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OSCAR DE ZORZI L`ANNO D`INVASIONE A FREGONA (8

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OSCAR DE ZORZI L`ANNO D`INVASIONE A FREGONA (8
OSCAR DE ZORZI
L'ANNO D'INVASIONE A FREGONA
(8 novembre 1917 - 29 ottobre 1918)
Un significativo contributo alla più vasta conoscenza del drammatico periodo dell'invasione nei
territori veneto-friulani (ottobre 1917
- novembre 1918) durante il primo conflitto mondiale, lo si deve indubbiamente alla scoperta e alla
rilettura di lettere, diari e manoscritti in genere, opere sconosciute di testimoni oculari che, spesso
con prosa semplice e spigliata, documentarono di "prima mano" quei tragici avvenimenti che tanto
sinistramente incisero nella vita quotidiana delle nostre genti.
Si può affermare che, salvo limitate eccezioni, vi fu in ogni centro occupato chi si adoperò a
descrivere i fatti accaduti: uomini di cultura, parroci, insegnanti, ma anche gente comune, tutti
animati da una grande forza interiore volta a trasmettere ai posteri le sofferenze patite nei mesi di
invasione.
Molte di queste cronache giacciono ancora ignorate negli archivi, nelle biblioteche e presso privati;
altre invece hanno avuto la possibilità di essere stampate e sono alla portata di tutti coloro che
intendono approfondire l'argomento sia sotto il profilo storico, sia sotto quello sociale e economico.
In questo mosaico di "microstoria", ben si colloca il manoscritto dell'arciprete di Fregona, don
Giovanni Toja.
Si tratta per l'appunto della cronaca riassunta dell'anno d'invasione a Fregona; consta di 12 fogli
protocollo di facile lettura, scritti dal parroco all'indomani della liberazione, nel novembre 1918. Si
trova custodita presso il locale archivio parrocchiale e una copia di essa, della stessa mano, è
depositata nell'archivio diocesano di Vittorio Veneto.
OSCAR DE ZORZI, è nato a Fregona (TV) nel 1955; vive e lavora a Vittorio Veneto. Appassionato
di storia locale, è socio fondatore e attuale Presidente del Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche.
Ha pubblicato con altri varie opere di storia di questi luoghi. Suoi articoli appaiono su periodici
cittadini.
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Il manoscritto, nominato per la prima volta in "Fregona"di P. Zandegiacomi (1952) e citato per
alcune brevi frasi in "Fregona nel J0 centenario del Campanile" di AA.VV. (1981), è stato
recentemente pubblicato integralmente a cura dello scrivente, in un numero speciale della rivista "Il
Quindicinale", stampata nel 1988 in occasione del 700 anniversario della vittoria.
Che dire di questo documento?
Innanzitutto possiamo affermare che si tratta di una sintesi precisa di quanto avvenne in quel
periodo in paese. Nell'allestire il testo finale, don Toja si servì dei preziosi appunti che di tanto in
tanto, di nascosto, nel continuo pericolo di essere scoperto, poté scrivere su foglietti volanti; poche
righe concise per fissare i fatti principali, con l'intento di unirli, collegarli e rielaborarli in seguito. È
scritto in prosa semplice, spigliata, incisiva e toccante, e ci narra con puntualità le vicende locali,
legate agli avvenimenti accaduti nel più ampio circuito territoriale del vittoriose "1".
Il lavoro di don Toja (fig. 1) ci è fornito di traccia fondamentale nella stesura di questo lavoro, ma,
per non ridurci ad una pura rievocazione di quanto gli occhi e la mano del sacerdote avevano visto e
descritto, abbiamo cercato in parallelo altre fonti documentarie, individuandole presso archivi,
biblioteche e musei della zona. I risultati hanno dato solo in parte gli esiti sperati "2".
Alle ore 2 del 24 ottobre 1917, in una fredda e piovosa notte, nei pressi di Tolmino, cominciò la
disfatta di Caporetto. Il calvario delle nostre truppe incalzate dagli austro-tedeschi, maturò
rapidamente in una ritirata disordinata dall'Isonzo al Tagliamento, fino al Piave, dove l'esercito
italiano si attestò riuscendo a fermare il nemico.
Lo sfondamento delle linee avvenne con tale rapidità da non consentire di sfollare alle popolazioni
friulane; solo quelle del Veneto orientale ebbero, benché frettolosamente, la possibilità di lasciare le
proprie residenze, e furono indirizzate con i fogli di via nelle più lontane regioni d'Italia.
Gli operatori commerciali, economici, industriali e finanziari chiusero i battenti, trasferendo le sedi
delle loro attività in luoghi più sicuri, oltre la linea del Piave che si stava costituendo. Lo stesso
accadde per gli uffici pubblici"3).
Fuggirono le famiglie benestanti, quelle facoltose e, in genere, chi ebbe l'opportunità di partire
sfruttando amicizie, parentele, oppure disponendo di denaro contante o di capitali nelle restanti
regioni d'Italia.
Quasi tutti, se non tutti, i sindaci e gli impiegati pubblici abbandonarono i centri minacciati nel
timore di essere internati. I municipi delle province di Belluno, Treviso e Venezia che andavano a
trovarsi in territorio occupato furono ricostituiti con sedi amministrative provvisorie in località più
sicure, con a capo commissari prefettizi,
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nella maggior parte dei casi gli stessi sindaci che avevano lasciato i comuni"4".
La funzione di questi municipi in esilio era di mantenere i contatti tra i profughi sparsi per tutta la
Penisola e soprattutto con le popolazioni rimaste nelle province invase, comunicando i nuovi
indirizzi, raccogliendo e smistando la corrispondenza in transito e, dove era possibile, assolvendo i
compiti di un qualsiasi ufficio comunale, rilasciando certificati e altri documenti.
Ma questa iniziativa, destinata a far sopravvivere ad ogni costo gli organismi burocratici statali dei
centri invasi, encomiabile sotto il profilo della sensibilizzazione del popolo italiano, e in particolare
dei soldati che capirono l'importanza di combattere non solo per Trento e Trieste, ma anche per
liberare le regioni già italiane quali erano il Veneto ed il Friuli, fu nella praticità e nella quotidianità
delle mansioni praticamente inutile. Se da un lato infatti riuscì, e con grande difficoltà, a conservare
i rapporti tra i profughi dislocati nelle varie regioni d'Italia, fu dall'altra sostanzialmente inefficace
ad adempiere gli stessi compiti verso quanti si trovavano nella Sinistra Piave, causa non ultima
l'intransigenza dei comandi nemici nel vietare l'inoltro e la distribuzione della posta. Il Toja, attento
osservatore di tutte le vicende di Fregona, annotava infatti nel suo manoscritto che la
corrispondenza era stata raccolta per ben quattro volte in canonica e spedita per mezzo dei comandi
austro-tedeschi, aggiungendo però che "non ne arrivarono che poche corrispondenze "15".
Se ne andarono infine, ma non tutti, anche gli uomini compresi tra i 15 e i 60 anni abili a difendere
la Patria, come prescritto dal Bando Cadorna emanato il 4 novembre 1917. Rimasero quindi le
donne, i vecchi e i bambini e, oltre a quelli che non vollero abbandonare la loro casa, solamente i
preti ad aiutare, confortare, soccorrere i parrocchiani con la parola di Dio e l'aiuto materiale.
Il sindaco di Fregona, Angelo Marson, lasciò il comune il 4 novembre, trasferendosi, con la sede del
comune a Parma (vedi nota 4). Il 7 novembre successivo se ne andò l'ufficiale postale (e assessore)
Giacomo De Luca, che il primo cittadino di Fregona aveva delegato alle sue funzioni pubbliche, e
nello stesso giorno partirono anche gli impiegati comunali Giuseppe Rossi e Francesco Costacurta.
In totale abbandonarono il paese novantanove fregonesi, su una popolazione di 3941 persone, il
2,5% dei residenti.
Il 6 novembre i ponti sul Piave furono fatti saltare (tranne quello di Vidor che fu distrutto il giorno
dopo) e chi era rimasto perché costretto, o nel dubbio di lasciare il certo per l'incerto, attese con
trepidazione l'arrivo del nemico.
Già dal giorno prima gli eventi erano precipitati per i comuni alle falde del Cansiglio. La mattina
dell'8 novembre, infatti, Vittorio era stata occupata dai tedeschi; lo stesso giorno, proveniente da
Sacile, il nemico era giunto a 5. Fior e a Colle Umberto; dalla strada pedemontana di Aviano, il
giorno prima, 7 novembre, erano stati occupati Sarone, Caneva e Cordignano, e la mattina dopo
Sarmede, Cappella
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Maggiore e Anzano.
A Fregona il nemico arrivò dal Cansiglio, nel pomeriggio di giovedì 8 novembre, alle ore 16.30.
Erano per la maggior parte truppe austriache, stimate dal Toja in circa 2500 uomini, con ogni
probabilità della 22 a divisione Schuetzen calata dal Pian Cavallo a occupare il Cansiglio e l'Alpago
dove in quei giorni stazionavano in retrovia, provenienti dall'Isonzo e dal M. Stol, i battaglioni
alpini "Belluno" e "VaI Piave". Gli scontri si susseguirono fino al 10 novembre con la vittoria degli
austriaci; i superstiti furono fatti prigionieri, ad eccezione di due ufficiali che riuscirono a scappare
e rientrare nelle linee italiane dopo una fuga avventurosa attraverso il M. Visentin.
Testimonianze orali di anziani fregonesi riferiscono che i soldati invasori giunti alle frazioni di
Osigo e di Mezzavilla, chiesero subito del vino, lasciandosi andare a ubriacature co1ossali"61.
Quella prima notte di occupazione passò così nell'incertezza degli eventi, tra canti e bagordi; gli
ufficiali si acquartierarono nelle case e la truppa nei locali del municipio abbandonato e nelle scuole
elementari di Mezza-villa. Il mattino dopo, buona parte del contingente riprese la via del Cansiglio
per continuare gli scontri con le nostre retroguardie, dopo avere requisito "un forno di pane...; un
sacco di zucchero ed uno di riso allo spaccio comunale popolare"17".
Iniziò così per Fregona l'anno dell'invasione.
Dopo il municipio, in cui ebbe sede la gendarmeria, furono requisite, oltre alle scuole comunali di
Mezzavilla, anche quelle delle frazioni di Fregona, Osigo e Sonego. A intervalli fu occupata la
canonica parrocchiale e da maggio a novembre del '18 la presa di possesso degli immobili si estese
a quasi tutte le case private.
Agli austriaci si affiancarono subito truppe tedesche e proprio da queste la popolazione subì le
maggiori angherie.
Alla sua partenza, il sindaco aveva disposto che alcuni quintali di derrate alimentari,
provvisoriamente stipate nei locali della sua segheria in via Concordia 23 a Vittorio Veneto in attesa
di essere trasferite allo spaccio comunale presso il municipio di Fregona, fossero subito trasportati
in paese.
Nei giorni 4 e 5 novembre gli approvvigionamenti arrivarono per mezzo di carri trainati da buoi, e
furono scaricati tra l'altro 148 q.li di granoturco, 70 q.li di frumento e 3 q.li di zucchero. Ma il
giorno 9 il nemico sfondò la porta del magazzino requisendo tutto all'infuori di circa 3 q.li di
granoturco e 9 q.li di frumento che furono consegnati la mattina del IO successivo dall'assessore
Giovanni Da Re (coraggiosamente rimasto al suo posto) al parroco di Osigo don Luigi Malnis, per
essere distribuiti ai poveri di quella frazione. Purtroppo anche quella poca roba non fu risparmiata
dai gendarmi austriaci; infatti gli occupanti si appropriarono di tutto quanto trovarono, togliendo
così fin dall'inizio ogni speranza alla gente del luogo.
Negli atti stesi dal comune all'indomani della liberazione è annotato che le requisizioni di bovini
durante l'occupazione furono complessivamente tre: la prima volta furono prelevati quaranta capi, la
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seconda ottanta e la terza cento. I dati sono ovviamente indicativi poiché è impensabile che si sia
potuto redigere in quei frangenti un elenco dettagliato di quanto veniva sottratto; il rapporto del
comune si basò sulle denunce presentate dai privati per ottenere il rimborso dei danni e,
probabilmente, fu giocoforza per i contadini in qualche caso, arrotondare le liste.
Ma oltre alle "contribuzioni forzate", ufficializzate negli atti municipali, la lista delle requisizioni fu
molto più lunga; cavalli, maiali, ovini, ancora bovini e innumerevoli animali da cortile furono
sottratti nottetempo dal nemico, trasportati a Vittorio e altrove per essere macellati e distribuiti alla
truppa affamata. Egual sorte toccò alle derrate alimentari; il 1917 era stato un anno particolamente
felice per l'agricoltura, e i magazzini, gli spacci, le "caneve" di Fregona erano ben forniti. Tutto fu
prelevato e stupidamente consumato in poco tempo. Gli invasori, terribilmente provati dalla fame
dopo circa tre anni di guerra, precedettero alle più indiscriminate requisizioni(8).
Carri, carrozze, legna da ardere, mobilio, attrezzi di campagna, biancheria, rame, ottone, bronzo,
ferro, carta straccia, tutto fu oggetto di razzia.
Per dirla con le parole del Toja "in qualche località era perfino proibito al proprietario di raccogliere
la prima verdura del proprio orto. La maggior parte degli avvisi pubblicati metteva terrore e
spavento. La fucilazione, la decimazione, multe, prigioni, internamento, e per ultimo anche il
capestro, era il solito corollario dei continui decreti imperiali"9".
Le maggiori requisizioni furono fatte dai germanici; un esempio significativo avvenne il giorno di
Natale, quando un soldato tedesco fu visto in piazza a Fregona "togliere un pezzo di polenta dalle
mani di un bambino""'°". Ma anche dopo che essi lasciarono il fronte italiano agli austriaci per
concentrare il massimo sforzo sulla Francia, le cose non migliorarono, anzi! È ancora don Toja che
ci presenta in tutta la sua crudezza il susseguirsi degli eventi:
"Partiti quasi tutti i Germanici in Febbraio 1918 e lasciato il fronte Piave ai soli Austriaci ed ai
popoli ad essi collegati, crescendo ognor più anche per questi la fame; la requisizione diveniva un
fatto di tutti i giorni. Quanto nascondere per salvare qualche cosa! Seppellire il vino rimasto, grano,
patate, fagioli, formaggio ed altri generi alimentari, tanto per salvare la vita. Molte volte venivano
scoperti i nascondi-gli ed il tutto portato via senza remissione. Il granoturco dai soldati venne dato
anche ai cavalli a dispetto dei proprietari, non muovendosi gl'invasori a compassione delle lacrime
dei bambini, rispondendo a tutto nostro conforto: mojono i nostri figli, mojano anche i vostri. Noi
soldati saremo gli ultimi a morire, se la guerra non termina, voi civili dovete tutti morire prima di
noi'"'11.
Dal dicembre del '17 fino a novembre del '18 a Fregona non fu più possibile acquistare pane.
In quei momenti, gli unici che riuscivano ancora a tirare avanti
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erano i contadini ai quali, generalmente, fu lasciata una mucca che, in qualche modo poteva
garantire alla famiglia alimenti base quali il latte e il formaggio. Eguale sorte ottenne chi ebbe la
fortuna di ospitare in casa un ufficiale, mentre divenne sempre più precaria la vita delle famiglie
degli impiegati e degli operai, completamente mancanti di generi alimentari.
Ma ben presto tutta la popolazione, indistintamente, cominciò a sentire i morsi della fame.
Allora con un continuo andirivieni, decine e decine di fregonesi
- uomini, donne, bambini - si spostarono in cerca di cibo verso il sud, nella fertile pianura veneta
nota per la sua abbondante produzione granaria.
Don Giovanni Toja compilò ben 189 domande di lasciapassare, tra il 5 gennaio e l'il aprile del '18,
affinché i suoi parrocchiani potessero recarsi a Motta di Livenza, Torre di Mosto, 5. Giorgio di
Livenza e perfino a Caorle in cerca di viveri. Corse anche il rischio di esser internato, o peggio
fucilato, perché sospettato di aver costituito in tal modo una rete di spie; fu infatti chiamato per tre
volte al Comando di Vittorio, interrogato, e poi sempre rilasciato.
I viaggi si concludevano il più delle volte con un nulla di fatto; in molti casi il denaro era inutile e si
doveva rientrare in paese per ripartire muniti di gioielli (la "fornimenta" delle spose), oppure di capi
di vestiario (la "dota"), con cui barattare poche scodelle di farina. Durante il percorso molti furono
arrestati e rinchiusi in stanze buie, luride, malsane, anche per due o tre giorni, anche senza
mangiare, perché sospettati di essere spie anziché gente affamata; altri furono derubati del denaro,
dell'oro, oppure di quel poco che erano riusciti ad acquistare a 5,6, o 7 lire il chilo!
Il parroco e don Antonio Riva, economo spirituale dei profughi di Segusino, dei quali si parlerà in
seguito, cercarono in ogni modo di alleviare le sofferenze nella popolazione. Continui furono i
viaggi ai Comandi di Vittorio e di Cappella Maggiore per ottenere viveri; in canonica si eseguirono
quindici distribuzioni di granoturco, farina, sale, patate, ma sempre in minima quantità; anche
presso il municipio la gendarmeria austriaca distribuì vettovaglie; profughi e paesani ebbero
mediamente quaranta grammi di alimenti al giorno.
Un altro aspetto preoccupante per la vita quotidiana dei civili a Fregona fu il pericolo di essere
internati. Pochi furono infatti gli abitanti del luogo che obbedirono al Bando Cadorna e quelli che
rimasero stettero per mesi nascosti sui monti, nelle soffitte e nei sotterranei della abitazioni, nel
timore di essere catturali, imprigionati e lasciati poi morire di fame.
Significativo, a tale proposito, il brano di una relazione contenuta negli atti municipali già citati:
"I molti nostri soldati prigionieri inviati nel Concentramento Cansiglio venivano spesse volte
maltrattati a colpi di calcio di fucile; pativano la fame e il freddo e furono veduti cibarsi di erbe
d'ogni specie come: cavoli selvatici e ortiche, e venivano obbligati senza ricevere al
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cun compenso, a lavori di disboscamento, di travi e legna che conducevano poi coi carri e coi
camions a Vittorio, a Conegliano, a Sacile e in zona di operazioni"('2".
Gli stessi documenti ci informano dei continui tentativi di violenza carnale, perpetrati soprattutto da
germanici, bosniaci ed ungheresi, nei confronti delle donne del paese.
Si ha notizia di una sola morte violenta: il 9 gennaio, un prigioniero italiano di Piove di Sacco (Pd),
Giovanni Zuaggia, fu abbattuto da un tedesco in località Breda con arma da fuoco e poi finito con la
baionetta alla gola perché non si era fermato al segnale intimato; l'infelice fu lasciato a terra per
quattro giorni e poi gli austriaci, notoriamente in disaccordo con i loro alleati tedeschi, gli resero
"imponenti funerali "(13)
Tra le truppe di occupazione si ebbero alcuni decessi per cause accidentali: Istvan Posta, classe
1874, morì a Fregona, in casa Tandura, la sera del 7 luglio 1918, dopo essersi lamentato con
commilitoni e superiori invano per tutto il giorno; il giorno dopo si ebbe a Osigo il decesso di
Moritz Schuvarz, classe 1886, (ungherese di professione sarto) e il 6 settembre di Josef Trunec,
August Delezat e Josef Michalicha, rimasti uccisi da un fulmine a Fregona.
E veniamo ora alle vicende dei profughi giunti a Fregona.
Nel dramma che si abbatté sulle province veneto-friulane durante l'occupazione nemica, la
migrazione forzata delle popolazioni civili ebbe un ruolo determinante. Se da un lato infatti si
assistette all'abbandono spontaneo dei luoghi di residenza da parte di quasi tutte le autorità civili,
degli imprenditori e delle famiglie borghesi e di ceto medio-alto nei giorni immediatamente
successivi alla disfatta di Caporetto, dall'altro la parte più numerosa dei trasferimenti avvenne per
ordine dei Comandi nemici in modo forzato e forzoso, e provocò tra le popolazioni che vivevano
nei centri prossimi alla linea del fronte che si stava allestendo sul Piave, disagi e tribolazioni.
A Fregona i profughi giunsero il 13 dicembre 1917, alle ore due pomeridiane.
Erano quasi tutti di Segusino, paese che si era trovato in prima linea e che era stato evacuato per
ordine del Comando Germanico tra il 30 novembre e il 13 dicembre 1917. Il primo contingente, il
più numeroso, era partito subito, a piedi; uomini, donne, vecchi, bambini e ammalati senza alcun
genere di approvvigionamento, raggiunsero come prima tappa Follina. Di qui furono destinati parte
al comune di Tarzo e parte a quello di Fregona; alcune famiglie (poche) furono allogate in paesi
vicini, mentre i feriti e gli ammalati furono indirizzati all'Ospedale di Vittorio e successivamente
trasferiti all'Ospedale di Udine. Il secondo gruppo partì da Segusino il 13 dicembre; fu inviato a
Feltre, poi a Belluno, quindi attraverso il Fadalto e per la campagna veneto-friulana in Carnia, ove
venne sistemato alla bell'e meglio,
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prevalentemente nei paesi di Platischis e Talpana, in provincia di Udine.
Sono giunte fino a noi testimonianze strazianti della tragedia segusinese, un comune tra i più colpiti
dalla violenza dell'invasione.
La n.d. Clelia Jàger, moglie del sindaco di Segusino, Beniamino Verri, che seguì una parte dei
compaesani a Tarzo e don Antonio Riva, vicario della parrocchia di 5. Lucia di Segusino, che
condusse gli altri a Fregona, sono gli autori di due preziose memorie: "Ricordi della Grande Guerra,
1917-1918" e"Relazione dei fatti avvenuti durante l'invasione compilata dal Vicario Parrocchiale di
Segusino Don Antonio Riva", entrambe recentemente pubblicate"'4".
Nato a Alano di Piave il 15 luglio 1887, figura esemplare di apostolo missionario di animo gentile e
generoso, minato nella sua forte fibra dai continui patimenti, don A. Riva concluse la sua breve
esistenza due mesi dopo la fine del conflitto, all'Ospedale di Vittorio Veneto, il 2 gennaio 1919, a
soli trentuno anni115".
Egli scrisse la sua testimonianza a Fregona all'indomani della liberazione, l'il novembre 1918,
indirizzandola al Prefetto di Treviso. E un documento assai conciso e estremamente attendibile in
quanto le notizie ivi riportate, confrontate con il diario della Jàger e con il manoscritto del Toja,
concordano perfettamente in molti punti.
Don Antonio Riva dipinge con tinte cupe il comune che ospitò i suoi profughi:
"A Fregona inospitale ed egoista i miei profughi furono imposti dal Comando, che in qualche
famiglia dovette usare anche le minaccie perché fosse concesso loro un giaciglio strettissimo e
senza fieno, od una stalla immonda ed umida. Fu detto anche che non conveniva seppellire i
profughi nel cimitero, e che si provvedessero un campo"t'S).
Egli ha però anche parole di sincera gratitudine per alcuni fregonesi che prestarono volontariamente
la loro "cura disinteressata e sollecita per gli ammalati del Sig. Da Poi (sic) Dottor Francesco, del
sig. Farmacista De Conti Pio; e l'appoggio e la generosità caritatevole in modo specialissimo del
Reverendissimo Signor Arciprete di Fregona Coia (sic) Don Giovanni "(14)o
Ma quanti furono questi esuli in Patria? E come vissero, e quanti morirono d'inedia, di malattia e di
stenti? Sono quesiti per i quali i diversi riscontri d'archivio hanno dato esiti solo in parte
soddisfacenti.
Partiamo dal primo punto: il numero dei profughi.
Don A. Riva parla nella sua relazione di 1100 profughi segusinesi e di altri trecento infelici
compagni di sventura aggregati che raggiunsero Fregona.
Don G. Toja indica nella sua cronaca un numero ben definito:
"1363 profughi, provenienti, mille da Segusino, e gli altri da Alano di Piave, da Vas, Bigolino,
Valdobbiadene, Colbertaldo, Vidor, Mosnigo, 5. Stefano di Guia; e rimasero a Fregona dal 13 Dic.
1917 al Novembre 1918. Nella Parrocchia di Osigo dimorarono solo settantatre Profughi "(18)
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In un altro documento, copia di un resoconto sui danni sopportati dal paese, redatto dal municipio
dopo la liberazione, si legge che complessivamente i profughi ammontavano a 1355.
Come si può notare le cifre si discostano di poco, a seconda delle tre testimonianze riportate e anche
calcolando per eccesso il loro numero, possiamo stimare in circa 1400 gli sfollati giunti a Fregona.
E veniamo al secondo punto: le condizioni di vita dei profughi in paese.
I già citati lavori di L. Puttin e di M. Bernardi (questo per la parte riferita ai profughi di Segusino),
riportando le testimonianze della Jàger e del Riva, non stabiliscono un rapporto tra le condizioni di
vita degli sfollati e le implicazioni che queste aggregazioni coatte ebbero sull'esistenza quotidiana
del centro pedemontano; ne deriva una rappresentazione quantomeno incompleta di quella che fu la
realtà dei fatti.
È infatti innegabile che le tribolazioni patite dai segusinesi, e in generale dalle popolazioni della
Sinistra Piave prossime alla linea di fuoco, furono tremende, ma è altrettanto vero che non era facile
accettare in casa altre bocche da sfamare in quei paesi, come Fregona, dove si stava delineando ogni
giorno di più il terribile flagello della fame, dove quel poco che non veniva requisito non bastava
nemmeno a sfamare i locali.
Don A. Riva descrive con efficacia la situazione della sua gente a Fregona.
'".. ho cercato con ogni risorsa e sacrificio di difendere i diritti non solo dei miei 1.100 ma anche di
altri 300 profughi e soccorrere e confortare la loro condizione desolata, la loro infelicità. A ciascuno
dei miei profughi i Comandi Austro-Ungarici diedero dal 1° Dicembre ad oggi chilogrammi 19,450
di farina e patate ed un po' di sale soltanto e quasi sempre in seguito a domanda e mediante
pagamento. Ho istituito quindi: J0 uno spaccio di carne, potei per qualche tempo ai più poveri
favorire gratis anche la tessera di farina. 2° uno spaccio di latte strappando ai contadini con
ordinanza che ottenni dal Comando di Vittorio, un litro di latte per ogni vacca. 30 diedi a prestito
più di 8.000 lire aprendo un debito assieme ad altre persone. 4° procurai a quanti più era possibile
lavoro che fruttasse un po' di farina, un pezzo di pane. E quanti rapporti, quante istanze non
presentai a tutti i Comandi, che se non potevano dare da mangiare ai profughi almeno li portassero
in luoghi di maggior produzione, nella bassa, ove poteano lavorare terreni che rimasero incolti, o
permettessero di andar laggiù a comperarsi il grano. Poveri profughi! Mamme, fanciulli, spinti dalla
fame ed estrema ti andavano fino presso il mare, camminavano cinque sei anche otto giorni, nel
fango, sotto la piogia e poi tantissime volte di ritorno presso a casa veniva loro tolta la biada!! che
scene strazianti "9".
Clelia Jàer, da parte sua, lamenta con garbo amaro la condizione dei segusinesi a Tarzo:
"A Tarzo e nelle vicinanze vennero collocati molti profughi, con quanto piacere delle popolazioni
locali, bene lo sa chi ebbe la sventu
73
ra d 'esse re profugo... "20"
Vi furono insomma diffidenze, egoismi anche inospitalità da parte dei fregonesi e della gente di
Tarzo, ma furono comportamenti almeno in parte comprensibili, provocati soprattutto dalla
complessità del momento, dalla mancanza di cibo, dalla fame che oramai albergava sovrana in
paese.
E l'indigenza, la denutrizione e la morte per malattia e per esaurimento fisico, tema del terzo punto,
rivelano ancor più la gravità delle ristrettezze alimentari del comune.
Dai registri dei battezzati e dei morti delle parrocchie di Fregona e di Osigo, emergono dati
impressionanti. Ecco il quadro del quiquennio 1915/1920:
Il diagramma dà con efficacia l'idea delle dimensioni del fenomeno della mortalità nel comune di
Fregona durante l'anno d'invasione (il 77% delle nascite nel 1918). (fig. 2).
Di tutti questi infelici, morti prevalentemente di malattie causate dalla denutrizione e dalla
tristemente famosa "febbre spagnola", un'epidemia influenzale che miete centinaia di migliaia di
vittime in tutta Italia, le fonti archivistiche offrono dati in parte discordanti.
Nei già citati documenti comunali redatti all'indomani della liberazione, esiste la minuta di un
formulano, destinato presumibilmente alla Prefettura di Treviso, contenente i dati relativi ai
residenti a Fregona al momento dell'invasione, al numero dei profughi giunti in paese, all'entità dei
decessi degli uni e degli altri, etc.
Secondo il documenti, i morti accertati furono complessivamente 593, così suddivisi:
- abitanti del comune: n. 124 (dato sostanzialmente concordante con quanto dichiarato dal Toja nel
suo manoscritto: 120 morti)
- profughi: 480 (circa 140 secondo il Toja) tot. n. 604
- decessi di residenti avvenuti fuori comune: 11 tot. n. 593
Dalle fonti ecclesiastiche si ricava che il numero dei profughi di
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Segusino e dintorni morti durante la permanenza in paese furono di 110 a Fregona e di 12 a Osigo:
in totale quindi 122 persone. Escludendo l'ipotesi che siano avvenute tumulazioni senza concorso
religioso e successiva registrazione (come ad esempio a Cordignano), riteniamo esatti i riscontri
degli archivi parrocchiali e il dato municipale va quindi notevolmente rettificato.
Riprendiamo la cronaca degli avvenimenti.
Lunedì 6 maggio 1918 giunse in carrozza a Fregona il vescovo di Vittorio Veneto Eugenio
Beccegato, figura esemplare di presule patriota: egli parlò in chiesa ai numerosi fedeli,
confortandoli nella comune tribolazione, esortandoli a pregare e a confidare nella divina
provvidenza.
1115 successivo venne celebrata in piazza a Fregona una messa scismatica per le truppe di
occupazione.
Nello stesso giorno iniziarono anche nel centro pedemontano le razzie di campane121".
Per ordine del Comando Austriaco, tra il 27 e il 29 maggio furono abbattute le tre campane del
prestigioso campanile di Fregona. Furono successivamente asportate le due campanelle della
Chiesetta della Madonna della Neve, nella vicina borgata di Sonego.
Delle campane della parrocchia di Osigo, frazione di Fregona, non si hanno notizie, ma presumiamo
che abbiano subito la stessa sorte.
Grazie al coraggio di alcuni che rischiarono la prigione, la deportazione o peggio, furono salvate
tante altre campanelle delle chiesette e oratori, numerosi in tutto il comune. Ricordiamo la
campanella della chiesa arcipretale (ora purtroppo dispersa), fusa nel XV secolo, proveniente
dall'antica Pieve, celata al nemico e fatta poi suonare sul campanile il 31 ottobre 1918 per
festeggiare la liberazione, assieme a quella della chiesetta di 5. Martino che, per dirla con le parole
del Toja "rimase inosservata".
Il nemico si impossessò anche della calamita del parafulmine, divelto dal campanile, e di alcune
parti dell'orologio che fu così reso inutilizzabile. Egual sorte toccò agli orologi dei campanili di
Osigo e di Sonego, tanto che occorse una somma complessiva pari a 726,85 lire per la loro
riattivazione alla fine del conflitto.
Gli austriaci si interessarono anche al prezioso organo dell'arcipretale, costruito nel 1783, ma
fortunatamente l'opera d'arte fu risparmiata, grazie all'intervento del parroco e dei fabbricieri che
inoltrarono supplica al Comando di Vittorio affinché non fosse requisita; il 6 settembre successivo il
Comando la consegnò ufficialmente in custodia a don Giovanni Toja(22).
Alla fine di maggio iniziò l'avventura del sottotenente (Giacomo) Camillo De Car1o"23".
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Nei primi mesi del 1918 il sottotenente Camillo De Carlo fu interpellato dal Servizio Informazioni
per una missione rischiosa nella zona di Vittorio, nel cuore delle retrovie ove risiedeva il comando
della 6" armata nemica agli ordini dell'arciduca Giuseppe d'Asburgo. Di lì egli avrebbe dovuto
raccogliere il maggior numero di notizie sulle truppe, sugli armamenti e sugli approvvigionamenti
degli austriaci e trasmetterle, come poi fece, con colombi viaggiatori e con segnalazioni da terra
disponendo in modo convenzionato lenzuola per gli aereoplani italiani, lungo il torrente Fniga in
comune di Fregona. Il coraggioso ufficiale accettò senza riserve e la notte tra il 30 e il 31 maggio
1918 partì in aereo dal campo di aviazione militare di Marcon (Ve), affiancato nella missione da un
ardito di nome Giovanni Bottecchia, nativo di Colle Umberto (Tv), anch'egli conoscitore della zona
in quanto aveva parenti in località Fratte di Fregona.
Lasciati a terra in prossimità di Aviano, i due raggiunsero per Sarone e Belvedere di Cordignano,
lungo piste e sentieri collinari poco battuti dalla polizia austriaca, la valle della Fniga e stabilirono
la base operativa in Lughera, una località collinare quasi disabitata (vi erano due o tre case di
contadini), in un boschetto, all'interno del quali vi erano un roccolo e il ricovero per gli uccellatoni
(fig. 3).
Ben presto De Carlo si mise in contatto con le persone più fidate del paese per raccogliere
informazioni sul nemico. Grazie alla segnalazione di alcuni profughi ospitati in una casa di
contadini in località Buse(24) conobbe un impiegato del Comando di Tappa di Vittorio Veneto
(profugo di S. Pietro di Barbozza), Labano Brunoro, che gli fornì, su indicazioni dello stesso
Comandante di Tappa, capitano di cavalleria Carlo Baxa, un istniano nativo di Abbazia presso
Fiume, di sentimenti irredentistici, notizie utili per l'offensiva del giugno, in particolare la cartina
contenente la dislocazione delle artiglierie sul Montello.
Ai primi di giugno, il Brunoro fece avere alla spia italiana una carta d'identità autenticata dal
Comando Austriaco a nome di Antonio Pandin, nato a Vittorio Veneto il 31 maggio 1878,
domiciliato nella borgata cittadina di 5. Andrea di Bigonzo, bracciante, con luogo di lavoro a
Mezzavilla di Fregona, documento che gli permise una certa liberà di movimento.
Ma già la polizia nemica aveva avuto sentore della presenza del De Carlo in zona e lo stava
cercando assiduamente. Fiutato il pericolo, egli decise di rientrare. Fu lanciato un colombo con un
messaggio convenzionale "il lupo è stanco di camminare", ma inutilmente fu atteso l'aereo
soccorritore nella pianura di Aviano; il pilota che aveva compiuto il tragitto all'andata, unico
depositano del luogo prescelto, era stato abbattuto, cosicché all'appuntamento non si presentò
nessuno125". La situazione si faceva sempre più drammatica; pattuglie di gendarmi perlustravano la
zona e i due decisero allora di abbandonare il nascondiglio, chiedendo ospitalità nelle vicinanze.
Erano i primi di luglio, quando, sfiduciato dopo molte porte chiuse in faccia, De Carlo conobbe
Maria Tomasin, la semplice eroina di Fregona.
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Lasciamo alla penna del giovane ufficiale, autore di un libro sulla sua impresa, di illustrare
l'incontro con la donna:
"Ci ha accolti senza esitare, conoscendo il rischio. Avevamo fame:
un'opera di misericordia; cinque piccoli ne la sua casa (fig. 4), una vacche rella smunta che nutre
l'intera famiglia (il marito era in guerra, n.d.r.); dividere con noi il suo pane sebbene scarso: il
Signore rende molto per poco. Non ha voluto sapere chi siamo, onesti sì, basta guardarci; bisognosi,
anche per questo uno sguardo è sufficiente; perseguitati: la porta è aperta a quelli che soffrono.
Così ho ritrovato il fuoco e una donna.
Cercava di aiutarmi a deporre il mio fardello, leggevo la sua ansia in una cicatrice piccola a mezzo
della fronte, mi guardava; nei suoi occhi fermi ho visto splendere la fede.
Qui nessuno può scoprirvi, venite ogni giorno, saprò nascondervi se foste inseguiti.
Ho dormito nel fienile (era un ricovero in legno posto su una collina antistante l'abitazione, in luogo
appartato, n.d.r.); mi svegliavo ogni tanto quasi per assaporare la mia gioia. Di sotto da la stalla,
risponde il fiatare umido della giovenca che sogna volgendosi sullo strame "(25)"
Il tono è enfatico, lo stile linicheggiante e dannunziano, ma la figura di Maria Tomasin nella cornice
della sua povera casa emerge con discreta efficacia.
Ma ritorniamo all'impresa di Camillo De Carlo e del suo fido compagno Giovanni Bottecchia.
Fallito il tentativo per via aerea, nella seconda metà di luglio i due provarono ad attraversare il
Piave vicino al Ponte di Vidor, ma anche questa volta, colpevole la corrente, mancarono
nell'impresa. Anzi, durante il rientro, a Tarzo vennero fermati dai gendarmi e mentre De Carlo non
fu riconosciuto grazie al travestimento e soprattutto alle mani divenute callose a forza di spaccare
legna a Lughera, e venne lasciato andare, Bottecchia, che non aveva attuato quell'accorgimento,
venne fermato e picchiato. Ricoverato nell'ospedale del paese per le percosse subite, riuscì in
seguito a fuggire calandosi a terra con lenzuola annodate, rientrando furtivamente a Fregona.
De Carlo tentò nuovamente la fuga per via aerea, attendendo invano nella pianura di Aviano l'arrivo
del pilota, inconsapevole della sua scomparsa; si ammalò subito dopo di "spagnola", e anche in
quell'occasione Maria Tomasin dimostrò la sua generosità ed il suo coraggio ospitandolo in casa, a
letto.
Fu curato dal medico del paese, il dottor Francesco De Poi, così ricordato nel suo libro:
"Il dottore viene ogni giorno, d'ogni dolore medico buono. Piccolo si dice, di fronte al male degli
uomini, mi cura con vino della sua cantina, nettare al sangue che rinasce '"7)"
Ancora convalescente, l'ufficiale italiano elaborò assieme al parroco, don Giovanni Toja, al medico
condotto e al maestro Attilio De Conti un nuovo piano di fuga. Questa volta l'itinerario
comprendeva
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un viaggio fluviale per la Livenza fino a Caorle, e quindi per mare a raggiungere le linee italiane.
Il primo di agosto il sacerdote gli fornì informazioni e indirizzi utili per le varie tappe della ritirata;
l'insegnante De Conti, fervente patriota che aveva celato al nemico il drappo della bandiera italiana
del municipio (ora custodito al Museo della Battaglia, nella Sala dell'Invasione, a Vittorio Veneto)
gli offrì la fascia d'insegnante e il passaporto necessari per poter transitare verso la pianura veneta
con l'alibi di cercare provviste alimentari, e il dottor De Poi gli diede vestiti e denaro.
1110 agosto (ma la data non è certa) si attuò il piano di fuga.
Lo stesso De Carlo ci narra come il pericolo della cattura incombesse; questione di giorni, forse di
ore. Da qualche tempo si aggirava infatti nei pressi dell'abitazione di Maria Tomasin uno
sconosciuto, probabilmente un agente austriaco o un collaborazionista; avvicinatosi alla spia
italiana, gli chiese di aiutttrlo a fuggire. Questi finse di assecondarlo fissando il tragitto per i monti,
mentre la decisione era stata già presa per il mare.
Partirono in tre: De Carlo, Angelo De Luca (il figlio quattordicenne di Maria) ed un prigioniero
italiano fuggito dal campo di concentramento in Cansiglio, il sergente Italo Maggi, comasco, di
professione boscaiolo (Giovanni Bottecchia era ancora in ospedale a Tarzo).
Da Cordignano, per Maron, Puia, Villanova e giù in barca per la Livenza; giunsero a la Salute, ove
si misero in contatto con un sacerdote, don Antonio Morgantin, che li aiutò a trovare una chiatta per
trasportarli a Caorle. La notte del 12 agosto partirono per via mare, raggiungendo all'alba del giorno
dopo le linee italiane a Cortellazzo.
Nei giorni successivi, a Venezia, De Carlo fu invitato a cena dal re Vittorio Emanuele III e decorato
dal sovrano con la medaglia d'oro al valor militare.
Intanto per Maria Tomasin, la donna che tanto coraggiosamente lo aveva aiutato e ospitato nella sua
abitazione, si stava preannunciando un tragico epilogo.
La casa fu circondata dalla polizia austriaca un'ora dopo la partenza dei tre fuggitivi e la nostra
eroina venne condotta in prigione a Vittorio"28", ove rimase per circa due mesi; tradotta
successivamente a Graz, in Austria, per essere processata (e condannata con ogni probabilità a
morte) dal Tribunale Militare, sfuggì al capestro poiché il giorno dell'udienza il Presidente del
Tribunale risultò assente per malattia; si era già sul finire di ottobre e il procedimento fu rinviato a
data da destinarsi. Il 2 novembre successivo avvenne l'armistizio, cosicchè Maria Tomasin fu
salva"291.
Il 30ottobre 1919, primo anniversario della liberazione di Vittorio, il generale Francesco Saverio
Grazioli, comandante dell'8 Corpo d'Armata e del Corpo d'Armata d'Assalto, conferì nel Teatro
Sociale di Ceneda a Maria Tomasin, a suo figlio Angelo e a Giovanni Bottecchia la medaglia
d'argento per l'eroico comportamento avuto durante l'invasione.
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Anche il maestro Attilio De Conti ottenne nel 1921 la medaglia di bronzo al valor militare ed una
pensione annua straordinaria di lire cento.
Giungiamo così ai mesi immediatamente prossimi alla fine del conflitto.
Fallita l'offensiva di giugno, passata alla storia come Battaglia del Solstizio, iniziò l'ultimo calvario
per le popolazioni veneto-friulane.
Il trasferimento di sette divisioni, su richiesta del generale Boroevié, dal Tirolo ai centri
pedemontani del vittoniese in preparazione all'offensiva estiva, aveva creato insopportabili
difficoltà di ordine logistico e di sussistenza.
Dalle nostre parti i terreni destinati alle coltivazioni furono in gran parte calpestati e distrutti; alle
viti furono tolti i pali di sostegno e molti alberi da frutto furono tagliati e destinati a legna da ardere
per le cucine militari. Le strade, in particolare le secondarie meno in vista, ebbero parecchi dissesti,
causati dal transito continuo di mezzi pesanti.
In paese era fiorito da tempo un piccolo commercio tra occupanti e occupati; come riferisce il De
Carlo, soldati di varie etnie "di Bosnia, d'Erzegovina, mussulmani della Narenta, il fez rosso sui
capelli unti, accampati a Mezzavilla tra fficavano d'uova con Maria (Tornasin), litigiosi come al
fondaco, sui grani d'un rosario d'ambra più volte ricontano la merce"(30".
Don Toja stimò che "oltre ai tre e anche fino ai cinque mila soldati divorarono a Fregona le prime
frutta, le spighe di frumento, le pannocchie appena germogliate, l'uva ed i fighi, ancora acerbi, la
verdura e le patate "(31)
Le truppe erano talmente numerose che dovettero accamparsi anche lungo i torrenti che sgorgano
numerosi dal Massiccio del Cansiglio.
In agosto la situazione precipitò; benché i raccolti ammassati nei mesi di giugno e luglio rendessero
meno drammatiche le condizioni dell'esercito nemico, a Vittorio il grano veniva venduto dagli
austriaci agli spacci solamente contro versamento di monete d'argento e di marenghi d'oro, mentre i
civili erano poi costretti a comprarlo con corone austriache e buoni della Cassa Veneta dei Prestiti,
cartamoneta d'occupazione priva di valore reale, stampata a Udine subito dopo Caporetto con lo
scopo di rastrellare valuta pregiata nelle zone occupate e finanziare così il conflitto.
Anche chi accettò di lavorare nelle bacologie di Vittorio sotto gli austriaci, lusingato da buon rancio
e da paga giornaliera (in cartamoneta), ben presto si accorse di quanto era diversa la realtà; il pranzo
non era altro "che 90 grammi di farina con un po' d'acqua. Così era anche negli ultimi mesi il rancio
pressappoco dei militari..., malvestiti, senza camicia, la maggior parte, e sporchi sopra ogni dire
"32".
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Don Toja nel suo incessante andirivieni presso i Comandi per ottenere viveri corse nuovamente il
rischio di essere arrestato e internato; in luglio fu chiamato due volte e multato di 50 corone che
dovette pagare il 15 di agosto.
Passarono così gli ultimi mesi.
Pochi giorni prima della liberazione, l'ultimo Comando austriaco che soggiornò in canonica dal 12
al 28 ottobre, ottenne per i civili del paese 60 quintali di farina. Le strade erano in cattivo stato e
mancava il bestiame per il trasporto, ma fortunatamente il viaggio fu effettuato con tre mezzi
militari il 18 del mese; in difetto, due giorni dopo, i viveri sarebbero partiti per l'Austria.
Alle ore 3 del 24 ottobre, esattamente un anno dopo la disfatta di Caporetto, iniziò la "battaglia di
Vittorio Veneto" (24/10-3/11/1918).
La liberazione dei paesi della Sinistra Piave avvenne in rapida successione. A mezzogiorno del 29
ottobre partirono da Fregona le ultime retroguardie nemiche, risalendo i dorsali del M. Pizzoc verso
il Cansiglio dal quale erano scesi tanto orgogliosamente un anno prima. Tutta la popolazione si
riversò nelle vie e nelle piazze del comune; la gioia era indescrivibile nell'attesa di abbracciare i
soldati liberatori.
La mattina successiva, 30 ottobre, gli italiani occuparono Vittorio e nel pomeriggio, alle ore 17,
giunse a Fregona con il suo Stato Maggiore il generale Barbieri, comandante della Brigata Bisagno,
che assieme alla Sassari aveva liberato la sera del giorno prima Conegliano. L'ufficiale si fermò alla
locanda di Angelo Gni (ora Pizzenia al Campanile) in piazza di Fregona, e chiese subito del
parroco. Don Toja si presentò assieme al cappellano don Riva e l'incontro, scrisse l'arciprete, "fu
commoventissimo". In quelle ore vennero catturati anche tre soldati austriaci, forse disertori oramai
stanchi di combattere.
Il giorno dopo, 31 ottobre, si riunì in paese una colonna di arditi, cavalieri e ciclisti, con lo scopo di
raggiungere il Cansiglio e portarsi, attraverso l'Alpago, alle spalle della retroguardia austriaca
disimpegnatasi da Vittorio e appostata tra il Fadalto e Ponte nelle Alpi. Un nido di mitragliatrici
nemiche a mezza via sulla strada dei monti, in località Pian de Spina, minacciava i nostri soldati, ma
ben presto, per dirla ancora una volta con le parole del Toja... "tre colpi del 75 sparati presso la
fontana davanti la porta dell'Asilo (a Mezzavilla, n.d.r.) fecero scomparire per sempre gli ultimi
barbari"(33".
Alle 9 della stessa mattina il gen. Barbieri prese commiato dal parroco in canonica, rinnovando la
stima e l'apprezzamento suoi personali per il contegno patriottico tenuto dal sacerdote durante
l'invasione. L'ufficiale partì acclamato da una folla festante, mentre dal campanile sventolava il
tnicolore e si udivano i rintocchi delle sue campanelle salvate dalla requisizione.
Per dodici giorni nell'arcipretale di Fregona si cantò il Te Deum e si chiuse l'anno del
ringraziamento l'il novembre, genetliaco del re.
In quei giorni cominciarono ad affluire generi alimentari di prima
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necessità. Il 10 novembre venne a Fregona lo stesso comandante dell'VIli Corpo d'Armata e del
Corpo d'Armata d'Assalto, generale F.S. Grazioli e lasciò in canonica carne, zucchero, caffè, etc. Da
quel giorno i drammatici problemi alimentari andarono diminuendo, fino a scomparire.
Iniziava così il lungo e difficile periodo del "dopo vittoria".
I profughi ritornarono ai propri paesi in tre fasi successive: una prima metà lasciò Fregona verso il
17 novembre; quasi tutti i rimanenti partirono entro la prima quindicina di dicembre; due o tre
famiglie ai primi di gennaio 1919.
Per loro cominciava un altro capitolo di sofferenza, di privazioni, ma anche di speranza, nel lungo e
difficile periodo della ricostruzione delle loro case, dei loro paesi.
NOTE
1) Quando don Giovanni Toja descrisse i tristi avvenimenti accaduti a Fregona, aveva
41 anni. Egli era nato infatti a S. Giorgio su Legnano, in provincia di Milano, il 28 luglio 1877 da Angelo e da
Giovanna Casero.
Molto giovane si avviò al sacerdozio; frequentò i primi tre anni di ginnasio presso il
Collegio Salesiano S. Luigi a Chieri (To), i successivi due anni nel Collegio S. Carlo a
Milano, i primi tre anni di liceo e il primo di teologia al Collegio Gallio di Como. Nel
1903 chiese di completare gli studi nel Seminario di Vittorio Veneto, in un periodo che
vedeva la plaga cenedese carente di vocazioni.
Ordinato prete il 26 luglio 1906, fu dal 1912 a Fregona, prima come vicario e poi come arciprete (18 novembre 1913).
Rimase a Fregona per tutto il resto dei suoi giorni, che si chiusero il 23 settembre 1941. Il suo corpo riposa nel cimitero
di Fregona.
2) Può sembrare strano, ma vi è una grande carenza di documenti riguardanti le vicende delle singole realtà locali. Tutto
si riduce, per esempio nel Fondo Prefettura di Gabinetto (che purtroppo non raggruppa i documenti per Comuni, ma
bensì per titolo, presso l'Archivio di Stato di Treviso, ad una impressionante mole di dati "telegrafici", risultati per lo
più di indagini effettuate all'indomani della liberazione dai commissari prefettizi sullo stato di salute delle popolazioni e
sull'entità dei danni subiti dai centri occupati, dati dai quali abbiamo potuto ricavare poche notizie utili al nostro lavoro.
Qualcosa di più ci ha svelato l'Archivio Comunale di Fregona (lodevolmente fatto riordinare, recentemente, dall'attuale
Amministrazione, dopo decenni di completo abbandono), che custodisce testimonianze interessanti - sotto forma di
formulari e di atti notori a fine conflitto - sulle condizioni di vita dei civili durante l'invasione. Di buon aiuto è risultato
il "corpus" archivistico del prezioso Archivio Parrocchiale di Fregona (rimasto intatto durante il conflitto), che ci ha
fornito, oltre al manoscitto del Toja, quant'altro ci serviva per il completamento anche statistico (nascite, morti, etc.)
della ricerca. Utile è risultata anche la consultazione dell'Archivio Parrocchiale di Osigo.
Di scarso aiuto ci è stata la storiografia ufficiale, che predilige quasi sempre i grandi eventi bellici, anche se dobbiamo
osservare che da qualche anno vengono pubblicati interessanti lavori mirati a far conoscere testimonianze diaristiche e/o
autobiografiche di civili rimasti nelle terre invase, in ultima analisi le più utili e stimolanti per una verifica e uno studio
sulla realtà di quei tragici momenti narrata "dall'interno".
81
Un doveroso ringraziamento vada al Direttore dell'Archivio di Stato di Treviso, dott. Corradino Corradini, a mons.
Basilio Sartorì, all'archivista della Curia di Vittorio Veneto, mons. Rino Bechevolo, al sindaco di Fregona, prof. Gino
Cimetta, ai parroci di Fregona e di Osigo, don Terenzio Rusalen e don Giovanni Longo, al custode del Museo della
Battaglia, sig. Enrico Da Re, per la disponibilità prestata nella consultazione dei documenti.
Un grazie particolare alla Sigra Paola De Luca, ved. Faraon, la figlia ottantenne (c. 1907) di Maria Tomasin, per le
preziose informazioni sulla missione di Camillo De Car
lo.
3) Ecco alcuni dei nuovi recapiti:
- Agenzia delle Imposte di Vittorio, Parma;
- Tribunale Civile e Penale di Conegliano, Urbino;
- R. Ufficio Forestale del Cansiglio, Badia Prataglia (Arezzo);
- Banca Mutua Popolare Cooperativa di Vittorio, presso la Banca Popolare di Reggio
Emilia;
- Banca S. Liberale, filiali di Vittorio e di Treviso, presso il Piccolo Credito Toscano a
Firenze.
4) Le civiche amministrazioni del vittoriese ebbero i seguenti legali rappresentanti e
nuovi indirizzi:
- Cappella Maggiore: Rodolfo Protti, Via Vittorio Emanuele 8-Lucca;
- Cison di Valmarino: Cesare Vettorazzi-Casteggio (Pavia);
- Colle Umberto: nob. Giacomo Lucheschi, via G. Caducci 1-Cesena;
- Cordignano: conte Alvise Nicolò Mocenigo, S. Stae 1992-Venezia;
- Follina: Cesare Vettorazzi-Casteggio (Pavia);
- Fregona: Angelo Marson, via Parmigianino 7-Parma;
- Revine Lago: Cesare Vettorazzi-Casteggio (Pavia);
- Sarmede: Giovanni Manfren, via delle Finanze 6-Roma;
- Tarzo: Cesare Vettorazzi-Casteggio (Pavia);
- Vittorio: Francesco Gervasi, via Riva Reno 17, poi via dei Poeti 8-Bologna.
5) APFr, G. Toja, "Parrocchia di S. Maria Assunta di Fregona. Comune di Fregona.
Provincia di Treviso. Cenno storico riassuntivo riguardante l'invasione dei GermaniciAustriaci-Ungheresi ed altri popoli ad essi Alleati. Dal Novembre 1917 al Novembre
1918".
6) Informazioni verbali sigra Maria Breda in De Zorzi.
7) Toja, cit.
8) Non bisogna scordare che le province degli Imperi Centrali e della Germania denunciavano oramai una insostenibile
situazione di carenza alimentare, tanto da legalizzare in qualche modo le incette di viveri effettuate dai militari, da
spedire in patria alle loro famiglie.
9) Toja, cit.
10) Ibidem
Il) Ibidem.
12) ACFr, B. 88, fasc. Danni di guerra alle proprietà comunali e private. Circolari.
l3)ASVV, E. Di Ceva, "L'anno dell'invasione nemica, diario di guerra 1917-1918", riordinato e dattiloscritto da Mons.
Basilio Sartori, p. 88.
14) Cfr. Lucio Puttin, Un popoio in esilio. Segusino 1917-1918 e M. Bernardi, Di qua e di
là del Piave. Da Caporetto a Vittorio Veneto.
15) Egli è così ricordato dal Toja nel suo manoscritto:
"Non posso terminare questo cenno storico, senza ricordare con affetto e stima il R.D.
Antonio Riva, che assistette con tanto amore i suoi profughi parrocchiani, con denari,
con la parola, colla preghiera. I suoi beneficati serberanno eterna memoria verso di lui,
che non ebbe nessuna ricompensa umana. Egli compì tutto il suo dovere di Sacerdote e
di cittadino patriota"
16) L. Puttin, "Un popolo in esilio, Segusino 1917-1918", p. 63.
17) Ibidem, p. 64.
18) Toja, cit.
19) L. Puttin, cit. pp. 63-64.
20) Ibidem, p. 44.
82
21) L'ordine di requisizione dei bronzi sacri esistenti nei territori occupati era stato emanato il 23gennaio 1918 dal
generale austriaco (croato) Svetozar Boroevié, governatore dei territori italiani invasi, per soddisfare le crescenti
esigenze belliche di cannoni.
L'ordinanza consentiva ad ogni comune di trattenere una sola campana del peso non superiore ai 50 chilogrammi. Le
campane considerate di alto valore storico-artistico (di regola quelle fuse prima del 1600) dovevano essere prelevate e
provvisoriamente depositate sotto la custodia degli austriaci in attesa del da farsi; tutte le altre requisite, trasportate in
Austria e fuse in cannoni.
Complessivamente vennero asportate 9764 campane per un peso complessivo di 40.000 quintali.
22) A tal proposito don Camillo Fassetta in "L'invasione tedesca e la battaglia di Vittorio Veneto", riporta a p. 63 la
seguente ordinanza nemica:
"constatato, che gli organi di codesta città e distretto non possiedono le requisite eccezzioni, salvo per qualche tempo
quello del duomo di Serravalle, di Fregona e di Cappella Maggiore, da oggi sono a disposizione di questo comando ".
23) Nato a Venezia il 6 aprile 1892 da famiglia originaria del Cadore, Camillo De Carlo trascorse parte della sua
infanzia a Vittorio Veneto, nel prestigioso Palazzo Minucci (secc. XVI-XVII) a Serravalle.
Compiuto il servizio di leva "volontario di un anno" nel 90 reggimento di cavalleria Lancieri di Firenze e raggiunto il
grado di sottotenente, fu richiamato nel 1914 e due anni dopo trasferito, su sua richiesta, al corpo aeronautico come
osservatore, ottenendo per le sue imprese una medaglia d'oro, due d'argento, una di bronzo e una croce al merito. Fu tra
i primi ad entrare con le truppe italiane a Vittorio Veneto il 30 ottobre
1918.
Nel dopoguerra resse l'amministrazione vittoriese come Podestà dall'ottobre del 1931 al giugno del 1938, promuovendo
ed avviando la realizzazione di grandi opere pubbliche per la città. Successivamente, grazie alla sua straordinaria
padronanza delle lingue estere, compì per il Governo Italiano fino ai primi anni '50 missioni informative all'estero, in
nord Africa e in Asia.
Morì nel suo letto a Serravalle il 29 marzo 1968 e dispose nel testamento che fosse
costituita la Fondazione Minucci, alla quale lasciò in eredità il palazzo e le stupende
collezioni di ceramiche, mobili, quadri e suppellettili varie ivi custodite, affinchè fossero oggetto di pubblico
godimento.
24) La casa era di proprietà di tale famiglia Tonel, affittuaria dei bacologi Marson di
Vittorio Veneto.
25) Informazioni verbali sigra Paola De Luca
26) C. De Carlo, "Noi non per noi", pp. 100, 101.
27) Ibidem, p. 125.
28) Fu condotta a piedi da Fregona, Mezzavilla, Piai, Breda, Costa, fino a Serravalle,
ove fu rinchiusa nella cantina di casa Trame. Vi rimase per circa due mesi e ogni giorno i suoi congiunti giungevano dal
paese, a piedi, per portarle da mangiare (inf. P. De
Luca).
29) Per la vicenda della prigionia di Maria Tomasin ci siamo basati su quanto scrisse
Isidoro Tomasin in "L'anno di Vittorio Veneto", p. 78.
Secondo il De Carlo caddero nella rete austriaca oltre a M. Tomasin, anche Baxa, Bottecchia, Brunoro e altri
collaboratori. Imprigionati a Serravalle e poi trasferiti a Graz, in Austria, per il processo, furono condannati
all'impiccagione, me ebbero salva la vita poichè vennero compresi nella lista dei prigionieri richiesti dall'Italia nei
preliminari dell'armistizio (vds. "Segnalava con le lenzuola le offensive del nemico" di Luigi Romersa, Tempo 3
novembre 1965). Tale versione, per le sorti del capitano di cavalleria e comandante di Tappa di Vittorio V. Carlo Baxa,
contrasta con quanto riportato da Mario Altarui in "Treviso Combattente", p. 83, secondo il quale l'ufficiale (già
protagonista a suo tempo di manifestazioni per l'italianità dell'Istria), dopo aver collaborato segretamente con De Carlo
(per l'autore, assieme ad altri ufficiali irredentisti quali Cesare Pagnini e Enrico Ritscher), consapevole dei sospetti che
già gravavano sopra il suo capo, chiese ed ottenne di essere trasferito altrove e fu assegnato alla piazza di Gemona.
Significativo fu, in seguito, il suo apporto nelle cinque giornate che precedettero l'arrivo degli italiani a Trieste, il 3
novembre 1918. Nel 1923 Carlo Baxa fu de
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corato con la croce di Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia. Infine, Paola De Luca, afferma che assieme alla
madre, furono catturati sicuramente Bottecchia, Brunoro e Pagnini. Conferma il loro trasferimento a Graz, in Austria, la
condanna a morte e la scarcerazione in seguito all'armistizio.
30) C. De Carlo, cit. p. 121.
31) Toja, cit.
32) Ibidem.
33) Ibidem.
BIBLIOGRAFIA
Ci pare superfluo elencare tutte le opere manoscritte e a stampa consultate per l'inquadramento storico-generale
dell'anno d'invasione. Segnaliamo pertanto unicamente le fonti edite e inedite contenenti notizie collegate alle vicende
occorse nel comune di Fregona durante l'occupazione austro-tedesca.
Opere a stampa
AA.VV., Fregona nel 10 centenario del Campanile; Casier 1981.
AA.VV., Vittorio Veneto nel Ventesimo Annuale della Vittoria d'Italia, 1918, ottobrenovembre 1938; Vittorio Veneto 1938.
AA.VV., l3" Festa Nazionale della Montagna, Cansiglio 6 settembre 1964; Castelfranco
Veneto 1964.
M. ALTARUI, Treviso combattente; Treviso 1978.
M. BERNARDI, Di qua e di là del Piave. Da Caporetto a Vittorio Veneto; Azzate, 1989.
5. BERTOLDI, Alpini, storia e leggenda; Milano 1978.
A. CAUZ, Notizie storiche su Cordignano; Fiume Veneto 1988.
G. CHIES, Caporetto! È l'invasione; Il Quindicinale n° 19, 24 ottobre 1987.
G. CHIES, A Cappella Maggiore durante l'invasione 1917-18; Il Quindicinale n° 6, 19
marzo 1988.
C. DE CARLO, Noi non per noi; Bologna 1927.
O. DE ZORZI, L'anno d'invasione a Fregona; Il Quindicinale, speciale 7/1988.
C. FASSETTA, L'invasione tedesca e la battaglia di Vittorio Veneto; Vittorio Veneto
1923.
L. PUTTIN, Un popolo in esilio, Segusino 1917-1918; Casier 1983.
I. TOMASIN, L'anno di Vittorio Veneto; Cittadella 1966.
E. TRANCHINI, Vittorio Veneto nel 70° della Vittoria; Casier 1988
P. ZANGIACOMI, Fregona; Vittorio Veneto 1952.
Fonti manoscritte:
E. DI CEVA, "L'anno dell'invasione nemica, diario di guerra 1917-1918".
G. TOJA, "Parrocchia di 5. Maria Assunta di Fregona. Comune di Fregona. Provincia
di Treviso. Cenno storico riassuntivo riguardante l'invasione dei Germanici-AustriaciUngheresi ed altri popoli ad essi Alleati. Dal Novembre 1917 al Novembre 1918".
Fonti archivistiche
ARCHIVIO COMUNALE DI FREGONA (ACFr)
B. 88, fasc. Danni di guerra 1921-1924:
Danni di guerra ai Beni mobili del municipio;
Danni di guerra ai Boschi Comunali;
Danni di guerra alle proprietà comunali e private. Circolari. B. 247, fasc. Posizioni varie e corrispondenze 1918.
ARCHIVIO DEL SEMINARIO DI VITTORIO VENETO (ASVV)
B. 103 "Sacerdoti 1901-1906", fasc. 1903-04, Toja Giovanni, 5. Giorgio su Legnano, 2"
Teologia.
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ARCHIVIO DIOCESANO DI VITTORIO VENETO (ADVV)
B. "Fregona";
B. "Fregona";
B. "Sacerdoti Defunti 1939-1942", fasc. Mons. Giovanni Toja.
ARCHIVIO DI STATO DI TREVISO (ASTV), f.do "Prefettura di Gabineto, atti
riservati".
B. 35, fasc. Onorificenze...;
B. 37, fasc. Archivi Comunali e Uffici Catasto che furono distrutti in seguito all'inva sione;
Richiesta numero Edifici pubblici e beni patrimoniali Comunali e provin ciali distrutti o danneggiati e valore relativo;
Risarcimenti danni di guerra, Riparazione fabbricati, Comuni esonerati dalle imposte (1919-1920)
B. 40, fasc. Vendite automezzi provenienti dalla smobilitazione, Rimpatrio profughi, Sovvenzioni ai profughi, circolari,
disposizioni e varie;
B. 43, fasc. Accertamenti compiuti nei comuni della Provincia di Treviso danneggiati dalla guerra;
B. 399, fasc. Fregona, amministrazione comunale, nomina e dimissioni di amministra tori. Varie
ARCHIVIO PARROCCHIALE DI FREGONA (APFr)
B. "Elenco Profughi / Doppio Elenco / Soldati morti in Guerra 915-918 / Ritratti soldati
/ Famiglie con 7 figli / Cenno storico dell'Invasione";
Cronistoria Parrocchiale di S.M. Assunta di Fregona;
Registro dei morti (1867-1916);
Registro dei morti (1917-1928);
Registro dei morti (1900-1925).
ARCHIVIO PARROCCHIALE DI OSIGO (APO5)
Registro dei morti (1898-1978);
Registro dei nati (1897-1922).
MUSEO DELLA BATTAGLIA DI VITTORIO VENETO (MBVV)
Copia del conferimento della medaglia di bronzo ad Attilio De Conti (Sala dell'Invasione, bacheca nord).
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