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5 - Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica
5 - Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Fig. 1: quartiere “Falchera Nuova” Fig. 2: quartiere “Falchera Nuova” Fig. 3: quartiere “Falchera Nuova” Le dinamiche di trasformazione che venivano coinvolgendo il paese tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 ponevano sfide di segno inedito sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo. Nel corso di circa vent’anni si realizzò un processo che vide la forte crescita demografica delle città del nord, soprattutto quelle con più spiccata fisionomia industriale, il progressivo aggravarsi del divario con il sud del Paese, il formarsi in tempi rapidi di grandi periferie urbane, povere di servizi e di qualità ambientale, la crescita di una domanda di case a basso costo che sfociò in più occasioni in forme esasperate di rivendicazione. Nei centri storici delle città che non erano stati coinvolti in forme di ristrutturazione profonda a fini terziari, lo stock di case degradate rappresentò per molti anni l’unica offerta di alloggi a basso costo per la prima immigrazione1, mentre le dotazioni di urbanizzazioni secondarie, in molti casi anche di quelle primarie, inseguivano affannosamente il dilagare delle periferie. Paradossalmente, mentre il programma INA Casa volgeva al termine, il settore pubblico perse la spinta propulsiva che aveva contraddistinto i due settenni e, nel giro di pochi anni, vide il suo peso scendere notevolmente nei confronti della produzione edilizia privata e questo malgrado il fatto che, nei primi anni sessanta, venissero varate due leggi che avrebbero potuto avere importanza strategica per il settore pubblico. Benchè fossero evidenti le eredità negative, soprattutto sul piano sociale e umano che l’INA Casa si era lasciata alle spalle, molti comuni utilizzarono le nuove leggi come puri strumenti di congelamento di aree periferiche, persistendo nel gestire l’edilizia residenziale pubblica come testa di ponte per l’espansione residenziale delle periferie e agevolando processi di valorizzazione fondiaria di tipo speculativo. Non erano poi immaginabili, nell’Italia di allora, iniziative di accompagnamento sociale dei nuovi insediati; spesso dopo qualche mese dall’assegnazione degli alloggi non si era più nemmeno in grado di stimare il numero degli occupanti. La legge 167 del 18/4/1962 era volta a creare le basi normative per l’intervento delle amministrazioni comunali nel reperimento di aree da destinarsi a edilizia economico popolare, anche con l’intento di razionalizzare il ruolo delle amministrazioni stesse, che aveva visto in passato affastellarsi compiti di costruzione, di urbanizzazione, di ricerca di aree e di gestione. I quartieri INA inoltre erano realizzati al di fuori della normativa dei piani regolatori e anche questo concorreva a renderli “altri” rispetto allo sviluppo delle città, ritagliati nel tessuto urbano e, soprattutto nei primi anni di vita, ghettizzati in una condizione di extra territorialità. Obbligatoria per i comuni capoluogo e per quelli con più di 50.000 abitanti, la legge prevedeva la formazione di “piani di zona”, equivalenti ai piani particolareggiati esecutivi, inseriti nella pianificazione ordinaria. Al comune era riservata l’acquisizione, anche mediante esproprio, del 50% massimo delle aree comprese nel piano, con facoltà di cederne il diritto di superficie o di rivenderle, dopo averle urbanizzate, a enti o privati autorizzati a realizzare case popolari. “Alcune periferie conoscono in realtà il loro vero e proprio momento istitutivo proprio in quest’epoca, in particolare con la legge 167 del 1962, tanto che ancora oggi, nel linguaggio corrente, vengono definite sulla base di questo riferimento…”2. 1 Cfr. M. Fazio, Il barocco dei poveri, in La Stampa, 5 marzo 1974. 2 M. Magatti (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, Bologna 2007, p. 166. 2 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Fig. 4: pianta della Città di Torino con indicazione delle zone PEEP in progetto 3 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Torino fu tra le prime grandi città italiane a dotarsi di un piano di 167, già a partire dal 19633 individuando 25 aree, anche di dimensioni rilevanti, poste ai margini dell’edificato, o ai confini estremi del territorio comunale; queste scelte, duramente criticate dall’opposizione, scaturivano dalla debolezza intrinseca agli ordinamenti giuridici in tema di proprietà fondiaria. Fig. 5: quartiere di Mirafiori Sud Ben presto divenne prassi comune da parte dei proprietari coinvolti da espropri ricorrere contro l’incostituzionalità del piano che li escludeva da successivi processi di valorizzazione fondiaria, discriminandoli rispetto a proprietari contermini non coinvolti dal provvedimento, anche quando si trattava di terreni agricoli le cui suscettività edificatorie erano, al momento, praticamente nulle.4 L’individuazione delle aree da destinare a edilizia pubblica, le aree PEEP, vennero scelte in maniera non sempre identica tra città e città, se infatti a Torino vennero vincolate delle aree della prima periferia, in altri casi italiani come Bologna e Milano possiamo trovare forse gli esempi per eccellenza di due politiche di regia del territorio comunale diametralmente opposte e che portarono poi soprattutto a ottenere risultati fortemente diversi. Il primo caso quello di Bologna vide vincolare, da parte dell’amministrazione civica, gran parte del territorio comunale che circondava il nucleo storico, in maniera da controllare anche in senso antispeculativo l’infrastrutturazione del suolo e la sua destinazione d’uso. Il secondo caso quello di Milano è invece il principale esempio di come, al fine di non intralciare gli interessi fondiari privati, si sia potuto limitare al minimo la predisposizione dei piani di zona e la loro incisività nella realtà urbana. Tra queste due visioni contrapposte del ruolo dell’edilizia economica e popolare come fattore più o meno determinante nello sviluppo urbano si collocano le vicende del resto delle città italiane. Va comunque ricordato, come registra Alfonso Acocella5 che al 1970 il grado più avanzato di attuazione dei piani di zona spetti proprio a Bologna, a sostegno del fatto che la scelta di individuare aree non marginali sia riuscita ad abbassare i costi complessivi (e sostanzialmente i costi di urbanizzazione) degli insediamenti popolari. La costruzione dei quartieri di 167 a Torino si protrasse per più di un ventennio, tra notevoli difficoltà. Crebbe il peso degli interventi di edilizia convenzionata o agevolata rispetto all’edilizia sovvenzionata; il rapporto del 50% fissato tra alloggi in vendita e in locazione, già nel secondo settennio INA aveva superato il 66% e la tendenza non fece che aumentare nei periodi successivi. Anche il ruolo di molte cooperative di abitazione portò a stornare a favore di ceti medi o medio alti agevolazioni pensate all’origine per le classi meno abbienti. La diserzione degli appalti di edilizia pubblica da parte delle imprese costruttrici divenne ben presto un fatto ricorrente: in quegli anni la speculazione edilizia privata offriva ben altri margini di profitto. Tesi alla contrazione dei costi e dei tempi di costruzione, ma soprattutto alla riduzione drastica dell’impiego di manodopera specializzata, i nuovi programmi si orientarono verso l’uso sistematico di procedimenti di razionalizzazione del cantiere apparsi sulla scena europea, soprattutto negli anni 3 Va ricordato che, non essendo ancora operanti in quegli anni le Regioni a statuto ordinario, piani regolatori e piani esecutivi adottati dai comuni erano sottoposti all’approvazione del Ministero dei Lavori Pubblici. 4 Saranno provvedimenti successivi come la L.865, 22.10.71 a tentare di dirimere la questione. 5 A. Acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia dal 1945 ad oggi, Cedam, Padova, p.127. 4 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Fig. 6: quartiere di Via Artom della ricostruzione, in Francia, nei paesi dell’est europeo e sporadicamente in Inghilterra6 e i cui brevetti, acquisibili a basso costo, erano praticamente già desueti. “…l’Istituto pone così le premesse alla prefabbricazione totale, già ampiamente diffusa in altri Paesi, che tra l’altro comporta la progettazione integrale con una stretta collaborazione tra progettisti, imprenditori e specialisti in impianti tecnologici.”7. Ma non era solo lo IACP ad auto convincersi della bontà del sistema: in quegli stessi anni settori importanti del mondo imprenditoriale e professionale presentavano questi programmi come la nuova frontiera dell’innovazione tecnologica, destinati a modificare in modo irreversibile le procedure, i tempi, il significato stesso dell’atto di costruire8. I sistemi di prefabbricazione pesante a setti piani portanti e solai prefabbricati consentivano, con l’uso di una sola gru, di incasellare rapidamente partizioni verticali e orizzontamenti, precedentemente formati in un cantiere di prefabbricazione, limitando il lavoro in loco a operazioni di sigillatura e di costruzione in tradizionale di partizioni interne: ne derivavano tipologie di organizzazione spaziale appiattite sulla rotaia e lo sbraccio della gru e tipi di alloggio rigidissimi e praticamente immodificabili. Aveva fatto da battistrada a questa “sperimentazione” la realizzazione del grande complesso di Mirafiori sud, sorto nei primi anni sessanta a ridosso dei capannoni della Fiat, che non rientrava nelle zone E, perché ancora legato al programma INA Casa. Questi sistemi costruttivi furono applicati, oltre che a Mirafiori, nella E2 in zona Falchera, nella E7 nella zona di corso Taranto, nella E13 nella zona di via Artom, nella E23 sull’asse di via Ivrea e in altre zone di 167 sparse ai bordi della Città, concorrendo definitivamente a consolidare il binomio edilizia pubblica/bassa qualità. In questo contesto non furono più riscontrabili l’impegno civile e la ricerca di una qualità architettonica riconoscibile che avevano fatto dell’edilizia popolare dei decenni precedenti significativi caposaldi urbani dell’espansione della città. Potrebbe essere emblematico a questo proposito il confronto tra il quartiere Falchera, risalente al primo settennio INA Casa e la costruzione della E2, nelle aree subito a nord, verso il confine con Settimo Torinese; nel clima arroventato del problema casa a Torino non si facevano grandi distinzioni qualitative tra il complesso della vecchia Falchera con le sue casette di mattoni a vista, da un lato, e le torri prefabbricate della E2, spettrali castelli di carte sorte ai bordi della città, dall’altro lato: il disagio sociale, l’emarginazione, il divario insostenibile tra domanda e offerta facevano di tutto un problema aggrovigliato e indistinto9. Il passare del tempo ha invece consentito di cogliere differenze profonde e di mettere in valore l’impegno culturale e professionale che, fortemente presente negli anni della ricostruzione, era venuto via via scemando man mano che il paese sembrava diventare sempre più ricco sul piano economico e dei consumi individuali e sempre più povero sul piano 6 Il disastro di Ronan Point nel South London, nel maggio 1968, in cui un’esplosione di gas al ventiduesimo piano fece accartocciare l’intera casa, dissuase per sempre dall’utilizzo di questi sistemi nel Regno Unito. 7 Istituto Autonomo Case Popolari, Sessantennio di fondazione, 1907/1967, Aprika, Torino 1967. 8 In un dibattito su questi temi alla Facoltà di Architettura di Torino Roberto Gabetti definì questi sistemi costruttivi “avanzati” nel senso che viene attribuito a un piatto di cibo che resta sul tavolo. 9 “Gli uomini segnati dalle stimmate possono provare simpatia o antipatia per chi versa nelle medesime condizioni, possono vivere gli uni accanto agli altri in pace o in guerra, ma se c’è una cosa assai improbabile che accada è che sviluppino un rispetto reciproco.”, Z. Barman, Voglia di comunità, Laterza, Bari, Roma 2001, p. 118. 5 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Fig. 7: quartiere di via Artom della qualità dell’ambiente costruito. Nel clima di emergenza abitativa, evidenzia giustamente Franco Mellano “il mondo politico torinese sembra perdere completamente di vista il senso urbanistico che il piano 167 doveva avere per la città, in termini di riordino di alcune periferie urbane o di realizzazione di quartieri nuovi capaci di offrire modelli alternativi di condizione urbana, non solo sotto il profilo tipologico delle abitazioni, quanto sotto quello degli spazi pubblici, dell’ambiente, dei servizi e dell’accessibilità”10. Quasi nessuna delle 24 aree PEEP individuate è diventata, come avrebbe al contrario dovuto essere, la cerniera intorno a cui far ruotare altre trasformazioni urbane; “in molti casi si sono dovuti attendere diversi anni prima che si producesse una reale integrazione con il resto della città e prima che si potessero dire raggiunti standards di vita almeno confrontabili con quelli esistenti nella città tradizionale”11. A conti fatti, conclusa l’esperienza dell’arco legislativo, possiamo però dire che si poteva fare molto di più; l’emergenza casa popolare non doveva essere l’unico fine della 167, ma si doveva al contrario cogliere l’opportunità della legge per attuare quelle previsioni di grandi interventi coordinati e unitari che il Piano Regolatore del 1956/59 aveva ipotizzato. In certo senso la grande scuola dei decenni precedenti, con le ricerche e le sperimentazioni morfologiche e tipologiche prodotte dai professionisti sotto il piano INA Casa, avrebbe potuto, se protratto e aggiornato, produrre effetti sulla città decisamente più rilevanti. Al contrario, eccetto pochi casi isolati, la tendenza/possibilità a segnare il territorio urbano con le nuove morfologie degli isolati aperti non ha prodotto risultati soddisfacenti. “L’edificazione aperta è stata interpretata come mera semplificazione progettuale e come liberazione dai tanti condizionamenti insiti nella città consolidata; sono venuti meno gli agganci con il preesistente, senza che fossero stati indagati i nuovi valori che un tale modello di quartiere certamente proponeva di evidenziare. Molte volte la libertà d’impianto urbanistico è stata tradotta in anarchia progettuale, e l’insegnamento dei modelli stranieri è stato utilizzato come campionario di forme a cui attingere acriticamente”12. A livello edilizio, esaurito il programma INA Casa, il 14/2/1963 veniva approvata la legge 60 che dettava le norme giuridiche e programmatiche per il varo dell’Istituto Gestione Case per i Lavoratori, la Ges.Ca.L. “Allo scadere del Piano Ina-Casa, i fondi vengono trasferiti alla nuova Gestione case lavoratori (Gescal) con una legge del 1963: è l’anno in cui molti comuni adottano il piano di edilizia economico popolare ai sensi della legge 167/62. Da questo momento….quegli embrioni di periferia degli anni ‘50 si allargano fino a imporsi nel paesaggio urbano. È infatti proprio negli anni ’60, quando l’emergenza abitativa spinge con forza verso soluzioni quali l’utilizzo su vasta scala del prefabbricato e del cemento armato, che l’attività edilizia raggiunge il culmine della propria intensità e l’utopia urbanistica l’apice della sua astrazione.”13 Si innescò la liquidazione del patrimonio INA Casa computando i prezzi di vendita sulla base del 70% del costo di costruzione depurato del contributo 10 F. Mellano, Torino 1945-1989: tra pianificazione ed emergenza, in Architettura e urbanistica a Torino 1845/1990, Allemandi, p. 247-8. 11 F. Mellano, Torino 1945-1989, cit. p. 248. 12 F. Mellano, Torino 1945-1989, cit. p. 248. 13 M. Magatti, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, cit. p. 165 6 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Fig. 8: quartiere di via Artom dello Stato e, se gli acquirenti erano gli stessi assegnatari, diminuendolo di uno 0,25% per ogni anno di occupazione dell’alloggio. Date le note difficoltà di accertamento del reddito degli acquirenti, si trattò in molti casi di un affare particolarmente vantaggioso, che alienò un patrimonio di edilizia pubblica rilevante e che avrebbe potuto avere in seguito un peso non da poco nelle politiche per la casa. La Ges.Ca.L. aveva al vertice la stessa struttura bicipite dell’INA, con un Comitato Centrale preposto alla programmazione e un Consiglio di Amministrazione cui spettavano l’attuazione e il coordinamento degli interventi. IACP, INCIS, Cooperative, ISES (ex Unrra) e Aziende si occupavano dell’esecuzione a scala locale; l’INPS era destinato alla raccolta dei fondi derivanti dai contributi di lavoratori e aziende, da depositare presso la Banca Nazionale del Lavoro; il Ministero del Lavoro e la Previdenza Sociale esercitavano funzioni di vigilanza nei confronti della gestione. Lavoratori e aziende erano tenuti a versare contributi rispettivamente nella misura dello 0,35% e dello 0,7% delle retribuzioni per sette anni; lo Stato concorreva per il 4,3% delle contribuzioni, cui andava sommato un 3,3% per 25 anni e per alloggio; venivano inoltre messi in gioco i fondi derivanti dalla liquidazione del patrimonio INA. Veniva istituito un fondo di rotazione pari al 15% della disponibilità destinato ad anticipi alle banche e ai diversi enti per mutui e prestiti. Il 50% degli alloggi era destinato alla locazione a canoni pari all’1,5% del costo convenzionale a vano, la parte restante al riscatto. Scevri dalla fretta operativa che aveva caratterizzato i piani INA, gli interventi Ges.Ca.L. procederanno a rilento: nel 1971 giaceranno inutilizzati 700 miliardi di contributi nelle casse della Banca Nazionale del Lavoro. A livello politico era forte l’intenzione di far operare congiuntamente una legge sull’acquisizione delle aree e una preposta alla realizzazione edilizia dei quartieri e di regolare l’intero processo in un clima di strettissima relazione tra l’ente statale e i Comuni con i loro strumenti operativi di Piano Regolatore. Dal canto suo la GESCAL diede avvio nel 1964 a una serie di ricerche che avrebbero dovuto costituire, previa approvazione ministeriale, la nuova normativa tecnica in materia di edilizia pubblica. Queste ricerche miravano sostanzialmente a far progredire l’operato degli enti su due fronti: da un lato coordinando la progettazione degli enti stessi, si parla di “progettazione integrale e coordinata”14, ovvero di grandi equipes di urbanisti, progettisti e tecnici vari tutti parallelamente impegnati nella redazione dei progetti, al fine di incrementare la produttività, in secondo luogo, si mirava a economizzare le fasi esecutive delle opere di cantiere anche introducendo componenti edilizi industrializzati e prefabbricati. Queste indicazioni di metodo divennero poi in alcuni casi norme vincolanti; non a caso molti progettisti denunciarono una carenza di flessibilità nella normativa GESCAL e in un certo qual senso forse questa precostituzione di elementi, che sono normalmente parte integrante del progetto e che in questo momento vengono invece “preconfezionati” per agevolare e mantenere in linea il lavoro degli enti di gestione e produzione dell’edilizia pubblica, secondo un percorso ben diverso da quelli che erano le norme e i suggerimenti dell’INA Casa; fu così disincentivata la parte più qualificata della cultura architettonica italiana dal partecipare a un 14 Tale metodo sarà convenzionalmente definito all’interno delle Norme Tecniche prodotte dalla GESCAL. 7 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica Fig. 9: quartiere di corso Grosseto processo che poco spazio lasciava al progredire della ricerca architettonica ed edilizia. Acocella sottolinea come “le stesse ricerche operative sull’edilizia residenziale, la sperimentazione e l’esecuzione di progetti pilota – indicati dalla legge come compiti della Gescal destinati a differenziare i programmi del nuovo Ente da quelli dell’INA Casa – non sembrano essere presi in seria considerazione prima della fine degli anni ‘60 quando il Comitato centrale delibera, dopo l’esperienza fallimentare dei primi anni di attività, un programma di ricerche, sperimentazione e progettazione pilota”15. In ogni caso la produzione edilizia corrente della Gescal, anche dopo i programmi sperimentali e le ricerche, ha continuato sulla scia di una architettura tradizionale “priva di una caratterizzazione morfologica e funzionale che desse una qualche qualificazione ai nuovi insediamenti”.16 Il bilancio di questi interventi è sicuramente povero; per certi versi se le realizzazioni di questo periodo da un lato concorsero in misura limitata alla risposta al bisogno di case, dall’altro lasciarono eredità molto pesanti nelle città, e in tempi recenti a Torino si è proceduto alla demolizione di alcuni complessi. Ma la logica riduttiva che aveva portato all’adozione dei prefabbricati pesanti è solo un aspetto del problema; ci sono almeno altri due versanti di grande rilevanza che concorsero negativamente in quella vicenda: uno, cui si è già accennato, di tipo culturale, l’altro di natura più propriamente urbanistica. Sul piano della cultura, e di quella professionale in particolare, non ci fu paragone tra l’impegno profuso nel programma INA rispetto a quanto capitò in seguito. Le migliori riviste italiane, da Metron a Casabella, da Urbanistica a l’Architettura, avevano dedicato ampi spazi alla documentazione e al dibattito su quei temi; ovviamente non poteva esserci lo stesso interesse per operazioni edilizie al ribasso, frutto in genere di progetti affidati agli uffici tecnici degli enti preposti alle realizzazioni: i professionisti più qualificati erano indifferenti o esclusi da questi programmi. Il nodo urbanistico può avere due versanti inerenti il problema: uno locale e uno nazionale. A livello locale i primi piani urbanistici redatti negli anni ’50 ai sensi della legge del 1942, erano prevalentemente orientati ad assecondare le dinamiche demografiche e socioeconomiche in atto nelle grandi città. Il PRG di Torino, adottato nel 1956 e approvato nel 1959, sostanzialmente offriva alle forze economiche dominanti, la grande industria e il settore immobiliare, spazi e infrastrutture atte ad assecondare il modello di sviluppo che si stava delineando come forza trainante. L’adozione delle zone di 167 atterrò su questo supporto più teso a registrare che non a orientare le forme della crescita, e le così dette zone E non potevano costituire un modulo integrante di una struttura urbana, in quanto questa struttura era figlia di ciò che stava capitando, non di un progetto intenzionale e consapevole. Sul piano normativo, a livello nazionale, la legge n. 1150 del 1942 presentava almeno due punti critici, cui solo molto tempo dopo si cercò di mettere rimedio. Il primo riguardava la struttura “a cascata” dei meccanismi attuativi del piano regolatore; i piani particolareggiati di attuazione si rivelarono ben presto strumenti troppo rigidi e di difficile realizzazione. I centri storici, proprio per le difficoltà insite nell’assoggettarli a uno strumento esecutivo, furono spesso scontornati e lasciati come “zone bianche”, rimandando a tempi successivi 15 A. Acocella, L’edilizia residenziale pubblica in Italia ..., cit, p.206 16 A. Acocella, L’edilizia residenziale ... , cit, p. 207. 8 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica la messa in atto di progetti di trasformazione. Questo nel caso di Torino determinò, fino alla fine degli anni ‘70, una condizione di abbandono degli edifici a un progressivo degrado.17 Il secondo nodo riguardava la norma che introduceva, nelle more tra adozione e approvazione del piano, il criterio della discrezionalità da parte dell’amministrazione, nell’applicare le norme esistenti o le nuove.18 Questo principio determinò in molti casi la pratica del “congelamento” di piani adottati e non approvati, dilatando i tempi durante i quali la discrezionalità diventava un mezzo per favorire interessi particolaristici, consentendo la pratica di “lottizzazioni” private di aree ad alta densità sostanzialmente sprovviste di servizi.19 È sullo sfondo di questo scenario che le politiche per l’edilizia pubblica, intese sostanzialmente come uno strumento di contenimento del disagio abitativo, persero ogni possibilità di fare dei quartieri popolari, spesso di grandi dimensioni, i caposaldi di una nuova armatura urbana, atti a sostenere e a dare significato al grande estendersi delle periferie. Solo successivamente, in altre città italiane, questo concetto venne reso operante, anche se con risultatireali molto lontani dai principi che li avevano sostenuti: il “Corviale” a Roma, il “Gallaratese” a Milano, lo “Zen” a Palermo, il “Biscione” di Forte Quezzi a Genova, “Rozzol Melara” a Trieste furono tutti concepiti in base a questi intenti. Divennero esempi di degrado sociale e di conflittualità urbana, ghetti in cui si concentrava il peggio della vita nelle città, ma non è certo l’architettura in quanto tale a potersi fare carico da sola di questi fenomeni, e i tempi degli uomini e i tempi delle case sono molto diversi tra loro. Là dove è stata spesa una rilevante e autentica ricerca di qualità dello spazio costruito, in tempi più o meno lunghi, questo investimento ha potuto dare i suoi frutti. Là dove invece questo sforzo culturale è stato praticamente assente il passare del tempo non ha permesso di riscattare alcunché. Va ancora ricordato, nel clima di quegli anni ’60, un progetto destinato in larga misura a restare lettera morta, ma che testimonia una volontà razionalizzatrice, volontà che sarà ben presto abbandonata non certo a favore di teorie meno ingenue e più sofisticate, ma piuttosto a favore di modelli interpretativi che estraggono teorie da ciò che capita. Il così detto “Progetto ‘80” partiva da un’analisi delle dinamiche che avevano portato nel Paese il 28,6 della popolazione a concentrarsi sul 3,5% del territorio nazionale, con tutta la serie connessa di disagi, tensioni, costi sociali. Inserire obiettivi di pianificazione urbanistica e territoriale nei processi di pianificazione economica a livello nazionale e regionale era, d’altra parte, una delle finalità prioritarie dei governi di centro sinistra in quegli anni, e fu alla base dei criteri ispiratori del “Piano Pieraccini” per il quinquennio 1966/70. L’uso del territorio era visto come una variabile dipendente delle scelte economiche, e il riequilibrio concomitante dell’assetto sia produttivo che fisico del paese, basato sul prin- 17 Va detto a posteriori che il degrado ha rappresentato un sorta di tutela “a rovescio”. I pochi interventi realizzati nella “Città quadrata” negli anni della ricostruzione furono a dir poco sventurati, e testimoniano ancora oggi l’inadeguatezza della cultura del tempo a misurarsi con la stratificazione complessa di quei tessuti della città. 18 Sarà la legge 765 del 6/8/1967 a introdurre il regime di salvaguardia nei periodi intercorrenti tra adozione e approvazione del piano. 19 La rivista Urbanistica dedicò l’intero numero 48 del dicembre 1966 al caso emblematico di Agrigento, il cui scempio era stato consentito anche grazie a pratiche irresponsabili delle amministrazioni, rese possibili dal rinvio indefinito dell’approvazione di un piano. 9 Gli anni Sessanta. Edilizia e urbanistica cipio dei sistemi urbani integrati, sembrava in quel momento un modello di intervento efficace e risolutivo. Il “progetto” individuava prime ipotesi di assetto territoriale a partire dall’analisi di grandi circoscrizioni statistico economiche e geografiche. Un primo “Sistema di tipo A” era riconoscibile nel triangolo industriale Torino-Genova-Milano rispetto al quale era prioritario l’obiettivo di un forte decongestionamento; “Sistemi di tipo B” erano le aree geografiche limitrofe, dal Piemonte meridionale e settentrionale, all’area Adige, Garda, Emilia occidentale, al Lazio meridionale al Salernitano, aree che avrebbero dovuto svolgere un ruolo di decongestionamento e di riequilibrio; la Toscana meridionale, l’Umbria, le Marche, l’Abruzzo e il Molise avrebbero dovuto essere sedi di radicali processi di riorganizzazione e di formazione di inediti poli di sviluppo invertendo di segno il loro ruolo consolidato di serbatoi di manodopera migrante. Alle Regioni a Statuto Ordinario, previste dalla Costituzione ma non ancora operanti, erano affidati ruoli importanti di elaborazione di ipotesi di assetto territoriale e di schemi di sviluppo, da confrontare col Ministero del Bilancio, dei Lavori Pubblici e con il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. Non vi era alcuna seria analisi intorno alle ragioni profonde dello sviluppo asimmetrico italiano; si parlava di errori e di mancate volontà, ma nulla spiegava i perché della crescita ineguale del paese; i treni che partivano da Torino per il sud, quando scattavano le ferie della Fiat, erano tradotte militari sovraffollate all’inverosimile, con corridoi e servizi igienici stipati di persone e di bagagli; e al ritorno capitava la stessa cosa. 10