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Fascino e rigore del collodio

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Fascino e rigore del collodio
ISBN 978-88-6927-214-1
49,90 ¤
Giorgio Bordin
ra
ld
i
Collodio
Giorgio Bordin
il collodio umido positivo e negativo
G
ua
del
Fascino e Rigore
Giorgio Bordin, classe 1958, è medico a Parma, dove risiede.
La contemporanea passione per l’arte e per la medicina ha segnato il fil rouge di tutta la sua esperienza, in cui l’arte medica
coesiste con la pittura, il disegno, l’incisione e la fotografia.
Negli ultimi anni si è avvicinato alle tecniche fotografiche “antiche”. In campo fotografico, oltre alla stampa argentica tradizionale, realizza positivi diretti o stampe da negativi analogici
di grande formato nel campo della Calotipia, Collodio umido
(positivo e negativo), Carta salata, Aristotipia, Stampa all’Albumina, Platinotipia, Cianotipia, Kallitipia, stampa vanDyke,
fotografia stenopeica.
GuaraldiLAB
Le antiche tecniche fotografiche, o per altri le tecniche fotografiche alternative, stanno vivendo un movimento di ripresa che
le vede protagoniste di una nuova stagione di fotografia analogica; nel tentativo di riappropriarsi di un gusto artigianale
nella produzione di immagini fotografiche o di espandere le
potenzialità comunicative con una tavolozza di possibilità più
estesa e differente dalla stampa in gelatina argentica.
Alcune tecniche hanno lo scopo di realizzare negativi o positivi
in camera, altri di stampare questi stessi negativi, ma anche
negativi tradizionali e digitali. Il percorso che consente di arrivare alla produzione di una fotografia tecnicamente ineccepibile è lungo e laborioso, sfida contemporaneamente le conoscenze, le abilità e le competenze, dando però risultati spesso
entusiasmanti.
I volumi della collana Antiche tecniche fotografiche offrono la possibilità di raccogliere elementi conoscitivi avanzati per affrontare i processi trattati, partendo da fondamenti documentati
in una solida bibliografia, ma sempre verificati nella pratica
concreta dell’autore; cercano di far ordine in un’informazione
entropica quale quella di Internet, in cui la quantità delle informazioni diventa inversamente proporzionale alla profondità
delle conoscenze. Destinata ad un pubblico italiano in un mondo ormai anglofono, la scelta della lingua consente infine un
approccio più rilassato ad una materia tanto complessa.
Fascino e Rigore
del Collodio
T
F
ntiche ecniche otografiche
GuaraldiLAB
In copertina Chiara. Ambrotipo su vetro chiaro, 20x25 cm. Petzval
Hermagis Portrait lens (1855 circa). Luci artificiali. f3.6, 7 secondi
di esposizione. Collodio New Guy. Sviluppo standard in Solfato
ferroso, fissaggio in KCN, verniciatura in Sandracca.
Giorgio Bordin
i
Antiche Tecniche Fotografiche
ra
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Fascino e rigore
del Collodio
G
ua
il collodio umido positivo e negativo
GuaraldiLAB
Sommario
11
L’artigiano che è in noi
Chi sono io
Tecnica e tecnologia, Arte e artigianato
15
18
19
Arte e artigianato
20
27
29
32
37
40
41
43
45
48
51
53
58
62
G
ua
Piccola storia della fotografia
La natura della fotografia
Una finestra sul mondo
Dipingere con la luce. I pionieri
Come salvare tempo e soldi
Lastre asciutte e gelatina
Alogeni e sviluppatori
Opzioni di stampa: heavy metals...
... e chi gioca duro
Fotografia: arte o scienza?
Il XX secolo e il modernismo
Il vecchio che entra nel nuovo
Il secolo immaginifico
Equipaggiamento fotografico
69
70
70
70
71
71
Fotocamera71
Lenti (Obiettivi) - Lenses
73
Cavalletto - Tripod
73
73
Reggitesta – Head brace
Chassis o Plate holder
73
La camera oscura - Darkroom
74
Luci artificiali
77
ra
Prefazione: Le istruzioni per l’uso
Bilancia - Scale
Vasca verticale per immersione – Dip Tank
Rastrelliera – Rack
Vaschette – Trays
Lampada a spirito (ad alcool) – Spirit lamp
i
9
ld
Tre Premesse e una nota editoriale
Equipaggiamento65
Equipaggiamento strumentale
67
Il laboratorio
67
Ventilazione e luci
67
Dispositivi di protezione individuali (DPI)
67
Vetreria68
Bottiglie68
Densimetro - Hydrometer
69
Temporizzatore - Timer
69
Pennelli antistatici o bombolette ad aria compressa
69
Lenti antiche per uso moderno Il mestiere delle lenti
79
81
Aberrazioni e definizione
84
Somma di Petzval
85
Astigmatismo e curvatura di campo
86
87
Asfericità e multicoating
Attributi e criteri di valutazione delle lenti
87
Lunghezza Focale
87
Apertura88
89
Grandangolo o teleobiettivo
Cono di copertura – Angolo di copertura
90
Lentamente verso l’obiettivo91
Rassegna storica
1840 – 1866
1866 – 1890
1890 – 1914
1914 –1940
Dopo il 1945
Lenti rapide per grande formato
Le lenti Petzval: apologia di una grande lente
Kodak AeroEktar
91
91
94
95
96
97
97
97
106
Chimici, nozioni base e profili di sicurezza 111
113
Informazioni sui prodotti chimici Come fare a…
120
Maturazione164
164
Conservazione Bagno al Nitrato d’argento165
Preparare il bagno d’argento
Leggere la densità
Testare l’acidità
Iodizzare il bagno
Manutenere il bagno
Manutenzione ordinaria
Manutenzione programmata (Sunning)
Manutenzione straordinaria
Misurare120
120
Pesare i solidi
121
Misurare i liquidi
Calcolare le concentrazioni
121
126
Trasformare le concentrazioni
Smacchiare l’argento nitrato.
126
126
Ammoniaca e Acqua ossigenata
Permanganato, bisolfito, tiosolfato
127
128
Iodio e Tiosolfato (Iposolfito)
Pulire le vaschette
128
Smaltire il Dicromato di Potassio
129
130
Smaltire il Cianuro di Potassio
Formule tradizionali al solfato ferroso
Formule tradizionali per positivi
Formule tradizionali per sviluppo di negativi
Formule al Pirogallolo
Sviluppatore al pirogallolo per negativi
Intensificatore al pirogallolo per risviluppo Formule allo zucchero per climi caldi
Sviluppatore allo zucchero per climi caldi
Additivi allo sviluppatore
137
La lastra ‒ il substrato
144
ua
Mica145
Vetro145
Plexiglas145
Metallo145
Opalina146
Vetro nero
146
Sensibilità e misura esposimetrica del collodio
G
Determinazione dell’esposizione corretta
Emozione o introspezione: il ritratto profondo
Tiosolfato di Sodio
Tiosolfato d’Ammonio
KCN (Cianuro di Potassio)
Fattori chimico-fisici del processo
157
Cose da sapere, regole che valgono per tutte le ricette 158
Formule di collodio fotografico
Formule testate e di comune impiego oggi
Old Workhorse (il vecchio cavallo da tiro)
Scully & Osterman Basic Collodion Formula
“Poe Boy” Quinn’s New Guy o quick collodion
Altre formule
Carey Lea’s Landscape Collodion Formula #7
Vernice Sandracca
Vernici sintetiche acriliche
159
159
159
160
160
161
162
163
170
170
171
171
171
171
171
171
172
173
173
173
174
174
175
Wet plate collodion. Il processo passo a passo 177
1 - Il vetro
179
Tagliare il vetro
Sgrassare il vetro
Albuminizzazione dei bordi
2-Stesa del collodio (Flowing the plate)
154
Collodio154
Alcool ed etere
154
Alogeni155
Acqua156
Nitrato d’Argento
156
Umidità relativa e calore
157
Preparare la chimica: Criteri generali
Vernice di finitura
146
151
152
169
Fissaggio172
ra
Il processo in breve
137
Come funziona
137
Terminologia139
Il lato positivo di un negativo
141
143
Esposizione e sviluppo per ambrotipi e negativi
i
133
135
ld
Collodio positivo
Quarant’anni insostituibili.
Positivi e negativi: caratteristiche comuni
e differenze principali
Lo Sviluppatore
166
166
166
167
167
169
169
169
3
4
5
6
179
179
180
181
Metodi per reggere la lastra (holding the plate)
Stesa del collodio (Flowing the plate)
181
182
-
Sensibilizzazione (Sensitizing)
Caricare lo chassis (Loading the film holder)
Esposizione (Exposure)
Sviluppo (Development)
184
184
185
185
Come versare lo sviluppatore (flowing the developer)
Fasi dello sviluppo
Alcune considerazioni e raccomandazioni.
185
187
187
7 - Fissaggio (Fixing the plate)
188
8 - Lavaggio della lastra (Washing the plate)
188
9- Asciugatura della lastra (Drying the plate)
188
10 - Verniciatura (Varnishing)
189
11 - Verniciatura nera del vetro trasparente
191
Brindisi192
Risolvere i problemi (Troubleshooting)
193
Problemi comuni legati al processo
193
Lastre chiare con poco contrasto e toni deboli
193
Lastre scure con molto contrasto e neri vuoti
194
Velatura – Fogging e Silver staining
194
Difetti dell’immagine 196
Comete196
Oyster stains (macchie a guscio d’ostrica)
197
Striature (Streaks) e Lustrini (Spangles)
198
Creste - Ondine (Ridges)
199
Cristalli di tiosolfato
199
Crepe, rotture
199
Macchie blu di prussia o “Blu di Berlino”
200
Il collodio si scioglie verniciandolo
200
Il collodio si appanna verniciando
200
Buchi200
Non è venuto nulla eppure era tutto a posto
200
Negativi al collodio
La questione della densità in fotografia
Il collodio negativo: una marcia in più?
La chimica specifica del processo
203
205
207
207
L’intensificazione del negativo
intensificazione allo Iodio
G
Intensificazione al Rame
Ritoccare i negativi?
209
209
209
209
212
216
216
216
ua
Dinamica del processo
1) lo stadio di deposito
2) lo stadio di intensificazione
Fasi del processo
Alla Luce
In luce di sicurezza
208
208
208
208
Altre cose da fare con il collodio
Riproduzione su collodio di immagini
218
219
221
223
Riproduzione di Immagini positive
223
223
per proiezione...
... o da negativi digitali, a contatto o per proiezione 224
Riproduzione a contatto, duplicazione
Immagini stereoscopiche
Trasporto di positivi al collodio su altri substrati
Metodo Eastman Kodak
Metodo Towler
Appendici
Appendice 1: Risorse
226
226
226
227
228
Colorare il collodio
Alabastrine al collodio
Ambrotipi blu
229
231
232
Il processo in breve
232
253
255
Materiali255
Carta e acetato
256
Attrezzatura varia e fotocamere artigianali
256
Materiali tradizionali e non per fotografia analogica
257
Know how: Collodio
257
Appendice 2: Tabelle di Conversioni ra
Collodio per negativi (New Guy)
Sviluppatori per negativi
(tradizionale: ferro solfato)
Sviluppatore in Pirogallolo
240
Considerazioni240
Metodo al tannino
241
Uno sguardo d’insieme
241
Ricette242
Gelatina242
Soluzione conservante al tannino
243
Sviluppo acido
243
Sviluppo alcalino
244
Il processo passo a passo
246
Variante al caffè
250
i
200
Collodio a secco (Dry collodion process)
ld
P.S. Come recuperare vetri già usati
Come è accaduto: errori e sogni.
232
Dall’errore al meccanismo
233
Come funziona. Basi chimiche del processo
236
Cosa serve
239
Metodo239
259
Unità di misura
259
Sostituzioni di chimici
260
Alcali260
Altre sostituzioni
260
Sodio Carbonato
260
Appendice 3 Parametri chimico fisici
261
Concentrazione dell’Argento Nitrato.
261
Appendice 4: Formati di lastre
262
Postfazione
264
Indice
265
g
Tre Premesse e una nota editoriale
ra
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i
Prima
Viviamo in un mondo globalizzato e anglofono. Chi si diletta in cose strane è ormai abituato a reperirle in
Internet. Eppure mi accorgo che per molti c’è ancora il bisogno (o il piacere) di avere in mano la carta stampata
e per molti Italiani c’è anche il piacere (o il bisogno) che sia scritto in Italiano. Per questo ho iniziato a scrivere
questi libri pensandoli proprio in risposta a queste esigenze.
Data però la necessità per tutti di continuare a consultare informazioni che spesso sono in inglese, ho creduto
utile indicare anche i termini tecnici anglosassoni a fianco a quelli italiani. Sono certo che per qualcuno vale
anche il problema contrario: scoprire come si dice in italiano ciò che le risorse della rete hanno oramai reso
familiare in inglese. Sizing, fog, restrainers, film holders o dark slides, view cameras, per non parlare dei nomi dei
chimici, di cui spesso può essere difficile tradurre le desinenze e i prefissi dei composti più semplici, i nomi dei
quali abbondano nei blog e nelle risorse più disparate sulla rete.
G
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Seconda
La seconda preoccupazione è stata quella di cercare di mettere assieme le cose più utili che ho trovato e sperimentato nella mia esperienza e lettura di testi e trattati, antichi o moderni, esperienza dunque fatta di pratica
ma anche di molta teoria, senza la quale la pratica da sola non serve. I proverbi sono la saggezza dei popoli ma
qualcuno non brilla per sagacia: “val più la pratica della grammatica” è uno di questi. Vero è che la grammatica
senza la pratica vive dentro un vuoto pneumatico nel quale tutto sembra avere la stessa importanza, e cessa di
essere al servizio dell’impatto con la realtà concreta, risultando alla fine inutile. Ma è altrettanto vero che la
pratica senza la grammatica è destinata a rimanere quella dei “praticoni”, destinati ad arenarsi di fronte a un
fallimento di cui non si capiscono le ragioni, per mancanza di conoscenza dei meccanismi intimi attraverso cui
il processo si svolge. Quindi ho cercato di dar rilievo a tutti gli elementi utili per comprendere queste tecniche
e governarne la maggior parte delle variabili fisico-chimiche in campo; mancando di una industrializzazione
del processo lasciano infatti all’artigiano il compito gravoso ma affascinante di conoscere ed esperire (per poter
controllare) tutte le dimensioni sottese da questi processi.
Terza premessa e nota editoriale
Le tecniche cosiddette antiche sono davvero molte. Io mi limito a trattare quelle che conosco, e di queste
parlo solo di cose da me testate e divenute pratica consolidata. Ci sono sicuramente altre vie o altri metodi per
fare le stesse cose o altre varianti, di cui talvolta si fa esplicitamente cenno per dovere di completezza. Quelle
su cui ci soffermiamo stanno dando buoni risultati in mano mia. E siccome sono un pasticcione, se funzionano
per me, vuol dire che andranno bene anche per voi.
Poiché però le tecniche di cui si tratterà in quest’opera sono parecchie e non è detto che ognuno desideri
praticarle tutte, è stato scelto di raccoglierle in volumi separati per renderne più agevole la pubblicazione e l’utilizzo. Approfitto così per ringraziare Mario Guaraldi, per avermi incentivato su questa strada, editorialmente
9
Fascino e rigore del collodio
ld
i
rischiosa e di difficile popolarità, essendo dedicata ad un pubblico di alto profilo ma numericamente molto
ristretto.
Un’opera suddivisa in più volumi vendibili separatamente crea alcuni problemi per la collocazione delle informazioni di interesse trasversale ai diversi argomenti. Alcune parti rivestono un significato generale e altre
sono più specifiche. Parliamo principalmente di elementi di storia della fotografia, nozioni inerenti all’equipaggiamento strumentale e fotografico (camera e lenti) o alle problematiche legate alla produzione di negativi
analogici e digitali. Saranno inseriti là dove hanno maggior coerenza con il contenuto specifico del volume: i
rimandi sono lasciati al testo.
L’unico capitolo ripetuto ogni volta riguarderà i chimici impiegati, le loro caratteristiche e soprattutto i profili
di sicurezza: questa cosa ha le sue ragioni. Accostarsi alle tecniche antiche fotografiche mantenendo il gusto di
quell’artigianato di cui parlavamo poc’anzi significa anche gestire prodotti chimici di diversa tossicità e pericolosità. Nessuno è obbligato a farlo, ma per chi lo vuol fare (e forse chi legge è tra questi) sappia che una prima
preoccupazione è la sicurezza, che viene prima di quella del risultato. Sicurezza per sé, per gli altri (soprattutto
se avete una famiglia…), per le cose e per l’ambiente. La responsabilità è di ciascuno, perché i danni possono
essere di tutti. Si tratta di capitoli aridi che quasi nessuno legge, ma questo non mi esime dal metterli a disposizione di chiunque.
G
ua
Giorgio Bordin
[email protected]
ra
A chi abbia deciso di usare risorse proprie per acquistare un libro scritto da me non posso che essere in debito
di riconoscenza e vincolato da una specie di certificato di garanzia a tutela della solidità del patrimonio intellettuale acquistato in cambio di moneta contante. Non esitate a utilizzare la mia posta elettronica per qualsiasi
chiarimento o richiesta (a parte quella di riavere indietro i soldi).
Le istruzioni per l’uso
C
A
ua
ra
ld
i
ome può essere fatto un libro sulla fotografia al collodio? A cosa e a chi può servire un volume così circostanziato su tecniche abbandonate dai fotografi da quasi un secolo?
Sono sicuramente domande oziose: chi ora legge queste righe il libro se lo è già procurato e quindi sa benissimo le risposte, molto più di chi le sta scrivendo.
Sicuramente la curiosità, probabilmente il fatto che non esiste in lingua italiana un trattato sistematico e aggiornato che riunisca la quantità di informazioni disperse in ricettari, riviste d’epoca, volumi a carattere storico
o monografico, una bibliografia insomma estremamente polverizzata.
Esiste ed è reperibile con qualche difficoltà il vecchio volume di William Crawford, L’età del collodio, la cui
traduzione italiana del 1981 (presso Cesco Ciapanna) recava un sottotitolo, in apparenza un po’ gaglioffo: Come
si falsificano le fotografie antiche. È un’indicazione interessante per molti versi. Quella più ovvia è nel fatto che,
nel 1981 – incidentalmente è il periodo in cui Giorgio Bordin, studente di medicina, si avvicina alla fotografia
– il tema del recupero di tecniche desuete era principalmente orientato alla ricostituzione di un’aura storica, ad
una attribuzione di valore tutta rivolta al passato. Altri motivi di interesse sono poi nel tema della falsificazione:
procedimento caro alle avanguardie post-dada, ma anche storicismo che vediamo in quegli anni dilagare nella
frastagliata galassia del Postmodern e dei suoi epigoni. Infine, è da pochi anni pubblicato il Trattato di semiotica
generale di Umberto Eco nelle cui pagine iniziali, dove viene delimitato il campo della semiotica, della linguistica e dei suoi segni, si afferma che caratteristica precipua del segno linguistico è, certo, quella di comunicare,
ma, a questa inestricabilmente legata, soprattutto quella di poter mentire. Quindi la tecnica, il suo uso in fotografia – ritenuta semplice impronta della realtà – ha lo statuto di tratto linguistico, di elemento da articolare
per produrre senso. Quel bricolage un po’ maniacale ed impreciso implicava la capacità di produrre senso in un
determinato contesto.
G
llora, il cosiddetto manuale, il trattato che deve essere oggettivo, chiaro, fuori da ogni ambiguità, assertivo, che mette il lettore in condizione di replicare una sapienza trasmessa senza interferenze di soggettività varie, si troverebbe al grado zero di questa articolazione linguistica delle analogie, una sorta di abbecedario
delle immagini, anzi, di un ambito ben circoscritto di quella classe di immagini che chiamiamo fotografie.
E qui iniziano i possibili equivoci, fecondi e produttivi, ma pur sempre equivoci.
La fotografia al collodio era praticata nel 1981, è praticata oggi, da una specie di setta; è un’applicazione
orgogliosamente minoritaria, ma quella fotografia è quella che nella seconda metà dell’Ottocento determina
la possibilità da parte dei fotografi di essere editori, di riprodurre e replicare indefinitamente la figura di uno
stato del mondo, fa entrare in modo originale quell’immagine – automatica – nel regno della grafica, delle arti
grafiche, poi della tipografia. Ogni immagine fotografica presente, ogni istanza documentaria, segnaletica, di
narrazione realistica e moltiplicata, il più banale dei selfie, recano in profondità tracce visibili della loro base
storica in quel procedimento; saperne la distanza, il tempo differente di una fotografia che implica la preparazione passo passo di tutti i suoi materiali da quello di una prodotta apparentemente dalla pressione di un dito,
conferisce profondità a entrambe le esperienze di realizzazione di una figura del mondo.
L’altro equivoco possibile è quello della oggettività, della neutralità del libro di argomento tecnico. Questo
di Giorgio Bordin, è infatti un trattato nitidamente tendenzioso. Lo vediamo non solo nelle sue dissertazioni
sul rapporto tra tecnica e tecnologia, tra arte e fotografia. Lo vediamo nella parte storica, che circoscrive le
modalità di produzione delle fotografie – e delle immagini ottico/fisiche prima di chiamarsi fotografie – entro
l’orizzonte dell’estetica. Bordin, correttamente, non si limita alla rendicontazione dei materiali dell’ottica, della
chimica, delle attrezzature necessarie e del relativo buon uso: intende dare a tutto questo un contesto, fornire
11
Fascino e rigore del collodio
coordinate delle antecedenze e degli sviluppi oltre alla abbondante – e prima difficilmente individuabile – bibliografia. Racconta la storia, ma lo fa proprio come uno Storyteller, ed è bene rendersi conto delle preferenze,
delle passioni, dell’attenzione accorata, per esempio, al dibattito sul pittorialismo, ai rivolgimenti traumatici di
considerazione estetica tra Emerson e Robinson. Insomma, come in fondo accade sempre, la profondità della
ricerca e l’arricchimento dell’informazione trasmessa non rende necessariamente trasparente l’argomentazione,
anzi, in questo caso ne fa una narrazione decisamente autoriale, orientata. Compito di un manuale non è quello
di chiudere un discorso tra teoria e prassi, anche se a questo scopo il lavoro di Bordin1 assolve più che esaurientemente, ma riaprire potenzialità tra fare e pensare, aprire su nuove possibilità.
G
ua
ra
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i
Paolo Barbaro
Agosto 2015
1
12
Il cognome del nostro autore è curiosamente simile a quello del sociologo tradotto più di quarant’anni fa dallo stesso editore, su
argomento parallelo, di intenzioni ed esiti quasi speculari, da rileggere: Pierre Bourdieu, La fotografia. Usi e funzioni sociali di
un’arte media, Guaraldi, Rimini 1972-2004.
G
ua
ra
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2 - Piccola storia della fotografia
Tecnologia. Ferrotipo su alluminio anodizzato. Fatif view camera. 20X25. Rodenstock Sironar 1:6,8/360mm (6 836 747). Ott:
Compur 3. EV100 14 f/11 4 sec, 21 giugno 10:30 a.m. Parma. New guy. Sviluppo in solfato ferroso standard. Fissato in KCN.
La tecnica è degli anni ’60 di due secoli fa, la tenda alle nostre spalle è una tenda da pesca su ghiaccio in Mylar™ costruita da
una ditta canadese e si apre con tecnologia pop-up. In mano ho un “remote controller” per scattare, che consiste in un filo di
15 metri con pompetta a bulbo costruito nella prima metà del XX secolo, ma acquistato su eBay con tecnologia e-commerce,
disponibile da non più di dieci anni. Le due camere sono una SinarP degli anni ’80 e una whole plate Wageeswari dell’inizio
del secolo. Mentre scattavamo, siamo stati però anche ripresi da una telecamera GoPro hero3 che elabora file digitali Full HD
ed è più piccola di un pacchetto di sigarette, che nessun o di noi fuma, e riprende senza distorsioni apprezzabile in un angolo di
170° (ma è già uscita la 4). I ragazzi sono nati meno di trent’anni fa e non hanno mai visto un rullino. La scansione della lastra,
di alluminio anodizzato prodotto industrialmente dal 1923, è stata realizzata con un Epson V750Pro, ma il suo software è alla
versione di release 8.0 per renderlo compatibile con l’ultima versione del sistema operativo del mio MacBookPro, che comincia
ad essere davvero vecchio, dato che ha ben 5 anni. Tecniche antiche?
63
i
ld
Capitolo 3
ua
ra
Equipaggiamento
G
It is an old remark, that all arts and sciences have a mutual dependence upon each other (…)
Thus men, very different in genius and pursuits, become mutually subservient to each other;
and a very useful kind of commerce is established by which
the old arts are improved and new ones daily invented
William Brownrigg
3 - Equipaggiamento
Un discorso a parte merita un aggeggio che è chiamato “helper tray” (fig. 3.7). È un vassoio a bordi bassi, di
larghezza su misura per accogliere la lastra (quindi uno per ogni dimensione) e un buco in centro. Ha lo scopo
di contenere lo sviluppatore evitando che debordi dai lati. A me non è mai capitato di utilizzarlo. C’è chi l’ha
visto comodo per i principianti, un po’ come le ruotine laterali delle biciclette dei bambini o per
lastre grandi. Altri dicono che anche con l’esperienza maturata può tornare utile soprattutto in
esterni, quando si lavora in tende o camere oscure portatili con poco spazio per non sbrodare
dappertutto. Ne parla addirittura Frederich Scott Archer nella sua prima presentazione
del metodo al collodio, pubblicato in “The Chemist”“I have found it convenient to have
a trough made of gutta percha11, the two sides and bottom of which are about 1/8
inch high and just large enough to hold the glass plate. With this trough, the mixed
solution can be poured rapidly over the plate, without fear of any being thrown
over the edges”. Comunque, c’è chi le vende, come Niles Lund (vedi Risorse).
Lampada a spirito (ad alcool) – Spirit lamp
Fig. 3.8
Fotocamera
ua
Equipaggiamento
fotografico
ra
ld
i
Per la verniciatura di rito (fig 3.10). È un’altra cosa difficilissima da trovare: trent’anni fa era nel negozietto
sotto casa che teneva casalinghi, ma oggi… Altrimenti su eBay. Comunque si possono usare anche fornelli da
campeggio, becchi bunsen, riscaldatori catalitici… La lampada a spirito è semplice e ha il suo fascino. A parte
un asciugacapelli, tutti questi prodotti sono pericolosi perché si usano con materiali infiammabili. Non sarebbe
male tenersi a portata di mano un piccolo estintore. Non si sa mai.
G
Qualsiasi macchina vi procuriate deve poter alloggiare lastre. Non servono però necessariamente macchine di grande formato. La
definizione del collodio è tale che si possono
realizzare lastrine molto piccole e fare ritratti
bellissimi. Una volta del resto si faceva così.
Per cui potete procurarvi macchine di medio
formato che abbiano dorsi porta lastra o studiare il sistema di ricavarli.
Fig. 3.9 Rollei Plate adaptor. Consente di sostituire il dorso delle
Roleiflex o rolleicord biottiche ed è dotata di bellissimi chassis.
Permette di focalizzare sul vetro smerigliato, ma anche di utilizzare
il pozzetto per la messa a fuoco. La Rolleiflex 2.8 ha una luminosità
notevole di cui il collodio può beneficiare.
Per esempio si può adattare una scatola vuota di fuji instant e alloggiarla in dorsi polaroid con cui comporre
l’immagine (ne vedete un risultato a pagina 72). La scatola si può ricomporre e diventa uno chassis ben funzionante, su cui occorre prenderci la mano. Qualcuno li adatta ma io mi trovo bene ad usarli così come sono.
Conviene tenerne da parte un po’ man mano che si utilizzano perché non sono molto robusti. Non esiste un
volais per cui occorre mettere la lastra nello chassis e caricarlo in macchina mentre si è in camera oscura. Lasciano una cornice nera ai bordi che può essere piacevole.
11
La Guttaperca è una materia plastica naturale (politerpene), simile al caucciù (gomma naturale, india rubber, gomma indiana) ma
con alcune differenze, che fu in voga nell’800 per essere sostituita dalla plastica nel XX secolo.
71
Fascino e rigore del collodio
Fig. 3.10 Il pinocchio di Collodio. ferrotipo su alluminio scattato
con Rolleiflex 2,8, adattatore per lastre, immagine 5,2 x 5,2 cm in
lastra di 59 X 82 mm, (New Guy, sviluppo e fissaggio standard,
verniciato) f/5,6 30 sec.
Fig. 3.11 PierAngela legge De Wohl. Ambrotipo su vetro nero
10x12 cm, scattato con Polaroid Pathfinder land camera 110A.
Rodenstock-Xarex 1:4,7 f/127 mm. Il più bell’obiettivo di tutte le
macchine Polaroid, purtroppo con un fuoco minimo molto lontano. Lo scatto è stato fatto in fine agosto, alle 16:00, con EV100 12
misurato nella regioni con luce e 11 nel fogliame. 4 secondi a f/4,7,
sviluppo in solfato ferroso in 20 secondi con un po’ di fogging:
sarebbe stato meglio dare 5-6 secondi di esposizione.
ua
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Anche la Rolleiflex biottica monta un accessorio bellissimo che va sia sulla R. 2,8 che sulla Rolleicord, reperibile
senza troppa difficoltà in eBay, che si sostituisce al dorso
per pellicola e ha degli chassis deliziosi per lastre 6x9. Lo
spessore di alloggiamento dello chassis non consente di
utilizzare vetri di due millimetri o più ma va bene per lastrine di alluminio (3.9). Lo scatto è sempre limitato ad
una finestra 6x6, incorniciata e decentrata come in una polaroid, elegante e accattivante (3.10). Potrebbe essere utile
procurarsi le lenti addizionali per macrofotografia (Rolleinar ™) per ridurre la messa a fuoco minima. Ce ne sono
tre, che consentono un fuoco sempre più ravvicinato, ma anche un campo di messa a fuoco sempre più ristretto.
Il numero 2 è quello adeguato per ritratti, il 3 è un obiettivo davvero macro. Si può continuare a traguardare
attraverso il pozzetto mentre c’è lo chassis inserito. Bisogna bloccare la lente in apertura, coprirla con il tappo e
rimuoverlo manualmente per il tempo di esposizione .
G
Di certo tutte le macchine a lastra sono adeguate, macchine a banco ottico supersized sono tornate in voga e
ci sono costruttori che ve le possono costruire su misura.
I formati “standard” moderni sono il 4x5” (10x12cm),
5x7” (13x18cm) e 8x10”
(20x25 cm). Si trovano macchine d’epoca anche in 10x12”
(25x30, per la precisione:
25,4x30,48cm). Sempre tra
le macchine antiche si ritrovano misure ormai non più
standard (vedi appendice 4),
come le whole plate (6.5”x8.5”
= 16,51x21,59) che sono un
giusto compromesso tra portabilità e formato.
72
3 - Equipaggiamento
Lenti (Obiettivi) - Lenses
Sulla fotocamera naturalmente ci va una lente. La lente è la vera anima della fotografia. È la cosa più importante. Le camere a banco ottico hanno sulla standarta anteriore alloggiamenti per piastre porta lenti, su cui si
può attaccare di tutto, purché compatibile con il formato e con gli scopi che ci prefiggiamo. Obiettivi moderni
hanno sistemi di ancoraggio alla piastra con anelli che si avvitano: serve solo un buco della dimensione adatta
per quella lente12. Lenti antiche, in ottone, hanno flange con dei fori per viti: basta adattare la piastra. Purché
la flangia ci sia: molte lenti ne sono sprovviste. Ragionate bene se acquistare una lente senza flangia, a meno
che sappiate con certezza chi ve la può tornire con il passo giusto. Altrimenti va a finire che la flangia vi costa
più della lente.
Questo detto, scegliere una lente richiede delle competenze per potersi orientare. Il tema è talmente vasto e
importante e al tempo stesso estraneo al background comune di fotografi orientati a camere moderne, che val
la pena di dedicarvi un capitolo apposta, a cui rimandiamo (capitolo 4).
Cavalletto - Tripod
Reggitesta – Head brace
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La scelta del cavalletto non è indifferente. La robustezza del cavalletto segue il peso della camera, con tutte
le conseguenze che ne derivano. Le macchine grandi necessitano non solo di cavalletti che reggano il loro peso,
ma anche sufficientemente rigidi da limitare le vibrazioni e le oscillazioni, rese possibili dal fatto che tutto il
sistema è più elastico di quanto non sembri. Al tempo stesso occorre ridurre il peso dell’attrezzatura. Ci sono
cavalletti in legno moderni o d’epoca leggeri e versatili o moderni in leghe leggere e robuste.
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Un ritratto in studio al collodio, anche con una buona luce, significa qualche secondo di
posa. La testa deve appoggiarsi a qualcosa. È difficile trovare pezzi d’epoca, che sono
interessanti e belli. Potete costruirvelo o farvelo costruire.
G
Io ho trovato semplice e comodo questo schema (3.12) che un fabbro
vi può fare con semplicità, montandolo su una asta da microfono. A sua
volta da infilare in un piede che abbia un peso adeguato.
Chassis o Plate holder
Il vantaggio di reperire macchine d’epoca è la disponibilità potenziale di chassis specificatamente pensati per lastre, di cui una
tipologia è mostrata in figura 3.13.
Altrimenti vanno adattati i comuni chassis “fidelity” con la
modifica conosciuta come modifica di Scully e Osterman
(fig. 3.14), le cui fasi si possono vedere su youtube in un
tutorial di Alex Timmermans digitando: “How to modify a normal 8x10” filmholder into a wet plate holder” o
andando all’indirizzo qui riportato13. Non lo descrivo
12
Fig. 3.12
Le dimensioni standard dei fori delle piastre portaobiettivi seguono nomenclature diverse le più frequenti sono Copal e Compur
ma ve ne sono altre. Vedi: http://www.largeformatphotography.info/lensboard_hole_sizes.html
13https://www.youtube.com/watch?v=Vlb7DRoSSVI
73
Fascino e rigore del collodio
perché vederlo vale più
di molte parole. La modifica non è difficile, ma
non tutti sono attrezzati
per farlo e occorre un minimo di abilità manuale. Il mio
amico Niles Lund, a cui ho ordinato tempo fa una tank verticale di sviluppo, mi ha modificato
per pochi dollari tre chassis, uno per
formato, che gli ho spedito e ho ricevuto
insieme al materiale ordinato. Ci sono due raccomandazioni, per chi volesse farlo da solo: la prima
è di usare chassis fidelity, perché hanno un divisorio in acciaio che è inerte chimicamente. La seconda che è raccomandato l’uso di un filo di argento: già questo fa scappare la voglia di farselo.
La soluzione può essere quella di incollare quattro tirangolini di materiale ottenuto dallo scarto centrale, sotto
il lato in cui si alloggia la lastra.
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Fig. 3.13 Chassis per lastre, di una folding camera in
legno 10x12” dei primi decenni del ‘900. Consente
di alloggiare due lastre, problema che non si pone
per il collodio, ma poteva essere utile per le lastre
in gelatina. Il volet è una specie di saracinesca a
listelli, che si estrae ma non può essere sfilata.
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Stanno comunque crescendo produttori di equipaggiamento fotografico che producono non solo macchine, ma anche chassis per vetro adatti ai formati standard, quelli che per intenderci montano
“fidelity”. Ce ne sono anche vicino a noi, in Italia, e li trovate nei suppliers, in
appendice, come Samuele Piccoli o Alessandro Gibellini: produzioni
artigianali, già abbastanza robuste e affidabili, ma soprattutto
ragazzi giovani che si stanno infilando in un mondo in crescita e costruiranno cose sempre più interessanti con il passare del tempo.
La camera oscura - Darkroom
G
Alcune fasi di lavoro vanno effettuate in locali
protetti dalla luce attinica e dunque l’allestimento di
una camera oscura.
Il locale ideale dovrebbe essere ben ventilato (eventualmente con un ventilatore ad aspirazione), schermato
dalla luce esterna e illuminato da luci a incandescenza e da
luci di sicurezza.
Molti processi tra cui la carta salata e albuminata, o l’aristotipia di cui tratteremo nel secondo volume (ma vale
anche per tutte le ferrotipie, per la gomma bicromatata, il
carbone…) possono essere realizzati con luce a incandescenza purché non eccessivamente intensa. Meglio evitare
la luce al tungsteno perché è sempre presente una certa
emissione nello spettro del blu, ma insomma, non è richiesto vivere da vampiri: ci si può vedere decisamente bene e
74
Fig. 3.14 Modifica secondo Scully & Osterman dei comuni chassis “fidelity”. SI osserva nel dettaglio il filo
d’argento che regge la lastra nella finestra tagliata all’interno della lamina di separazione tra i due alloggiamenti per le pellicole.
4 - Lenti antiche per uso moderno
man’s faults may be another man’s virtues”: apparve subito che la curvatura di campo poteva essere sfruttata per
dar enfasi al soggetto centrale, in particolare nei ritratti. Questo effetto è uno degli effetti ricercati e “trendy”
nella nostra epoca postmoderna, che non solo usa vere lenti antiche di Petzval per ricrearne la magia, ma ha
riproposto lenti “Petzval” di fabbricazione moderna, da applicare su Canon e Nikon digitali, che – mentre sto
scrivendo questo capitolo – sono una delle novità che impazzano sulla rete. Per inciso, lo schema ottico di queste lenti non è propriamente il Petzval, anche se gli somiglia alquanto, di sicuro nell’effetto.
Asfericità e multicoating
Attributi e criteri di valutazione delle lenti
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Lunghezza Focale
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Le caratteristiche innovative delle lenti moderne nel XX secolo, sono state soprattutto la generazione di
lenti asferiche, possibili solo con l’industrializzazione dei processi produttivi e l’avvento di nuovi materiali. A
questo si aggiungono gli strati antiriflesso che minimizzano la perdita di luminosità alle interfacce lente-lente
e lente-aria, rilevanti soprattutto all’aumento del numero di lenti (obiettivi a focale variabile o zoom!) e naturalmente la possibilità di progettazione assistita da calcolatori, che macinano variabili numeriche ingestibili nei
calcoli fatti a mano, potendo così simulare e progettare lenti con esiti altrimenti inarrivabili.
La focale di un obiettivo è un attributo intrinseco dell’obiettivo, ed è pertanto un valore assoluto.
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Coincide con la distanza tra il piano focale posteriore di quella lente e il punto di messa a fuoco posteriore di
un oggetto posto all’infinito. Detto così sembra complicato, ma non è difficile.
G
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Facendo riferimento alla figura 4.1, che spero chiarisca meglio delle parole, se tenete in mano un obiettivo
puntandolo contro oggetti
sufficientemente
lontani da potersi considerare
all’infinito (palazzi, alberi
distanti, le montagne come
nell’esempio in figura…) e
lo muovete contro un piano di proiezione (il muro
o un cartoncino bianco),
troverete un punto in cui
la scena è a fuoco. Per poterlo vedere dovete stare
in un luogo più buio della
luce proiettata, per esempio l’interno di una stanza
puntando l’obiettivo verso
una finestra aperta.
A questo punto misurate
la distanza fra il punto di
messa a fuoco e il piano
focale posteriore, che in un
Fig. 4.1 Come determinare la lunghezza focale di un obiettivo e la sua apertura. Vedi testo
per la descrizione.
87
4 - Lenti antiche per uso moderno
parchi di obiettivi per tutte le necessità, ma che hanno deciso di sfruttare questo elemento come una parte del
linguaggio comunicativo dell’immagine. Nelle immagini riportate in questo libro ci sono esempi di quanto si
è detto.
Lentamente verso l’obiettivo
La prima lente utilizzabile a scopi fotografici data al 1812; dovevano passare almeno 25 anni prima di vederne
un impiego pratico. Abbiamo già commentato come la fotografia nacque indipendentemente dall’esistenza di
una fotocamera, ma certo fu determinante per la sua progettazione. Il punto più critico era ovviamente quello
delle lenti. Tornare a lenti antiche oggi significa da un lato accollarsi dei limiti tecnici, ma dall’altro espandere
il proprio linguaggio visuale e comunicativo. La possibilità di ottenere effetti visuali distintivi è un motivo per
procacciarsi una lente particolare. Certo deve fare i conti anche con la disponibilità e con il costo, elementi a
volte facilitanti, a volte limitanti l’acquisto. Il costo in particolare di alcune lenti è cresciuto enormemente per
l’aumento di richiesta.
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Il problema generale maggiore delle lenti antiche è il rapporto fra l’apertura e il cono di copertura, che è sempre critico. Alcune lenti offrono angoli di copertura molto buoni, ma lavorano a diaframmi decisamente chiusi.
Altre pagano la rapidità con un angolo stretto che obbliga a ricercare lunghezze focali decisamente difficili da
reperire e dispendiose quando si voglia scattare in formati maggiori del 13x18.
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Ci concentreremo sulle lenti Petzval, per i motivi che saranno ovvi a chi leggerà. Penso sia utile far precedere
una breve rassegna storica con lo scopo di orientarsi per sommi capi in un mondo difficilissimo. Chi volesse
addentrarsi può consultare due belle pubblicazioni, differenti e complementari fra di loro, una disponibile per
lo più usata in cartaceo all’interno di circuiti come Amazon, dal titolo “A history of the Photographic Lens” di
Rudolf Kingslake (1989, Academic Press, London), l’altro in pdf o eBook presso Lulu (www.lulu.com) di Paul
Lipscombe e dal titolo “The use of historic lenses in contemporary photography”.
Rassegna storica
G
In pochi anni furono progettate moltissime lenti, che miglioravano le precedenti e consentivano di rispondere
ad esigenze differenti, riconducibili fondamentalmente alle categorie del ritratto e del paesaggio. Fino a tutto
l’800 il mercato offriva infatti lenti ad ampie aperture con accettabili distorsioni dentro un ridotto angolo di
ripresa, o lenti capaci di coprire angoli elevati con distorsioni minime, ma con aperture ridotte. Sembrava che si
dovesse sempre scegliere tra rapidità e grandangolarità; averle entrambe sulla stessa lente è conquista recente, e
le lenti migliori in quegli anni potevano essere complicate e costose. Per questo sul mercato rimasero disponibili
obiettivi di concezione superata di fianco ad altri più moderni, solo per questioni di praticità ed economicità.
Dunque è facile dire quando una lente fu introdotta sul mercato ma non quando venne abbandonata nell’uso
pratico dei fotografi. Questa rassegna divide le lenti in base al loro anno di introduzione citando pochi modelli
e nomi: quelli che non solo hanno fatto la storia, ma che si potrebbero trovare nei mercatini di antiquariato e dei
quali può servire saperne qualcosa per districarsi almeno inizialmente. Di alcune di esse si parlerà nel capitolo
delle Petzval. Gli schemi a cui si fa riferimento sono tutti nella figura a pagina 92.
1840 – 1866
Una lente biconvessa genera un piano di messa a fuoco curvo, cioè un segmento di sfera; se ne vede il perché
in figura a pag. 92, allo schema numero 1. Le fotografie invece stanno su un piano piatto. Da qui nasce uno dei
maggiori problemi da risolvere.
91
Fascino e rigore del collodio
A
a
b’
B’
a’
A’
b
B
1: perché una lente mette a fuoco un piano piatto su un piano curvo
2: lente da paesaggio di Wollaston
Coma
4: La lente Anaplanat di Grubb
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3: percorso dei raggi attraverso una lente da telescopio,
quando utilizzata regolarmente o quando invertita
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Stop
6: Rapid Rectilinear (RR) lens di Dallmeyer
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5: Rapid Landscape lens di Dallmeyer
7: Lente concentrica di Ross
8: Anastigmatica di Zeiss con due o tre componenti posteriori
9: La lente Tessar, di Zeiss
10: La Dagor originale
92
Fascino e rigore del collodio
G
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Le anastigmatiche classiche non si mostrarono così buone come sperato a causa di altre aberrazioni introdotte
dalle molte interfacce cementate. La loro risoluzione con schemi ottici differenti, che utilizzavano spazi aerei fra
gruppi di lenti come diffusori per ridurre l’aberrazione sferica, migliorarono la correzioni zonali dell’immagine.
Dalle stigmatiche di Aldis, nacquero presto la Unar (1899) di Zeiss subito perfezionata nella gloriosa Zeiss
Tessar (1902), con apertura f/6,3 alla sua uscita. Nel 1892, un ventisettenne matematico dal nome di Emil von
Höegh disegnò una lente a due gruppi cementati tripli corretta per l’aberrazione sferica, cromatica e libera da
astigmatismo e curvatura di campo. Era simmetrica per poter correggere il coma, che invece rimaneva problematico. Si dice20 che fu offerta a Zeiss che non era interessata per cui Höegh si rivolse alla neonata Goerz a Berlino
(fondata quattro anni prima), dandole il nome di Double Anastigmatic Goerz, contratto in Dagor nel 1904. È
ancora prodotta negli Stati Uniti e fu incorporata in fotocamere da quasi tutte le case produttrici. Copriva circa
30° e l’apertura era f/6,8, purtroppo però soffriva del fenomeno di focus shift. È un fenomeno che dipende dal
fatto che le interfacce estremamente dispersive a correzione dell’aberrazione sferica, muovono le immagini più
nitide lungo l’asse principale alla chiusura dei diaframmi, per cui il fuoco a tutta apertura non coincide con quello a diaframmi chiusi. Abbiamo parlato di Dagor e Tessar,
per citare due nomi talmente
famosi da essere prodotte ancora per molti anni su fotocamere prestigiose, almeno fino
al 1930. Molte modifiche e
altre lenti vennero prodotte.
Anastigmatiche
simmetriche, a quattro, cinque lenti,
Ortostigmatiche di Steinhel
o Collineari di Voigtländer,
schemi asimmetrici a triplette di Cooke (Heliar, Dynar)
moltiplicavano gli schemi e le
conoscenze e aprivano al periodo successivo, che avrebbe
visto progettazioni sempre più
avanzate di lenti fotografiche.
Nel 1890 Dallmeyer introduce anche i primi teleobiettivi.
Però le Petzval tardavano a
scomparire del tutto ancora
all’inizio del XX secolo.
1914 –1940
Nonostante la guerra, il periodo immediatamente postbellico vide la produzione di
20
96
Fig. 4.2 Photographe à Verres Combinés a Foyer variabile. A sinistra, da una pubblicità
d’epoca. A destra, sono schematizzate tre possibili disposizioni: in alto solo lente frontale,
per paesaggio; in mezzo con una lente addizionale sempre per paesaggi; in basso nella
posizione per ritratti.
R. Schwllberg: “Dagor. The lens that’s 78 years young”. Pop phot. 70, 56 (jan 1972).
4 - Lenti antiche per uso moderno
lenti eccezionalmente rapide: Il brevetto Tessar apparve
nel febbraio 1903 e diede il monopolio a Zeiss fino al
1920, quando lenti a schema Tessar apparvero sul mercato prodotte da almeno 21 case costruttrici. Dall’f/6,3
della sua uscita in commercio divenne f/4,5 già nel
1917, fino a f/2,8 nel 1930: il primo Elmar f/3,5 che
Max Berek disegnò per la Leitz Camera nel 1920 era di
questo tipo. Nel 1920 fu progettata una f/2, e negli anni
’30 si svilupparono lenti per il neonato 35 mm e soprattutto lenti da proiezione e da ripresa cinematografica
per telecamere amatoriali a 8 e 16 mm. Iniziarono anche
le lenti per fotocamere montate su aerei, di cui la aeroektar di cui parleremo è un modello che oggi ha una certa
popolarità nel mondo fotografico.
axis
crown
flint
flint
crown
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Dopo il 1945
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Iniziarono le lenti a focale variabile o zoom, lenti
speciali per risolvere la proiezione di pellicole anamorfiche (problema già nato tra le due guerre, ma reso
più impellente dal sistema CinemaScope del 1952), e
l’avvento delle manifatture giapponese negli anni ’50. Fig. 4.3 Lente per ritratto Petzval. In alto lo schema delle
Nikon, un nome per tutte, iniziò a competere con il lenti. In un disegno d’epoca, la collocazione delle lenti ritradizionale monopolio del mondo tedesco. La possi- spetto all’obiettivo.
bilità tecnologica di produrre lenti a curvature sempre
più complesse (lenti asferiche) favorì la correzione di aberrazioni riducendo il numero di lenti e facendo ciò
che prima sarebbe stato impensabile. E in breve siamo a oggi.
G
Lenti rapide per grande formato
Nel campo del mercato fotografico usato, ci sono due lenti che gli amatori ricercano, avendo una buona commerciabilità in Internet o in mercati dell’usato fotografico e non solo e unendo pertanto luminosità eccezionali
a rapporto qualità-prezzo.
Il primo tipo di lenti, a cui si è già fatto cenno, sono le lenti a schema ottico Petzval. Il secondo è quello delle
Aero-Ektar, fabbricate da Kodak ad uso militare.
Le lenti Petzval: apologia di una grande lente e consigli per gli acquisti
Nel 1839, quando apparve il Dagherrotipo, era disponibile solo la lente acromatica a menisco per “Le Daguerreotype”, la prima fotocamera di Louis Daguerre, progettata da Charles Chevalier (1804-1859). L’acromatismo si otteneva con una coppia di lenti che riportavano correttamente sul piano le luci di colori differenti.
Tuttavia a parte per la presenza di aberrazioni cromatiche residue che non offrivano una immagine incisa, l’apertura di f/15, ricavata da uno stop frontale, rendeva impossibile la ritrattistica, dato che i tempi di esposizione
in sole pieno erano di circa 30 minuti.
97
4 - Lenti antiche per uso moderno
sene conto). Riprese più ravvicinate, allontanano l’obiettivo e intercettano il circolo di copertura in un punto
dove è decisamente più ampio: si può vedere in altri esempi, come a pag. 88, realizzata su una lastra 13X18,
e però totalmente priva di vignettatura visibile. Questi “difetti” dello schema della lente possono aggiungere
interesse e personalità al ritratto conducendo maggiormente l’attenzione dell’osservatore sulla porzione centrale
dell’immagine, dove risiede il volto e lo sguardo. La bassa profondità di campo è spesso utilizzata ad arte per
evidenziare ulteriormente punti di interesse come gli occhi e solo parte del volto, sfruttando il bokeh marcato
che si viene a produrre, per primi piani ravvicinati.
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Non bisogna confondere il nome Petzval, che indica lo schema ottico, con la marca di fabbrica. Inizialmente
non c’erano nomi sulle lenti fotografiche. Fu dalla metà dell’800 che iniziarono ad apparire. Indicavano sia la
manifattura che il tipo, come Tessar o Heliar. Presto però sull’ottone delle lenti fu inciso il nome della casa manifatturiera. Produttori storici e blasonati sono Voigtlander, Hermagis Paris, Baiser, Darlot (nel 1850s indicato
come Jamin-Darlot in Paris.[1] Nel 1860 divenne Darlot, costruendo lenti per fotocamere, siglate: “Darlot,
Opticien” o “Darlot Paris” e le iniziali “AD” di A. Darlot, con le lettere incrociate come logo.), Dallmeyer e altri
meno conosciuti. Dopo pochi anni, a seguito di contraffazioni di bassa qualità, le case iniziarono a tutelarsi
producendo lenti con impresso un numero di serie, che può essere oggi utilizzato per datarle con precisione;
alcuni riportavano la data, ma per la maggior parte si tratta di un codice numerico progressivo di per sé senza
significato; in Internet sono però reperibili tabelle almeno per le marche più importanti.
G
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Negli anni precedenti, in assenza di numero, la datazione di queste lenti può essere difficile. Ci sono tuttavia
alcuni elementi costruttivi che possono aiutare a stabilirne l’età approssimativa (fig 4.7). Inizialmente non erano
previsti diaframmi per ridurre l’apertura: tutta la luce che poteva arrivare serviva. Ma con l’introduzione del
processo al collodio (1851) il guadagno di sensibilità rispetto alla dagherrotipia consentì o addirittura obbligò
a ridurre l’apertura della lente per l’impossibilità di controllare tempi particolarmente rapidi, unica operazione
possibile fino all’avvento dell’otturatore. Nel 1855 James Waterhouse inventò così il sistema per ridurre l’apertura
posizionando degli “stop” metallici con fori di dimensione diversa, posti sul piano focale, attraverso una fessura
sul cilindro di ottone della lente (da essi nacque
il termine tecnico di stop
per indicare l’incremento unitario dell’apertura). L’operazione non
era onerosa e si diffuse
rapidamente, anzi alcune
lenti senza questa predisposizione vennero manomesse artigianalmente
spesso dai loro proprietari, creando un alloggiamento per gli stop.
L’avvento di diaframmi
mobili fu successivo. Alcuni tipi di diaframmi
come il Noton a “occhio
di gatto” (Noton cat eye 4.7 Elementi principali per datare una lente Petzval in assenza di numero di serie. Vedi testo.
105
Fascino e rigore del collodio
diaphragm) non ebbero sviluppo. Il diaframma ad iride (fig. 4.8) venne progettato nel 1857 da Harrison & Schnitzer e nel 1858 da Holmes, Boot e Hayden. Ma il merito principale va a Harrison. I diaframmi di oggi si basano sul
sistema di lamelle da lui inventato, così come certi otturatori centrali. Il costo
del diaframma ad iride però ritardò la sua immissione in commercio e a parte
eccezioni (che non possono essere comunque antecedenti al 1857) tali lenti si
diffusero dal 1870 in avanti.
Fig. 4.8 Diaframma a Iride.
Anche il pignone e la cremagliera possono costituire elementi identificativi
di un luogo e periodo di produzione: il tipo più comune è quello tangenziale,
ma alcuni modelli erano dotati di un meccanismo radiale, dove il pignone si
innestava perpendicolarmente al fusto. Questi tipi furono utilizzati in USA tra
il 1850 e la fine degli anni ’70, per ritornare al pignone tangenziale in seguito.
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Non è difficile reperire lenti Petzval girando un po’ per il web. È difficile reperire la lunghezza focale che vi
serve, in buono stato, a prezzo conveniente. La lunghezza focale determina l’utilizzo che ne farete, come abbiamo già avuto modo di dire. L’angolo di copertura non è brillantissimo essendo nato come lente per ritratto:
utilizzato a focali ridotte rispetto alle dimensioni del vostro fotogramma vignetta fortemente e non diventerà
mai un vero grandangolo, ma gli effetti che ne derivano potrebbero essere utilizzati ad arte.
Kodak AeroEktar
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Si tratta di obiettivi prodotti da Kodak per fotografia di ricognizione aerea, costruiti soprattutto durante la
seconda Guerra Mondiale. Lo schema ottico, i cementi ottici e gli strati di copertura delle lenti erano all’avanguardia della tecnologia e consentivano una luminosità eccezionale, che ancora oggi è il suo elemento distintivo.
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Sono stati fabbricati modelli da 7” (178 mm), f2,5, 12” (300 mm) f2.5 e 24” (610 mm) f6,0. Si tratta di lenti
che al contrario delle Petzval hanno una caratteristiche qualitative molto elevate e poche aberrazioni. Il 178mm
copre il 10X12 cm, il 610 copre più del 20X25 cm. Hanno però – oltre a una luminosità eccezionale – un bokeh
superbo, per cui sono ricercati soprattutto per la fotografia analogica su pellicola, con la necessità di essere montati su fotocamere dotate di focal plane shutter: tipicamente il 178 mm va sulle Speed Graphics (fig. 4.9), che
erano dotate di otturatore sul piano focale e si reperiscono nel mercato a prezzi accettabili e ottime condizioni
d’uso. Ottime lenti, costo accettabile, ma alla fine formati relativamente contenuti, per quello che molti collodisti desiderano. Le immagini possono essere interessanti e ce ne sono alcune in queste pagine.
Il problema maggiore (o uno dei dibattiti più rilevanti) sul web a proposito di queste lenti
riguarda la loro radioattività, legata non ad una contaminazione - come
spesso si trova scritto – ma ad un intenzionale inserimento di Torio nella
doppietta centrale delle 4 lenti cementate posteriori, allo scopo di migliorare l’indice di rifrazione. Il Torio è tra gli elementi naturalmente radioattivi più antichi della terra; la sua antichità è proprio
il segno che la sua radioattività è durevole nel tempo.
Questo porta a due conseguenze. La prima di ordine
protezionistico: l’emissione di raggi gamma da parte del
Torio e dei suoi prodotti di decadimento è sicuramente
in parte schermata sia dal cilindro metallico che dalle lenti
Fig. 4.9. Kodak Aero Ektar montata su Speed Graphic. Cortesia di
Anna Rita Melegari
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Fascino e rigore del collodio
Opalina
Il vetro opalino scuro, può essere utilizzato ma è duro oggi da reperire poiché, In Italia almeno, non è più
fabbricato, essendo il processo altamente inquinante. Si può trovare qualche pezzo vecchio, che era utilizzato
come ripiano per mobili, di spessore a volte considerevole (6 mm) che potrebbe non entrare in certi chassis.
Vetro nero
Anch’esso difficile da reperire, si trova come cristallo (costosissimo) o come vetro cattedrale a impasto nero.
Anche quest’ultimo non è economico, ma il suo costo è accettabile e dà risultati di grande impatto e soddisfacenti per la praticità d’uso. Assolutamente consigliabile. Verificate nel capitolo risorse come procurarvelo.
Sensibilità e misura esposimetrica del collodio
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La prima domanda che tutti fanno su questo argomento è: “a quanti ISO corrisponde il collodio?”. La domanda è posta male e la risposta giusta è che non c’è una risposta giusta. La stessa misura esposimetrica fatta
con un esposimetro tradizionale può implicare esposizioni di meno di un secondo o qualche minuto con sorgenti di illuminazione differenti.
ra
Il collodio, come altre metodiche analoghe (la dagherrotipia per esempio) è sensibile ad uno spettro ristretto
di luce, cioè alla luce cosiddetta “attinica”: quella capace di indurre modificazioni chimico-fisiche su un substrato fotosensibile. Le conoscenze in merito alla natura della luce sono più recenti di queste tecniche. Towler
nella seconda metà dell’800 scrive:“
ua
(…) can not always be determined beforehand, because of the variability of the light, and its actinic powers, of which we know as yet
absolutely so little. We can not determine the reason of the widely
diverse action of light at six in the morning, and six in the evening,
or at the vernal equinox, and the autumnal. 36
G
(...) non può sempre essere determinato in anticipo, a causa
della variabilità della luce, e del suo potere attinico, del quale
noi non conosciamo assolutamente nulla. Non possiamo determinare la ragione di azioni così ampiamente differenti della
luce alle sei del mattino, e alle sei della sera, o all’equinozio di
primavera e d’autunno.
Hurter e Driffield, gli inventori della densitometria, si sono
posti le stesse domande pochi anni dopo questa affermazione e hanno iniziato in modo empirico ma efficiente a misurare sia la potenza della luce attiva con un “attinometro”, sia
l’efficacia della luce nelle diverse ore del giorno e dell’anno,
36
146
Fig. 6.3 Attinografo di Hurter & Driffield.
J. Towler. The silver sunbeam. A practical and theoretical text-book on sun drawing and photographic printing: comprehending
all the wet and dry processes at present known, with collodion, albumen, gelatin, wax, resin and silver; as [sic] also heliographic
engraving, photolithography, photozincography, celestial photography, photography in natural colors, tinting and coloring of photographs, printing in various colors, the carbon process, the card-picture, the vignette, and stereograph. NY JH Ladd publ. 1864.
Pag 123. disponibile a: https://archive.org/
Fascino e rigore del collodio
Fig. 6.4 Grafico di H&D con la distribuzione nell’anno della luce attinica. I grafici illustrano le curve ottenibili con l’attinografo, che esprimono l’intensità della luce attinica.
Si può notare che sono riprodotti solo 182 giorni dell’anno, poiché
“owing to the fact that to each day between the 12st December and the 21st
June there is a corresponding day between the 21st June and 21st December
on which the intensities of the light is the same, it is not necessary to mark
the curves for the whole year; it suffices to calculate and mark them for half
of the year; and to place on the opposite side another scale of dates returning
from 22nd June to the 21st December in contrary directions”.
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In alto: grafico alla latitudine di 53°7’, alle 10:00 del mattino.
ra
In basso grafico alla latitudine 0° (Equatore) in diverse ore del giorno.
Da “Specification of Ferdinand Hurter and Vero Charles Driffield. AD
1888, 14th April. No 5545 Improvements in instruments for calculating photographic Exposures” In: “The photographic researches of
Ferdinand Hurter & Vero C. Driffield”. Pag 50. Ed. by W.B. Ferguson.
Published by The Royal Photographic Society of Great Britain 35, Russell Square, W.C. 1920
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ma che noi non sentiamo; nella similitudine, noi siamo il collodio e il cane fa la parte dei nostri occhi. Gli
esposimetri comuni sono tarati sui valori dello spettro visibile di più comune rappresentazione in natura, cioè
sulle frequenze giallo-verdi e misurano pertanto una luce inefficace nella fotografia al collodio, ma soprattutto
non danno alcuna informazione sulla presenza di altre componenti dello spettro. Esistono misuratori di illuminazione UV, che non sono costruiti a scopo fotografico e pertanto forniscono valori assoluti di illuminazione ma non danno un risultato immediatamente utilizzabile per tarare tempi e diaframmi per una esposizione
corretta.
Così può accadere che una luce fredda e bluastra del mattino invernale possa richiedere esposizioni inferiori
di una luce ai nostri occhi più vivida, come quella di un tramonto estivo.
Mentre però la luce diurna contiene sempre tutto lo spettro luminoso (anche se in quantità diversa nelle
diverse ore del giorno, temperature, stagioni, latitudini e longitudini, luce diretta o ombra), un’illuminazione
artificiale emette uno spettro di frequenze elettromagnetiche ristretto, con una frequenza dominante (quella
indicata in gradi kelvin dai costruttori della lampada) e un’estensione laterale nello spettro che rapidamente va
verso lo zero. Luci a incandescenza portano poca luce utile; bisogna usare luce molto fredda (alti gradi Kelvin)
e spesso molto intensa, per sfruttare non tanto il picco che è quello che ferisce i nostri occhi mentre continua
a impressionare poco gli alogenuri, ma la sua emissione più blu e soprattutto UV, che è di intensità inferiore.
Il rimedio che spesso viene alla mente come possibile soluzione, di filtrare con filtri blu una luce gialla, non ha
alcun significato, perché non aggiunge luce utile, ma si limita a sottrarre quella inefficace.
Lampade ad emissione di luci UV intense sono dannosi per gli occhi e anche per la pelle, e non sono consigliabili per ritratti. Occorre dunque utilizzare luci ad alta temperatura cromatica.
148
6 - Collodio positivo
Luce di una candela: circa 1 000 K
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Lampada a incandescenza da 40 W: 2 650 K
Lampada fluorescente extracalda: 2 700 K
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Sopra: Fig. 6.5 A destra spettro del collodio (per gentile concessione di
© Niles Lund) e a sinistra spettro della luce visibile, all’interno dello
spettro delle onde elettromagnetiche.
A lato: Tab 6.2 Corrispondenza tra le temperature cromatiche espresse
in gradi Kelvin e alcune sorgenti luminose comuni
Lampada a incandescenza da 75 W: 2 820 K
Lampada a incandescenza da 100 W: 2 900 K
Lampada a incandescenza da 200 W: 2 980 K
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Oggi le lampade CFL (Compact Flash Light) o a LED, a
basso consumo energetico e bassa emissione di calore, sono
disponibili ad elevate frequenze e sono utilizzabili su bank con
attacchi comuni, E27, reperibili a costo contenuto (vedi risorse) o anche costruibili in autonomia, sempre per chi ha l’hobby, il tempo e gli attrezzi per il bricolage (o un amico che abbia
tutte queste cose e la disponibilità a mettervele a servizio).
Amici e gratuità a parte, ritengo che il rapporto costo qualità
e a volte anche i costi assoluti dei prodotti già finiti siano vantaggiosi rispetto a quelli di una commissione artigianale. Io
mi trovo bene con un gruppo di Philips master PL-Electronic
(PLE-R 33W/865) montate su bank della Fotodiox (Fotodiox C-12600 Cool Light – 16 Bulb Light Fixture for compact fluorescent Energy saving Bulbsé - w/Softbox mounting
holes). Il bank è economico e ben fatto. Essendo americano è
progettato per il loro voltaggio ma ho verificato che le luci non
si bruciano, attaccandolo alla nostra tensione di 220V. Ho trovato altri bank con attacco E27 a costo contenuto presso CR
Fotoingrosso che commercializza Benel in Italia. Ma certo
ognuno può metterci del proprio, quel che conta è il risultato
finale. È bene avere almeno due bank, uno principale e l’altro
per schiarire-bilanciare. Può essere utile un faretto singolo per
un’ulteriore illuminazione del fondo.
Lampada a incandescenza da 60 W: 2 760 K
Naturalmente lo scopo di tanta luce è essenzialmente quello
del ritratto, dove occorre minimizzare i tempi di posa, mentre
Lampada fluorescente cosiddetta “bianco caldo”: 3 000 K
Lampada per uso fotografico da 500 W: 3 400 K
Lampada fluorescente cosiddetta “bianco neutro”: 3 500 K
Lampada fluorescente cosiddetta “bianco freddo: 4 000 K
Luce solare diretta al mezzogiorno locale : ~4 900 K (parametro influenzato da stagione e latitudine , limpidezza e umidità
atmosferica)
Lampada fluorescente cosiddetta “luce normalizzata” (D50)
per processi di stampa e pre-stampa: 5 000 K
Bianco puro, o “punto acromatico di riferimento”, corrispondente al punto di eguale energia nel diagramma CIE: tra
5 455 e 5 500 K
Luce solare al di fuori dell’atmosfera terrestre: 5 777 K (non equivalente all’analoga temperatura di un ipotetico corpo nero)
Luce d’ambiente in pieno giorno: ~6 500 K
Lampada fluorescente diurna: 6 500 K
Luce del cielo totalmente nuvoloso: ~7 000 K
Lampada fluorescente superdiurna: 8 000 K
Luce del cielo parzialmente nuvoloso: tra 8 000 e 10 000 K
Luce del cielo sereno: normalmente tra 10 000 e 20 000 K
Per quanto riguarda le lampade fluorescenti, la normativa UNI
12464 parla di:
“bianco caldo” per temperatura di colore inferiore a 3 300 K
“bianco neutro” per temperatura di colore compresa tra 3 300
e 5 300 K
“bianco freddo” per temperatura di colore superiore a 5 300 K
149
Fascino e rigore del collodio
Soluzione alcoolica Bromo-iodizzante
Alcool Etilico
Collodio in grado puro (~6%)
100 ml
200 ml
300 ml
La soluzione di lavoro deve maturare completamente ed è pronta per l’uso in 2-3 giorni
Maturazione
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Alcune formule danno origine ad una soluzione fresca, lattiginosa (fig 6.9), che non deve essere
utilizzata poiché il precipitato può creare macchie
nell’immagine finale, visibili specialmente nei
negativi. Lasciando il collodio in pace per alcuni
giorni, il precipitato si scioglie e in parte sedimenta in uno strato sottile e bianco sul fondo del contenitore (fig. 6.10). Contemporaneamente al processo di schiarimento, avviene anche un processo
di maturazione, che consiste in una modifica dei
costituenti chimici, con liberazione di Iodio libero, responsabile del colore rosso che inizialmente
carica il giallo verso toni aranciati giungendo progressivamente a rossi intensi, vinosi. Per questo il
colore del collodio è un indicatore della sua età,
anche se il comportamento cambia da formula a
formula, e da persona a persona. Il collodio fresco
è più sensibile ma tende maggiormente alla vela- Fig. 6.9 Aspetto lattiginoso del collodio appena preparato in tre
formule differenti: due varianti della Workhorse formula e una
tura, per cui è raccomandabile un po’ di invecchia- Poe boy.
mento. L’assenza di fogging è importante soprattutto negli ambrotipi, dove le ombre devono essere trasparenti; il collodio invecchiato dà maggiori densità e
maggior contrasto, che è benefico anche per i negativi. Invecchiando troppo perde sensibilità, che non va bene
a nessuno. Per velocizzare il processo di maturazione, sostituire con Ioduro d’Ammonio lo Ioduro di Potassio,
come già detto, o aggiungere 2-3 gocce di tintura di Iodio o di collodio vecchio. Forzare la maturazione del
processo accorcia però anche la vita del collodio.
L’aggiunta di acetone (0,5 ml per 75 ml di collodio) può “ringiovanire” le soluzioni di collodio. Anche l’utilizzo di alcool denaturato (bianco, vedi pag 154) che contiene un chetone (MEK), ottiene un risultato analogo.
Il colore si schiarisce per adsorbimento dello Iodio
Fig. 6.10 Anello di precipitato biancastro al termine della chialibero.
Conservazione
Il collodio fotografico va conservato in una bottiglia di vetro a bocca larga con un tappo a buona tenuta. Mai conservarlo in un contenitore di
plastica, perché la corrode, a meno che si tratti di
contenitori destinati alla conservazione di prodotti chimici. L’ideale sarebbe di mantenere la botti164
rificazione.
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6 - Collodio positivo
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Broken. Clear Glass ambrotype, verniciato sul retro. Fatif view camera. 20X25. Rodenstock Sironar 1:6,8/360mm (6 836
747). Ott: Compur 3. New Guy. Luci artificiali. Sviluppo standard con Solfato ferroso e aggiunta di acido nitrico. Fissaggio
in Tiosolfato 15% freddo.
glia piena, altrimenti l’evaporazione dei solventi ne altera le proprietà. Conservare il collodio in un ambiente
freddo e buio ne aumenta la durata. Il collodio non va agitato: nel tempo, sedimentano molte particelle solide
sul fondo della bottiglia. Scuotendolo, tornano in sospensione e creano artefatti noti come “comete”.
Bagno al Nitrato d’argento
Il collodio diviene fotosensibile solo dopo aver reagito con il Nitrato d’Argento. Come un gioiello, un bagno
d’argento è per sempre. Se se ne ha cura, dura indefinitamente, richiedendo di essere ricostituito con soluzione
fresca, a patto che se ne faccia una manutenzione ordinata e periodica.
Le caratteristiche fisico-chimiche della soluzione di nitrato d’argento sono tra i determinanti principali
dell’esito di questa metodica. La mancanza di metodo nella manutenzione periodica, ordinaria e straordinaria
del bagno d’argento si paga con grossolani artefatti e fallimenti. Anzi, quando va male qualcosa e ripercorrete
165
Fascino e rigore del collodio
i passi nel tentativo di individuare l’errore, ricordatevi sempre di considerare il bagno d’argento. Non sarebbe
male avere due bagni d’argento, uno di backup, da utilizzare in caso di danneggiamento imprevisto.
Il nitrato d’argento è utilizzato in molte tecniche fotografiche, disciolto in acqua distillata, ma a differenti
concentrazioni. Per il collodio si usa una soluzione al 10%. 10% è però una indicazione di massima. Scully e
Osterman suggeriscono di dissolvere 28 g di nitrato d’argento in 350 ml di acqua (8%), mentre Indra Moreen
e Quinn Jacobson parlano di 90 g in un litro (9%, come suggerito anche da John Smiegel nel suo blog “unblinking eye” rintracciabile in Internet). Christopher James dice di mettere 28 g in 400 ml (7%).
Direi che tra l’8 e il 10 sta la media. Concentrazioni più alte sono solo più costose, ma non dannose. Più nitrato, più densità. Più che non decidere la concentrazione giusta è importante standardizzare il vostro personale
flusso di lavoro, mantenendo una concentrazione stabile e tararvi su quella.
Preparare il bagno d’argento
Leggere la densità
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Il nitrato d’argento si scioglie in acqua rapidamente e con facilità. Nessun problema a lavorare in piena luce
per tutte le operazioni di gestione del bagno di nitrato. Quando la lastra è sensibilizzata bisogna invece proseguire con una luce rossa di sicurezza.
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Una volta sciolti i cristalli, prendete un cilindro di vetro e
metteteci dentro un densimetro (v. pag. 69). Riempite il cilindro con la soluzione fino a che il densimetro inizia a galleggiare.
Leggete il numero sulla scala graduata, al livello della soluzione
(vedi figura 6.11) e registratelo (o segnatelo sul densimetro)
per i successivi controlli. La densità dell’acqua è 1 (o 1,000) g/
cm3. I valori di densità sono espressi talvolta in mg/cm3 (1070
invece di 1,070). Il densimetro ha una scala che per favorire la
leggibilità riporta solitamente i tre decimali a destra della virgola, quindi una densità di 1070 o di 1,070 si legge 070. Questo
è il valore che esprime la forza del vostro bagno d’argento. Un Fig. 6.11 Lettura della densità: a sinistra, tratto dal
manuale della Kodak edito nel 1935: modalità corbagno fresco al 10% ha valori alti, di 1085, mentre all’8% miretta e scorretta di fare la lettura.
sura 1070 (vedi tabella pag 250); lavora ancora decentemente
fino a 1040. Utilizzando il bagno possono succedere due cose: l’argento si consuma più rapidamente dell’acqua
(la soluzione si diluisce e la densità scende) oppure l’acqua evapora (la soluzione si concentra e la densità sale)
Valori più alti devono essere diluiti. Valori più bassi richiedono un’aggiunta di nitrato d’argento: aggiungete
qualche grammo, sciogliete e leggete di nuovo. Fermatevi al valore desiderato.
Testare l’acidità
Misurate il pH della soluzione con una striscia o un pHmetro (Piaccametro). Dal punto di vista teorico il
bagno di nitrato d’argento fresco dovrebbe essere debolmente acido (pH vicino a 5) quando sciolto in acqua
distillata. Tuttavia anche il pH dell’acqua varia. Un bagno di nitrato che è stato utilizzato, cambia il proprio
pH per effetto delle sostanze che vi si aggiungono e dei prodotti di reazione che si formano come conseguenza
diventando di norma più acido con l’uso.
Un pH alto (bassa acidità) tende a dare fogging e ridurre la sensibilità: un bagno vicino alla neutralità (neutralità = pH 7) non deve essere utilizzato. Acidità eccessive invece significano meno sensibilità e meno densità
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7 - Wet plate: il processo passo a passo
2-Stesa del collodio
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È un momento delicato, che richiede una certa pratica per essere effettuato accuratamente e con uniformità. È la sorgente dei
difetti e delle imperfezioni tipiche del collodio e rilevabili ai bordi
della lastra. C’è chi dice che l’imperfezione è la firma dell’artigianato, ma io sono di parere contrario. I violini di Stradivari e
Guarneri erano diversi l’uno dall’altro, ma ognuno pressoché perfetto, e di una perfezione ineguagliabile con la serialità industriale, perché segnata dall’individualità che rende l’opera artigianale
sempre unica. Quando guardiamo le lastre dei collodisti più bravi,
ci accorgiamo che i bordi sono spesso impeccabili. Se poi andiamo a ripescare le lastre dei loro primi anni di attività, possiamo
vederne le differenze: come quelle di ognuno di noi sono destinate
a migliorare nel tempo. Questo miglioramento richiede però che
la qualità sia un obiettivo da perseguire e soprattutto che l’imperfezione non diventi l’alibi per mascherare l’incapacità. Sally
Mann è un’artista particolare che ha giocato la propria espressività
soprattutto negli autoritratti mettendo assieme puzzles di lastre
caratterizzate da grandi imperfezioni ma vibranti di una capacità
comunicativa unica. Assoggettate ad uno scopo, le imperfezioni
possono diventare mezzo espressivo, ma solo nella misura in cui la
libertà individuale sia in grado di utilizzare coscientemente le proprie abilità. Come ogni gesto che richiede esperienza, nelle mani
degli esperti sembra facilissimo, ma occorre un periodo di apprendistato. Quindi mettete in conto un po’ di disappunto iniziale. Lastre grandi sono di difficile gestione. Le lastre piccole sembrano
più facili ma io ritengo che si rischi di invaderle di collodio senza
il tempo per riflettere sui gesti. Penso che la misura migliore per
iniziare sia il 13x18cm. Ognuno trovi la sua strada.
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Metodi per reggere la lastra (holding the
plate)
Fig. 7.2 Come reggere la lastra. Dall’alto: cantilever method, server tray method, suction cup
method (vedi testo).
Il motivo per cui la gestualità è importante è che non si può esitare e soprattutto non si può tornare indietro
per ricoprire aree scoperte o sanare errori di qualsiasi tipo. Quel che è fatto è fatto. Prima della spiegazione, se
non l’avete ancora fatto, guardate i molti (ormai innumerevoli) video su Youtube e su Vimeo, che valgono più
di molte parole. Le figure spero aiutino un poco. Il processo può avvenire in piena luce, e quanto più è garantita
la ventilazione, meglio è. Per cominciare, ci sono tre modi di reggere la lastra (fig. 7.2).
•
•
Il primo è di reggerla dal di sotto, come fanno i camerieri con i vassoi (Waiter-tray method), utilizzando
il pollice e le tre dita centrali della mano garantendo una sospensione stabile.
Il secondo è il metodo della mensola (Cantilever method) che prevede di usare il pollice per tenere
l’angolo mentre il medio (e l’indice per chi si trova comodo) la reggono, bilanciando il peso ma senza
stringerla. Può anche essere decisamente afferrata (crabber pinch claw method: come con la chela di un
granchio).
181
Fascino e rigore del collodio
•
Il terzo metodo è l’utilizzo di una ventosa (suction-cup method) che si applica al centro del vetro e si
impugna dopo essersi assicurati della sua stabilità.
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Tutti e tre i metodi erano utilizzati nell’800, lo dico per
i puristi, che possono essere tranquilli di non venir meno
nell’onore (fig. 7.3). I primi due metodi sono i più utilizzati.
In parte dipendono dalla comodità personale. Di certo lastre
molto grandi non possono essere rette dall’angolo, anche per
il rischio di tagliarsi (attenzione se si utilizza il KCN!!!). L’alluminio è molto leggero. Il vetro pesa di più: fino al 20X25
anche 3 mm di spessore si reggono molto bene. La ventosa
NON VA usata per la verniciatura, poiché potrebbe generare
degli aloni visibili a causa della differenza di temperatura.
A tal proposito mi occorre di dire che si leggono commenti
preoccupati che il calore delle dita che reggono la lastra nel Fig. 7.3 Pneumatic plate holder. Da: van Monckhowaiter-tray method possa dare qualche guaio analogo, ma ven, Désiré van. A Popular Treatise on Photography.
Translated By W.H. Thornthwaite. London, 1863
non è così se non quando è molto freddo e lo scarto di temperatura è maggiore. John Coffer comunque lo liquida come
bufala nei suoi “Mith buster” e di fatto molti professionisti usano questo metodo senza alcuna preoccupazione in range di temperatura accettabili.
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Ci sono altri pro e contro. Il cantilever method lascia un angolo scoperto. Il waiter tray method potrebbe
lasciar scivolare la lastra in alcune situazioni (umidità, sudore o sporcizia delle dita, freddo eccessivo …).
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Occorrono due bottiglie: una con il collodio da versare, l’altra per raccogliere l’eccesso. Questo eccesso non
va buttato (più grandi sono le lastre più collodio si raccoglie) ma riutilizzato dopo averlo lasciato decantare
dalle impurità che inevitabilmente si raccolgono al suo interno, previa filtratura (con palline di cotone o dischi
come quelli che si usano per la pulizia del viso: andrebbero imbevuti di alcool prima del filtraggio, per non
impoverirne ulteriormente la concentrazione) o sifonatura (vedi pag. 68). Inoltre il collodio versato sulla lastra
lascia evaporare alcool ed etere con rapidità, perché è esposto all’aria con una superficie ampia e uno spessore
trascurabile. Dunque il collodio recuperato andrebbe anche ricostituito di alcool ed etere. Quinn Jacobson suggerisce 10% della quantità totale di collodio, per entrambi. Questo a meno che ricostituiate piccole quantità di
collodio fotografico che pensate di utilizzare in sessioni molto brevi. In tal caso raccogliete pure il collodio nella
bottiglia stessa da cui lo versate. Controllate il bordo della bottiglia e rimuovete eventuali tracce di collodio
seccato a seguito di stese precedenti, sia per evitare che qualche pezzetto cada sulla lastra, sia per non ostacolare
la regolarità del flusso mentre versate.
Stesa del collodio (Flowing the plate)
Le fasi sono schematizzate in figura 7.4. Tenendo la lastra in bolla, versate il collodio al centro della
lastra, lentamente e con fermezza. Ricopritene un’area ampia: per rendere l’idea, fate in modo che l’area
di collodio giunga vicino ai bordi del vetro lungo il lato più stretto; bisogna ottenere un lago circolare:
l’orizzontalità della lastra è determinante, altrimenti il collodio fluisce per gravità verso il lato declive. Se
siete in dubbio, meglio di più che di meno. È il momento migliore per appoggiare la bottiglia da cui avete
steso il collodio e prendere l’altra: da adesso sarete impegnati a controllare lo scorrimento del fluido e non
è il caso di distrarsi.
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7 - Wet plate: il processo passo a passo
Sapendo da quale angolo raccoglierete il collodio in eccesso, considerate che quell’angolo è il punto dove deve terminare il processo di
stesa. Se utilizzate il cantilever method come in figura, questo è l’angolo
libero vicino a voi. A questo punto inclinate un poco la lastra dirigendo
il flusso verso l’angolo opposto alle vostre dita. Vedrete che il collodio
corre lungo i bordi da cui (se l’inclinazione non è troppo accentuata)
viene trattenuto per motivi di tensione superficiale: i bordi diventano gli
argini del flusso. Giunti all’angolo cambiate direzione e fate percorrere i
tre angoli in ordine terminando con quello dove afferrate la lastra.
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A questo punto inclinate per l’ultima fase la lastra giungendo verso
l’ultimo angolo: in questo momento riportate la lastra quasi orizzontale, senza fretta, perché è il momento in cui si rischia maggiormente
di sbrodolare collodio fuori dalla lastra. Una volta che l’angolo finale
è raggiunto o quasi, aumentate la pendenza in modo deciso avendo
predisposto al di sotto la bottiglia di raccolta. Nulla vieta di utilizzare il
verso opposto orario o antiorario che sia a seconda che teniate la lastra
con la destra o la sinistra: basta che gli angoli siano in ordine terminando con quello giusto.
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Fate colare l’eccesso e iniziate a far ondeggiare la lastra (rocking the
plate) nelle direzioni indicate in figura dalle frecce, verso i lati; molti usano l’angolo nel collo di bottiglia come un perno di rotazione. Il
collodio inizia a solidificare subito, a contatto con l’aria, essendo distribuito in un film ampio e sottile; si formerebbero quindi increspature
diagonali nel verso del deflusso: i movimenti servono ad evitare questo
problema. Se si formano bordi molto spessi lungo un lato, si può appoggiare la lastra su un panno o un foglio di carta tipo Scottex e lasciare che
per capillarità assorba questo eccesso.
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Alla fine riportate la lastra in posizione orizzontale (osservatene la
superficie che deve essere regolare e liscia) e tenetela fino a che il collodio inizia a indurirsi: la pressione del dito sull’angolo deve generare
un’impronta ma lasciare intatto il film. Se il collodio non è sufficientemente asciutto, durante l’immersione si formano delle striature nel verso del flusso (v. troubleshooting pag. 198 e fig. 7.15), e maggiori all’impatto con il liquido; probabilmente questo avviene perché il nitrato
non “aggrappa” come dovrebbe o comunque non lo fa uniformemente;
quando invece il collodio inizia ad asciugare, diventa più spugnoso e
le forze di adsorbimento sono maggiori. È un problema che capita
più facilmente alle basse temperature, dove i tempi di ogni processo
chimico fisico si allungano e ancora di più in caso di contaminazione o
esaurimento del bagno.
“Il collodista esperto non fa mai colare una goccia dal bordo”: balle. State su
una bacinella tanto prima o poi qualcosa va giù. Il collodio non fa danni,
si toglie dopo che si è asciugato, ma lo Iodio alcoolico può macchiare.
Fig. 7.4 Flowing the plate. Vedi testo.
183
Fascino e rigore del collodio
Lastre scure con molto contrasto e neri vuoti
È il problema inverso. La sottoesposizione è il meccanismo che le rende così. Difficilmente si sottosviluppa
una lastra, dato che la si controlla a vista. In queste situazioni le luci compaiono tardi e anche allungando i tempi
di sviluppo la densità non cresce come dovrebbe; prolungare un poco lo sviluppo può aver qualche significato,
ma entro certi limiti, altrimenti compare inevitabilmente un fogging chimico (vedi figura 6.2).
Velatura – Fogging e Silver staining
È definito come la precipitazione non voluta (non desiderata) di molecole d’argento. Il fogging può essere di
due tipi principali: quello dovuto a contaminazioni di luce (light fogging) e quello chimico (chemical fogging). In
entrambi i casi occorre un nucleo di innesco che poi procede spontaneamente o per effetto dello sviluppatore.
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Il light fogging dipende da infiltrazioni di luce causate da cattiva tenuta del soffietto, dello chassis, o della
camera oscura (in tale sede potrebbe dipendere anche da lampade di sicurezza non adeguate). Il nucleo è a tutti
gli effetti una immagine latente, formata da alogenuri inavvertitamente esposti alla luce, che compaiono in fase
di sviluppo come per le altre componenti dell’immagine e ne condividono la sede: sono cioè all’interno dello
strato di piroxilina. Questo pericolo è modesto per il collodio, grazie alla sua bassa sensibilità, richiede un po’ di
attenzione ma non ossessiva. Per chi è alle prime esperienze con un banco ottico, va ricordato che la luce frontale può infiltrarsi e rimbalzare dentro il soffietto causando fantasmi di luce che non si sarebbero mai formati con
una reflex: utilizzare un paraluce può essere determinante; un sistema semplice è quello di adoperare a questo
scopo lo stesso volet (dark slide) dello chassis per ridurre le infiltrazioni di luce durante lo scatto.
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Tutt’altro discorso per il chemical fogging (f. chimico). Qui si tratta di argento non esposto, che precipita ad
opera dell’effetto chimico dello sviluppatore. Questo è molto frequente in metodiche come queste proprio per
l’eccesso di nitrato d’argento richiesto per il corretto funzionamento del meccanismo di amplificazione a cascata, di cui abbiamo già parlato. Il collodio fresco dà più facilmente fogging, poiché reagisce con maggior vigore
(ed è infatti più sensibile). Così accade nei climi più caldi e umidi (il caldo rende più rapidi i processi chimici).
L’acido acetico agisce come restrainer e un modo per ridurre il fogging può essere quello di aumentarne un poco
la quantità nello sviluppatore o di sostituirlo – in alcune formule – o addizionarlo – in altre – con zucchero da
cucina. Naturalmente il fogging può dipendere da un pushing eccessivo dello sviluppo per tentare di recuperare
lastre sottoesposte; non fatelo mai: ciò che è perso nelle ombre non lo guadagnate e in cambio ricoprite la lastra
di velo. Questo fogging, comunque, si forma preferenzialmente sulla superficie dello strato di piroxilina e non
in profondità. Si riconosce infatti perché passando un dito o del cotone bagnato (dopo il fissaggio!) si pulisce,
mentre non è così semplice levare l’immagine (occhio, che è semplice comunque danneggiare l’effetto finale, per
cui fatelo solo se sapete quello che state facendo). Se il fogging è lieve, può essere rimosso anche con un fissatore
come il KCN che se lo mangia via.
C’è poi un terzo tipo di fogging che è frequente nella stampa argentica moderna, soprattutto utilizzando
chimici scaduti. Si forma in questi casi per effetto di contaminanti come solfuri d’argento che alcune emulsioni contengono. Si tratta di particelle piccole che possono crescere prevalentemente per effetto di sviluppatori
“fisici”, che apportano cioè argento dall’esterno che va a complessarsi con i composti che devono essere resi
visibili. I rivelatori di impronte digitali utilizzati dagli investigatori di CSI per esempio funzionano così. Gli
sviluppatori moderni sono tutti sviluppatori non fisici, e possono produrre questo tipo di fog quando il residuo
di sviluppatore interagisce con un fissatore soprattutto se esausto e ricco di argento. In tal caso si formano
macchie argentiche (silver stains) che possono prendere l’aspetto di un fogging dicroico. Il fogging dicroico è
quello che si presenta iridescente, verdastro in luce riflessa e rossastro in luce trasmessa; questo effetto dipende
dalla deposizione di argento finemente disperso. Tende a comparire attorno alle zone di maggior densità, per
poi estendersi per effetto del trascinamento di bromuri che amplificano il processo.
194
G
ua
ra
ld
i
7 - Wet plate: il processo passo a passo
Fig. 7.10 Fogging chimico da Silver staining. Vedi anche testo.
Sono mostrate alcune lastre realizzate con tre differenti lotti di alluminio nero anodizzato. Sono stati tutti esposti alla stessa
sorgente luminosa, per lo stesso tempo e sviluppati con chimici freschi ottenendo un medesimo grado di sviluppo. Il fogging
è comparso durante il fissaggio, partendo dai contorni dell’immagine e progredendo a tutta la lastra. Da sin a dx e dall’alto
in basso: le lastre 1, 2 e 3 sono state realizzate con i tre diversi lotti, sono state fissate in tiosolfato 30% e si vede che l’effetto è
simile qualitativamente ma non in intensità; un’altra serie di scatti è stata fatta con le lastre 1 e 3, utilizzando KCN: i risultati
sono migliori ma ancora inaccettabili (lastre 4 e 5). La figura 6 è la stessa scena su un vetro nero, per paragone.
195
g
I
l negativo al collodio, oltre al fascino che la metodica può offrire a chi la pratica, ha caratteristiche
ld
i
proprie che lo rendono interessante e unico. Si presta inoltre a coprire formati non standardizzati, per i quali
il reperimento di pellicole potrebbe essere decisamente più complesso e costoso, e soprattutto consente un
controllo della densità efficace e ineguagliato. Al problema della densità è bene dedicare qualche riga, con l’obiettivo di accennare ai termini principali della questione; i concetti di densitometria, DR, Indice di contrasto,
Gamma, Sviluppo selettivo, Latitudine di posa, ecc…, necessari per una comprensione di queste dinamiche,
saranno invece trattati approfonditamente al capitolo 8 del volume secondo, dedicato alle stampe in carte salate.
Si tratta però di concetti comuni a qualsiasi tecnica fotografica. Chi non li conoscesse penso farebbe bene a
dedicarci un po’ di tempo e fatica, che sarà ben ripagata al momento di applicarli praticamente.
ra
La questione della densità in fotografia
G
ua
Quando guardiamo una scena per fotografarla, dovremmo già aver previsto il suo risultato finale, che per ogni
negativo è la sua corrispondente stampa positiva. Il negativo è incapace di rendere la gamma tonale percepibile
dall’occhio umano, ma riesce comunque a riprodurre una scala tonale distribuendola in un intervallo di una
ampiezza soddisfacente all’occhio in termini di ricchezza dinamica. La stampa – qualunque sia la tecnica utilizzata – consente di riprodurre i toni registrati dal negativo (dalle alte luci alle ombre profonde) in un intervallo
sempre inferiore alle sue possibilità, perché la luce è riflessa e non trasmessa; per questo la stampa è il collo di
bottiglia della fotografia, poiché le potenzialità del negativo verranno inevitabilmente compresse al momento
della produzione del positivo. È necessario pertanto produrre un negativo il cui intervallo tonale corrisponda
il più possibile a quella determinata tecnica di stampa, così da ottimizzare la resa in termini di intervallo di
contrasto, posizionando le luci e le ombre ai due estremi della gamma tonale ottenibile sul foglio. Tecniche di
stampa differenti riescono a risolvere intervalli di contrasto di diversa ampiezza e dunque la scelta della stampa
non è indifferente al tipo di negativo e vice versa.
Conoscere il mezzo consente di utilizzarlo al meglio per garantire la massima efficienza comunicativa: lo
scatto, lo sviluppo e la stampa dovrebbero essere concepiti come un unico flusso di lavoro, prefigurando le
possibilità del negativo e della stampa con cui sarà realizzata l’immagine finale, in modo che l’ampiezza tonale
della scena che l’occhio vede nella realtà possa essere adeguatamente condensata, sintetizzata, in una modalità
espressiva a gamma tonale più stretta, ma sufficientemente efficace a comunicare ciò che il fotografo ha visto e
ha deciso di far vedere. L’intervallo di toni ottenibile con una stampa si definisce textural range (mal traducibile
in range texturale) e comprende l’estensione di densità del deposito di pigmento (in questo caso argento) che
va da una densità massima ma in qualche modo strutturata (dove cioè l’immagine mantiene un minimo dettaglio), alla densità minima che abbia anch’essa una struttura e che non sia cioè la carta pura, priva di qualsiasi
modificazione. L’intervallo utile in fotografia è un po’ più ristretto del range texturale, che rimane di applicazione solo teorica, poiché l’occhio non percepirebbe tutti i dettagli nelle ombre più profonde né distinguerebbe
205
Fascino e rigore del collodio
i primi accenni di deposito di pigmento, analizzabili solo con strumenti ottici; questo intervallo che l’occhio
può percepire è definito range pittorico ed è contenuto in quello texturale. Non è espandibile oltre certi limiti
ed è strettamente dipendente dalla tecnica stessa. Da questo intervallo di densità previsto per la fase di stampa,
dipenderanno la decisioni di come esporre e poi sviluppare il negativo, che deve garantire non solo la corretta
separazione tonale dei grigi intermedi, ma soprattutto la corrispondenza della differenza tra la sua densità massima (alte luci) e minima (ombre profonde) con quella che passa tra la densità del bianco e del nero della stampa
finale. L’intervallo di densità (density range: DR) del negativo (o il suo indice di contrasto che identifica un
concetto simile ma non identico) non può essere maggiore di quello della stampa, altrimenti verranno “tagliati”,
persi i toni estremi, bruciando le ombre o le luci, ma non deve essere neppure inferiore, perché si otterrebbero
ombre senza saturazione o luci scure. Non esiste dunque un intervallo di densità “giusto” in assoluto, ma sempre
in relazione alla metodica con cui il negativo dev’essere stampato.
Si può dire allora che lo scopo dello sviluppo è quello di ottenere il range di densità adeguato per quel dato
metodo di stampa. Visto al contrario, dato un certo negativo, con una certa estensione tonale, la scelta della
tecnica più adeguata renderà la stampa più efficace nel rappresentare la scena per come l’abbiamo desiderata.
Density Range
G
ua
Densità
ra
ld
i
Ciò che i fotografi fino al 1890 facevano contando solo sul loro intuito ed esperienza, ha iniziato a diventare
oggetto di esplorazione scientifica con i lavori di Hurter e Driffield, attraverso lo studio della curva dose-risposta dei materiali fotosensibili. Ne parleremo per esteso al capitolo 8 del volume 2, qui ne riassumiamo i tratti
fondamentali in figura 8.0. La curva
è costruita in un grafico che esprime
Fig. 8.0 Curva caratteristica, Density Range ed Exposure scale
la densità che si ottiene per intensità
2.4
crescenti di esposizione; questa curva
2.2
è chiamata “curva caratteristica”: carat2.0
1.8
teristica appunto di ogni emulsione fo(90% massima densità)
DMAX
1.6
tografica per quel dato metodo di svi1.4
luppo. Questa scoperta, oltre a segnare
1.2
un punto di non ritorno nella fotogra1.0
fia (in grado di mandare in crisi pro0.8
fonda certi fotografi naturalisti come
0.6
Emerson - vedi pag. 56), ha posto le
0.4
DMIN
basi della moderna densitometria, cioè
(+0,04 dalla Base + fog)
0.2
della misurazione del range di densità Base + fog
1 Scale
2
3
0.0
Exposure
di un negativo o di una stampa espresLogaritmo Esposizione (Millilux / secondi)
sa in termini di scarto logaritmico tra
la maggiore e minore densità in quel
particolare negativo. Nel linguaggio tecnico usuale ci si riferisce al range di densità definendolo semplicemente
“densità”, ma quando esprimiamo questa densità con numero, non indichiamo la densità assoluta, ma l’estensione dell’intervallo tra la parte più trasparente e quella più opaca nel caso di un negativo e tra quella più chiara
e più scura nel caso di una stampa.
L’avvento delle stampe a gelatina d’argento ci ha abituati a contrasti superiori a quelli delle stampe antiche
in carta salata, o all’albumina. Questi dipendono dall’intensità assoluta del nero ottenibile nelle ombre, rispetto
alla lucentezza della carta bianchissima che l’industria ha saputo proporre. In realtà la stampa argentica del XX
secolo comprime l’indice di contrasto ed esibisce estensioni tonali più limitati di altre tecniche, quali le ferrotipie (platino, palladio, Kallitipia, vanDyke) a loro volta inferiori alle stampe in carta salata (carta salata propriamente detta e carta all’albumina) e all’Aristotipia (o Collodio-Chloride paper), che hanno pertanto da un lato
206
Fascino e rigore del collodio
opacità dell’immagine, e non un film uniforme di deposito. La soluzione di Iodio sul collodio perde nel frattempo tutto il suo colore ma il film di collodio assume una tonalità inizialmente grigiastra e in seguito grigio
giallastra. Anche a questo stadio c’è più opacità nelle ombre della immagine di prima, e il negativo potrebbe
essere, grazie a questo procedimento, denso a sufficienza; se no, si procede al secondo stadio. Il primo stadio è
lo stadio di deposito; il secondo, lo stadio di riduzione o di sviluppo propriamente detto; e però questo deposito
del primo stadio è una combinazione chimica di Ioduro e Argento che ora è solubile nelle soluzioni di fissaggio,
e prima non lo era. Attraverso questo processo di deposito e di fissaggio, e regolando la quantità di soluzione
iodata, un negativo che è troppo opaco può essere reso più trasparente e meno denso ad libitum. Osborne si è
avvalso di questa proprietà per chiarificare i suoi negativi per i processi fotolitografici. Io lo raccomando anche
nella preparazione di negativi limpidi e chiari per ottenere positivi ingranditi nella camera solare. Non appena
lo stadio di deposito è completato, e il film è stato lavato, il film di collodio è pronto per la ricezione della
operazione successiva.
Gli amanti della precisione potranno preparare la soluzione di Ioduro di Potassio secondo queste proporzioni:
i
538mg
538mg
250 ml
ld
Iodio
Potassio Ioduro
Acqua distillata
ra
Lo Iodio cristallino va frammentato e agitato a lungo, con acqua tiepida almeno. È suggeribile un agitatore
magnetico o in sua assenza, molta pazienza. Si può anche scioglierne la maggior parte e poi scaldare e lasciar
riposare per un po’.
In alternativa – che è molto più semplice – comperate della tintura di Iodio46 in farmacia e aggiungetela ad
acqua distillata fino ad ottenere un bel colorito intenso, quasi vinoso.
ua
2) lo stadio di intensificazione
Usando sempre le parole di Towler:
G
“Il secondo stadio consiste nel mettere in contatto con l’immagine ionizzata una piccola quantità di argento
nitrato, puro o diluito, o assieme allo sviluppatore; in fatti non è altro se non una mera ripetizione del processo originale di sviluppo. La superficie del collodio è nella stessa condizione dell’inizio quando era stato tolto
dalla camera: ci sono Ioduro d’Argento, Nitrato d’Argento, Ioduro di Potassio, le peculiari e sconosciute forze
attrattive esistenti nell’immagine formata, dove prima l’immagine era ancora non formata, e la soluzione di
sviluppo sia come Solfato ferroso che come Acido pirogallico. Il secondo stadio è dunque un sistema o processo
di risviluppo. Con questa operazione l’intensità può essere incrementata a piacere. Le ombre possono essere
rese completamente opache, fino ad essere impermeabili all’influenza attinica.
La parte di intensificazione del collodio sta nelle mani dell’artista; il successo, pertanto, dipende principalmente
alla condizione artistica che ho denominato “Foundation negative” (negativo di partenza, di base - ndT). Se il
negativo di base, per quanto le ombre possano essere flebili, contiene luci, ombre e toni medi in perfetto dettaglio, l’artista ha il potere di aumentare queste tre condizioni gradualmente e uniformemente, fino a portare le
ombre all’opacità adeguata.
46
212
La “tintura di Iodio” è usualmente costituita da Iodio elementare al 7% con Ioduro di Potassio (o di Sodio) disciolto in acqua ed
etanolo. Il ruolo dello ioduro e dell’acqua nella soluzione è di aumentare la solubilità dello Iodio elementare, portandolo alla sua
forma solubile I3−. Tuttavia, poiché lo Iodio ha una moderata solubilità in etanolo, è assistito dalla presenza di questo solvente. Lo
Ioduro di Potassio è aggiunto perché fa sciogliere una maggior quantità di Iodio.
8 - Negativi al Collodio
Alla fine di questo stadio, le soluzioni di fissaggio hanno un effetto minimo se non nullo, il che sembra dimostrare che lo Iodio giallo-grigiastro è stato tutto convertito in un film di metallo insolubile o di qualche
sale insolubile d’argento. Non è necessario fissare. Basta sciacquare bene l’immagine e poi farla asciugare e
verniciarla.” 47
Ingredienti
Iodio (parte A)
tintura di Iodio in acqua
(quando è rossa come un vino)
Risviluppo (parte B)
H2O
Acido Citrico
Acido Pirogallico
Alcool etilico
500 ml
6g
1 g (o ferro solfato 1 g)
10 ml
Parte C
2-5 ml(al momento dello sviluppo)
G
ua
ra
ld
i
Nitrato d’argento
Stampa in ziatipia del negativo riprodotto a pagine 184-185. Si tratta di un negativo non intensificato, mantenuto tale
per poter essere stampato con tecniche adeguate a negativi poco contrastati, come la stampa argentica o in questo caso
la Ziatipia.
47Towler, The silver sunbeam. ibid.
213
g
N
on è strano che durante la seconda metà dell’800, la tecnica fotografica più utilizzata nel mondo
occidentale sia stata oggetto di manipolazioni creative di ogni genere. Queste, che presentiamo, sono
quelle più interessanti non solo come dato storico, ma anche per le ricadute pratiche che possono essere di
nostro interesse.
G
ua
Proiettando un’immagine su
una lastra sensibilizzata se ne
può ottenere una riproduzione ingrandita. Naturalmente
dobbiamo partire da immagini
positive. Otterremo un positivo
se le tratteremo come ambrotipi o un negativo, a sua volta da
stampare con una tecnica qualsiasi, se le tratteremo come negativi.
ld
per proiezione...
ra
Riproduzione di Immagini positive
i
Riproduzione su collodio di immagini
Le immagini di partenza possono essere in bianco e nero o a
colori. Se si parte da pellicole da
proiettare con ingranditori fo- Fig. 9.1 Ambrotipo su vetro trasparente 20x25 cm, ottenuto per proiezione della diatografici, il sistema più semplice positiva a fianco, formato 6x6 attraverso ingranditore Durst. Sviluppo in tradizionale
solfato ferrosi, fissaggio in KCN.
è utilizzare diapositive. Qualcuno potrebbe avere qualche trasparenza positiva in bianco e nero, che anni fa erano prodotte, ma oggi non si
trovano più. L’alternativa è un internegativo (che è positivo) o un file digitale.
Si mette la lastra di vetro con il collodio sensibilizzato, l’emulsione in alto, sul piano di proiezione dell’ingranditore, e si proietta l’immagine per un tempo che verrà predeterminato con esposizioni progressive come per un
abituale provino di stampa. Ognuno troverà i suoi tempi, ma per avere un’idea grossolana, con un Durst M600
ho ottenuto questa riproduzione di un 6X6 su lastra 20X25 (lato maggiore a pieno fotogramma) a f/8 per 40
secondi (fig. 9.1). Si possono proiettare immagini digitali da videoproiettori, con lo stesso concetto.
223
Fascino e rigore del collodio
Il Rosso d’India per l’incarnato e la Vernice dorata per
la gioielleria furono i colori più in voga. Oggi si possono
utilizzare sia pigmenti disciolti in soluzioni alcooliche, sia acquerelli o colori all’anilina, che possono
essere solubili in acqua o in alcool.
Un problema risiede nella scarsa adesione
soprattutto di materiali acquosi come acquerelli o aniline all’acqua; se invece si passa a
materiali alcoolici insorge un secondo problema, che è l’effetto di “spandimento”, oltre
i confini delle pennellate. Il materiale alcoolico può anche essere ulteriormente
diluito e trasportato per la lastra al momento della verniciatura con sandracca.
ra
Nel caso si utilizzino acquerelli (che però sono un
po’ opachi rispetto ad altri pigmenti) è preferibile incorporare della gomma arabica in soluzione acquosa.
La gomma arabica è una gomma naturale. Si estrae da
specie di acacia subsahariana e pertanto è chiamata anche gomma d’acacia. Chimicamente è una miscela di
polisaccaridi e glicoproteine, per cui non solo non è
tossica ma anche commestibile (entra per esempio nelle caramelle gommose e nei soft drink). I pittori l’hanno utilizzata frequentemente. Si presenta tipicamente
in boccole, tonde, di un bel colore ambrato ma un poco
spento a meno di vederle controluce (fig. 9.5). Si scioglie facilmente in acqua, anche se la sua dissoluzione
richiede qualche giorno. Se è di buona qualità ha anche
dei residui che richiedono – dopo averla sciolta – una
filtrazione. È la stessa che si utilizza in fotografia per
esempio per la gomma bicromatata.
ld
i
Per tutti questi motivi venivano utilizzati leganti come la gomma arabica (arabic gum) per
pigmenti idrosolubili o la gomma lacca (shellac) per quelli
solubili in alcool, che oggi possono essere reperiti in negozi che
abbiano materiale da restauro o di belle arti, e anche dai rivenditori di materiale chimico.
Fig. 9.5 Gomma arabica in boccole.
G
ua
Fig. 9.6 Gommalacca decerata in scaglie, immediatamente
dopo l’aggiunta di alcool, un paio d’ore dopo e a dissoluzione pressoché completa.
Se si usano pigmenti o aniline55 si può adoperare
gomma lacca, dando la preferenza a quella “decerata”,
cioè sbiancata, che è più trasparente. La gomma lacca
è una sostanza naturale, prodotta come secrezione da
alcuni insetti dell’ordine degli emitteri Kerria lacca. La
55 Reperibili in colorifici: le aniline, utilizzate prevalentemente per il legno dei mobili, possono essere solubili in acqua o alcool.
230
Fascino e rigore del collodio
Non ci sono rischi di ipertrattamento, ed è invece importante che la lastra
rimanga nel liquido fino alla fine del
processo, altrimenti i bianchi rischiano di ritornare grigi mentre asciugano
e diventare blu freddi per effetto del
sublimato.
Alabastrina al collodio. Vedi testo per la descrizione. A sinistra dopo il trattamento con il sublimato corrosivo, a destra dopo verniciatura e coloratura ad
acquerello sul verso della vernice. Pertanto la lastra viene guardata dalla parte
del vetro e l’immagine non è più speculare, ma diritta.
ld
Di norma l’alabastrina non viene
laccata ma montata su velluto nero,
per non danneggiare il film.
i
Al termine del processo si lava più
volte e si fa asciugare su una lampada
a spirito. A questo punto si passa alla
prima stesura di vernice che dà trasparenza alle ombre senza danneggiare i
bianchi. L’operazione successiva è la
coloratura a mano sulle luci.
ra
Ambrotipi blu
ua
La tecnica di cui stiamo per parlare non è una tecnica tradizionale. Emerge da un errore e dall’averlo messo a
frutto. Come tale è originale e non ha traccia nella documentazione che ho avuto modo di leggere o di trovare
in Internet. C’è una sola segnalazione di qualcosa di simile56, che ho rinvenuto cercando in rete dopo aver puntualizzato il metodo; la segnalazione in oggetto segnala questa possibilità come piacevole curiosità senza però
precisarne i meccanismi e senza riportare un passaggio che a mio parere va effettuato per ottenere chiarezza e
trasparenza, come si comprenderà leggendo.
Il processo in breve
G
Si tratta essenzialmente di un positivo denso, in cui il Nitrato d’Argento è convertito a Ioduro d’Argento. La
colorazione gialla intensa del deposito responsabile della formazione dell’immagine appare blu (colore complementare) per effetto della rifrazione, se osservato in luce riflessa contro fondo nero.
Come è accaduto: errori e sogni
Ogni scoperta in ambito conoscitivo e in particolare in campo scientifico deriva da un’intuizione che necessita di un momento non logicamente deducibile dai suoi antecedenti; in caso contrario non si tratterebbe della
scoperta di una novità, ma dello sviluppo del già conosciuto. Questo momento che l’epistemologia chiama
euristico, può essere innescato da diversi fattori.
Uno di essi, forse il più frequente nelle scienze biologiche, è quello che gli inglesi chiamano “serendipity”.
Termine non traducibile in italiano se non formulando neologismi, indica un insieme di fatti casuali che concorrono a provocare un avvenimento positivo, una “felice coincidenza”. Il termine indica dunque sia l’imbattersi
in qualcosa per caso, sia la capacità di collegare fra loro fatti apparentemente insignificanti arrivando a una
conclusione preziosa, il più delle volte un’ipotesi che attende di essere sottoposta a verifica per dimostrare la sua
56
232
http://www.jurokovacik.com/blog/2015/1/Redevelopment-and-overdose-with-tincture-of-iodine
Fascino e rigore del collodio
l’uniformità del risultato. Il processo richiede qualche minuto. Il colore grigio diventa bianco-giallo, e poi
decisamente giallo, mantenendo i dettagli dell’immagine. La soluzione perde di densità e si schiarisce,
ma a differenza del processo usuale per negativi non diviene incolore. La lastra invece diventa uniformemente gialla, iniziando del centro e dalle zone più sottili. Non si corre rischio di sovratrattamento, per cui
se avete dubbi, proseguite. Guardate bene eventuali aree grigie in cui il trattamento è incompleto: queste
sono destinate a diventare grigio scure con riflessi argentei, che nell’immagine finita ricordano quasi un
effetto Sabattier.
4. lavare con cura la lastra fino a che l’acqua fluisce regolarmente e non più come su una superficie grassa
5. Opzionale: esporre la piastra a luce UV (lampade UV, sole) per almeno un minuto. Aumenta un poco la
densità e il contrasto. Adesso avete una immagine gialla, ma ancora un poco opaca e a tonalità verdastra
se vista contro un fondo nero.
ld
i
6. immergere la lastra in una vaschetta nera riempita con il secondo bagno di tiosolfato al 5%. osservarla
con cura mentre si mantiene l’agitazione. L’immagine schiarisce e guadagna in saturazione e contrasto,
si pulisce dal fogging e diventa cyan pallido. Ci vogliono di norma 20-30 secondi. Dopo questo tempo il
fissativo inizia a ridurre l’immagine con rapidità ed è bene lavorare vicino ad una vasca piena d’acqua per
arrestare il fenomeno appena siete soddisfatti
7. lavare in acqua corrente o cambiare frequentemente il bagno, per 30-40 minuti. Asciugare e verniciare
come di solito. Rendere nero il retro del vetro come per un ambrotipo.
ra
Collodio a secco (Dry collodion process)58
Considerazioni
ua
L’esposizione di una lastra di collodio sensibilizzata e lasciata asciugare non produce immagini latenti sviluppabili. Il trattamento della lastra che viene operato in questo processo ha lo scopo di preservarne la sensibilità a
distanza di tempo. Abitualmente la sensibilità che si ottiene è bassa, ma in cambio uniforme e stabile nel tempo,
consentendo di avere un processo affidabile e ripetibile.
G
Se una lastra sensibilizzata viene lavata dall’argento in eccesso e poi trattata con conservanti adeguati (albume, acido tannico, gelatina, miele, malto, glucosio…) detiene una fotosensibilità sufficiente per consentire
la produzione di negativi, purché sviluppata con sviluppatori sufficientemente energici. L’ipotesi è che questi
trattamenti mantengano la permeabilità del collodio agli agenti sviluppatori, mentre l’essiccazione spontanea
chiuderebbe tutti i pori della matrice di piroxilina, ma tale ipotesi è tutta da provare.
I processi più in voga nell’800 erano il processo all’Albume, il processo al Collodio-Albume di Taupenot, il
processo alla gelatina del Dr. Hill Norris, il processo alla Resina di M. Desprats, con le varianti della vernice
all’ambra (M. Dubosq), e del trattamento con soluzioni di destrina (M. Dupuis). Per la sua semplicità e per
l’efficacia, l’ultimo di questi processi, quello all’acido Tannico (o al Tannino) di Major Russell è stato maggiormente utilizzato e ancor oggi rimane – per chi ci si vuol cimentare – quello più consigliabile. Uno dei vantaggi
58
240
Come ho detto nell’introduzione, questo libro parla solo di tecniche sperimentate verificate da me, ma con l’eccezione del processo
a secco. Per scriverlo e redigerlo ho verificato le informazioni dei trattati antichi e le ho incrociate con le risorse presenti in Internet
cercando di farlo con la maggior cura possibile, ma soprattutto ho sottoposto il testo a Charles Guerin, che pratica questa tecnica
con il metodo al tannino, con risultati che in parte vedete qui e in parte potete esplorare su flickr, e al quale sono riconoscente e in
debito. Merci Charles.
9 - Altre cose da fare con il collodio
di questo metodo sembra essere quello di favorire una miglior uniformità nella sensibilità lungo tutta la superficie della piastra e di rendere il processo stabile in presenza di soluzioni di collodio di diverso tipo e diversa
età. Vedremo però che lo stesso Russell introduceva come elementi aggiuntivi non solo la gelatina, ma anche
l’ambra o il caucciù (gomma d’India), proposti in teoria solo a scopo meccanico, per migliorare l’adesività dello
strato di collodio al vetro, ma forse non senza qualche favorevole interazione con la struttura finale del collodio stesso. Per chi fosse interessato a manuali antichi, sono reperibili il libro di Major Russell e quello di John
Towler, che oltre al già pluricitato “The Silver Sunbeam”, ha pubblicato anche “Dry Plate Photograhy or The
Tannin process. Made simple and practical for professionists and amateurs”59
Può essere di stimolo ai più reticenti, dall’introduzione del Towler, questa esortazione che suona così:
i
The peculiar advantages of Dry Plate Photography are but little understood by the ordinary photographic operator;
and, when these advantages are understood and recognized, there is a difficulty in withdrawing the artist from the
general routine of the wet process, whose results are so easily and quickly obtained, to bestow his attention on a process
whose results are invisible, and depend entirely upon the educated experience of the workman and the accuracy of his
workmanship, a structure, in fine, built upon faith.
ra
ld
I vantaggi peculiari della Fotografia a Lastra Secca sono poco compresi dal comune fotografo; e quando sono
capiti e riconosciuti, si fa fatica a sottrarre l’artista dalla routine generale del processo umido, i cui risultati
sono così facilmente e rapidamente ottenuti, per prestare la sua attenzione ad un processo i cui risultati sono
invisibili, e dipendono interamente dell’esperienza educata dell’operatore e dall’accuratezza della sua abilità,
una struttura, in fondo, costruita sulla fede.
ua
Il collodio secco è stato impiegato per produrre negativi, cioè immagini da utilizzare in trasparenza,
che possono anche essere immagini positive per proiezioni di lanterne magiche, stereoscopia, vetrate, quando si ottengano per duplicazione di negativi generati con metodica tradizionale o a secco
(v. pag.223-224). Lo sviluppo in acido pirogallico contribuisce al deposito di un argento che non è
adatto a fare degli ambrotipi, benché qualcuno li produca, come Charles Guérin, di cui sono riprodotti due ambrotipi a secco.
G
Metodo al tannino
I tannini sono composti polifenolici di origine vegetale che vengono commercializzati – purificati – sotto
forma di acido tannico. Sono contenuti nei vini rossi, e poiché precipitano le proteine della saliva, hanno l’effetto
astringente tipico dei vini che ne sono ricchi. Le proprietà di combinarsi con proteine animali formando complessi insolubili sono alla base del loro impiego come conservanti, essendo in grado di impedire la putrefazione.
Sono sfruttati per esempio nella concia delle pelli per la manifattura del cuoio. Sicuramente a partire da questi
presupposti, forse sfruttando queste stesse proprietà, sono stati impiegati come “preservatives” (conservanti) per
ottenere il Dry collodion.
Uno sguardo d’insieme
La lastra è trattata con collodio e poi sensibilizzata come per un usuale collodio umido. Viene lavata per
eliminare il nitrato d’Argento in eccesso e posta in un bagno di Acido Tannico al 3% per qualche minuto, che
59
Disponibili entrambi agevolmente digitando autore e titolo a: https://archives.org
241
G
ua
ra
ld
i
Fascino e rigore del collodio
Charles Guerin © 2014. Lastra a collodio secco. Processo di Russell o al tannino. Obiettivo Boyer néryl, fotocamera M.P.P.
Esposizione 50 sec, f/11
Comunque è preferibile preservare il contrasto piuttosto che ridurre i tempi di esposizione a sue spese. Quindi dosaggi ridotti di tannino sono consigliabili specie per esterni assolati dove il fogliame, i riflessi e le ombre
sono spesso componenti essenziali dell’immagine che si desidera riprodurre.
Togliendo le lastre dall’acqua, si lavano con poca acqua distillata per rimuovere i sali presenti, quindi si preparano due bechers (o due bicchierini) ognuno con 30-40 ml di soluzione diluita di tannino per ciascuno, se si
parte dalla soluzione stock aggiungendo anche nella prima 0,5 ml di etanolo e 1 nella ultima: il ruolo dell’alcool
è quello di far penetrare più efficacemente e quindi più uniformemente il tannino nel collodio. Si pone la lastra
su un supporto in bolla e si versa il primo becher, cercando di farlo fluire su tutta la lastra: lo scopo è di rimuovere l’acqua superflua e preparare la lastra per una applicazione più uniforme: il liquido si versa, si raccoglie, lo
si versa ancora qualche volta. Poi si pone la lastra in verticale, si fa drenare il liquido e si tratta con la seconda
quantità di soluzione. Preparando più lastre e lavorando in serie si garantisce un procedimento snello e al tempo
stesso un contatto prolungato che fa sì che il tannino, veicolato dall’alcool, impregni profondamente il collodio.
248
Fascino e rigore del collodio
Sostituzioni di chimici
Alcali
Molti alcali possono essere sostituiti con altri, se all’interno di una particolare famiglia. Si sostituiscono alcali
deboli con deboli, caustici con caustici, intermedi con intermedi. Anche modificare radicalmente una molecola
potrebbe avere effetti indesiderati. In caso di dubbi occorre fare dei test.
Se la formula dice
Borace deca
Borace penta
Potassio carbonato anidro
Sodio carbonato mono
Potassio idrossido
Sodio idrossido
e invece hai in casa
Borace, penta
Borace, deca
Sodio carbonato mono
Potassio carbonato anidro
Sodio idrossido
Potassio idrossido
ra
e invece hai in casa
Acido acetico 28%
Acido acetico glaciale
Sodio metabisolfito
Potassio metabisolfito
Sodio tiosolfato cristallino
Sodio tiosolfato anidro
Bromuro di Potassio
Bromuro di Sodio
Sodio solfito anidro
Sodio solfito cristallino
ua
Se la formula dice
Acido acetico glaciale
Acido acetico 28%
Potassio metabisolfito
Sodio metabisolfito
Sodio tiosolfato anidro
Sodio tiosolfato cristallino
Bromuro di Sodio
Bromuro di Potassio
Sodio solfito cristallino
Sodio solfito anidro
ld
i
Altre sostituzioni
moltiplica per
0,76
1,32
0,90
1,12
1,40
0,72
moltiplica per
3,54
0,28
1,17
0,855
1,57
0,64
1,16
0,86
0,5
2,0
G
Sodio Carbonato
Esiste in tre forme. Abitualmente si fa riferimento alla forma monoidrata, più stabile. Potrebbe essere che ci
si imbatta in formule che specificano la forma anidra o quella cristallina, o che in condizioni di emergenza si
trovi solo una delle forme. Usate queste conversioni:
Se la formula dice
Sodio carbonato, mono
Sodio carbonato, mono
Sodio carbonato anidro
Sodio carbonato anidro
Sodio carbonato cristallino
Sodio carbonato cristallino
260
e invece hai in casa
Sodio carbonato anidro
Sodio carbonato cristallino
Sodio carbonato, mono
Sodio carbonato cristallino
Sodio carbonato, mono
Sodio carbonato anidro
moltiplica per
0,855
2,31
1,17
2,7
0,433
0,37
Postfazione
Sono convinto
che nulla succeda per caso, e credo di averne conferma anche questa volta.
Giorgio Bordin avrebbe potuto scrivere questo libro anche senza essere socio del Gruppo Rodolfo
Namias, ma le sue fatiche sono giunte a maturazione, e a prendere finalmente forma concreta, a circa due anni
dal suo ingresso nel GRN. Questa e la prossima opera di Giorgio “Il sapore del sale - Carta salata, albumina
e aristotipia” si collocano perfettamente nell’ambito degli scopi istituzionali del GRN i quali, citando e riassumendo, sono: la riscoperta, lo sviluppo in tutte le sue forme e l’elaborazione dei processi fotografici sia storici
che alternativi a quelli industriali di massa, dai quali si distinguono per la prevalente componente manuale che
li caratterizza, e la promozione, lo sviluppo e l’incremento della conoscenza e della diffusione delle Tecniche
stesse. Scopi che sono del Gruppo ma che sono coniugati al singolare dai soci come fossero i tanti tasselli di un
unico grande puzzle.
ua
ra
ld
i
Assistiamo spesso, e Internet ne è la cassa di risonanza, alla perpetuazione di numerosi copia-incolla che tolgono la speranza di leggere qualcosa di originale, contribuiscono a instillare dubbi sulla credibilità di un autore,
e di avere la “prova provata” che quanto scritto funzioni davvero. Come il lettore avrà visto, ciò non succede con
Giorgio Bordin, che ha davvero messo le mani nella materia, affrontando le difficoltà e risolvendo i problemi
che inevitabilmente si presentano nel cammino verso l’immagine perfetta. Malgrado nella sua terza premessa
egli si definisca un pasticcione, un libro come questo si può scrivere solo avendo passato molte ore a stendere
il collodio e preso molti appunti, sia dei successi sia dei fallimenti. A dire il vero, credo che anche Giorgio,
all’odore del collodio, preferisca il profumo dell’olio di lavanda: non solo per ragioni olfattive, ma anche perché
è il segnale che la propria opera è arrivata a compimento ed è giunto il momento di contemplarla prima di
ricominciare un’altra avventura.
G
Certo, non di sola tecnica vive il fotografo, ma anche di ispirazione e di contenuti che devono però incontrarsi e trovare la giusta armonia per poter dare vita a una vera opera d’arte. Di sicuro, soprattutto leggendo i
primi due capitoli, ognuno avrà avuto modo di riflettere anche sul proprio modo di intendere e fare fotografia,
intravedendo nuove prospettive.
Il mio augurio a Giorgio è di continuare sulla strada intrapresa, trovandone le giuste soddisfazioni, e ai lettori
di mettere in pratica quanto hanno appreso, con un occhio al passato per quanto riguarda la tecnica e uno al
futuro per quanto riguarda le immagini: Di sicuro, ci sarà sempre chi guarderà solo la tecnica e si chiederà “come”,
mentre altri di natura più curiosa si chiederanno “perché” (Man Ray).
Alberto Novo
Presidente Gruppo Rodolfo Namias
Antiche Tecniche Fotografiche
264
ISBN 978-88-6927-214-1
49,90 ¤
Giorgio Bordin
del
Collodio
Giorgio Bordin
il collodio umido positivo e negativo
Fascino e Rigore
G
Giorgio Bordin, classe 1958, è medico a Parma, dove risiede.
La contemporanea passione per l’arte e per la medicina ha segnato il fil rouge di tutta la sua esperienza, in cui l’arte medica
coesiste con la pittura, il disegno, l’incisione e la fotografia.
Negli ultimi anni si è avvicinato alle tecniche fotografiche “antiche”. In campo fotografico, oltre alla stampa argentica tradizionale, realizza positivi diretti o stampe da negativi analogici
di grande formato nel campo della Calotipia, Collodio umido
(positivo e negativo), Carta salata, Aristotipia, Stampa all’Albumina, Platinotipia, Cianotipia, Kallitipia, stampa vanDyke,
fotografia stenopeica.
GuaraldiLAB
ua
ra
ld
i
Le antiche tecniche fotografiche, o per altri le tecniche fotografiche alternative, stanno vivendo un movimento di ripresa che
le vede protagoniste di una nuova stagione di fotografia analogica; nel tentativo di riappropriarsi di un gusto artigianale
nella produzione di immagini fotografiche o di espandere le
potenzialità comunicative con una tavolozza di possibilità più
estesa e differente dalla stampa in gelatina argentica.
Alcune tecniche hanno lo scopo di realizzare negativi o positivi
in camera, altri di stampare questi stessi negativi, ma anche
negativi tradizionali e digitali. Il percorso che consente di arrivare alla produzione di una fotografia tecnicamente ineccepibile è lungo e laborioso, sfida contemporaneamente le conoscenze, le abilità e le competenze, dando però risultati spesso
entusiasmanti.
I volumi della collana Antiche tecniche fotografiche offrono la possibilità di raccogliere elementi conoscitivi avanzati per affrontare i processi trattati, partendo da fondamenti documentati
in una solida bibliografia, ma sempre verificati nella pratica
concreta dell’autore; cercano di far ordine in un’informazione
entropica quale quella di Internet, in cui la quantità delle informazioni diventa inversamente proporzionale alla profondità
delle conoscenze. Destinata ad un pubblico italiano in un mondo ormai anglofono, la scelta della lingua consente infine un
approccio più rilassato ad una materia tanto complessa.
Fascino e Rigore
del Collodio
T
F
ntiche ecniche otografiche
GuaraldiLAB
In copertina Chiara. Ambrotipo su vetro chiaro, 20x25 cm. Petzval
Hermagis Portrait lens (1855 circa). Luci artificiali. f3.6, 7 secondi
di esposizione. Collodio New Guy. Sviluppo standard in Solfato
ferroso, fissaggio in KCN, verniciatura in Sandracca.
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