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divieto di testimonianza indiretta
DIVIETO DI TESTIMONIANZA INDIRETTA
DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA
IL VAGLIO DELLA CONSULTA
Corte Costituzionale - Sentenza 14-26 febbraio 2002, n. 32
(Presidente Ruperto; Relatore Neppi Modona)
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 195, comma 4, c.p.c., introdotto
dall'art. 4 della l. n. 63/2001 nella parte in cui prevede che gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaia non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le
modalità degli artt. 351 e 357, comma 2, lett. a) e b) c.p.c.
***
Con la sentenza che si annota la Corte costuzionale interviene sul divieto di testimonianza indiretta
della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni raccolte nella fase delle indagini preliminari previsto
dall'art. 195, comma 4 c.p.p, così come riformulato con la l. n. 63/01.
La Corte promuove in pieno la recente scelta del legislatore ordinario e afferma _ fra le righe _ che
non si tratta di un divieto assoluto: non un completo «ritorno», quindi, all'originaria previsione del
codice di rito del 1988.
La sentenza può comunque considerarsi un importante contributo all'attuazione dei principi del
«giusto processo legale», cristallizzati nel nuovo art. 111 della Carta costituzionale.
1. Cominciamo col dire che la testimonianza indiretta è regolata in via generale dall'art. 195 c.p.p.,
e, come istituto processuale, si configura quando Ia persona informata sui fatti riferisce non ciò che
ha personalmente percepito, ma ciò che ha appreso da altri (1). La fonte delle notizie oggetto della
disposizione per lo più sarà da individuarsi in una persona (che ha narrato al teste quanto ha visto,
sentito o comunque percepito), ma, per espresso disposto di legge, potrà essere costituita anche da
un documento (cfr. art. 195, comma 5, c.p.p.).
Duplice e distinto è il regime probatorio della testimonianza indiretta, a seconda che essa provenga
o meno da un appartenente alla polizia giudiziaria. Nel primo caso, il Giudice è tenuto, su richiesta
di parte, a chiamare a deporre il percettore diretto, in nome di una prescrizione che, se disattesa,
determina l'inutilizzabilità delle dichiarazioni relative a fatti di cui il testimone abbia avuto
conoscenza da altre persone, «salvo che l'esame di queste risulti impossibile per morte, infermità o
irreperibilità» (art. 195, comma 3, c.p.p.) (2).
Nel caso invece in cui il soggetto che depone sia un agente o un ufficiale di polizia giudiziaria,
l'attuale art. 195, comma 4, c.p.p., dispone: «Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non
possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui agli
artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b). Negli altri casi di applicano le disposizioni dei commi 1, 2
e 3 del presente articolo».
Il percorso che ha portato in primo luogo alla nuova formulazione del comma 4 dell'art. 195 c.p.p.
con l. n. 63/01 ed, in secondo luogo alla pronuncia della Corte costituzionale qui annnotata , è stato
alquanto tormentato e merita di essere, seppur brevemente, ricordato.
1.1. Nella sua formulazione originaria, l'art. 195, comma 4, c.p.p. dava attuazione alla seconda parte
della direttiva n. 31 della legge delega del 16 febbraio 1987, n. 81 di riforma del codice di
procedura penale che, nella logica di oralità e immediatezza che doveva ammantare il nuovo codice
di rito, aveva previsto: «il divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso
testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni».
L'art. 195, comma 4, c.p.p., pertato, era così formulao: «Gli ufficiali e gli agenti di polizia
giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni».
La norma si inseriva nel quadro di riforma integrale del sistema processual-penalistico italiano, che
sostituiva la novella del sistema accusatorio all'antico orientamento inquisitorio.
In particolare, la norma si adeguava al canone fondante del principio accusatorio secondo cui la
formulazione della prova deve avvenire nel contraddittorio delle parti, nell'ambito della fase
dibattimentale, la quale deve essere tenuta distinta dalla fase delle indagini preliminari: tutto quanto
acquisito nelle indagini preliminari non può costituire prova, ma solo «elemento di prova», potendo
la prova _ come detto _ formarsi solo all'interno della dialettica delle parti.
Tale formulazione dell'articolo ut supra apparve, però, alla Magistratura di merito come eccedente
la delega governativa, poiché ben presto all'idea originaria di un divieto di lettura dei verbali redatti
dalla polizia giudiziaria si sostituì l'esclusione probatoria tour court di coloro che avevano svolto le
indagini.
Il risultato fu quello di creare equivoci e disorientamenti, che si concretizzarono in diverse
ordinanze» con le quali si additava il divieto posto dal comma 4 dell'art. 195 c.p.p. come
discriminatorio per i veri autori delle indagini e ostativo all'accertamento della verità dei fatti
oggetto dei procedimenti penali.
II particolare, si lamentava che l'esclusione probatoria finiva con il pregiudicare completamente ed
irragionevolmente la capacità a testimoniare di soggetti dai quali ci si sarebbe dovuto attendere,
invece, maggiore affidabilità è professionalità rispetto ai testi comuni.
Il culmine di questo «corto circuito» nell'impianto dell'istruzione probatoria si verificava nel
momento in cui la testimonianza indiretta degli agenti di polizia giudiziaria era vietata anche
rispetto alle dichiarazioni apprese da persone successivamente inferme, irreperibili o addirittura
decedute: l'originaria formulazione dell'art. 512 c.p.p., infatti, permetteva il «recupero» delle
dichiarazioni, mediante lettura in aula delle stesse, solo se a suo tempo erano state rese al P.M. o al
G.I.P., e non anche alla P.G.
1.2. In una situazione come quella sopra descritta, si rese indispensabile l'intervento della Corte
costituzionale, che con sentenza 31 gennaio 1992, n. 24 dichiarò l'illegittimità costituzionale del
comma 4 dell'art. 195 e dell'art. 31, secondo periodo, della legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 (3).
L'intervento della Corte costituzionale fu sollecitato da ben sette distinte ordinanze di rimessione,
che ritenevano l'art. 195, comma 4, c.p.p. in contasto con l'art. 3 della Carta costituzionale, sia nella
parte in cui prevedeva il divieto per gli ufficiali ed agenti di P.G. di deporre sul contenuto delle
dichiarazioni acquisite dai testimoni, sia nella parte in cui tale divieto operava anche nelle ipotesi di
impossibilità di esame diretto del teste per morte, infermità o irreperibilità del medesimo,
differenziandosi pertanto, in tali casi, da quanto prevede l'art. 195, comma 3, c.p.c. per i testi
comuni.
La Corte costituzionale aderì alla posizione secondo cui l'art. 195, comma 4, c.p.p. creava
un'illegitima disparità di trattamento tra gli appartenenti alla P.G e gli altri testimoni, costituendo
pertanto un'eccezione sia rispetto alla disciplina generale, sia rispetto alla regola generale sulla
capacità di testimomiare di cui agli artt. 196 e 197 c.p.p.
L'eccezione apparve alla Consulta priva di ogni giustificazione: il divieto di testimonianza indiretta
snaturava e rendeva ambiguo il ruolo e la funzione che il codice di rito attribuiva agli appartenenti
alla polizia giudiziaria, quasi che tali soggetti dovessero essere considerati meno affidabili dei testi
comuni.
La Corte costituzionale, inoltre, escludeva che quella formulazione dell'art. 195, commma 4, c.p.p.
potesse trovare giustificazione nel principio del contraddittorio nella formazione della prova,
sostenendo che «tale principio non solo non contrasta, ma si conforma pienamente alla
testimonianza degli appartenenti della P.G. su fatti conosciuti attraverso dichiarazioni loro rese da
altre persone, testimonianza da assumersi nei modi e nelle forme rigorosamente prescritte
dell'esame diretto e del controesame».
Quest'ultimo passaggio, in particolare, fu aspramente criticato in dottrina, considerato
giustificazione di facciata e surretizio tentativo di reintrodurre principi inquisitori dissonanti nello
schema di stampo accusatorio del nuovo processo penale; si fingeva, infatti, di non sapere che,
benché il testimone indiretto fosse sottoposto ad esame e controesame, la violazione del principio
del contraddittorio riguardava l'escussione della fonte diretta: la valenza probatoria di tale
dichiarazione era perciò irrimediabilmente compromessa alla radice.
Fu inoltre opposta l'eccessiva considerazione data all'ufficiale di P.G., come teste qualificato, di
certo immemore del fatto che tale soggetto era (ed è nella pratica di ogni giorno) esecutore e
coadiutore del lavoro dell'Organo inquirente.
2. Con la sentenza che si annotata, la Consulta ha ritenuto infondate _ e in parte inammissibili _
alcune questioni di legitimità costituzionale sulla norma in esame, in relazione agli artt. 3, 24 e 111
della Costituzione (4).
Riassumiamo brevemente _ con riferimento alla norma costituzionale asseritamente violata _ le
questioni sollevate dal Tribunale di Palmi, dal Tribunale di Roma e dalla Corte di assise di Messina,
mentre segnaliamo a parte le questioni sollevate dal Tribunale di Siracusa.
2.1. Sulla asserita violazione dell'art. 3 Cost. sono state richiamate le argomentazioni poste a
fondamento della sentenza n. 24 del 1992 della Corte costituzionale, che _ come detto _ aveva
dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'originario art. 195, comma 4, c.p.p.
Proprio come allora, è stato affermato che la norma in oggetto introduce un'irragionevole disparità
di disciplina fra la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e quella resa da un comune
testimone (di cui ai primi tre commi del medesimo articolo). Non vi sarebbe alcuna giustificazione
plausibile alla diversità di trattamento delle dichiarazioni, atteso che il successivo art. 196 c.p.p.
conferisce agli appartenenti alla polizia giudiziaria una piena capacità di testimoniare e, per contro,
l'art. 197 c.p.p. non prevede a carico degli stessi alcuna incompatibilità a testimoniare (5).
Inoltre, la «testimonianza indiretta della P.G. non comporta alcuna lesione al principio
dell'oralità» della prova e al diritto di difesa, dovendo essere assunta nelle forme dell'esame
incrociato e del controesame.
Del tutto nuove sono invece le argomentazioni a sostegno del contrasto fra la disposizione in esame
e gli artt. 24 e 111 della Costituzione.
2.2. Il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria contrasterebbe con il diritto di
difesa di cui all'art. 24 Cost., perché impedirebbe di acquisire «elementi di prova idonei a
contribuire all'accertamento dell'effettivo svolgersi dei fatti e delle condotte penalmente rilevanti» e
sarebbe «ancor più irragionevole» nell'ipotesi in cui il teste di riferimento abbia già deposto in
dibattimento; in questo caso, infatti, il diritto alla prova delle parti sarebbe compromesso «senza
alcuna ragione».
Sarebbe stato più coerente con il precetto costituzionale _ si dice _ prevedere «la sanzione di
inutilizzabilità della testimonianza indiretta del verbale (...) ove il teste di riferimento, per
qualunque ragione, non avesse deposto o si fosse rifiutato di rispondere» (6).
2.3. Il contrasto dell'art. 195, comma 4, c.p.p. con il diritto al contraddittorio nella formazione della
prova, di cui al nuovo art. 111 Cost., riguarderebbe l'esclusione della testimonianza indiretta della
polizia giudiziaria anche qualora le parti, d'accordo, ne facessero espressa richiesta.
Sotto questo profilo, la previsione contenuta nel secondo periodo, che consente la testimonianza de
relato della P.G. «negli altri casi», non sarebbe di aiuto, non essendo chiara la logica seguita dal
legislatore per distinguere le ipotesi in cui i verbalizzanti possono deporre.
Ma vi è di più. Alla luce degli artt. 493, comma 3, e 512 c.p.p. il divieto sarebbe finanche
paradossale: sulla base del primo articolo, le parti potrebbero acconsentire l'acquisizione
dell'informativa di reato nel cui corpo potrebbero essere contenute le dichiarazioni assunte durante
le indagini. Dal canto suo, l'art. 512 c.p.p. autorizzerebbe la lettura delle dichiarazioni raccolte _
anche dalla P.G. _ in fase di indagini, ancorché in casi particolari (ossia: impossibilità di ripetizione
per fatti o circostanze imprevedibili) (7).
È stato affermato che l'art. 111 Cost. non vieterebbe la testimonianza indiretta della polizia
giudiziaria, ma porrebbe solo un limite all'utilizzo di tali dichiarazioni ai fini della prova, qualora il
teste di riferimento si sottraesse volontariamente al confronto dibattimentale: le dichiarazioni
sarebbero inutilizzabili come prova, ma ben potrebbero essere acquisite ad altri fini (8).
2.4. Un profilo particolare ha caratterizzato l'impostazione delle questioni di legittimità sollevate
dalla Tribunale di Siracusa, la cui premessa interpretativa è che il divieto di cui all'art. 195, comma
4, c.p.p. avrebbe ad oggetto solo le ipotesi di dichiarazioni verbalizzate nel corso di indagine di
iniziativa della polizia giudiziaria e non anche quelle acquisite durante indagini delegate dal P.M.
La violazione dell'art. 3 e 24 della Costituzione riguarderebbe perciò l'assenza di una ragione
logico-giuridica per differenziare il regime della testimonianza indiretta a seconda delle due
differenti modalità di assunzione (di propria iniziativa su delega del P.M.): è identica la modalità di
documentazione, la destinazione dell'atto al fascicolo del P.M., l'inutilizzabilità per le contestazioni
e anche la disciplina della lettura ai sensi degli artt. 512 e 512-bis c.p.p.
Inoltre, così procedendo la decisione di consenttire o meno la testimonianza della polizia giudiziaria
sarebbe inevitabilmente rimessa alla discrezionalità del P.M., con un'evidente lesione del diritto di
difesa (9), potendo egli sottrarre a suo piacimento un teste alle domande del difensore dell'imputato.
3. Passando alla decisione della Corte costituzionale, essa si snoda dalla considerazione che l'art.
111, comma 4, Cost. riconosce il contraddittorio «come (il) metodo di conoscenza dei fatti oggetto
del giudizio», ossia il metodo di formazione della prova.
Per maggior chiarezza, ci sia consentito aggiungere che l'art. 111, comma 5, Cost. ammette alcune
deroghe al principio del contaddittorio nella formazione della prova, deroghe che devono essere
previste e regolate dalla legge e devono comunque essere limitate ai casi di consenso dell'imputato,
accertata impossibilità di natura oggettiva ovvero a provata condotta illecita.
Precisiamo sin da ora che queste deroghe non rappresentano un compromissorio cedimento rispetto
alla scelta del metodo del contradditorio, ma l'attribuzione di rilevanza all'evenienza che il fatto
probatorio, divenute irripetibile, si sia verificato: come dire, rispetto alla lettura in dibattimento di
un verbale contenente dichiarazioni divenuto irripetibili, ciò che fa prova è la rappresentazione
documentale e non la rappresentazione documentata.
A livello di legge ordinaria, nella motivazione la Corte sottolinea l'assoluta coerenza, con le
predette disposizioni costituzionali, della regola sancita dal nuovo art. 500, comma 2, c.p.p, nonché
di quelle previste dagli artt. 511, 512 e 513 c.p.p.
In base all'art. 500, comma 2, c.p.p., le dichiarazioni raccolte nel corso delle indagini preliminari e
lette per le contestazioni in dibattimento possono essere valutate ai fini della credibilità del teste, ma
non utilizzate come prova dei fatti in esse affermati. Correttamente interpretata (10), ossia come
regola di esclusione dell'utilizzabilità in dibattimento degli atti delle indagini preliminari, essa
diviene norma fondametale, perché risulta essere la principale enunciazione del principio di
separazione delle fasi (11).
Gli artt. 511, 512 e 513 c.p.p. prevedono come possibili, ai fini della prova, solo tassative letture
degli atti assunti nel corso delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare. Ogni altra lettura di
dichiarazioni rese a chiunque da teste o imputato, non prevista nei predetti articoli, è vietata.
Se questo è il quadro normativo delineato dalla Costituzione e dalla legge ordinaria per la
formazione della prova nell'ambito del processo penale, conformi _ ci sembra sottendere la Corte _
sono quei presidi, ancorché enunciati dal solo legislatore ordinario, idonei a scongiurare possibili
aggiramenti delle «regole» per la formazione della prova.
Nelle attuali norme del codice di rito le cautele, già poste riguardo alla generica testimonianza
indiretta, si infittiscono se la testimonianza è resa da soggetti che operano «al fianco» della Pubblica
Accusa e ciò, se possibile, fino a raggiungere (quasi) lo stadio estremo. Il rischio è infatti altissimo:
atti di indagine raccolti unilateralmente potrebbero finire con l'acquistare (ugualmente) efficacia
probatoria.
Con la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria si realizzerebbe uno svuotamento dell'art.
500, comma 7, c.p.p.: quand'anche il contenuto di tali dichiarazioni facesse ingresso nel
dibattimento rispettando i canoni dell'art. 111 Cost., ossia attraverso l'esame e il controesame ad
opera delle parti, è la genesi stessa della dichiarazione, creata unilateralmente, a renderla, per così
dire, «viziata» alla radice.
Si aggiunga, inoltre _ come possibilità non remota in dibattimento _, che in caso di difformità fra
dichiarazioni del teste di riferimento (diretto) e dichiarazioni dell'ufficiale o dell'agente che aveva
proceduto ad assumerle durante le indagini preliminari, nulla impedirebbe al Giudice di valutare
queste ultime senza limiti (persino al di fuori di quelli indicati dall'art. 195 c.p.p.): ciò in virtù del
principio del libero convincimento e per l'assenza, nelle norme processual-penalistiche, di una
gerarchia tra dichiarazioni rese dalla fonte diretta e quelle invece da altri riferite.
In breve. In assenza di un divieto come quello previsto dall'art. 195, comma 4, c.p.p. si finirebbe
con il raggiungere, in via mediata, quella stessa efficacia probatoria che il legislatore, costituzionale
e ordinario, intendono espressamente escludere.
Ed infatti, la Corte afferma che la disposizione di cui all'art. 195, comma 4, c.p.p. «lungi dal
determinare un'irragionevole disparità di trattamento della testimonianza indiretta degli ufficiali e
agenti di polizia giudiziaria rispetto a quella di privati», risponde l'esigenza, costituzionalmente
garantita, di evitare che dichiarazioni ricevute da persone che riferiscono su circostanze utili ai fini
delle indagini, o spontaneamente rese dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, o
ancora, assunte da persona imputata in un procedimento connesso ovvero imputata di reato
collegato, possano surrettiziamente confluire nel materiale probatorio utilizzabile in giudizio,
attraverso la testimonianza di chi unilateralmente ha provvedato a raccoglierle nel corso delle
indagini.
Ci pare di poter dire, quindi, che la Consulta ribadisce ferreamente la vera ratio della disposizione
in esame, come novellata dalla l. 163/01: garantire il principio costituzionale del contraddittorio
nella formazione della prova e non evitare, invece, un uso indiscriminato delle dichiarazione del
relato.
3.1. In quest'ottica la Consulta legge anche la seconda parte della disposizione di cui all'art. 195,
comma 4, c.p.p., secondo cui la testimonianza indiretta non è vietata «negli altri casi», e chiarisce _
si spera una volta per tutte _ che si tratta di ipotesi di informazioni non verbalizzate: mancando
l'esigenza di evitare un aggiramento della regola di esclusione probatoria prevista dal comma 4
dell'art. 195 c.p.p., valgono le disposizioni comuni in tema di testimonianza indiretta di cui ai
commi 1, 2 e 3 del medesimo articolo.
La decisione della Corte dovrebbe così porre fine alle querelle sorte in dottrina e in giurisprudenza,
che in parte ritengono applicabile il divieto della testimonianza indiretta della polizia gudiziaria
anche alle dichiarazioni non verbalizzate (12); in parte, invece, applicabile alle sole sommarie
informazioni rese da persone che possono riferire su circostanze utili ai fini delle indagini (art. 351
c.p.p.), ai verbali degli atti di denunzia, querela ed istanze presentate oralmente (art. 357, comma 2,
lett. a, c.p.p.) e ai verbali di sommarie informazioni rese o dichiarazioni spontaneamente ricevute
dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (art. 357, comma 2, lett. b, c.p.p. (13).
Ci pare poter affermare, quindi, che se le dichiarazioni del teste di riferimento non sono state
verbalizzate dalla P.G. non sarà possibile procedere nemmeno ad un corretto esame e controesame
del testimone indiretto (ad esempio, non saranno possibili le contestazioni), con una manifesta
violazione, quindi, del principio del contraddittorio già in questa sede, prima ancora che rispetto alle
dichiarazioni del teste diretto.
Sicché, su richiesta di parte o anche d'ufficio, il Giudice dovrà procedere all'esame del teste diretto
ai sensi dell'art. 195, comma 1, 2 e 3, c.p.p. in tutte le ipotesi in cui l'attività investigativa di raccolta
delle dichiarazioni non abbia avuto piena formalizzazione (es. semplici annotazioni); oppure
quando le dichiarazioni dell'informatore risultino incorporate nella forma di un diverso atto
investigativo (es. in una relazione di servizio, informativa di reato o in un verbale di perquisizione).
Del resto, ci pare che un simile sistema eviti anche inutili dispersioni della conoscenza processuale,
che può essere in tal modo recuperata senza eludere la garanzia del contraddittorio.
3.2. A questo punto non resta che vedere quali sono i limiti del divieto di cui si discute.
La Corte ha precisato la legittimità costituzionale del divieto di testimonianza indiretta della polizia
giudiziaria, che intende evitare che dichiarazioni raccolte in assenza di dialettica fra le parti possano
trovare ingresso nella formazione della prova, «salvo l'ipotesi, contemplata dall'art. 512 c.p.c.,
[ossia] che di tali verbali [di dichiarazioni] venga data lettura per essere divenuta impossibile
l'assunzione della prova in dibattimento per fatti imprevedibili» (14).
Si tratta allora di un divieto non assoluto? Pare proprio di si, sebbene il divieto non sembra
superabile da una mera sopravvenuta iripetibilità delle dichiarazioni del teste indiretto. Infatti,
l'impossibilità, di cui all'art. 512 c.p.c., è intesa prevalentemente come materiale e congenita, non
accidentale, come invece nel caso di morte o sopravvenuta irreperibilità di chi ha fatto le
dichiarazioni alla P.G. Resta comunque da dire _ e non ci pare poco _ che questa valutazione è
rimessa in via esclusiva al giudice di merito.
4. Nella sentenza in esame, la Corte ha concluso per l'inammissibilità della questione relativa al
contrasto della norma dell'art. 195, comma 4, c.p.p. con l'art. 24 Cost., non ravvisando che nei
giudizi in cui erano state sollevate le questioni di legittimità costituzionale ricorressero situazioni di
fatto o presupposti di diritto.
Dal canto nostro, riteniamo che l'attuale formulazione dell'art. 195, comma 4, c.p.c. è in grado di
realizzare una maggiore tutela del diritto di difesa, anziché _ come stato affermato _ una sua
lesione.
Infatti, come si è osservato, il riferimento «sommarie informazioni e dichiarazioni spontanee
ricevute da persona nei cui confronti vengono svolte le indagini» (art. 357, comma 2, lett. b, c.p.p.)
andrebbe ricondotto _ non senza problemi _ in un ambito già presidiato dall'art. 62 c.p p., che vieta
la testimonianza sulle dichiarazioni comunque rese dall'indagato o dall'imputato nel corso del
procedimento. Ne segue un rafforzamento dell'operatività di quest'ultima norma: il divieto di
testimonianza indiretta della polizia giudiziaria opera anche nell'eventualità che l'indagato assuma,
nel corso del procedimento, la diversa qualifica di testimone riferendo fatti o circostante riguardanti
la responsabilità di terzi (15).
4.1. Quanto alla possibilità che l'esame incrociato e il controesame dell'operatore di polizia
giudiziaria tuteli sufficientemente il principio del contraddittorio, la Consulta non si intrattiene più
di tanto.
Riteniamo, tuttavia, che l'affermazione non abbia buon gioco. La testimonianza indiretta è una
«testimonianza apparente» giacché il teste referente in realtà nulla conosce della circostanza oggetto
della prova: con la testimonianza indiretta si lascia nell'ombra la genesi delle conoscenze introdotte
nel processo, riducendo la sfera del possibile controesame e circoscrivendo notevolmente gli spazi
delle possibile contestazioni (16).
In sostanza, le conoscenze del teste diretto vengono ad essere filtrate _ si potrebbe dire
ulterionnente _ da un altro soggetto, intermedio, che in alcun modo ha preso parte al processo di
conoscenza del primo.
5. Ritenendo inammissibile per difetto di rilevanza l'eccezione sollevata dal Tribunale di Siracusa,
la Corte ha lasciato aperto la questione relativa all'operatività del divieto di cui all'art. 195, comma
4, c.p.p. alle sole ipotesi di dichiarazioni verbalizzate nel corso di attività di indagine di iniziativa
della polizia giudiziaria.
Anche in dottrina, infatti, non è mancato chi ha sostenuto che una lettura simultanea degli artt. 195 e
197 c.p.c. (incompatibilità a testimoniare) consentirebbe la testimonianza sulle informazioni assunte
dalla polizia su delega del P.M. (art. 362 c.p.p.).
Due le argomentazioni a sostegno: (i) la delega non sarebbe ricompresa nel richiamo espresso agli
artt. 351 e 357 c.p.p.; (ii) la polizia giudiziaria non potrebbe essere propriamente qualificabile come
«ausiliaria» dell'Autorità Giudiziaria, allorquando opera su delega del P.M.
Perciò, la testimonianza indiretta sarebbe ammissibile su dichiarazioni ricevute fuori dall'esercizio
delle sue funzioni giudiziarie oppure percepite nel corso di atti diversi da quelli indicati (ad esempio
identificazioni, ricognizioni informali, perquisizioni e sequestri) (17).
Già in altra occasione avevamo evidenziato come il divieto di testimonianza indiretta della polizia
giudiziaria, non espressamente sancito dalle norme costituzionali, sia una garanzia per evitare che
quello che è uscito dalla porta non rientri dalla finestra (18). Aggiungiamo ora che immaginare un
sistema che, stabilito un divieto, ne offra immediatamente la possibilità di elusione appare
quantomeno poco logico (19).
5.1. Quanto sopra non ci pare l'unica questione lasciata aperta dalla sentenza in commento.
L'irragionevole disparità di trattamento tra l'art. 195, comma 4, c.p.p. e la disciplina
dell'incompatibilità a testimoniare prevista dall'art. 197, conmma 1, lett. d, c.p.p. per gli
investigatori privati, autorizzati nell'ambito delle indagini difensive svolte ai sensi della l. 7
dicembre 2000, n. 397 (20), denunciata dai rimettenti non ha trovato risposte dalla Corte
costituzionale, che si è limitata ad affermare che ulteriori incompatibilità a testimoniare degli
investigatori privati sarebbero in contrasto con l'art. 111 della Costituzione.
Nel caso degli investigatori privati, la tutela resta affidata al sistema dell'esame diretto e del
controesame.
A rigore, anche nel caso degli ausiliari del difensore dovrebbe sussistere l'esigenza di evitare
aggiramenti alla inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni dei testimoni, salvo forse aderire
all'orientamento che esclude il divieto della testimonianza indiretta della polizia giudiziaria nel caso
di delega del P.M.: in questo caso potrebbe realizzare una simmetria con l'incarico conferito dal
difensore.
In realtà, ci pare che in questo caso il legislatore ha sorprendetemente determinato uno squilibrio tra
le parti a svantaggio dell'Accusa (21).
5.2. Altra questione certamente problematica e non approfondita nella sentenza in esame, è la
possibilità di consentire una sorta di «disapplicazione» del divieto di testimonianza indiretta della
polizia giudiziaria su quanto verbalizzato, nell'ipotesi ricorra, fra le parti, il cosiddetto
«contraddittorio implicito».
Il contraddittorio implicito si distingue dal contraddittorio «forte», caratterizzato dall'intervento
diretto delle parti all'assunzione probatoria svolgentesi al cospetto del Giudice, perché si affida
all'istituto del consenso di una parte, che rinuncia al contraddittorio forte.
È stato osservato che l'art. 111 Cost. sancirebbe l'indisponibilità del contraddittorio in quanto tale,
ma non nelle sue varie manifestazioni (22).
Sicché non sarebbe fuori luogo ammettere la possibilità per le parti di derogare al divieto di cui
all'art. 195, comma 4, c.p.p. mediante un loro accordo (23).
Del resto, ci sembra difficile poter sostenere il contrario, atteso che la stessa Carta costituizionale,
all'art. 111, comma 5, Cost., prevede il consenso dell'imputato quale manleva del principio del
contraddittorio.
Su questo tema, però, occorrerebbe una riflessione che qui non è possibile.
Concludiamo con un quanto mai opportuno rinvio alle parole della Corte, secondo la quale i
rimettenti hanno omesso di «considerare che, rispetto al momento in cui è stata emessa la sentenza
n. 24 del 1992, è profondamente mutato non solo il sistema delle norme che disciplinano l'attività
investigativa della polizia giudiziaria e il regime della lettura degli atti irripetibili, ma ciò che più
conta, il quadro di riferimento costituzionale».
C'è chi ha parlato di «decisioni figlie dell'epoca in cui sono state emesse», evidenziando che «se nel
1992 vi era maggiore attenzione, da parte della Corte costituzionale, di evitare che potesse
verificarsi la cosiddetta dispersione dei mezzi di prova, e, quindi, si era valorizzato quanto
acquisito nella fase delle indagini preliminari, oggi, invece, l'obiettivo primario è quello di evitare
che nel dibattimento possano trovare ingresso dichiarazioni assunte unilateralmente dagli organi
inquirenti» (24).
Siamo dell'avviso che, più semplicemente, la Consulta si sia limitata a ribadire come a seguito
dell'introduzione nella Costituzione dei principi del «giusto processo», debbano essere tenute
distinte la fase delle indagini preliminari della fase del dibattimento. Ciò significa che costituisce
prova solo quanto emerge in dibattimento nel contraddittorio fra le parti, svolto innanzi ad un
Giudice terzo, evitando che siano introdotti surrettiziamente elementi non acquisiti dal Giudice
tramite il contraddittorio delle parti, salvo _ come si è detto _ ipotesi eccezionali.
Dott. Enrico Maria Giarda
Dott. Luigi Scudieri
(1) C. Di Martino, (voce) Prova testimoniale. II) diritto processuale penale, in Enc. giur., vol.
XXV, Treccani, 1991, p. 3; M. Sturla, (voce) Prova testimoniale, in Digesto disc. pen., vol. X, Utet,
1995, p. 409; A. Nappi, in AA.VV., Atti e prove. Codice di procedura penale. Rassegna di
giurisprudenza e dottrina, a cura di G. Lattanzi-E. Lupo, Atti e prove, Giuffrè, 1997, p. 642 s.
(2) L'art. 195 c.p.c. pone due condizioni per l'utilizzabilità della dichiarazione de relato: (i) che il
teste indiretto abbia indicato la fonte da cui ha appreso le notizie inerenti ai fatti oggetto della
propria deposizione (art. 195, comma 7, c.p.p.), (ii) che il Giudice abbia chiamato a deporre il teste
di riferimento salvo che l'esame risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità. La citazione
è un dovere per il Giudice quando vi sia un'istanza di parte, mentre costituisce un potere in assenza
di richiesta (art. 195, comma 3, c.p.p.). L'utilizzabilità dei relata è poi ulteriormente circoscritta dai
requisiti di ammissibilità della testimonianza in genere (art. 187 c.p.p., art. 194, comma 3, c.p.p.,
etc.). Vanno ricordati, inoltre, i divieti di testimoniare sia sulle dichiarazioni rese nel corso del
procedimento dall'indagato o dall'imputato (art. 62 c.p.p.), sia sui fatti, appresi da persone tenute al
segreto professionale o d'ufficio in ordine alle circostanze di cui agli artt. 200 e 201 c.p.p. (questi
ultimi richiamati espressamente dal comma 6 dell'art. 195 c.p.p.).
(3) La sentenza è pubblicata in Cass. pen., 1992, p. 917 con nota di Andria.
(4) Le eccezioni sono state sollevate dal Tribunale di Palmi con ord. n. 514/01 dell'11 aprile 2001;
dal Tribunale Roma con ord. n. 662/01 del 7 giugno 2001; dalla Corte di assise di Messina con ord.
666/01 dell'11 maggio 2001 e dal Tribunale di Siracusa con ord. 728/01 del 4 luglio 2001.
(5) Differentemente, perciò, da quanto stabilito per coloro che nel medesimo procedimento
svolgono o hanno svolto la funzione di Giudice, Pubblico Ministero o di loro ausiliario.
(6) Cfr. ordinanza n. 514/01 dell'11 aprile 2001 del Tribunale di Palmi.
(7) Così ancora ordinanza del Tribunale di Palmi.
(8) Cfr. ordinanza n. 666/01 dell'11 maggio 2001 della Corte di assise di Messina.
(9) Così Tribunale Siracusa, ord. n. 728/01 del 4 luglio 2001, Bellino, Arch. nuova proc. pen., 2001,
587.)
(10) Quasi contemporaneamente la Consulta è intervenuta anche sul comma 2 dell'art. 500 c.p.p.,
ribadendo l'inefficacia probatoria delle dichiarazioni lette per le contestazioni, che dunque non
entrano nel fascicolo del Giudice, vd. C. cost., ord. 14-26 febbraio 2002, n. 36, Guida al diritto, n.
11 del 23 marzo 2002, p. 76 con nota di Bricchetti.
(11) A. Nappi, La prova documentale e il diritto al contraddittorio, in Cass. pen., 2002, 1193.
(12) In giurisprudenza, cfr. Tribunale Lecce, 11 ottobre 2001, Guardadiello, Giur. merito, 2001
(s.m.): per la dottrina cfr. V. Santoro, Il cambio da coimputato a teste esalta il confronto, in Guida
al diritto, n. 13 del 7 aprile 2001, p. 48.
(13) Cfr. Cass. sez. II, sent. 27 settembre 2001, n. 202, in Guida al diritto, n. 17 del 4 maggio 2002,
per la quale il divieto non opera rispetto a dichiarazioni acquisite in maniera del tutto occasionale o
estemporanea durante l'attività di indagini non verbalizzate, ma semplicemente fatto oggetto di
mera annotazione. Ciò in quanto l'articolo in esame non richiama l'art. 357, comma 1, c.p.p. In
giurisprudenza di merito, cfr. Tribunale Brindisi, 10 aprile 2001, 2, in Giur. merito, 2001 (s.m.); cfr.
Tribunale Torino, 19 aprile 2001, Barbarello, ibidem, 2001 (s.m.).
(14) Testualmente, la Corte costituzionale in motivazione della sentenza annotata.
(15) Cfr. M. Cerasa-Gastaldo, Le dichiarazioni spontanee dell'indagato alla polizia giudiziaria,
Giappichelli, 2001, p. 178 s.; V. Santoro, op. cit., p. 48, secondo il quale la previsione _ che
ribadisce il pacifico divieto già espresso con maggiore chiarezza e perentorietà dall'art. 62 c.p.p., _
oltre che superflua, anche potenzialmente nociva in quanto potrebbe stimolare interpetazioni
estremamente formali e insinuare il dubbio che si sia inteso consentire la testimonianza della polizia
giudiziaria tutte le volte in cui l'indagato sia stato ritualmente sentito e l'atto non sia stato
documentato nella forma del verbale.
(16) D. Siracusano, Diritto processuale penale, vol. I, Giuffrè, 1996, p. 385.
(17) C. Conti, Principio del contraddittorio e utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni, in Dir.
pen. proc., 2001, 604 e s. Contra, P. Ferrua, Giusto processo: l'attuazione si misura con le
incertezze della giurisdizione, in Dir. e giust., n. 26 del 7 luglio 2001, 20, il quale non ravvisa
alcuna differenza nella sostanza dell'atto per il solo fatto che la polizia agisca su delega anziché di
propria iniziativa.
(18) M. Calleri-L. Scuderi, Spunti di riflessione a margine dell'art. 111 Cost., in questa Rivista, n. 4
del 2001, p. 122 s.
(19) P. Gaeta, Divieto dei «relata» della polizia giudiziaria: la riforma annunciata dell'art. 195
comma 4 c.p.p., in AA.VV., Giusto processo e prove penali. Legge 1° marzo 2001, n. 63, Ipsoa,
2001, p. 136, al quale si rinvia per un più ampio approfondimento del tema qui trattato.
(20) Un problema analogo, era stato segnalato anche sotto la vigenza dell'art. 38 disp. att., cfr.
D'Andria, Gli effetti della declaratoria di legittimità costituzionale sull'art. 195, comma 4, c.p.p., in
Cass. pen., 1992, 925; R. Samek Lodovici, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in
Cass. pen., 1991, p. 2134.
(21) P. Ferrua, Attuazione del giusto processo con la legge sulla formazione e valutazione della
prova (I), in Dir. pen. proc., 2001, p. 605 s.
(22) G. Ubertis, Prova e contraddittorio, in Cass. pen., 2002, p. 1183.
(23) Per un maggiore approfondimento, vd. P. Gaeta, op. loc. cit., p. 140.
(24) L. Palamara, La tutela del principio del contraddittorio mette una pietra sopra la
testimonianza indiretta, in Guida al diritto, n. 12 del 30 marzo 2001, p. 66.
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