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La narrativa italiana dagli anni Ottanta a oggi

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La narrativa italiana dagli anni Ottanta a oggi
La poesia italiana dalla metà degli anni
Cinquanta ai primi anni Settanta
(D00009)
Pietro Cataldi
Università per Stranieri di Siena
Pisa, 2009
ISBN: 978-88-6725-012-7
Ultima revisione 18 febbraio 2015
ICoN – Italian Culture on the Net
P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
Presentazione del modulo
In questo modulo viene tracciato un profilo complessivo della poesia italiana del periodo che va
dalla svolta del 1956, con l’avvio del miracolo economico, alla metà degli anni Settanta, allorché si
è imposto, dopo la crisi petrolifera del 1973 e il riflusso politico, un nuovo clima culturale. Il
modulo si concentra in particolare sugli eventi e sulle personalità nuovi e caratterizzanti di questa
fase. Aperto con la pubblicazione della rivista “Officina”, animata da Pasolini, il periodo è
attraversato da tendenze diverse, che ora assumono l’eredità montaliana ed elaborano in modo
personale la crisi del simbolismo (come accade a Mario Luzi, Vittorio Sereni e Andrea Zanzotto),
ora proseguono la tradizione sabiana e antinovecentista (come in Giorgio Caproni e in Giovanni
Giudici), ora esprimono una personale ripresa del classicismo (è il caso di Franco Fortini).
L’esperienza più estrema è quella dei poeti Novissimi e del Gruppo 63, un’avanguardia che ha il suo
maggior esponente in Sanguineti ma attorno alla quale ruotano molti dei maggiori autori di questi
anni.
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
Guida al modulo
Scopo del modulo
Scopo generale del modulo è permettere una conoscenza complessiva delle principali tendenze delle
poesia in Italia durante il periodo che va dal 1956 al 1980 circa. Devono innanzitutto risultare chiare
le relazioni fra le grandi linee della storia politico-sociale e l’evoluzione del genere lirico. Si tratta
poi di ricostruire i momenti di svolta e la loro relazione con l’attività di alcuni intellettuali e la
pubblicazione di alcune riviste (“Officina” e “Il Verri”). Viene quindi il momento di individuare le
tendenze più importanti, legate alla ripresa di tradizioni letterarie precedenti, di temi e di modalità
stilistiche e strutturali. A questo punto bisogna confrontarsi con i singoli autori, soffermandosi sui
più significativi fra quelli attivi nel venticinquennio considerato. Arriva infine il momento di
verificare su testi esemplari le coordinate storico-critiche studiate. Lo scopo generale del modulo è
quindi la ricostruzione di un sistema concettuale che colleghi la società alle linee di tendenza, agli
autori, ai testi.
A tal fine, il modulo è composto da trattazioni storico-letterarie relative alla società italiana del
periodo considerato, alle principali tendenze letterarie e in particolare poetiche, agli autori più
rappresentativi e infine ad alcuni fra i loro testi più significativi accompagnati da commento e da
analisi del testo.
Contenuti del modulo
Il modulo è composto da:
1. il testo delle unità didattiche;
2. schede e voci di approfondimento:
- Generazioni e genealogie della poesia italiana contemporanea
- L’Ermetismo
- Il Sessantotto in Italia
- Il Simbolismo in Italia
- "Solaria"
- Umberto Saba
3. un'antologia critica composta da:
- P.P. Pasolini, La polemica contro Officina e Una nozione di realismo da La reazione stilistica in
Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, pp. 2292-6;
- P.V. Mengaldo, Grande stile e lirica moderna. Appunti tipologici, in La tradizione del novecento.
Nuova serie, Vallecchi, Firenze, 1987, pp. 7-24;
- S. Giovanardi, Introduzione a Poeti italiani. 1945-1995, Mondadori, Milano, 1996, pp. XI-LVIII,
soprattutto pp. XXI-XLVII;
4. un glossario di linguistica (utile per definire alcuni dei termini utilizzati nel corso del modulo);
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
5. il modulo è arricchito da alcune fotografie di Dino Ignani (che ringraziamo sentitamente) tratte
dalla raccolta Intimi ritratti, Iniziata con un nucleo di oltre quaranta ritratti di poeti, ripresi nelle
loro case, che tra il 1980 e il 1985 vivevano principalmente a Roma, questa raccolta comprende
adesso oltre 150 scatti. Se ne consiglia la visualizzazione alle dimensioni maggiori possibili.
Attività richieste
Lettura e studio dei materiali che compongono il modulo. Svolgimento degli esercizi.
Letture aggiuntive
Il Master mette a disposizione il testo dei seguenti moduli di approfondimento i cui materiali
complementari sono però accessibili soltanto agli studenti del corso di Laurea ICoN:
- Giorgio Caproni
- Eugenio Montale
- Pier Paolo Pasolini
- Cesare Pavese
- Giuseppe Ungaretti
- Andrea Zanzotto
- Fondamenti di metrica
- Retorica e stilistica
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Indice delle unità didattiche
UD 1 - Le premesse: la svolta del 1956, “Officina”, Pasolini
Nell'unità didattica si considerano le ragioni storico-sociali della svolta del 1956, analizzando
quindi le nuove proposte della rivista bolognese “Officina” e del suo principale animatore, Pier
Paolo Pasolini.
1.1 - La poesia nella società di massa
1.2 - La svolta del 1956
1.3 - “Officina”
1.4 - Pier Paolo Pasolini
1.5 - Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini
UD 2 - Eredità simbolista e rinnovamento: Luzi, Sereni e Zanzotto
L'unità didattica considera innanzitutto l’eredità trasmessa da Montale al secondo Novecento,
insistendo sulla crisi delle poetiche legate al simbolismo e soffermandosi quindi su Mario Luzi,
Vittorio Sereni e Andrea Zanzotto quali figure rappresentative di tale crisi.
2.1 - L’eredità di Montale e la crisi del simbolismo
2.2 - Satura di Eugenio Montale
2.3 - L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili di Eugenio Montale
2.4 - Mario Luzi
2.5 - A che pagina della storia di Mario Luzi
2.6 - Vittorio Sereni
2.7 - La spiaggia di Vittorio Sereni
2.8 - Andrea Zanzotto
2.9 - Così siamo di Andrea Zanzotto
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UD 3 - Fra tradizione e sperimentalismo: Caproni, Fortini e Giudici
L'unità didattica affronta il filone “antinovecentista” della tradizione lirica negli anni Sessanta e
Settanta, caratterizzata dalla tendenza narrativa e dal recupero di elementi classici, soffermandosi
sugli autori esemplari Giorgio Caproni, Franco Fortini, Giovanni Giudici.
3.1 - Fra narrazione e classicismo
3.2 - Giorgio Caproni
3.3 - Senza esclamativi di Giorgio Caproni
3.4 - Franco Fortini
3.5 - Traducendo Brecht di Franco Fortini
3.6 - Giovanni Giudici
3.7 - Tempo libero di Giovanni Giudici
UD 4 - I Novissimi e Amelia Rosselli
Oggetto dell’unità didattica è la tradizione dello sperimentalismo dell’avanguardia, a partire dalla
rivista “Il Verri”, passando attraverso il maggior esponente del Gruppo 63, Edoardo Sanguineti, fino
ad Amelia Rosselli, che segue un percorso più appartato.
4.1 - “Il Verri” e il Gruppo 63
4.2 - I Novissimi
4.3 - Edoardo Sanguineti
4.4 - Questo è il gatto con gli stivali di Edoardo Sanguineti
4.5 - Amelia Rosselli
4.6 - Tenere crescite di Amelia Rosselli
UD 5 - Il ritorno al privato e l'uso del dialetto
L'unità si sofferma sul ritorno al privato nella poesia dopo il 1973 e sulla nuova dominante neoorfica; considera quindi un aspetto di questo fenomeno, la ripresa della poesia in dialetto (con autori
quali Albino Pierro e Franco Loi).
5.1 - La poesia del privato e il neo-orfismo
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5.2 - Il disperso di Maurizio Cucchi e Somiglianze di Milo De Angelis
5.3 - Ricerca; relazione di Maurizio Cucchi
5.4 - La poesia in dialetto: Albino Pierro e Franco Loi
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UD 1 - Le premesse: la svolta del 1956, “Officina”, Pasolini
Nell'unità didattica si considerano le ragioni storico-sociali della svolta del 1956, analizzando
quindi le nuove proposte della rivista bolognese “Officina” e del suo principale animatore, Pier
Paolo Pasolini.
1.1 - La poesia nella società di massa
1.2 - La svolta del 1956
1.3 - “Officina”
1.4 - Pier Paolo Pasolini
1.5 - Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini
1.1 - La poesia nella società di massa
Il periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta alla fine del secolo è per la poesia un periodo
particolarmente difficile e complesso. Fondandosi sulla comunicazione verbale, la poesia vive con
forza i cambiamenti e le novità che riguardano il mondo della comunicazione e dei linguaggi. La
diffusione e il trionfo dei mass media e dunque di nuovi linguaggi, spesso non verbali o non
esclusivamente verbali, provocano sulla poesia effetti profondi. Essa è messa in discussione da
quanti la considerano uno strumento espressivo limitato e perfino superato, ritenendola incapace di
rispondere alle nuove esigenze della società di oggi. Può tuttavia anche accadere che, proprio
perché così arcaica ed estranea alle modificazioni percettive della società di massa, la poesia venga
sentita quale unica alternativa possibile all’alienazione linguistica e alla crisi della comunicazione
fra gli individui. Nello stesso periodo si assiste dunque sia a una radicale messa in discussione della
poesia, sia a una sua rivalutazione perfino sacrale. Il primo movimento prevale tra la fine degli anni
Cinquanta e l’inizio dei Settanta; il secondo dopo il 1973 e poi fino agli anni Novanta.
La crisi che colpisce la poesia ha un aspetto duplice: è una crisi linguistica ed è una crisi sociale.
Dal punto di vista linguistico, il riferimento alla tradizione non appare più sufficiente a garantire un
significato e una credibilità ai testi in versi. Si tratta di perseguire nuovi modelli linguistici e nuove
strade espressive. Di qui un profondo bisogno di rinnovamento, che nel quindicennio abbondante
fra il 1956 e il 1973 coinvolge tutti i poeti, sia pure in forme diverse. Dal punto di vista sociale, la
poesia sconta una crisi di funzione e una crisi di legittimazione culturale. La civiltà di massa si
affida ora a fonti ritenute più credibili, o semplicemente risultanti più agevoli: la televisione, i
rotocalchi e i giornali, le canzoni. Il ruolo sociale dei poeti si marginalizza fino a perdere ogni
visibilità. E anche a questo gli autori più importanti sono costretti a reagire, ora rivendicando una
funzione civile con l’impegno, ora criticando essi stessi le aspirazioni sacrali e i privilegi storici
della poesia.
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1.2 - La svolta del 1956
Subito dopo la metà degli anni Cinquanta si registrano vari cambiamenti nel mondo e in Italia: sul
piano internazionale si assiste alla fine dello stalinismo (Kruscev denuncia durante il XX congresso
del PCUS i crimini di Stalin) e al culmine della congiuntura favorevole dell’economia statunitense;
sul piano interno, prende avvio il cosiddetto “miracolo economico” (o boom), che nel corso di un
decennio trasformerà radicalmente il volto dell’economia e della società italiane. Un terzo degli
italiani cambia residenza e spesso lavoro, il reddito raddoppia; si impongono la scuola e l’università
di massa (si quadruplicano gli studenti medi e si triplicano quelli universitari); cresce la diffusione
di giornali, riviste e libri; i dialetti vengono abbandonati a vantaggio dell’italiano standard (diffuso
soprattutto dalla neonata televisione). L’Italia entra a far parte dei paesi a capitalismo avanzato.
Dal punto di vista culturale, l’Italia si apre alle nuove scienze, dal Neopositivismo alla
fenomenologia, dalla psicoanalisi alla sociologia all’antropologia culturale. Entra così in crisi il
vecchio impianto idealistico della cultura italiana (fra l’altro nel 1952 è morto Benedetto Croce,
maestro indiscusso dell’idealismo). La nuova centralità della fabbrica nell’immaginario nazionale,
l’imporsi di una prospettiva cittadina e metropolitana al posto di quella tradizionale agricola e
naturale, l’ingresso della televisione nella vita privata di milioni di italiani determinano quella
svolta che Pier Paolo Pasolini ebbe a definire “mutazione antropologica”. È una trasformazione
della mentalità e dei costumi che incide profondamente anche sulle posizioni degli intellettuali,
costretti a misurarsi in modo anche brutale con le problematiche della società di massa. Non
casualmente, in questa prospettiva, Montale cessa di scrivere poesie per quasi un decennio (fra il
1956 e il 1964), e la ripresa con Satura (1971; vedi 2.2) avviene in forme decisamente rinnovate.
I cambiamenti economici e sociali determinano la crisi del Neorealismo nella narrativa (nel 1956 si
svolge una significativa polemica sul Metello di Pratolini; vedi il modulo Temi e forme della
narrativa italiana contemporanea, 2.5) e la crisi della tradizione ermetica nella poesia. Attorno alla
metà degli anni Cinquanta iniziano le pubblicazioni due importanti riviste che da punti di vista
alternativi criticano i modelli fino a quel momento dominanti e propongono nuove strade: “Il Verri”
(vedi 4.1) e “Officina” (vedi 1.3).
1.3 - “Officina”
La rivista “Officina” viene stampata a Bologna fra il 1955 e il 1959 con il sottotitolo “bimestrale di
poesia”. Redattori sono fino al 1958 Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi.
Negli ultimi due numeri si aggiungono Franco Fortini (vedi 3.4), Angelo Romanò e Gianni Scalia,
già collaboratori nel corso delle annate precedenti. “Officina” si colloca sul confine fra due
situazioni storiche diverse e costituisce la presa di coscienza di questo passaggio nonché un
tentativo di reagirvi. Contesta il ruolo tradizionale dell’intellettuale e dello scrittore, ma al tempo
stesso lo rilancia non senza qualche venatura nostalgica: il rifiuto del disimpegno o di un impegno
legato a partiti politici si accompagna alla proposta di un “nuovo impegno”. Alle poetiche della
tradizione novecentista, fondate sull’autonomia dell’arte e sulla rivendicazione della purezza, i
redattori di “Officina” contrappongono la proposta di un nuovo coinvolgimento nella realtà. Anche
la poesia deve avere il coraggio di misurarsi con prospettive sociali e politiche, assumendo una
precisa prospettiva di tipo ideologico. La linea di “Officina” si esprime dunque tanto in una rilettura
innovativa della letteratura novecentesca quanto nella proposta di un’originale poetica.
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La poesia della prima metà del secolo sarebbe stata dominata da una prospettiva di purezza lirica,
che avrebbe espunto la realtà sociale e ideologica dal territorio trattabile in versi. Il D’Annunzio
lirico e soprattutto Ungaretti e l’ermetismo avrebbero formato un modello e una tradizione
maggioritari anche se non unici. La rivista bolognese, a opera soprattutto di alcuni saggi di Pasolini,
contesta questa dominante e propone il rilancio di un filone antinovecentista alternativo (vedi UD
3). Esso andrebbe dai poemetti di Giovanni Pascoli a Lavorare stanca di Cesare Pavese,
coinvolgendo la poesia narrativa di Umberto Saba e la linea a essa ispirata (Penna, Caproni,
Bertolucci).
Da questa rilettura storico-critica, che avrà vasta fortuna e diverrà un’acquisizione largamente
condivisa, Pasolini e il gruppo degli scrittori officineschi derivano la proposta di una poesia
impegnata civilmente e politicamente, di ispirazione narrativa, sperimentale dal punto di vista
stilistico. Vengono rilanciati alcuni generi poetici marginali come il poemetto narrativo e
l’epigramma. Alla poetica della purezza della tradizione simbolista e degli ermetici, “Officina”
contrappone una “poetica dell’impurità”, centrata sulla scelta del plurilinguismo. Si tratta di una
prospettiva che influenzerà profondamente non solo l’attività di Pasolini poeta, ma anche lo
sperimentalismo degli anni Sessanta e Settanta.
1.4 - Pier Paolo Pasolini
Figura complessa e problematica, Pier Paolo Pasolini è la personalità più importante della rivista
“Officina” (1955-1959). Nato a Bologna il 5 marzo 1922, Pasolini verrà ucciso a Roma nel 1975.
Laureato in Lettere nella città natale, si trasferisce a Roma nel 1949, dove raggiunge il successo
prima come romanziere e quindi come regista. La vicenda di Pasolini si articola in due fasi, separate
dalla scoperta del cinema (il primo film, Accattone, è del 1961): la prima va fino al 1960 ed è quella
di un letterato di tipo tradizionale; la seconda, dal 1961, è invece dominata dal contatto con il
mondo del cinema e dei mass media (ma netta resta sempre la condanna della televisione).
Pasolini e Orson Welles sul set de La ricotta
La scrittura poetica attraversa entrambe le fasi, raggiungendo nella prima i suoi risultati più
importanti con la raccolta in dialetto friulano La meglio gioventù (1954) e con i poemetti narrativi e
civilmente impegnati di Le ceneri di Gramsci (1957). La tensione fra prospettiva pubblica
impegnata e temi privati, anche viscerali, si accentua nella seconda fase, dominata da una più acuta
consapevolezza delle proprie contraddizioni psicologiche (il legame edipico con la madre,
l’omosessualità non rivendicata) e dei limiti storici della società italiana, della quale vengono
ripetutamente denunciate le contraddizioni: sconvolta la vecchia cultura contadina, la
modernizzazione assume i tratti di una corruzione generalizzata, mentre le masse popolari appaiono
sempre più omologate ai valori inautentici della piccola borghesia. All’incrocio di pubblico e di
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privato sono dunque le raccolte di questi anni: La religione del mio tempo (1961), Poesia in forma
di rosa (1964), Trasumanar e organizzar (1971); e una feroce riscrittura pessimistica e disillusa
delle poesie in dialetto della giovinezza occupa gli ultimi mesi di vita dell’autore. Il passaggio da
una raccolta all’altra mostra tuttavia un ritrarsi del poeta verso il privato, fino alla denuncia del
mondo in nome dei valori della corporalità e della testimonianza individuale.
Dal punto di vista formale, la produzione più significativa di Pasolini poeta metta in pratica la
poetica rivendicata su “Officina”: uno sperimentalismo di tipo narrativo civilmente impegnato. La
stessa riscoperta del poemetto di tipo pascoliano e il personale rifacimento della terzina narrativa di
tradizione dantesca permettono un impianto strutturalmente ampio e formalmente variato, con una
vivace ricchezza lessicale e un’originale reattività emotiva.
1.5 - Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini
È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
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Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
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d’amore, dell’amore di corpi senz’anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
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ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
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Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori della ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
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Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
(Pasolini 1963)
Analisi del testo
Raccolto in Poesia in forma di rosa (1964), questo componimento di Pasolini (ascolta la poesia
letta da Pasolini: Pier Paolo Pasolini - Supplica a mia madre) affronta uno dei motivi profondi della
sua vena esistenziale e della sua psicologia privata: il rapporto con la madre. L’esclusività di questa
relazione sarebbe alla base dell’impossibilità di amare altri dopo di lei, non senza un’allusione
implicita all’omosessualità e al bisogno disperato (e compulsivo) di rapporti occasionali.
Pasolini con la madre, fotografato da Mario Dondero
La scrittura poetica di Pasolini è sempre costituita da un incontro di lucidità razionale e di “buie
viscere” (la definizione è sua), ed è interessante notare come i due aspetti siano entrambi presenti in
questo testo.
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La lucidità razionale si esprime innanzitutto nel rigore metrico e formale. Il componimento è
formato da dieci distici di doppi settenari (o martelliani, o alessandrini) a rima baciata. L’effetto è
dunque quello di un procedimento linguistico e formale di un’esattezza quasi matematica,
incalzante come un sillogismo.
D’altra parte la perfezione metrica è poi turbata da numerose eccezioni: alcuni versi non rispettano
la misura dovuta (per esempio i vv. 8, 10, 11), creando alterazioni e turbative ritmiche; alcuni distici
presentano rime imperfette (come l’ultimo, che si accontenta di un’assonanza) o addirittura si
limitano a offrire tenui relazioni foniche nella parola finale (è così per i vv. 5-6 e per i vv. 9-10). Si
aggiunga poi l’inserimento di pesanti enjambements in alcuni passaggi-chiave della poesia, come
fra i vv. 9-10 e 13-14.
Il congegno, insomma, è perfetto solo in apparenza; mentre dal suo interno erompe un’asimmetria
formale che ne turba l’assetto e ne mina lo statuto espressivo.
La contraddizione fra apparente rigore formale e inquietudine profonda si ripropone poi sul piano
dei contenuti, dove avviene lo scontro fra lo slancio d’amore verso la madre e la coscienza profonda
della sua colpevolezza. Ed è da questo conflitto che deriva lo scatto finale, e che giustifica il titolo:
la supplica, cioè, alla madre perché non voglia morire; quasi che l’“orrenda” confessione del poeta
(cfr. il v. 5) possa determinare nella madre il desiderio della morte. Solo il verso conclusivo, con
uno scatto improvvisamente estraneo al principio di realtà, sembra immaginare la realizzazione di
un incontro impossibile in una futura primavera, ricomponendo (ma nel sogno) i due poli della
contraddizione fra desiderio e colpa.
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UD 2 - Eredità simbolista e rinnovamento: Luzi, Sereni e Zanzotto
L'unità didattica considera innanzitutto l’eredità trasmessa da Montale al secondo Novecento,
insistendo sulla crisi delle poetiche legate al simbolismo e soffermandosi quindi su Mario Luzi,
Vittorio Sereni e Andrea Zanzotto quali figure rappresentative di tale crisi.
2.1 - L’eredità di Montale e la crisi del simbolismo
2.2 - Satura di Eugenio Montale
2.3 - L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili di Eugenio Montale
2.4 - Mario Luzi
2.5 - A che pagina della storia di Mario Luzi
2.6 - Vittorio Sereni
2.7 - La spiaggia di Vittorio Sereni
2.8 - Andrea Zanzotto
2.9 - Così siamo di Andrea Zanzotto
2.1 - L’eredità di Montale e la crisi del Simbolismo
Nella seconda metà dell’Ottocento la poesia europea è dominata dalla grande tradizione del
Simbolismo, che va da Baudelaire a Mallarmé e oltre. In Italia ne sono eredi diretti Pascoli e
D’Annunzio a cavallo fra i due secoli (vedi la scheda Il Simbolismo in Italia). Nei primi due
decenni del Novecento la stagione delle avanguardie rinnova e problematizza questa tradizione,
arrivando in alcuni casi a contraddirla e rifiutarla apertamente. E mentre un maestro come Ungaretti
può ancora essere collocato al suo interno, sia pure in modo originale, un appartato periferico come
Saba (vedi 3.1) gli è decisamente estraneo.
Una posizione originale è quella di Montale: egli per un verso eredita la tradizione simbolista,
aspirando alla sua modernizzazione, ma d’altra parte rappresenta la sua crisi più che la sua
prosecuzione. In ogni caso egli resta lontano dal gusto della metafora assoluta e dall’analogismo
tipici della tradizione simbolista (ripresi infatti in Italia negli anni Trenta dagli ermetici; vedi la
scheda L’Ermetismo). Piuttosto che il fascino del simbolo, Montale sente quello dell’allegoria,
anche grazie al recupero della lezione dantesca. A partire dal terzo libro, La bufera e altro (1956),
affronta poi apertamente il tema della crisi e della morte della poesia: un tema inconcepibile nella
linea del simbolismo, che alla poesia attribuiva un valore e privilegi conoscitivi indiscussi. Con
Satura (1971) e la produzione successiva, il tema della morte della poesia e dell’arte è ormai
metabolizzato in profondità da Montale, la cui ricerca sfida nuove possibilità espressive e
aggredisce nuovi temi (guarda il video Eugenio Montale - Poesia e prosa).
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Eugenio Montale
Montale appare dunque il poeta che documenta la crisi del Simbolismo e cerca strade alternative. La
sua ricerca appare anche per questo paradigmatica e si colloca al centro del Novecento, situandosi
all’incrocio di percorsi diversi. Non deve perciò stupire che i maggiori poeti della generazione
successiva alla sua e che possono essere considerati più direttamente suoi eredi – Luzi, Sereni,
Zanzotto –, pur avendo mosso i primi passi all’interno del clima ermetico e dunque in area
simbolista, vivano la sua stessa crisi e si avvicinino anch’essi a soluzioni più prosastiche,
soprattutto dopo la svolta storica che si avvia con il 1956.
Luzi passa dalle preziose stilizzazioni ermetizzanti dei primi libri alla percezione di una crisi di
linguaggio e di poetica, fino a un verseggiare prosastico e all’ambientazione nell’inferno della
quotidianità cittadina; Caproni sviluppa una tendenza alla quotidianità espressiva e alla narratività;
Zanzotto si aggira fra i detriti del senso simbolico perduto tentando una nuova dimensione
linguistica dai forti tratti sperimentali.
2.2 - Satura di Eugenio Montale
Sugli autori più giovani l’effetto della Bufera e altro di Montale, uscita nel 1956, fu vivissimo.
L’autore di Ossi di seppia e Le occasioni, cioè di una lirica che attualizzava originalmente un’idea
moderna di alto stile classico, apriva ora a materiali linguistici anche bassi e corporali,
coinvolgendo in questo abbassamento anche il punto di vista ideologico. Non mancarono reazioni di
rigetto (fra le quali per esempio quella di Pasolini), e tuttavia il modello agì in profondità,
incoraggiando un’idea nuova della lirica.
Più forte ancora fu lo choc del quarto libro montaliano, Satura, pubblicata nel 1971. A differenza
delle raccolte precedenti, oggetto di questa poesia sono fatti quotidiani e banali, avvenimenti
minimi della memoria senza possibilità di riscatto o di innalzamento. Lo stesso ruolo dell’ispiratrice
femminile subisce un abbassamento: dopo la sublime Clizia e la vitale Volpe, ecco l’antieroica
Mosca, forte di un intuito perfino cinico e di una vitalità raso terra. Dopo l’ardua cifra stilistica delle
raccolte precedenti, la scrittura montaliana si attesta su una poesia-prosa. Certo, l’abbassamento
stilistico non esclude il ricorso ai più sofisticati strumenti retorici e metrici, ma impone la loro
dissimulazione.
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Eugenio Montale
I temi appartengono quasi solamente a due ambiti: il presente della società di massa,
dell’omologazione culturale e dell’inautenticità dei valori, e il mondo della propria grande poesia
passata, con i suoi miti ormai anacronistici. L’effetto satirico (cui allude il titolo del libro) nasce
dalla giustapposizione dei due piani, dato che ognuno ha la funzione di smentire l’altro: al cospetto
dei valori passati, il presente rivela tutta la sua meschinità e la sua mancanza di senso; mentre al
cospetto del nostro tempo, ridicole e infondate risultano le illusioni via via sedimentate nei tre
grandi libri precedenti.
La mescolanza di presente e passato, la ripresa desublimata e astorica di temi ed episodi lontani nel
tempo, la rottura di ogni gerarchia di valori, il cinismo che presiede alla rilettura della società e
della storia hanno fatto parlare di un’opera postmoderna; e certo non mancano alcuni ingredienti
della successiva stagione artistico-culturale. Questi divengono d’altra parte ancora più pronunciati
nei libri successivi dell’autore: Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977),
Altri versi (1980).
Affiancata alla rottura ancora più marcata dei poeti del Gruppo 63 (vedi 4.1), questa seconda fase
della poesia montaliana ebbe un’importante funzione di rinnovamento nel panorama della poesia
italiana, rendendo ancora vive e centrali negli anni Sessanta e Settanta le proposte di un poeta che
era nato nel lontano 1896.
2.3 - L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili di Eugenio Montale
L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili,
delle carte, dei quadri che stipavano
un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto.
Forse hanno ciecamente lottato i marocchini
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
rossi, le sterminate dediche di Du Bos,
il timbro a ceralacca con la barba di Ezra,
il Valéry di Alain, l’originale
dei Canti Orfici – e poi qualche pennello
da barba, mille cianfrusaglie e tutte
10
le musiche di tuo fratello Silvio.
Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura
di nafta e sterco. Certo hanno sofferto
tanto prima di perdere la loro identità.
Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio
15
stato civile fu dubbio fin dall’inizio.
Non torba m’ha assediato, ma gli eventi
di una realtà incredibile e mai creduta.
Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo
dei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo.
(Montale 1980)
Note:
1 pack: la crosta, l’insieme (ingl.). 4 marocchini: rilegature in pelle. 5 Du Bos: Charles Du Bos (1882-1939), prestigioso
critico letterario francese, le cui lunghissime dediche all’amico Montale testimoniano di un gusto eccentrico e originale.
6 Ezra: Ezra Pound, il poeta americano, che chiudeva le lettere con un sigillo personale. 7 il Valéry di Alain: il libro sul
poeta francese Paul Valéry scritto dal prestigioso critico francese Alain. 7-8 l’originale…Orfici: l’edizione originale e
dunque preziosa, uscita a Marradi nel 1914, dei Canti Orfici di Dino Campana. 9 cianfrusaglie: cose di nessun valore.
10 tuo fratello Silvio: il fratello della moglie del poeta, musicista morto giovane. 11 morsura: propriamente l’azione
degli acidi sulla lastra di metallo per fare le incisioni, cioè, qui, la pesante azione dell’alluvione sugli oggetti. 14 se: dato
che. 15 stato civile: identità. 16 torba: fango alluvionale. 18 il primo: il più importante. 19 prestiti: perché la moglie
morendo lo ha portato via con sé.
Analisi del testo
Questa poesia, datata 27 novembre 1966, è l’ultima della sezione di Satura dedicata alla moglie
morta (intitolata “Xenia”, in latino “doni per l'ospite”). L’occasione contingente è data
dall’alluvione che colpì Firenze nel novembre 1966 a causa dello straripamento dell’Arno. In esso
rimase sommersa la cantina in cui Montale aveva conservato libri, quadri, documenti e mobili del
suo periodo fiorentino (fra la fine degli anni Venti e i Quaranta). La distruzione degli oggetti lì
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conservati diventa l’immagine allegorica della fine di un’epoca, del tramonto dei valori umanistici
di un tempo e della crisi ormai irrecuperabile dell’identità del poeta. A questi non resta ormai che il
coraggio trasmessogli dalla moglie. Esso è l’ultimo e l’unico valore possibile, consistente nella
fermezza con cui il poeta constata l’insignificanza dominante.
Se l’alluvione che colpisce Firenze diventa un’allegoria della civiltà di massa che disgrega e
distrugge i valori della civiltà umanistico-letteraria, tuttavia non si tratta più di un’allegoria positiva,
che proponga cioè un valore, così come accadeva con il mito di Clizia negli anni Trenta o con la
vitalità di Volpe alla fine dei Quaranta. Questa è un’allegoria critica-negativa, corrispondente allo
scetticismo e al nichilismo dell’ultimo Montale. Qui in particolare si denuncia la catastrofe che ha
portato alla distruzione i valori degli anni Trenta. Tutti gli oggetti che riempiono la cantina
rimandano infatti alla società letteraria fra le due guerre, e il tentativo di proteggerli serbandoli in
una cantina è stato anche una rimozione storica. Ora l’alluvione della civiltà di massa li raggiunge e
aggredisce, annullandone l’identità.
I vecchi valori che tramontano non sono tuttavia sostituiti da valori nuovi e alternativi. Montale si
limita a sostenere la necessità di una saggezza elementare e per così dire biologica, quella che
deriva dal puro coraggio di esistere nonostante tutto: la lezione ricevuta dalla moglie Mosca. Può
semmai rivendicare, nella parte conclusiva del testo, di aver anticipato da tempo questa crisi
generale di identità, sempre dubitando della propria.
Dal punto di vista formale, si registra una forte riduzione degli artifici retorici, tale da far confinare
questi versi con la prosa. Metricamente, i versi liberi si attestano spesso sulla misura
dell’endecasillabo (vv. 1, 2, 7-10, 12, 16), anche ipermetro (che cioè ha una o più sillabe eccedenti
la misura canonica). Martelliani sono i vv. 4-5 e 13-15. Alla mancanza di rime regolari si affianca
un lavoro accurato (ma quasi inavvertito) sui significanti (cfr. p. es. la rima “certo : sofferto” al v.
12, dove si dà anche assonanza con “sterco”).
2.4 - Mario Luzi
Il maggior poeta del gruppo degli ermetici fiorentini è Mario Luzi, nato a Castello (FI) il 20 ottobre
1914 e morto a Firenze nel 2005. Laureato in Lettere, ha insegnato al Liceo e poi all’Università.
Negli anni Trenta ha collaborato alle riviste fiorentine dell’Ermetismo (vedi la scheda "Solaria"),
esordendo come poeta nel 1935 con La barca. Le raccolte della prima fase, ermetica, sono poi
confluite in Il giusto della vita (1960). Le raccolte del ventennio successivo sono state invece riunite
in Nell’opera del mondo (1979): Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su
fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978). Varie altre raccolte sono state
pubblicate ancora fra gli anni Ottanta e la morte. Guarda i due video Mario Luzi - Le Voci della
Scrittura e Mario Luzi legge due poesie.
La poesia di Luzi unisce una straordinaria stabilità, determinata dall’adesione alla fede cattolica, e
una inquieta apertura all’innovazione. D’altra parte Luzi ha sempre vissuto la propria religiosità in
modo problematico, cercandone le verifiche nella società e nella storia. Su uno sfondo di fiducia
nella forza del trascendente si è dunque innestata una sensibilità angosciata e cupa, che rimanda al
filone pessimistico del cristianesimo di Pascal e di Manzoni. Luzi crede nell’esistenza di un
significato metafisico ed è certo che la ricerca poetica abbia un valore, tuttavia cerca
affannosamente i segni del divino nel mondo, sforzandosi di fare della poesia un’interrogazione di
questa presenza e una sua testimonianza.
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Mario Luzi
La poetica di Luzi affonda le radici nel tardo simbolismo degli ermetici fiorentini, con i quali
condivide la valorizzazione della poesia. E tuttavia è respinta ogni idea di trasparenza fra scrittura
poetica e mondo: il poeta può conoscere della realtà e della vita quanto ogni altro cristiano. Accade
dunque che il poeta rimanga coinvolto nel sentimento contemporaneo della crisi, particolarmente
forte a partire dagli anni Sessanta, quando anche la lingua e la forma dei testi luziani subiscono un
progressivo rinnovamento, aprendosi a sperimentazioni audaci: versi a scalino, periodare
paratattico, fusione di lessico colto e poetico e di termini gergali e perfino bassi, sequenze di frasi
interrogative lasciate senza risposta. Nei risultati migliori del poeta si fondono così tensione
filosofica, da una parte, e rappresentazione umana di un’indagine dall’altra; così come convivono
narrazione esemplare e bisogno complessivo di senso. Si tratta di un’esperienza artistica che cala un
modello tradizionale di poesia, derivato dalla tradizione romantica e simbolistica, dentro il
“magma” (parola luziana) della contemporaneità e delle sue contraddizioni.
2.5 - A che pagina della storia di Mario Luzi
A che pagina della storia, a che limite della sofferenza –
mi chiedo bruscamente, mi chiedo
di quel suo “ancora un poco
e di nuovo mi vedrete” detto mite, detto terribilmente
5
e lui forse è là, fermo nel nòcciolo dei tempi,
là nel suo esercito di poveri
acquartierato nel protervo campo
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in variabili uniformi: uno e incalcolabile
come il numero delle cellule. Delle cellule e delle rondini.
(Luzi 1998)
Note:
3-4 “ancora…vedrete”: sono le parole di Cristo prima di morire, con allusione alla morte e alla resurrezione, come
riferisce il Vangelo di Giovanni (XVI, 16): “Ancora un poco e non mi vedrete più; e ancora un poco e poi mi vedrete di
nuovo”. 5 nòcciolo: nucleo, cuore. 7 acquartierato: accampato; espressione militare. Protervo: che non si arrende. 8 in
variabili uniformi: con molteplici aspetti.
Analisi del testo
Questo testo fa parte di una raccolta (Al fuoco della controversia, 1978) nella quale i temi religiosi
sono posti a confronto con problematiche civili, secondo una prospettiva che rimanda all’assoluto
della fede ma anche al bisogno di una verifica storica e terrena.
Mario Luzi
All’esigenza di vedere il manifestarsi, nella storia, della divinità corrisponde la fiducia che tale
manifestazione sia già profondamente presente e visibile; e dunque all’ansia di verità e di giustizia
corrisponde già l’appagamento, o una sua promessa. Ma si tratta di un appagamento problematico e
combattivo, senza rassegnazione e apertamente schierato dalla parte degli oppressi.
Dal punto di vista formale, la tensione di domanda che anima il testo è sorretta dalla figura
dell’anafora (“a che… a che… mi chiedo… mi chiedo…”). La ripetizione sottolinea anche
l’importanza dell’evento che ha provocato la domanda (“detto… detto…”). Anche gli avverbi
(soprattutto “mite” e “terribilmente”) servono a drammatizzare la prima strofe e a rendere
problematico e complesso il carattere stesso della promessa di Cristo (“mite” infatti contrasta con
“terribilmente”).
Anche in questo caso, dunque, la fede religiosa di Luzi non si appaga di fronte alla semplice
esistenza trascendente di Dio, ma ne ricerca i segni nell’immanenza e nella storia. Anche la risposta
ipotizzata nella seconda strofa presuppone la storicità e la materialità dell’esistenza divina. Le
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immagini evocano un’idea di forza e di scontro, in quanto sono riprese dal lessico militare, con
prolungata metafora (“esercito”, “acquartierato”, “campo”, “uniformi”; cfr. anche l’energico
aggettivo “protervo”). Luzi non presenta un’idea tradizionale di rassegnazione, ma allude piuttosto
al valore rivoluzionario dell’insegnamento cristiano.
Tuttavia, l’immagine conclusiva rimanda a una grazia e a un’armonia della quale l’unica garanzia è
appunto la presenza di Cristo fra i sofferenti e fra gli oppressi: un’armonia che senza di lui non
sarebbe possibile.
2.6 - Vittorio Sereni
Vittorio Sereni nasce a Luino, sul Lago Maggiore, il 27 luglio 1913 (vedi il modulo La poesia di
Vittorio Sereni). Laureatosi in Lettere a Milano, partecipa alla vita letteraria, collaborando alle
riviste dell’Ermetismo. L’esordio poetico avviene nel 1941 con Frontiera. Durante la Seconda
guerra mondiale combatte in Africa e in Grecia. Fatto prigioniero nel 1943, resta due anni nei campi
di prigionia in Algeria e in Marocco. Ne nasce il Diario d’Algeria, seconda raccolta poetica,
pubblicato nel 1947. Stabilitosi a Milano, diviene, dopo un’esperienza di insegnamento, direttore
editoriale di Mondadori. Nel 1965 esce la terza raccolta poetica, Gli strumenti umani, e nel 1981
l'edizione definitiva di Stella variabile. Muore a Milano nel 1983.
Vittorio Sereni
La poesia di Sereni nasce nel solco dell’Ermetismo ma con una sensibilità personale ai dati
particolari della realtà e al presente (contro l’indefinitezza e l’atemporalità ermetiche). Caratteristica
è poi una condizione di precarietà e di incertezza esistenziale dell’io. La crisi del soggetto diviene
anzi via via più grave nello scontro fra i valori etici del poeta e la nuova civiltà di massa. Incapace
di affrontare in modo complessivo le potenti trasformazioni storiche che si trova a vivere, Sereni
sceglie sempre più di concentrarsi sul “qui e ora”, in uno stato di prigionia inesorabile dalla quale
può tuttavia scaturire anche un significato possibile della vita.
Uno dei motivi conduttori della poesia di Sereni è il tema dei morti. Questi rappresentano la
condizione-limite dell’esistenza umana, grazie alla quale divengono chiari il significato della vita e
la sua fragilità. D’altra parte i morti richiamano l’attenzione su tutto quanto nella vita resta
irrealizzato, e impongono al poeta di prendere posizione sulle responsabilità individuali e storiche
nel fallimento di tanti destini. La poesia di Sereni è a volte sopraffatta dal senso di colpa, a volte
rasserenata dall’impressione di poter dare voce, sia pure in modo solo metaforico, a quei fallimenti
e a quei vuoti, quasi scommettendo su un possibile riscatto futuro.
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
Negli Strumenti umani (vedi il modulo La poesia di Vittorio Sereni, UD5) e in Stella variabile (vedi
il modulo La poesia di Vittorio Sereni, UD6), i capolavori del poeta, i registri linguistici ed
espressivi si complicano e si arricchiscono, aprendosi a un prudente ma significativo
plurilinguismo. La lingua della poesia incontra la lingua parlata e l’io può presentarsi coinvolto nel
dialogo con altre voci, all’incrocio di incontri occasionali o proteso all’interrogazione dei morti.
2.7 - La spiaggia di Vittorio Sereni
Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: – Non torneranno più –.
Ma oggi
5
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
I morti non è quel che di giorno
10
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.
(Sereni 1995)
Note:
2 blaterava: parlava in modo sgradevole. Ricevitore: la cornetta del telefono. 6 toppe solari: alternanza di sole e ombra.
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
Analisi del testo
L’occasione della poesia è l’annuncio, dato da qualcuno al telefono con fastidiosa sicurezza, che gli
amici sono partiti dal luogo di vacanza in via definitiva. Tale evento minimo di cronaca viene
assunto dal poeta come indicativo di un atteggiamento di rimozione nei confronti dei morti, dove
per morti può anche intendersi, come ha fatto Fortini, i “condannati storici al mutismo (popoli,
classi)” (F. Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1977: 159). Di certo la morte è poi
qui tutto ciò che dello stesso soggetto individuale va perduto o fallisce la realizzazione, senza cioè
arrivare a una vera esistenza.
Contro la semplificazione di chi accetta il vuoto, il fallimento e l’assenza – cioè la morte –, il poeta
si impegna a vedere gli indizi che annunciano la possibile riaffermazione vitale di tali esistenze.
Questo atteggiamento positivo si conclude con la certezza che quelle zone d’ombra (storiche e
individuali) si animeranno come il paesaggio all’illuminarsi del sole. E allora da questo animarsi
arriverà la dichiarazione di una verità affidabile, la pronuncia di una parola in qualche modo
risolutiva.
In questa prospettiva, il verbo al futuro che conclude il testo (“parleranno”) si contrappone
positivamente alla negatività del “blaterava” iniziale, così come la forza di un evento naturale (il
sole che illumina a tratti la spiaggia, il mare che comunica la sua forza) si contrappone
all’artificialità meccanica e alienante del mezzo meccanico da cui parla la diagnosi negativa iniziale
(il “ricevitore”). È per questo che la voce che dichiara la fine di ciò che è morto o non è stato è
definita “saputa”: perché si atteggia come se fosse sapiente ma in realtà ignora l’unica verità che
conta.
La “calce” e la “cenere” sono espressioni dunque di morte (la calce si getta sui cadaveri nelle fosse,
la cenere è ciò che ne rimane dopo la dissoluzione), ma da esse è sempre possibile e anzi inevitabile
che si sprigioni poi il loro contrario, cioè “movimento e luce”.
Questo testo è quello conclusivo di Gli strumenti umani e, oltre che riepilogare e definire uno dei
temi decisivi del libro, quello dei morti, ne riassume anche la poetica. Appare qui netta la distanza
dalle origini ermetiche dell’autore, e dunque, più in generale, dalla tradizione simbolistica che gli
sta alle spalle. Qui il soggetto non cerca una comunione o una corrispondenza con la natura, ma
ricostruisce a contatto con i segni del paesaggio naturale (la spiaggia, il sole, il mare) un proprio
itinerario intellettuale e una propria scommessa di senso. Questa poesia è analizzata anche nel
modulo La poesia di Vittorio Sereni, 5.4.
2.8 - Andrea Zanzotto
Andrea Zanzotto è nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, il 10 ottobre 1921 ed è morto a
Conegliano Veneto il 18 ottobre 2011. Rimasto sempre profondamente legato al paese natio, ha
continuato a risiedervi fino alla morte. Si è laureato in Lettere all’Università di Padova nel 1942,
partecipando poi alla lotta partigiana. Ha insegnato per molti anni alle scuole elementari e medie.
L’esordio è avvenuto nel 1951 con Dietro il paesaggio, seguito da Vocativo (1957). Ha poi
pubblicato IX Egloghe (1962), La Beltà (1968), Gli sguardi i fatti e senhal (1969), Pasque (1973),
Filò (1976). Fra anni Settanta e anni Ottanta è uscita una sorta di trilogia: Il Galateo in bosco
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(1978), Fosfeni (1983), Idioma (1986; vedi il modulo La poesia italiana dalla metà degli anni
Settanta ad oggi, 2.4). Del 1996 è Meteo; del 2002 Sovrimpressioni.
Andrea Zanzotto
Nella produzione più matura di Zanzotto è centrale la riflessione sul linguaggio. Zanzotto muove
dalla concezione degli ermetici, secondo i quali alla lingua della poesia corrisponde la verità, ma la
mette in crisi e la problematizza, senza tuttavia mai aderire alla concezione della Neoavanguardia
(vedi 4.1), secondo la quale alla lingua corrisponde comunque la falsità. Per Zanzotto la lingua è sia
il luogo di massima inautenticità e alienazione, soprattutto per l’usura cui la sottopongono i mass
media, sia un deposito di usi e significati passati. Questa profondità storica raccoglie la vastità
dell’esperienza umana collettiva: ogni parlante ha lasciato sulla lingua le tracce del proprio uso.
D’altra parte nella lingua è possibile indagare anche la profondità della psiche individuale.
Si tratta tuttavia di sfidare il linguaggio evitando di cadere nella sua mistificazione. La ricerca
dell’autenticità si deve svolgere lontano dagli usi più comuni, nei margini della lingua, e in
particolare nelle sue zone più alte – come quella della letteratura e dei lessici specialistici – o in
quelle più basse – come quelle dei dialetti o dell’idioma infantile (il petèl). Forzando i margini del
linguaggio è possibile sfuggire ai rischi di banalità e di inespressività del linguaggio ordinario. Un
altro modo consiste nella sconnessione dei significati consueti e nella valorizzazione dei significanti
linguistici: usando le relazioni fra significanti e facendo leva sui legami etimologici fra le parole, è
possibile rivitalizzare la lingua e costringerla a dire qualcosa di autentico e di nuovo. Da La
perfezione della neve (in La Beltà): “E poi astrazioni astrificazioni formulazione d’astri /
assideramento, attraverso sidera e coelos” (vv. 2-3); dove dalla radice “astro” (cioè stella) si
formano sia astrificazioni che astrazioni e poi da “astri” si passa al latino sidera, che traduce
appunto "corpi celesti"; eccetera.
È una sfida che attribuisce alla poesia una funzione conoscitiva importante e una possibilità di
riscattare la banalità dei linguaggi; ma l’orgoglio che deriva da questa consapevolezza è bilanciato
dalla frustrazione di doversi accontentare di un’azione limitata all’universo delle parole e incapace
di agire nella realtà. Di qui la tendenza all’ironia e al sarcasmo nei propri stessi confronti. Ma
proprio questa unione di orgoglio e di ridicolo aggiungono alla ricerca di Zanzotto un ingrediente
novecentesco attualissimo e lo confermano quale uno dei massimi poeti del secolo. Guarda i due
video Andrea Zanzotto - Il paesaggio come opera d’arte e Andrea Zanzotto - Poesia e canzone.
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2.9 - Così siamo di Andrea Zanzotto
Dicevano, a Padova, “anch’io”
gli amici “l’ho conosciuto”.
E c’era il romorio d’un’acqua sporca
prossima, e d’una sporca fabbrica:
5
stupende nel silenzio.
Perché era notte. “Anch’io
l'ho conosciuto”.
Vitalmente ho pensato
a te che ora
10
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
che per quanto s’affondino
15
e che gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza.
E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
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perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m’avvicini.
(Zanzotto 1999)
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Note:
5 stupende: che destavano stupore. 14-16 per quanto…abbastanza: per quanto mi sforzi di contemplare il nulla nella
sua profondità, mai mi riesce di definire adeguatamente la tua condizione di non esistenza. 22 m’avvicini: mi sei vicino.
Analisi del testo
Questo testo appartiene alla raccolta IX Egloghe, che segna un punto di crisi e di svolta nella
produzione di Zanzotto: l’adesione al linguaggio letterario e alla natura che caratterizzano la
produzione giovanile viene posta in discussione e complicata a causa dell’irrompere del mondo
tecnologico con la sua violenta problematicità.
Il tema di questa poesia è la morte di un amico. Questa ha determinato per il morto l’annullamento
completo, tale da non essere rappresentabile dal linguaggio. Le negazioni che la lingua può
esprimere relativamente al morto non sono infatti in grado di definirne l’assenza e la mancanza di
esistenza.
La morte mette di fronte a una condizione di non-esistenza, che non può essere né compresa né
detta. La stessa negazione “né”, cioè le stesse potenzialità negatrici del linguaggio, non sono
sufficienti a rappresentare tale non-essere (cfr. il v. 16).
Tuttavia, proprio a partire da questa condizione, l’amico morto è dichiarato dal poeta simile a lui
stesso, che a sua volta sperimenta la condizione del nulla. La morte, quindi, diviene l’occasione per
una scommessa, enunciata nella seconda strofe, sul senso della vita e sulla vicinanza, paradossale e
intensissima, fra vivo e morto.
Come in altri casi, Zanzotto non si arrende all’insensatezza, ma cerca di riscattarla riconoscendo nel
nulla stesso un significato e un valore (cfr. i vv. 18-20 e soprattutto la particella avversativa “ma”).
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UD 3 - Fra tradizione e sperimentalismo: Caproni, Fortini e Giudici
L'unità didattica affronta il filone “antinovecentista” della tradizione lirica negli anni Sessanta e
Settanta, caratterizzata dalla tendenza narrativa e dal recupero di elementi classici, soffermandosi
sugli autori esemplari Giorgio Caproni, Franco Fortini, Giovanni Giudici.
3.1 - Fra narrazione e classicismo
3.2 - Giorgio Caproni
3.3 - Senza esclamativi di Giorgio Caproni
3.4 - Franco Fortini
3.5 - Traducendo Brecht di Franco Fortini
3.6 - Giovanni Giudici
3.7 - Tempo libero di Giovanni Giudici
3.1 - Fra narrazione e classicismo
Nel corso del Novecento si sviluppa una poesia lirica fondata sul gusto analogico-simbolista, su un
linguaggio alto e sull’aspirazione all’essenzialità e alla purezza. Il risultato più importante di questa
linea è Sentimento del tempo di Ungaretti. Si muovono al suo interno anche gli ermetici e, ai loro
esordi, poeti come Luzi, Sereni e Zanzotto. Ma da questo filone, considerato dominante o
addirittura unico fino agli anni Cinquanta, se ne distinguono altri, definiti nel loro insieme
“antinovecentisti” da Pasolini (vedi 1.3).
Un’alternativa alla lirica pura presenta tratti impressionistici e a volte perfino popolareschi, con un
orientamento realistico o prosastico e diaristico, spesso con una tensione narrativa e a volte
ragionativa e filosofica.
Capostipite dell’antinovecentismo è Umberto Saba (vedi la scheda Umberto Saba), radicalmente
antisimbolista, e quindi lontano dalla poesia pura e dall’Ermetismo. Con il Canzoniere, Saba scrive
una sorta di romanzo psicologico in versi, nel quale l’impianto narrativo e quello ragionativo sono
dunque fortissimi. Anche la poesia di Pavese (autore della raccolta Lavorare stanca, vedi il modulo
Temi e forme della narrativa italiana contemporanea, 2.3) si colloca dentro questa tradizione, in
una prospettiva che unisce intenti popolari e colti in direzione comunque realistica.
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Umberto Saba
Alla lezione di Umberto Saba si richiamano numerosi poeti che fra gli anni Trenta e i Sessanta (e
oltre) eleggono una scrittura di tono popolare e impressionistico come Sandro Penna, Attilio
Bertolucci e soprattutto Giorgio Caproni, che di Saba riprende anche la tendenza al romanzo
analitico di impianto psicologico. Ne subisce l’influenza anche Giovanni Giudici, che d’altra parte
si forma negli anni di “Officina”, in un clima di consapevole reazione antinovecentista. D’altra
parte è dopo il 1956 e in particolare negli anni Sessanta che l’antinovecentismo, di impianto
soprattutto narrativo e realistico, assume piena coscienza di sé e arriva a proporsi, in varie forme,
quale il filone più significativo della poesia postbellica.
Dal punto di vista formale la lezione di Saba si rifà a modelli soprattutto ottocenteschi, e respinge le
sperimentazioni formali dell’avanguardia tanto quanto la scrittura raffinata della tradizione
simbolista ed ermetica. In questo senso la sua lezione può incrociarsi con un recupero classicista cui
si rivelano sensibili anche altri poeti più giovani quali Caproni, Sereni e Giudici, anche grazie al
convergere su questo punto della stessa lezione montaliana (intrisa anch’essa di classicismo). La
vicenda di Franco Fortini nasce all’incrocio di questi modelli, che egli problematizza grazie al
riferimento al surrealismo impegnato di Eluard e alla poesia politica ed allegorica di Brecht.
Sandro Penna (Perugia 1908-1977) esordisce alla fine degli anni Trenta e pubblica fino ai Settanta,
fedele a una forma classica costruita con leggerezza e grazia, anche per tentare di neutralizzare il
dominante tema erotico, e irregolare, della sua poesia, tutta occupata dalla rivendicazione latente
della propria omosessualità; il desiderio di essere accettato socialmente e il bisogno di operare una
trasgressione inavvertita definiscono lo specifico di questa poesia, che ha dato con Una strana gioia
di vivere (1956) e con Croce e delizia (1958) i suoi risultati più personali.
Attilio Bertolucci (San Lazzaro, Parma 1911-2000) ha pubblicato poesie lungo un arco di anni
lunghissimo, dall’esordio nel 1929 all’ultima raccolta nel 1996, sempre fedele a una prospettiva
narrativa sensibile alla lezione di Saba (vedi il modulo La poesia italiana dalla metà degli anni
Settanta ad oggi, 2.1). Questo nucleo di poetica può ora concentrarsi sul frammento biografico
breve di tipo impressionistico, ora allargarsi alla dimensione poematica. Il libro più importante è
forse Viaggio d’inverno (1971), che accosta la felicità della natura arcaica della campagna alle
tensioni cittadine della società di massa, ora cedendo alla nostalgia ora cercando di controllare con
coraggio il caos.
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
Attilio Bertolucci, fotografato nella sua casa da Dino Ignani
(per gentile concessione)
3.2 - Giorgio Caproni
Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio 1912 ma trascorre la giovinezza a Genova, dove
frequenta l’Università e studia violino. Partecipa alla Seconda guerra mondiale e alla Resistenza. Ha
vissuto per molti anni a Roma, dove si è dedicato all’insegnamento e al giornalismo e dove è morto
nel 1990.
Giorgio Caproni, fotografato nella sua casa da Dino Ignani
(per gentile concessione)
L’esordio poetico di Caproni risale al 1936, quando pubblica Come un’allegoria. Ma i primi libri
importanti sono Il passaggio d’Enea (1956) e Il seme del piangere (1959). Un libro di passaggio è
Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965); mentre il capolavoro della
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seconda fase è Il muro della terra (1975), che apre la stagione della concisione epigrammatica e
della tendenza seccamente filosofica. A questo filone appartengono tutte le raccolte successive: Il
franco cacciatore (1982), Il Conte di Kevenhüller (1986) e Res amissa (postuma, 1991). Guarda i
due video Giorgio Caproni - Cos'è la poesia e Giorgio Caproni - Le Voci della Scrittura.
La poesia di Caproni si afferma negli anni dell’Ermetismo (vedi la scheda L’Ermetismo), rispetto al
quale, tuttavia, si pone in termini di distanza se non di antitesi. Caproni tenta infatti di ricostruire
con la poesia proprio quei nessi con la realtà oggettiva che l’Ermetismo si impegna a trascendere.
L’apertura realistica comporta anche, in Caproni, una vocazione narrativa e un’attenzione al
dettaglio singolo, contro l’universalizzazione astratta della poetica ermetica e simbolistica. Nelle
fasi più mature e soprattutto tarde, poi, la cura del dettaglio si impone sulla ricostruzione narrativa,
accompagnandosi a una puntuta, e spesso addirittura epigrammatica, esigenza di tipo filosofico.
Dal punto di vista formale, Caproni insegue, sul modello di Saba, una poesia che tutti possano
sentire e riconoscere propria: in qualche modo popolare. Di qui un lessico scelto e diretto, forme e
metri semplici e immediati. La letteratura è un’opportunità di dialogo ma è anche, inevitabilmente,
una prigione artificiale, un inganno nel quale chi scrive versi sceglie di confinarsi, privandosi del
legame autentico con le cose e con la vita.
Nella seconda fase della poesia di Caproni, aperta con Il muro della terra, le forme tradizionali
(metro, rime, strofe) vengono scarnificate e ridotte all’osso. È come se la poesia si riducesse alla sua
intelaiatura essenziale: la poesia è ora fatta con le rovine del passato, e non può fare a meno di
riflettere in modo disincantato e al tempo stesso angoscioso sui propri limiti e sui limiti stessi di
ogni discorso e di ogni pensiero.
3.3 - Senza esclamativi di Giorgio Caproni
Ach, wo is Juli
Und das Sommerland
Com’è alto il dolore.
L’amore, com’è bestia.
Vuoto delle parole
che scavano nel vuoto vuoti
5
monumenti di vuoto. Vuoto
del grano che già raggiunse
(nel sole) l’altezza del cuore.
(Caproni 1998)
Note:
Ach…Sommerland: Ah, dov’è luglio / e il paese dell’estate: parole del poeta austriaco Hugo von Hofmansthal.
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
Analisi del testo
Questa poesia testimonia la svolta della raccolta che la contiene, Il muro della terra (1975): la
tendenza narrativa è sostituita da modi brevi e secchi, che riducono all’essenziale l’articolazione
discorsiva. Degli avvenimenti cui la poesia si riferisce rimane solo l’ossatura, e la sintesi arriva
talvolta all’aforisma e alla sentenza.
Dal punto di vista del contenuto, domina una nota di disperazione o almeno di sconforto, ma senza
abbandoni vittimistici. La forza del poeta sta proprio in quest’atteggiamento disilluso man non
rassegnato, che consente ancora l’affermazione di verità puntuali e soprattutto la denuncia del vuoto
di valori e di significati.
Decisiva è ovviamente la straordinaria compattezza formale dei testi, le cui rigorose caratteristiche
formali (metro, rime ecc.) adempiono a un’insostituibile opera di difesa e di resistenza. La stessa
affermazione del nulla, purché realizzata con il dovuto rigore espressivo, costituisce pur sempre una
alternativa alla disperazione, una sorta di coraggiosa, paradossale presenza. La nota negativa
ossessivamente ripetuta in questo testo finisce così con l’essere quasi un estremo appiglio di identità
e di senso.
Il lessico fonde vocaboli nobili e sostenuti (come l’aggettivo “alto” all’inizio) e termini invece
caratteristici del parlato (“bestia” per dire sciocco). La metrica, libera, oscilla fra la misura del
settenario e quella del novenario. Le rime costellano il componimento, collocate (come ai vv. 3 e 7:
“parole : sole”) anche al mezzo. Infine, la cura formale è altissima e ogni scelta risulta attentamente
soppesata. Ma su tutto domina la replicazione ostinata del termine “vuoto”.
La replicazione martellante del termine “vuoto”, ora come sostantivo e ora come aggettivo,
determina il significato cupo del testo. Viene definita un’assenza priva di risarcimento. Tale
reiterazione, accanto alla consueta attenzione di Caproni alla metrica e alle rime, costituisce quasi
da sola, con estrema sobrietà di mezzi, il connotato letterario della poesia. A questa semplicità
allude anche il titolo, quasi in forma programmatica; e la semplicità accresce anziché diminuire
l’intensità del messaggio.
3.4 - Franco Fortini
Franco Fortini (ma il cognome originario è Lattes: Fortini è il cognome della madre, assunto nel
1940) nasce a Firenze nel 1917. Compie studi giuridici e poi si laurea in Lettere. Dopo la guerra si
stabilisce a Milano, dove collabora al “Politecnico” di Vittorini. In seguito lavorerà all’Olivetti e
nella scuola, prima di divenire docente universitario nel 1971. Muore a Milano nel 1994.
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Franco Fortini: autoritratto
Personalità complessa e scrittore fecondo, Fortini è, oltre che poeta, saggista, critico letterario,
giornalista, traduttore; ma è soprattutto un intellettuale militante e schierato, uno degli ultimi
intellettuali complessivi del Novecento. In campo poetico, l’esordio avviene nel 1946 con Foglio di
via, seguito da Poesia ed errore (1959). Le poesie degli anni Sessanta e Settanta sono raccolte in
Una volta per sempre (1963), Questo muro (1973) e Paesaggio con serpente (1983). Poco prima
della morte è stata pubblicata l’ultima raccolta, Composita solvantur (si sciolga ciò che sta insieme)
(vedi il modulo La poesia italiana dalla metà degli anni Settanta ad oggi, 2.3).
Franco Fortini, fotografato da Giovanni Giovannetti
Nella produzione poetica più significativa dell’autore agisce la sfiducia negli atteggiamenti
avanguardistici e nelle rotture formali. Piuttosto, la poesia è considerata un’attività contraddittoria,
nella quale si esprimono contemporaneamente una promessa di liberazione e i segni del dominio e
dell’oppressione. La forma letteraria è un “attributo delle classi dominanti”, frutto di una
cerimonialità sociale che maschera l’orrore dei rapporti fra classi e fra individui. E tuttavia va
respinta ogni facile scappatoia: chi scrive deve misurarsi con questa contraddizione, deve assumere
la lingua della tradizione con tutto il suo carico di orrore storico e servirsene per esprimere,
attraverso di essa, una diversa verità. In questo senso la poesia di Fortini ha i tratti del classicismo,
ma anche le ambiguità del manierismo.
Dal punto di vista formale, i testi fortiniani perseguono ora la concisione e la forza dell’epigramma,
ora la lucidità dell’argomentazione logico-razionale. In ogni caso dominano il controllo e il rigore.
Il lessico, prevalentemente letterario, non rifiuta il ricorso a termini tecnici o comuni; la metrica,
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
abilissima, impiega tutto il repertorio tradizionale, benché spesso dissimulandolo; lo stile è quello
della grande lirica, ma con una tentazione di prosa in cui agiscono le lezioni congiunte di Montale e
di Brecht. Tanto le immagini e i simboli quanto le ardue allegorie che talvolta occupano i testi di
Fortini mostrano sempre una tensione nei confronti della realtà: questo autore scrive per giudicare il
mondo e scrive per giudicare lo stesso statuto della poesia e i suoi privilegi.
3.5 - Traducendo Brecht di Franco Fortini
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
5
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
le parole di un poeta o mutarsi
10
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
15 chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te s’accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
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per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
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non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
(Fortini 1978)
Note:
2 si è attorcigliato: ha girato vorticosamente. 4 versi: quelli di Brecht che Fortini sta traducendo. 7 i tegoli battagliati: le
tegole del tetto colpite dalla pioggia.
Analisi del testo
La situazione iniziale da cui muove la poesia vede il poeta intento a leggere e tradurre versi di
Bertolt Brecht mentre fuori è scoppiato un temporale. Lo scrosciare della pioggia attrae a tratti la
sua attenzione e sembra suggerirgli (come testimoniano soprattutto i versi iniziali e quelli finali) una
contrapposizione tra la forza della natura e quella della storia (oggetto dei versi che ha davanti), tra
la vitale presenza dell’acqua, fuori, e l’aridità della pagina scritta (definita secca), all’interno.
I versi che il poeta sta traducendo parlano dello strazio delle masse d’uomini schiacciate dalla furia
della storia. Ma sono versi ormai muti: non sono cioè più compresi dai contemporanei del
traduttore. Infatti coloro che soffrono e sono oppressi non ne hanno coscienza, e ogni cosa, anche
l’orrore, ha un’apparenza di normalità e di tranquillità (l’odio è cortese).
La seconda strofa contiene la ripresa: dopo lo scoramento dei vv. 12-13 (io stesso / credo di non
sapere più di chi è la colpa), è ribadita la necessità di riconoscere o odiare i colpevoli e di
continuare a scrivere, per quanto debole possa essere l’arma della poesia. Fra l’altro, Fortini sa bene
di essere a sua volta corresponsabile del potere dominante, e ancor di più che il privilegio della
poesia è parte di quel potere ed è una sua espressione; così che dichiara di dover considerare se
stesso, in quanto poeta, fra i nemici.
Tema centrale di questo testo è dunque la duplice natura della poesia nella prospettiva della
possibile efficacia storico-politica: la poesia è da una parte forza e dall’altra fragilità. Si tratta di un
tema che Fortini condivide con Brecht, non a caso oggetto della traduzione cui allude il titolo. Le
due metafore che al v. 4 definiscono in termini contraddittori i versi che il poeta sta traducendo e
forniscono la chiave di lettura del componimento. Quei versi sono al tempo stesso incomprensibili e
trasparenti (di vetro). Sono versi di cemento, come chiariscono i versi successivi, anche perché
esprimono la durezza e la tragicità della storia, cui la poesia è capace di adeguare le proprie
potenzialità espressive.
Gli ultimi due versi sottolineano infine la contraddittorietà intrinseca della poesia: la poesia non può
essere in se stessa strumento di cambiamento dell’ordine pratico-politico anche se può costituire
una forma contraddittoria di resistenza all’ingiustizia e all’orrore. La poesia aspira a liberare e
redimere le parti negate alla vita dello stesso poeta (cfr. i vv. 5-6) ma è anche essa stessa uno
strumento e un segno di privilegio e di dominio. Il poeta, che è fra le vittime, è anche fra i nemici.
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3.6 - Giovanni Giudici
Giovanni Giudici nasce a Le grazie (SP) il 26 giugno 1924 e muore a La Spezia il 24 maggio 2011.
Vive dapprima a Roma, dove si laurea in Lettere, e quindi, dopo un’esperienza all’Olivetti, si
trasferisce a Milano, dove vive tuttora.
L’esordio poetico avviene nel 1963 con L’educazione cattolica, confluita, due anni dopo, in La vita
in versi. Seguono Autobiologia (1969), O Beatrice (1972), Il male dei creditori (1977) e altre
numerose raccolte, fra le quali spicca Salutz (1986; vedi il modulo La poesia italiana dalla metà
degli anni Settanta ad oggi, 2.5).
Giovanni Giudici
Al centro della poesia di Giudici sta sempre l’esperienza autobiografica. L’autobiografismo non
implica però alcuna tendenza al lirismo, ma anzi si esprime soprattutto in forme narrative. Giudici è
infatti legato alla tradizione sabiana, anche per mezzo della mediazione del corregionale Caproni.
Significativa è anche l’influenza di Montale, un altro ligure. D’altra parte, l’ampio spazio concesso
all’io nella poesia di Giudici è sempre dominato dalla figura dell’ironia e da tutte le forme
dell’abbassamento prosastico. Si tratta di una difesa preventiva di stampo crepuscolare, legata al
senso di colpa del poeta, sospeso fra i richiami dell’educazione cattolica e la scelta dell’impegno
politico all’interno del Partito comunista.
L’io di cui la poesia di Giudici parla coincide sì con la sua persona biografica, ma al tempo stesso
rappresenta un io-massa caratteristico della moderna Milano industriale. È dunque un io senza
privilegi, ridotto al livello di un qualunque impiegato della civiltà di massa. In questo modo, l’io di
cui questa poesia parla è anche una costruzione, un personaggio autonomo dall’autore anagrafico, in
grado di denunciare la condizione alienata dell’uomo-massa all’interno del meccanismo produttivo
del neocapitalismo.
Giudici respinge i caratteri della lirica tradizionale, perseguendo una poesia narrativa, sospesa fra
referto oggettivo e introspezione psicologica. La sua lingua non teme perciò di avvicinarsi alla
prosa e al parlato, abbassando il punto di vista al livello della socialità comune. Resta così sempre
elevato il livello della comunicazione, mentre viene respinta ogni tentazione sperimentale troppo
ardua. La volontà comunicativa si deve anche al riconoscimento di una persistente possibile
funzione sociale per la poesia, che non si stanca di costruire un margine di significato alternativo e
di realizzare un senso possibile anche parlando della vita falsa dell’alienazione neocapitalistica.
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3.7 - Tempo libero di Giovanni Giudici
Dopo cenato amare, poi dormire,
questa è la via più facile: va da sé
lo stomaco anche se il vino era un po’ grosso.
Ti rigiri, al massimo straparli.
5
Ma chi ti sente? – lei dorme più di te,
viaggia verso domani a un vecchio inganno:
la sveglia sulle sette, un rutto, un goccettino
e tutto ricomincia – amaro di caffè.
(Giudici 2000)
Note:
4 Straparli: dici cose senza senso.
Analisi del testo
Questo componimento fa parte di La vita in versi (1965) e Giudici vi affronta uno dei temi
caratteristici della sua poesia: la vita quotidiana, raffigurata nei suoi momenti più comuni e meno
sublimi. Il registro adottato è, come spesso avviene, quello dell’ironia, che qui si configura anzi
quale autoironia. Il taglio basso conferito alla materia domestica esclude una posa bozzettistica o
divertita: è piuttosto il modo di introdurre una prospettiva duramente critica nei confronti di un
modello sociale che riduce ogni momento della vita a una tappa dell’insensatezza e dell’alienazione.
Perfino l’amore, anziché essere un’alternativa al non senso diviene un momento e un passaggio
della sua affermazione, alla pari del cibo e delle altre manifestazioni della fisiologia.
Giudici rappresenta il soggetto lirico senza indulgenza, senza riservarsi nessuno spazio privilegiato:
anche la vita del poeta è coinvolta nei meccanismi della società di massa e incapace di riscattarsi da
essi. Il “tempo libero” di cui parla il titolo appare in realtà interamente determinato dall’esterno,
programmato secondo ritmi ai quali non è possibile sottrarsi: non è affatto un tempo veramente
“libero”.
Non deve però sfuggire l’implicita denuncia che attraversa la poesia: vivere nel modo qui
rappresentato è “la via più facile” ma non l’unica; accettare i valori che sono sottintesi in questo
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stile di vita significa cadere in un “vecchio inganno”. Sarebbe dunque evidentemente possibile,
rifiutando l’inganno, seguire una via diversa, più difficile ma anche più autentica. In questa apertura
implicita sta l’aspetto propositivo, che spesso Giudici introduce accanto a quello critico.
Metricamente, il testo è costituito da due quartine con prevalenza di ritmo endecasillabico (con vari
versi ipermetri). I vv. 7 e 8 sono martelliani, e il verso doppio sottolinea l’incalzare inesorabile delle
tappe quotidiane, accrescendo l’effetto comico della rappresentazione.
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UD 4 - I Novissimi e Amelia Rosselli
Oggetto dell’unità didattica è la tradizione dello sperimentalismo dell’avanguardia, a partire dalla
rivista “Il Verri”, passando attraverso il maggior esponente del Gruppo 63, Edoardo Sanguineti, fino
ad Amelia Rosselli, che segue un percorso più appartato.
4.1 - “Il Verri” e il Gruppo 63
4.2 - I Novissimi
4.3 - Edoardo Sanguineti
4.4 - Questo è il gatto con gli stivali di Edoardo Sanguineti
4.5 - Amelia Rosselli
4.6 - Tenere crescite di Amelia Rosselli
4.1 - “Il Verri” e il Gruppo 63
“Il Verri” nasce a Milano nel 1956 quale bimestrale (diventerà poi trimestrale) di letteratura. Lo
dirige il critico Luciano Anceschi, influenzato dalla fenomenologia. Il titolo della rivista, che si
richiama a Pietro Verri, maestro dell’Illuminismo lombardo, sottolinea l’interesse per le nuove
scienze e in qualche modo rivela il legame del fondatore con la tradizione lombarda del
postermetismo (Vittorio Sereni soprattutto). In luogo della linea De Sanctis-Croce-Gramsci
valorizzata da “Officina” (vedi 1.3), “Il Verri” esibisce modelli aggiornati ed europei: la
psicoanalisi, lo strutturalismo, l’antropologia culturale, la fenomenologia. Se eguale è dunque
l’intenzione di rinnovamento delle due riviste, il “Verri” si mostra assai più segnata dalla rottura e
dalla novità.
Copertina de "Il Verri"
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Sul piano letterario, la rivista privilegia la ricerca sul linguaggio e l’innovazione formale,
rifacendosi a esempi soprattutto francesi (al “nouveau roman” viene dedicato nel 1959 un intero
fascicolo). Si mostra d’altra parte assai sensibile alle avanguardie storiche europee, delle quali viene
rilanciata la centralità in alternativa alle proposte dell’ermetismo e del neorealismo. Contro il bello
stile caratteristico della prosa e della poesia nazionali, Anceschi e i suoi collaboratori propongono
una poesia delle cose, capace di incontrare il mondo della tecnica e dei linguaggi settoriali.
Al “Verri” collaborarono critici come Angelo Guglielmi, Umberto Eco, Renato Barilli; e poeti
come Antonio Porta e Alfredo Giuliani. Si tratta di un gruppo che pochi anni dopo la nascita della
rivista avrebbe dato vita alla Neoavanguardia. Il primo manifestarsi organizzato del movimento fu
un’antologia di poeti ruotanti appunto attorno al “Verri”: I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta.
Il Gruppo 63 a Palermo
I Novissimi costituiscono il primo nucleo della Neoavanguardia, che due anni dopo (nel 1963,
appunto) si organizzerà nel Gruppo 63 sul modello del tedesco Gruppo 47 (movimento letterario di
giovani scrittori tedeschi di sinistra, nato a Monaco nel 1947 con l’intento di rinnovare la cultura
tedesca reduce dall’esperienza nazista. Ne hanno fatto parte, fra gli altri, H. Böll, P. Weiss, G.
Grass, P. Celan). Obiettivi del Gruppo 63 saranno la sprovincializzazione della cultura italiana e la
sua apertura alle correnti internazionali, nonché la critica alle istituzioni e ai letterati tradizionali.
Nel campo in particolare della poesia, viene rifiutata la lirica quale espressione immediata dei
sentimenti (Giuliani parlò di “riduzione dell’io”); lo scopo è una rivoluzione di forme e di linguaggi
che lavori sul montaggio di linguaggi diversi, sull’abbassamento, sul comico, sull’onirico.
4.2 - I Novissimi
Il primo manifestarsi organizzato del Gruppo 63 fu un’antologia di poeti ruotanti attorno al “Verri”:
I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta, pubblicata nel 1961 a cura di Alfredo Giuliani (vedi il
modulo Temi e forme della narrativa italiana contemporanea, 4.2) e contenente testi, oltre che di
Giuliani medesimo, di Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti (4.3), Antonio Porta (vedi il modulo La
poesia italiana dalla metà degli anni Settanta ad oggi, 2.8) e Nanni Balestrini.
I Novissimi riprendono la lezione del Surrealismo (soprattutto Sanguineti) e in qualche caso la
predilezione del Dadaismo per il gioco e il montaggio (Balestrini), mentre in Pagliarani si manifesta
la tendenza alla poesia oggettiva e narrativa, antilirica e antisoggettiva. Nell’insieme, i cinque poeti
segnano una rottura assai più radicale di quella contemporaneamente praticata da Pasolini e dai
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poeti di “Officina”, praticando uno sperimentalismo avanguardistico del tutto alternativo alle
strategie dell’impegno civile e della prospettiva ideologica. Come dirà Sanguineti, non si tratta di
usare le parole per appoggiare la rivoluzione ma di fare la rivoluzione sul terreno delle parole.
Con I Novissimi vengono proposti grandi modelli europei e americani come Ezra Pound, Dylan
Thomas e Thomas S. Eliot, aprendo all’esperienza del collage linguistico. La poesia tende a perdere
la “funzione espressione”, mettendo radicalmente in causa la centralità del soggetto lirico e ponendo
invece in primo piano l’ammasso di informazioni, oggetti, lacerti della civiltà neocapitalistica. Ne
consegue un abbassamento linguistico e stilistico.
Elio Pagliarani fotografato nella sua casa da Dino Ignani
(per gentile concessione)
Accanto a Sanguineti, il maggior poeta del gruppo è probabilmente Elio Pagliarani, nato nel 1927 a
Viserba di Rimini e morto a Roma nel 2012 (guarda il video Poeti in gara 1989 – Elio Pagliarani vs
Vito Riviello). Le sue raccolte più importanti sono il poemetto narrativo La ragazza Carla (1960) e
La ballata di Rudi (1995). La ragazza Carla offre uno spaccato della complessa Milano negli anni
del miracolo economico seguendo le vicende di una giovane impiegata e della sua famiglia:
distrutto ogni privilegio dell’io, la narrazione si svolge in terza persona e può alternare la
rappresentazione del privato popolare dei protagonisti alla squallida e impersonale lingua di un
manuale di dattilografia. In ogni fase della sua lunga attività, sempre Pagliarani unisce denuncia
della realtà esistente e affermazione di un possibile significato alternativo. Il realismo di Pagliarani
non si limita mai a riprodurre semplicemente la realtà, rischiando così di cedere alla sua
insignificanza, ma sempre si ostina a perseguire un’ipotesi di senso e una volontà comunicativa, alla
luce di un risentimento etico e civile.
4.3 - Edoardo Sanguineti
Edoardo Sanguineti nasce a Genova il 9 dicembre 1930, dove ha insegnato all’Università ed è
vissuto fino alla morte, nel 2010. Intellettuale attivissimo come teorico, critico, autore, traduttore e
giornalista, ha partecipato all’antologia I Novissimi e ha fatto parte del Gruppo 63,
rappresentandone l’esponente più impegnato sul piano politico-ideologico (vedi 4.1 e 4.2). Ha
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collaborato con musicisti come Luciano Berio, pittori come Enrico Baj, registi teatrali come Luca
Ronconi. Le due costanti della sua attività sono dunque lo sperimentalismo formale e l’impegno
politico-ideologico. Lo sperimentalismo formale è anzi guidato dalla prospettiva ideologico-politica
e finalizzato a essa.
Edoardo Sanguineti
Anche quale poeta, Sanguineti considera compito dello scrittore rivoluzionario, come intende
essere, non usare le parole per proclamare e sostenere le idee della rivoluzione, ma fare la
rivoluzione sul terreno del linguaggio: ora additandone gli aspetti mistificati, ora sabotando la sua
funzionalità borghese, ora infine perseguendo con metodi avanguardistici (cioè con il montaggio e
lo straniamento) zone di autenticità espressiva e di verità storico-politica (guarda i video Omaggio a
Edoardo Sanguineti e Poeti in gara 1989 – Edoardo Sanguineti vs Maurizio Cucchi).
L’esordio come poeta avviene nel 1956 con la sconvolgente novità di Laborintus, che aggredisce e
distrugge le strutture linguistiche e formali per mostrarne la falsità. Segue una abbondantissima
produzione in versi, da Erotopaegnia (1960) e Purgatorio de l’inferno (1964) a Catamerone (1974),
che raccoglie la produzione precedente, a Postkarten (1978). Due raccolte complessive contengono
infine le molte opere in versi dell’autore: Segnalibro. Poesia 1951-1981 (1982) e Il gatto lupesco.
Poesie (1982-2002) (2002).
Dopo l’intento prevalentemente distruttivo di Laborintus, le raccolte degli anni Sessanta tentano
proposte alternative, capaci di denunciare gli orrori del capitalismo e di rivendicare tuttavia zone
non compromesse di verità: queste sono riconosciute soprattutto nella corporalità e nei temi bassi
connessi. Negli anni Settanta diviene decisiva anche in poesia la rivendicazione dell’impegno
politico, così da profilare, accanto al tema privato della corporalità, un’alternativa pubblica; è il
caso per esempio dei componimenti dedicati alla rivoluzione culturale cinese, che configurano una
possibile alternativa all’insensatezza della civiltà occidentale. In ogni caso lo stile persegue ora
nuove forme di realismo, tanto per le soluzioni linguistiche adottate quanto per i temi trattati;
mentre la lingua bassa della quotidianità può andare congiunta ai più spregiudicati e raffinati
esperimenti metrici e retorici.
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4.4 - Questo è il gatto con gli stivali di Edoardo Sanguineti
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti il foglio, Alessandro,
ci vedi il denaro:
5
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la Scuola d’Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti il foglio, Alessandro, ci vedi
10
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
15
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente:
(Sanguineti 1982)
Note:
1 il gatto con gli stivali: si allude alla favola di Charles Perrault Le chat botté (1697). 1-2 la pace…Clemente VII:
firmata nel 1529. 5 i satelliti di Giove: le quattro lune maggiori di Giove, scoperte da Galileo nel 1610. 6-7
Poetae…Carolini: una raccolta di poesie dell’epoca di Carlo Magno (VIII-IX secolo). 7 la Scuola d’Atene: un notissimo
affresco di Raffaello nel Vaticano. 8 muscolo massetere: un muscolo facciale che serve a muovere le mandibole.
Analisi del testo
Questa poesia fa parte di Purgatorio de l’inferno (1964). Nelle raccolte sanguinetiane degli anni
Sessanta, mentre si rafforza una volontà di costruzione e di proposta positiva, insiste tuttavia una
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fortissima componente negativa e distruttiva. L’intento è di demistificare la realtà alienata della
civiltà capitalistica.
La situazione rappresentata nel testo è dunque quella di una lezione “casuale” che il poeta si trova a
impartire al figlio Alessandro. Il maestro addita all’alunno gli oggetti e le immagini che gli sono
davanti, spiegando le caratteristiche di ogni cosa dopo averne detto il nome. Ma qui tale modello è
sconvolto: ogni cosa rimanda solo alla legge del profitto, cioè è come se la sua esistenza abbia un
senso, secondo il modello capitalistico, solo per il profitto che se ne può ricavare e per il valore
monetario che le può essere attribuito. Ciò che Marx definisce “valore di scambio”, cioè il valore
mercantile delle cose, ditrugge il “valore d’uso”, cioè il valore sociale; e in una società dove il
valore di scambio ha per intero annullato il valore d’uso, ecco che il nulla ha trionfato (Marx
diceva: la barbarie). Il senso autentico dell’insegnamento impartito al figlio è infine questo.
In questa poesia l’aspetto positivo e costruttivo è contenuto nella evidente struttura didascalica, che
rappresenta un momento del rapporto con il figlio e con la sua educazione. Inoltre, Sanguineti si
affida apertamente all’ideologia marxista, della quale esemplifica un presupposto di fondo: la
riduzione del mondo a denaro e il non essere nulla del denaro, e quindi la nullificazione del mondo
stesso, privato di significati e valori.
L’aspetto distruttivo consiste nella demistificazione della struttura stessa dell’insegnamento, di cui
questa poesia costituisce un’efficace parodia: tutte le cose che il padre mostra al figlio, benché
diverse e lontane fra loro, rimandano a un unico significato, cioè al loro essere merce, e perciò
denaro sotto altra forma; e poiché il denaro non contiene significati o valori al di fuori di se stesso,
tutte le cose sono in verità nulla. L’innocente lezione, stravolta dalla parodia, trasmette la tragica
notizia dell’annullamento dei significati e dei valori nella civiltà capitalistica, così che la giocosa
prospettiva dell’ironia si rivela un annuncio lacerante di crisi e di insensatezza.
Il testo è costruito su una struttura retorica piuttosto semplice. Vi è un’insistita anafora che
costituisce una vera e propria gabbia stilistico-tematica: “questo è… questa è… è… è…”. Tale
struttura stilistica ritorna identica nella prima e nella seconda parte. Nella terza parte, invece, vi è
una leggera variante (“e questo… e questi… e sono… e sono…”), dove la “e” sottintende un
“infine”, come alludendo al fatto che si è infine giunti al cuore del problema.
4.5 - Amelia Rosselli
Amelia Rosselli nasce a Parigi nel 1930. Il padre Carlo, esule antifascista, fu assassinato su ordine
di Mussolini nel 1937. Fino al 1946 Amelia vive fuori d’Italia (Francia, Inghilterra, Stati Uniti),
compiendo studi irregolari, e dedicandosi soprattutto alla musica e alla letteratura. La prima raccolta
di versi (Variazioni belliche) esce nel 1964; del 1969 è Serie ospedaliera; del 1976 è Documento;
del 1981 il poemetto Impromptu. È morta suicida nel 1996. Guarda il video Poeti in gara 1989 –
Amelia Rosselli vs Valentino Zeichen.
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
Amelia Rosselli fotografata nella sua casa da Dino Ignani
(per gentile concessione)
Estranea alla tradizione italiana (con le eccezioni di Campana e di Montale), la poesia della Rosselli
mira alla creazione di una lingua universale, capace di esprimere l’unità sostanziale dell’esperienza.
La metrica originalissima, spesso fondata sulla sola omogeneità ritmica e tipografica, persegue una
specificità fonica del testo quale sua profonda identità universale.
Per Amelia Rosselli la poesia è, da una parte, l’occasione di un’integrale dicibilità, un equivalente
del nesso inconscio/coscienza, la dimensione nella quale vengono meno i confini tra interno ed
esterno, tra privato e sociale, in una possibile ricollocazione dell’io, scisso e isolato, nel mondo.
D’altra parte la poesia è anche il segno di una chiusura dei significati e della comunicazione,
l’eruzione di un organismo che aspira all’autosufficienza e alla separatezza. La lingua della poesia è
dunque da un lato lingua del privato e occasione di una conoscenza non compromessa; ma dall’altro
lingua estranea del mondo, ostaggio dell’alienazione e dell’inautenticità.
Accanto all’eccezionalità della metrica, va rilevata la tendenza all’invenzione linguistica, sia sul
piano lessicale che su quello sintattico. La violenza dello stile tenta di esprimere l’autenticità della
condizione psichica, nella fiducia della sua comunicabilità per mezzo della parola poetica. Tuttavia,
la verità da comunicare è davvero tale solo fino al momento in cui non si misura con il codice
linguistico della normalità: ma in questo caso la comunicazione, teoricamente perfetta, non è
ricevibile. Se invece la verità psichica si esprime con parole comprensibili, allora rischia comunque
di cadere preda dell’inautenticità e della banalizzazione. È una contraddizione da cui la poetessa
tenta in ogni modo di uscire, oscillando sempre fra l’intento comunicativo e la chiusura asintattica,
con una sfida al linguaggio che costituisce una delle esperienze più alte e impegnative della nostra
letteratura novecentesca.
4.6 - Tenere crescite di Amelia Rosselli
Tènere crescite mentre l’alba s’appressa tènere crescite
di questa ansia o angoscia che non può amare né sé né
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coloro che facendomi esistere mi distruggono. Tenerissima
la castrata notte quando dai singulti dell’incrociarsi
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della piazza con strada sento stridori ineccepibili
le strafottenti risa di giovinotti che ancora vivere
sanno se temere è morire. Nulla può distrarre il giovane
occhio da tanta disturbanza, tante strade a vuoto, le
case sono risacche per le risate. Mi ridono ora che le
10
imposte con solenne gesto rimpalmano altre angosce
di uomini ancor più piccoli e se consolandomi d’esser
ancora tra i vivi un credere, rivedo la tua gialla faccia
tesa, quella del quasi genio – è per sentire in tutto
il peso della noia il disturbarsi per così poco.
(Rosselli 1997)
Note:
5 stridori ineccepibili: rumori striduli nei confronti dei quali non si può avanzare alcuna obiezione. 8 disturbanza:
parola coniata dalla Rosselli sull’inglese disturbance, a indicare il disturbo di una distorsione sonora. 9 mi ridono:
costrutto sintatticamente irregolare, con valore di "sembrano ridere proprio per me". 10 rimpalmano: chiudono, come i
palmi della mano.
Analisi del testo
Questo testo fa parte di Serie ospedaliera (1969) e, come indica il titolo della raccolta, si riferisce
all’esperienza di una grave malattia psichica e alle sofferenze e angosce legate a essa e alle cure
subite. Il tema è lo scontro fra la gravità della condizione del soggetto e la superficialità dei
comportamenti ordinari e quotidiani degli altri. La malattia e la sofferenza divengono qui modi per
smascherare l’inautenticità della vita collettiva e di molti gesti individuali.
Il punto di vista è quello della malata, e gli eventi esterni vengono tutti filtrati attraverso di esso: il
rumore di risa dalla strada sotto la sua finestra, intorno all’alba, in una stanza segnata dal
risvegliarsi dell’angoscia e dal dubbio sul valore dell’esistenza; il confronto tra questo segno
minimo di vitalità e la propria condizione di malattia. Al soggetto, in ogni modo, quel segnale
sembra trasmettere un suggerimento positivo, una pista di vita e di fiducia; mentre chi assiste la
malata teme che i rumori la possano infastidire e chiude la finestra, compiendo così un gesto
inautentico (così come è inautentica la frase conclusiva: “il disturbarsi per così poco”).
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L’originalità della costruzione insiste sul raffronto sottile fra piste linguistiche diverse e
contrastanti: quelle della salvezza e della vita, da una parte, e quelle invece dell’inautenticità e
dell’ipocrisia, dall’altra. Ne è un esempio decisivo la contrapposizione fra i due quasi sinonimi
“disturbanza”/”disturbarsi”: mentre la prima occorrenza, con la sua inventività linguistica,
testimonia una possibilità positiva e vitale, la seconda, con la sua normalità convenzionale, attesta il
riproporsi della negatività consueta.
Più in generale, lo stile della Rosselli è qui, come in tutte le prove maggiori, interamente teso a
definire uno stato psichico e la dimensione sociale che esso riflette e a forzare la normalità del
lessico (dalla morfologia al significato delle parole) e della sintassi. Notevole, in particolare, è
l’accumularsi di enunciati senza chiaro ordine logico e gerarchico, in vista di una saturazione
estrema del significato globale della poesia, che deve essere letta secondo un’ottica in qualche
modo “cubista”, cioè accettando la compresenza contemporanea di più punti prospettici, anche dove
si rivelino grammaticalmente inconciliabili.
I lunghi versi, infine, mirano all’eguaglianza della lunghezza tipografica, con il fine di sottolineare
le potenzialità musicali e semantiche insite negli enunciati, al di là di organizzazioni metriche o
sintattiche convenzionali. Ogni verso va perciò letto valorizzando l’isolamento dell’“a capo” finale.
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UD 5 - Il ritorno al privato e l'uso del dialetto
L'unità si sofferma sul ritorno al privato nella poesia dopo il 1973 e sulla nuova dominante neoorfica; considera quindi un aspetto di questo fenomeno, la ripresa della poesia in dialetto (con autori
quali Albino Pierro e Franco Loi).
5.1 - La poesia del privato e il neo-orfismo
5.2 - Il disperso di Maurizio Cucchi e Somiglianze di Milo De Angelis
5.3 - Ricerca; relazione di Maurizio Cucchi
5.4 - La poesia in dialetto: Albino Pierro e Franco Loi
5.5 - Schitte d’i cruce di Albino Pierro
5.1 - La poesia del privato e il neo-orfismo
Il movimento della Neoavanguardia, organizzato nel Gruppo 63 (vedi 4.1 e 4.2), si prolunga fino
all’inizio degli anni Settanta, allorché si estingue, nel momento stesso in cui si conclude anche il
movimento della contestazione studentesca che ha il suo culmine nel 1968 (vedi la scheda Il
Sessantotto in Italia). Un anno di svolta è il 1973, allorché la scena internazionale si modifica a
causa della crisi petrolifera e di eventi politici di alto valore simbolico come il golpe militare in
Cile. Dopo la stagione dell’impegno pubblico, si apre un periodo di ritorno al privato (è il
cosiddetto “riflusso”). Venute meno le speranze di cambiamento sociale, s’impongono tendenze
irrazionalistiche, e anche in campo letterario prevale la prospettiva del disimpegno. Questo assume
ora caratteri intimistici e neoromantici, ora invece ludici e postmoderni. In ogni caso la nuova
generazione si afferma in polemica con la Neoavanguardia e in generale con le poetiche del periodo
precedente, colpevoli, ai suoi occhi, di puntare su cambiamenti politici e su rotture linguistiche. Ora
domina invece il recupero di strutture formali e di temi tradizionali, non senza la rivalutazione dei
privilegi conoscitivi del poeta e dell’arte. Si parla per questo, a volte con una venatura critica e
perfino spregiativa, di “neo-orfismo”.
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Copertina de La parola innamorata
Un'altra definizione utilizzata per i poeti che si affermano dopo il 1973 è “poeti innamorati”. Molti
di essi esordirono infatti in un’antologia intitolata appunto La parola innamorata, pubblicata nel
1978 da Pontiggia e Di Mauro. Essi propongono il ritorno al soggettivismo lirico, alla concezione
orfica (cioè sacrale e privilegiata) della poesia e alla linea del simbolismo. Si determina
un’identificazione fra verità e bellezza, spesso con la consapevolezza nostalgica di resuscitare miti
ormai perduti e anzi impossibili in mezzo alla volgarità della società di massa e dopo la rottura
operata dai maestri che hanno scritto nei decenni precedenti. Tuttavia si concepisce la poesia come
un valore da coltivare al di fuori del mondo, nel rifiuto di un confronto con tematiche storicopolitiche. Il culto della bellezza in se stessa sembra anzi costituire un’alternativa radicale e una
residua verità e autenticità in mezzo a un mondo del tutto inautentico.
5.2 - Il disperso di Maurizio Cucchi e Somiglianze di Milo De Angelis
Il confronto dei poeti che esordiscono dopo la svolta del 1973 con quelli precedenti lascia senza
dubbio un senso di inadeguatezza, se non altro per la percezione di un universo tematico divenuto
più piccolo. Fra i nomi più rappresentativi, devono comunque essere fatti quelli del ligure Giuseppe
Conte (1945; vedi il modulo La poesia italiana dalla metà degli anni Settanta ad oggi, 3.5), autore
di L’ultimo aprile bianco (1979), del senese Cesare Viviani (1947; vedi il modulo La poesia
italiana..., 3.6), che nel 1973 pubblica L’ostrabismo cara e nel 1977 Piumana, del romano Dario
Bellezza (1944-1996), che esordisce con Invettive e licenze (1971; vedi il modulo La poesia
italiana..., 3.6).
Una maggiore attenzione meritano due autori che esordiscono entrambi nel 1976, e che
rappresentano in modo esemplare due tentativi di reazione alle difficoltà storico-culturali del
periodo: Maurizio Cucchi (Milano, 1945), che pubblica Il disperso, e Milo De Angelis (Milano,
1951), autore di Somiglianze (vedi il modulo La poesia italiana... 3.2 e 3.3). Il primo eredita infatti
la necessità narrativa e la tensione verso l’impegno civile della tradizione lombarda, ma è poi
costretto a metterli a confronto con un orizzonte desolato e in crisi; il secondo punta invece sulle
risorse del soggetto e della psiche individuale, ricollegandosi alle maggiori esperienze di lirica
soggettiva del Simbolismo e oltre (da Rimbaud a Celan). Entrambi scaturiti da una dissoluzione di
progetti e di modelli, Cucchi punta su residue possibilità di oggettivazione realistica e De Angelis
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
sulle risorse dell’io; ma entrambi si misurano al dunque con i limiti storici dati, e né Cucchi può
ripetere il quadro sociale realizzato negli anni Sessanta da Pagliarani con La ragazza Carla e da
Giudici con La vita in versi; né De Angelis può andar oltre la tensione psichica di un soggetto
frantumato e incerto.
Maurizio Cucchi
Il disperso di Cucchi ricostruisce l’identikit di un ignoto scomparso, inseguendo gli indizi
disseminati in mezzo allo squallore della metropoli moderna: periferie tristi, tram affollati, strade
impersonali. L’inseguimento dà forma anche a un secondo personaggio: l’investigatore,
dall’identità a sua volta incerta e sfuggente. La vicenda è ricostruita per mezzo di frammenti
giustapposti, quasi il risultato di un’esplosione delle strutture narrative. Ne risulta un dettato poetico
in bilico fra il senso della catastrofe e la riconquista di un alone lirico attorno ai frammenti
sopravvissuti.
Somiglianze di De Angelis predilige a sua volta le ambientazioni nella periferia urbana. Ma qui tutto
è concentrato sul confronto fra io e realtà esterna. Sconfitta ed esclusa ogni possibilità dialettica,
cioè l’opportunità di spiegare la realtà per mezzo delle categorie del pensiero, viene tentato il
cortocircuito visionario, servendosi ora dell’analogia puramente soggettiva, ora di strutture
ragionative che stringono il vuoto, sfidano il nonsenso, in ogni caso fondandosi solo sulle
percezioni e le accensioni conoscitive dell’io. Le aperture orfiche e oracolari hanno spinto molti a
puntare su questa poesia come su una risposta positiva e credibile, trascurando tuttavia la forza del
negativo e la disperazione che si agitano al suo interno.
5.3 - Ricerca; relazione di Maurizio Cucchi
Rinvenuto tra gli effetti personali abbandonati
Un diario intimo ricco di annotazioni. Decifrate,
eccole trasmesse in elenco privo di nessi.
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P. Cataldi – La poesia italiana dalla metà…
«Era un gran bel ragazzo mongoloide.»
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(Ci faremo amici?)
………
………
Potrei misurare il tempo
secondo il metro dei bambini.
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………
………
Che cos’altro se non accucciare
Il piede in fondo al letto o mettere la mano
Sotto il cuscino soffice, al sicuro?
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………
………
Ecco, star lì coi gomiti sul tavolo le mani sulla faccia
A porgere l’orecchio, a farmi raccontare
Certi dettagli minimi della famiglia.
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……….
……….
Via Pantano 13 antica casa signorile.
Andati in cerca dell’orafo Guelfi per le vere.
La bottega non c’è più. La portinaia è molto anziana,
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si chiama Filomena, è secca e minuta. La casa mi piace. Vecchia,
scale larghe, vetrate colorate. Ci devo tornare.
………..
………..
Un altro itinerario un’altra pista
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suggerita da un povero diavolo: basco
sciarpa, giacchetta, bici
e la cartella in canna. Diversamente la mamma
galoppa sull’altra via: «Non sai nemmeno
che cosa prendo» dice «
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Certe volte il 90 e dopo il 23».
………….
………….
Poi ho cambiato vestito, ho fatto la valigia
e son fuggito in motorino.
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alternativa:
Poi sono andato in camera, seduto al tavolo,
ho compilato un curriculum, risposto a un’inserzione.
………….
………….
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Briccone d’un mongoloide (ah! Ragazzaccio…)
La moglie: «Ultimamente camminava a zig zag
o con i piedi in dentro. O anche, milanese,
prendeva accenti strani. Che so, veneto, romagnolo,
toscano».
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La madre: «Cambiava gusto dall’oggi col domani,
perdeva la memoria. Aveva sempre gli occhi rossi».
Dichiarazioni telefoniche rilasciate agli amici
interrotte di colpo:
«In condizioni
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di sonno o veglia fermi a letto
un etto di cicoria,
un ravanello o due ti può bastare».
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«È stato così che ho fatto, quel mattino,
l’ultimo bagno nel tepore del liquido amniotico.» (sospirando)
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Il medico aveva già parlato sibillino.
«Regressione. Identità. Qualificarsi.»
E, d’altro canto, fu facile osservarlo
rannicchiato sopra il suo pagliericcio
in posizione di feto. Nell’incubo faceva:
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«Io parlo da solo fin da piccolo.
Certo che ho riflettuto, ma non mi trovo più…»
Adesso non sappiamo dove diavolo sia.
(Cucchi 2001)
Analisi del testo
Questo componimento, tratto dalla raccolta di esordio di Cucchi, Il disperso (1976), mostra i tratti
fondamentali che la caratterizzano: la frantumazione del discorso, continuamente interrotto da righi
di puntini o lasciato in sospeso; il taglio ipotetico delle ricostruzioni; la diffrazione dei punti di vista
(cfr. soprattutto i vv. 46-51); la natura enigmatica del protagonista; l’accavallarsi di spunti narrativi
che non vengono sviluppati in modo coerente e sistematico; l’incertezza sulla stessa natura del
punto di vista dal quale è tentata la ricostruzione del personaggio.
I materiali alternati provengono da varie fonti. Le principali sono: il "diario intimo ricco di
annotazioni" (v. 2), i "dettagli minimi" raccontati dalla famiglia e raccolti dall’investigatore (vv. 1719) – fra i quali spiccano gli interventi virgolettati della moglie e della madre ai vv. 46-51 –, la
"pista" suggerita dal "povero diavolo" del v. 30, le "dichiarazioni telefoniche rilasciate agli amici"
(vv. 52-57), le parole virgolettate del medico (vv. 60-61), che costituiscono una sorta di sintetica
chiave di lettura: ""Regressione. Identità. Qualificarsi"". E proprio una questione di identità è posta
in primo piano dalla conclusione, con la confessione del “disperso” "non mi trovo più" (v. 66) – che
varrà "non capisco più chi sono" –, subito complicata dal verso finale "Adesso non sappiamo dove
diavolo sia"), che risemantizza il "non mi trovo più" che precede, imponendogli anche il senso di
"mi sono smarrito (o disperso)".
D’altra parte il significato del testo scaturisce sempre, in larga misura, dal lampeggiare di
accostamenti e di richiami interni, capaci di imporre un senso possibile a evocazioni che parrebbero
destinate all’insensatezza (di continuo sfidata). Così il rannicchiarsi fetale dei vv. 63-64 richiama il
"liquido amniotico" del v. 59 e la ricerca nel letto di angolini protettivi ai vv. 12-14, nonché, infine,
"il metro dei bambini" del v. 9.
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5.4 - La poesia in dialetto. Albino Pierro e Franco Loi
La poesia dialettale sembra quasi in estinzione alla fine degli anni Cinquanta, salvo avere un
rilancio e una rifioritura nella fase successiva. Può essere una forma della sperimentazione che
domina negli anni Sessanta, o può essere un aspetto del ritorno al privato e alle radici che domina
nei Settanta; o può costituire una combinazione delle due possibilità. Il dialetto, minacciato dalla
televisione, costituisce una sorta di zona franca del linguaggio, e può perciò divenire una lingua
autentica dell’io o un territorio di resistenza non omologata delle identità locali.
In dialetto scrivono poeti che si misurano prevalentemente con la poesia in lingua, come Pier Paolo
Pasolini (vedi 1.4) e Andrea Zanzotto (vedi 2.8); e soprattutto scrivono alcuni autori periferici che
tuttavia raggiungono alcuni dei risultati più convincenti del periodo. Un rilievo particolare,
all’interno di un panorama vario e vasto, hanno il tursitano Albino Pierro e il milanese Franco Loi.
Albino Pierro
Albino Pierro nasci a Tursi, in provincia di Matera, il 19 novembre 1916. Si laurea a Roma in
Filosofia e insegna nei licei. Dopo alcune raccolte in lingua, esordisce in dialetto nel 1960 con ‘A
terra d’u ricorde (La terra del ricordo), seguita nel 1963 da Metaponto, cui tengono dietro altre
numerose raccolte. Muore a Roma nel 1995. Fin dalla prima raccolta in dialetto, grandissimi sono
l’interesse e l’adesione della critica a questa poesia.
La lingua di Pierro dà dignità letteraria alla parlata del suo paese, priva fino a quel momento di
tradizione letteraria; e sembra pertanto il frutto di una scoperta e di un’invenzione originali. Tanto
più che il dialetto tursitano ha una caratterizzazione assai arcaica, con evidenti tracce del latino.
Il nucleo della poesia di Pierro è lontano dai tratti naturalistici e folclorici, e centrato su un nucleo
esistenziale privato: la verginità intatta del dialetto è il veicolo di una discesa nel regno sotterraneo
dei significati autentici e non inquinati. La verità della poesia è garantita dal ricorso a una lingua
morta, così che il ruolo del poeta è piuttosto quello di un fantasma che quello di un sacerdote. Lo
stile di Pierro oscilla fra la malinconia e il risentimento espressionistico, senza abbandoni alla
cantabilità di altre esperienze dialettali.
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Franco Loi fotografato da Dino Ignani (per gentile concessione)
Una forte tensione espressiva ha anche la poesia di Franco Loi (nato a Genova il 21 gennaio 1930
ma vissuto a Milano, città della quale usa il dialetto; vedi il modulo La poesia italiana dalla metà
degli anni Settanta ad oggi, 2.9). La lingua impiegata è quella del popolo, con una implicita presa di
posizione politica a favore del proletariato urbano. La scelta del dialetto è dunque in Loi una scelta
di campo, e veicola una tendenza realistica e un punto di vista criticamente risentito. Fra le raccolte
più importanti di Loi, meritano di essere ricordate almeno I cart (Le carte, 1973) e Stròlegh
(Astrale, 1975). Guarda i video Franco Loi - Perché scrivo poesie e Settembre dei poeti 2011 Nicola Crocetti, Goffredo Fofi, Franco Loi, Andrea Cortellessa.
5.5 - Schitte d’i cruce di Albino Pierro
Ci àt’ ‘a i’èsse na cundanne,
si mi ‘nnamore schitte d’i cruce;
eppure,
i’è na cundanna duce:
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nda tanta dulore
nu terramote e pó’
nmenz’ i pétre u trisore.
(Pierro 1982)
Solo delle croci. Dev’esserci una condanna, / se m’innamoro solo delle croci; / eppure, / è una condanna dolce: // fra
tanti dolori, / un terremoto e poi / in mezzo ai sassi il tesoro.
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Analisi del testo
Questa poesia fa parte della raccolta Curtelle a lu sóue (Coltelli al sole, 1973). Si tratta di un testo
breve, formato da due strofe irregolari composte di versi liberi, con una tendenza a stabilizzarsi
sulla misura del settenario a partire dal v. 4.
È qui esplicito il rapporto fra lo slancio passionale e la morte che attraversa la poesia di Pierro, che
costituisce uno dei suoi temi più interessanti e intensi. Il rapporto fra passione e morte non riguarda
solamente la sfera psicologica, ma anche quella poetica e perfino ideologica. Infatti è il dialetto
stesso, come lingua del passato (e dei morti), a unire in sé l’autenticità (il “tesoro” della
conclusione) e la “condanna” del lutto. Le “croci” sono infatti qui i simboli cimiteriali delle
sepolture.
La “condanna” è dunque “dolce” perché dal dolore della vita degradata il “terremoto”
dell’espressione fa emergere il “tesoro” di un significato ancora possibile, nel quale la passione
vitale e la coscienza di aver a che fare con una dimensione storicamente superata (cioè con la
morte) sono strettamente intrecciate. La funzione in qualche modo “sacrale” che Pierro attribuisce
ancora alla poesia fa i conti con questa coscienza storica di anacronismo: il poeta sa insomma che
quella funzione è ormai morta.
Si noti come gran parte degli elementi formali e retorici del testo ruotino attorno a questo contrasto
che ne è alla base, dalle rime fra termini semanticamente opposti (“cruce : duce”, “dulore : trisore”,
che proseguono in “m’innamore”), all’ossimoro del v. 4 (“cundanna duce”).
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Principali antologie
Dopo la lirica (2005), a cura di E. Testa, Torino, Einaudi.
I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta (2003), a cura di A. Giuliani, Torino, Einaudi (prima ed.
1961).
La parola innamorata. I poeti nuovi 1976-78 (1978), a cura di E. Di Mauro, G. Pontiggia,
Feltrinelli, Milano.
Poesia del Novecento italiano (2002), a cura di N. Lorenzini, Roma, Carocci.
Poeti dialettali del Novecento (1987), a cura di F. Brevini, Torino, Einaudi.
Poeti italiani del Novecento (1978), a cura di P.V. Mengaldo, Milano, Mondadori.
Poeti italiani del secondo Novecento (1996), a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano,
Mondadori (nuova ed. 2004).
Raccolte poetiche citate
Giorgio Caproni (1998), L'opera in versi, a cura di L. Zuliani, Mondadori, Milano.
Maurizio Cucchi (2001), Poesie 1965-2000, Milano, Mondadori.
Franco Fortini (1978), Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi, Torino.
Giovanni Giudici (2000), I versi della vita, a cura di R. Zuzzo, Mondadori, Milano.
Mario Luzi (1998), L'opera poetica, a cura di M. Verdino, Mondadori, Milano.
Eugenio Montale (1980), L'opera in versi, a cura di G. Contini e R. Bettarini, Einaudi, Torino.
Pier Paolo Pasolini (1993), Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, Garzanti,
Milano.
Albino Pierro (1982), Metaponto, Garzanti, Milano.
Amelia Rosselli (1997), Le poesie, a cura di E. Tandello, Garzanti, Milano.
Edoardo Sanguineti (1982), Segnalibro, Feltrinelli, Milano.
Vittorio Sereni (1995), Tutte le poesie, a cura di D. Isella, Mondadori, Milano.
Andrea Zanzotto (1999), Le poesie e prose scelte, a cura di G.M. Villalta e S. Dal Bianco,
Mondadori, Milano.
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Saggi
Laura Barile (1994), Sereni, Palermo, Palumbo.
Alberto Bertoni (2001), Una distratta venerazione. La poesia metrica di Giudici, Bologna, Book.
Lucia Conti Bertini (1984), Andrea Zanzotto o la sacra menzogna, Venezia, Marsilio.
Florinda Fusco (2007), Amelia Rosselli, Palermo, Palumbo.
Luca Lenzini (2000), Il poeta di nome Fortini, Lecce, Manni.
Niva Lorenzini (2005), La poesia italiana del Novecento, n.e., Bologna, Mulino.
Romano Luperini (1992), Storia di Montale, Roma-Bari, Laterza, Roma-Bari.
Romano Luperini e Pietro Cataldi (2000), La scrittura e l’interpretazione, Palermo, Palumbo, vol.
III.
Antonio Pietropaoli (1991), Unità e trinità di Edoardo Sanguineti. Poesia e poetica, Napoli, ESI.
Rinaldo Rinaldi (1982), Pasolini, Milano, Mursia.
Lisa Rizzoli e Giorgio Morelli (1992), Mario Luzi, Milano, Mursia.
Luigi Surdich (1990), Giorgio Caproni: un ritratto, Genova, Costa & Nolan.
Per le fotografie di Dino Ignani:
Letteratura all'Orto Botanico (1988), Repertorio del I e II Festival di Letteratura "Le Voci della
Scrittura", Roma, 21-25 Luglio 1987 / 6-10 Settembre 1988, a cura di G. Weiss, Roma, Il
Ventaglio.
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