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Novembre 1917 – L`invasione
Novembre 1917 – L’invasione Vita di paese durante l’occupazione austriaca. dagli appunti di suor Maria Agnese Zanderigo Rosolo Alla fine di ottobre del 1917 si vedevano i soldati con tutti i carriaggi scendere dalla montagna. Non si combatteva più. Ordinati immediatamente lo sgombero, la ritirata perché venivano gli austriaci dopo la disfatta di Caporetto. Soldati e armamenti andavano giù verso il Piave. Padre Pacifico insisteva che dovevamo partire. Mi ricordo che quella notte mamma mi mandò a dormire. Ero la più piccola dei cinque fratelli, avevo 11 anni. Vivevo la paura, l'agitazione che era in giro e non potevo prendere sonno. Pensavo: "Dobbiamo lasciare la casa, lasciare tutto. Dove andremo? Ritorne-remo? I miei genitori, il fratello, le sorelle, tutta la notte a portare la roba nella cantina sotterranea. Anche altri amici portavano le cose più importanti da noi, dopo avrebbero murato la porta e nessuno si sarebbe accorto. Tutto fu fatto. Al mattino tutti alla messa. Il pievano diede l'ordine, a quelli che erano in grazia di Dio, di rifare la comunione per consumare tutte le Sante Specie. C'era grande confusione nel paese: chi partiva, chi era incerto sul da farsi, chi aveva deciso di rimanere. Il babbo decise di partire. Caricato il carro pieno di roba della nostra famiglia e dei parenti, attaccati due buoi, partimmo per Calalzo. Prima di partire tutti, in ginocchio, davanti al quadro del Sacro Cuore per invocare la sua benedizione. Il babbo chiuse casa e mise le chiavi sopra il portone. Partimmo con le lacrime e la benedizione del Cuore di Gesù. Passando davanti al cimitero, ci raccomandammo ai nostri morti. Monica guidava i buoi. Un cammino lungo per il Passo di sant'Antonio, dal pomeriggio, tutta la notte, fino a Calalzo. Che confusione di gente, soldati, carri e bestiame requisiti prima della ritirata. E, per completare la drammatica situazione, pioggia e neve. Il pievano era con noi e ci faceva coraggio. La moglie del cugino Bortolo ci ospitò a casa sua a Calalzo. Andavamo a prendere il rancio dai soldati. Era giunto l'ultimo treno in partenza. Padre Pacifico insisteva: "Partite, andate nelle Marche, penserò io a sistemarvi!" Ma il babbo e il pievano erano un cuor solo ed un animo solo. Don Pio disse: "Io come pastore del gregge devo stare con le mie pecore". Rimanemmo con lui, ritornammo a casa mentre gli austriaci ci circondavano. Ognuno era obbligato ad avere la carta con l'impronta del pollice, senza questa non si poteva uscire di casa. Durante l'inverno si consumò il raccolto che era stato abbondante: patate, orzo, avena, fave, rape, cavoli. Il bestiame era stato requisito, ci era rimasta una mucca e il latte doveva essere diviso con un'altra famiglia. Venne la primavera e le provviste finivano e c'era la fame. Gli austriaci non ci davano niente, avevano poco anche per loro. Andavamo a cercare erbe commestibili: radicchio di campo, spinaci selvatici, ortiche, acetosella, "pèti da pra" (carlina) e radici da far bollire. Verso le undici si sentivano solo i colpi "dla pestarola", grosso coltello che pestava l'erba da condire con il latte acido. Un bel giorno il pievano, pieno di fede scrisse una lettera a Gesù e la mise sotto il tabernacolo chiedendo di aprire una porta per poter dar da mangiare alla gente. Pregammo e arrivò un tacito accordo con il comando austriaco di andare nella vicina Austria a fare scambio merci. Noi davamo i più bei fazzoletti da testa di seta, i grembiuli, scialetti, lenzuola, lana... in cambio di segala, sale... Si doveva andare al di là del monte Cavallino. Tre giorni di andata e ritorno con il rischio della vita. Una mia compagna, mentre andavano di notte , scivolò, cadde nel burrone e morì. Anche gli austriaci alla fine soffrivano la fame e ci chiedevano "kartofen" patate. Si vedevano anche soldati russi, penso prigionieri degli austriaci. Erano piccoli di statura, non facevano male a nessuno; passavano schiere di cavalli piccoli per aiutare l'esercito. Non avevano più munizioni e ci tolsero le campane. Un pomeriggio andarono sul nostro campanile a prendere giù le campane. io e il babbo eravamo in camera e dalla finestra guardavamo su. Il babbo disse: "Ora perderanno la guerra. Non si tocca il sacro". Infatti in autunno la situazione per noi si rasserenò. Gli austriaci indietreg-giarono. Il giorno di San Leonardo, patrono del paese, venne un soldato in bicicletta, sventolando il tricolore. Piangemmo di riconoscenza al Signore. Arrivò presto la Croce Rossa con cibo, vestiti e medicinali. Con grande gioia di nuova vita si preparò la festa della Madonna della Salute, 21 novembre 1918. Verso dicembre arrivò la terribile influenza detta "la spagnola". Una vera epidemia. 19 dicembre 1917 – truppe austriache acquartierate a Candide Anche noi l'abbiamo presa ma leggermente. Il babbo invece la prese forte e lo portò alla morte. Si ammalò la vigilia di Natale e il 3 gennaio spirò nella pace del Signore. 2 Ricordi di Anna Festini Brosa Sono nata dopo la Grande Guerra, nel 1921. Quando ero ragazza, papà e mamma mi raccontavano i tanti ricordi che serbavano di quegli anni. Allora la mia famiglia viveva in Austria, ma quando scoppiò la guerra papà decise di tornare in patria per fare il suo dovere di soldato, perché amava l’Italia tanto quanto amava la sua famiglia. Lasciò tutto in fretta: la polenta ancora in tavola! Lasciò il lavoro, dove era ben voluto (faceva il cuoco per gli operai), l'appartamento dove si trovava bene. E mamma lo seguì con i due figli, Maria di cinque anni e Gino di tre. Papà al fronte era alpino, mamma si stabilì a Casamazzagno nella casa dei suoceri. Da quel momento la vita fu piena di sacrifici. Passarono i mesi e gli anni, venne pure l'anno dell'invasione dei tedeschi, “l'an de la fam”, come dicono i bellunesi. Mamma decise di partire e andare profuga con i bambini. Fecero a piedi la strada per Auronzo, attraverso il passo di S.Antonio. C'era molta confusione per le tante partenze e ad un certo punto la mia sorellina si perse. «E’ vestita di rosso la mia bambina, aiutatemi!» gridava mia mamma spaventata. I camion partirono prima che ritrovasse la sorellina e così, rimasta a terra, mamma fu costretta a ritornare a Casamazzagno. Col tempo la salute del mio fratellino iniziò a farsi cagionevole. Mamma si fece allora coraggio e decise di portarlo in Austria dalle zie, sorelle del papà. Affidò alla Provvidenza per qualche giorno la mia sorellina e partì con Gino in spalla verso il Monte Cavallino. Quando giunse in Austria dalle cognate fu ben accolta e lasciò in buone mani il suo bambino. Tornata in Comelico pregava nella sua povera stanza che papà tornasse. Era molto devota a S.Anna, «la santa potente» diceva Don Pio De Martin. Un giorno, dopo le sue devote, invocazioni, le sembrò di udire una voce: «Coraggio! Fra sei mesi ritorneranno gli italiani!». Quella voce diceva il vero: il papà tornò sano e salvo. Intanto era scoppiata la spagnola. Papà, mentre camminava ormai verso casa, felice di poter riabbracciare la sua famiglia, sentì le voci delle donne: «E’ tornato Gisi (Luigi), povera Carolina, l'hanno portata via con la barella poco fa!» Così fu il suo rientro dalla guerra. Fortunatamente mamma superò la malattia e poi iniziò una nuova vita, forse di stenti, ma che ci vide sempre uniti. Grazie a Dio I Storie di profughi di Agnese Martini Barzolai "Abbiamo dovuto partire, era arrivato l'ordine di evacuazione per tutto il paese. I nonni Plaito, Marco e Apollonia, non volevano partire. Avevamo una mucca e una giovenca. I tedeschi hanno requisito la giovenca e, prima di partire, mio padre ha deciso dì consegnare anche la mucca. Vestiti e calzati come potevamo, siamo andati verso il Passo S. Antonio, con un carro. Attraversando Padola, il papà aveva consegnato la mucca ai tedeschi. Siamo giunti ad Auronzo ed avevamo intenzione di arrivare a Calalzo per proseguire in treno, ma a Tarlisse era già notte e ci siamo riparati in un "barku" per continuare la strada il giorno seguente. Di notte è arrivata lì la mucca. La mamma chiedeva a mio padre di aprire la porta, il papà rispondeva che all'interno non c'era posto sufficiente neanche per ì bambini...; poi, se fossero arrivati i tedeschi, ci avrebbero puniti. La mucca intanto continuava a farsi sentire fino a quando mio padre ha socchiuso la porta e la mucca è entrata, si è addossata alle travi e noi bambini ci siamo scaldati i piedi contro la pancia della mucca che è rimasta ferma ferma. Il giorno dopo il papà ci ha preceduti verso Calalzo, già delle persone se n'erano andate come profughi. Il papà, arrivato a Calalzo a piedi, ha saputo che la ferrovia era già stata fatta saltare e, tornato indietro, ci ha avvertito che non si poteva proseguire. Siamo comunque arrivati al paese di Calalzo, sempre seguiti dalla mucca. I nostri genitori ci avevano preparato a rispondere alla domanda circa la provenienza della mucca, e cioè di non saperne nulla. Arrivati ad una casa, la padrona ci ha detto che ci avrebbe ospitati, ma che non sapeva dove sistemare la mucca. Di fianco alla casa c'era una specie di cantina alla quale si accedeva scendendo una scala non troppo ripida e così, alla sera, usando delle corde, hanno calato la mucca in cantina. Io e mio fratello Carlo andavamo ad un accampamento militare lì vicino e ricevevamo pasta, gallette, paglia; ciò che era commestibile lo mangiavamo noi, il resto lo davamo alla mucca. Così è sopravvissuta per li tempo che ci siamo fermati lì. Alla firma dell'armistizio, mia zia Agnese, mia mamma e mio fratello (era nato nel 1907) sono partiti verso il Comelico per accertarsi se era possibile tornare a casa. A Ponte nuovo, il ponte era stato fatto saltare e si passava da una sponda all'altra sopra una passerella di assi. Le donne sono passate per prime e mio fratello le seguiva; ma un militare tedesco lo ha fatto cadere nell'acqua. L'hanno ritrovato a Vallesella, fermato da uno dei rastrelli posti vicino ad una segheria. Quello è rimasto per noi un grande dolore, nonostante la gioia del ritorno a casa." 4 In fuga dagli invasori di Addolorata Martini Barzolai Non erano bastate le sofferenze causate dalle operazioni militari che da tre anni avevano avuto per teatro la nostra valle, si doveva aggiungere la tragedia dell’inva-sione nemica. La notizia circolava già da qualche tempo, ma solo verso la fine d’ottobre la situazione precipitò e la gente valutò che era più saggio fare fagotto ed allontanarsi dal paese anche perché i più vecchi ricordavano bene cosa volesse dire l’occupazione tedesca. Si trattava di spostarsi verso zone dove si presumeva che il nemico non sarebbe mai arrivato, anche perché si confidava sul fatto che il nostro esercito, riorganizzatosi, sarebbe stato in grado d’arrestare l'avanzata degli Austriaci e ricacciarli al di là del confine. Molti decisero allora di abbandonare il paese per zone più sicure. Alcune famiglie si misero insieme e partirono con le povere cose caricate su un carro trainato da un cavallo, da buoi o da qualche mucca. Altri invece iniziarono la fuga con le provviste caricate su carretti o riposte nelle gerle. Da quel momento la parola “sfollati” ebbe un significato ben preciso. Anche mia madre, nonostante il parere contrario di mio padre, decise che era più saggio andarsene. Raccolte le povere masserizie e riposte nelle gerle (una la portai anch’io) ci incamminammo verso il centro Cadore. Il nostro gruppo familiare era composto dalla mamma e da noi otto figli, racchiusi tra i 16 anni del più grande e un anno e mezzo della più piccola. Penso ancora con quale stato d'animo mia madre si assunse la responsabilità di partire senza una meta precisa e con noi quasi tutti piccoli: sono certa però che avesse posto tutta la sua fiducia nella Provvidenza divina. Attraversando Dosoledo notammo che il paese era completamente deserto e per la quasi totalità abbandonato, cosa che ci rattristò molto. Proseguimmo il nostro cammino. Passammo per Padola e attraverso il passo Sant'Antonio (a otre la monti) approdammo ad Auronzo. Qui ci fermammo per qualche giorno, ospitati, con altri della nostra gente, in una stalla. Lì sostammo per qualche giorno e, se non ricordo male, fu perché le autorità militari volevano le strade libere per dar modo all'esercito di ritirarsi ordinatamente. Arrivammo poi a Lozzo e trovammo ospitalità in un vecchio mulino, che era servito, prima di noi, da dormitorio per i soldati in ritirata. I poverini ci lasciarono in eredità i pidocchi! Nel tragitto tra Casamazzagno e Lozzo non notammo militari italiani, proba- bilmente avevano già lasciato la nostra zona. La chiesa parrocchiale di Lozzo (quella che ora non è officiata) era stata adibita dai militari a deposito di viveri e di materiali vari. Ma non essendo presidiata dai soldati, qualcuno riuscì a forzare le porte e così la gente del paese e gli sfollati poterono entrare e impossessarsi di quanto in essa era contenuto. Anche noi, come gli altri, ne approfittammo. Avvertiti del saccheggio arrivarono i soldati a cavallo per disperdere la folla ancora assiepata; se non ricordo male ci furono anche dei feriti e qualche contuso. Nel mulino in cui avevamo trovato ospitalità, mia madre ci preparava qualche cosa da mangiare (cosa? non lo so) su un forno che aveva solo la parvenza di una cucina economica. Quel fuoco riusciva, in qualche modo, anche, a riscaldarci, visto che l’autunno era già avanzato. Per grazia di Dio il tempo era bello e non soffrimmo il freddo. Dormivamo per terra, sulla paglia lascia-taci in regalo dai militari e con quanto essa conteneva...! Guardando verso Vigo, Laggio, Lorenzago si vedevano i soldati austriaci scendere dai boschi e occupare i paesi. Mentre eravamo ancora a Lozzo ci fu lo scoppio di una polveriera (non so esattamente dove si trovasse); sentimmo un tremendo boato e pensammo che gli stessi militari italiani in ritirata l'avessero voluta distruggere perché non cadesse in mano ai nemico. Non ricordo se ci furono morti o feriti in quell'occasione. Penso che la nostra sosta forzata a Lozzo, come giorni prima ad Auronzo, fosse dovuta a disposizioni militari. Poi mia mamma, d'accordo con altri nostri paesani, decise di non proseguire il cammino ma di rientrare in paese. Mio padre, che era stato contrario alla nostra partenza ed era rimasto da solo in paese, si recò in cimitero e vi accese quattro candele per chiedere l'aiuto dei defunti per farci ritornare sani e salvi a casa e fu esaudito. Quando eravamo ancora a Lozzo, un ragazzo di 17 anni di Casamazzagno trovò un ordigno bellico inesploso ed armeggiando con esso ne provocò lo scoppio. Questo episodio doloroso mi rimase impresso perché vidi il giovane ferito e sanguinante mentre veniva caricato su una autoambulanza (militare?) per essere portato all’ospedale di Belluno. Rientrati con altri a Casamazzagno avemmo la sgradita sorpresa di constatare che qualcuno era entrato nelle case rimaste vuote e rubato quel poco che vi era stato nascosto prima di partire. Questo sciacallaggio ai danni della povera gente che aveva dovuto fuggire fu una pagina vergognosa per il nostro paese e per coloro che avevano compiuto questa vile azione. Eravamo già rientrati in paese quando venimmo a sapere della tragica morte di un ragazzo di dieci anni (era un mio cugino) avvenuta in località Treponti. Il ponte sulla strada nazionale era stato distrutto dai soldati italiani in ritirata e per attraversare il Piave era stata costruita una passerella in legno. Mentre il ragazzo, accompagnato dalla madre, la stava attraversando, una tavola probabilmente marcia o non ben fissata cedette. Il ragazzo cadde nel precipizio e morì tra le acque del Piave. La madre assistette impotente alla morte del figlio, mentre questi gridava: “mamma salvatemi!” Alcune famiglie di Casamazzagno e dei paesi vicini proseguirono la loro fuga. Presero il treno a Calalzo ed arrivarono in varie località d'Italia. Una nostra vicina di casa ci 6 raccontava che con la famiglia e parenti erano arrivati a Caltagirone e a Grammichele in provincia di Catania e vi erano rimasti fino alla fine della guerra e si dilungava raccontandoci la vita da essi condotta in un ambiente così diverso dal loro. Quanto ho raccontato non è che una piccola parte delle vicissitudini sopportate dalla nostra gente in quel tragico periodo. Rientrati in paese avemmo infatti l’avventura di trascorrere un intero anno sotto “il tallone dell'invasore” (come si diceva all'ora). Solo quando il tempo primaverile ce lo permise demmo inizio ai viaggi in Friuli, Carnia, Pusteria, Austria alla ricerca del cibo per sfamare le nostre famiglie. Da Casamazzagno a Bertinoro dal diario di Luigi Valentino Festini Cucco 1 novembre 1917. Partiti il giorno suddetto da Casamazzagno con gli animali e lasciati tutti gli attrezzi. Arrivati con gli animali a Padola ci fermammo là in quella notte. Il giorno due novembre vennero a requisire il bestiame: cioè tre vacche, due manze e una capra, le quali vennero stimate da una commissione mandata da S.Stefano di Cadore, composta di un Caporale Maggiore e diversi soldati assistiti dal Tenente veterinario sig. Fait ed il sig. Tenente Colle degli Alpini, comandante il presidio di Padola. I cinque capi bovini vennero stimati dal sig. Tenente veterinario in q.li 18 e la capra in Kg. 50 e così consegnammo il bestiame e ci diedero in cambio un pezzetto di carta di un ruolino con il nome e cognome, paternità del proprietario, peso del bestiame ed il biglietto firmato dal Cap. Magg. Peraldo Luigi e dal tenente Colle. La sera del 2 novembre rimanemmo ancora a Padola. Il 3, circa a mezzodì, partimmo con i sacchi carichi di masserizie per Auronzo; la sera del 3 dormimmo ad Auronzo. Il giorno 4 partimmo di buon mattino per Calalzo tirando il carretto delle masserizie trovato per fortuna in Auronzo. A Calalzo trovammo diversi del paese fra i quali il nostro Rev. Pievano Don Pio. Finalmente ci siamo recati alla stazione con l'intenzione di partire in quella sera, circa alle sei, ma visto tanta confusione decidemmo di tornare a Calalzo e di partire la mattina appresso e così fu fatto. Dormimmo in un fienile a Calalzo e la mattina avanti giorno preparammo il nostro bagaglio e con sorpresa non trovammo più il carretto che ci era stato rubato durante la notte e così si dovette fare zaino in spalla e marciare nuovamente verso la stazione. Arrivati là attendemmo qualche ora e finalmente a stento potemmo montare e dopo qualche mezz'ora partimmo per Padova. Oltrepassata quella stazione il treno si fermò e così la sera del 5 dormimmo in treno vicino il campo d'aviazione. Il giorno 6, circa le due pomeridiane, partimmo alla volta di Ferrara, poscia a Bologna, Faenza, Forlì, Rimini e finalmente la sera del 7 a Riccione, circa le sei e trequarti, ospiti della villa Amati. Là siamo rimasti fino il giorno 12 dicembre; in tale giorno partimmo verso le 9 del mattino; proseguimmo per Rimini, Cesena e circa le 11 arrivammo a Forlimpopoli; là smontammo essendo destinati a Bertinoro, così si fece sei chilometri a piedi per giungere a Bertinoro, noi, io e la moglie, abbiamo fatto a piedi e i figli a mezzo vettura. Il vitto abbiamo fatto in comunione, come a Riccione, con la compagnia fino il 12 gennaio e poi abbiamo fatto da soli." 1918 – L’anno della fame I viaggi della speranza di Addolorata Martini Barzolai L’anno dell’invasione austriaca, dal novembre del 1917 al novembre del 1918, fu per la popolazione del Comelico un periodo molto difficile, soprattutto per la mancanza del cibo. Le già misere provviste alimentari si esaurirono ben presto e così la gente, appena arrivò la primavera, dovette riversarsi nei prati e nei campi per raccogliere erbe di tutti i tipi con le quali, cotte o crude, potersi sfamare. Qualcuno addirittura raccolse dai campi le patate da poco seminate. Rifornimenti dal di fuori non ne arrivavano, neppure per quelli che avevano la “tessera”. La gente era alla fame. Si decise così di andare alla ricerca di cibo nelle zone più provviste delle nostre, dove la terra rendeva di più, in Carnia, nel Friuli, in Pusteria, in Austria. Certamente ci voleva del coraggio a presentarsi in terra austriaca, noi che eravamo loro nemici, per chiedere aiuto! Ma la fame fa fare questo ed altro. Si formavano gruppetti di due, tre o più persone. Se la destinazione era al di la’ del confine, almeno uno del gruppo doveva sapere un po' di tedesco. Io ero tra questi perché, essendo stata anni prima in Germania, conoscevo la lingua. Mia mamma preparava la biancheria e altri generi che dovevano servire da scambio con fagioli, sorgo, frumento, segala, patate e quanto quei contadini potevano offrire. Con quel carico partivamo per i “viaggi della speranza”, confidando soprattutto nella Provvidenza. Era umiliante bussare alle porte delle case anche perché non sempre avevamo qualche cosa da offrire in cambio. Per esperienza personale, posso dire che nei viaggi in Austria, in Carnia, nel Friuli né io, né quelli che erano con me, fummo mai trattati male. Avevano compassione di una ragazzina povera, impaurita e malvestita come ero io e per questo, nello scambio, riuscivo sempre ad avere qualche cosa di più del pattuito. I viaggi, sempre a piedi, erano lunghi e faticosi; ancor di più il ritorno per il carico che era più pesante che nell'andata. Non so se qualcuno possa solo immaginare con quanto amore sopportavamo questi sacrifici pur di portare a casa qualche cosa per sfamare la famiglia. Ricordo ancora con commozione quando, rientrata a casa, i miei fratellini e le sorelle più piccole mi si stringevano attorno e mi chiedevano: “Dolorate che astu purtò?” e la loro felicità nel vedere estrarre dalla gerla quanto ero riuscita a portare. I gruppi erano formati in prevalenza da ragazzi, ragazze, donne e da qualche uomo (in paese gli uomini erano pochi in quanto o erano al fronte a combattere, o militarizzati, o sfollati o troppo anziani per sostenere tali fatiche). Nella mia famiglia eravamo io e mio fratello Rodolfo (io 15 anni, lui 17) a svolgere questo compito. Qualche volta facevamo il viaggio insieme, special-mente verso la Carnia, e così ci si aiutava a vicenda. Non sempre tutto andava liscio. Qualche volta non c'è la facevamo ad arrivare a destinazione per qualche malessere o per la stanchezza. Ricordo al proposito che durante un viaggio in Carnia le mie compagne furono colpite da una preoccupante dissenteria, forse perché avevamo bevuto dell'acqua non potabile o mangiato qualche cosa di avariato oppure a causa d’un colpo di freddo durante la notte, dal momento che per dormire ci si riparava in qualche casolare e non avevamo nulla per coprirci. Io invece fui colpita da dolorosi crampi alle gambe a causa dei quali non potevo quasi più camminare. Così malconce arrivammo in una casa di contadini dove ottenemmo ospitalità. Le mie compagne 8 chiesero alla padrona di casa che cosa potessero darmi per alleviare i miei dolori alle gambe. Essa consigliò loro di raccogliere delle erbe che si trovavano nelle vicinanze della casa, di applicarle alla parte dolorante e poi di fasciare le gambe. Così fecero. Dopo una notte di riposo, di buon mattino mi alzai completamente ristabilita. Ringraziammo quella buona famiglia e proseguimmo nel nostro viaggio. Quell'erba era la “zirgogne”. Nei viaggi oltre confine, in Pusteria, i gruppi erano costituiti da poche persone e questo per non dare nell'occhio e passare inosservati ai controlli scrupolosi dei “pulizai” austriaci. I viaggi erano avventurosi oltre che rischiosi. Poteva capitare che dopo aver fatto tappa presso un maso, i contadini, dopo la nostra partenza, segnalassero alla polizia la nostra presenza. Lo facevano fischiando in un certo modo e così i gendarmi qualche volta riuscivano a intercettarci. L’accorgimento che usavamo era quello di non attraversare mai i paesi ma camminare nelle zone più elevate e defilate, nascosti tra gli alberi. E questo ci consentiva di contattare con una certa tranquillità gli abitanti dei masi che erano posti ai margini del bosco. La via del ritorno era ancora più lunga e tortuosa per la necessità di sfuggire ai controlli della polizia. Si camminava attraverso i boschi, evitando i sentieri, passando i torrenti anche in punti pericolosi, valicando le montagne . Anche se sono passati ottant’anni da allora, mi ricordo quella volta che io e due donne di Casamazzagno stavamo rientrando in territorio italiano per la Valle della Madonna, dove quel giorno aveva burrascato abbondantemente. Eravamo stremate dalla fatica. Il viaggio era stato penoso anche perché il tempo era stato particolarmente cattivo. Ci fermammo per riposare e cercammo di fare un po' di fuoco per riscaldarci ed asciugarci. Ma dal momento che sia la legna che i fiammiferi erano bagnati l'impresa di accendere il fuoco non riuscì. Le poverine, esauste e demoralizzate, senza più la forza di reagire, si stesero a terra e a nulla servirono i miei incitamenti a rialzarsi e andare avanti, sperando, magari, di trovare un qualche riparo. Io, preoccupata, girai un po' nei dintorni e; ad un certo punto, vidi addossata ad una parete rocciosa, una baracca che i nostri militari avevano abbandonata durante la ritirata Vi si accedeva per una scala. Rinfrancata da questa scoperta, vi feci una visita per controllare se essa era abitabile. E veramente lo era. Allora tutta contenta ritornai indietro, presi i fagotti delle due poverine e li portai nella baracca. Poi con tanta fatica riuscii a farle alzare e le aiutai a camminare, anzi le trascinai, verso quel provvidenziale rifugio. Dentro vi trovammo della legna e decidemmo di fare il fuoco, ma eravamo senza fiammiferi. Improvvisamente mi ricordai che nel contrattare lo scambio merci con una contadina le chiesi di darmi, in più del pattuito, una scatola di fiammiferi (le mie compagne si erano seccate per questa mia richiesta) che poi riposi nel barattolo di latta dove mettevo l'occor-rente per fare il caffè d’orzo. Trionfante estrassi dal barattolo i fiammiferi ed accendemmo il fuoco. In un tegame raccolsi la neve e quando fu sciolta ci preparammo il caffè. Oh che sapore e che ristoro! Il fuoco ci riscaldò e ci asciugò. E dopo aver mangiato trovammo nella baracca delle tute militari bianche con le quali feci delle strisce e fasciai loro le gambe e piedi (naturalmente anche le mie). E così, morte e resuscitate, furono pronte per riprendere il viaggio di ritorno al paese. Ancor oggi, ricordando quell’episodio, penso a quanto è grande la Provvidenza divina! Rientrata a casa con il carico ebbi la triste notizia della morte di una mia coetanea, che perse la vita in uno dei tanti “viaggi della speranza” verso l’Austria. Andare oltre confine di Raffaella Zanderigo Rosolo Preparativi La nonna Monica alza il coperchio della bella cassa nuziale di legno (l banku dla nona) riccamente decorato con motivi floreali: lì è racchiuso il suo corredo tessuto, cucito e ricamato a mano ed odoroso di timo (erba di rois). Accarezza un lenzuolo di lino, con il bordo di pizzo fatto durante la sosta dei lavori di campagna o custodendo gli animali al pascolo. Vi sono ricamate le sue iniziali M.Z.V. (Monica Zannantonio Vena). Lo toglie, lo piega con cura. Dovrà privarsi anche di questo con una stretta al cuore. In casa ci sono tante bocche da sfamare. Le madie sono vuote, la carestia è grave. -"Quando finirà questa guerra? E l'invasione austriaca? - Posso dare anche questo bel fazzoletto nero a fiori rossi e gialli." Con il ferro scaldato a brace e lo straccio umido, da l'ultimo tocco alla stoffa nera ricavata dall'ampia gonna che ha disfatto. Piega tutto con cura e ripone nello zaino di tela tessuta in casa. Avvolge in un telo un pezzo di pane nero. Il sacco è pronto per il figlio Lorenzo, diciannovenne, che al mattino presto andrà al di là del confine italo-austriaco per barattare indumenti con granaglie: segala, orzo, avena, grano saraceno. Tutto questo è necessario per sfamare la numerosa famiglia. E' il mese di agosto. Tempo di mietitura, ma ce ne vuole prima che la segala sia pronta per diventare farina e qui non si trova niente. Gli austriaci hanno requisito tutto, anche glì animali delle stalle. La gente va fin su alle malghe in cerca di erbe commestibili quali "la grasla" spina- cio selvatico, "sbulii" ortiche, "dota" selene, "pet da pra" carlina, "sutìgu" erba cipollina .... Erbe cotte, scondite da con- sumare con la polenta bigia, quando c'è. Si devono battere con coraggio e rischio altre strade per gli approvvigionamenti. In viaggio Così la sera prima vengono presi gli accordi. Guida il gruppetto uno stagnino, Nuci di Iona, che prima della guerra girava per lavoro tutte le zone della Drava e del Gail fino a Villach. Conoscitore della lingua e della gente è una sicurezza. Passa, batte le imposte per chiamare due giovani: Lorenzo e la cugina Annetta di Kromer. Sono pronti a seguirlo dopo aver consumato una parca colazione scaldata sul focolare. "Buona fortuna! Che Dio vi assista!" li saluta nonna Monica. Lasciato il paese, percorrono la strada del Digon, su a Pian Formaggio, la Pitturina, i ghiaioni del monte Cavallino e giù per quella gola orrida fino ai prati di Kartitsch. E' circa mezzogiorno. Poi per un sentiero che corre tra due siepi (ciaduri) di legno, fino in fondo alla valle a Panzendorf, caratteristico ponte coperto, in legno, del secolo XVIII, dove passa il treno. Lo stagnino sa dove trovare alloggio e ristoro per la notte. E' in un maso un po' fuori del paese. 10 Al mattino presto il treno li porta lungo la valle della Drava. Giungono in un villaggio scelto per quel viaggio. Passano di maso in maso; offrono, contrattano per un carico di segala, orzo, avena e un pane con i semi di cumino (ciarè). Soddisfatti del carico riprendono il treno di ritorno facendo attenzione a non incontrare i gendarmi austriaci, pronti a requisire tutto il carico. Giunti a Panzendorf, sosta al maso che mio padre ha riconosciuto 72 anni dopo andando un giorno al santuario di Maria Luggau. Ecco i sentieri tra gli steccati e lassù la mulattiera che taglia a zig-zag il monte. Ricordi! Emozioni! Lasciano in custodia una parte del carico perché la fatica è grande per ritornare lassù sul confine. E' sufficiente un carico di 25/30 Kg. Anche per un diciannovenne super allenato è una faticaccia arrivare sullo spartiacque a 2670 mt. magari con il cattivo tempo, inzuppati fino alle ossa. Raggiunto il confine, un sospiro di sollievo: anche questa volte ce l'abbiamo fatta! La discesa lungo i ripidi pascoli di Silvella fino alla strada del Digon dove nonno Francesco li aspettava verso le nove del mattino con il carretto per il carico. Ma non sempre arrivavano all'appun-tamento stabilito. - "E' successo qualcosa - pensa nonno Francesco - o sono stati acciuffati dai gendarmi oppure per sfuggirli hanno preso un'altra strada". L’arresto Mio padre novantaduenne, mentre regge la pipa con la sua mano lunga, affusolata da pianista, racconta... "Un grigio giorno d'ottobre, di ritorno sul treno, un gendarme ci pesca. Scendiamo tutti ad una stazione più in là, verso San Candido fuori della nostra zona d'arrivo e di partenza. Percorriamo insieme la strada verso il comando di polizia. Mentre lo stagnino discute con il gendarme, Annetta scioglie gli zaini, toglie i primi sacchi e li nasconde dietro una catasta di legna. Al commissariato viene requisito il carico. Non serve inginocchiarsi e supplicare "Bittel Bittel". Il comandante fa colare un pugno di segala in un cartoccio che ci consegna dicendo: "Questo è per il ritorno". Siamo liberi ma leggeri e lontani dal percorso abituale. Raccogliamo quello che Annetta è riuscita a mettere in salvo. Questa volta è andata così. Pazienza! E su per ripidissimi pendii fino al Rotek - Col Rosson austriaco, dove c'è un piccolo cimitero di guerra: quattro croci su quel tappeto erboso tra muschi e licheni. Giù nella valle dell'Alpe di Nemes, alla malga Coltrondo, la strada allora frequentatissima al limite del bosco, fino al Monte Spina e giù alle Casere. - "Al Pai - mio padre – è a Saleri che ci viene incontro", ricorda mio padre e si commuove pensando che un anno dopo suo padre non c'era più a causa dell'epidemia "la spagnola". E il rituale si ripete fino all'autunno. Si riempie la madia e si assottiglia il corredo della nonna ... Mio padre rivelava dopo 74 anni con mente lucida e dovizia di particolari i giorni difficili della sua gioventù. Era rimasto solo lui a raccontare. In località Cappella Tamai, a nord della chiesetta, dedicata ai caduti di Cima Vallona, scostata dalla strada c’è una “ancona” fissata ad un albero. Porta questa scritta: “D’Ambros Maria di Luigi martire dell’invasione straniera morta a Fontanelle il 15 agosto 1918 all’età di quindici anni. I genitori inconsolabili”. Mio padre ricorda questa giovane, figlia di “Gisi di Ceki”, morta di fatica e di stenti di ritorno da uno dei viaggi oltre confine. 12