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Sulle camicie rosse - Maestri del Lavoro

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Sulle camicie rosse - Maestri del Lavoro
Le camicie rosse garibaldine: antefatti e vicende storiche
Sulle camicie rosse di Garibaldi
tra storia e manifattura
Antonio Mauro e Piero Fiorenzani
Occasione: le manifestazioni dei 150 anni dell’Unità Nazionale; gli autori, tecnologi tessili, si sono chiesti quale fosse stata la storia materiale e simbolica delle camicie rosse
garibaldine. Nell’arco di diversi mesi hanno, pertanto, raccolto vari riferimenti anche
con l’aiuto di amici e colleghi dell’Associazione Italiana di Chimica Tessile e Coloristica.
Questo articolo nasce dal riordino di quanto è stato possibile disporre. E’ stata, così,
tracciata una prima risposta, anche se non ancora del tutto esauriente.
Le indicazioni riportate, per la limitatezza delle fonti, devono, perciò, essere intese
solo come stesura di ipotesi verosimili. Esse dovranno essere confermate o riformulate attraverso ulteriori ricerche di carattere storico militare, spazianti tra l’inizio
dell’Ottocento e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Da sottolineare, poi, come
vari riferimenti provengano da zone che oggi conosciamo come aree tessili. Piace,
allora, immaginare una specie di collegamento, attraverso il tempo, tra queste aree e
le locali sezioni dell’AICTC che hanno contribuito allo sviluppo di questa ricerca avente
carattere propositivo come si dirà a conclusione del presente lavoro.
Fatti e antefatti
della camicia rossa di Garibaldi
Sarà solo dopo le prime battaglie vittoriose dell’Impresa dei Mille che la
camicia rossa garibaldina diventerà
anche simbolo di quanti auspicano
un’Italia unita, indipendente, liberale
e, per molti, repubblicana. In altre
parole, un simbolo rivoluzionario
rispetto ad un sistema di governo
ancorato a regimi monarchici, più o
meno assoluti. Fino ad allora rimase,
a campione
però, un semplice capo di abbigliamento militare le cui origini risalgono
ad alcuni decenni prima, sebbene,
fin dall’inizio, rappresentasse un
simbolo di libertà.
Dopo la dichiarazione dell’indipendenza uruguayana nel 1806, nello
stesso Paese scoppia una guerra
civile che si protrae fin dopo il 1848.
Da una parte i latifondisti conservatori, legati alla monarchia spagnola,
regolarmente al governo sotto il
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generale Oribe; dall’altra i ribelli
progressisti, le cui fortune erano legate ai commerci, insofferenti delle
tassazioni imposte, ritenute eccessive, guidati dal generale Rivera.
L’esercito legittimo, che poi si allea
con l’Argentina del generale Rosas,
indossava una divisa bianca e blu.
Anche i ribelli, data la stessa origine, inizialmente vestivano uguale o
quasi. Per distinguersi adottarono
una casacca rossa. Si ebbero così
l’esercito blancos e quello rojo e due
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partiti politici, dello stesso colore,
tuttora esistenti e che all’epoca,
poiché nessuno dei due riusciva
a prevalere sull’altro, raggiunsero
un’intesa ricordata dalla bandiera
nazionale che unisce i colori delle
due fazioni. La casacca rossa era,
perciò, in quelle terre e in quel periodo sinonimo di indipendenza politica, libertà di commercio, autonomo
sviluppo economico, una specie
di trasposizione della rivoluzione
francese.
Garibaldi, all’epoca mazziniano convinto, già introdotto nella massoneria e in esilio in quelle terre, sentiva
come suoi questi principi. Sorretto
da questi sentimenti, sostenne dal
1836 al 1840, come guerrigliero, la
causa dei ribelli del Rio do Sul, una
regione a cavallo tra Uruguay e Brasile, che aspiravano all’indipendenza
dall’Impero Brasiliano.
Anche in questo caso una leggenda,
che forse esagera qualche cosa di
vero, narra che le casacche rosse
servissero a mimetizzare i ribelli
rispetto al fondo rosso di certe aree
delle pampas. Come in realtà vestisse Garibaldi in quell’epoca non è
definibile, ma certo i poncho rosso,
tipici dei rivoluzionari uruguayani,
non dovevano essere sconosciuti.
Quello che si sa, è che per quasi
tutti quegli anni egli combatté come
corsaro, lungo i fiumi, nelle lagune e
sul mare del Brasile al confine con
l’Uruguay e l’Argentina. Nel 1841,
prevedendo la fine delle ostilità, egli
lascia il Rio do Sul insieme alla compagna Anita, conosciuta due anni
prima, per spostarsi a Montevideo.
Qui, all’inizio, mantiene la famiglia
insegnando e, dal 1842, mettendosi al servizio dei ribelli uruguayani
capeggiati sempre da Ribera che,
ancora, combatteva contro Oribe
ed il suo alleato Rosas. Nello stesso anno sposa Anita cui regala un
medaglione nel quale compare con
la camicia rossa.
Sembrerebbe, secondo alcune
fonti, che ad ispirare il modello
della camicia rossa di Garibaldi sia
stato il pittore mazziniano Gaetano
Gallino, anch’egli esule in Sud Ame-
a campione
rica. Il pittore ebbe diversi contatti
con lo stesso a partire dal 1841. Di
quell’anno si ritiene sia un ritratto
dell’Eroe, custodito al Museo del Risorgimento di Genova, cui seguirono
altri negli anni successivi. Del 1845 è
un ritratto di Anita nel quale compare
con il sopra citato medaglione.
Una certa novellistica, diffusa dai
biografi mazziniani a scopo propagandistico tra i fautori di un cambiamento in senso liberale, fa risalire,
si potrebbe dire, la nascita ufficiale
della camicia rossa proprio al 1842
in Montevideo. Essa costituiva l’uniforme della Legione Italiana, formazione di circa 500 volontari, capeggiata da Garibaldi, che si distinse nei
combattimenti per l’indipendenza di
quella Nazione contro Oribe ed il suo
alleato, il dittatore argentino Rosas.
La fornitura, almeno quella iniziale,
di queste camicie deriva, sempre
secondo le biografie dell’epoca, da
una particolare occasione di acquisto a basso prezzo. Si trattava di
una fornitura uruguayana che non
poteva essere consegnata ai macellai argentini che le avevano ordinate,
causa la guerra in corso.
Per quanto finora detto, non dovrebbe stupire se, combattendo per
la difesa di Montevideo, la camicia
rossa fosse presa a simbolo di libertà; che tutta la Legione vestisse
secondo un modello di divisa probabilmente ispirata dal Gallino; che,
per un colpo di fortuna, fossero disponibili in primo approntamento le
camicie rosse destinate ai macellai
argentini.
Va e vieni delle camicie rosse
durante le vicende del 1848 - 49
Quando dall’Italia arriva, nel 1848,
la notizia delle sollevazioni e della
relativa guerra all’Austria, Garibaldi
si imbarca con 63 uomini della sua
Legione alla volta di Genova. Quegli
uomini indossavano, quasi tutti, la
camicia rossa diventata simbolo,
in Sud America, di combattenti per
la libertà. Ma, nonostante gli entusiasmi e la curiosità con cui furono
accolti, Garibaldi ebbe difficoltà a
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farsi accettare come soldato insieme
ai suoi uomini, tanto più che quelle
divise rosse, fuori ordinanza e simbolo rivoluzionario, non risultavano
gradite al re e all’entourage militare
dell’esercito piemontese.
Garibaldi, che già prima di partire
dall’America aveva avanzata la
proposta, non accettata, di mettersi
a disposizione di Pio IX, all’arrivo
riceve analogo rifiuto da parte di
Carlo Alberto; perciò va a combattere sul Lago Maggiore per conto
del governo provvisorio milanese.
Non potendosi approvvigionare di
camicie rosse, fa indossare ai suoi
uomini quelle bianche, sottratte dai
casermaggi austriaci.
In zona le vicende militari si concludono in breve tempo per l’armistizio
raggiunto fra il re e Radeztky. Ma,
nel frattempo, Roma cade in mano
agli insorti; il papa è costretto a
fuggire ed il potere passa in mano
al famoso triumvirato di Armellini,
Saffi e Mazzini. Così, Garibaldi, il
24 ottobre giunge a Livorno con 72
uomini cui si aggiungono anche i
40 Lancieri comandati da Angelo
Masini, su cui si tornerà nella parte
finale di questo lavoro. Forte, poi,
dell’arrivo anche di volontari lombardi, desiderosi di combattere alla
difesa di Roma, passa il confine con
lo Stato Pontificio. Attraverso la Romagna e le Marche, giunge a Rieti
dove si fermerà settanta giorni per
organizzare i volontari diventati, nel
frattempo, oltre un migliaio. Questo
corpo militare verrà inglobato come
truppa regolare dalla Repubblica
Romana e si chiamerà “Legione Italiana”. Ma le camicie rosse potranno
essere indossate solo alla fine di
quell’avventura romana. Le uniformi
indossate dai Volontari si richiamano ad un modello classico alla
piemontese, costituito da tuniche di
colore “turchino oscuro”, cioè grigio
azzurro, con fregi verdi, pantaloni e
giubba grigio nero. Lo zaino, nero e
arrotolato sui tiranti, veniva portato
su un cappotto grigio che, all’occorrenza, faceva da coperta. Avevano
un costo di 6,50 scudi per la fanteria
e 7 per la cavalleria.
La relativa confezione, iniziata già a
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Macerata, fu completata a Rieti da
150 sarti ospitati presso il Palazzo
Colelli dove Garibaldi aveva posto
il suo Quartiere Generale.
I Lancieri, che avevano cavalli propri e che provenivano da famiglie
abbienti, modificarono le uniformi
con abbellimenti estemporanei secondo i propri gusti. Gli ufficiali, poi,
si distinguevano per la sciabola e a
volte per un fazzoletto rosso portato
al collo. Solo la “Famiglia Militare”,
cioè lo stato maggiore di Garibaldi, compreso lo stesso Generale,
portava invece la tunica rossa dei
tempi di Montevideo, compreso il
“lazo”, una lunga frusta di bufalo
usata abilmente nei combattimenti
ravvicinati.
Il 24 Aprile 1849 il generale francese
Oudinot, sbarcato a Civitavecchia
con 6.000 soldati e artiglierie, si
mette subito in marcia verso Roma.
Il 30 fu ingaggiata una prima battaglia, ma i difensori di Roma ebbero
la meglio.
La Legione Italiana, sotto la guida
di Garibaldi, attaccò alla baionetta
i francesi respingendoli fino, di nuovo, a Civitavecchia. Nel frattempo
anche il re di Napoli era entrato
nello Stato Pontificio occupando
le zone di confine. Garibaldi, la sua
Legione e i bersaglieri lombardi di
Luciano Manara li intercettarono a
Palestrina il 9 maggio. In appena
2.400 uomini fermarono i circa
10.000 napoletani penetrando anche in territorio nemico.
Per l’onore raggiunto con queste
due operazioni, i Garibaldini furono
riconosciuti come la truppa di élite e
il Generale chiese al governo ed ottenne di cambiare le divise dei suoi
soldati con la camicia rossa della
Legione Italiana di Montevideo.
Il Loevinson, che pubblica nel 19021904 una monografia su “Giuseppe
Garibaldi e la sua Legione nello
Stato Romano 1848-49” per conto
della Società Dantesca di Firenze,
spiega che il prestigio della camicia rossa in quel momento è al
massimo.
In proposito, cita il caso di Gabriele
Laviron, ufficiale della Legione Stra-
a campione
niera, che cambia la propria uniforme con quella rossa spiegando che
a Roma era salutato con stima solo
chi portava l’uniforme degli uomini
di Garibaldi.
Ma, sempre lo stesso autore, spiega che quelle camicie non furono
pronte che a guerra quasi finita.
Il cambio della divisa con la camicia
rossa fu effettuato nella mattina del
28 Giugno 1849, altra giornata di
battaglia contro le truppe francesi
che, ormai, entro pochissimi giorni
avrebbero riconquistato la città da
cui, poi, la fine della Repubblica
Romana.
Garibaldi, forte delle risoluzioni
repubblicane e dei pieni poteri
concessigli dalla Commissione Costituente, mentre non sottoscrive
la resa della Città decide anche di
proseguire la lotta altrove. Così il 2
Luglio, Garibaldi ed i suoi quattromila uomini abbandonano la Città
pensando di raggiungere Venezia
insorta, attraverso S. Marino.
Sarà la tragica e gloriosa marcia per
sfuggire agli austriaci che porterà
alla morte, fra gli altri, della moglie
Anita e dei fidi compagni di tante
battaglie, Brunetti e padre Ugo Bassi. Garibaldi si salverà in extremis,
dopo lunghe peregrinazioni e grazie
all’aiuto fornito da una catena di
patrioti, prima emiliani e poi toscani,
che riusciranno ad imbarcarlo a Follonica per Nizza da cui, poi, partirà
per New York. Dovranno passare
altri undici anni prima che la camicia
rossa rispunti nuovamente e questa
volta in modo trionfante, ma con un
preambolo, ancora, di giacca grigio
azzurra tipica della divisa piemontese.
Le camicie rosse durante la II
Guerra d’Indipendenza e l’Impresa dei Mille
Il Generale, considerando esaurito il
modello di rivoluzione mazziniana, si
accosterà al Regno del Piemonte e
facendo di necessità virtù, accetterà
di guidare i volontari sotto l’egida
del re Vittorio Emanuele II. Sarà il
caso dei Cacciatori delle Alpi del
7
1859. Questo corpo viene inglobato nell’esercito regolare sardo con
istruttori presi fra i vecchi sottufficiali
piemontesi ancora in servizio. Le
uniformi sono grigie come quelle
dell’esercito regolare. Di camicie
rosse non se ne parla.
Garibaldi ha il compito di difendere la piazza di Ivrea da eventuali
attacchi austriaci. Per questo, inseguendo il nemico, entra in Biella,
accolto festosamente, con i suoi
3.500 volontari. Qui si ferma alcuni
giorni, il tempo per acquisire viveri
ed ordinare scarpe per i suoi uomini
ai calzolai locali. I suoi attendenti
rilasciano ricevute che poi saranno
pagate dal Ministero della Guerra
di Torino. In questo modo, anche
i volontari garibaldini portano un
po’ di sollievo economico a diverse
imprese artigianali locali. Maurizio
Sella, invece, come ha riferito lo
studioso biellese Diego Presa in
una conferenza del 2007, presenterà
un’offerta per una fornitura di divise
alla piemontese, ma anche richiederà un pagamento per contanti.
Tutto sembra procedere secondo
i piani militari, ma, come è noto,
l’armistizio di Villafranca ferma la
II Guerra di Indipendenza e di lì a
poco l’Eroe sarà fatto comandante
delle truppe degli stati che si erano
annessi al Piemonte, Gran Ducato
di Toscana e Ducati di Parma e
Modena.
Garibaldi riterrà sempre legittimati, anzi doverosi e consequenziali
all’esperienza della Repubblica
Romana del 1848, tutti i suoi tentativi per liberare Roma. Molto più
pragmatico di Mazzini e dei suoi
rivoluzionari, quale Pisacane, sa
aspettare le giuste condizioni resistendo all’impulso di passare il
confine a Cattolica. Così dà ordine
ai suoi di ricercare nel contempo
armi ed equipaggiamenti, mentre
egli cura i contatti fra i mazziniani
e i vecchi compagni dei Cacciatori
delle Alpi. Il governo piemontese
guidato da Cavour, che non vuole
inimicarsi Napoleone III, lo fa arrestare e confinare a Caprera.
Proprio nei giorni di Biella, Garibaldi
approfitta per stringere accordi di
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forniture militari con altri imprenditori biellesi. I tempi stavano maturando verso quella che entro un
anno sarebbe diventata l’avventura
dei Mille. Così, nello specifico, sono
stretti accordi con i fratelli Antongini, gli industriali proprietari della
Manifattura Lane Borgosesia e con
i fratelli Galoppo, altri lanieri. I primi
finanzieranno, sempre secondo le
ricerche di Presa, una delle navi
di trasporto dei garibaldini in Sicilia contro l’esclusiva del “rosso
Garibaldi” delle future forniture; i
secondi forniranno la stoffa per la
confezione di 200 camicie rosse.
Già da due anni operava, alla luce
del sole in Piemonte e in modo
clandestino in altre parti d’Italia, la
Società Nazionale Italiana. Nata a
Torino per iniziativa di Daniele Manin, presidente, poi sostituito dopo
la sua morte da Giorgio Pallavicino
Trivulzio, e di Giuseppe La Farina,
segretario. Giuseppe Garibaldi ne
fu presidente onorario. Già all’epoca
si diceva che il vero ispiratore fosse,
però, il conte Cavour. Questa società
ebbe larga diffusione soprattutto tra i
liberali delusi dai risultati ottenuti da
Mazzini e fu attiva fino al raggiungimento dell’unità nazionale nel 1862.
Tra le varie iniziative, sostenne la
campagna lanciata da Garibaldi per
l’acquisto di “un milione di fucili”.
Si gettano, in questo modo, le basi
per le forniture necessarie ad un’impresa di quel genere e cioè armi,
munizioni e divise. Così, gli accordi,
almeno per quanto riguarda le stoffe,
non sono solo con Biella, ma anche
con Bergamo che, anzi, sarà la prima
a vestire di rosso una parte dei primi
1.089 garibaldini. Viceversa, per
quanto noto al momento della stesura di queste note, altre zone, come
Busto Arsizio e Prato parteciperanno
inizialmente solo con contributi in
denaro e volontari.
Ai primi del 1860, Garibaldi, sfuggendo alla sorveglianza cui è sottoposto, ricompare a Genova. E’
indignato per la cessione di Nizza
alla Francia e sempre più coinvolto
in un’impresa che pare disperata: la
a campione
liberazione di Roma partendo dalla
Sicilia, allora pervasa da dimostrazioni e moti di ribellione. Siamo
all’impresa dei Mille che, dopo i primi scontri vittoriosi contro le truppe
borboniche, consacrerà l’indissolubilità del binomio Garibaldi-Camicie
Rosse.
Dai libri della giornalista inglese Jessie White Mario, sempre presente
dal 1860 nell’entourage del Generale come organizzatrice dei servizi
sanitari, ricaviamo il modo con cui
lo stesso Generale si approvvigionava nelle varie campagne. Egli si
affidava, di volta in volta, ad amici
fidatissimi che avevano carta bianca sia nella ricerca di finanziamenti
che di materiali ed armi. Nel 1860,
alla vigilia dell’impressa dei Mille,
si affida anche a Francesco Nullo
di Bergamo. Questi era un patriota
della prima ora, già sulle barricate
delle Cinque Giornate di Milano e
poi Cacciatore delle Alpi. Di famiglia
agiata, operava nel campo dei tessuti essendo comproprietario con i
fratelli di un lanificio. Nullo si sentiva
tradito da Napoleone III e dai Savoia che, con la pace di Villafranca,
avevano lasciata incompiuta l’unità
italiana. Per riaffermare il vecchio
spirito repubblicano pensò, si presume in pieno accordo col Generale,
di munire i volontari bergamaschi di
uniformi comprendenti la camicia
rossa quale legame ideale con la
Repubblica Romana e come auspicio per la liberazione della Città
stessa.
Non si sa bene se lui direttamente
o un certo Giovanni Fiori, altro bergamasco commerciante di tessuti
che abitava a Milano, procurarono
le stoffe gregge e le fecero tingere
in rosso scarlatto. Comunque sia, la
follatura e la tintura furono condotte
in opifici della Val Gandino, in particolare nella “Tintoria di Prat Serval”,
particolarmente rinomata per il suo
scarlatto. Le camicie furono confezionate in parte a Bergamo, nella
sartoria di Celestina Belotti, che di
Nullo era la fidanzata e in parte a
Milano in un atelier provvisoriamente
installato nel palazzo della signora
Laura Solera Mantegazza, notissima
8
patriota milanese, impegnata da
anni nella causa dell’indipendenza
italiana. Purtroppo, per la ristrettezza dei tempi, furono consegnate in
tempo utile ed indossate dai volontari bergamaschi poco meno di 200
camicie rosse.
La successiva evoluzione degli
avvenimenti e la definitiva consacrazione della camicia rossa quale
simbolo dell’epopea garibaldina si
desume dalle cronache della spedizione. Stralciamo tre momenti
significativi dal libro “I Mille”, del
volontario gavorranese Giuseppe
Bandi, poi residente a Livorno dove
fonderà il giornale “Il Telegrafo” e
che sarà ucciso da un attentato
anarchico. Egli si trovò ad essere
un osservatore privilegiato facendo
parte della cosiddetta “Famiglia
Militare” di Garibaldi.
La prima volta che il Bandi ne parla
è a Talamone. Nel piccolo porto i
volontari sono scesi a terra e sono
schierati davanti alle navi Piemonte
e Lombardo in attesa di risalire a
bordo. Il Bandi annota come siano
presenti i più svariati tipi di abbigliamento.
Egli stesso, venuto via in fretta e
furia dal reggimento dove prestava
servizio ad Alessandria, è in divisa
da ufficiale dell’esercito piemontese.
Molti sono studenti di buona famiglia, vestiti come per un viaggio in
campagna; altri hanno gli abiti che
portano tutti i giorni, come il Sirtori
che ha uno “spronchete” nero o il
Crispi che ha una logora marsina;
artigiani ed operai indossano, invece, i loro abiti da lavoro. Fra tutti, si
nota la macchia rossa dei volontari
bergamaschi.
Proprio in questa tenuta sgargiante
essi si presentano a Marsala e poi
a Calatafimi dove sono inizialmente scambiati dal colonnello Riario
Sforza, comandante della squadra
di ricognizione borbonica, per insorti siciliani e attaccati a sassate
al grido: “Mò venimme lazzaroni e
fetentoni”. A Calatafimi, il Bandi viene ferito e rimane in convalescenza
circa un mese a Vita, piccolo paese
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limitrofo.
Nel frattempo Garibaldi entra a
Palermo. Il Bandi approfitta del
passaggio di una piccola colonna
di volontari, comandati da Carmelo
Agnetta, per aggregarsi e raggiungere, anche lui, Palermo.
Egli aveva perso la sua divisa di ufficiale perché tagliata dai chirurghi ed
era stato rivestito alla meno peggio
con i panni di un mugnaio. Garibaldi
lo riprende con sé, ma lo manda anche con il Bovi, che è l’intendente,
a rivestirsi. A quel momento, però,
le divise garibaldine non fanno più
difetto.
Infatti, visti i primi successi militari
in terra di Sicilia, Cavour decide di
sostenere Garibaldi per permettergli la conquista del Regno delle
due Sicilie, ma di non consentirgli
di procedere oltre Napoli, da cui il
famoso incontro di Teano con il Re.
Dopo la famosa e prima spedizione
del 18 Giugno 1860, si avranno altri
venti imbarchi tra Genova e Livorno
che, complessivamente, porteranno
altri ventimila volontari garibaldini in
aggiunta ai primi.
Questi saranno equipaggiati di
quanto necessario sotto il profilo
degli armamenti, ma soprattutto
vestiti con la camicia rossa grazie
alle forniture biellesi ma, presumibilmente, non solo. Ancora una volta, il
tutto è mediato dai fidi intendenti di
Garibaldi, gli ufficiali Cosenz, Medici
e Sacchi.
La nuova uniforme è costituita da
pantaloni grigi, camicia rossa e foulard rosso. Il tutto è ottenuto senza
la minima difficoltà, segno, questo,
di disponibilità di divise e, in particolare, di camicie rosse.
Dice ancora il Bandi che le cose miglioreranno a Napoli. Quando egli vi
giunge nel settembre con l’uniforme
lacera dopo due mesi di campagna
fra Milazzo e la Sila, troverà la città
ribollente di camicie rosse, pantaloni
con la banda e fez. In pratica, tutto
ciò che contraddistingue il perfetto
garibaldino è in vendita su bancarelle, in negozi e negozietti.
In quattro mesi è cambiato tutto e la
produzione di divise e camicie rosse
a campione
farà prosperare, oltre ai fornitori di
tessuto, anche tanti sarti, commercianti e venditori ambulanti.
Storia delle camicie rosse
dopo l’Impresa dei Mille
L’indiscusso prestigio militare di Garibaldi, unito al fascino delle invitte
camicie rosse, sarà parte notevolissima del mito che accompagnerà
l’Eroe per il resto della sua vita. Ed è
in quel periodo e in quelle circostanze che la camicia rossa diventerà,
finalmente, essa stessa, il simbolo
di questo anelito di libertà e di Italia
unita con Roma Capitale.
Il relativo valore simbolico sarà
poi ribadito nelle successive tre
campagne dei volontari garibaldini:
l’Aspromonte in Calabria nel 1862;
le Valli Giudicarie nel Trentino durante la III Guerra d’Indipendenza
del 1866; Mentana e Monterotondo
nel 1867, sempre nel tentativo di
arrivare a Roma.
Ci saranno poi due campagne
in Francia contro i tedeschi della
Prussia: nel 1870 e nel 1914, questa
seconda volta sotto il comando del
nipote Ezio. Ma con il 1914 siamo
già alla fine della storia della camicia
rossa quale divisa come si spiegherà
più avanti, causa l’evoluzione della
tecnologia militare.
In ogni caso rimarranno sempre
presenti le difficoltà, se non un po’
di caos, circa l’approvvigionamento
delle uniformi. Non ci sarà mai il
tempo per preparare, con il giusto
anticipo, le monture perché la spedizione dell’Aspromonte e quella di
Mentana sono semiclandestine e
ufficialmente contrastate dal Governo Italiano.
Quindi sarebbe stato strano, formalmente inconciliabile per il Piemonte
filo imperatore di Francia, licenziare
un bando per la relativa fornitura.
Dal libro della Jessie White Mario, a
proposito della spedizione del 1862,
si legge: …Tremila fucili datigli alla
dogana non gli bastavano ad armare
una mano di volontari raccolti nella
9
foresta della Ficuzza. Le più alte
dame di Palermo rivaleggiavano
colle più umili popolane nell’apprestare camicie rosse per la Legione
Romana…
Nella campagna del ’66, finalmente
i Garibaldini entrano a fare parte
ufficiale dell’esercito con la denominazione di Corpo Volontari Italiani.
Questa volta possono indossare una
divisa regolarmente approvata dallo
stato maggiore piemontese. Essa è
costituita dai pantaloni azzurrini e
dalla camicia rossa. Esempi di queste camicie, sia degli ufficiali che dei
soldati, sono visibili presso il Museo
di Bezzecca.
Tuttavia, anche in quell’occasione, la
fornitura delle camicie sarà sempre
approntata all’ultimo momento, mal
sopportando gli ufficiali del re quei
volontari portatori di idee liberali e
repubblicane. Sembrerebbe ascriversi a quella campagna una possibile fornitura di camicie garibaldine
da Prato.
Esiste, infatti, nel locale Museo del
Tessuto un follone chiamato “follone
di Garibaldi”; secondo una certa tradizione avrebbe follato i panni delle
camicie nel 1866, ma forse, con
maggiore probabilità, quelle delle
campagne successive.
Non dimentichiamo che tra il 1860
ed il 1865 Firenze fu capitale d’Italia e per il Ministero della Guerra
dell’epoca l’approvvigionamento sul
territorio pratese poteva risultare del
tutto ovvio data la vicinanza della
città tessile alla capitale.
Tuttavia, sempre per la campagna
del 1866, risulta anche una fornitura,
che potremmo definire inaspettata,
e che meriterebbe, invece, maggiori
approfondimenti.
Nella città tedesca di Kirchberger, in
Sassonia, sono visibili le vestigia di
un’antica fabbrica tessile, in attesa
d’essere trasformata in un moderno
complesso per anziani. Una lapide,
posta sulla facciata dell’antico stabilimento, ricorda che nel 1866 il
generale Garibaldi vi fece tingere in
rosso 15.000 divise.
La relativa lavorazione fu pagata,
N.° 1 - 2012
nonostante l’Eroe, unico vittorioso
nella III Guerra di Indipendenza, sia
definito dai tedeschi, sempre nella
citata lapide, un perdente di quella
guerra.
E’ da domandarsi chi avesse fabbricato i relativi panni e chi abbia
poi confezionato le camicie. Certo è
che Kirchberger era parte di un’area
a vocazione tessile e la Sassonia,
all’epoca, non faceva parte dell’impero austriaco con cui l’Italia era in
guerra; anzi, è noto, che tra Prussia
ed Austria proprio negli stessi anni
vi fossero dei conflitti.
Questo, non toglie che, mutate le
condizioni, Garibaldi combattesse
contro gli stessi prussiani insieme ai
francesi quattro anni dopo.
Al solito, il tessuto era comprato e
lavorato dove era possibile. La situazione non cambiò nel 1870 con la
campagna di Garibaldi in Francia.
Migliorò, anche se al momento non
è dato sapere quanto, invece, nel
1914, quando Ezio, il comandante
nipote di Garibaldi, guidò ancora una
volta i volontari garibaldini contro i
tedeschi invasori della Francia.
Ma qui la camicia rossa non poté
più essere indossata se non sotto la
giubba grigio verde come, in effetti,
furono obbligati a fare gli uomini di
quel corpo. Cosa era successo nel
frattempo?
Effetti degli sviluppi degli armamenti sulle camicie rosse
La fine della Guerra Civile Americana
nel 1865 pone una data limite fra il
prima ed il dopo circa il fronteggiarsi
degli eserciti. Retrocarica, colpi
multipli e canna rigata con tiri fino a
300 metri rappresentano il principale
sviluppo dell’armamento americano
in quella guerra.
A questo segue l’introduzione ed il
progressivo miglioramento della mitragliatrice. L’insieme di queste cose
rendono sempre più pericolosi gli
attacchi frontali condotti fino a quel
momento da tutti gli eserciti.
Negli scontri, più del singolo colpo
di fucile che, al massimo, raggiun-
a campione
geva i 100 metri, erano importanti i
corpo a corpo con la baionetta o gli
attacchi di cavalleria come si può
vedere in tanti quadri del nostro
Risorgimento.
In quell’accozzaglia di uomini in lotta
era perciò importante riconoscersi
dato che la polvere sollevata dalla
cavalleria o le esplosioni di colpi di
cannone ricoprivano i contendenti di
polvere che rendeva tutti irriconoscibili. Quindi il rosso delle camicie che
Garibaldi indossa e fa indossare ai
suoi uomini ogni volta che può, non
costituisce una prova di temerarietà,
ma semmai una necessità militare
di riconoscimento secondo lo stato
dell’arte militare dell’epoca.
Se Garibaldi indossava la camicia
rossa, gli zuavi francesi del 1848 a
Roma indossavano brache rosse.
Anche gli stessi Lancieri del Masini
ai tempi della Legione Italiana nella
Repubblica Romana avevano parte
della divisa tinta in rosso.
Paradossalmente, proprio per queste divise si hanno notizie attendibili
sulla tintura in rosso delle stesse.
Nella già citata monografia del Loevinson, l’autore riporta, in una nota
a pag. 128 del secondo volume,
indicazioni sulla monture fornite
nel giugno 1849 da parte dell’allora
Ministero delle Armi.
Si tratta di 117 bluses nuove in panno “garance”, cioè rosso tinto con la
garanza, altro nome della robbia.
Tutto questo non toglie che stare in
prima linea e guidare i propri uomini
all’attacco, come spesso fece Garibaldi, richiedesse tanto coraggio,
cosa che il Condottiero aveva al pari
dei volontari che lo seguirono nelle
varie campagne.
L’avvento dei fucili moderni e, soprattutto, delle mitragliatrici impose
via via agli stati maggiori un ripensamento sia sul colore delle divise sia
sul modo di fare la guerra.
La mimetizzazione e la guerra di
trincea furono le inevitabili soluzioni
allo sviluppo delle armi e le ragioni
per cui nella campagna del 1914
i garibaldini dovettero indossare
sotto la casacca grigio verde le loro
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famose camicie rosse.
Sulla fabbricazione delle camicie
rosse
Dall’osservazione diretta delle camicie rosse conservate nelle teche
dei musei di Palermo, Trapani, Bezzecca, Roma al Vittoriano, Mentana,
Bergamo alla Rocca, Prato al Museo
del Tessuto, si nota che le stesse camicie si differenziano fra loro per fattura, tranne che per quelle del 1866,
a riprova di un confezionamento
spesso casalingo. Significativo a
questo proposito è il quadro realizzato nel 1863 dal pittore toscano
Odoardo Borrani, già volontario nei
fatti d’arma del 1859, intitolato “le
cucitrici di camicie rosse”.
Come in altri analoghi quadri risorgimentali, la pittura tramanda non solo
un modo di operare in mancanza di
un’industria della confezione non
ancora così sviluppata come quella
tessile, ma soprattutto una condizione femminile di “atte a casa”.
Così molte di esse contribuirono
solo come potevano: cucendo le
divise per i loro uomini, fidanzati,
mariti o figli, che partivano volontari
al richiamo di Garibaldi, ma soprattutto di un’Italia più moderna.
Le differenze tra le camicie erano,
in ogni caso, notevoli fra quelle indossate dai soldati di truppa rispetto
agli ufficiali. Semplici e funzionali le
prime, sempre (almeno quelle osservate) in cardato. Più elaborate, delle
vere e proprie giacche, le seconde,
spesso in panno che sembra pettinato. Numerosi e alquanto diversi i
ricami presenti su queste ultime.
Tutte queste divise sono in panno di
lana più o meno leggero.
Anche se non osservate direttamente, non devono escludersi eventuali
camicie rosse in fibra vegetale,
come lino o forse cotone, stanti i
citati racconti dell’epoca ed impiegate nei mesi estivi. Tanto più che
la tintura rossa poteva essere realizzata con gli stessi coloranti usati
per la lana.
Vario fra tutte il tono del colore che,
sebbene stintosi nel corso del tem-
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po, indica pur sempre una diversità
originale declinando dal rosso bluastro allo scarlatto pieno.
Una spiegazione plausibile di quanto
osservato può essere la seguente.
In quegli anni l’arte di fare panni
di lana era diffusa, più o meno, in
tutta la Penisola. I tessuti greggi,
usciti dai telai domestici o dei primi
opifici, erano mandati alle gualchiere
e alle tintorie per la realizzazione del
tessuto finito. La tintura in rosso era
ottenuta, da sempre, con la robbia
o con la grana o con miscele dei
due coloranti su tessuti mordenzati.
La mordenzatura era ottenuta, di
norma, per bollitura acida con un
metallo. Il composto che ne derivava era particolarmente stabile e
insolubile, perciò solido sia alla luce
che all’acqua. Le nuances ottenute
erano caratteristiche di ogni singola
tintoria che manteneva segreto il
procedimento.
La robbia o garanza, dal francese
“garance, è un glucoside dell’alizarina miscelata con parti di purporina e quinizarina. Era estratta
dalle radici della pianta officinale
Rubia Tinctorum per bollitura con
acidi organici deboli e successiva
fermentazione dell’estratto per
idrolizzare i glucosidi. I principi attivi sono dati da tre diversi coloranti
antrachinonici idrossilati in grado di
chelarsi, ossia di legarsi chimicamente, con ioni metallici da cui la
formazione di lacche solide alla luce
ed agli agenti atmosferici. La robbia
si colloca, perciò, nella classe dei
coloranti fenolico-acidi o coloranti
a mordente
La grana, in arabo Al Kermes come
universalmente conosciuta, è, invece, un colorante rosso ottenuto dalle
uova del Coccus Ilicis, cioè cocciniglia del leccio, un insetto parassita
delle querce.
Le uova, raccolte dopo la morte
dell’insetto, poi bollite con aceto
ed essiccate, assomigliano a piccoli pallini, da cui il nome “grana”.
Dopo la scoperta dell’America fu
gradualmente sostituito dal rosso
di cocciniglia, un prodotto migliore,
a campione
che derivava dalle uova dell’insetto “Dactylopius Coccus Costa”,
parassita dei cactus messicani. Il
principio colorante è dato dall’acido carminico e in parte dall’acido
chermesico.
Anche questi sono derivati dell’antrachinone idrossilato e perciò tingono, come per la robbia, secondo la
tecnica dei coloranti a mordente.
Miscelando, oltre che i coloranti,
anche i sali usati per mordenzare,
si avevano e si hanno colorazioni
diverse.
Nel caso della tintoria di Gandino il
segreto del tono delle camicie rosse
si può fare derivare dalla stagnatura delle caldaie dove si bolliva il
tessuto. Lo stagno, solubilizzato
dalla bollitura acida necessaria per
far montare il colorante, assicurava
una nuance aranciata caratteristica.
Inoltre questa tintoria disponeva di
acqua proveniente da una sorgente
diversa dalle altre e anche la minore
o maggiore presenza di calcio influenzava il tono del rosso.
Secondo ricerche svolte a Gandino
risulta che: ...nell’800 lavorano almeno undici aziende tintore, alcune autonome, altre collegate a stabilimenti
di tessitura. Utilizzano materie prime
vegetali, minerali, animali.
Per lo scarlatto, il più tipico dei colori
gandinesi, si impiega la cocciniglia,
un insetto importato dall’America,
fatto essiccare, macinato fine fine
per poi essere disciolto nel bagno
di tintura.
La località si chiama Prat Serval,
Prato dei Servalli, dal nome di una
famiglia. La Tintoria degli Scarlatti
era alimentata da una sorgente naturale, l’unica, mentre le altre dovevano sfruttare le acque della sorgente
Concossola, ampia come un fiume.
La lapide, murata nel 1961 sulla
facciata per il centenario dell’Unità,
è un volo pindarico del prevosto di
allora, don Antonio Giuliani:
“Qui arte vetusta tinse le camicie
rosse, che sangue generoso avrebbe
ritinta nelle battaglie della libertà”.
Non esistono documenti, solo una
tradizione orale che prende le mosse
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dalle memorie di Erminio Robecchi
Brivio, nipote dell’intraprendente
Fiori che conferma il particolare delle
caldaie stagnate in grado di garantire una particolare tonalità aranciata
e calda allo scarlatto.
Oggi sappiamo che non si trattava
di una casualità, ma la conferma di
una reazione chimica, cosiddetta di
chelatura, i cui effetti erano già noti
fra i tintori europei fin dal ‘500 anche
se gli stessi non ne conoscevano le
cause.
Il confronto, infine, tra gli avvenimenti della storia risorgimentale e
quelli di carattere tecnico-scientifico
porta ad altre considerazioni. Nel
1868 viene sintetizzata da Graber e
Liebermann, due chimici tedeschi,
l’alizarina sintetica, primo colorante
di sintesi uguale ad un colorante
naturale, che in breve sostituirà la
robbia e la cocciniglia.
E’ molto probabile che le camicie
rosse dei Garibaldini, che nel 1914
affiancano le truppe francesi a
Reims, siano state tinte con alizarina
sintetica.
Altresì non è possibile stabilire, senza
il sostegno di un’analisi spettroscopica IR, se fossero stati usati anche
coloranti azoici tipo follone che, non
avendo bisogno di mordenzatura,
erano di più semplice applicazione
anche se meno solidi.
Uno studio comparato delle fogge
delle divise presenti nei vari musei
risorgimentali, una caratterizzazione dei coloranti usati e lo studio
sistematico della documentazione
disponibile relativa alle varie forniture, in questo caso, non solo delle
camicie, ma anche dei pantaloni
e della buffetteria più in generale,
costituirebbe un indubbio contributo
alla storia dell’Unità d’Italia.
Ma, oltre questo, costituirebbe elemento di conoscenza della nascente
industria tessile e di quella della confezione durante il Risorgimento.
E’ questo un invito che gli autori,
unitamente all’Associazione Italiana
di Chimica Tessile e Coloristica, si
augurano possa essere accolto.
N.° 1 - 2012
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