderato

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V Il fatto nuovo desiderato
V
Il fatto nuovo desiderato
I
l fatto nuovo non tardò a venire e a proiettarmi in
una situazione nettamente di privilegio.
Il mercoledì ci fu l’assegnazione definitiva
degli allievi alle varie compagnie, quindi fummo tutti cambiati
di posto; per me che trovavo molto conforto, per la vicinanza
di branda, in Giacomo De Dato (un vecchio compagno di Caserta e già membro, anni addietro, della nostra squadra di calcio, come vedremo in seguito) e in altri due buoni amici pure
di Caserta conosciuti sin dalla partenza da Napoli, fu una
grande privazione allontanarmi da loro, perché sia Giacomo
che gli altri vennero assegnati alla Undicesima Compagnia,
mentre io ero rimasto alla Quarta.
Quel giorno nell’ora di riposo pomeridiano sdraiato
sulla mia branda, riflettevo ad occhi chiusi, mentre gli altri che
mi circondavano, sembravano tutti illustri sconosciuti. E non
doveva essere questa l’ultima volta in cui mi chiudevo in una
cupa malinconia; perché il mio solido equilibrio e la mia spavalda sicurezza si erano indeboliti e non resistevano più alle
frequenti sollecitazioni provocate dagli avvenimenti che si
susseguivano giorno per giorno. Bastava un nonnulla per farmi
improvvisamente e inesorabilmente ricadere in una insopportabile tristezza, scoprendo così una inaspettata e sconosciuta
fragilità del mio carattere, formatosi all’ombra e sotto la protezione dei miei fratelli più grandi e di mamma e papà. Non immaginavo che proprio allora stava per verificarsi un fatto nuovo che mi avrebbe proiettato in una insperata dimensione di37
versa e mi avrebbe concesso la possibilità di riqualificarmi.
Data la mia amicizia con un finanziere scelto, Giuseppe Restivo, scrivano dell’ufficio del Comando di Battaglione,
a cui facevano capo le quattro Compagnie del corso, riuscii ad
essere chiamato a prestare servizio in questo ufficio, evitando
in tal modo di partecipare alle operazioni pesanti e di routine.
Naturalmente, anche questo era un ufficio da organizzare e i
primissimi giorni dovetti insieme agli altri darmi da fare per
ripulire i pavimenti delle sale e per togliere la polvere dai mobili e dalle scrivanie. In seguito però il mio compito si ridusse
alla sorveglianza dei commilitoni addetti alla pulizia essendo
stato destinato a collaborare con gli impiegati fissi nel disbrigo
delle pratiche d’ufficio.
Il signor Giuseppe Restivo, mio inaspettato salvatore,
era il figlio di un ex finanziere amico di papà, abitante a Caserta nel nostro stesso palazzo, al primo piano, sotto di noi. Prima
di partire da casa il signor Restivo padre sapendo del mio imminente arruolamento si offrì di scrivere una lettera per presentarmi al figlio, già scrivano della Scuola Allievi di Sora e
provvisoriamente destinato a questa di Gaeta.
Mai conoscenza, sino a quel momento quasi insignificante, si dimostrò tanto opportuna e provvidenziale e intervenne a risollevare non solo la situazione contingente, ma risultò
de determinante anche per il seguito della mia vita, e non solo
militare.
Lascio un attimo l’Ufficio Comando per parlare della
prima libera uscita. Il sabato, 23 luglio, il maggiore comandante, dopo dieci interminabili giorni di formale “reclusione”, si
decise a lasciarci uscire dalla clausura della caserma, ma, poiché le divise non erano ancora pronte, aveva acconsentito a
farci usare l’abito civile, per non trattenere ulteriormente in caserma ben seicento ragazzi pieni di vita e di salute. Non fu un
gran divertimento la passeggiata di circa tre ore che facemmo
per Gaeta, ma fu certamente un diversivo utile.
Io, Giacomino De Dato ed altri due amici girammo in
lungo e in largo le vie della città con le nostre teste da qualche
giorno rapate a zero che attiravano l’attenzione di tutti i passanti. Fu proprio in quella uscita che, in un locale bar di Gaeta,
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vidi per la prima volta in assoluto, quell’apparecchio magico
chiamato televisore nel quale veniva proiettato in bianco e nero uno spettacolo di intrattenimento pomeridiano simile all’attuale Domenica In.
Il televisore era posizionato vicino alla vetrina, in modo da poter essere visto anche dalla strada, perché molta folla
si accalcava, insieme a noi, attratta dalla novità, per soddisfare
la curiosità di vedere quell’apparecchio del quale sino ad allora avevamo solo letto o sentito parlare: la TV al sud era arrivata in quei giorni, mentre al nord era diffusa già da qualche anno. Non potevamo assolutamente immaginare la rapida e capillare diffusione in ogni famiglia di quella scatola magica, e
l’influenza che avrebbe gradatamente avuto sugli usi e sulle
consuetudini della nostra vita.
Il giorno seguente, domenica 24, in mattinata marcai
visita per un leggero dolore al gomito destro e, nonostante
questo, la sera uscii nuovamente, per una lunga e solitaria passeggiata.
Anche il lunedì, dovetti ritornare all’infermeria, collocata nella vicina caserma della Guardia di Finanza Mare, attrezzata più della nostra caserma, perché esistente da diversi
anni. Infatti per qualsiasi necessità, compreso la doccia giornaliera, andavamo in questa struttura, situata in un’ala del Castello Aragonese, distante da noi circa trecento metri. Durante
la notte il leggero dolore al gomito era andato man mano aumentando nonostante la pomata di ittiolo applicata la mattina
precedente dall’infermiere: anzi il gonfiore cresceva sempre di
più partendo da un piccolo puntino rosso. La causa precisa di
tale infiammazione non riuscivano a trovarla neanche gli addetti all’infermeria. Gli sviluppi futuri di quel piccolo e insignificante foruncolo, furono di una certa gravità.
Ritornai indietro con la mente, ai primi giorni in cui
ero arrivato e vagliai ogni circostanza che avrebbe potuto essere l’origine di tale male: l’unica spiegazione mi poteva venire
dal fatto che, durante una delle prime notti di soggiorno a Gaeta, ebbi nel punto che si presentava più gonfio e più rosso, una
puntura di insetto, presumibilmente una zanzara.
Il dolore, come ho detto, era aumentato ma l’infermiere
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non sapeva in quale maniera curarlo; come il giorno innanzi
spalmò sull’estremità di una fascetta di garza un velo di pomata di ittiolo, aggiunse una dose di pomata di penicillina e applicò tutto al braccio. Questo trattamento non portò alcun beneficio. Quando ritornai in caserma il dolore era aumentato
terribilmente e mi sentivo febbricitante, per cui mi liberai della
rozza tuta grigio-verde che portavo addosso dal primo giorno
in cui ero arrivato e mi adagiai sulla branda. Il piantone di servizio mi portò a letto il rancio che assaggiai più per necessità
che per appetito.
Il pomeriggio che seguì fu oltremodo pesante: il fastidio aumentava sempre più e non riuscivo a trovare nel letto
una posizione riposante; una posizione adatta per poter prendere sonno. Nella branda mi giravo ora da una parte ora dall’altra
e con la mano accarezzavo la parte malata nell’illusione di poter alleviare, sia pure in minima parte la sofferenza. Ci voleva
anche questo fastidioso dolore a rievocare nella mia mente i
ricordi della famiglia e della dolce casa da cui con tanta spavalderia e irrequietezza mi ero allontanato. Passarono tre, quattro, cinque ore: poi non ne potetti più. Chiamai nella mia camerata l’ufficiale di picchetto e gli esposi la necessità di essere
nuovamente portato in infermeria.
Poco dopo, avvertiti dall’ufficiale, arrivarono due infermieri che mi misurarono la temperatura, ma poiché il termometro aveva segnato solo poche linee di febbre, nel rispetto
del regolamento, non mi fu consentito il ricovero. Passò anche
la serata e minuto dopo minuto la lunga nottata. Il martedì
mattina non mi alzai con gli altri: rimasi a letto finché non
vennero a chiamarmi per andare all’infermeria per una nuova
medicazione. Mi sentivo veramente male: durante il tratto di
strada che dovevamo percorrere per portarci alla Scuola Nautica dov’era l’infermeria, trascinavo a fatica i passi pesanti e
lenti uno dietro l’altro. Con la mano del braccio malato infilata
nella tuta e col capo chino seguivo il gruppo di colleghi più
gravi di me e di quelli che, avendo problemi agli arti inferiori,
erano costretti a procedere lentamente.
Dopo il dolore e la sofferenza della serata precedente e
della notte ero veramente preoccupato. Alla “Nautica” il drap40
pello dei “chiedenti visita” era in fila su un’ampia terrazza che
guardava sul mare e uno per volta entravano nell’infermeria
per la medicazione o la visita secondo il proprio bisogno.
Dall’alto della terrazza si scorgeva di sotto, a strapiombo, a circa trenta metri, il mare che, particolarmente quel giorno, scagliava con furia le sue acque sulla costa rocciosa. Le
onde si increspavano, si arrotolavano e battevano violentemente le bianche rocce, le coprivano e scoprivano, spruzzavano in
alto, spumeggiavano e ricadevano lasciando sulla superficie un
manto bianco di bollicine, che appena spariva risucchiato
sott’acqua, rapidamente si riformava, rincalzato da un’onda
successiva. L’acqua salata e biancastra, che rimaneva sulle
rocce scivolava poi lentamente lungo le fenditure, dando
l’impressione di essere di fronte a tante cascatelle (Foto n. 2).
M’incantai in presenza di quell’inusuale spettacolo della natura e per poco dimenticai il mio dolore: bianco-neve, azzurro, celeste e il colore indicibile dei raggi del sole splendente
del mese di luglio si fondevano a formare uno scenario che
non avevo mai visto prima. Ma nell’attesa, e col dolore che mi
pizzicava il braccio, non potevo rimanere per molto tempo
sempre allo stesso posto: ora mi affacciavo, ora mi sedevo, ora
passeggiavo, finché non arrivò il mio turno.
Il capoinfermieri, con il quale ero riuscito ad instaurare
un buon rapporto di amicizia, mi tolse con molta delicatezza la
fasciatura e, nel vedere l’enorme gonfiore del braccio proprio
sotto il gomito, emise un’esclamazione di meraviglia. Inzuppò
di alcool un batuffolo di ovatta e lo passò sulla parte per disinfettarla; con una pinzetta scostò nel punto più delicato la pelle
resa morbida dalla pomata e incominciò a premere. A quel
punto sentii che mi mancava il respiro, il dolore mi abbagliò la
vista e lentamente chiusi gli occhi e svenni. Sognavo di essere
ritornato a casa quando, ancora sdraiato sul lettino della infermeria, i tre infermieri mi svegliarono dopo avere compiuto fino in fondo il loro delicato lavoro. Mi fu praticata una iniezione di penicillina prima che mi fossi svegliato del tutto; appena
ripresi i sensi e divenni conscio della situazione, non riuscii a
controllarmi e caddi in un pianto dirotto, liberatorio. Gli infermieri cercarono di confortarmi affermando che si trattava di
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una semplice infezione dovuta a una puntura di insetto, ma le
lacrime spontanee uscivano dai miei occhi calde ed abbondanti. Verso le undici tornai in caserma, sempre insieme agli altri,
come all’andata.
Non appena arrivato fui avvertito da un altro mio concittadino di nome Librera, con il quale avevo più saltuari rapporti, che in parlatorio ad aspettarmi c’era mio fratello Enzo.
Fui molto felice di quella visita, perché con la partenza avevo
patito molto il distacco da mio fratello, mio grande compagno
di giochi e consigliere. Ci abbracciammo, ci baciammo e poi
con calma gli raccontai nei minimi dettagli tutto quanto mi era
capitato.
Andammo insieme nell’Ufficio Comando perché Enzo
aveva portato con sé la domanda e la documentazione necessari a partecipare ad un concorso pubblico. Dovette poi apporre
lui le firme in mia sostituzione, perché con quello che avevo
sofferto al braccio, non riuscivo neanche a firmare. Da lì lo
portai di buon grado in giro per la caserma: gli feci vedere ogni luogo e gli spiegai ogni cosa. Mi era stato concesso il riposo a letto per cui avevo il diritto di avere servito il rancio in
branda. Mentre io pranzavo Enzo mi aggiornò sulle novità di
casa, mi informò a lungo sulla vita dei familiari e degli amici
di Caserta e dopo qualche ora ci lasciammo. Egli aveva fretta
di ritornare a casa e io mi sentivo ancora debilitato per quanto
mi era capitato e perciò ritornai a letto.
Al pomeriggio, alla sera e durante la notte il braccio
segnò i primi sintomi di miglioramento ed in breve quel fastidioso malore diventò solo un cattivo ricordo.
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