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L`Europa nella riflessione del convegno della Fondazione Volta

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L`Europa nella riflessione del convegno della Fondazione Volta
L’Europa nella riflessione del convegno
della Fondazione Volta
(Roma, - novembre )
di Simona Giustibelli
Agli inizi degli anni Trenta, nell’atmosfera di collaborazione internazionale
e sicurezza collettiva ereditata dalla conferenza di Locarno e ancora alimentata da iniziative di pace permanente, quali il patto Briand-Kellog per
la messa al bando della guerra e il celebre memorandum paneuropeo del
ministro degli esteri francese Aristide Briand, anche il fascismo riceveva
il nuovo spirito di cooperazione tra le potenze, ospitando a Roma una
prestigiosa tribuna culturale e politica dedicata al tema della crisi europea.
Tale fu, infatti, il convegno internazionale organizzato dalla Fondazione
Volta della Reale Accademia d’Italia, svoltosi nella capitale nelle giornate
dal  al  novembre del  e intitolato espressamente “L’Europa”.
Come è noto, con quell’iniziativa, pur senza rinunciare a una logica di
gerarchia tra le potenze, il regime intendeva accreditare il proprio ruolo
di agente moderato e responsabile sul piano della politica estera.
Per l’occasione l’illustre inventore della radiotelegrafia, Guglielmo
Marconi, e il rinomato storico dell’Italia in cammino, Gioacchino Volpe,
rispettivamente presidente e segretario generale dell’Accademia, accolsero nella suggestiva sala delle prospettive del raffaellesco palazzo della
Farnesina il fiore del mondo politico e intellettuale europeo. Si ricordino
tra i partecipanti, solo per citare i nomi più noti, Joseph Avenol, James
Rennel Rodd e Gabriel Hanotaux, in rappresentanza del mondo diplomatico, Henry Brugmans, Jerôme Carcopino e Christopher Dawson, per
gli studi storici, Gonzague de Reynold e Stephan Zweig, per il panorama
letterario, Hjalmar Schacht, Werner Sombart e Alfred Weber, economisti,
oltre a Hermann Goering e Alfred Rosenberg, esponenti dell’ascendente
partito nazista. Fra gli italiani comparivano peraltro uomini vicinissimi
al duce come Luigi Federzoni, Francesco Coppola, Alfredo Rocco, Vittorio Scialoja, Alberto De Stefani e Francesco Orestano. Tutti furono
chiamati a intervenire al solo titolo di studiosi e pensatori: la questione
che si intendeva proporre al dibattito, la crisi europea allora in corso,
andava affrontata prima sul piano del pensiero e delle idee che su quello
dell’azione e della politica. Ad attribuire una finalità eminentemente
Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /

SIMONA GIUSTIBELLI
culturale all’incontro, con il significativo obiettivo «di rischiarare e
possibilmente unificare una coscienza europea del problema europeo»,
era l’“Indirizzo” stesso apposto agli inviti di partecipazione e riportato
in apertura della pregevole edizione degli Atti, uscita nel  a opera
dell’Accademia e per i tipi del Senato del Regno. Recitava difatti il testo
con una fraseologia dalle risonanze storicistiche:
Ora, questo problema, prima ancora di divenire propriamente e concretamente
politico, è problema di pensiero, problema di idee. Così è del resto in tutti i
grandi problemi imposti dalla storia prima che penetrino nella sfera dell’attività
e dell’azione.
Tuttavia, al di là dei propositi di serenità scientifica e culturale, sottolineata con enfasi dai promotori, l’iniziativa assunse da subito una forte
impronta politica, conciliandosi di fatto con la strategia messa a punto dal
regime in quel periodo per riconquistare al paese, umiliato a Versailles,
una posizione di rilievo nel consesso europeo. L’obiettivo era, tra gli altri,
quello di avvicinare alla nuova Italia quanti ideologicamente e politicamente a essa si sentivano lontani. Erano quelli gli anni in cui il fascismo
si mostrava ancora capace di registrare grandi consensi nel paese e fuori;
in cui Mussolini, assurto a simbolo di un nuovo tipo di uomo politico,
forte ed energico, nonché capace di far leva sul cuore delle masse, appariva ai più l’unica soluzione possibile per il popolo italiano, se non un
esempio da emulare anche nel resto d’Europa. E tale, comunque, egli
intendeva proporsi.
Il convegno ebbe dunque un altissimo livello e Dino Grandi, come
si vedrà, lo giudicò «uno dei maggiori, se non il maggiore avvenimento
culturale-politico europeo» dell’epoca. Eppure, l’evidente impostazione
politica dell’incontro, più o meno premeditata, ne determinò presto
l’oblio. Per quanto, anche a distanza di anni, qualche voce isolata continuasse a vedervi «la prima e più importante rassegna internazionale
mai fatta del problema europeo», il primo a screditarlo fu Mussolini in
persona nel momento in cui, di lì a poco, venne a mutare ragion politica,
imboccando la via della guerra. A questo si aggiunga il rigetto antifascista che investì il mondo postbellico e segnò inevitabilmente la stessa
storiografia, alimentando un sommario giudizio dell’evento quale pura
espressione di totalitarismo e dittatura nel campo della cultura. Non fu
questa l’opinione di Carlo Curcio, la “voce isolata” sopra riportata, al
quale è stato a lungo riconosciuto il merito di aver offerto il contributo di più notevole livello agli studi italiani dedicati all’idea europea e
soprattutto a quella emersa tra la prima e la seconda guerra mondiale.
Egli considerò ineguagliabile il valore della testimonianza fornita dal
convegno circa la coscienza europea maturata dalla contemporaneità e,
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L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
non a caso, nella ricchissima ricostruzione condotta in Europa. Storia di
un’idea, costellò la trattazione dedicata al periodo tra le due guerre di
citazioni tratte dalle relazioni presentate in quella occasione. Certo, uno
studioso come Curcio fu notoriamente coinvolto in prima persona nelle
passioni politiche del ventennio. Tuttavia Duroselle stesso lo considerò
storico di apprezzabile spessore.
Di fatto, malgrado tutto, il convegno ha continuato a essere un punto
di riferimento per la riflessione storica sull’idea europea, sia pur attraverso
cenni brevi, ma significativi: Federico Chabod, negli anni della Resistenza,
come si sottolineerà meglio più avanti, si contrappose a esso in maniera
nettamente polemica; per parte loro Renzo De Felice e Dino Cofrancesco
ne hanno offerto una chiave interpretativa più prettamente legata a questioni di politica estera; Edmondo Paolini, studioso del federalismo, lo ha
citato per segnalare la comparsa delle prime voci sinceramente europeiste
in un clima culturale pur intriso di elementi propagandistici; infine, più
di recente, Lutz Klinkhammer, nel tratteggiare un quadro del dibattito
sull’Europa avvenuto in Germania in quel periodo, non ha potuto ignorare le relazioni tenute in quella sede dagli oratori tedeschi.
A distanza di tanti anni è dunque consentito riconoscere che il convegno del  rappresentò un evento e politico e culturale non privo di
un reale impegno intellettuale e di una notevole ampiezza di prospettive.
Giungere a una sua riconsiderazione e rivalutazione appare, pertanto,
opportuno per tutta una gamma di ragioni che possono essere definite
semplicemente oggettive: l’altissima concentrazione di voci sull’Europa
e la capacità d’attrazione verso il mondo intellettuale europeo; la qualità
dell’impegno preparatorio e organizzativo da parte dell’Accademia e
la rilevanza del lavorio diplomatico; lo spessore di taluni interventi e la
presenza di relatori completamente estranei alle logiche del regime; il
criterio di serenità adottato e la libertà d’espressione lasciata, nonostante
la vocazione “antieuropea”, alle voci di ispirazione federalista; la presa
di posizione da parte fascista contro il memorandum Briand e, allo stesso tempo, l’atteggiamento di moderazione e conciliazione nei rapporti
internazionali; la sottesa abilità del regime nell’avvalersi anche dei fattori
culturali, e non solo della forza, per affermare una logica di gerarchia
tra le potenze; infine, l’attualità dei contenuti e la formulazione di idee
destinate a segnare il successivo dibattito sull’Europa, come, per citare
solo gli spunti più interessanti, la salvaguardia della sovranità nazionale,
il mercato unico, il rapporto con le altre civiltà, la questione dei confini
geografici e, quindi, dell’identità dell’Europa tra area mediterranea,
mitteleuropa ed Esteuropeo.
Questo, dunque, è l’obiettivo dell’articolo, fornire un primo contributo alla ricostruzione dell’evento, non tanto sotto il profilo dei contenuti, quanto dell’attività svolta dai promotori, sia sul piano culturale

SIMONA GIUSTIBELLI
che politico-diplomatico, nella fase di preparazione come durante lo
svolgimento dei lavori. A ciò verrà aggiunta una sintetica valutazione
dell’impatto mediatico ottenuto: varrebbe la pena in futuro di approfondire ulteriormente il lavoro con un’attenta analisi delle relazioni
svolte e del contributo portato dai singoli intervenuti, per non dire degli
aspetti biografici di ognuno di essi. Si cercherà, per ora, di offrire i dati
per così dire oggettivi, documentari dell’avvenimento, procedendo a un
esame delle fonti e delle carte conservate presso l’Archivio della Reale
Accademia d’Italia, l’Archivio di Stato e l’Archivio storico-diplomatico
del ministero degli Affari Esteri. I documenti dell’Accademia, seguendo
passo passo tappe e sviluppi dei lavori organizzativi, ci permetteranno di
far luce sull’intenso dibattito accesosi tra gli intellettuali durante la fase
preparatoria; quelli della Segreteria Particolare del duce saranno utili a
precisare il rapporto con Mussolini e i motivi dell’attenzione rivolta da
parte del governo italiano a un’iniziativa che pur si presentava come eminentemente culturale; quelli, infine, relativi alle ambasciate serviranno a
sottolineare i risvolti diplomatici dell’avvenimento e il coinvolgimento di
personalità di tutto rilievo sulla scena politica nazionale e internazionale,
come quella di Grandi.

Un convegno sull’Europa:
la prima iniziativa culturale della Reale Accademia d’Italia
L’idea di aprirsi all’Europa nacque nel corso del  in seno alla classe
delle scienze morali e storiche della Reale Accademia d’Italia. Allo stato,
si trattò di un’esigenza prima culturale che politica: o meglio, al di là del
pur significativo ruolo di Coppola, su cui ci soffermeremo, non sono state
rinvenute testimonianze di sollecitazioni governative “a monte”. Di fatto
ciò non determina una differenza sostanziale e non solo perché, come porrà in luce l’esame delle fonti citate, l’evento fu voluto e seguito da vicino
dal governo italiano, ma anche per la natura stessa dell’ente promotore,
una delle più mastodontiche creazioni del regime in ambito culturale.
Ricordare qui brevemente gli esordi dell’Accademia, per quanto noti, può
essere utile al fine di meglio comprendere l’atmosfera e le premesse che
caratterizzarono il convegno fin dai primi passi organizzativi.
Fondata nel  per volontà e iniziativa di Mussolini, che la inaugurò
con un significativo discorso all’insegna dell’esaltazione dei valori del
regime, la Reale Accademia d’Italia nasceva per offrire al paese un istituto che, superando lo specialismo di quelli già esistenti, fosse veramente
nazionale e universale, sia sul piano materiale, cioè geografico, sia sul
piano formale, cioè le materie oggetto di studio. Stando al duce, erano

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
stati i nuovi fermenti spirituali e ideali, risvegliati nel popolo italiano dalla
guerra e dalla rivoluzione fascista, a rendere inevitabile l’istituzione di un
organo in grado di rappresentare e coordinare tutte le attività intellettuali
della nazione. Di fatto, nella nuova istituzione si esprimeva la volontà
del regime di improntare a un’unica direzione l’intera vita intellettuale
e scientifica nazionale. Per la verità, in un articolo significativamente
apparso il  ottobre del  su “Il popolo d’Italia”, Volpe avrebbe
sostenuto che unificare e disciplinare non significava assolutamente
asservire: non piegare e sottomettere le più elevate attività dello spirito
era il compito precipuo della nuova Accademia, alla quale secondo lo
storico spettava piuttosto di disciplinare e indirizzare il genio e la libera
iniziativa senza mortificarli, favorendone altresì l’espansione e l’influsso
al di là dei confini nazionali e promuovendo nei privati un intelligente
mecenatismo. È evidente, tuttavia, come la creazione dell’Accademia si
inserisse in un più ampio disegno di formazione nonché di controllo e
propaganda. Lo stesso Volpe, proseguendo nel suo ragionamento, definiva
quale primo obiettivo dell’istituzione non la scienza e l’arte in se stesse,
ma la grandezza della nazione:
Poiché questo è, non c’è dubbio, lo scopo primo e massimo della nuova Accademia; questo il suo specifico carattere. Non la scienza per la scienza o l’arte
per l’arte; ma la scienza e l’arte, consapevolmente e volutamente e direttamente,
mezzo di grandezza della Nazione.
Nata nel  con queste premesse, spiega Giorgio Candeloro, l’Accademia divenne, in realtà, operativa solo nel , dato che il regime
volle prima assicurarle l’adesione dei nomi più prestigiosi del mondo
intellettuale italiano: tra di essi figuravano, accanto ai nomi già ricordati
e a quelli citati più avanti nel testo, personalità di spicco quali Luigi
Pirandello, Pietro Mascagni, Enrico Fermi, Giotto Dainelli, Filippo
Tommaso Marinetti. Pertanto l’attività culturale promossa dall’Accademia, se non altro in virtù dell’adesione e della collaborazione prestata
da figure di così alto prestigio, fu svariata e di grande livello. Ciascuna
delle quattro classi in cui essa era suddivisa, scienze fisiche, matematiche
e naturali, scienze morali e storiche, letteratura e arte, curava iniziative
di spessore: pubblicazioni, concorsi, premi, convegni, borse di studio,
commemorazioni, celebrazioni ecc. In questa complessa architettura di
attività si inseriva inoltre il contributo offerto dalle diverse fondazioni
private divenute patrimonio dell’Accademia. Tra esse la più importante
era la Fondazione Volta, istituita dalla Società Edison di Elettricità e
annessa all’istituto con figura giuridica distinta. Essa forniva cospicui
finanziamenti, per metà destinati a convegni internazionali e per l’altra a
borse di studio e perfezionamento, o viaggi di studiosi e missioni all’estero.

SIMONA GIUSTIBELLI
In merito ai convegni, il suo statuto prevedeva che essi venissero indetti
ogni due anni dalla classe delle scienze fisiche, matematiche e naturali,
con la quale la Fondazione collaborava in via preferenziale e, nell’anno
intermedio, da una delle altre classi. Al di là della fornitura dei mezzi
materiali e di un’attenta opera di supervisione, si garantiva comunque
alla classe di turno piena libertà di iniziativa, fin nella scelta dell’oggetto
di studio.
Nel  si svolse quindi un incontro dedicato a problemi di alta
scienza fisica: ma, sul piano politico-culturale, sarebbe stato proprio il convegno sull’Europa il primo vero impegno della nuova Accademia, l’atto
che, vissuto con entusiastica consapevolezza del servigio reso al regime,
avrebbe segnato la sua nascita all’insegna dei valori e delle creazioni del
fascismo. Anche Volpe, nell’articolo già menzionato, avrebbe sottolineato
all’opinione pubblica l’importanza dell’evento, preannunciandone, a distanza di meno d’un mese dall’apertura dei lavori, la più vasta risonanza
rispetto al precedente. La natura non tecnica, ma storico-politica del tema
proposto faceva prevedere il coinvolgimento di un pubblico più esteso,
riproponendo altresì sul piano del pensiero problematiche ben presenti
all’ordine del giorno della politica internazionale. Scriveva lo storico:
Quest’anno, fra il  e il  novembre, altro Convegno di altra Classe, con altro
argomento: argomento che potrà essere non dico di maggiore importanza, ma
forse di maggiore risonanza, data la natura non tecnica, ma storico-politica del
tema proposto, per il quale il confine tra competenti e incompetenti non è così
nitido come nelle scienze cosiddette esatte. L’argomento sarà: L’Europa, con
tutta una serie di problemi che sono già nella coscienza o subcoscienza di tutti.
Esiste una Europa come unità? E se esiste, di che più propriamente è costituita? E quale la sua posizione di fronte al mondo extraeuropeo, prima e dopo la
guerra? E vi è una possibilità di una collaborazione attiva dell’Europa? Problemi
piuttosto vaghi, ma che pure ondeggiano di fronte ai nostri occhi. Può valere la
pena di chiarirli in sede non politica e con spirito non politico, e, ancor meno,
polemico, mentre, con modi diversi, essi si presentano anche in sede politica nei
rapporti internazionali.
L’incontro veniva, dunque, presentato come un’importante opportunità
di riflessione non politica su problemi che, ancora vaghi nella coscienza
collettiva, l’Europa e la sua unità, l’urgenza del momento richiedeva di
chiarificare. Allo stesso tempo e per la stessa urgenza i suoi immediati
risvolti politici erano innegabili. Alla fine il convegno mostrava il medesimo carattere di dualità tra politica e cultura, finalità scientifiche e
propaganda, che aveva segnato la nascita e la vita del suo ente promotore:
considerato lo stretto rapporto tra il duce e l’Accademia e l’alto carattere
d’attualità dell’occasione, il coinvolgimento del governo nella sua organiz-

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
zazione era a dir poco scontato. Ma, al di là di tutto, rimaneva l’obiettivo
di promuovere una riflessione su un tema per così dire “nuovo”, a tal
punto inedito da essere imprecisato: ed è questo il dato di interesse per
lo studioso della storia del pensiero sull’Europa.

Il problema Europa agli inizi degli anni Trenta
«Esiste un’Europa come unità? E se esiste, di che più propriamente è
costituita? E quale la sua posizione di fronte al mondo extraeuropeo,
prima e dopo la guerra? E vi è una possibilità di una collaborazione attiva
dell’Europa?». Ponendo questi interrogativi, Volpe coglieva, in fondo,
un tema chiave nella riflessione culturale e politica degli anni Trenta: con
la sua iniziativa l’Accademia d’Italia si immetteva nel vivo di un dibattito
ideale animato dalle voci più prestigiose del mondo intellettuale europeo,
da Ortega y Gasset a Benedetto Croce, da Julien Benda a Salvador de
Madariaga, dai fratelli Thomas ed Einrich Mann a Paul Claudel, Jules
Romains, Paul Valéry, Miguel de Unamuno.
In effetti, la filosofia della crisi propria di quest’epoca e la percezione
radicata nel sentire collettivo di una prossima detronizzazione del vecchio continente avevano fatto dell’Europa una parola alla moda, pronta
a spiccare il gran salto dalla sfera del pensiero e della cultura a quella
dell’azione e della politica. Ma, se da una parte si guardava alla vecchia
idea europea come all’unica via percorribile per rifondare la vita continentale, dall’altra essa appariva ancora vaga e confusa e i suoi contenuti
venivano precisandosi in modo diverso a seconda degli orientamenti
ideologici e politici. Comune denominatore tra questi era per Ernesto
Sestan – altro noto membro della prestigiosa Accademia, che proprio
allora curò la voce “Europa” dell’Enciclopedia dell’Istituto Treccani – il
senso di profondo smarrimento lasciato in eredità dalla grande guerra,
alimentato tanto da coefficienti esterni, il trasferimento di poteri verso
nuovi centri di forza extracontinentali, Stati Uniti e Unione Sovietica, che
interni, il disordine morale e spirituale ovunque imperante, la recessione
economica e l’incertezza dei valori del sistema capitalistico, gli odi e gli
esagerati nazionalismi alimentati dal conflitto, le insormontabili barriere
ideologiche dovute all’apparizione di nuove realtà politiche. Pertanto gli
europei si trovavano a dover affrontare un profondo esame di coscienza
su quella che spenglerianamente si poneva, almeno per alcuni, come
una vera e propria crisi di civiltà:
In sostanza la guerra e la pace hanno dato all’Europa il senso pieno della sua
relatività nel mondo. E non pure rispetto al mondo americano, ma anche a quello

SIMONA GIUSTIBELLI
giapponese, cinese, a quello indiano. A qualche mente volta al pessimismo già
si presenta il pericolo della detronizzazione dell’Europa dalla sua posizione
di dominatrice del mondo. L’odierna crisi economica – per alcuni, addirittura
crisi di civiltà – ha posto l’Europa davanti a un esame di coscienza: pochissimi
i punti fermi ideali nella moderna Europa; quasi tutte le fedi in discussione o
in discredito.
Del problema “Europa” si vedevano perciò aspetti numerosissimi e multiformi: secondo una colorita espressione di Curcio, esso era come uno
specchio ridotto dalla guerra in mille pezzi e impossibile da ricomporre
in un unico profilo. Eppure la volontà di indagare la questione in tutti
i suoi aspetti stava a dimostrare quanto l’idea europea fosse in grado di
suscitare interesse: la sua riscoperta e, soprattutto, la riacquisizione per
suo tramite di quel patrimonio culturale e spirituale comune, irrimediabilmente distrutto nella lotta fratricida, apparivano, come già detto, l’unica
soluzione atta a inaugurare una nuova era di rinascita e potenza.
Il bisogno di Europa nasceva dunque dalla crisi, dalla paura di un
inarrestabile declino, da un sussulto d’orgoglio del vecchio continente
di fronte a quella che per taluni era l’inevitabile agonia degli Stati nazionali e per altri il segnale della necessità di un profondo cambiamento di
valori, ancora una volta incentrati sulla nazione, ma non in un contesto
democratico. In questa seconda direzione, la consapevolezza del trovarsi
in un’epoca di spietata selezione naturale, fra popoli forti e popoli destinati alla scomparsa, si traduceva in un appello all’Europa a immergersi
nella nuova temperie “spirituale” e ad accettare la leadership dei suoi
elementi più guerrieri. Tale era, almeno, l’istintiva inclinazione della
“risoluzione” fascista.
Sta di fatto che, per l’una come per l’altra via, l’idea d’Europa cessò
di essere prerogativa esclusiva del mondo intellettuale. Secondo Sergio
Pistone, fu proprio il nuovo effettivo innesto che essa trovò nella realtà
storica contingente a rendere possibile, negli anni tra le due guerre, il suo
passaggio dalla sfera del pensiero a quella della politica. Una politica
che, ancora una volta, poteva esercitarsi nel senso dell’estensione delle
istituzioni democratico-rappresentative al continente nel suo complesso
– che è il fenomeno cui allude Pistone –, ovvero della elaborazione di
una politica europea di egemonia, ma pur sempre europea, da parte degli
Stati-potenza più dinamici. In questo processo, sul versante delle democrazie, lo spartiacque fu rappresentato dal memorandum Briand del °
maggio . Per la prima volta, infatti, una proposta europeista lanciata
in una sede squisitamente politica, la tribuna della Società delle Nazioni,
impose ai governi e alle classi dirigenti una presa di posizione precisa
sull’argomento. E fu proprio in risposta e in contrapposizione a questo
progetto, ispirato a un vago «vincolo federale», che anche il fascismo,

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
chiamato a chiarire il proprio orientamento al pari degli altri governi, si
accostò, in un certo senso per la prima volta, al tema “Europa”. Lo fece,
pronunciandosi attraverso le parole del duce e dell’allora ministro degli
Esteri Dino Grandi decisamente a favore dell’Europa delle nazioni. Recitava infatti la risposta italiana al memorandum del Quai d’Orsay:
Le Gouvernement Fasciste pense avant tout, et en cela il est d’accord avec le
Gouvernement de la République, que tout système d’Union européenne devrait
être compris comme un système de coopération des Etats d’Europe fondé sur
l’idée d’Union et non pas sur l’idée d’Unité et dans lequel par conséquent la souveraineté absolue et l’indépendance politique de tous les Etats membres saraient
entièrement respectées […].
Nel luglio del  Mussolini affermava dunque con forza, e non senza una
certa astuzia nel cogliere le contraddizioni del programma francese, che
un’eventuale cooperazione degli Stati continentali non avrebbe dovuto
in alcun modo intaccarne la sovranità assoluta. Secondo la sua opinione il
sistema degli Stati europei poteva essere fondato solo «sull’idea di unione
e non su quella di unità». (Aprendo una piccola parentesi, è veramente
significativo che, ancora oggi, la costruzione europea nella quale viviamo abbia preso il nome di “Unione Europea” e non quello più antico e
federalista di “Stati Uniti d’Europa”).
Ad ogni modo si trattava di una prima, piuttosto vaga formulazione,
destinata ad arricchirsi ulteriormente e a cambiare più volte contenuti
nelle diverse fasi della vita del regime, passando per il convegno Volta,
fino agli approdi terribili che ne costituirono l’epilogo. Essa segnò, di
fatto, una svolta, nel senso che avviò in Italia un dibattito vivacissimo, per
quanto permeato da una pomposa propaganda sostanzialmente antieuropea, a sostegno, cioè, di un’Europa tutta ispirata ai valori del regime.
«Fenomeno prettamente italiano nella sua estrinsecazione storica», il
fascismo, asseriva il duce, aveva dei caratteri di un’universalità con i quali
avrebbe forgiato la civiltà dell’avvenire. Tale universalità era l’eredità di
Roma, dell’Impero. Che questi motivi fossero predominanti nell’intera
produzione pubblicistica sull’argomento trova conferma nelle collezioni
di due delle riviste di punta dell’editoria fascista in quel periodo, “Antieuropa” e “Politica”. Come è noto, il fondatore della prima, Asvero
Gravelli, avvicinatosi alla tematica europea sotto la suggestione delle
idee di Coudenhove-Kalergi, arrivò poi, in polemica vivace con esse,
ad avanzare l’idea di un’internazionale fascista quale istituto capace di
collegare, sulla base di una comune piattaforma politico-ideologica, tutti
i fascismi, in una prospettiva unitaria ispirata al modello italiano. Della
seconda, vale la pena di ricordare l’articolo Europa, antieuropa, Paneuropa, scritto nel settembre del  da Francesco Coppola, direttore e

SIMONA GIUSTIBELLI
fondatore della rivista, più avanti distintosi per il ruolo di primo piano
svolto nell’organizzazione del convegno romano. «La politica francese,
infatti, a onta delle molte ufficiali dichiarazioni e declamazioni in contrario
– vi denunciava l’autore, in chiara polemica con il memorandum – è stata
ed è la negazione perfetta e sistematica di qualsiasi idea di solidarietà
europea». E di lì, in linea con la posizione assunta dal duce, partiva una
requisitoria serratissima nei confronti della proposta francese quale mero
espediente politico per immobilizzare a proprio favore la carta politica,
sia del continente che delle risorse coloniali.
Comunque, il dato di interesse di questa propaganda è che essa non
negasse l’unità di fondo della civiltà europea, affermando piuttosto la
volontà di una sua ridefinizione secondo determinate peculiarità. Accogliendone pienamente l’ispirazione, tanto da risolversi per molti solo
in una retorica celebrazione del mito di Roma, il convegno Volta ne fu,
come detto, il primo tentativo di sistematica formulazione e, soprattutto,
in quella determinata congiuntura internazionale, il più moderato e conciliante. Sottolineare il suo inserimento nel vivo di un dibattito sull’Europa
già in atto da qualche anno è utile per capire come mai fosse proprio il
fascismo, per quanto sistema fondato e cresciuto sulla cieca esaltazione del
principio di nazionalità, ad assumerne il patrocinio. Paradossalmente, ai
nostri occhi, piuttosto che annullare la valenza scientifica di quell’evento,
la strumentalizzazione propagandistica messa in atto dal regime esaltò
semmai il suo carattere di straordinarietà.
È pur vero, d’altro canto, che anche al di là dei confini nazionali si
verificarono allora significative iniziative culturali sullo stesso tema, non
solo a livello di pubblicistica. Poiché in questa sede offrirne un quadro
sarebbe troppo lungo, si rimanda a quello tratteggiato da Curcio nella già
citata Europa. Storia di un’idea. Sarà tuttavia opportuno ricordare, se non
altro per la similarità dell’ispirazione, i lavori, in tre sedute successive,
dell’Académie Diplomatique Internationale sul soggetto “Qu’est-ce que
l’Europe?”. In realtà il contributo alla riflessione offerto dall’istituto parigino fu, secondo Curcio, di ben diversa impostazione, sia per la statura
e l’estrazione dei relatori, per lo più esponenti di spicco della politica
internazionale, sia per la maggiore genericità dei contenuti. È comunque
interessante sottolineare l’interazione tra i due enti culturali, testimoniata
dal fatto che il presidente dell’Accademia Diplomatica Internazionale,
il visconte De Fontenay, fu invitato alla villa Farnesina a riferire sui temi
sviluppati. Dalla relazione dell’ambasciatore di Francia, sarebbe peraltro
emersa una sottile vena antagonistica tra i due modi di guardare all’Europa, frutto del crescente divergere di altrettante linee, l’una democratica,
l’altra totalitaria, destinate nel tempo alla resa dei conti. Tale divergenza
era, certo, ben più evidente nel già sottolineato confronto-scontro tra

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
le proposte di Briand e di Mussolini: in definitiva, il fatto stesso che su
questi temi nascesse un terreno di contesa tra le due parti, suona come
significativa conferma del politicizzarsi dell’idea europea.

La scelta del tema
In un contesto siffatto, come testimoniano le carte d’archivio conservate
ai Lincei, i primi a mostrarsi consci di muoversi in una sottile linea di
divisione tra politica e cultura furono proprio gli accademici d’Italia. A
renderli ancora più accorti era poi la consapevolezza che il convegno
si sarebbe tenuto in coincidenza, non casuale, con i festeggiamenti per
il decennale della rivoluzione fascista, cosa che imponeva di precisare
l’immagine culturale del regime a distanza di dieci anni dal suo avvento
al potere. Alla base del convegno v’era, comunque, un problema conoscitivo reale: l’Europa, sulla quale, come sopra ricordato, non si avevano
all’epoca che idee vaghe. Proprio questo stato di confusione bastava di
per sé a giustificare, a rendere anzi necessario, oltre che apprezzabile, il
tentativo di fissare i termini della questione, con un’operazione sia pure
prettamente culturale, ma la cui utilità sconfinasse dal piano del pensiero
a quello dell’azione. Da qui una ricercata, e almeno per certi versi riuscita,
collaborazione tra intellettuali e uomini d’azione, pensatori e politici.
Il primo elemento da definire e al contempo il primo nodo problematico da sciogliere fu un’accurata formulazione del tema del convegno,
questione sulla quale, dietro esortazione del Consiglio della Fondazione
Volta, la classe delle scienze morali e storiche venne a pronunciarsi per la
prima volta nel maggio . In quell’occasione, come risulta dai processi
verbali interni, l’accordo fu trovato grazie a un compromesso tra Volpe
e Coppola. Il primo, da studioso, avanzò all’assemblea due proposte di
carattere prettamente storico – “Il Risorgimento italiano e l’Europa” e
“Storia nazionale e storia europea nel secolo XIX” – facendo leva sull’importanza di sposare l’interesse nazionale a quello europeo. Il secondo, da
pragmatico, partendo da queste formulazioni e sottolineando in modo
ancor più risoluto la priorità di un’apertura al tema dell’Europa in quanto
tale, non solo riuscì a imporre, con il suo peso politico, il proprio orientamento, ma anche a ottenere che l’oggetto venisse riformulato in termini
di maggiore attualità. A suo dire, infatti – e non a caso l’accento cadeva
proprio sui possibili vantaggi di un’operazione al confine tra politica e
cultura – un convegno di studi di alto livello su questi temi avrebbe potuto
«con le sue conclusioni e direzioni avere influenza sul corso delle trattative
diplomatiche e politiche all’ordine del giorno della vita internazionale» e,
quindi, tornare utile all’Italia su più piani. A mostrare ai colleghi il rovescio

SIMONA GIUSTIBELLI
della medaglia era, d’altra parte, chi, maggiormente preoccupato per il
prestigio accademico, come il Segretario Francesco Orestano, filosofo
del fascismo, più avanti distintosi per l’impegno nei lavori congressuali,
temeva proprio che l’evento si trasformasse da incontro scientifico in un
teatro di battaglie politiche. Di fronte a tali obiezioni Coppola si mostrò
abile e risoluto: l’Accademia doveva e poteva «penetrare animosamente
nel recinto di dibattiti tanto appassionanti», mantenendosi al tempo stesso
in una sfera di elevatezza e serenità scientifica. A tale scopo, aggiunse,
l’ente Europa andava analizzato in tutti i suoi coefficienti, dalla filosofia
alla letteratura all’arte, oltre che la politica e l’economia.
Se riguardo a Volpe, data la notorietà del nome e il ruolo di primaria
importanza occupato nella storiografia nazionale, non è qui necessario
un ulteriore approfondimento, sull’esponente fascista va per lo meno
segnalato che il suo interesse per la politica estera non era un fatto occasionale, tant’è vero che la storiografia più recente tende a rivalutare il suo
ruolo nelle scelte diplomatiche del regime durante il primo decennio.
In effetti, è già stato ricordato l’intervento di “Politica” nella polemica
accesa dalla proposta Briand. Si aggiunga che De Felice segnala la relazione di Coppola al convegno, appunto, come la più significativa sul
piano politico e la più rappresentativa della linea diplomatica seguita in
quel momento dal fascismo. Infine, si tenga conto che furono gli accademici per primi, negli Atti citati, a tributare al giornalista l’appellativo
di «spirito promotore» dell’iniziativa.
Il ruolo di leadership di Coppola fu peraltro confermato dal fatto
che l’adunanza della classe delle scienze morali e storiche, al di là delle
remore riportate, si sciolse quel giorno approvando il tema, definito nei
processi verbali Volpe-Coppola, nella semplice e generica formulazione
di tema “L’Europa”. La questione rimaneva perciò ancora aperta: data,
appunto, la genericità della formulazione si rendevano necessarie ulteriori
specificazioni. Inoltre, come da statuto, l’argomento andava sottoposto a
enti culturali esterni, ovvero le maggiori accademie del quadro nazionale,
e al comitato esecutivo della Fondazione Volta.

L’impostazione metodologica
Fu così, che, quando la classe delle scienze morali e storiche tornò a
riunirsi, nel novembre successivo, il problema si ripropose. O, meglio,
l’argomento “Europa” in sé era stato accolto, ma non senza rilievi o
richieste di maggior rigore scientifico. Il comitato della Fondazione
Volta, infatti, pur non respingendo la proposta, l’aveva rimandata indietro «per la sua vastità e per la facilità che offre a parentesi, deviazioni,
degenerazioni polemiche». Lo scetticismo si era inoltre annidato fra gli

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
stessi accademici, molti dei quali si trovarono in linea con le obiezioni
mosse da Pasquale Jannaccone a favore di argomenti più circoscritti e
di più sicuro significato tecnico.
Di fatto, il riaccendersi della discussione diede un contributo essenziale non soltanto ai fini dell’ulteriore precisazione delle tematiche da
affrontare nel convegno, i cosiddetti sottotemi, ma anche alla definizione
di un’impostazione che apparisse metodologicamente corretta. In sostanza, si trattava di trovare un accettabile equilibrio di apporti tra uomini di
pensiero e uomini d’azione, tra rilettura del passato e riflessi sul presente.
Ancora una volta si rivelò risolutiva la posizione di Volpe e Coppola, concordi stavolta nel porre l’accento sull’intima, inevitabile correlazione tra
la sfera del pensiero e quella dell’azione in tutte le cose umane. Coppola
si soffermò in modo particolare sul ruolo degli intellettuali quali agitatori
di idee destinate a muovere la storia. Se sul concetto d’Europa – suonava
la sua significativa ammissione – non c’era allo stato che disorientamento e
confusione, allora, come sempre, in tutte le grandi rivoluzioni della storia,
era compito preciso degli intellettuali fare chiarezza per fornire la base
all’azione degli uomini politici. Si legge infatti nei verbali:
S. E. Coppola osserva che sull’Europa come unità geografica, politica, economica,
culturale, ecc., non si hanno che idee vaghe. Gli uomini politici non si occupano
della chiarificazione delle idee, ma dell’attuazione di quelle idee che dalla sfera
del pensiero puro sono filtrate nella coscienza pubblica. Gli uomini di pensiero
si occupano della elaborazione delle idee allo stato puro, senza curarsi della
loro attuazione, ma alla fine sono le idee agitate dai pensatori, che regolano gli
avvenimenti storici, come è evidente nelle grandi Rivoluzioni, dalla francese alla
fascista. Ora, se allo stato delle cose, il tema “Europa” ci appare vago e confuso,
questa non è che una ragione di più per occuparsene nella sfera del pensiero
puro e per compiere un ufficio di chiarificazione delle idee.
Volpe, sulla stessa scia, rimandò a un’oculata selezione dei partecipanti, da
operarsi sia tra gli uomini di studio che tra quelli d’azione. A suo avviso,
l’imparzialità e la qualità delle discussioni dipendevano, alla fine, solo
dalla serietà dei relatori a cui i singoli temi fossero stati affidati: proprio
per questo si doveva garantire la presenza di esponenti qualificati dell’una
come dell’altra sfera, favorendone la reciproca collaborazione.
Quanto all’interazione fra riflessione storica e capacità di incidere sul
presente, l’illustre studioso avrebbe chiarito pienamente il suo pensiero
soltanto il  novembre , durante una seduta generale dell’Accademia. In quella riunione, che si teneva all’indomani del convegno
sull’Europa, descrivendo gli sviluppi della storiografia italiana contemporanea, Volpe giustificò sulla base del nuovo clima culturale e politico,
venuto a maturazione dopo la guerra, l’interesse sempre più vivo degli

SIMONA GIUSTIBELLI
studi storici verso i problemi dell’oggi. L’affermazione dello strettissimo
rapporto intercorrente tra storia e politica, tra passato e presente, recitava
la forzatura dell’accademico, aveva rivoluzionato il modo di fare storia.
Era il presente, ora, a illuminare il passato o, quantomeno, a favorirne
l’intelligenza sulla base delle passioni politiche, degli interessi pratici,
dei sentimenti:
Ricongiunto, invece, passato o presente, storia e politica, o ricongiunto in modo
nuovo e più organico e più storico che non facessero taluni dei nostri maestri,
si tendeva a ristabilire quel circolo, che è di tutti i tempi di buona storiografia,
per cui gli interessi pratici, i sentimenti, le passioni politiche sospingono verso il
passato e, fornendo allo storico l’esperienza delle cose vive, aiutano l’intelligenza
del passato stesso; il passato così inteso rifluisce nel corso del presente, lo illumina, lo pone in un quadro più vasto: sino a che passato e presente si collocano
come un blocco solo davanti al nostro spirito. Di qui, il nostro sempre ripensar
e sempre riscrivere la storia, in modo nuovo e vero.
Alla luce di questo intervento, portando ancora avanti la digressione,
diventa a questo punto più facile motivare l’asprezza delle critiche mosse
al convegno Volta da Chabod. È chiaro infatti che l’estremizzazione del
pensiero crociano rintracciabile tra le righe del passo sopra riportato,
legata agli elementi di radicale attivismo propri dell’ideologia fascista, non
poteva assolutamente essere condivisa da colui che, all’epoca semplice
spettatore, sarebbe poi arrivato a una riflessione di ben diverso spessore
sugli stessi temi. In effetti, lo storico valdostano, diremmo con maggior
coerenza crociana, avrebbe riconosciuto, da una parte, l’importanza del
momento “soggettivo” nella ricerca storica; dall’altra, avrebbe mantenuto
come fondamentale anche quello “oggettivo”, filologico ed erudito, utile
a che l’opera storica non si risolvesse in una riflessione di parte. Ecco,
dunque, perché, sempre nel , avrebbe definito il convegno come un
tentativo del tutto fallito di apportare un contributo interessante e incisivo
alla riflessione storica sull’idea d’Europa:
[…] i contingenti motivi politici ebbero assoluta prevalenza sui motivi scientifici;
e il convegno, a cui parteciparono certo studiosi di valore e seri ma anche politici
e politicanti di mediocre e mediocrissima levatura, si trasformò per la più parte in
una discussione politica sul presente e sull’avvenire dell’Europa. Scientificamente,
quindi, nulla uscì da quella riunione.
La polemica di Chabod, anch’essa peraltro influenzata dalle passioni
del periodo bellico, come affermano Ernesto Sestan e Armando Saitta,
curatori dell’introduzione alla Storia dell’idea d’Europa, si appuntava in
primo luogo sul carattere antistorico e ascientifico di quel concetto di
romanità che era stato motivo dominante nella riunione del .

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
Torniamo ora alla riunione della classe delle scienze morali e storiche
del novembre . Anche in quell’occasione l’intesa fra Volpe e Coppola
portò all’adozione di una serie di deliberazioni, che, al di là degli strumentalismi accennati, cercavano comunque di rispondere all’esigenza di
attribuire prestigio e qualità culturale all’evento. Fu stabilito pertanto di
esortare i più prestigiosi istituti culturali esteri a proporre i candidati più
qualificati, pur riservando all’Accademia d’Italia ogni decisione ultima.
In merito ai contenuti, come ricordato, si decise di elaborare un puntuale
“Indirizzo” esplicativo dei sottotemi, destinato ai prescelti.

La formulazione dell’“Indirizzo”
Alla redazione di quest’ultimo fu predisposta una commissione accademica formata da Coppola, Jannaccone, Orestano e Paribeni. Essa
svolse rapidamente il lavoro, presentando le proprie conclusioni già nella
successiva seduta del  gennaio . L’“Indirizzo”, così elaborato, forniva dettagliatamente le linee guida degli interventi, ponendo l’accento
in modo esplicito sulle finalità culturali e scientifiche dell’iniziativa, sia
pure nella loro stretta connessione con il presente. Proprio per questo
la sua approvazione non comportò particolari problemi. Procedendo a
un’analisi del documento, esso definiva tre ripartizioni di base: la storia
d’Europa nei suoi specifici caratteri di unità; la crisi presente nei suoi
aspetti interni ed esterni, materiali e spirituali; infine, la reale possibilità
di una risposta comune ai mali del presente, ovvero l’esistenza o meno
di una solidarietà europea attiva e concreta. Tale impostazione palesava,
dunque, la centralità del tema della “crisi”, alla luce della quale investigare il passato, suggerendo soluzioni per il presente e il futuro del
continente. Allo stesso tempo, nelle intenzioni degli autori dello scritto
e, in generale, dei promotori del convegno, il concetto di crisi non andava colto esclusivamente nella sua accezione negativa, per risolversi in
vaticini sconfortati sul tramonto dell’Occidente, ma andava trasformato
in occasione positiva. Ad affermarlo, tra l’altro, sarebbe stata la stessa
prefazione agli atti del convegno, sottoscritta da Marconi. La fase che
l’Europa stava attraversando, vi si legge, rappresentava a ben vedere
solo un momento di transizione e di trasformazione, a cui avrebbe fatto
seguito un’ancor più vigorosa rinascita:
[…] davanti agli occhi dei proponenti come dei partecipanti al Convegno, si è
posta, essenzialmente, l’Europa d’oggi, con il suo travaglio, i suoi problemi – problemi nuovi e fatti oggi più gravi e complessi di ieri –, la sua “crisi”, nella quale
noi vogliamo e dobbiamo vedere non una malattia o una decadenza, ma l’inizio
di una nuova fase di sviluppo, un processo di rapido crescere a cui corrisponde

SIMONA GIUSTIBELLI
per necessità un processo di parziale rapido decadere.
E qui, naturalmente, si inseriva il ruolo innovativo del fascismo, retoricamente orgoglioso degli elementi di novità che aveva apportato nel
“decrepito” contesto politico continentale. Lo stesso impegno che il
regime aveva assunto attraverso il convegno, un’iniziativa concreta e
capace di organizzare, coordinandole, le forze intellettuali europee, era,
e doveva essere, un chiaro segno della sua azione benefica. Ma il fatto più
significativo, almeno per quanti guardavano al fascismo come al prodotto deteriore di un nazionalismo sfrenato, era la volontà di favorire, per
l’appunto attraverso l’incontro romano, un ripensamento del problema
europeo non solo in chiave unitaria e culturale, ma anche all’insegna
di una possibile collaborazione fra l’Europa e il resto del mondo. Tale
impianto era sottolineato, per un verso, dalla formulazione del primo e
del sesto sottotema, “L’Europa come unità. Caratteri specifici della civiltà
europea nella loro formazione storica” e “Coscienza europea e possibilità
di una solidarietà attiva nell’Europa”, per l’altro, dalla parte conclusiva
dell’“Indirizzo” stesso:
Ché se riuscirà al Convegno di far sì che l’Europa – almeno nelle sue sfere
dominanti e responsabili – riprenda coscienza di se stessa, dei propri destini,
della propria missione; riesamini in solido i suoi problemi: problemi di tutela del
proprio patrimonio ideale e storico, problema di sussistenza nella concorrenza
vitale col resto del mondo, problema di superamento e di progresso nel confronto
e nella gara con le altre civiltà, e finanche di collaborazione con queste per la
maggior gloria del genere umano; se riuscirà al Convegno di Roma di additare
con romana saggezza vie nuove per fondare una nuova sintesi storica dell’Europa,
per creare un ordine europeo nuovo, che sostituisca alle lotte intestine devastatrici l’imperativo della solidarietà feconda; il Convegno avrà ben meritato della
civiltà del mondo.
Certo, a nessuno poteva sfuggire la latente vocazione imperialista sottesa
a un concetto di romanità che avrebbe consentito di aprire «vie nuove»
verso «una nuova sintesi storica dell’Europa». Difatti era proprio questa,
come vedremo subito dopo, l’impostazione di Coppola, a cui probabilmente era dovuta la dizione di «ordine europeo nuovo». Tuttavia, almeno
per il momento, il clima rimaneva piuttosto quello di «sostituire alle lotte
intestine devastatrici l’imperativo della solidarietà feconda», nello spirito
non del tutto rarefatto della conferenza di Locarno e nella preparazione
del non lontano Patto a Quattro, su cui si tornerà più avanti.
Una volta approvato l’“Indirizzo”, durante la stessa adunanza del
gennaio , gli accademici si interrogarono sull’opportunità o meno
di invitare al convegno anche rappresentanti «non europei». Ne scaturì
un dibattito molto animato, su cui vale la pena di soffermarsi, sia pure

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
brevemente. Peraltro, il tema dei rapporti tra l’Europa e le altre civiltà
sarebbe stato ripreso durante i lavori congressuali. In sintesi, benché
alcuni accademici, e tra questi Volpe, si fossero mostrati favorevoli a un
allargamento della partecipazione a esponenti sia del mondo russo che
americano, cosa che, a loro avviso, avrebbe dato al dibattito la maggior
ampiezza possibile, alla fine la classe deliberò di limitare gli inviti ai soli
«dotti» europei, «i quali, per la loro convergenza di tendenze, possono
arrecare alla trattazione dei temi del Convegno una collaborazione proficua».
In questa circostanza, e il particolare risulta illuminante, fu il politico
Coppola a imporsi sullo storico Volpe. Egli infatti fece presente che,
essendo l’obiettivo dell’incontro una difesa dell’idea imperiale europea,
allora, per forza di cose, tutti gli elementi non solo estranei ma addirittura
avversi a tale idealità dovevano esserne esclusi. Sulla stessa scia, Pietro
Bonfante ribadì che, se la questione in gioco era quella del primato della
civiltà europea, era chiaro che a ciò potessero interessarsi solo i popoli
del continente, non potendo le altre civiltà che vedere favorevolmente il
declino dell’ingombrante presenza occidentale sulla scena mondiale. Del
resto proprio Coppola, rivelando un’ulteriore sfaccettatura nazionalistica
del suo pensiero, aveva asserito di auspicare un convegno «omogeneo»,
grazie al quale «inserire, in modo che lasci la sua impronta, l’idea italiana
della civiltà del mondo». Da ultimo, a fronte delle obiezioni del solito
Jannaccone, fu il segretario Orestano a dirimere la questione:
S. E. Orestano obietta che il problema del Convegno, pur avendo in sé elementi e
coefficienti di fatto storici, geografici, statistici, ecc. – d’ordine, quindi, scientifico
– , non è scientifico ma essenzialmente spirituale e politico.
In ogni caso, a sciogliere definitivamente il nodo, sarebbe stato chiamato
in causa di lì a poco il duce in persona. Quando infatti la classe tornò
a riunirsi, nell’aprile successivo, fu stabilito di rimettere alle direttive
di Mussolini le questioni più delicate riguardanti la portata politica del
convegno, oltre che la data e le personalità italiane ed estere da invitare. Alberto De Stefani, protagonista della prima fase della politica
economica del regime e, per questo, tra gli accademici uno dei più vicini
al duce, fu scelto quale portavoce dell’Accademia.

Il ruolo di Mussolini
S’è già detto che i documenti conservati nell’Archivio centrale dello
Stato attestano inequivocabilmente l’interesse del governo italiano per
il convegno. Anzi, un’ipotesi plausibile, ma non suffragata dalle carte

SIMONA GIUSTIBELLI
ritrovate, è quella di un’influenza governativa determinante sulla stessa
decisione accademica di apertura alla tematica europea. Di fatto nella
Segreteria Particolare del duce la prima testimonianza utile al riguardo è
proprio la richiesta di udienza, con oggetto “Convegno Volta”, fatta da
De Stefani. Sul colloquio avuto con il duce l’economista fu chiamato
a riferire alla classe delle scienze morali e storiche durante l’adunanza
del  maggio . Di seguito viene riprodotta integralmente la parte
di verbale relativa al suo resoconto. Lo scambio di battute appare particolarmente rivelatore, in tema di rapporti tra intellettuali e potere, di
quell’atteggiamento tipico di soggezione al “capo” che durante il ventennio, come è risaputo, non risparmiò nemmeno il mondo accademico.
Proprio questa soggezione – capace di suscitare almeno oggi un sorriso
ironico in chi legge – ispira l’enfasi delle parole di De Stefani nel descrivere
l’incontro e la figura dell’interlocutore. Come se si assistesse a uno degli
alteri discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, quella che si
percepisce è, difatti, la fisionomia di un leader supremo, forte e sicuro,
lapidario e incisivo nelle risposte, nonché solenne, verrebbe da aggiungere, in quella mimica proverbiale che tanto facilmente l’immaginazione
associa al racconto. Riassumeva De Stefani:
Sinteticamente il Capo del Governo ha risposto nel modo che segue ai diversi
quesiti:
D. Si desidera che abbia un valore e una risonanza politici conformi alle direttive
del Capo del Governo?
R. Certamente.
D. Quali criteri devono essere tenuti presenti nella scelta degli invitati al Convegno?
R. Amplissimi.
D. Si desidera sapere se è ritenuto opportuno che si invitino soltanto personalità
europee o anche di altri paesi, occidentali ed orientali.
R. No.
D. Si desidera sapere se il Capo del Governo ritiene che il Congresso debba
essere presieduto da una personalità italiana che abbia un notevole prestigio nei
problemi della politica europea.
R. Sì: Scialoja.
D. Si desidera sapere se, malgrado la ristrettezza del tempo, sia opportuno fissare
la data del Convegno nell’ottobre prossimo per modo che sia coincidente con
le feste per il Decennale.
R. Novembre.
È facile immaginare come le direttive di Mussolini – in sostanza la volontà
che il convegno assumesse rilevanza politica e si svolgesse subito dopo
la festa per il decennale – ponessero fine a qualunque polemica interna
all’Accademia. Di una certa rilevanza risultava pure la decisione di af-

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
fidare la presidenza del consesso a Vittorio Scialoja: eminente giurista
dall’indiscussa fama internazionale, il cui stesso nome avrebbe offerto
all’Europa un’indubbia garanzia sulla qualità dell’iniziativa.
In sostanza, la seduta del maggio  si concluse con una serie di
deliberazioni in linea con le direttive governative. Fu quella l’ultima
riunione della classe delle scienze morali e storiche dedicata all’organizzazione del convegno di cui sia rimasta testimonianza nell’Archivio della
Reale Accademia d’Italia. Da quel momento in poi, infatti, pronunciatosi
Mussolini, fu il ministero degli Esteri, cooperando con la commissione
appositamente predisposta in seno all’Accademia, ad assumere la direzione dell’operazione. In conclusione, il dicastero assolse soprattutto a
un ruolo di raccordo nella scelta dei partecipanti, tra l’Accademia, da una
parte, le ambasciate, le rappresentanze diplomatiche estere in Italia e i
vari istituti culturali europei, dall’altra. Per suo tramite il duce poté così
espletare un’attentissima opera di supervisione: fece stanziare generosi
aiuti per le spese di allestimento del convegno, esaminò e approvò i temi
posti all’ordine del giorno e l’elenco dei partecipanti, offrì udienza agli
accademici. Più avanti, durante il corso stesso dei lavori congressuali,
egli si sarebbe intrattenuto in diverse occasioni con i partecipanti per
raccogliere le loro impressioni, nonché per presentarsi in veste di ospite
perfetto e uomo politico attento alle spinte propositive provenienti dal
mondo della cultura.

L’europeismo fascista negli anni Trenta:
dal Convegno Volta al Patto a Quattro
Che tutto questo accadesse, dato l’interesse del governo per un’iniziativa di portata internazionale, risulta a dir poco scontato, tanto più se,
seguendo una chiave interpretativa suggerita da De Felice, si prendono
in esame in modo ancora più puntuale le contingenze politiche in cui
l’iniziativa italiana prendeva corpo. Stabilizzatasi la situazione interna
del regime, a partire dal  Mussolini cominciò infatti a parlare sempre
più spesso di Europa e di una sua prossima fascistizzazione. De Felice
pone questa svolta – di cui Coppola, come si è visto, era piena espressione
– in relazione a diversi fattori. A suscitare preoccupazione era in primo
luogo il progressivo rafforzamento del nazionalsocialismo in Germania: la
rapida ascesa di Hitler rendeva necessaria una più stretta caratterizzazione
ideologica della politica estera italiana sia per assicurare al fascismo la
leadership sugli altri movimenti di destra, sia per evidenziare le differenze
con il nazionalsocialismo ed evitare che la disapprovazione internazionale
si riversasse indistintamente su entrambi. In secondo luogo venivano le

SIMONA GIUSTIBELLI
iniziative di parte democratica per una soluzione del problema Europa
in senso federale, o vagamente federale: il riferimento è, ovviamente, al
movimento paneuropeo di Coudenhove-Kalergi e al progetto di Briand.
S’è già detto, in merito, della propaganda antieuropea del gruppo di
Asvero Gravelli; si ricordi pure che, proprio sul tema dell’universalità del
fascismo e della sua capacità di agire come farmaco per i mali non solo
italiani ma anche europei, lo stesso duce intendeva scrivere un libro dal
titolo Europa , poi mai realizzato. In terzo luogo, stava maturando
il progetto mussoliniano di un’Europa a quattro: nel marzo del , solo
pochi mesi dopo il convegno Volta, sarebbe infatti partito il travagliato
negoziato sul Patto a Quattro. La proposta, lanciata in un momento molto
delicato per il quadro diplomatico europeo – ormai irrimediabilmente
destabilizzato dall’evidente prossimo fallimento della conferenza sul disarmo e dalla carica di violenza insita nel nazismo – avrebbe rafforzato,
almeno in superficie, l’immagine del duce quale protettore della pace.
(Nel concreto, come spiega Giancarlo Giordano, ciò che il regime cercò
di fare con quell’operazione fu misurare le possibilità e gli spazi d’azione
che i rivolgimenti in corso aprivano alla sua politica estera, per arrivare a
una revisione, ancora concordata e pacifica, dei trattati di pace).
In linea con l’analisi di De Felice è un saggio pubblicato da Dino
Cofrancesco nel  e significativamente dedicato al mito europeo del
fascismo. Per l’autore, la relazione tra il convegno Volta, il Patto a Quattro e il disegno di un’Europa gerarchica, in contrapposizione a quella
egualitaria di parte democratica, fu effettivamente strettissima:
Il Convegno Volta sull’Europa cade nell’anno di preparazione del Patto a Quattro, volto a rispondere, negli intenti di Mussolini, «all’insopprimibile esigenza
di una gerarchia politica delle maggiori potenze, le vere e sole responsabili della
vita internazionale in contrasto con l’astratto principio egualitario tra i grandi e
i piccoli organismi statali».
Negli intenti del duce, prosegue Cofrancesco, gerarchia di potenze significava revisione dei trattati di pace e affermazione di un ruolo nuovo e di
primo piano per l’Italia umiliata a Versailles. Ora, in una situazione internazionale ancora di relativa stabilità e immobilità, e in un contesto interno
di precarietà economica e sociale, tali obiettivi apparivano raggiungibili
solo per via pacifica. Non solo, preliminarmente a essi, andava dissolta
definitivamente la diffidenza del mondo democratico nei confronti del
fascismo e del temuto sistema di potere che esso aveva costruito con mezzi
tutt’altro che legali. L’obiettivo era dunque di accreditare il regime come
fattore di stabilità e di riqualificazione del quadro europeo, anche sotto il
profilo culturale, elevandolo al tempo stesso nella scala gerarchica, fino a
porlo in una posizione di pari livello rispetto alle potenze maggiori. Da
quel momento in poi, sarebbe stato probabilmente possibile puntare a

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
traguardi ulteriori, più rispondenti alle latenti aspirazioni egemoniche
della nuova Italia. Le analisi di De Felice e Cofrancesco, in sostanza,
chiariscono ulteriormente il significato del convegno Volta, inserendolo
in un disegno generale. Proprio perché diretto ad avvalorare l’immagine
moderata del regime, l’evento poteva, e può tuttora, essere considerato
come un atto preparatorio della linea di politica estera portata a compimento con il cosiddetto Patto Mussolini. Nella suggestiva cornice di
una Roma nuova, eppur riecheggiante i fasti d’un tempo, si intendeva far
vetrina di fronte agli altri popoli dei successi ottenuti dal paese, a dispetto
del generale stato di crisi materiale e spirituale, infondendo al contempo
fiducia nelle potenzialità di un sistema di potere apparentemente equilibrato e responsabile, sia sul piano interno che su quello internazionale.
Così difatti recitava la già citata prefazione agli Atti di Marconi:
[…] avvicinare tante insigni personalità all’Italia vivente e operante, all’Italia
fascista, all’Italia di Mussolini. A questa Italia essi possono sentirsi ideologicamente, vicini o lontani, più o meno vicini o lontani. Ma, anche se lontani, sono
sicuro che essi abbiano potuto osservarne e apprezzarne la operosa concordia, lo
slancio giovanile, il potente sforzo costruttivo, la capacità di vivere la sua “crisi”
come trasformazione più che come malattia, lo spirito di larga comprensione
che la anima tutta – Governo e cittadini – nei rapporti col di fuori, il senso di
alta responsabilità con cui si pone di fronte ai problemi generali dell’Europa e
della civiltà.
Civiltà, cultura, Europa, Italia, Roma. A inserire queste evocazioni in
una cornice sfolgorante contribuiva la già ricordata e non accidentale
coincidenza del convegno con i festeggiamenti per il decennale della
rivoluzione fascista. I congressisti vennero difatti accompagnati in visita
all’esposizione allestita in Campidoglio per l’occasione, e le cronache del
“Messaggero” sono ancora lì ad arricchire l’evento di parole enfatiche
e note di colore. Ogni particolare, insomma, fu curato per offrire agli
ospiti e al mondo un’immagine accattivante e al tempo stesso autorevole
e convincente. Tuttavia, sia consentito osservare, era proprio attorno
all’immagine e al mito di Roma che l’iniziativa del convegno Volta finiva
per rivelare i suoi limiti, se non addirittura delle contraddizioni interne.
Almeno agli inizi, gli accademici avevano mostrato davvero di voler
prendere in esame l’identità di un continente smarrito, eppur chiamato a
trovare un’unità senza nemmeno saper bene se ce ne fossero i fondamenti.
«Allo stato delle cose, il tema Europa ci appare vago e confuso», aveva
difatti lamentato Coppola e in questo aveva visto «una ragione di più per
occuparsene nella sfera del pensiero puro e per compiere un ufficio di
chiarificazione delle idee».
Ora invece, accantonando il rigore dell’analisi, che forse, se condotta

SIMONA GIUSTIBELLI
in modo sistematico avrebbe realmente illuminato il fascismo sulla realtà
del continente e sui limiti stessi del regime o dell’Italia, si propendeva per
proporre un po’ troppo frettolosamente a tutti gli europei il mito della
città eterna e della sua antica civilizzazione, portata a nuovo splendore
dalla personalità del duce. Difatti, volendo prestare ascolto alle provocazioni lanciate da “Antieuropa” nel novembre , all’indomani del
convegno, la vera importanza dell’avvenimento stava nel fatto che gli
illustri convenuti, giunti a Roma alla ricerca dell’Europa, si erano in realtà
imbattuti nelle glorie del fascismo. Non meno significativo si sarebbe
rivelato, a distanza di pochi mesi, il commento di Coppola sulle colonne
della sua rivista. Se il decennale – declamava il suo articolo – aveva posto
il mondo stupefatto di fronte all’espressione più vera della forza creatrice del regime, il mese dopo, con il convegno Volta, si era affermato il
fondamento latino della civiltà europea e imposta una «misura romana»
alla nuova identità del continente. Infine, nel marzo successivo, il Patto a
Quattro aveva attestato apertamente la capacità propositiva della quarta
Roma nella rigenerazione dell’Europa. Alla lettera:
Nell’ottobre del ’ il Decennale della Rivoluzione Fascista era stato l’improvvisa irresistibile e quasi stupefatta constatazione mondiale della forza creatrice
intrinseca e universale della nuova idea romana, la consacrazione mondiale della
vittoria e della dilagante conquista della rinnovata civiltà romana. Subito dopo,
nel novembre, il Convegno Volta aveva adunato a Roma il fiore della intelligenza
europea, esaminato, vagliato e definito in misura romana la crisi storica dell’Europa, riaffermato, con consenso unanime, la triplice romanità fondamentale ed
essenziale – Roma Antica, Cattolicesimo, Rinascimento – della civiltà europea, e
innalzato il segno della quarta romanità sulle porte dell’avvenire europeo. Ora, nel
marzo, ecco che in Roma e da Roma si fondava concretamente la nuova Europa
politica. Dal campo della intelligenza storica Roma passava alla direzione ideale
anche nel campo della politica concreta.
Questo si rivelava, in definitiva, il senso della roboante rievocazione di
quell’«idea italiana della civiltà del mondo» che aveva animato il discorso
di Coppola fin dall’adunanza accademica del gennaio del . Con buona
pace dell’Europa, la valorizzazione della romanità, peraltro conciliata
con la storia e la realtà del cattolicesimo, non senza richiami al Rinascimento, era divenuta il leitmotiv dell’incontro capitolino. Come dire che,
con rapidi volteggi intellettuali, Roma (con il duce al centro) era ormai
passata non solo alla «direzione ideale» dell’intera Europa, ma addirittura
a un ruolo di guida nel campo della «politica concreta». Stando così le
cose, verrebbe da pensare che quella che pure era stata annunciata e
preparata come una rigorosa avventura intellettuale, dedicata a un tema
nuovo e avvincente, l’unità europea, si riducesse a una mera operazione

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
propagandistica, impostata su una artificiosa riproposizione del mito di
Roma. Il celebre convegno Volta non supererebbe dunque i limiti di una
vuota declamazione? In realtà, il giudizio non è così semplice. A parte
l’innegabile consistenza culturale di alcuni aspetti almeno dell’iniziativa,
su cui si avrà modo di tornare più avanti, bisogna riconoscere che nel
clima di quegli anni la romanità esercitava sicuramente un fascino su una
porzione tutt’altro che minoritaria dell’Europa, in gran parte delusa e
sfiduciata, per non dire intimamente diffidente, nei confronti del modello
democratico. Effettivamente, come confermano De Felice e Cofrancesco,
in un momento di debolezza complessiva della civiltà occidentale, il mito
di Roma, con la sua intrinseca promessa di splendore e di potenza, ma
al tempo stesso di unione e di concordia, mostrava una considerevole
capacità d’attrattiva sull’animo degli europei, ancora frustrati per le
lacerazioni della guerra, nonché smarriti e incerti sul proprio futuro. E
proprio in quanto tale, ovvero quale esempio di comunità di popoli retta
e garantita dal diritto, al convegno esso fu caldeggiato anche da molti
rappresentanti stranieri, tra i quali il francese Jerôme Carcopino, gli
inglesi Charles Petrie e Christofer Dawson, il polacco Taddeo Zielinski,
il tedesco Von Beckerath e il greco Nicola Politis. Motivo ispiratore
comune dei loro interventi non fu, con ogni evidenza, il cesarismo caro
a Mussolini, ma appunto il modello augusteo della pax.
Vale poi la pena di sottolineare, sempre con De Felice, che la restaurazione dell’idea romana non veniva agitata dal fascismo soltanto quale
alternativa vincente rispetto all’ormai sbiadita tradizione democratica.
Allo stato dei fatti – ed è anche per questo che gli ospiti stranieri di
tendenza liberale mostravano di accreditare l’operazione – essa aveva il
merito di entrare in concorrenza con le molto più insidiose aspirazioni
di dominio che si annidavano nel nazismo. Per quanto ispirato a una
vocazione imperiale, l’ideale della pax romana conteneva infatti un potenziale rassicurante di integrazione e di tutela di un diritto universale,
che si poneva in evidente contrasto con la spietata logica hitleriana della
selezione naturale dei popoli e della superiorità razziale. Di conseguenza,
il fascismo, agevolato dal clima di relativa distensione internazionale,
poteva sperare di proporsi come soluzione intermedia tanto nei confronti
delle deboli democrazie parlamentari, che di regimi ispirati alle fosche
mitologie germaniche. A riprova, il dissenso fra fascio littorio e svastica
non mancò di emergere durante lo svolgimento dei lavori congressuali,
trovando aperta espressione in uno scontro verbale tra i due più importanti rappresentanti delle rispettive parti, Coppola e Rosenberg. Intonando
il suo intervento alla rievocazione della romanità, l’oratore fascista si
lasciò andare a parole a tal punto concilianti e aperte alla collaborazione
fra i popoli da provocare un’accesa reazione polemica da parte di quello

SIMONA GIUSTIBELLI
nazista. L’episodio, la cui importanza è già stata sottolineata da De
Felice, risuonò effettivamente come un’ulteriore accentuazione della
volontà di moderazione del fascismo e della sua ricerca di una propria
specificità, rispetto al nazismo, sulla scena europea. Una frattura ideologica questa, o più semplicemente rivalità, che per certi aspetti avrebbe
continuato a caratterizzare i rapporti tra i due regimi anche più avanti, in
piena guerra mondiale, nonostante il più stretto vincolo di una terribile
alleanza militare.
In definitiva, il provincialismo fascista, nel riproporre il mito di Roma,
si distanziava dal darwinismo politico del nazismo. O, più precisamente,
come spiega Cofrancesco, benché il regime covasse, nel fondo, maggiore ammirazione per la potestas che non per la pax imperiale e romana,
almeno al momento e per cause di forza maggiore, non poteva far altro
che rivendicare un primato di natura prettamente spirituale sull’Europa,
nonché una possibile leadership politico-diplomatica. Fu la conquista
dell’Etiopia, avvenuta solo qualche anno più tardi, a far precipitare, secondo lo storico, le intime contraddizioni insite nell’immagine di sé che
esso proponeva al mondo: da quel momento l’impero cessò di essere una
pura aspirazione e l’ambiguità sottesa al mito di Roma non poté più essere
celata. Non solo: in realtà il fascismo finì con il tempo per aderire alle
scelte di conquista del nazismo. Tuttavia, pensando al secondo convegno
sull’Europa organizzato dal fascismo, quello del , tenutosi sotto la
direzione dell’Istituto nazionale di cultura fascista, la tendenziale concorrenzialità fra mito di Roma e ordine nuovo nazista avrebbe appunto
continuato a sussistere, non senza qualche effetto di suggestione su parte
dell’opinione pubblica europea.

Il lavoro delle ambasciate: il ruolo di Dino Grandi
Con questi presupposti – la volontà di offrire una vetrina dei trionfi
del fascismo e di rivendicarne la vocazione universalista – l’occasione
del convegno Volta restò in ogni caso quella di un invito aperto a tutta
l’Europa a riflettere su se stessa. Ma a questo punto – riprendendo il
filo cronologico – la scena cambia. O, meglio, ci riporta a quella fase dei
lavori preparatori del convegno in cui, dopo l’incontro di De Stefani con
il duce, si decise di affidare al ministero degli Esteri l’incarico di individuare e convincere alla partecipazione autorevolissimi rappresentanti dei
vari paesi europei. In questa operazione le ambasciate italiane all’estero
ebbero un ruolo determinante. A metterle all’opera fu un telegramma
dello stesso duce, datato  maggio , che invitava a proporre nomi di
personalità del mondo politico e accademico. Il lavoro risultò parecchio
intenso: furono contattati e consultati i più prestigiosi istituti culturali

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
europei; preparate liste di candidati, con annessi curricoli, da sottoporre
al vaglio dell’Accademia (in alcuni casi, si lasciò carta bianca sulle scelte
da operare); diramate decine e decine di inviti; sollecitati gli ambasciatori
a prendere contatto personalmente con i candidati più prestigiosi; svolte
ricerche per attestare la competenza dei personaggi meno noti e per valutare la reale rappresentatività della delegazione di quello o quell’altro
paese, ovvero fornire un quadro preciso e completo delle biografie di
tutti gli invitati.
Assai significativo il ruolo svolto dell’ambasciata di Londra: proprio
nel luglio del  ne divenne titolare l’ex ministro degli Esteri Dino
Grandi, a proposito del quale e della sua esperienza di promotore, per
così dire, del convegno Volta, nell’archivio degli Esteri è consultabile un
ricco scambio di lettere con Guglielmo Marconi. In effetti, a differenza dei
fondi relativi alle altre ambasciate, quello inglese conserva in materia un
numero considerevole di documenti, raccolti in un fascicolo interamente
dedicato al convegno. La cosa trova facile spiegazione nel fatto che, per
quanto riguarda Marconi, i contatti con il mondo britannico, dati gli
stretti rapporti di lavoro, di studio e di ricerca, risultavano notoriamente
intensi. Nel caso di Grandi, va notato che l’iniziativa dell’Accademia
d’Italia doveva trovarlo particolarmente favorevole per tutta una serie
di ragioni. In fondo, la decisione di promuovere il convegno era stata
adottata proprio quando egli si trovava a ricoprire la carica di ministro
degli Esteri. Investito di tale ufficio dal  settembre , Grandi aveva
dovuto notoriamente dedicare fin dall’inizio grande attenzione alla
questione europea: uno dei primi impegni che egli si trovò ad assolvere
fu infatti quello di definire la posizione italiana di fronte alla proposta
paneuropea di Briand, presentata ufficialmente alla tribuna della Società
delle Nazioni appena una settimana prima. (Peraltro, il memorandum vero
e proprio venne diramato al governo italiano, e agli altri  paesi cui era
rivolto, il  maggio successivo).
Chiamato a formulare per iscritto la risposta italiana, Grandi, convinto, come del resto Mussolini, che il piano non fosse altro che un modo
per conservare lo status quo continentale, aveva cercato di smascherare
la presunta malafede francese avvalendosi di quella «tattica societaria»,
su cui torneremo poco più avanti, che De Felice segnala quale tratto peculiare di tutta la sua conduzione diplomatica. Difatti, stando anche al
giudizio di Marta Petricioli – autrice di una relazione dedicata proprio a
Grandi, tenuta in occasione del convegno internazionale sul Piano Briand
svoltosi nel  a Ginevra – il ministro non si limitò a seguire le indicazioni del capo del governo, ovvero a replicare a Parigi con «une fin de
non-recevoir», ma pensò bene di attaccare l’iniziativa su di un piano più
vasto, riaffermando di fronte a essa il valore della Società delle Nazioni,

SIMONA GIUSTIBELLI
proprio allo scopo di mostrare i limiti e il carattere conservatore della
proposta. Scrive l’autrice:
[…] l’initiative française devait être attaquée sous une perspective plus vaste: il
fallait souligner la portée limitée du dessein de Briand plutôt que de le critiquer
sur la base de la défense du principe nationaliste. Il fallait opposer une entente
mondiale à une entente européenne: tout comme il en avait été à Londres, la
réponse italienne ne s’appuyat que sur la défense de la Societè des Nations.
La sortita di Grandi – prosegue la Petricioli – non trovò tuttavia il consenso del duce, il quale respinse il primo documento preparato dal suo
ministro perché troppo condiscendente verso gli ideali della collaborazione internazionale, ingiungendogli di accentuare i toni antieuropei e
antifrancesi. Alla fine, comunque, come s’è già visto, la risposta italiana
non si ridusse a una semplice condanna in via di principio del progetto Briand: piuttosto che al puro nazionalismo, essa faceva appello a
un’idea di unità che non comportasse il superamento delle sovranità
nazionali. Ora, al di là dei singoli dettagli, l’episodio ricordato merita
alcune considerazioni. La prima, di carattere generale, è relativa alla
linea diplomatica di Grandi, cioè alla «tattica societaria» poco più sopra
citata. Certo, sarebbe sempre interessante accertare se l’armamentario
ideologico del locarnismo e del disarmismo, di cui il ministro si bardò
in stridente contrasto con la mitologia imperiale e guerresca fascista,
rispondesse davvero a una convinzione sincera, o piuttosto a una visione
“realpolitica” dell’interesse nazionale. Resta tuttavia il fatto, come spiega
Paolo Nello sulla falsariga di De Felice, che secondo Grandi non aveva
senso per l’Italia continuare a urlare la guerra senza nemmeno avere i
mezzi non già per affrontarla, ma addirittura per prepararla. Convinto del
resto che per molto tempo ancora la politica europea avrebbe continuato
a svolgersi nel teatro ginevrino, egli riteneva che ci si dovesse abilmente
avvalere della Società delle Nazioni per smascherare le mire egemoniche
degli altri Stati, in primo luogo quelle francesi, e di conseguenza porre
sul tappeto la questione italiana:
Questo progetto di rivalorizzazione di Ginevra quale centro dell’iniziativa politica
in materia di sicurezza europea, nonché d’acquisizione da parte italiana, in tale
quadro, di una sorta di leadership politico-morale nella Società delle Nazioni, non
era certo motivato, sia ben chiaro, da una conversione all’ideologia societaria.
Era invece dovuto alla convinzione che la politica europea si sarebbe comunque
svolta nell’ambito della Società delle Nazioni almeno fino all’eventuale scoppio
d’una nuova guerra continentale, e che dunque solo operando in quell’ambito
Roma avrebbe potuto porre sul tappeto del dibattito internazionale la questione
italiana (e l’espressione cavouriana era deliberatamente evocata dal ministro
fascista).

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
In questa prospettiva, la proposta di un’Unione europea non era valutata in se stessa, o tanto meno recepita con qualche comprensione per
il sincero europeismo di Briand, ma ricondotta al più ampio gioco dei
rapporti di forza della politica internazionale, in cui affermare l’interesse
statale italiano. Il che tuttavia non escludeva una specifica attenzione al
tema Europa, da affrontare però in uno schema di relazioni fra potenze
tendenzialmente egemoni e non attraverso la cristallizzazione dello status quo raggiunto a Versailles. (Di fatto, anche in Grandi, come deduce
Nello attraverso il suo Diario, la prospettiva restava quella di una guerra
europea alla lunga inevitabile). Allo stesso tempo, come accennato,
Grandi mostrava una sorta di predilezione per il terreno diplomatico,
piuttosto che per le sfide in campo aperto. A ciò si aggiunga che egli, da
ministro, aveva acquisito una competenza approfondita del tema Europa, dal momento che era stato alla guida della delegazione italiana nella
Commissione di studio sull’Unione europea, presieduta da Briand stesso
nel contesto della Società delle Nazioni. La Commissione, chiamata a valutare la reale praticabilità del piano del Quai d’Orsay, ebbe per la verità
una vita stentata, dato lo scetticismo prevalente fra i governi nazionali.
Tuttavia Grandi, come è stato osservato, trovò modo di riproporre il
suo metodo tendente ad “allargare il gioco”, forse anche per acquistare
una maggiore leva negoziale nei confronti dei francesi, verso i quali non
appariva pregiudizialmente ostile, bensì animato da uno spirito di competizione-collaborazione. Difatti egli propose di invitare ai lavori della
Commissione rappresentanti della Turchia e, non piccola provocazione,
della Russia, a proposito della quale Salvatore Minardi rileva come paradossalmente fosse proprio il governo fascista a offrire al bolscevismo
un canale di espressione in una sede europea.
In simili contesti, l’iniziativa dell’Accademia d’Italia risultava in
perfetta consonanza, se non con la «tattica societaria» sopra ricordata, di
certo con le raffinate tessiture diplomatiche dell’uomo di governo. Così,
almeno per alcuni mesi, Grandi, in qualità di ministro degli Esteri, seguì
i lavori di organizzazione del convegno da una posizione assolutamente
influente. Poi, nell’estate del , una volta rimasto vittima dello scacco
della conferenza di Losanna e trasferito dalla poltrona di ministro a quella
di ambasciatore londinese, si premurò di concertare le proprie iniziative
con Marconi per garantire la presenza a Roma di una forte rappresentanza
delle élites intellettuali e dirigenziali del mondo britannico. L’atmosfera,
come s’è detto sulla scorta di De Felice, restava pur sempre quella di una
politica estera fascista tutto sommato moderata (e tale sarebbe rimasta
fino alla guerra d’Etiopia). La destituzione di Grandi del luglio del 
– volendo affidarsi ancora a De Felice – non aveva implicato infatti una

SIMONA GIUSTIBELLI
svolta decisiva in campo diplomatico: nell’occasione egli era stato più che
altro un capro espiatorio per accontentare gli elementi più intransigenti
del regime e il suo licenziamento volle rispondere, almeno in apparenza
se non nella sostanza, a un’esigenza di marcatura ideologica, quindi di
fascistizzazione, della politica estera.
Dalla corrispondenza fra Marconi e Grandi si evince un intenso lavorio di quest’ultimo presso personalità inglesi di primario rilievo, quali
Austen Chamberlain, Winston Churchill, David Lloyd George, John
Maynard Keynes, Rudyard Kipling, Arnold Joseph Toynbee, George
Macaulay Trevelyan e George Bernard Shaw. Sfortunatamente per lui
la risposta degli invitati non risultò paragonabile all’impegno profuso:
allo stato dei fatti, la delegazione inglese al convegno sarebbe stata la
più esigua di tutte, per lo meno dal punto di vista numerico, ma anche,
per la verità, del “peso” dei partecipanti (la preda più importante fu
Dawson). La non disponibilità alla partecipazione andava motivata
secondo lo stesso ambasciatore non già con una generalizzata ritrosia a
prendere parte all’incontro, quanto a causa del pessimo tempismo. Nel
senso che, sottoposto all’approvazione del duce, l’elenco dei candidati
era stato comunicato all’ambasciata solo il  agosto del , accordando
di conseguenza un preavviso troppo breve a personalità insignite di così
alte cariche. In allarme per i molti illustri “no” ricevuti, l’ ottobre
del , a poco più di un mese dall’apertura dei lavori congressuali,
il vice-presidente anziano per la classe delle Lettere, Carlo Formichi,
aveva addirittura scritto a uno dei funzionari dell’ambasciata, Mameli,
esprimendo le proprie preoccupazioni e accludendo alla missiva sei inviti
in bianco, nell’eventualità o, meglio, speranza di poter coinvolgere altre
personalità. Comunque, nonostante i diversi problemi affrontati, Grandi
poté alla fine ritenersi pienamente soddisfatto. A riprova: in una missiva
a Marconi del gennaio del , come già ricordato all’inizio di questo
scritto, egli definì il convegno come «uno dei maggiori, se non il maggiore
avvenimento culturale-politico europeo» di quegli anni. Grazie a esso
l’Italia aveva dato un’eccellente dimostrazione di credibilità agli occhi di
tutto il continente. Il risultato apparve apprezzabile allo stesso Marconi,
che, rispondendo all’ambasciatore il  dello stesso mese, accompagnò i
ringraziamenti dell’Accademia con un’attestazione di assoluto compiacimento per il lavoro portato avanti dalla delegazione inglese.

I partecipanti
Nel complesso, il contributo offerto dalle ambasciate alla designazione
dei relatori fu rilevante. Certo, sarebbe interessante capire quali criteri

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
valutativi vennero adottati nella selezione, a esempio in riferimento agli
ambienti di provenienza dei partecipanti e ai loro orientamenti politici. Ci
si dovrebbe chiedere inoltre se i parametri applicati furono gli stessi per
le diverse delegazioni nazionali o non prevalsero piuttosto considerazioni
di carattere particolaristico. In generale si può dire che, in consonanza
con l’impostazione voluta da Gioacchino Volpe e Francesco Coppola,
la maggior parte dei partecipanti, per esperienze passate o presenti, sia
in ambito diplomatico che economico o amministrativo, era d’estrazione
politica.
Passando ad analizzare le delegazioni più rappresentative, riguardo
a quella inglese s’è già detto del tentativo fatto, e fallito, per coinvolgere
uomini dell’establishment al massimo livello, il cui dato comune era
una manifesta simpatia per il fascismo. Churchill, per fare solo qualche
esempio, animato da «un fiero sentimento antisocialista e antibolscevico», aveva ribadito in più d’una occasione la propria ammirazione per il
regime e il suo capo. Non solo, durante una visita in Italia nel , come
ricorda Nello, aveva addirittura immaginato la propria battaglia contro
il comunismo al fianco delle camicie nere, qualora fosse nato italiano.
Sempre nel , Shaw, intellettuale d’estrazione fabiana e di militanza
laburista, aveva dichiarato che, a suo parere, Mussolini aveva di gran
lunga superato lo stesso Labour Party nel conseguimento di obiettivi
socialisti. Quanto a Lloyd George, capo del liberalismo britannico, l’anno dopo il convegno, avrebbe definito lo stato corporativo mussoliniano
«la più grande riforma sociale dell’epoca moderna». Analogo interesse
per gli elementi di pianificazione impliciti nel corporativismo mostrava
pure uno studioso di cose economiche come Paul Einzig, l’unico tra i
personaggi finora citati a partecipare al convegno. Accanto a Einzig, in
rappresentanza del Regno Unito, comparivano solo altri quattro uomini.
Tra questi la figura di maggior rilievo fu senza dubbio quella del più
volte ricordato storico di formazione cattolica Christopher Dawson, il
quale, per quanto assolutamente lontano dalle logiche del fascismo, al
convegno avrebbe comunque sottolineato l’importanza e l’attualità del
modello imperiale romano, quale esempio di organizzazione di elementi
eterogenei in un’inedita unità. Da segnalare, infine, la presenza dell’anziano ex ambasciatore a Roma James Rennell Rodd, anche lui, come noto,
persona graditissima agli ambienti capitolini.
Quanto alla delegazione francese, essa appariva ben più consistente
e non solo sul piano numerico. Il particolare risulta interessante alla luce
dello spirito di rivalità nella leadership continentale che animava al fondo
le due proposte alternative di Briand e Mussolini. Inoltre, come osserva
De Felice, tra tutti i maggiori paesi dell’Occidente, la Francia era quello
in cui da anni il regime fascista e il suo capo erano visti con più sospet-

SIMONA GIUSTIBELLI
to, diffidenza, se non ostilità. Ciò era dovuto alla presenza nel paese di
un forte movimento di sinistra, nettamente antifascista e collegato con
l’emigrazione antifascista italiana, oltre che alla larga diffusione dei valori
democratici e alla dichiarata ostilità verso le rivendicazioni del regime
in ambito internazionale, per ricordare solo le ragioni più evidenti.
D’altro canto, in quella determinata congiuntura storica, per motivi già
ampiamente illustrati, la politica estera fascista continuava a ispirarsi
alla «tattica societaria» grandiana e a cercare, seppur attraverso azioni
di disturbo, una riconciliazione definitiva con la «sorella latina», tale da
risolvere la «questione italiana» su di un piano di assoluta, riconosciuta,
parità tra i due paesi. Questo è forse sufficiente a spiegare il perché della
presenza al convegno di personalità di altissima statura sulla scena diplomatica francese, oltre che di fama internazionale. Tra gli intervenuti
si segnalino infatti statisti di assoluto rilievo in ambito societario, come
Joseph Avenol, segretario generale della Società delle Nazioni, Gabriel
Hanotaux, ex ministro degli Esteri e uno dei padri fondatori dell’istituzione ginevrina, Daniel Serruys, presidente del Comitato economico. Tra
gli assenti comparivano, inoltre, il ministro delle Colonie A. Sarraut e il
futuro ministro degli Esteri Jean Louis Barthou. Accanto alle personalità
politiche figuravano, infine, non meno significativi esponenti del mondo
accademico. Uno per tutti lo storico romanista Jerôme Carcopino.
Passando all’analisi della rappresentanza tedesca, anche qui dovette
essere preponderante il peso delle valutazioni politiche. L’invito ai nazisti, Rosenberg e Goering, per quanto, come già osservato, funzionale
all’operazione di esaltazione, per contrapposizione, del volto moderato
del regime, poteva infatti compromettere lo spirito di collaborazione dei
lavori congressuali. Era, dunque, opportuno integrare la delegazione
germanica con elementi che contribuissero a evitare che le discussioni
assumessero una piega spiacevole per le altre rappresentanze nazionali.
Cfr. in merito la lettera di Marconi all’ambasciatore a Berlino, Luca Orsini
Barone, in data  agosto :
Desidero personalmente esprimerle come Presidente della Reale Accademia
d’Italia i nostri più vivi ringraziamenti, facendoLe presente che il Dr. Schacht
ha promesso a sua eminenza De Stefani di indicargli due o tre nomi di persone
che ritiene utile siano invitate, anche forse per equilibrare il pensiero di altre
correnti che potrebbero avere un non desiderato sopravvento specialmente da
parte di invitati di altra nazione.
Alla fine, il criterio di selezione rimase comunque quello della simpatia
verso il fascismo. Hyalmar Schacht, Werner Sombart ed Erwin Beckerath,
economisti, erano notoriamente ammiratori del sistema corporativo italiano. Sombart, nello specifico, proprio alla fine del , avrebbe individuato

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
nel presunto superamento della lotta di classe uno dei meriti più alti del
regime. L’unica voce per così dire dissonante nella parte tedesca, peraltro
anche in futuro mai compromessa con il nazismo, fu forse quella dello
storico, sociologo ed economista Alfred Weber. Tra gli assenti va, infine,
segnalato il nome del rinomato storico Friedrich Meinecke.
Una riflessione a parte va fatta sui partecipanti italiani, tutti, senza
alcuna eccezione, nonostante le sfumature colte da Curcio e riportate più
avanti, rappresentanti del mondo fascista, dai più noti e già citati Marconi,
Volpe, Dainelli, Scialoja, Rocco, Orestano, Federzoni e De Stefani ai meno
conosciuti Maraviglia, Formichi, Coppola, Bodrero, Orano, Paribeni,
Sessa, Tucci, Nallino, solo per fare qualche nome (la delegazione italiana
era di gran lunga la più numerosa di tutte). Erano poi stati invitati alcuni
dei protagonisti dei capitoli più letti nella storia del fascismo: Giuseppe
Bottai, Giovanni Gentile, Arrigo Serpieri e Alberto Beneduce. Accanto a
questi, anche lui assente, ma senza invito, va ricordato Benedetto Croce
che, proprio in quegli anni, per vie completamente diverse, portava a
maturazione una profonda revisione della storia europea del secolo XIX.
Sintomaticamente il nome del prestigioso intellettuale – è ancora Curcio a sottolinearlo, ma la cosa risulta evidente dallo spoglio delle carte
della Reale Accademia d’Italia – non appariva neanche in via ipotetica
nelle bozze, più volte fatte e rifatte, della lista degli invitati. Tuttavia, per
quanto con limiti evidenti, anche nella scelta dei relatori italiani, il criterio
dell’equilibrio e della moderazione non venne completamente meno.
Fu operata, a esempio, una netta chiusura nei confronti di personalità
del mondo fascista che, sebbene vicine alla tematica europea, potevano
risultare, per così dire, pericolose. Tra queste il più volte menzionato
Asvero Gravelli. Altro personaggio autorevole non ammesso ai lavori fu
il famoso poeta e letterato futurista Filippo Tommaso Marinetti, membro
della classe delle Lettere, che nell’occasione si fece protagonista di un
curioso incidente. L’ormai anziano intellettuale, di propria iniziativa, aveva
pensato di presentare al convegno una relazione (cosa che testimonia
peraltro l’ampiezza del consenso o meglio dell’interesse maturato in ambito accademico intorno alla questione europea, ben oltre i confini delle
scienze morali e storiche) che, giudicata estremista dalla Commissione
accademica sopra citata, venne censurata, suscitando le ire del curatore.
Si ha notizia dell’episodio in virtù di un intervento polemico del poeta in
un’adunanza accademica generale del gennaio , durante la quale egli
si scagliò duramente contro il presidente Scialoja per essere stato responsabile in prima persona del veto posto al suo contributo. Purtroppo nelle
carte d’archivio non è stato possibile rintracciare il testo della relazione,
ovviamente non confluita nemmeno nella raccolta finale degli Atti. Ma,
dati gli orientamenti del suo autore, non è difficile immaginare per quale

SIMONA GIUSTIBELLI
motivo fosse stata boicottata. Se, infatti, come osservò Volpe proprio
in quella circostanza, il convegno era stato pensato come un’occasione
per avvicinare alla nuova Italia quanti fino a quel momento le avevano
mostrato diffidenza, posizioni intransigenti e marcatamente ideologiche
non avrebbero certo favorito tale causa.
Riguardo alle altre rappresentanze nazionali, passarle in rassegna
singolarmente richiederebbe uno spazio eccessivo. Se non altro per il
fatto che il convegno ospitò veramente nel proprio seno l’intera Europa,
dal Portogallo all’Ungheria, con un’estensione geografica ben più ampia
di quella a cui, con recente inversione di tendenza, noi contemporanei
siamo abituati a pensare. La spiegazione di una tale apertura va ricercata
in diversi fattori, non ultimo il successo riscontrato in quel periodo dalle
tendenze autoritarie nei piccoli paesi dell’Est europeo. D’altra parte, va
anche detto che alcuni degli interventi congressuali avrebbero sottolineato
con forza le persistenti diversità economiche e sociali tra la parte occidentale e quella centro-orientale del continente. Inoltre sarebbe emersa
una netta contrapposizione tra la visione fascista di un’Europa gerarchica, strutturata sulla soggezione dei piccoli ai grandi Stati, e la tendenza
delle potenze minori a prospettare un modello federativo garantista per
tutti. Se, dunque, per questioni logistiche non è possibile sviluppare
svariati spunti pur degni di attenzione, di contro non ci si può esimere
dal riconoscere il dovuto rilievo a quelle «voci dissonanti» che, di diversa
provenienza geografica, pure ebbero modo di esprimersi al convegno. Nel
lavoro di selezione dei partecipanti, infatti, nonostante l’assoluta priorità
data a personalità in un modo o nell’altro vicine al fascismo, l’Accademia
e il ministero degli Esteri non poterono, come già detto, non attenersi
anche a criteri di oggettività. Di conseguenza furono coinvolti esperti,
studiosi e politici, noti per il loro interesse verso la questione europea,
ma del tutto estranei alle logiche del regime. Curcio riporta gli esempi
dell’austriaco Zweig, del francese Hanotaux, dell’olandese Brugmans, dell’inglese Dawson e dello svizzero De Reynold, aggiungendo alla sua lista
perfino alcune voci italiane, quelle di Jannaccone e Scialoja, sostenitori
di posizioni, se non proprio discordanti con quelle fasciste, quantomeno
a esse non pienamente sincronizzate. Paolini segnala, inoltre, i nomi
degli intellettuali spagnoli Garcia Morente e Sanchez Albornoz, ispirati
al pensiero del filosofo e letterato spagnolo Ortega y Gasset, che proprio
in quegli anni aveva rilanciato l’antica idea degli Stati Uniti d’Europa:
Vi fu però qualche partecipante che, con grande coraggio e spregiudicatezza,
andando contro il clima della “romanità”, che alcuni relatori cercavano di richiamare continuamente, parlò di unità politica dell’Europa, di necessità dell’unione
federale, di insufficienza della Società delle Nazioni a garantire la pace. Tra questi
gli spagnoli Garcia Morente e Sanchez Albornoz, i quali, richiamandosi esplici-

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
tamente ed implicitamente ad Ortega y Gasset, ne sostenevano la necessità.
A costoro si aggiungano, se non altro per il carattere assolutamente originale e sinceramente europeista dei rispettivi interventi, il cecoslovacco
F. Weyr e il tedesco A. Weber, oltre a un esponente di assoluto rilievo del
movimento paneuropeo, l’ungherese Helemér Hantos. Si ricordi, infine,
tra gli illustri assenti, anche il famoso intellettuale spagnolo Salvador de
Madariaga. Su di lui, come, in generale, su tutti coloro che non accolsero
l’invito, sarebbe interessante accertare, magari attraverso una lettura dei
diari e dei carteggi personali, quali furono le motivazioni reali del diniego,
presa visione di quelle ufficiali confluite negli Atti.
In conclusione, per tirare le somme di questa carrellata di nomi, si
può dire che, nonostante la stragrande maggioranza di relatori fosse, se
non dichiaratamente fascista, quantomeno animata da un atteggiamento
di disponibilità verso il regime, difficilmente l’insieme dei partecipanti
risultava assimilabile a un coro intonato di voci. Per la diversità dell’estrazione sociale, dei settori d’attività o degli orientamenti politici e
soprattutto per il modo diverso di guardare all’Europa, i congressisti
avrebbero offerto effettivamente «una testimonianza della sensibilità dei
buoni e dei cattivi Europei – per usare un’espressione di Curcio – e cioè
di chi ancora credeva all’Europa e di chi vi credeva in modo paradossale
e precario».

L’apertura dei lavori e il dibattito
Il  novembre  i lavori del convegno furono solennemente inaugurati
in Campidoglio, nella sala Giulio Cesare, alla presenza dei più autorevoli
nomi del mondo politico italiano. Il “Meridiano” riportava tra i presenti
il governatore della città, Francesco Boncompagni-Ludovisi, principe di
Piombino, il presidente della Camera dei Deputati, Giovanni Giuriati,
e il segretario del Partito fascista, Achille Starace. Tra tutti si ergeva la
figura di Mussolini: accolto da una grande ovazione al suo arrivo – secondo la descrizione del quotidiano – egli prese la parola per ultimo per
offrire ai partecipanti il suo saluto, con l’augurio che, nonostante la natura
scientifica dell’incontro, ne potessero derivare utili indicazioni anche per
i governanti d’Europa. Lo stesso auspicio animò il discorso inaugurale
di Scialoja: se la scienza non doveva e non poteva entrare nella politica,
sostenne il giurista, nondimeno le sue obiettive elaborazioni avrebbero
permesso agli uomini di Stato di abbracciare i problemi politici da un
punto di vista più alto che quello dell’interesse del momento. Dunque, volpianamente, il pensiero doveva essere al servizio dell’azione, la
scienza della politica, la storia del presente e, soprattutto, del futuro.

SIMONA GIUSTIBELLI
L’auspicio era infine che i numerosi contrasti destinati a emergere dalla
riunione spingessero i popoli continentali a uno sforzo di comprensione
reciproca, al confronto e alla conoscenza. Ecco in che senso, secondo
Scialoja, l’assemblea poteva diventare il simbolo di ciò che gli europei
avessero potuto e voluto, forse domani. E, in effetti, pur in un clima di
disponibilità e collaborazione reciproca, i contrasti attesi dal presidente
non mancarono di manifestarsi. Ne nacque un dibattito variegato e articolato di voci, ciascuna portatrice di una «propria tesi, buona o cattiva,
ottimista o pessimista, di destra o di sinistra, unitaria o nazionalista»
in tema di Europa. Siffatta policromia scaturì inevitabilmente dalla
complessità dell’argomento, tanto sfaccettato da divenire indefinito, ma
anche, come s’è visto nel paragrafo precedente, dalla pluralità e diversità
delle posizioni di partenza dei partecipanti. Tutti, o quasi tutti, pronti a
dirsi europei e a difendere la verità dell’Europa – come osserva il solito
Curcio – ciascuno lo fece con il suo peculiare linguaggio, «non solo in
rapporto al proprio paese, ma in rapporto all’idea politica che lo animava
e lo guidava».
Ripercorrere, dunque, l’intero svolgimento del dibattito richiederebbe uno studio a parte. E piuttosto arduo risulterebbe pure individuare nel
suo sviluppo complessivo linee di fondo comuni, posizioni convergenti,
conclusioni condivise. Molteplici furono, infatti, non solo i temi affrontati, geografici, giuridici, storici, economici, politici – ciascuno dei quali
darebbe adito a un approfondimento specifico, crisi economica, Società
delle Nazioni, colonie, minoranze nazionali, guerra e pace, autoritarismi
e democrazie, Stato e Nazione, Occidente e Oriente, Europa e America,
Europa e Russia – ma anche i tagli dati ai singoli approcci. In altre parole,
ancora quelle di Curcio, ogni oratore venne a rapportarsi più o meno
esplicitamente a un proprio peculiare concetto d’Europa. Nel senso
che, variamente e con esiti diversi, ciascuno tentò una definizione più o
meno spontanea, consapevole o inconsapevole, di cosa l’Europa fosse,
intendendola ora come «verità europea», ora come «coscienza, senso,
genio, destino, essenza, misura, realtà e simili».
Peraltro, non senza efficacia, e certo con maggiore autorevolezza,
oltre che con grandissima retorica, già un testimone diretto, il segretario Orestano, si cimentò nell’ardua impresa di tratteggiare un quadro
riassuntivo del dibattito. Nel suo discorso di commiato e chiusura del
convegno, volendo cogliere un comune denominatore nella diversità di
opinioni emerse, egli si appellò con estrema enfasi a un concetto generico
e universale di «legge di solidarietà funzionale irrecusabile».
Detto questo, è opportuno fare almeno qualche considerazione utile
al lettore a orientarsi nella massa intricata di materia confluita negli Atti. A
tal fine ci si avvarrà delle relazioni ritenute maggiormente espressive, non

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
tanto sul piano dei contenuti peculiari, quanto in rapporto al significato
intrinseco ed estrinseco del convegno.
Come previsto dall’“Indirizzo”, il congresso aprì i propri lavori dando
accoglienza alla storia nella sua consueta veste di magistra vitae. E proprio la storia offrì forse l’unica definizione dell’Europa unanimemente
condivisa: non entità geografica, politica, etnica, linguistica o religiosa,
essa presentava evidenti caratteri di unità in quanto formazione storica,
nata e forgiatasi nel tempo attraverso una millenaria coeducazione dei
suoi popoli, segnata da esperienze fondamentali comuni, l’ellenismo, la
romanità e il cristianesimo, ma al tempo stesso dialettica, se non conflittuale, e comunque tale da non pregiudicare l’immensa ricchezza e
pluralità della sua civiltà. Dunque, l’idea europea aveva evidenti connotati storici e culturali. Al tempo stesso essa richiedeva, era o comunque
doveva essere, una «formula politica», «una ideologia capace di tenere
desti taluni principi reputati essenziali e fondamentali». Ad imperare
sull’analisi del passato era, cioè, la proiezione del presente nel senso
che, come più volte ribadito, l’indagine del primo doveva esser funzionale a quella del secondo. Questa era quanto meno l’impostazione che,
attraverso l’“Indirizzo”, i promotori stessi avevano impresso ai lavori.
Volpe, come ricordato, lo avrebbe sostenuto espressamente poco più in
là: a motivare l’interesse dello storico verso il passato – suonavano le sue
parole – sono «gli interessi pratici, i sentimenti, le passioni politiche»,
che ne permettono l’intelligenza «attraverso l’esperienza delle cose vive.
Il passato così inteso rifluisce nel corso del presente, lo illumina, lo pone
in un quadro più vasto: sino a che passato e presente si collocano come
un blocco solo davanti al nostro spirito».
Dunque, se il fondamento cristiano, greco e romano dell’idea europea
era condiviso da tutti, ben altro avveniva nel momento in cui si cercava
di dare a quei riferimenti antichi un contenuto più definito, “caldo” ed
evidente. Passando cioè dall’analisi storica al piano strettamente politico,
i congressisti approdarono alle conclusioni più disparate, se non antitetiche, per lo meno in alcuni casi, e comunque rispondenti a precisi orientamenti ideologici. Curcio prende l’esempio dell’idea cristiano europea.
Rapportata ad alcuni momenti e ad alcune esperienze storiche occidentali,
essa poteva intendersi come una potente affermazione di democrazia. E
a darle questo particolare significato fu, tra gli altri, Hanotaux, secondo
il quale la base incrollabile della civiltà europea era l’individualismo
realizzato nelle strutture democratiche e liberali:
Je parlerai avec le même respect de ce bouc émissaire que l’on charge de tous
les péchés d’Israel, la démocratie. Je suis assez vieux pour avoir connu les systèmes antérieurs, ceux qui, avec la plus froide néglicence de la misère sociale, ne
songeaient nullement à la secourir et se satisfaisaient du béat optimisme d’un

SIMONA GIUSTIBELLI
bien-être héréditaire. J’ai vu, dans mon enfance, de longues files de femmes,
d’enfants, de vieillards, de sans-travail à la porte des fermes et des ateliers. La
démocratie s’est occupée d’elle-même […].
Ma, per certi versi, anche i grandi valori dell’ordine, dell’autorità e
della gerarchia potevano farsi scaturire dall’esperienza cristiana: da
qui la denuncia dei fascisti, secondo i quali la democrazia, colpevole di
aver tradito proprio quei principi, era la prima responsabile della crisi
e della caduta attuale dell’Europa. Il passo verso l’esaltazione del ruolo
di leadership del regime e del suo duce era breve. Coppola, fra gli altri,
additò espressamente nel fascismo l’unica forza in grado di redimere il
continente dalla sua «cattiva coscienza»:
Così di fronte alla triplice minaccia che dall’esterno le incombe e l’assedia, rivolta coloniale, sovvertimento bolscevico, pressione americana, e di fronte alla
discordia intestina che all’interno la strema, l’Europa si trova oggi, con la sua
cattiva coscienza, disarmata e disanimata. Non ritroverà la via della salute […]
che il giorno in cui si renderà conto che la sua massima debolezza, e quindi il
suo massimo pericolo, risiede precisamente nel suo intimo dissidio spirituale, e
in cui ricondurrà la sua ideologia a coincidere con la sua necessità storica, in una
rinnovata classica concezione della vita […]. Vi è già in Europa un popolo che,
seguendo la sua vocazione millenaria, si è mosso risolutamente su questa strada,
lo stesso popolo che già tre volte, con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica
e col Rinascimento, ha creato e ricreato la civiltà europea […].
Non mancò infine chi dal cristianesimo partì addirittura per negare nel
modo più assoluto non solo il concetto, ma la realtà stessa dell’Europa.
Gimenez Caballero, portando alle estreme conseguenze la vocazione
universalista della religione cattolica, definì, infatti, l’Europa come l’antiRoma e l’europeità come un cattivo surrogato della cattolicità:
El “Principio” o “esencia” de “Europa” es el particularismo, la fuga, la centrifuguez. Il principio “católico” “romano”, es el universalismo, la atracción, la
integración.
Risultati altrettanto disparati scaturirono dall’applicazione dell’una o dell’altra interpretazione della tradizione cristiana al problema delle nazioni.
Anche qui il riconoscimento e la valorizzazione del carattere pluralistico
della civiltà europea fu unanime: l’Europa delle nazioni apparve a tutti
la più grande, innegabile e irrinunciabile conquista, oltre che ricchezza, dell’Occidente. Diverse prospettive si dischiusero invece di fronte
all’analisi dei pericoli insiti nel pluralismo disordinato e anarchico e nel
nazionalismo, per ovviare ai quali furono studiati e proposti gli strumenti
più disparati. Ad alcuni risultò prioritario l’aspetto politico, ad altri quello

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
economico. Alcuni rivisitarono il vecchio concetto dell’«equilibrio» e
del «concerto» (Gaxotte), altri ritennero di limitare il campo dell’azione
comune a quello coloniale, chi nei termini di una «conferenza interstatale» (Brandeburg), chi di un «mandato collettivo» (Bartholdy), chi di un
istituto coloniale di «cittadinanza europea» (Bonfante); altri ancora sottolinearono il ruolo guida degli «intellettuali» (Zweig). Qualcuno promosse
una più stretta «cooperazione economica» (Argetojano); qualcun altro
si espresse a favore di «intese economiche bilaterali» o anche più ampie
ma, comunque, limitate a determinati settori (Sombart); non mancò,
infine, chi, spingendosi oltre, non esitò a propugnare una vera e propria,
seppur progressiva, «unione economica e doganale», base di partenza
per una successiva «unione politica» (Hantos). La tesi più radicale fu
quella del teorico nazionalsocialista Rosenberg, i cui toni forti, aggressivi
e razzistici, certo non dovettero mancare di suscitare costernazione, per
non dire sdegno, fra i presenti. Egli affermò che il destino del continente
poteva essere affrontato solo superando «il dogma anticulturale secondo
il quale si possono mettere sullo stesso piano piccole nazioni e grandi
nazioni». La guida delle quattro potenze predominanti, la tedesca, la
francese, l’italiana e l’inglese, avrebbe dato vita, a suo avviso, a una Europa unita ma «organica», non dispersiva, vincente, e soprattutto capace
di proporre, minacciosamente, aggiungeremmo noi, la propria identità
verso l’esterno:
Poiché, per affrontare i destini del pianeta, deve essere superato il dogma anticulturale secondo il quale si possono mettere sullo stesso piano piccole nazioni
e grandi nazioni culturali di grande personalità, che nei secoli hanno resistito
a tutte le avversità, grazie alla loro grande forza interiore. Quindi, chi volesse
aspirare seriamente ad un’Europa organicamente unita, fondata sulla diversità
e sulla molteplicità e non su di una volgare somma algebrica, deve riconoscere
le quattro grandi nazioni come dono del destino e deve avere come obbiettivo
quello di dare completezza alla forza che scaturisce dal loro interno.
Di tutt’altra ispirazione la visione del cecoslovacco Weyr, animato da un
sincero europeismo, di stampo, oseremmo dire, a tratti federale. Scagliandosi contro le degenerazioni del nazionalismo – e non troppo velatamente
contro i foschi e guerrafondai anatemi di Rosenberg, intervenuto poco
prima –, egli tratteggiò il quadro armonioso di un’Europa fondata sulla
più perfetta conciliazione fra il particolare e l’universale, l’ideale nazionale
e quello sovranazionale. Così risuonavano difatti le sue parole di sapore
vagamente crociano:
[…] ma soprattutto sarebbe fatale pensare di contrapporre l’idea nazionale,
che è il massimo degli ideali, all’ideale di un avvicinamento internazionale. Non

SIMONA GIUSTIBELLI
può esistere una contrapposizione ideale tra l’essere cittadini di una nazione e
l’essere cittadini europei.
A ben vedere, le due diverse impostazioni ideologiche, quella egemonica
del tedesco e quella federativa del cecoslovacco, nascondevano due diversi
modi di guardare all’Europa di Versailles, nell’ottica della revisione piuttosto che in quella della conservazione. C’era poi in gioco il problema nodale
dei rapporti tra i piccoli e i grandi Stati. Il senso stesso dell’operazione
propagandistica orchestrata attraverso il convegno era volto a palesare
il disegno politico del fascismo su questi temi. In effetti, come già detto,
proprio qui si giocava il grosso della partita in politica estera tra paesi
vinti e vincitori, oltre che, più specificamente, tra le due sorelle latine. La
Francia, in prima linea nella gelosa difesa dell’assetto geopolitico delineato
dalla conferenza della pace, venuta meno l’assistenza americana, mirava
a mantenere la propria egemonia continentale e a risolvere il problema
della sicurezza attraverso un sistema di alleanze con i paesi dell’Europa
danubiana e balcanica che fosse garantista per tutti. L’Italia, sbandierando
al contrario il vessillo dei popoli vinti e revisionisti, puntava non solo a
entrare nel consesso delle grandi potenze su di un piano di assoluta parità
con le altre, ma anche a porsi alla guida di un nuovo quadro continentale, fondato su valori antitetici a quelli democratici e su una concezione
gerarchica, dialettica piuttosto che pacifica, dei rapporti tra i popoli. Il
tutto nella convinzione di poter esercitare un ruolo di leadership legato,
per il momento, alla propria presunta superiorità spirituale. E infatti,
al francese Rébelliau, che aveva scongiurato la prospettiva di una unità
europea tale da soffocare la molteplicità della linfa vitale del continente,
così rispose Coppola:
Ma anche il fatto, dal Rébelliau deplorato, che uomini e movimenti della storia
pretesero di far l’unità, è un fatto legittimo e fecondo, perché se una superiore
sintesi deriva dall’equilibrio spontaneo delle forze in lotta, ciascuna di queste
forze non sarebbe tale se non tendesse al dominio totale.
Dunque, per quanto i promotori del convegno avessero voluto imprimere
all’iniziativa uno stampo eminentemente culturale, per quanto, cioè, il
problema Europa fosse stato posto come problema di pensiero e di idee
– così è del resto, per ricordare l’Indirizzo, in tutti i grandi problemi imposti
dalla storia prima che penetrino nella sfera dell’attività e dell’azione – esso
slittava velocemente sul piano della politica attiva. Se, fa notare Curcio, i
convincimenti politici non sono mai estranei all’espletazione di un’idea
storica, quale appunto quella europea, in questo caso v’era da rilevare
addirittura una pressione maggiore:

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
Si veniva, cioè, conferendo un valore simbolico all’idea d’Europa, nel senso di
farne una rappresentazione, evidentemente deformata e ingrandita, delle aspirazioni e dei disegni politici, che ci si riproponeva.
Sta di fatto che tra le diverse impostazioni emerse non v’era alcuna
possibilità di mediazione. Al convegno non restò che chiudere i propri
lavori, come stabilito, senza deliberazioni. Rimaneva il carattere libero e
aperto delle discussioni, oltre che il valore di uno scontro tra ideologie
diverse, tutto sommato giocato senza scorrettezze. Peraltro, a indice di
una certa disponibilità alla collaborazione, per quanto discordi circa la
priorità del problema politico o di quello economico e in mancanza di
formule concrete per definire e promuovere una solidarietà europea attiva
e propositiva, i congressisti non mancarono di esprimersi a favore della
«convergenza», ovvero di ogni iniziativa concreta capace di promuovere
una progressiva estensione della superficie di contatto tra i popoli europei,
in ogni campo della vita continentale. Così almeno recitava il saluto di
Orestano in lingua francese:
De quelque manière et où qu’il nous soit donné d’apercevoir dans la vie europeénne la possibilité d’une convergence quelle qu’elle soit, grande ou petite, d’ensemble ou dans les détails, il faut saisir immédiatement le moment et l’occasion, et
la mettre à effet sans y penser deux fois. Tous le plans de convergence humaine
sont bons et utiles. En Europe plus que jamais. Et il n’y a pas à faire question
de priorité politique ou économique; quoi qu’il en soit, le progrès favorise tout
le monde, et meme s’il peut apporter des avantages à ceux que nous craignons
devoir être nos ennemis de demain, il est d’abord avantageux pour nous aussi et
rend meilleure et plus forte notre position meme vis-à-vis d’eux.

Rassegna stampa
La sensazione di generale compiacimento per il lavoro svolto, che accompagnò gli intervenuti al loro rientro a casa dal convegno, ebbe riscontro
nel vivo entusiasmo con cui la stampa dell’epoca, sia di orientamento
democratico che autoritario, accolse l’evento. Scorrendo velocemente la
rassegna curata allora dall’Accademia d’Italia, emergono due dati di interesse. Il primo è il diffuso consenso suscitato dal tentativo dell’Accademia
di creare un momento positivo di confronto e scambio di idee a livello
europeo sui problemi continentali. A detta di molti osservatori, infatti,
l’iniziativa italiana ebbe effetti benefici sul piano diplomatico prima che
su quello scientifico e culturale. Stando al “North American Newspaper
Alliance”, il convegno promosse e rafforzò un sensibile riavvicinamento
italo-francese, riportando pieno successo laddove più volte la stessa
diplomazia si era rivelata impotente o, comunque, tentennante; per il

SIMONA GIUSTIBELLI
“Dresdner Neuste” esso costrinse al dialogo gli europei “litigiosi” della
Società delle Nazioni, promuovendo un confronto addirittura amichevole
e sereno su questioni pur delicatissime. L’atmosfera di cordialità dei lavori
congressuali dovette, in effetti, impressionare a tal punto i convenuti da
far pensare a qualcuno che nuove vie si potessero schiudere all’Europa
proprio in virtù dei rapporti e delle amicizie nate alla villa Farnesina tra
uomini in grado di esercitare una certa influenza sui vertici direttivi dei
vari paesi. Cfr. al riguardo il “Journal de Geneve”:
La maggior parte delle relazioni presentate al Convegno hanno rivelato dei
nuovi orizzonti. Si sono create durante le sedute del convegno delle amicizie fra
elementi capaci di esercitare una influenza considerevole nei momenti difficili
in cui viviamo.
Il secondo elemento concerne più nello specifico i temi della riflessione
congressuale. Su questo piano la stampa non mancò di elogiare l’impostazione generale dei lavori e in modo particolare il taglio dato al nodo
focale della crisi. Il “Tagespost” di Graz, a esempio, fece notare come
l’analisi serratissima di tutti i mali del presente non si fosse affatto esaurita
in una rassegnata elegia al declinante Occidente. Né altro ci si poteva
attendere dalla Roma fascista:
Non abbiamo sentito in questo convegno alcuna elegia sul tramonto dell’Occidente; non abbiamo sentito parlare di rassegnazione e di destini inesorabili.
Roma non è il suolo dove possano maturare tali semenze.
Gli europei, dunque, restii ad accettare il loro destino di marginalità
in un mondo sempre più vasto rispetto a quello un tempo dominato,
vollero vedere proprio nel convegno romano, almeno per certi versi,
il primo segnale della rinascita della civiltà occidentale. E per lo più
non si meravigliarono che una tale spinta al rinnovamento venisse da
Roma. Addirittura il “Temps”, illustre quotidiano parigino, non esitò
ad affermare che soltanto il fascismo, «uno dei prodotti più diretti e più
espressivi della razza latina, cioè romana, e in conseguenza europea»,
poteva essere capace in quel momento di porre fine alla crisi, rinsaldando
l’unità spirituale e storica dell’Europa. Sulla stessa falsariga, ma con toni
minacciosamente ermetici, pure il “Voelkischer Beobachter”, organo
ufficiale del movimento hitleriano, riconosceva al regime il merito di aver
dato un contenuto assolutamente nuovo al concetto di Europa.
È chiaro, di fronte agli sviluppi storici e politici di poco successivi,
quanto questa corrente della stampa internazionale si ingannasse circa
la reale portata dell’adunanza romana e soprattutto circa il ruolo del
fascismo nella rinascita continentale. S’è già detto, però, come diversi

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
elementi spingessero l’opinione pubblica a nutrire una certa fiducia
nelle potenzialità della nuova Italia: di fronte al collasso economico delle
democrazie e della perdita generalizzata di valori in cui credere, il regime
sembrava non solo aver risollevato completamente le sorti del proprio
paese, ma anche avergli conferito una vigoria mai conosciuta. A far leva
sugli animi era appunto il mito di Roma antica e dell’impero, come prima si diceva, protagonista in quegli anni di crisi di una vera e propria
recrudescenza. È particolarmente rappresentativo il fatto che a evocarlo
fosse non solo un organo di stampa austriaco, la cui posizione è ben
comprensibile alla luce dei rapporti italo-austriaci prima dell’Anschluss,
ma anche uno dei quotidiani del paese dalla più antica e consolidata tradizione democratica, la Francia. Certo, a esprimere meglio del “Temps”
l’avversione del mondo politico francese verso il revisionismo fascista fu
senz’altro la “Revue Universelle” di Parigi. La rivista condannò infatti
senza mezze misure il carattere politico del convegno, ribadendo la sola
legittimità dell’Europa di Versailles. A ben vedere, parlare di Europa in
altri termini, come pure aveva preteso di fare il convegno fascista, non
era nemmeno possibile:
Parlare dell’Europa è esprimere piuttosto un desiderio che un fatto, è evocare
un’ombra. D’Europa non ve ne è stata mai che ben poca, ed ora ve n’è sempre
di meno.
Con gli stessi toni, «propaganda fascista» e «strumentalizzazione politica», anche il giornale serbo “L’esprit de Belgrade”, per note ragioni di
politica internazionale, liquidò velocemente la questione convegno Volta.
Di tutt’altro avviso, il “Der Bund” che, al contrario, considerò proprio il
carattere politico del dibattito uno degli aspetti maggiormente qualificanti
dell’incontro romano. Il giornale di Berna volle infatti evidenziare l’importanza e la libertà della battaglia spirituale e ideologica tra democrazia
e fascismo a cui il convegno aveva dato luogo:
Il suo compito doveva essere quello di trovare le vie per facilitare l’avvento di
un’Europa unita e non poteva mancarvi l’occasione di una battaglia spirituale
dignitosamente combattuta fra le due concezioni statali: la fascista e la democratica.
Un giudizio questo che, seppur su di un piano nettamente polemico,
trovava conferma anche nell’invettiva dei fascisti intransigenti lanciata
dalle pagine di “Antieuropa”. Non nutrendo dubbi su quale potesse
essere l’unica via possibile per la salvazione europea, ovvero la via fascista, a loro avviso era stato a dir poco ingenuo radunare a Roma i più alti
rappresentanti del mondo politico e culturale europeo per discutere di
un problema così rilevante solo sul piano scientifico:

SIMONA GIUSTIBELLI
Antieuropei, epperciò uomini per i quali non esistono dubbi né in linea dottrinale né in linea pratica su quella che riteniamo essere la sola via della salvazione
europea, reputavamo per lo meno ingenuo adunare alcune dozzine di uomini
rappresentativi del pensiero, della cultura, della diplomazia, della politica europea per farli disputare attorno a sì capitale argomento solo da un punto di vista
rigidamente scientifico.
Difficile stabilire il giusto equilibrio tra posizioni tanto disparate, la cui
lontananza è da rapportarsi in primo luogo alla diversità degli orientamenti politici di ciascun organo di stampa, oltre che allo stato delle
relazioni diplomatiche tra l’Italia fascista e il paese d’appartenenza. Ma,
in generale, da un bilancio complessivo della stampa estera emerge che la
tendenza a non disconoscere al dibattito congressuale una certa aperture
fu prevalente. Sta di fatto che, in positivo o in negativo, il convegno riuscì,
comunque, a far parlare di sé. Per questo, contrariamente alle conclusioni pessimistiche pur tratte da qualche accademico, vista la risonanza
dell’iniziativa e le numerose lettere di ringraziamento e di elogio ricevute
a nome dei partecipanti, i promotori poterono alla fine ben ritenersi
soddisfatti del risultato ottenuto. Se tra le finalità dell’Accademia vi era
stata quella di creare un momento positivo di incontro tra l’Italia fascista
e l’Europa, ebbene, su questo piano il successo era stato pieno.

Atti “di fede” e conclusioni
Alla luce di quanto detto, come leggere il giudizio negativo di Chabod sul
convegno? Certo, l’occasione fu squisitamente politica, perché politico
fu in definitiva il criterio con cui promotori e ospiti si rapportarono al
tema proposto. Politico, ancora, ma, come s’è visto, non unilateralmente
fascista. Per questo se la polemica dello storico valdostano denuncia a
ragione i limiti dell’operazione, tuttavia, non sembra possibile negare che
essa fu una sorta di preannuncio di quello scontro di idee sull’Europa
che, ripropostosi con toni ben più accesi nel secondo dopoguerra, ancora
oggi, in un contesto diverso e di fronte a nuove problematiche, non può
dirsi affatto concluso. Per certi versi, in un contesto di profonda crisi di
coscienza, lo scontro ideologico era all’epoca, se non persino più radicale,
di certo ulteriormente complicato dal prefigurarsi di una “terza via” per
il continente, la via fascista, in quella determinata congiuntura storica
tutt’altro che priva di forza d’attrazione. È anche vero, però, che in quegli
anni, a differenza di quanto sarebbe avvenuto poco dopo, il dialogo tra
le diverse posizioni non solo era possibile, ma addirittura cercato dall’una come dall’altra parte. Prova ne sia il fatto che un disegno unitario,

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
ampiamente ispirato ai valori liberali, quale quello dell’Unione Europea
di Briand, ipotizzasse la presenza dell’Italia fascista accanto agli Stati
democratici. Lo stesso si dica del convegno Volta, nel cui seno, come s’è
visto, in modo particolare il ruolo della delegazione francese è risultato
di difficile interpretazione.
In conclusione, già negli anni Trenta l’Europa si poneva il problema
della propria identità, del proprio ruolo nel mondo e di un assetto interno
capace di superare il traballante sistema degli Stati, salvaguardando al
contempo la sovranità nazionale. Per questo le pagine degli Atti, enfaticamente definiti da Orestano «Atti di fede», nel raccogliere le riflessioni
di una élite tutto sommato rappresentativa dell’intero mondo politico
e culturale europeo del periodo, possono essere viste come lo specchio
di ciò che l’idea d’Europa ha rappresentato per un’epoca tormentata e
nebulosa quale quella tra le due guerre. Un’epoca nella quale, al di là e
contro ogni nazionalismo, cominciavano a svilupparsi le premesse per quel
cammino unitario che oggi rappresenta la nostra realtà. Tra le pagine del
volume, infatti, accanto agli anatemi razzistici e aggressivi dei nazisti e alle
retoriche declamazioni imperiali dei fascisti, qua e là affiorano vocaboli
ed espressioni destinati a riapparire in futuro, quali unione europea,
cittadinanza europea, università europea, unione economica e doganale,
secondo una terminologia, oltre che elaborazione di pensiero, propri del
linguaggio europeistico del secondo dopoguerra, ma evidentemente non
del tutto inediti.
Note
. Reale Accademia d’Italia, Fondazione Volta, Atti dei convegni. Convegno di scienze
morali e storiche, - novembre , XI. Tema: L’Europa, Roma, Reale Accademia d’Italia,
.
. In Atti, Tema: L’Europa, cit., p. .
. Cfr. C. Curcio, Europa. Storia di un’idea, Vallecchi, Firenze , vol. II, pp. -.
. Cfr. l’intervento di L. Klinkhammer al convegno di studi su “Il nuovo ordine
europeo nel nazismo e nel fascismo”, Roma, Università degli studi “La Sapienza”, 
settembre .
. Cfr. il discorso pronunciato da Mussolini il  gennaio  per inaugurare l’Accademia, in Archivio di Stato, Segreteria Particolare del Duce, voce Reale Accademia
d’Italia, fasc. ..
. La Reale Accademia d’Italia fu istituita il  gennaio  con decreto-legge di
fondazione, convertito in legge il  marzo dello stesso anno. Da allora, prima che divenisse realmente operativa passarono quasi quattro anni durante i quali furono adottate
sanzioni legislative, impostate le somme necessarie sul bilancio dello Stato e ristrutturata
la magnifica sede, la Farnesina. I primi trenta accademici furono nominati nel  per
decreto reale su proposta del duce di concerto con il ministro dell’Educazione nazionale
e il Consiglio dei ministri. Le nomine successive furono decretate dal Capo del Governo
scegliendo nell’ambito di terne di nominativi proposte dagli stessi accademici. Il Presidente dell’Accademia (Tommaso Tittoni, -; Guglielmo Marconi, -; Gabriele
D’Annunzio, -; Luigi Federzoni, -) presiedeva di diritto l’Unione delle Acca-

SIMONA GIUSTIBELLI
demie Nazionali, di cui facevano parte anche le altre cinque maggiori accademie italiane
(La Reale Accademia Nazionale dei Lincei; la Reale Accademia delle Scienze di Torino; il
Reale Istituto Veneto delle scienze, lettere ed arti; il Reale Istituto Lombardo di scienze e
lettere; la Reale Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli). Il decreto reale
dell’ giugno  ordinò la fusione dell’Accademia dei Lincei con la Reale Accademia
d’Italia. Dopo la caduta del regime la soppressione dell’istituto fu inevitabile: un decreto
legge del governo Bonomi del  settembre  ne decretò ufficialmente la fine e ricostituì
allo stesso tempo l’Accademia Nazionale dei Lincei. Cfr. voce Reale Accademia d’Italia, a
cura di G. Volpe, in “Enciclopedia italiana di scienze lettere ed arti”, Istituto G. Treccani,
appendice I, Milano , e R. Morghen (a cura di), appendice II, Milano ; Annuario
della Reale Accademia d’Italia - (e -), Reale Accademia d’Italia; Roma 
(e ); G. Volpe, La Reale Accademia d’Italia, in “Il popolo d’Italia”,  ottobre  (una
copia dattiloscritta dell’articolo è conservata in Archivio della Reale Accademia d’Italia,
tit. XI, b. , fasc. ).
. Ivi, f. -.
. Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Il fascismo e le sue guerre, Feltrinelli,
Milano , vol. IX, pp.  ss. Nel primo gruppo di accademici nominati tra il  e il
, sotto la presidenza di G. Marconi, Candeloro riporta nomi di grande notorietà: gli
scienziati Dainelli, Fermi, Parravano, Severi e Vallauri; gli storici Luzio e Volpe; gli studiosi di diritto romano Bonfante e Riccobono; gli orientalisti Formichi, Pavolini e Tucci,
l’arabista Nallino; gli economisti e studiosi di finanza De Stefani, Jannaccone e Stringher;
gli architetti Bazzani, Brasini e Piacentini; gli scultori Canonica e Wildt; gli scrittori, poeti
e studiosi di letteratura Beltramelli, Bertoni, Bontempelli, Di Giacomo, Farinelli, Marinetti, Novaro, Ojetti, Panzini, Pascarella, Pirandello e Romagnoli; i musicisti Giordano,
Mascagni, Perosi e Respighi.
. Sulla Fondazione Volta cfr. Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Fondazione Alessandro Volta, tit. VIII, b. , fasc. - (sedute, regolamento, corrispondenza,
programmi, regolamento convegni Volta).
. Volpe, La Reale Accademia d’Italia, cit., f. .
. È interessante rilevare come nemmeno il duce rimanesse immune dal fascino del
pensiero di Oswald Spengler sul tramonto dell’Occidente: anzi, secondo De Felice, la
componente spengleriana fu nella formazione culturale e politica di Mussolini una costituente altrettanto essenziale quanto quella gentiliana. Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce.
Gli anni del consenso -, Einaudi, Torino , pp. -.
. Voce Europa, a cura di E. Sestan, in “Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed
arti”, Istituto G. Treccani, Milano , vol. XIV, p. .
. Cfr. Curcio, Europa. Storia di un’idea, cit., p. .
. Cfr. S. Pistone (a cura di), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda
guerra mondiale, relazioni tenute al convegno di studi svoltosi presso la fondazione Luigi
Einaudi (Torino, - ottobre ), Einaudi, Torino , p.  ss.
. Nel settembre del  Aristide Briand patrocinò alla Società delle Nazioni un
riavvicinamento economico fra gli Stati europei, richiamandosi più o meno esplicitamente
al movimento paneuropeo guidato dal conte austriaco R. N. Coudenhove Kalergi. Invitato
a presentare delle proposte più concrete, egli inviò il  maggio  ai governi degli Stati
europei membri dell’istituzione ginevrina un memorandum in cui prospettava la creazione
di una sorta di legame federale, da attuarsi soprattutto nel campo politico e tale da non
intaccare la sovranità degli Stati nazionali. A tale legame il ministro guardava come a
uno strumento di conciliazione e coordinamento. L’unione, nelle sue intenzioni, doveva
realizzarsi mediante un’organizzazione analoga a quella della Società delle Nazioni, con
un’assemblea annuale, un consiglio degli Stati membri e una segreteria. Nel memorandum
la proposta si articolava in quattro punti fondamentali: ) Necessità di un patto di ordine
generale, per elementare che sia, allo scopo di affermare il principio dell’Unione Europea
e di consacrare solennemente il fatto della solidarietà istituita fra gli Stati europei; ) Ne-

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
cessità di un meccanismo atto ad assicurare all’Unione Europea gli organi indispensabili
al compimento del suo scopo; ) Necessità di fissare in anticipo le direttive essenziali che
dovranno determinare i concetti generali del Comitato Europeo e guidarlo nel suo lavoro
di studio per l’elaborazione del programma di organizzazione europea; ) Opportunità di
riservare sia alla prossima Conferenza Europea sia al futuro Comitato Europeo lo studio
di ogni questione di applicazione. Il  luglio il governo italiano rispose obiettando che era
anzitutto necessario includere in questo disegno anche la Russia e la Turchia; che d’altra
parte la creazione di un blocco europeo poteva compromettere i rapporti con altri continenti e danneggiare l’unità organica della Società delle Nazioni; che tutti gli Stati, senza
distinzione, avrebbero dovuto sedere nel Consiglio; che l’Europa non rappresentava una
unità civile che potesse essere isolata dalla civiltà moderna; che, infine, la premessa di ogni
intesa europea era il disarmo. Di fatto il duce vide nel piano una mossa della Francia per
mantenere la sua egemonia sul continente e risolvere il problema della sicurezza. La Germania rispose in termini analoghi l’ luglio e l’Inghilterra respinse la proposta il  dello
stesso mese, condannando ogni piano di organizzazione particolare come pericoloso per
la Società delle Nazioni e ammettendo, al massimo, una sottocommissione nel seno della
stessa. Nel settembre  Briand presentò il suo piano al Consiglio della Società delle
Nazioni, il quale ne affidò il vaglio a una commissione di studio, nei cui meandri esso fu
sepolto definitivamente. Cfr. A. Fleury, L. Jílek (éds.), Le Plan Briand d’Union fédérale
européenne. Perspectives nationales et transnationales, avec documents, Peter Lang, Bern
; E. Vigliar, Il modello di organizzazione europea nel progetto Briand, Editoriale Scientifica, Napoli ; S. Minardi, Origini e vicende del progetto di unione europea di Briand, S.
Sciascia, Caltanissetta ; voce Paneuropa, a cura di C. Antoni, in “Enciclopedia italiana
di scienze, lettere ed arti”, Istituto G. Treccani, Milano , vol. XXVI.
. Tratto dalla risposta diramata dal governo italiano, in Atti, cit., Allegati, vol. II, p.
. L’importanza della precisazione di Mussolini è già stata colta da Edmondo Paolini,
Altiero Spinelli. Dalla lotta antifascista alla battaglia per la federazione europea -:
documenti e testimonianze, Il Mulino, Bologna , p. .
. Cit. da De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso -, cit., p. .
. «La massima ambizione del fascismo era quella di essere il primo artefice di una
nuova civiltà imperiale, fondata sui principi, i valori e le istituzioni del totalitarismo fascista.
Superando la dimensione della nazione e dello Stato nazionale, ormai giudicato prossimo
al tramonto, il fascismo voleva acquistare una dimensione universale, come la romanità
e il cattolicesimo, per imprimere il marchio del genio italiano su una nuova epoca della
civiltà moderna». E. Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel
XX secolo, Mondadori, Milano , p. .
. L’iniziativa si concretizzò e trovò il suo fallimento nel congresso di Montreux del
- dicembre , al quale sintomaticamente non parteciparono i nazisti. Il regime, in
quel momento alla ricerca di una linea di politica estera, come detto, moderata, aveva
allora la priorità di distinguersi in modo netto dal nazismo, per evitare che il discredito
internazionale si riversasse indistintamente su entrambi. Ma la sua pretesa di escludere i
nazionalsocialisti dal campo fascista poteva essere giustificata solo in base ad argomenti
di opportunità e di interesse politico nazionale: per questo incontrò la decisa opposizione
degli altri fascismi chiamati ad aderire al progetto di Internazionale. Inoltre, per le stesse
ragioni, al congresso di Montreux, si rivelò impossibile pure la prospettiva di un accordo
sulla questione razziale e, in modo particolare, su quella ebraica: se per Mussolini tali
problemi erano all’epoca ancora molto lontani, essi erano, però, già divenuti pregnanti
per i vari parafascismi est-europei. Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso
-, cit., pp. -. Cfr. sull’argomento anche M. A. Ledeen, L’Internazionale fascista,
Laterza, Roma-Bari ; A. Gravelli, Verso l’Internazionale fascista, Nuova Europa Libreria
editrice, Roma , e Id., Panfascismo, Nuova Europa Libreria editrice, Roma .
. F. Coppola si distinse per la prima volta sulla scena politica italiana nel ,
quando, insieme a Enrico Corradini e Luigi Federzoni, fondò l’Associazione Nazionalista

SIMONA GIUSTIBELLI
Italiana. L’anno successivo il suo nome apparve tra gli ideatori del settimanale “L’idea nazionale”. Durante la prima guerra mondiale, schieratosi con forza a favore dell’intervento,
si distinse per la polemica acerrima nei confronti dell’ideologia intesista e democratica
del conflitto. Nel , attraverso il “Manifesto” della nascente rivista “Politica”, scritto
con A. Rocco, chiarì definitivamente la propria propensione per il darwinismo politico.
Successivamente alla fusione dell’ANI con il Partito nazionale fascista, l’intellettuale
divenne uno dei fedelissimi del duce, offrendogli da quel momento in poi il proprio
appoggio incondizionato, più per reale convinzione di idee che per servilismo. Ebbe un
ruolo importante e non sufficientemente valutato nell’assunzione da parte della politica
estera fascista dei capisaldi revisionisti e imperialisti. Fu delegato italiano alla Società delle
Nazioni. Successivamente si mostrò sfavorevole all’ascesa al potere di Hitler, negando al
nazismo, per la chiusa ideologia razzista, una reale affinità con il fascismo. Seguendo le
orme del duce, finì poi, però, per sostenere la politica dell’Asse Roma-Berlino. Cfr. voce
Coppola Francesco, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana G. Treccani, Roma , vol. XXVIII.
. F. Coppola, Europa, antieuropa, Paneuropa, in “Politica”, settembre , p. .
. Per Coppola, a esempio, la polemica antifrancese si accompagnava con un appello
alla solidarietà europea. Stante l’impossibilità di rintracciare una unità europea di carattere
etnico, religioso o politico, essa nondimeno esisteva al livello più nascosto dello spirito e
in quanto tale era l’unica alternativa possibile a uno stato di guerra permanente: «Come
negare, per altro, che in uno stesso Stato, in una stessa nazione, esistano tra i vari gruppi
sociali analoghi contrasti di interessi conservatori e revisionisti, immobilizzatori o rivoluzionari? E impedisce forse questo che esista, comune a tutti e da tutti sentito, accettato e
difeso, un superiore interesse dello Stato, un superiore interesse della nazione? Toglie forse
questo allo Stato la sua unità di soggetto della vita internazionale, toglie forse alla nazione
la coscienza della propria interiore solidarietà nella lotta internazionale? E perché allora
l’interno conflitto di interessi tra i singoli Stati d’Europa dovrebbe impedire il progressivo
affermarsi di una coscienza solidale europea?». Ibid.
. A pronunciarsi in quella sede furono invitati i più grandi esponenti della politica
internazionale da Roosevelt a Herriot, a Benes, Stresemann, Titulescu, Barthélemy, Borel
e altri. Cfr. in merito la relazione presentata al convegno Volta da De Fontenay, “Le
problème de l’Europe à l’examen de l’Académie Diplomatique Internationale”, in Atti,
cit., pp. -. Secondo Curcio tra i due convegni il più importante fu il secondo: «perché
più articolato e più ricco di motivi, più sonoro di voci, le quali, proprio perché discordi,
fornivano una testimonianza dei buoni e dei cattivi Europei e cioè di chi ancora credeva
all’Europa e di chi vi credeva in modo paradossale e precario». Cfr. Curcio, Europa. Storia
di un’idea, cit., p. .
. Anche in passato, peraltro, i rapporti tra i due enti erano stati molto stretti. Non
a caso la ventesima sessione dell’Académie Diplomatique, dal  al  ottobre del ,
s’era svolta proprio a Roma, ospitata presso le sedi dell’Istituto Internazionale d’Agricoltura e della stessa villa Farnesina. Cfr. Académie Diplomatique Internationale, Séances et
Travaux, tome I, .
. Cfr. Verbale dell’adunanza della classe delle scienze morali e storiche.  maggio ,
in Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Verbali adunanze, tit. III, b. , fasc. .
. Francesco Orestano (Alia, Palermo -Roma ), professore di filosofia morale
all’università di Palermo dal  al , aderì al fascismo e fu nominato accademico d’Italia nel . Assertore di una forma di realismo positivistico, tra i suoi scritti si ricordino
in modo particolare: I valori umani (); Prolegomeni della scienza del bene e del male
(); Nuovi principi (). Cfr. voce Orestano Francesco, in “Lessico Universale Italiano”,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani, Roma , vol. XV.
. Cfr. in merito i suoi scritti: oltre a quello già menzionato, Europa, antieuropa e
Paneuropa, la relazione presentata al convegno Volta, La crisi dell’Europa e la sua cattiva
coscienza, e un articolo apparso nuovamente su “Politica” nell’aprile del  in occasione

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
del patto Mussolini, Il Patto a Quattro (F. Coppola, La crisi dell’Europa e la sua “cattiva
coscienza”, in Atti, cit., pp. -, e Il Patto a Quattro, in “Politica”, febbraio-aprile ).
Nell’aprile del  Coppola tornò a scrivere di Europa in riferimento alla guerra mondiale
in corso (cfr. Considerazioni su questa guerra, in “Politica”, aprile ): ricordare in questa
sede anche quel successivo intervento è utile per capire il percorso compiuto dall’intellettuale dallo scontro con Rosenberg alla Farnesina, e l’iniziale chiusura ideologica nei
confronti di Hitler, al successivo totale appiattimento sulla politica dell’asse Roma-Berlino.
Particolarmente rappresentativo di questa parabola risulta un passo della relazione del
, travasato completamente nell’articolo del , con una piccola significativa aggiunta:
l’unità essenziale della civiltà europea, ravvisata da Coppola nella sua essenza multanime
ma unitaria, diveniva in piena guerra mondiale «fondamentalmente greco-romana e poi
romano-cristiana e finalmente romano-germanica».
. Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso -, cit., nota , p.
.
. Cfr. F. Orestano, Riassunto generale dei lavori del Convegno (relazioni e discussioni), in Atti, cit., p. .
. In base allo statuto della Fondazione Volta erano invitate a pronunciarsi sull’argomento anche le altre cinque maggiori accademie nazionali. Per esempio la Reale Accademia
di Scienze, Lettere ed Arti di Padova propose di dedicare le discussioni al tema “Europa
ed America” e in modo particolare a “Le direttive della politica estera degli Stati europei
in rapporto alle mutate proporzioni di popolamento e di potenza militare e finanziaria
degli Stati americani” (Cfr. la lettera inviata dal Presidente dell’Accademia di Padova a
Gioacchino Volpe, datata  luglio , in Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce
Convegno Volta, cit.). Il Reale Istituto Veneto propose, invece, di sottolineare gli aspetti
unitari della civiltà europea nella loro formazione storica (cfr. lettera del Presidente dell’Istituto a Gioacchino Volpe, datata  giugno , ivi). In effetti tale proposta fu accolta
per definire, nella formula “L’Europa come unità. Caratteri specifici della civiltà europea
nella loro formazione storica”, uno dei sottotemi illustrati nell’“Indirizzo”.
. Cfr. Verbale dell’adunanza della classe delle scienze morali e storiche.  novembre
, in Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Verbali adunanze, cit.
. Pasquale Jannaccone (Napoli -Torino ), economista, pur riallacciandosi
ai classici e risentendo delle correnti moderne della scienza economica, elaborò una linea
di pensiero che può considerarsi “indipendente”. Insegnò nelle università di Cagliari,
Siena, Padova e Torino. Dal  al  fu Segretario generale dell’Istituto Internazionale
di Agricoltura; nel  fu nominato accademico d’Italia e successivamente dei Lincei; dal
 divenne senatore a vita. Diresse la V serie della Biblioteca dell’economista (-) e
nel  divenne vicepresidente dell’Enciclopedia italiana dell’Istituto Treccani. Cfr. voce
Jannaccone Pasquale, in “Lessico Universale Italiano”, Istituto dell’Enciclopedia italiana
G. Treccani, Roma , vol. X.
. Jannaccone rimase anche successivamente il più scettico circa gli sviluppi dell’iniziativa. Una sua successiva proposta, “Organizzazione economica dell’Europa”, venne
bocciata quale specificazione sottesa al tema più generale. Cfr. Verbale dell’adunanza della
classe delle scienze morali e storiche.  gennaio , in Archivio della Reale Accademia
d’Italia, voce Verbali adunanze, cit.
. Cfr. Adunanza della classe delle scienze morali e storiche.  novembre , in
“Annuario della Reale Accademia d’Italia -”, cit., p. .
. Ibid.
. Cfr. F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Laterza, Roma-Bari , pp. -.
. Nella prefazione a cura di Ernesto Sestan e Armando Saitta a F. Chabod, Storia
dell’idea d’Europa, cit., p. . Il passo è tratto dall’introduzione alla prima edizione del noto
corso di lezioni sull’idea d’Europa che Chabod tenne a Milano tra il  e il .
. La polemica di Chabod risale infatti al periodo tra il  e il , cioè agli anni in
cui il Neue Ordnung europeo costruito dai nazifascisti si mostrava ancora restio ad accettare

SIMONA GIUSTIBELLI
la propria sconfitta: chiaramente offrire una panoramica sulla coscienza che dell’Europa
aveva avuto il passato, secondo le finalità del corso milanese, suonava come una radicale
contrapposizione a quel tentativo.
. Cfr. Verbale dell’adunanza della classe delle scienze morali e storiche.  gennaio
, in Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Verbali adunanze, cit.
. G. Marconi, Prefazione, in Atti, cit., p. .
. In Tema: L’Europa, in Atti, cit., p. .
. «S. E. Bonfante osserva che il problema del convegno è essenzialmente europeo.
Agli stranieri esso è indifferente. Quali consigli potrebbero darci? Ne avrebbero la competenza? È il caso di domandarne loro? La salvezza dell’Europa non può interessare che
noi. Solo l’Europa può discutere i suoi guai. Nessun extra-europeo ci aiuterà a salvare la
civiltà europea. Il problema europeo gli Americani non lo sentono. L’Europa ha perso il
suo primato. Ciò non interessa i non europei, anzi!». Cfr. Verbale dell’adunanza della classe
delle scienze morali e storiche.  gennaio , in Archivio della Reale Accademia d’Italia,
voce Verbali adunanze, cit. Pietro Bonfante (Poggio Mirteto, Rieti -Roma ) fece
studi giuridici all’università di Roma dove si laureò nel  sotto la guida di Scialoja con
una tesi sul diritto romano. Gli si aprirono presto in questo campo le porte della carriera
accademica: insegnò a Camerino, Macerata, Messina, Parma, Pavia e Roma. La sua attività
scientifica andò di pari passo all’insegnamento universitario. Il riconoscimento attribuito
alla sua opera, in Italia e all’estero, è attestato dai tre volumi di Studi che vennero raccolti
in occasione del suo quarantesimo anno di insegnamento. Ebbe la laurea honoris causa a
Parigi, Varsavia, Vienna. Nel  fu nominato membro dell’Accademia d’Italia. Nazionalista, come testimoniato da alcuni suoi scritti, non ebbe nella vita pubblica una parte di
qualche rilievo diversa da quella dell’uomo di studi, né mai vi aspirò. Cfr. voce Bonfante
Pietro, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana G.
Treccani, Roma , vol. XII.
. Cfr. Verbale dell’adunanza della classe delle scienze morali e storiche.  aprile ,
in Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Verbali adunanze, cit.
. Alberto De Stefani (Verona -Roma ), laureatosi in giurisprudenza all’università di Padova, si avvicinò alla politica intorno al  collaborando con il periodico
vicentino “L’Intesa liberale”, giornale del nazionalismo dissidente. Questa esperienza segnò
i tratti di un approccio tutto particolare al pensiero e al movimento nazionalista, in netta
polemica contro lo statalismo integristico e protezionistico di Alfredo Rocco. Prese parte
alla prima guerra mondiale e poi aderì al fascismo, partecipando alle azioni squadriste di
Fiume, Genova e Trento. Presentatosi alle elezioni politiche del  nel collegio elettorale
di Verona-Venezia, risultò l’unico eletto in tutto il territorio nazionale di una lista esclusivamente fascista e, di lì, si affermò quale figura di primissimo piano del partito. Nel primo
governo Mussolini fu chiamato alla guida del ministero delle Finanze, legando il proprio
nome all’obiettivo prestigioso del pareggio del bilancio. Le preoccupazioni suscitate negli ambienti economici dalla sua linea economica rigidamente liberista, unitamente alla
situazione congiunturale, ne determinarono presto l’allontanamento dal dicastero. Non
cessò, però, il suo impegno politico e la sua attività pubblica: insegnò in diverse prestigiose
università italiane fino a essere nominato preside della neonata facoltà di scienze politiche a
Roma (); fu nominato membro dell’Accademia d’Italia e ne assunse la vicepresidenza nel
; collaborò in qualità di notista economico con il “Corriere della Sera”. Nel frattempo,
sotto i colpi della crisi economica, egli veniva gradualmente maturando un ripensamento
dell’iniziale vocazione liberista nonché dell’adesione al fascismo: in questo senso il voto
favorevole dato all’ordine del giorno Grandi, nella seduta del Gran Consiglio del  luglio
, non fu altro che l’atto conclusivo di una crisi cominciata da tempo. Condannato per
tradimento dalla Repubblica Sociale, fu assolto dall’Italia repubblicana e riabilitato all’insegnamento universitario nel . Ritiratosi dalla vita politica attiva, fu ancora ascoltato
quale consigliere economico dal nuovo personale politico democristiano. Cfr. voce De
Stefani Alberto, in “Dizionario Biografico degli Italiani”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
G. Treccani, Roma , vol. XXXIX.
. Cfr. la lettera di De Stefani a Chiavolini, segretario particolare del duce, datata
 aprile , in Archivio di Stato, Segreteria Particolare del duce, voce Roma, Congresso
Volta, fasc. .. Si noti in modo particolare il rimando alla precedente dimostrazione
di gradimento data dal duce circa il tema del convegno: «Caro Chiavolini, per incarico
della Classe delle Scienze Morali della R. Accademia d’Italia, mi onoro di chiedere udienza, per me e per S. E. Coppola, per avere alcune direttive sul convegno che la stessa R.
Accademia, in esecuzione degli statuti della Fondazione Alessandro Volta, dovrà tenere
nel prossimo autunno in Roma dedicato al tema, già deliberato e gradito al Capo del
Governo: L’Europa».
. Cfr. Verbale dell’adunanza della classe delle scienze morali e storiche.  maggio
, in Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Verbali adunanze, cit.
. Vittorio Scialoja (Torino -Roma ), giurista e uomo politico, figlio di Antonio
Scialoja, grande romanista e professore in diverse università, presiedette la commissione
Reale per la riforma dei codici di diritto privato e altre varie commissioni legislative. Fu
ministro di Grazia e Giustizia; rappresentò l’Italia in numerosi congressi internazionali e
fu membro della Società delle Nazioni. Inoltre, inviato quale plenipotenziario del governo
italiano alla conferenza di Versailles, distinguendosi per il suo fermo atteggiamento, evitò
all’Italia la perdita di Zara e delle isole del Quarnaro. Cfr. voce Scialoja Vittorio, in “ Lessico
Universale Italiano”, Istituto dell’Enciclopedia italiana G. Treccani, Roma , vol. XX.
. Cfr. la lettera di Marconi a Mussolini datata  giugno , in Archivio di Stato,
Segreteria Particolare del duce, voce Reale Accademia d’Italia, cit. «Oggetto: esprime
la riconoscenza della R. Accademia d’Italia per aver voluto S. E. il Capo del Governo
generosamente venire in aiuto dell’Accademia per le rilevanti spese che incontrerà per il
Convegno Volta che avrà luogo in Roma nel novembre p.v.». Cfr. anche le cronache dei
maggiori quotidiani dell’epoca. In modo particolare cfr. Impressioni sul convegno, in “Il
Messaggero”,  novembre .
. Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, cit., pp. -.
. Secondo Mussolini – spiega De Felice – la crisi europea non era nel sistema, ma
del sistema, legata a quello che egli definiva il fenomeno del supercapitalismo: l’industrializzazione, creando una società materialista, cinica e superficiale, aveva allontanato troppo
l’uomo dalla natura rendendolo sempre più individualista, egoista, asociale. Si trattava in
fin dei conti di una crisi soprattutto morale: solo i popoli credenti, non materialisti, dotati
di un senso collettivo della vita al di sopra dell’egoismo individuale, erano in grado di
mostrare la via verso la civiltà nuova e a loro, pertanto, apparteneva il futuro. Negli anni
a venire il duce giunse a una più sistematica formulazione ideologica di questi concetti,
pensando addirittura di meglio definirli in un libro, Europa , di fatto mai scritto. In
esso avrebbe dovuto delineare i tratti della «nuova civiltà» che a suo dire stava per affermarsi in Occidente: di lì a pochi decenni, secondo la sua visione, i popoli che avrebbero
dominato il mondo sarebbero stati il tedesco, l’italiano, il russo e il giapponese. Le uniche
due testimonianze dirette su tale progetto, secondo quanto riportato da De Felice, furono
quelle di Galeazzo Ciano e Nino D’Aroma. «Il Duce si è scagliato contro l’America, paese
di negri e di ebrei, elemento disgregatore della civiltà. Vuole scrivere un libro: l’Europa nel
. Le razze che giocheranno un ruolo importante saranno gli italiani, i tedeschi, i russi
e i giapponesi. Gli altri popoli saranno distrutti dall’acido della corruzione giudaica. Rifiutano persino di far figli perché ciò costa dolore. Non sanno che il dolore è il solo elemento
creativo nella vita dei popoli. Ed anche in quella degli uomini» (G. Ciano, Diario -,
Rizzoli, Milano , p. ). «Una rivista inglese è uscita recando la notizia che Mussolini
sta per pubblicare un libro razziale e demografico, dal titolo Europa . Alla fine di un
rapporto, poiché mostra di volersi intrattenere, domando sulla veridicità dell’annuncio.
Calmo e ironico risponde: “È verissimo: non so come sia trapelata la notizia, ma deve
essere arrivata a Londra via Palazzo Chigi. Bisognerà che un giorno o l’altro vada con una
ramazza a Piazza Colonna per sbarazzare quel palazzo di certa immondizia filo-britannica

SIMONA GIUSTIBELLI
che Galeazzo protegge. Scriverò sì, questo libro ma per dimostrare che nell’anno  i
popoli che domineranno il mondo saranno solo tedeschi, italiani, russi e giapponesi”» (N.
D’Aroma, Mussolini segreto, Bologna , p. ), cit. da De Felice, Mussolini il duce. Lo
stato totalitario -, Einaudi, Torino , pp. -.
. Cfr. G. Giordano, Storia della politica internazionale -, FrancoAngeli,
Milano , pp. -. Questo patto, anche detto Patto Mussolini, non divenne mai
operativo sia perché Francia e Germania alla fine non lo ratificarono, sia perché fu ben
presto superato dagli avvenimenti.
. Cfr. D. Cofrancesco, Il mito europeo nel fascismo, in “Storia Contemporanea”,
febbraio .
. Ivi, p. . Le virgolette sono di E. Porcario, nella recensione del volume di C. Morandi, La critica di Versailles, Milano , su “Bibliografia fascista”, , n. .
. G. Marconi, Prefazione, in Atti, cit., p. .
. Cfr. al riguardo sui giornali dell’epoca le dichiarazioni fatte dai congressisti in merito
alla mostra. Ad esprimere la propria ammirazione fu, tra gli altri, un rappresentante inglese,
Charles Petrie, dottore all’Università di Oxford, che vi vide una chiara attestazione della
passione riversa da tutto il popolo italiano negli eventi rivoluzionari (cfr. Impressioni sul
Convegno, in “Il Messaggero”,  novembre ). Circa l’accoglienza degli ospiti e la cura
estrema usata in ogni particolare dell’allestimento del convegno cfr. le numerose lettere
di ringraziamento e di ammirazione ricevute dall’Accademia alla fine dei lavori. Si tenga
presente che essa sostenne a proprio carico tutte le spese per i viaggi, l’alloggio e gli spostamenti dei partecipanti, ospitandoli nel lussuoso Hotel Excelsior di Roma. Cfr. Archivio
della Reale Accademia d’Italia, voce Convegno Volta , tit. VIII, fasc. , b. .
. Cfr. F. G. Cabalzar, L’Europa alla scoperta del fascismo, in “Antieuropa”, novembre
.
. Coppola, Il Patto a Quattro, cit., pp. -.
. Particolarmente significativi i casi di Jérôme Carcopino e di Taddeo Zielinski. Il
primo intervenne sul tema Empire romain et Europe e aprì il suo discorso sottolineando
la bontà dell’insegnamento che dalla storia romana poteva trarsi sul futuro dell’Europa:
«L’histoire de l’Empire romain, la plus belle des créations politiques dont les hommes
aient jamais bénéficié, est riche d’enseignements sur l’avenir européen». Cfr. J. Carcopino,
Empire romain et Europe, in Atti, cit., pp. -. Il secondo, invece, sottolineò il fondamento essenzialmente latino della civiltà europea. Cfr. T. Zielinski, Il genio latino e il suo
contributo alla formazione intellettuale dell’Europa, in Atti, cit., pp. -.
. Al riguardo è interessante sottolineare la precisazione di Cofrancesco circa la
capacità d’attrazione del mito di Roma su intellettuali e opinione pubblica: «È indubbia
la carica di aggressività e di militarismo che stava dietro alle celebrazioni mussoliniane
della romanità, ma è altrettanto doveroso osservare che la presa del mito di Roma sugli
intellettuali e sulle masse era dovuta soprattutto alla sua rilevata ambiguità. In altre parole
Mussolini offriva al seguito il modello della Roma di Scipione e di Cesare e non pochi seguaci vi aderivano volentieri, ritenendolo quello di Augusto e dell’impero». D. Cofrancesco,
Appunti per un’analisi del mito romano nell’ideologia fascista, in “Storia contemporanea”,
, p. . Sul mito di Roma nell’ideologia fascista cfr. anche A. Giardina, A. Vauchez,
Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Laterza, Roma-Bari .
. Alfred Rosenberg (Reval, Estonia -Norimberga ), appartenente a una
famiglia tedesca residente nel territorio baltico sotto la giurisdizione della Russia zarista,
dopo il conseguimento della laurea in architettura al politecnico di Riga, si stabilì in Germania nel . Qui aderì al nazismo (nel  fu luogotenente di Hitler nel tentato putsch
di Monaco) di cui divenne il massimo ideologo esponendo la «dottrina della razza» in Der
Mythus des . Jahrhunderts (). In questa opera egli esprimeva la convinzione che la
fede nel sangue dovesse ispirare tutta la vita dell’uomo, la grande politica come la cultura,
la scienza come la pratica. Attaccava inoltre aspramente il cristianesimo quale prodotto
della razza semitica antitetico alla concezione guerriera della vita della fiera razza nordica.

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
Lo scritto fu ufficialmente condannato dalla Chiesa di Roma nel . Direttore della rivista
“Nationalsozialistische Monatschefte” e deputato al Reichstag dal , come politico
non esercitò molta influenza dopo l’avvento al potere di Hitler. Fu a capo della sezione
affari esteri del partito dal  e durante la guerra fu nominato ministro per i Territori
orientali occupati (-). In questi paesi patrocinò una dura politica di germanizzazione,
accompagnandola all’istituzione del lavoro obbligatorio e a violente persecuzioni contro
gli ebrei. Rimase di fatto in subordine rispetto all’autorità delle SS e di H. Himmler sulla
politica da adottare nei confronti delle popolazioni assoggettate. Ciò non valse, comunque,
a risparmiargli la condanna a morte come criminale di guerra, in seguito alle atrocità commesse contro i civili, da parte del Tribunale Internazionale di Norimberga. Fu giustiziato
per impiccagione la notte del  ottobre . Cfr. voce Rosenberg Alfred, in “Enciclopedia
italiana di scienze lettere ed arti”, Istituto G. Treccani, Milano , vol. XXX.
. Su questo tema, per ovvie ragioni di spazio, non si può far altro che suggerire un
ulteriore approfondimento attraverso la lettura degli atti di un secondo convegno sull’Europa voluto dal fascismo a dieci anni di distanza dal primo, il primo Convegno Nazionale dei
Gruppi Scientifici, promosso a Roma dal  al  novembre del  dall’Istituto Nazionale
di Cultura Fascista. Cfr. Archivio della Fondazione Ugo Spirito, Istituto Nazionale di
Cultura Fascista, Primo Convegno Nazionale dei Gruppi Scientifici, Roma, - novembre
, XXI, Il tema “L’idea d’Europa” (Resoconto stenografico). Bozze di stampa riservate per
i collaboratori dell’INCF, s. ed., Roma . La stessa Fondazione Ugo Spirito ha curato nel
 la prima edizione a stampa degli Atti. Cfr. inoltre gli scritti di Gisella Longo e Guido
Melis: G. Longo, Il primo convegno nazionale dei gruppi scientifici dell’Istituto nazionale di
cultura fascista sull’Idea d’Europa (- novembre ). Le relazioni di Camillo Pellizzi e
di Gaetano Pietra e l’intervento di Ugo Spirito, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”,
Roma  e G. Melis, Introduzione a Il primo convegno nazionale dei gruppi scientifici
dell’I.N.C.F. su “Il piano economico (novembre )”, ibid.
. Cfr. Cofrancesco, Il mito europeo del fascismo, cit., pp. -.
. Cfr. Archivio storico-diplomatico del ministero degli Esteri, voci Ambasciata a
Berlino, b. ; Ambasciata a Londra, b. ; Ambasciata a Parigi, bb. -. Cfr. in modo
particolare il testo del telegramma citato, indirizzato a tutte le ambasciate e legazioni in
Europa: «Come risulta dal Comunicato De Stefani che accludo, l’Accademia d’Italia,
convoca per il novembre prossimo venturo un convegno della Fondazione Volta, destinato a discutere un ordine del giorno con temi molto interessanti. Ora, gli organizzatori
desiderano avere una lista di nomi da invitare prescelti tra le personalità politiche e accademiche, che di tali problemi si occupano. Prego quindi V. E. (V. S.) di mandare, dopo
attenta considerazione, tali liste di personaggi ai quali poi l’Accademia d’Italia manderà
apposito invito. Aggiungo che la Fondazione Volta paga il viaggio e il soggiorno a Roma
di quanti parteciperanno al convegno. Mussolini».
. Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso -, cit., pp.  ss.
. Il convegno fu promosso dall’Associazione Internazionale di Storia Contemporanea dell’Europa e si svolse a Ginevra dal  al  settembre del . Gli atti sono confluiti
nel testo a cura di Fleury, Jílek, Le Plan Briand d’Union fédérale européenne, cit.
. M. Petricioli, Dino Grandi et la réponse italienne, in Fleury, Jílek (éds.), Le Plan
Briand d’Union fédérale européenne, cit., p. .
. P. Nello, Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi al  luglio,
Bologna , p. .
. «La strategia grandiana – come del resto quella mussoliniana, al di là di qualche
scatto d’umore, dettato da stati d’animo particolari – si fondava anche sulla convinzione
preliminare di avere a disposizione un lungo periodo di tempo, cioè almeno l’intervallo
di un’intera generazione (se non addirittura trenta-quaranta anni), per il conseguimento
degli obiettivi italiani, prima dello scoppio di una nuova guerra generale europea». Ivi,
p. . «Grandi era convinto, come un po’ tutti i camerati, che un conflitto franco-tedesco
sarebbe con ogni probabilità scoppiato in Europa nell’epoca della generazione successiva

SIMONA GIUSTIBELLI
e che l’Italia non avrebbe potuto esimersi dal prendervi parte, dovendosi anzi preparare
ad esso con l’intera politica del regime». Ivi, p. .
. «L’Italia mussoliniana, superando antitesi ideologiche e politiche, per recuperarne
il contributo alla collaborazione internazionale nel quadro della Società delle Nazioni, si
mostrò la più tenace propugnatrice, fra le nazioni occidentali d’Europa, della necessità
di far uscire l’Unione Sovietica dall’isolamento». Minardi, Origini e vicende del progetto
di unione europea di Briand, cit., p. .
. Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso -, cit., pp.  ss.
. Nessuno di questi, pur mostrando di approvare l’iniziativa, si trovò nella situazione di poter accettare l’invito: le risposte inviate all’Accademia d’Italia sono riportate
in Atti, cit., pp. -.
. Cfr. lettera di Marconi a Grandi, datata  agosto , in Archivio storico-diplomatico del ministero degli Esteri, voce Ambasciata a Londra, b. , fasc. , oggetto
Convegno Volta.
. Ivi, lettera di Formichi a Mameli,  ottobre .
. Ivi, lettera di Grandi a Marconi,  gennaio .
. Ivi, lettera di Marconi a Grandi,  gennaio .
. Cfr. P. Nello, Un fedele disubbidiente. Dino Grandi da Palazzo Chigi al  luglio,
cit., p. .
. Cfr. “Manchester Guardian”,  ottobre , cit., ivi.
. Cfr. “Manchester Guardian”,  maggio , cit., ivi, p. , nota .
. «It [the Roman Empire] was a bridge between East and West, and its achievement
consisted not so much in its own independent contribution to culture as in its organization
of the alien elements that it incorporated in a new unity». Come noto, lo studioso inglese
poneva al centro della propria riflessione storica la religione, ritenuta elemento motore
primario della civiltà. Sulla base di questa idea egli individuava nel Medioevo il periodo
più creativo per il mondo occidentale. Fu questa effettivamente l’ispirazione di fondo che
animò i due noti scritti dello storico sulla tematica europea, The Making of Europe e The
Problem of European unity, entrambi usciti nello stesso , oltre che la relazione presentata al convegno Volta. Davanti all’assemblea romana, passando rapidamente dalla caduta
dell’impero romano alle invasioni barbariche e alla cristianità medievale, Dawson avrebbe
infatti affermato: «The conquest of the Empire by the Northern barbarians involved the
conquest or the barbarians by the Church of the Empire, and it was the Church that took
up the Roman heritage of culture and carried on the Roman tradition of organization in
the new age». C. Dawson, The interracial cooperation as a factor in European culture, in
Atti, cit., pp. -.
. Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso -, cit., pp.  ss.
. Cfr. la lettera di Marconi a Orsini Barone, datata  agosto , in Archivio della
Reale Accademia d’Italia, voce Convegno Volta, cit., b. .
. Cfr. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso -, cit., p. .
. Cfr. Verbale dell’adunanza generale.  gennaio , in Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Verbali adunanze, cit. A Marinetti, che tanto energicamente aveva
protestato contro questa decisione, così rispose Volpe: «Volpe spiega come sia stato opportuno non ammettere fra le relazioni quella di Marinetti. Ma sente di dover alleggerire la
responsabilità del sen. Scialoja. Quasi tutta la Commissione organizzatrice del Convegno fu
dello stesso parere di Scialoja, pensando che, quando si invitano stranieri in casa, bisogna
parlare loro con un linguaggio che non urti troppo l’altrui sensibilità».
. Cfr. Curcio, Europa. Storia di un’idea, cit., p. , nota .
. Paolini, Altiero Spinelli, cit., p. .
. Curcio, Europa. Storia di un’idea, cit., p. , nota .
. Cfr. La solenne inaugurazione in Campidoglio del Convegno internazionale “Volta”,
in “Il Meridiano”,  novembre .
. Cfr. V. Scialoja, Seduta inaugurale, in Atti, cit., p. .

L’EUROPA NELLA RIFLESSIONE DEL CONVEGNO DELLA FONDAZIONE VOLTA
. Cfr. Curcio, Europa. Storia di un’idea, cit., p. .
. Ibid.
. Ivi, p. .
. Cfr. F. Orestano, Riassunto generale dei lavori del Congresso (relazioni e discussioni),
in Atti, cit., pp. -.
. Cfr. Curcio, Europa. Storia di un’idea, cit., pp.  ss.
. Ibid.
. G. Hanotaux, Osservazioni, in Atti, cit., p. .
. Coppola, La crisi dell’Europa e la sua “cattiva coscienza”, cit., pp. -.
. G. Caballero, Nueva catolicidad sobre Europa, in Atti, cit., p. -a.
. A. Rosenberg, Krisis und Neugeburt Europas, in Atti, cit., p. .
. F. Weyr, Zur Idee Eines geeinten Europas, in Atti, cit., p. .
. Osservazioni di Coppola all’intervento di A. Rébelliau, L’union européenne et le
rôle des intellectuels, in Atti, cit., p. .
. Curcio, Europa. Storia di un’idea, cit., p. .
. Orestano, Riassunto generale dei lavori del Congresso (relazioni e discussioni),
in Atti, cit., p. .
. Per la rassegna stampa cfr. Archivio della Reale Accademia d’Italia, voce Convegno Volta, cit., b. .
. Cabalzar, L’Europa alla scoperta del Fascismo, cit., p. .
. Cfr. in merito una lettera anonima scritta a Marconi e Volpe in data  marzo :
«A me pare che se fosse stato scelto un tema economico, poiché il travaglio economico è
comune a tutti i popoli d’Europa, si sarebbe potuto destare l’interesse scientifico anche
all’estero senza acuire le diffidenze politiche, pur mettendo il dito sulla piaga. Per esempio
se il tema fosse stato formulato suppergiù in questo modo Esame comparativo della funzione del commercio estero nell’economia dei singoli stati, non si sarebbe usciti dal campo
scientifico e si sarebbe dato luogo a discussioni di alto valore pratico». Cfr. Archivio della
Reale Accademia d’Italia, voce Convegno Volta, cit., b. . Con ogni probabilità si può
ravvisare nell’autore dello scritto quello stesso Jannaccone distintosi durante i lavori di
allestimento per l’asprezza delle critiche mosse alla formulazione eccessivamente politica
del tema del convegno.
. «Sono Atti di fede questi che la Reale Accademia d’Italia diffonde in quest’ora del
destino... Questi atti sono intanto la documentazione di ciò che oggi è lo spirito europeo
distolto per un momento dai problemi più immediati e richiamato dalla voce autorevole
di Roma a guardarsi intorno nel mondo e a ripiegarsi su se stesso. Essi contengono quindi
un esame globale, nel senso etimologico e metaforico della parola, e una introspezione,
quale non fu mai compiuta l’eguale, sino alle più profonde radici della nostra essenza e
della nostra storia». Orestano, Verso la nuova Europa, Bocca, Milano , p. . Il volume
raccoglie una serie di scritti del filosofo sull’Europa, tra cui un articolo apparso nel marzo
del , su “Il popolo d’Italia”, per annunciare la prossima pubblicazione degli atti del
convegno, da cui è tratto il passo.

SIMONA GIUSTIBELLI

Fly UP