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L`Africa e l`invasione dei rifiuti tossici

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L`Africa e l`invasione dei rifiuti tossici
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Europa e Africa
L’Africa e l’invasione
dei rifiuti tossici
di Alessandro Iacuelli
ominciò tutto dieci anni fa. O meglio, dieci anni fa si iniziò a scoperchiare
la pentola del grande affare della pattumiera africana, che durava già da
decenni. Dieci anni fa la magistratura italiana si accorse dell’esistenza di uno
stato inesistente, uno stato millantato, uno stato “abusivo”: un’amministrazione
fasulla dedita a un’attività particolare, l’incassare soldi come compenso del fatto di
aver ricevuto e smaltito tonnellate di rifiuti speciali, rifiuti di attività produttive
inquinanti.
È esattamente questa l’attività di un signore italiano dai modi gentili e diplomatici, un signore di nome Guido Garelli. L’affare inizia negli anni Ottanta, tra Milano e Roma, quando viene messo a punto un progetto privato, e sommerso, chiamato “Urano”. Consiste nel seppellire, dietro lauti compensi, in tre località desertiche
del Sahara grandi quantità di rifiuti industriali tossico-nocivi. Il 5 agosto 1987 il protocollo d’accordo è firmato da Elio Sacchetto, per la Compagnia Minera Rio de Oro,
e da Luciano Spada, per la Instrumag A.G. A promuovere “Urano”, non solo in Italia, ma anche in Europa e in Africa, è Guido Garelli, che opera indifferentemente con
documenti di identità italiani, o dello stato che non c’è, “l’Autorità Territoriale del
Sahara”. Nazione inesistente, ma che stampa passaporti, documenti diplomatici e
autorizzazioni al trasporto dei rifiuti.
Nei documenti di “Urano” si specifica che tra i materiali di cui si pianifica il trasporto e lo smaltimento ci sono antiparassitari, bagni galvanici, acido nitrico, ma
anche “resti di medicinali” e “rifiuti con composizione sconosciuta”.
Sul finire degli anni Ottanta in Somalia il regime di Siad Barre entra in crisi, e
l’attenzione dei trafficanti si sofferma proprio sulla Somalia, perché da sempre per i
traffici illeciti di rifiuti si prediligono i paesi dilaniati da guerre civili, dove è facile
ottenere la disponibilità di pezzi di territorio in cambio di forniture d’armi o di
finanziamenti ai contendenti in lotta. Così, la Somalia diventa una preda facile. In
una lettera d’intenti, firmata il 24 giugno 1992 a Nairobi da Guido Garelli, Ezio Scaglione, console onorario della Somalia, e Giancarlo Marocchino, un imprenditore
italiano dal 1984 in Somalia, si legge: “Gli incontri e le conversazioni che cercheremo di avere verteranno sulla possibilità di sviluppo del Progetto Urano nel Corno
d’Africa”.
Difatti, quando la Procura di Alessandria inizierà a scoprire come stanno le cose,
partendo dall’inesistenza sulla Terra di un’Amministrazione Territoriale Sahariana,
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dovrà addirittura aprire due diversi filoni d’inchiesta: “Urano 1” per l’interramento
di rifiuti nel Sahara, e “Urano 2” per quanto riguarda la Somalia.
Questa vicenda interseca spesso, per nomi, mandanti, esecutori, tipi di rifiuti,
un’altra questione molto simile: quella dello smaltimento di rifiuti pericolosi in
pieno mare Mediterraneo, attraverso l’affondamento di navi cariche di sostanze tossiche.
Le “navi dei veleni”
La storia delle “navi dei veleni” è complessa. Dal punto di vista investigativo nasce
dopo l’affondamento sospetto della motonave Riegel carica di rifiuti radioattivi,
avvenuto il 21 settembre 1987 a venti miglia marine al largo di Capo Spartivento,
nel tratto ionico calabrese, dove i fondali sono assai profondi e caratterizzati da fosse
vulcaniche.
Il 26 aprile del 1988 la nave Zanoobia, con il suo equipaggio ormai esausto e
intossicato dagli stessi rifiuti tossici che trasporta, riesce ad attraccare al porto di
Livorno, dopo una peregrinazione durata quaranta giorni, perché nessun porto dà
l’autorizzazione all’attracco e perché nessuno vuole riprendersi quel carico di veleni.
La storia della Zanoobia, che riporta in patria i rifiuti della Jelly Wax, respinti al mittente dopo che un’altra imbarcazione li aveva portati in Venezuela, è emblematica per
raccontare il vergognoso scaricabarile di rifiuti tossici o radioattivi che in quegli anni
invade le cronache europee e italiane: si tratta di navi partite dai porti italiani per portare rifiuti tossici di aziende italiane in paesi del Terzo mondo, e che dai quei paesi
come boomerang riprendono la strada di casa.
Un caso che fa riflettere è quello del mercantile albanese Korabi che, partito da
un porto della Germania occidentale, si ferma per uno scalo tecnico nel porto di
Palermo. A un controllo, le autorità sanitarie e portuali accertano elevata radioattività tra i rottami ferrosi del carico e un’autorizzazione scaduta per il trasporto di
“merce pericolosa”. Alla nave viene intimato di lasciare il porto. Due giorni più tardi
anche un tentativo di attracco al porto di Crotone viene respinto, grazie alle segnalazioni giunte da Palermo. Due giorni ancora e il cargo vagante nei mari viene intercettato nella rada di Pentimele, al largo di Reggio Calabria. Qui i finanzieri trovano
una sorpresa: il carico radioattivo non è più a bordo. Dov’è andato a finire? Probabilmente scaricato in alto mare, lungo il versante ionico della Calabria.
Uno dei più duri colpi subiti dal traffico internazionale è stato di sicuro l’affondamento della Jolly Rosso: il 14 dicembre 1990 la motonave, a causa del forte mare
mosso, rompe la rizza di un rimorchio, che buca la fiancata dello scafo facendo
imbarcare acqua; non potendola più controllare, l’equipaggio abbandona la nave,
che continua a navigare alla deriva per un giorno intero per poi arenarsi sulla spiaggia di Amantea, in provincia di Cosenza. Salpata dal porto di La Spezia il 4 dicembre fece prima scalo a Napoli e poi a Malta, da dove ripartì il giorno 13.
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La Jolly Rosso stava tornando da Malta e quel che calamitò le attenzioni degli
investigatori e degli assicuratori fu la circostanza che durante le indagini furono scoperti a bordo dei documenti posseduti da un noto imprenditore italiano chiamato
Comerio, il quale si occupava di smaltimento di rifiuti radioattivi.
Proprio dalle indagini in corso su di lui, è emersa una rete di affari che procede
con le cosiddette “navi a perdere”. In pratica si affonda dolosamente la nave, con l’intero carico pericoloso, simulando un incidente. Il sistema è in questo caso più sbrigativo: si acquistano vecchie “carrette” del mare, si imbottiscono di rifiuti, si coprono con granulato di marmo capace di “schermare” la radioattività e si mettono in
mare. Giunti nei luoghi stabiliti, dove i fondali sono profondi e argillosi, si provoca
l’allagamento delle stive. A questo punto l’equipaggio abbandona la nave utilizzando imbarcazioni che hanno seguito il viaggio o che vengono fornite dalla criminalità locale che funziona da copertura e da riferimento logistico. Con questo metodo si
guadagna due volte: si intascano i soldi per la “sistemazione” dei rifiuti e, nello stesso tempo, anche il premio assicurativo previsto per i sinistri marittimi.
Non si sa quante siano di preciso le navi dolosamente affondate nel Mediterraneo. All’altezza del Canale di Sicilia affondò certamente la “Marco Polo” nel maggio
1993, che iniziò a rilasciare il suo carico in alto mare, poco alla volta, container dopo
container, da giorni prima dell’affondamento. Alcuni di questi furono trovati quasi
un anno dopo, in mare. Dalle misurazioni effettuate fu riscontrata una radioattività
da Torio 234, con valori almeno cinque volte sopra la media.
Il caso somalo
Questa rete di affari e affaristi, infine, s’incrocia con la Somalia e con gli eventi che
il 20 marzo 1994 sono costati la vita alla giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e all’operatore Miran Hrovatin. Su tale vicenda si è ormai indagato molto, anche se con il solito
notevole ritardo. I termini dell’affare italo-somalo erano chiari: i clan somali permettevano di far diventare il proprio paese una pattumiera di rifiuti tossici e radioattivi, e in cambio ricevevano armi. Prelevavano i veleni e come pagamento prelevavano anche le armi.
Come racconta il giornalista Franco Oliva, “Non si può omettere di citare un rapporto confidenziale del 1993 attribuito ad un agente del servizio etiope, un documento privo di firme e timbri, come peraltro alcuni rapporti di certi servizi. [...] La
sua nota 85 recita: nella regione costiera intorno a Obbia sono stati sotterrati, presumibilmente per una quantità di centinaia di migliaia di tonnellate, rifiuti provenienti
dalla Germania e dalla Francia, rifiuti nucleari misti con sabbia; ci sono rifiuti ospedalieri, residui di cobalto. Interessante è che il clan più importante della regione
abbia ricevuto come materiale di scambio numerose armi da guerra”.
Ancora Oliva fa notare che l’informazione coincide “con quella che aveva spinto
un team di Famiglia Cristiana a tentare di sorvolare la zona di Obbia nel 1998,
un’impresa a cui si era opposto il pilota dell’aeromobile noleggiato che aveva così
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motivato il suo rifiuto ‘Siete pazzi; vi tirano giù. Là c’è un cubo di cemento armato
di 30 metri per lato con dentro roba pesante. So che all’interno sono custoditi dei
cilindri alti quanto una bottiglia’”.
Prima del 1990, anche in Somalia era molto attivo Guido Garelli, che all’epoca
era sicuro di essere coperto da una certa impunità (in quel periodo tutti erano convinti di godere di una certa impunità in Somalia), non nascondeva assolutamente
nulla e raccontava apertamente di essere in quel paese per piazzare una nave di scorie nucleari. Sosteneva che il suo tramite con le autorità somale era il faccendiere
Giancarlo Marocchino. Costui è stato poi interrogato in Italia, ma i verbali dei suoi
interrogatori sono stati segretati fino al febbraio 2026.
Va ricordato anche che il sostituto procuratore di Roma Salvatore Cantaro, al
secondo processo d’appello Alpi-Hrovatin, nel giugno 2000, afferma: “L’esecuzione
di Ilaria Alpi fu ordita da chi temeva ripercussioni a livello internazionale per quello
che la giornalista poteva rivelare”. Se riguardiamo i filmati rimasti appare strano e
significativo che l’operatore Miran Hrovatin, purtroppo morto anche lui, durante il
viaggio verso Bosaso abbia fatto lunghissime riprese della famosa strada che va da
Garoe a Bosaso, ormai indicata da quasi tutti come il sito dei rifiuti tossici: questo
materiale veniva nascosto sotto la strada, dai suoi stessi costruttori, prima di realizzare la pavimentazione. La costruzione della strada, sempre nell’ambito della cooperazione, è stata fatta da imprese italiane.
© IMACON, Guanti sporchi, iStockPhoto
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Infine appare inquietante, per quanto poco chiara e del resto scollegata, la conclusione del rapporto scritto dalla polizia della vicina Etiopia, al quale era allegata
una mappa dettagliata: “In nessun caso si desidera che giornalisti italiani raggiungano Bosaso. Se in questo territorio dovesse essere individuato un qualsiasi giornalista
italiano, gli sarebbe inflitta una pena severa”. La compilazione del documento etiope era stata fatta risalire al 1993: pochi mesi dopo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero stati assassinati il giorno stesso del loro rientro da Bosaso. Dopo aver percorso
quella strada maledetta, tanto impregnata di Italia e di rifiuti tossici. Una strada che
ancora oggi i somali, non a caso, chiamano “la strada della cooperazione italiana”.
Gli attuali traffici di rifiuti tossici
Oggi, i traffici di rifiuti verso l’Africa sono aumentati decisamente. D’altronde, nella
disattenzione generale, il problema dei rifiuti speciali sta diventando un’emergenza
per tutto il mondo industrializzato, e l’Africa diventa fatalmente una soluzione per
tutta l’Europa, come l’America centro-meridionale diventa la soluzione per l’America del Nord.
L’ultimo rapporto italiano dell’Osservatorio Nazionale sui Rifiuti parla chiaro,
basandosi sui dati ufficiali più recenti, quelli del 2005: a fronte di una produzione di
rifiuti urbani (e assimilati) di 32 milioni di tonnellate, il solo nostro paese ha prodotto 110 milioni di tonnellate di rifiuti speciali. Senza che esistano abbastanza
impianti per il recupero o lo smaltimento di una tale quantità di materiali. Anzi, se
si calcola quanti ne vengono smaltiti, si ha un’amara sorpresa. Le operazioni di recupero di materia rappresentano la forma prevalente di gestione dei rifiuti speciali, circa
il 47%. Del rimanente, circa il 21% è smaltito in discarica e il 15% è avviato a
impianti di trattamento chimico, fisico o biologico e ricondizionamento preliminare. La produzione di rifiuti pericolosi, essenzialmente dovuta al settore della chimica
e della metallurgia, si attesta a 5,3 milioni di tonnellate. Tirando le somme, fatalmente, mancano all’appello ben 26 milioni di tonnellate di rifiuti speciali: sono
scomparsi nel nulla. Non se ne conosce l’effettiva destinazione.
Decisamente ci troviamo dinanzi a una gestione arretrata dei rifiuti del mondo
produttivo. In assenza di impianti di smaltimento che bastino per tutti, e considerando che si tratta di forme di smaltimento particolarmente costose, che hanno alla
base la messa in sicurezza delle sostanze pericolose, da sempre ogni paese adotta
forme proprie e particolari per disfarsi degli scarti delle attività produttive. La Norvegia, che è al primo posto nel continente per gli abusi ambientali, precedendo l’Italia, usa la propria zona artica come discarica di rifiuti nocivi. L’Olanda e altri paesi
industrializzati dell’Europa settentrionale, con molta fantasia, vietano lo smaltimento in discarica dei rifiuti tossici, tassano in modo elevato l’incenerimento, e in tal
modo favoriscono l’esportazione via mare verso l’Africa, come portato alla ribalta dal
caso di Abidjan nel settembre 2006.
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Nel nostro paese, invece, si sceglie la strada della vendita a paesi asiatici, quando
si tratta di materiali recuperabili, e dello smaltimento illecito di ciò che non è recuperabile. Verso la Nigeria e il golfo di Guinea, quando si tratta di grandi quantità, sul
nostro stesso territorio quando si tratta di moli che non rendono conveniente l’imbarco via mare.
La nave Probo Koala in Costa D’Avorio
Il 19 agosto 2006, la nave Probo Koala, battente bandiera panamense ma noleggiata
dalla compagnia multinazionale Trafigura, è approdata nel porto di Abidjan, capitale della Costa d’Avorio, e da quel momento la città non ha più avuto pace. Per circa
30 ore, 19 camion hanno fatto una continua spola tra la nave e le discariche del centro urbano, versando una quantità imprecisata, ma secondo alcune stime compresa
tra le 400 e le 1.000 tonnellate di liquami, su un’area di circa dieci chilometri quadrati caratterizzati da un’alta densità di popolazione. I rifiuti liquidi sono stati rovesciati nelle discariche, ma spesso per far prima anche nei fossi, ai bordi delle strade.
Alcuni giorni dopo si sono presentate presso gli ospedali cittadini prima centinaia, poi migliaia di persone. Ai primi di settembre si sono registrati tre decessi, di
cui due bambine. È scattato l’allarme, per un’emergenza che il debole sistema sanitario della Costa d’Avorio non è stato in grado di reggere: al momento dei primi tre
decessi, le persone ricoverate e intossicate erano già 3.000.
Con il passare del tempo, la situazione è drammaticamente peggiorata. La mattina del 6 settembre, il ministero ivoriano della sanità ha reso noto che sono stati ricoverati altri 1.500 intossicati, sollecitando un aiuto dall’estero.
In pratica, con lo scarico delle tonnellate di sostanze contenute nella stiva della
Probo Koala, l’intera capitale è diventata un enorme deposito di rifiuti tossici.
Dalle prime indagini delle autorità ivoriane risulta che i prodotti tossici, in particolare decaptati solforati, anidride solforosa, idrogeno solforato, provengono da Spagna e Olanda. Si tratta purtroppo di rifiuti liquidi, di sostanze che sono soggette a
fermentazione che produce, e libera nell’aria, ingenti quantità di idrogeno solforoso,
un gas inodore ma altamente tossico anche in piccole concentrazioni: provoca diarree, vomito, gola secca, broncospasmi, edema polmonare. A concentrazioni più elevate può provocare la morte.
La Probo Koala è immatricolata nei Paesi Bassi, batte bandiera panamense, l’armatore è di un paese diverso e i rifiuti caricati nei porti di un altro: la nave è salpata
dall’Olanda ma ha fatto scalo in Spagna. La Francia ha cooperato, mandando la sua
protezione civile; gli altri paesi d’Europa hanno scelto di non dedicarsi a questo problema, nonostante quei fusti della morte rechino scritte in spagnolo e olandese.
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Il prezzo dello sviluppo europeo
pagato dall’Africa
Ancora una volta, l’Africa paga il prezzo ambientale (e in questo caso anche sanitario) dello sviluppo industriale dell’Unione Europea: il caso di Abidjan non è il primo
e non sarà certo l’ultimo episodio di “nave dei veleni”.
Tutti i paesi del cosiddetto “primo mondo”, quello industrializzato e ad alto
tenore di vita, hanno potuto liberarsi facilmente dai loro rifiuti più scomodi grazie
all’Africa. I motivi sono principalmente due: i costi di gestione e l’ambiente. Seguendo le direttive dell’Unione Europea, decontaminare e smaltire in sicurezza residui
tossici viene a costare più di mille dollari alla tonnellata. Di contro, gli smaltitori illeciti offrono prezzi fino a nove decimi più bassi incluso il trasporto fuori dai confini
nazionali.
Per questo motivo, il 47% delle scorie europee, in particolare quelle tossiche,
come i rifiuti elettronici, i vecchi computer, i macchinari ospedalieri, viene spedito
via mare in paesi del “terzo mondo”, spesso a bordo di navi vecchie e rugginose, pronte anche ad affondare, appartenenti a compagnie sospette, che di pulito e trasparente non hanno praticamente nulla.
Per sfuggire ai controlli, le navi dei rifiuti usano bandiere di comodo, che spesso
cambiano durante il tragitto, nonostante il diritto internazionale preveda che il paese
al quale appartiene la bandiera di una nave è responsabile del controllo delle sue attività. Molti stati però permettono alle imbarcazioni di usare la loro bandiera per
poche centinaia o migliaia di dollari, ignorando ogni reato commesso. Una specie di
“affitto” della bandiera. Tra questi stati ci sono certamente la Sierra Leone, ma anche
addirittura l’Uzbekistan, che non ha alcuno sbocco sul mare.
L’organizzazione non governativa Basel Action Network, rivela ad esempio che il
75% del materiale elettronico che arriva in Nigeria non può essere riciclato e diventa agente inquinante. La Somalia riceve regolarmente tonnellate di rifiuti elettronici
e radioattivi, ancora oggi. Spesso, approfittando della debolezza del governo centrale, le ecomafie riversano in mare i loro carichi, alcuni dei quali sono riemersi dopo lo
tsunami del dicembre 2005. Tra i vari fusti sbalzati dall’onda anomala sulle rive, sono
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stati ritrovati uranio radioattivo, cadmio, mercurio, materiale industriale e ospedaliero altamente tossico proveniente dall’Europa. Si tratta quindi di una cattiva, quando non addirittura assente, gestione dei rifiuti speciali da parte di tutto il mondo
industrializzato. Un fenomeno pericolosissimo, di cui noi consumatori siamo, volenti o nolenti, soci in affari e finanziatori. ◆
Per approfondire
●
Ugo Bilardo e Giuseppe Mureddu, Traffico petrolifero e sostenibilità ambientale, Unione
Petrolifera, 2005
●
Giorgio e Luciana Alpi, Mariangela Gritta Grainer, Maurizio Torrealta, L’esecuzione. Inchiesta
sull’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Kaos Edizioni, Milano 1999
●
Alessandro Iacuelli, Le vie infinite dei rifiuti, Rinascita Edizioni, Roma 2008
●
Franco Oliva, Somalia crocevia di traffici internazionali, Editori Riuniti 2002
●
Sebastiano Venneri, Legambiente, Terre blu, Editrice Le Balze, Siena 2005
Alessandro Iacuelli
LE VIE INFINITE DEI RIFIUTI
Il sistema campano
Rinascita Edizioni, 2008, pp. 300
Un’inchiesta giornalistica che ricostruisce il viaggio e lo smaltimento
dei materiali tossici verso la Campania e le motivazioni concrete dell’ormai cronica “emergenza rifiuti” della regione.
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