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Signore degli animali o guardiano di tori?

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Signore degli animali o guardiano di tori?
DOI 10.1515/zrp-2013-0063
ZrP 2013; 129(3): 589–607
Francesca Gambino
Signore degli animali o guardiano di tori?
Il vilain del Chevalier au lion di Chrétien de Troyes
Abstract: L’un des personnages les plus mémorables du Chevalier au lion de
Chrétien de Troyes est le paysan qu’on rencontre dans la forêt de Brocéliande,
juste avant d’atteindre la source merveilleuse. Dans certains manuscrits il apparaît comme le gardien des taureaux, des ours et des léopards qui se battent devant
lui. Des associations similaires d’animaux ne devaient pas surprendre les hommes du Moyen Âge, qui étaient familiers des histoires dans lesquelles coexistaient
des animaux sauvages de différentes régions géographiques. Le passage correspondant du Mabinogi de Owein, texte gallois qui suit le même récit que le roman
de Chrétien, énumère cerfs, lions, serpents, et «toutes sortes d’animaux». Il est
donc probable que la source commune aux deux romans citait plusieurs bêtes
sauvages. L’archétype de ces personnages est probablement le légendaire «seigneur des animaux», divinité qui dans les cultures des chasseurs de la préhistoire
présidait à la reproduction et à la distribution du gibier et qui a subi plusieures
métamorphoses dans les contes hagiographiques de différents saints et dans
d’autres textes de la littérature française médiévale. L’association d’animaux
disparates constitue donc un canevas narratif traditionnel et le passage de Chrétien de Troyes se réfère à ce substrat mythique.
Keywords: Romance Philology and Literature, Romance Languages, French Literature in the Middle Ages
Prof. Dr. Francesca Gambino: Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari,
Università degli Studi di Padova, Palazzo Maldura, via Beato Pellegrino, 1, I-35137 Padova,
E-Mail: [email protected]
1. Uno dei personaggi memorabili del Chevalier au lion di Chrétien de Troyes è il
vilain che si incontra nella foresta di Brocéliande poco prima di giungere alla
sorgente meravigliosa. Se ne sta seduto su di un ceppo con una grande mazza in
mano e la sua bruttezza è orripilante al punto che per descriverla è necessario
l’ausilio di un piccolo zoo: la testa più grossa di un ronzino, orecchie enormi e
pelose come quelle di un elefante, occhi di civetta e naso da gatto, la bocca
tagliata come un lupo, denti da cinghiale aguzzi e rugginosi. Oltre a questi tratti
anatomici egli pare condividere con gli animali anche il mutismo, almeno inizial-
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mente. Se poi aggiungiamo la fronte larga quasi due spanne, la faccia piatta,
l’assenza di collo e la gobba, avremo il ritratto di un essere mostruoso che
nell’ordine discendente della descrizione segue scrupolosamente le indicazioni
delle arti poetiche (fisionomia, corpo, abiti) e ricorda le sculture di alcune cattedrali medievali nella sua espressiva plasticità:
Uns vileins, qui resanbloit Mor,
Leiz et hideus a desmesure,
Einsi tres leide criature
Qu’an ne porroit dire de boche,
Assis s’estoit sor une çoche,
Une grant maçue en sa main.
Je m’aprochai vers le vilain,
Si vi qu’il ot grosse la teste
Plus que roncins ne autre beste,
Chevox mechiez et front pelé,
S’ot pres de deus espanz de lé
Oroilles mossues et granz
Autiex com a uns olifanz,
Les sorcix granz et le vis plat,
Ialz de çuete et nes de chat,
Boche fandue come lous,
Danz de sengler aguz et rous,
Barbe rosse, grenons tortiz,
Et le manton aers au piz,
Longue eschine torte et boçue;
Apoiez fu sor sa maçue,
Vestuz de robe si estrange
Qu’il n’i avoit ne lin ne lange,
Einz ot a son col atachiez
deus cuirs de novel escorchiez,
Ou de deus tors ou de deus bués.
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300
304
308
Un contadino che sembrava un Moro,
brutto e ripugnante a dismisura,
una creatura così orrida
da non potersi descrivere,
stava lì, seduto su di un ceppo,
con una grande mazza in mano.
Mi avvicinai al contadino,
e vidi che aveva la testa grossa
più di un ronzino o di altra bestia,
capelli arruffati, fronte pelata,
larga quasi due spanne,
orecchie pelose e grandi
come quelle di un elefante,
le sopracciglia spesse e la faccia piatta,
occhi di civetta e naso da gatto,
la bocca tagliata come un lupo,
denti da cinghiale aguzzi e rugginosi,
la barba rossiccia, i baffi attorcigliati,
il mento unito al petto,
la schiena lunga, storta e ingobbita.
Stava appoggiato alla sua mazza,
vestito di un abito ben strano,
dove non c’era lino né lana,
ma al suo collo erano attaccate
due pelli da poco scuoiate
di due tori o di due buoi.1
Questo contadino, coperto solo da due pelli da poco scuoiate e armato di mazza,
ha certo molte caratteristiche in comune con il mitico essere che vive nelle foreste,
l’Uomo selvaggio, ma la sua figura tende a confondersi anche con gli altri esclusi
che popolano la letteratura arturiana: la statura smisurata (cinque metri) lo
apparenta al gigante, la carnagione scura al saraceno, la barba rossiccia al
1 Cito testo e traduzione da Gambino (2011). In questa descrizione non manca neppure il
canonico elogio della Natura o di Dio, qui sostituito da «Mes plus de cent foiz se seingna | De la
mervoille que il ot, | Comant Nature feire sot | Oevre si leide et si vilainne», vv. 794–797 (‘più di
cento volte si segnò | per la meraviglia che provò, | come Natura aveva potuto fare | una creatura
così brutta e rozza’), per cui cf. Frappier (1969, 233).
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diavolo, figure spesso sovrapponibili o intercambiabili.2 Un vilain si oppone del
resto per definizione al mondo della cortesia e la funzione di guida verso l’Altro
Mondo, ereditata dal folclore celtico, è da lui svolta nel romanzo di Chrétien in
modo del tutto inconsapevole: «D’aventure ne sai je rien, | N’onques mes n’en oï
parler», vv. 366–367 (‘di avventure non so nulla e non ne ho mai sentito parlare’),
questa è la risposta alla domanda di Calogrenant, subito prima di indicare al
cavaliere il cammino verso la sorgente che bolle e il pino sempreverde, l’avventura delle avventure.3
Il vilain di Chrétien de Troyes riunisce in sé la maggior parte dei tratti della
topica rappresentazione medievale dell’Uomo selvaggio che si ricostruisce attraverso l’arte figurativa e la letteratura: l’ausilio di connotati umani e animaleschi
per descriverlo, ad esempio, oppure l’esplicita dichiarazione sulla propria natura
umana, e ancora la famigliarità con gli animali della foresta, elemento quest’ultimo tra i più costanti.4 Esso è una sorta di vox media, antagonista e ausiliario
dell’eroe, monstrum e prodigium al tempo stesso.5
Un aspetto al quale fino ad ora non mi pare sia stata data la giusta rilevanza,
tuttavia, è il particolare delle grandi orecchie elefantiache. La loro dimensione è
enorme, come si evince anche da un personaggio che pare direttamente clonato
dalla figura descritta nel Chevalier au lion, il selvaggio Merlino che appare,
sempre a Calogrenant, in Le livre d’Artus e che usa i propri padiglioni auricolari
per proteggersi dalla pioggia (cf. il § 3.2).
Sin dalla tradizione letteraria classica i resoconti di viaggio menzionavano
strani esseri dalle orecchie così grandi da poter essere usate l’una come giaciglio
e l’altra come coperta, i Panotii. Pare che questo nome (pan ‘tutto’, othi ‘orecchi’)
sia stato usato per la prima volta da Pomponio Mela nel De Chorographia (prima
metà del I sec. d. C.), ma già il navigatore e geografo greco Scilace di Carianda
(VI–V sec. a. C.) e lo storico Megastene (IV–III sec. a. C.) avevano descritto popolazioni con le stesse caratteristiche fisiche (Enotocoetes ‘coloro che dormono nelle
loro orecchie’, Otolicnes ‘con le orecchie grandi come un paniere’). Plinio distin 
 
 
2 I particolari della taglia gigantesca e della carnagione scura sono sottolineati anche nel
secondo ritratto del personaggio: «Li veoirs li demore et tarde | Del vilain qui tant par est lez, |
Granz, et hideus, et contrefez | Et noirs a guise de ferron», vv. 707–711 (‘Era impaziente di vedere |
questo contadino tanto brutto, | grande, orrendo e deforme, | nero come un fabbro’).
3 Sugli stereotipi culturali della figura del contadino, che appartiene al terzo e ultimo ordine
della società feudale, quello dei laboratores, cf. Piponnier/Bucaille (1976, 227–232); Le Goff (1977,
131–144); de Combarieu du Grès (1978, 7–26) (la statura gigantesca è un tratto della bruttezza del
contadino); Vedrenne-Fajolles (2007).
4 Cf. Bernheimer (1952, 1–18 e 26); Le Goff/Vidal-Naquet (1979, 265–319). Manca in Chrétien
l’aspetto dell’aggressività sessuale.
5 Su questo aspetto, cf. Dufournet (1990, 57–105).
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gue due popolazioni: nel Nord della Scizia, accanto alle isole i cui abitanti
nascono con piedi di cavallo (Hippodes), ce ne sono «Panotiorum aliae in quibus
nuda alioqui corpora praegrandes ipsorum aures tota contegant» (Naturalis historia, IV, 95, ‘ce ne sono altre chiamate Isole dei tutto-orecchi, in cui i nativi hanno
orecchie molto larghe che coprono interamente i loro corpi, che sono altrimenti
nudi’); in India, dopo aver menzionato gli uomini che nascono con una coda
pelosa e scattante, Plinio ricorda «alios auribus totos contegi» (Naturalis historia,
VII, 30, ‘altri sono completamente coperti dalle loro orecchie’).6 L’Uomo selvaggio
del Chevalier au lion attinge chiaramente anche a questa tradizione.
2. Prima di incontrare il vilain, tuttavia, l’attenzione di Calogrenant è attirata da
un gruppo di animali che si scontrano in una radura e proprio qui si trova il nodo
della questione che vorrei affrontare:
L’ostel gaires esloignié n’oi,
Qant je trovai en uns essarz
Tors salvages, ors et lieparz,
Qui s’antreconbatoient tuit
Et demenoient si grant bruit
Et tel fierté et tel orguel,
Se voir conuistre vos an vuel,
C’une piece me treis arriere
Que nule beste n’est tant fiere
Ne plus orguelleuse de tor.
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Non mi ero allontanato molto,
quando trovai in un campo disboscato
tori selvaggi, orsi e leopardi
che si combattevano tra di loro
e facevano un così gran rumore,
erano tanto feroci e aggressivi
che, se volete sapere la verità,
indietreggiai un poco,
perché nessuna bestia è più feroce
e più aggressiva del toro.
6 Cf. Rackham (1942, 192 e 526); cf. inoltre Lecouteux (1980, 253–266); Sebenico (2005, 152s.); per
la tradizione non solo europea di queste creature, cf. Izzi (1989, 276): in Giappone i Choji, in
Melanesia i Dogai, etc. Il particolare delle orecchie larghe ‘come una cesta’, attestato dai mss. FG
«Ausi lees come est .i. vans» (ASR «conme .ii. vans»), e non ‘come a un elefante’ (HPV «com a uns
olifanz»), implica inoltre la conoscenza della tradizione che risale al Liber monstrorum (VIII sec.):
«Ultra hoc ad orientem nascuntur homines longi pedum .XV. lati pedum .XV. caput magnum et
aures habentes tamquam vanum unam», per cui cf. Lecouteux (1980, 257) (‘a oriente nascono
uomini con piedi larghi 15 piedi e la testa grande 15 piedi, e che hanno orecchie come una cesta’).
Le sigle dei manoscritti del Chevalier au lion di Chrétien de Troyes sono da sciogliere in questo
modo: A = Chantilly, Musée Condé, Bibliothèque du Château, 472; F = Paris, Bibliothèque
Nationale de France, fr. 1450; G = Paris, Bibliothèque Nationale de France, fr. 12560; H = Paris,
Bibliothèque Nationale de France, fr. 794; P = Paris, Bibliothèque Nationale de France, fr. 1433;
R = Princeton (USA), University, Firestone Library, Garret 125; S = Paris, Bibliothèque Nationale
de France, fr. 12603; V = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reginensi Latini
(Cristina di Svezia) 1725.
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La maggior parte dei manoscritti che hanno tradito il Chevalier au lion indica in
questo punto una pluralità di animali, mentre due testimoni si limitano a menzionare un branco di tori. Da un lato dunque la figura tratteggiata sarebbe assimilabile a quella di un «signore degli animali», con tutte le valenze culturali e
antropologiche del caso, dall’altro si tratterebbe di un, pur straordinario, bovaro.
Ecco la varia lectio del passo problematico, il verso 278:
H
P
V
F
G
A
S
R
Tors salvages ors et lieparz
Tors sauvages et esparars
Torz sauvages et espaarz
Et tors savages et lupars
Trois ors sauvages et .i. liepart
Ors sauvages lions lupars
Tors sauvaiges ours et lupars
Et tors salvages et lupars.7
2.1 Gli argomenti a favore della variante che attesta la presenza di soli tori sono
molteplici. La lezione tors è tràdita da P e da V, due manoscritti che per lo più
appartengono a rami diversi di tradizione e che sono di solito considerati abbastanza affidabili.
Certo gli studiosi sono concordi nel ritenere che una classificazione rigorosa
dei manoscritti del Chevalier au lion seguendo il principio lachmanniano degli
errori comuni sia impossibile. Nonostante si riescano a individuare delle parentele sulla base di lacune, interpolazioni e errori simili, Wendelin Foerster e Alexandre Micha hanno infatti dimostrato che ci sono molte interferenze tra questi
raggruppamenti in punti diversi del romanzo (come ad esempio HV o PGAS, PV
contro HFG), che le alleanze tra manoscritti subiscono cambiamenti repentini a
causa della profonda e generalizzata contaminazione tra testimoni, e che nella
trasmissione dei testi di Chrétien devono essere considerati alcuni fattori che
rendono difficile fissare i rapporti tra manoscritti in uno stemma definito: il
rifacimento libero e individuale da parte dei copisti; la possibilità di versioni
multiple che risalgono all’autore; l’utilizzazione di più di un manoscritto come
modello da parte dei copisti. Il décalage temporale che separa la copiatura di
questi manoscritti dalla composizione dell’opera, almeno 25 anni per il più antico
(An) e tra i 50 e 150 anni per gli altri, non fa che rendere più arduo seguire le
tappe, orali e scritte, che separano i testimoni che sono giunti fino a noi dal testo
‘originale’. Tuttavia gli studi sulla tradizione manoscritta del romanzo fanno tutti
emergere la frequente ripartizione dei codici in tre famiglie: 1) H P. 2) An F G, A S
7 Cf. Gambino (2011), dove è affrontata brevemente la questione nella nota al verso.
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M R Mod. 3) V, che dà una versione particolare del romanzo, alleggerita di alcune
centinaia di versi e più vicina alla seconda famiglia che alla prima.8
Dopo aver descritto i combattimenti tra animali che si fronteggiano con
grande strepito in modo feroce e aggressivo, Calogrenant confessa la sua paura
ammettendo di aver indietreggiato un poco, perché, si giustifica «Que nule beste
n’est tant fiere | Ne plus orguelleuse de tor», vv. 282–285 (‘nessuna bestia è più
feroce e più aggressiva del toro’). Il toro è un animale temibile. Non per nulla il
«gigante fellone» Harpins de la Montaingne (v. 3856), altro avatar in chiave
diabolica dell’Uomo selvaggio (è armato di un bastone, ha il petto villoso, è
ricoperto da una pelle d’orso), è paragonato a un toro («Si bret et crie come tors»,
v. 4228, ‘mugghiò e gridò come un toro’). Nel Chevalier de la charrete è invece un
cavaliere a essere equiparato al toro, simbolo per antonomasia di «orgoglio».9
Nel raccontare a Calogrenant come riesce a dominare gli animali, il vilain
afferma che, quando ne agguanta uno, lo stringe per le corna con le sue mani dure
e forti, tanto che gli altri tremano di paura e si raggruppano tutti intorno a lui:
N’i a celi qui s’ost movoir
Des que ele me voit venir;
Car quant j’en puis une tenir,
Si l’estraing si par les deus corz,
As poinz que j’ai et durs et forz,
Que les autres de peor tranblent
Et tot environ moi s’asanblent,
Ausi con por merci crïer.
vv. 342–349
Non c’è nessuno che osi muoversi
non appena mi vede avvicinare,
perché, quando posso afferrarne uno,
lo stringo per le corna
con le mie mani dure e forti,
tanto che gli altri tremano di paura
e si stringono tutti intorno a me,
come per implorare pietà.
Negli incontri successivi con il vilain, infine, sono ricordati solo i tori. Quando
Ivain prefigura il tragitto che dovrebbe fare sulle orme del cugino Calogrenant,
immagina di vedere «i tori e la radura e il gigante che faceva loro la guardia»:
Puis verra les tors et l’essart
Et le grant vilain qui les garde.
vv. 706–707
Poi avrebbe visto i tori e la radura
e il gigante che faceva loro la guardia.
E quando Ivain giunge per davvero alla radura, vede «i tori e il contadino» che gli
indica la strada:
Et vint es essarz l’andemain,
Si vit les tors et le vilain
Qui la voie li anseingna.
vv. 791–797
L’indomani giunse alla radura,
vide i tori e il contadino,
che gli indicò la strada.
8 Cf. Foerster (1887, VII–XXXIII); Micha (1939, 153); Jonin (1958, 88–93); Woledge (1986, vol. I,
8s.).
9 Cf. Beltrami (2004, vv. 2576–2577, 176).
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2.2 Altri argomenti depongono però a favore di una molteplicità di animali e, pur
non essendo risolutivi nella scelta tra le differenti versioni, illustrano il contesto
nel quale esse sono nate.
Come accade per la variante che attesta la presenza di soli tori, anche la
varietà faunistica è attestata da rami diversi di tradizione (H e FGASR), ed è in
particolare presente nel manoscritto Guiot (H), il testimone preso come base in
molte edizioni critiche perché ritenuto nel complesso il migliore.
Alla domanda di Calogrenant («Que fez tu ci?», v. 331, ‘Che fai qui?’) il vilain
risponde che sta sorvegliando gli animali del bosco («gart les bestes de cest bois»,
v. 332, ‘sorveglio gli animali di questo bosco’), appellativo che sembra più appropriato a un gruppo di animali selvaggi che non a un branco di tori.
La storia di Ivain ha origini celtiche insulari e Chrétien ha tratto molti elementi
della sua trama da un racconto di origine folclorica sull’amore di un mortale con
una fata. Il suo viaggio verso il castello di Laudine ha anche una chiara ambientazione oltremondana ed è normale che prima di raggiungerlo l’eroe debba superare
le barriere terrifiche che compaiono nei viaggi verso il tartaro: la valle piena di
fiere mostruose, insieme alla palizzata di teste, ne è una costante.10 Esiste nello
specifico un testo gallese, il mabinogi di Owein, che ha lo stesso nucleo narrativo
del romanzo di Chrétien. A lungo si è discusso su quale fosse il rapporto tra le due
opere e la maggior parte degli studiosi ha concluso che entrambe derivano da una
fonte comune diversamente rielaborata.
Un argomento rilevante a favore di una pluralità di animali consiste dunque
nel fatto che nel passaggio corrispondente dell’Owein sono elencati cervi, leoni,
serpenti e «ogni sorta di animale», ed è quindi probabile che l’archetipo comune
alle due narrazioni citasse più bestie selvagge:11
Un peu avant dans le bois, tu rencontreras un chemin bifurquant à droite; suis-le jusqu’à
une grande clairière unie; au milieu s’élève un tertre sur le haut duquel tu verras un grand
homme noir, aussi grand au moins que deux hommes de ce monde ci; il n’a qu’un pied et un
seul œil au milieu du front; à la main il porte une massue de fer, et je te réponds qu’il n’y a
pas deux hommes au monde qui n’y trouvassent leur faix. Ce n’est pas que ce soit un homme
méchant, mais il est laid. C’est lui qui est le garde de la forêt, et tu verras mille animaux
sauvages paissant autour de lui. Demande-lui la route qui conduit hors de la clairière. Il se
montrera bourru à ton égard, mais il t’indiquera un chemin qui te permette de trouver ce que
tu cherches. […]
10 Cf. Donà (2003, 222).
11 I due brani sono tratti dalla traduzione francese di Loth (1913, vol. II, 9s.); lo stesso passo è
tradotto anche in Lambert (1993, 215s.); per l’edizione del testo celtico originale, cf. Thomson
(1975).
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En y arrivant, il me sembla bien voir là au moins trois fois plus d’animaux sauvages que ne
m’avait dits mon hôte. L’homme noir était assis au sommet du tertre; mon hôte m’avait dit
qu’il était grand: il était bien plus grand que cela. L’homme noir était assis au sommet du
tertre; mon hôte m’avait dit qu’il était grand: il était bien plus grand que cela. La massue de
fer qui, d’après lui, aurait chargé deux hommes, je suis bien sûr, Kei, que quatre hommes de
guerre y eussent trouvé leur faix: l’homme noir la tenait à la main. Je saluai l’homme noir
qui ne me répondit que d’une façon bourrue. Je lui demandai quel pouvoir il avait sur ces
animaux. «Je te le montrerai, petit homme», dit-il. Et de prendre son bâton et d’en décharger
un bon coup sur un cerf. Celui-ci fit entendre un grand bramement, et aussitôt, à sa voix
accoururent des animaux en aussi grand nombre que les étoiles dans l’air, au point que j’avais
grand’ peine à me tenir debout au milieu d’eux dans la clairière; ajoutez qu’il y avait des
serpents, des vipères, toute sorte d’animaux. Il jeta les yeux sur eux et leur ordonna d’aller
paître. Ils baissèrent la tête et lui témoignèrent le même respect que des hommes soumis à
leur seigneur. «Vois-tu, petit homme», me dit alors l’homme noir, «le pouvoir que j’ai sur ces
animaux».
Il «grande uomo nero» dell’Owein, alto almeno «come due uomini», si staglia in
cima a un poggio «con una mazza di ferro in mano», mentre «mille animali
selvaggi» pascolano vicino a lui. Non è cattivo, ma è brutto, ha un piede solo e un
unico occhio in mezzo alla fronte, vero gigante ciclopico. I tratti fantastici sono,
come è normale nei testi celtici, molto più accentuati. Le similitudini tra i personaggi appaiono evidenti, ma anche le differenze sono significative e proprio quest’ultime sono servite a formulare l’ipotesi che le due opere siano debitrici nei confronti
di una tradizione comune alla quale gli autori attingono però liberamente.
È stato inoltre rilevato come il guardiano dell’Owein e quello del Chevalier au
lion siano entrambi parenti stretti di alcuni personaggi che compaiono nei racconti della tradizione celtica, primo tra tutti il multiforme Curoi, che può assumere
l’aspetto di un pastore gigantesco a guardia di animali selvaggi.12
3. L’archetipo di tutte queste figure è probabilmente il leggendario «Signore degli
animali». Secondo la terminologia affermatasi nella storia delle religioni i «Signori degli animali» erano divinità che nelle culture dei cacciatori preistorici presiedevano alla riproduzione e alla distribuzione della selvaggina. In cambio di
offerte essi potevano concedere ai cacciatori di uccidere le loro prede, agendo in
questo modo come donatori di prosperità, ma erano contemporaneamente anche
protettori degli animali e potenziali predatori degli uomini.13
12 Brown (1903, 1–147; 70–74 per il guardiano di animali) è stato il primo a definire le origini
celtiche insulari del racconto di Ivain; cf. inoltre Frappier (1969, 97); Woledge (1986, 74ss.);
Walter (1994, 1171). Per la figura di Curoi, cf. invece Loomis (1949, 207–211; 285–289), e Marx
(1952, 145ss. e 149 n. 1).
13 Cf. Galloni (2007, 18s.).
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Tali miti presentano punti in comune con l’iconografia dell’Uomo selvaggio,
il gigante irsuto che vive tra le fiere, una delle possibili personificazioni del
«Signore degli animali». Il tratto che più colpisce tra quelli che sono attribuiti
all’Uomo selvaggio è infatti proprio il potere di dominare tutti gli animali con la
forza fisica e con l’istintiva autorevolezza. Orsi e leoni, serpenti e draghi, animali
reali e fantastici, tutti a lui si sottomettono e si adattano a servirlo come destrieri.
Il motivo è sfruttato anche in alcuni testi di area germanica14 e particolarmente
interessante dal nostro punto di vista è il poema epico del XII secolo Orendel, nel
quale si legge la descrizione di una scena rappresentata su di una bardatura
decorata con oro sbalzato: sotto un tiglio giacciono un leone e un drago, un orso e
un verro, mentre accanto a loro, ritto in piedi, si erge l’Uomo selvaggio:
Unter den linden gestrecket lak
Ein lewe und ein trac
Ein ber und ein eberswin
Waz mohte kluoger dâ gesîn
Daran stuond der wilde man
Fuer wâr ich iuch daz sagen kan
Von gold reht als er lebte.15
vv. 1253–1260
Distesi sotto un tiglio
giacevano un leone e un drago,
un orso e un verro,
tanto belli da vedere quanto potevano esserlo.
Là si ergeva l’Uomo selvaggio
e posso dirti che, pur fatto di oro,
sembrava fosse vivo.
3.1 Tra le metamorfosi subite nel corso della storia da questi miti, particolarmente stringenti dal nostro punto di vista sono quelle occorse con l’avvento del
Cristianesimo. Nel culto di alcuni santi è possibile rinvenire tracce di queste figure
preistoriche a valenza totemica, nel racconto agiografico delle loro vite riaffiorano
motivi e credenze di un fondo culturale remoto.16 È soprattutto un topos dell’agiografia altomedievale a essere interessante dal nostro punto di vista, quello dell’eremita che, isolandosi in preghiera e penitenza, è circondato da moltitudini di
animali che lo proteggono (o ne sono protetti) e lo venerano, quasi ricostruendo
attorno a sé l’armonia perduta dell’Eden.
Uno dei santi più noti da questo punto di vista è probabilmente San Biagio, il
medico vissuto tra il III e il IV secolo a Sebaste in Armenia (Asia Minore). Per
sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani, san Biagio si rifugiò in una grotta,
14 Cf. Bernheimer (1952, 26), che riporta anche le immagini di alcune sculture, e 30 per i poemi
epici di area germanica; Bartra (1992, 90).
15 Steinger (1935). Questo passo dell’Orendel è un’interpolazione più tarda.
16 Sul filone di testi leggendari relativi a santi dotati di poteri sulle fiere dei boschi, cf. Donà
(2003, 85ss.), con numerosi esempi (sant’Albeo, san Colombano, etc.). Donà osserva che questo
potere, attributo della divinità oracolare pagana ma anche squisitamente sciamanico, affiora in
un gran numero di testi agiografici anteriori al Mille, provenienti soprattutto dall’area celtica o da
quella germanica.
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dove venivano a trovarlo per farsi curare le bestie selvatiche. Mentre il santo
pregava gli animali non lo disturbavano, ma aspettavano che finisse, ne ricevevano la benedizione, e poi se ne tornavano da dove erano venuti. Quando il governatore della Cappadocia Agricolao inviò dei cacciatori nelle montagne intorno a
Sebaste alla ricerca di fiere per martirizzare i cristiani nell’arena, costoro furono
sorpresi da un gran numero di animali di ogni specie (leoni, tigri, orsi, lupi) che
aspettavano pacificamente di fronte a una grotta. Era la grotta in cui stava pregando san Biagio.17
Ma forse ancora più interessante per noi è la leggenda di sant’Antonio abate.
Sant’Antonio fu un eremita egiziano (250 circa – 17 gennaio 357). A lui si deve la
formazione di gruppi di monaci che, sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si
consacrano al servizio di Dio. Per questo egli è considerato il fondatore del
monachesimo cristiano e il primo degli abati. Sant’Antonio è però anche il
protettore degli animali domestici: in alcune località dell’Abruzzo ancora oggi il
17 gennaio si benedicono animali e stalle, ponendoli sotto la sua protezione, e gli
si offrono primizie, un segno di abbondanza che costituisce un ulteriore collegamento ai Signori degli animali dell’antichità.18
La Vita Antonii è stata scritta nel IV secolo da un discepolo, Atanasio di
Alessandria. Il libro, una lunga lettera rivolta ai monaci d’Occidente per indicare
loro l’ideale monastico vissuto dal santo, ebbe un’enorme fortuna, fu tradotto in
molte lingue e ricopiato in centinaia di codici, uno dei più grandi successi della
letteratura cristiana. Nel racconto agiografico ampio spazio è dedicato alla narrazione delle tentazioni. L’anacoreta, che visse a lungo in una grotta e come Cristo
accettò la sfida del demonio nel deserto, dovette subire ogni tipo di percosse, di
seduzioni e di minacce. Le apparizioni e le metamorfosi con cui si attua la
provocazione assumono l’aspetto di figure femminili oppure di leoni, orsi, leopardi, tori, serpenti, vipere e scorpioni, tutte facies del diavolo tentatore.
9. Allora, dunque, in quella notte i demoni fecero tanto rumore che tutto il luogo sembrava
scosso e, come se essi stessi avessero abbattuto le quattro pareti del sepolcro, parvero
penetrare attraverso le mura assumendo l’aspetto di fiere e di rettili. In breve tempo tutto il
17 Cf. gli Acta sanctorum (vol. IV, 341a e 349a). L’episodio è narrato anche nella Legenda aurea
di Iacopo da Varazze, cap. XXXVIII (ed. Maggioni 2007), che parla di «magnam bestiarum
multitudinem».
18 Cf. Galloni (2007, 115–141 e 145). Sant’Antonio abate è spesso raffigurato insieme a un maiale
con al collo una campanella. La tradizione iconografica nasce dal fatto che l’Ordine degli
Antoniani allevava maiali, i quali circolavano liberamente nei centri abitati con al collo una
campanella, in quanto il loro grasso serviva per ungere gli ammalati colpiti dal fuoco di
sant’Antonio. Una storia affine è quella di san Pellegrino dell’Alpe, eremita che visse isolato
insieme agli animali e ne divenne il guardiano, per cui cf. Benozzo (2011, 236).
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luogo fu pieno di fantasmi di leoni, di orsi, di leopardi, di tori, di serpenti, di aspidi, di
scorpioni, di lupi. Ognuno di essi si comportava secondo la figura che aveva assunto. Il leone
ruggiva, pronto ad aggredirlo, il toro sembrava colpirlo con le corna, il serpente strisciando non
riusciva a prenderlo, il lupo era trattenuto mentre tentava di assalirlo. Lo strepito di tutte
quelle fiere che apparivano era terribile, come terribile era il loro aspetto.
52. Come canta Davide (Sal 34,16), il diavolo guardava Antonio e digrignava i denti contro di
lui. Ma Antonio era consolato dal Salvatore e perciò non riceveva alcun danno dalla malizia
e dalle varie attività del demonio. Una notte, mentre vegliava, il nemico gli scatenò contro
delle belve, e quasi tutte quelle che erano nel deserto uscirono dalle tane, lo circondarono,
minacciandolo con la bocca aperta di morderlo. Allora capì che era opera del nemico e disse
a tutte: «Se avete ricevuto qualche potere contro di me, sono pronto a essere divorato da voi;
se siete state mandate dai demoni, non fermatevi, ma andate via. Io sono servo di Cristo».
Dopo che Antonio ebbe pronunciato queste parole, quelle fuggirono come inseguite dalla
sferza del suo discorso.
53. Dopo pochi giorni, mentre lavorava (infatti aveva anche cura del lavoro), uno si presentò
alla porta e tirò la corda intrecciata con cui Antonio lavorava. Antonio infatti intrecciava
delle ceste che donava a quelli che gli facevano visita in cambio di quanto gli portavano. Si
alzò e vide una bestia simile a un uomo fino alle cosce e un asino nelle gambe e nei piedi.
Antonio si fece il segno di croce e disse: «Sono servo di Cristo; se sei stata mandata contro di
me, eccomi pronto». La bestia con i suoi demoni fuggì così velocemente che cadde e morì.
Ma la morte della belva in realtà era la caduta dei demoni. Tentarono in tutti i modi di
allontanarlo dal deserto, ma non ci riuscirono.19
Ritornando al testo di Chrétien, possiamo osservare come alcuni elementi del
racconto stabiliscano dei contatti con le leggende dei santi anacoreti e in particolare con la vita di Antonio. L’incontro di Calogrenant con le bestie selvagge
avviene in un essarz (v. 277), attualizzazione del deserto di sant’Antonio, e,
quando il cavaliere vede il contadino, assimilato, l’abbiamo già ricordato, a più
animali (ronzino, elefante, civetta, gatto, lupo, cinghiale), teme inizialmente di
trovarsi di fronte a un diavolo (vv. 326–330): «Va, car me di | Se tu es boene chose
ou non!» (‘Suvvia, dimmi se sei una creatura buona o no!’), chiede Calogrenant.
«Je sui uns hon» (‘Sono un uomo’), risponde il contadino. «Quiex hom iés tu?»
(‘Che specie di uomo’), insiste Calogrenant. «Tex con tu voiz» (‘Quella che vedi’),
aggiungendo poi «Si ne sui autres nule foiz» (‘sono sempre lo stesso’). Con questo
ultimo dettaglio il contadino chiarisce di non essere un diavolo che può assumere
diverse forme e risponde così al senso recondito della domanda di Calogrenant,
timoroso di trovarsi di fronte a una creatura diabolica.
19 Cito dalla traduzione italiana della Vita Antonii che si può leggere in rete all’indirizzo <http://
www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/vitesanti/antonio.htm> (1 settembre 2012).
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3.2 Una ricerca tra i testi della letteratura francese medievale permette di rinvenire molti passi nei quali gli orsi sono associati ai leopardi (nel sogno di Carlomagno raccontato nella Chanson de Roland, nella Chanson d’Aspremont, nella foresta di Berte aus grans piés di Adenet le Roi, etc.),20 oppure ai tori (nella Chanson
d’Aspremont),21 mentre tori, orsi e leopardi compaiono insieme ad altri animali
nel romanzo dei Sette saggi o Dolopathos, dove il protagonista del racconto
incontra «Lou et lieon, leupars et ors, | singleit, buglë, aine salvaige, | tor, dragon
et serpan volaige, | souterel, et mouton, et mostre | me venoient molt à l’ancontre», vv. 8613–8618 (‘Lupi e leoni, leopardi e orsi, cinghiali, asini selvatici, tori,
draghi e serpenti alati, cavallette e montoni e mostri mi assalivano’).22 In questo
passo il modello delle tentazioni di sant’Antonio mi pare abbastanza evidente.
Lo stesso modello si ritrova del resto agevolmente anche in altri testi, con
varianti nel tipo di animali elencato: nel Roman de Thèbes («Par mi un bois vet
chevauchant, | fieres bestes vet encontrant: | gripons, serpanz, guivres, dragons, |
lieparz et tygres et lyons», vv. 649–652, ‘In mezzo a un bosco andavo cavalcando, | incontrando bestie feroci: | grifoni, serpenti, biscioni, dragoni, | leopardi,
tigri e leoni’); nella Continuation de Perceval di Gerbert de Montreuil («Et si
sachiez, de l’autre part, | Ors et lïon, sangler, lupart | Vont par ces rues combatant», vv. 6321–6323, ‘E sappiate che dall’altra parte, | orsi e leoni, cinghiali e
leopardi | vanno combattendo per queste vie’); nel Roman de la fleur de lis di
Guillaume de Digulleville («Que devant li fuiront lieppars, | Ours et lions de toutez
pars», vv. 228–229, ‘che davanti a lui furono leopardi, | orsi e leoni da tutte le
parti’), etc.23
In un episodio di Le livre d’Artus, seguito particolare e tardivo del MerlinoVulgata (1230–1235), Merlino incontra Calogrenant dopo essersi trasfigurato e
aver assunto le fattezze del vilain del Chevalier au lion.24 Il personaggio ricalca da
vicino quello di Chrétien: si trova «en un grant essart», ha in pugno una mazza
«en guise de pastor» e sulle spalle indossa una pelle di lupo dai peli molto lunghi.
Alto, nero, villoso, brutto da far paura, anche per la descrizione di questo «hom
savages» il narratore si deve ispirare alle caratteristiche di più animali: gli occhi
grandi e neri come una cerva,25 la testa grossa come un bufalo, la bocca larga
come un drago fessa fino alle orecchie, due i piedi ma girati al contrario, con il
20 Cf. rispettivamente Segre (1996, CLXXXV, vv. 2542–2544, 354); Brandin (1970, vv. 2072–2073,
vol. I, 67); Henry (1982, XXII, vv. 647–648, 76).
21 Cf. Brandin (1970, v. 6031, vol. I, 193).
22 Cf. Leclanche (1997, 334).
23 Cf. le edizioni di Raynaud de Lage (1991, 21); Williams (1922, 194); Piaget (1936, 339).
24 L’opera è conservata da un unico manoscritto (Paris, Bibliothèque Nationale de France, fr.
337, cc. 115a–294d) e meriterebbe studi più approfonditi.
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tallone al posto delle dita. Più avanti, quando comincia a cadere un po’ di
pioggerella, eccolo coprirsi la testa e le spalle con una delle sue orecchie,
avvilupparsi tutto con l’altra: i suoi padiglioni auricolari sono evidentemente
voluminosi come quelli di un elefante, nuovo particolare che rinvia al vilain di
Chrétien (cf. § 1).
La conversazione con Calogrenant segue di pari passo quella che già conosciamo, compresa la rassicurazione antidiabolica («li demande quex hom il est et
il li dist: – Vassauls, qu’en volez vos faire? Ge sui itelx com vos veez, que autres ne
sui nule foiz», ‘gli chiede che tipo di uomo sia ed egli gli risponde: – Signore, che
credete? Sono tale quale vedete, non cambio mai’). Merlino continua poi spiegando che se ne sta lì a sorvegliare «gli animali del bosco», dei quali è il signore («et
gart les bestes de ces bois et la forest dont ge sui toz sires»), come già aveva
affermato il vilain di Chrétien («Einsi sui de mes bestes sire», v. 353). Prima di
incontrare Calogrenant, Merlino aveva fatto arrivare appositamente («par art»)
innumerevoli cervi, cerve, daini e «toutes manieres de bestes sauvages environ
lui pasturer» (‘e ogni tipo di animale selvaggio a pascolare intorno a lui’), tutti
animali a lui sottomessi tanto da non osare mangiare o bere senza il suo ordine.26
Anche in questo testo chiaramente ispirato al passo del Chevalier au lion,
pertanto, è questione di molte specie di animali, non solo di tori, come pure nelle
traduzioni antiche e nei rifacimenti che l’opera ha conosciuto: nell’Iwein di
Hartmann von Aue, traduzione poetica in antico tedesco dell’opera di Chrétien
databile intorno al 1205, il vilain pare controllare più animali («aller der tiere
hande» v. 405, ‘controlla tutti gli animali’), anche se sono menzionati solo «wisente und ûrrinder» v. 411 (‘bisonti e uri’);27 nella traduzione duecentesca in prosa
in antico norreno è questione di «villigraðunga ok leóparða» cap. 2 A–B (‘tori
25 In questo punto l’edizione Sommer (1913, 124 § 37) legge liche, voce lemmatizzata nel
glossario con un punto interrogativo. A mio avviso si dovrebbe trattare appunto di una biche
‘cerva’, termine che ricorre anche poco dopo alla pagina 125 § 4.
26 Cf. Sommer (1913, 124 § 20–125 § 18). A tale edizione abbiamo apportato piccole modifiche per
agevolarne la lettura (u > v, introduzione dei segni diacritici). In una delle profezie di Merlino che
seguono (Sommer 1913, 163 § 8), la lupa nutre il leopardo meraviglioso che difenderà la terra di
Bretagna dal dragone. Compaiono subito dopo un serpente dal capo d’oro, un leone e un
cinghiale. La Vita Merlini di Geoffrey di Monmouth presenta già Merlino come un uomo dei
boschi che raggruppa cervi, daini e capre selvagge, tutti animali a lui obbedienti: cf. Dubost
(1991, 730–740).
27 Cf. l’edizione di Wolff (1968, 10s.). Altri elementi indicano che l’autore doveva seguire un
modello affine al testo che leggiamo in FG, due manoscritti che citano più animali, come rivela il
particolare delle orecchie ‘larghe come una cesta’ «breit alsam en wanne» v. 443, da confrontare
con FG «Ausi lees come est .i. vans» (ASR «conme .ii. vans»), e non ‘come a un elefante’ (HPV
«com a uns olifanz»), per cui cf. anche § 1.
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selvaggi e leopardi’);28 nel riadattamento poetico svedese di inizio Trecento compaiono «leon, biörna ok pantiwr» v. 248 (‘leoni, orsi e pantere’);29 nella traduzione
inglese in versi si citano «lebard, | lions, beres, bath bul and bare» (‘leopardi,
leoni, orsi, tori e cinghiali’).30
Il vilain di La Mule sanz Frain è gigantesco («plus estoit granz que saint
Marcel» v. 510, ‘era più grande di san Marcello’), scuro come un Moro («qui mor
resanble de Moretaigne» v. 515, ‘assomigliava a un moro della Mauritania’) e
porta in spalla una grande ascia. Ai suoi ordini troviamo leoni feroci e serpenti
sputafuoco, che hanno assassinato molti eroici cavalieri.31 Nel romance medioinglese su Galvano e il Carle di Carlisle, infine, il racconto inizia con Galvano, Keu
e il vescovo di Baudewyn che si perdono nella nebbia inseguendo una renna
(o un cervo, a seconda delle versioni) e giungono in un castello. Vi ci abita Carle
di Carlisle, un uomo dalla statura imponente che li aspetta nella gran sala del
castello circondato da un toro selvaggio, un cinghiale «mortifero», un leone e un
orso di meravigliosa grandezza.32
4. Riprendendo l’interrogativo dal quale siamo partiti, il personaggio che si
incontra prima della fontana meravigliosa è un «signore degli animali» oppure un
guardiano di tori? La risposta non può essere univoca e dipende in parte anche
dal punto di vista. Si potrebbe infatti sostenere che la rappresentazione del vilain
nel Chevalier au lion rifletta la percezione che ne ha Calogrenant. Un cavaliere è
abituato a frequentare persone del suo rango, non gente umile e rozza. Egli
conosce così poco il mondo popolare fuori dal suo castello che un guardiano di
animali che vive nella foresta, sporco e trasandato, assume per lui un aspetto
soprannaturale. Si tratterebbe quindi di un incontro meraviglioso tale soltanto
agli occhi di un cavaliere che si imbatte in una creatura a lui totalmente estranea.
28 Cf. Blaisdell (1979, 10).
29 Liffman/Stephens (1849, 10).
30 Cf. Schleich (1887, 7); e inoltre Mills/Andrew (1992, 8). Nel rifacimento cinquecentesco di
Pierre Sala, invece, sono menzionati solo i tori: «Je n’eux pas fait voië loingteine | Que je trouvey
une grant pleine | Ou je vis meins toreaulx saulvaiges, | Eschauffées et remplis de rages, | Qui
cruellement se batoyent | Et des cornes s’entrehurtoient | et demenoiënt si grant bruit | Que trois
mille grans sers en ruit | n’eussent pas fait plus grant tonnerre», vv. 265–273, ed. Servet (1996,
107), (‘Non mi ero allontanato molto | quando trovai una grande pianura | dove vidi molti tori
selvaggi, | esagitati e pieni di rabbia, | che crudelmente si combattevano | e si davano addosso
con le corna | e facevano un così gran rumore, | che tremila grandi cervi in calore | non avrebbero
fatto più fracasso’).
31 Cf. Orłowski (1911, 163ss.). Secondo Loomis (1949) anche questo personaggio sarebbe ispirato
al celtico Curoi.
32 Cf. Donà (2003, 451s.).
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L’affermazione che tale rappresentazione rifletta l’esperienza del soggetto
diegetico potrebbe tuttavia essere vera anche in senso opposto, rovesciandone
l’interpretazione: Calogrenant incontra un meraviglioso «signore degli animali» e
per descriverlo lo riconduce a una figura a lui relativamente famigliare, un
contadino che sorveglia alcune bestie. Anche in altri passi del romanzo accade
che la meraviglia sia addomesticata e ricondotta nell’alveo rassicurante del
verosimile. Nel descrivere la fontana meravigliosa, ad esempio, il vilain usa gli
strumenti in suo possesso e racconta di un bacile di ferro (v. 384) che l’aristocratico Calogrenant accerterà essere invece di oro puro. Non è questo l’unico particolare a essere innalzato dall’avvenuto cambiamento di prospettiva: la grossa pietra
di cui parla il contadino si rivelerà essere un blocco di smeraldo, con tanto di
rubini rossi che la sorreggono, e il cavaliere aumenterà il numero dei dettagli che
descrivono tutta la scena.
Univoca è piuttosto la strategia di Chrétien de Troyes, sempre impegnato a
razionalizzare il dato soprannaturale per inserirlo logicamente nell’intreccio del
racconto. La componente meravigliosa si mescola insomma a un certo realismo, è
maneggiata con distanza critica e pure con una buona dose di ironia, tanto che,
riprendendo le categorie di Todorov, sarebbe appropriato per il nostro passo
parlare di fantastico e rappresentare con il termine l’esitazione del lettore e del
personaggio di fronte a un fenomeno dalle caratteristiche, naturali oppure sovrannaturali, ambigue.33
5. Ritorniamo al ramo di tradizione che attesta la presenza di più animali. La
versione originaria di questo ramo potrebbe essere a mio avviso proprio quella di
H, Tors salvages ors et lieparz, condivisa da S Tors sauvaiges ours et lupars. A
partire da questo testo si possono infatti spiegare le lezioni degli altri manoscritti.
I tors ‘tori’ diventano trois ‘tre’ in G, con successiva quantificazione anche dei
leopardi, ridotti a uno (G Trois ors sauvages et .i. liepart). I Tors diventano ors in A
per caduta dell’iniziale del verso, il che innesca prima la sostituzione di ors con
lions per evitare la ripetizione, poi la caduta della congiunzione et per far tornare
il computo sillabico (A Ors sauvages lions lupars).
Un impoverimento faunistico sembra anche quello di RF, con la caduta di ors
e l’integrazione della congiunzione et a inizio verso, sempre per esigenze di tipo
metrico: R Et tors salvages et lupars, F Et tors savages et lupars.
È dunque vero che al v. 285 Calogrenant descrive il carattere temibile del solo
toro, che al v. 345 il contadino dice di dominare gli animali stringendoli per le
corna, e che ai vv. 706 e 792 Yvain sulle tracce di Calogrenant menziona di nuovo
33 Todorov (1970, 37s.).
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solo i tori, ma questi sono i primi animali ricordati nel verso in questione. Il loro
nome sarebbe sufficiente a evocare l’intero gruppo di bestie per rimando metonimico, una sorta di sineddoche del tipo «la parte per il tutto».
Quanto alla versione dell’altro ramo di tradizione (P Tors sauvages et esparars, V Torz sauvages et espaarz), essa non è di facile interpretazione.
Il termine esparars di P (o l’eventuale esperars) non è lemmatizzato nell’Altfranzösisches Wörterbuch. Il termine espaarz di V è invece lemmatizzato sotto la
voce espäart con il significato di ‘con corna a forma di spada’. L’aggettivo, un
hapax, nei dizionari è messo in relazione con lo spagnolo espadarte ‘pesce spada’
e l’immagine rinvierebbe alle corna dei tori, aguzze come delle spade.34
Ricordo infine la suggestiva soluzione proposta da Francis Bar: il testo di
Chrétien sarebbe tors sauvages, orz et espars: l’aggettivo orz assumerebbe l’accezione di ‘spaventosi’ (singolare ord), mentre espars significherebbe ‘che si trovano qua e là, non legati, in libertà’ (participio passato di espardre ‘sparpagliare,
disperdere’). Un copista avrebbe a un certo punto inteso ‘orsi’ e l’errore di banalizzazione avrebbe poi provocato la proliferazione di animali della tradizione
manoscritta. L’antecedente di PV, resosi conto del fraintendimento, avrebbe invece soppresso orz e allungato espars in espaars per recuperare la sillaba mancante.35
6. In alcuni manoscritti del Chevalier au lion tori, orsi e leopardi si azzuffano di
fronte al loro guardiano. Simili associazioni di animali non dovevano sorprendere
gli uomini medievali, i quali avevano famigliarità con racconti in cui convivevano
bestie selvagge non provenienti dalla stessa regione geografica. L’associazione
tra animali disparati costituisce un canovaccio narrativo tradizionale e il passo di
Chrétien de Troyes rinvia a questo substrato mitico.
34 Cf. TL, III, col. 1136 «mit schwertförmigen Hörnern»; REW 8128 (< SPATHA ); Gamillscheg 381a
s. v. épaulard; DCELC, II, 381a. Foerster (1912) sceglie di mettere a testo Tors sauvages et espaarz
[e nel glossario «espaart? wild o herrenlos, verlaufen (wenn = espáve) *† 280»], ritenendo a pagina
XXXIX che la versione con più animali probabilmente preserva una più antica forma della storia
rispetto a quella contenuta nella versione francese di Chrétien; Hult (1994) Tors sauvages et
esperars (‘sul punto di agire, in stato di eccitazione’, aggettivo che sarebbe calcato sui due verbi
esperer ‘essere in attesa’ e esperir ‘svegliarsi, animarsi’); Uitti (1994) Tors salvages com lieparz, ma
la congiunzione com non è attestata in alcun manoscritto.
35 Cf. Bar (1966, 47–50).
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