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delle cinque piaghe della santa chiesa

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delle cinque piaghe della santa chiesa
Antonio Rosmini
DELLE
CINQUE PIAGHE
DELLA
SANTA CHIESA
TRASPOSIZIONE IN LINGUA AGGIORNATA
A CURA DI DON GIANNI PICENARDI
STRESA - 2008
Nella Pagina precedente: Salvador Dalì,
il Cristo di S. Giovanni della Croce
PREFAZIONE1
ANTONIO ROSMINI (1797-1855) rivela in quest’opera tutto il
suo grande amore e la sua grandiosa visione della Santa Chiesa
di Dio. Si tratta di un amore illuminato dall’intelligenza, che gli fa
apprezzare e valorizzare tutti gli elementi essenziali della Sposa
di Cristo, e nello stesso tempo non gli fa chiudere gli occhi alle
sofferenze che affliggono il suo organismo per la tristezza dei
tempi e per i difetti degli uomini.
Già il Concilio di Trento aveva individuato alcune situazioni
malate del mondo cristiano del suo tempo e aveva iniziato un'efficace opera risanatrice, purtroppo non pienamente condotta a
termine dagli uomini di Chiesa. «Il Concilio di Trento - scrive F.
Bonali in un suo lucido articolo - affonda il suo ferro sanatore specialmente in tre piaghe: 1) l’ignoranza del clero e del popolo; 2)
la divisione del clero, e l’allontanamento del clero dal popolo con
la conseguente diminuzione dell’azione sociale della Chiesa; 3) la
supina soggezione del clero al potere laico. Ne scaturirono tre
principali riforme che si possono così caratterizzare: 1) cultura del
clero e del popolo; 2) celebrazione dei Sinodi e restaurazione integrale della gerarchia ecclesiastica secondo la prassi della disciplina antica, onde portare la Chiesa al posto che le compete di
guida e illuminatrice dei popoli; 3) libertà assoluta della Chiesa
nell’azione sociale. Questa la sintesi, mentre l’analisi ci è data da
Le cinque piaghe della Chiesa del Rosmini»2. Il discorso del Rosmini però si estende anche oltre, abbracciando numerosi altri
aspetti dell’organismo ecclesiastico.
1.
“Prefazione” che fece mons. Clemente Riva all’edizione da lui curata a poca distanza dalla chiusura del Concilio Vaticano II, per la Morcelliana nel settembre
1966 «Con licenza dell’Autorità ecclesiastica», quando ancora non era stato abolito l’«Indice dei Libri proibiti», perché rappresenta un fatto storico importante
2.
F. BONALI, Le cinque piaghe di A. Rosmini e il Concilio di Trento, in «Rivista Rosminiana », XLI (1947), p. 11.
I
Il Roveretano nello stendere le sue pagine ha presente un'immagine della Chiesa crocefissa. A somiglianza dei Cristo crocifisso, essa è dolorante per le piaghe che sono inflitte al suo corpo come quelle che erano state inferte al corpo adorabile del divin
Salvatore sulla croce. I mali che affliggono la Chiesa del suo tempo ritiene Rosmini che siano principalmente cinque, quante sono
le piaghe di Gesù crocifisso. Essi sono così elencati: 1) la divisione
del popolo dal clero nel culto pubblico, 2) l’insufficiente educazione del clero, 3) la disunione dei vescovi, 4) la nomina dei vescovi
abbandonata al potere temporale, 5) l’asservimento dei beni della
Chiesa al potere politico.
Con la sua calda e radicale analisi il Rosmini scopre un nesso
logico e insieme storico tra una piaga e l’altra, nesso che viene
esplicitamente sottolineato nel testo stesso. Insieme a questi cinque punti principali vengono indicati anche altri aspetti strettamente connessi. Ne risulta una trattazione di ampio respiro, anche se Rosmini aveva in mente il progetto di un trattato, in cui
avrebbe discorso dei rimedi ai mali che affliggono la Chiesa di
Dio. Lo scritto che qui presentiamo non si esaurisce nella sola
diagnosi dei mali, anzi la parte più importante del libro è il discorso positivo sulla Chiesa. Le piaghe sono soltanto un motivo, uno
degli stimoli che permettono a Rosmini di allargare il suo sguardo
penetrante ed esaltante sull’intera immacolata Sposa di Cristo,
con tutte le sue immense ricchezze e le sue potenzialità infinite,
capace di operare il bene dei suoi membri e di tutta l’umanità, di
essere il vero strumento di salvezza e di santificazione di tutti gli
uomini. La Chiesa ha una forza intrinseca tale che effettivamente
può trarre in ogni momento dal suo seno e dalla sua storia energie antiche e moderne più che sufficienti a sanare queste piaghe.
La sua forza è la forza stessa di Cristo, di Dio. Con essa può rinnovare e ringiovanire se stessa in tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi
membri e in tutte le sue istituzioni.
Il Concilio Vaticano II ha confermato abbondantemente come
le pagine delle Cinque piaghe della Santa Chiesa siano realmente
vere e profetiche. I punti salienti del libro sono: l’unione viva di
Clero e fedeli nell’unico Popolo di Dio; la partecipazione attiva e
intelligente alla liturgia; il Cristianesimo come mistero di vita soprannaturale; la centralità del Sacramento e della Parola di Dio; il
ritorno alle fonti dei Padri della Chiesa; l’indispensabilità della teo-
II
logia viva; il grave danno del giuridicismo adulatorio; l’educazione
profonda del Clero; l’unione tra tutti i vescovi a formare un sol
corpo con a capo il Romano Pontefice; il recupero nella comunità
cristiana dell’idea del Vescovo come Padre e Pastore della Chiesa
locale; una presenza e un consenso di tutti fedeli nell’elezione del
proprio Pastore; il senso di responsabilità e di partecipazione convinta alla vita della comunità ecclesiale; la libertà della Chiesa dai
poteri politici e dai beni terreni; la povertà del Clero e dei fedeli;
la carità della Chiesa verso gl’indigenti, a cui i beni della Chiesa in
parte appartengono; la prevalenza dell’idea sociale, portata dal
Cristianesimo, sull’idea individuale, propria del paganesimo;
l’animazione cristiana degli individui prima e delle società poi;
l’impostazione Cristocentrica della storia umana. Il tutto è corredato da una documentazione e da un’erudizione incredibili, come
in genere si trovano in quasi tutte le opere rosminiane.
Vi sono naturalmente delle posizioni in questo libro che rispecchiano delle situazioni della storia della Chiesa fino alla prima
metà dell’Ottocento. Non sarebbe corretto pretendere che corrispondessero esattamente a situazioni di tempi successivi. Perciò
vi sono cose dette da Rosmini che hanno un valore contingente e
transeunte. Ma i motivi di fondo sono validi tuttora; basta pensare appunto allo spirito e ai Documenti del Concilio Vaticano II.
I princîpi che il Roveretano ha richiamato ed esposto nel suo
tempo, pure in mezzo a incomprensioni, a sofferenze, a umiliazioni, oggi stanno arrivando a fruttificazione e maturazione. Non
incidono nel tempo e non fanno storia solo i fatti clamorosi e pubblicitari, né solo gli avvenimenti e le idee che trovano sulla loro
strada un cammino facile e ufficialmente appoggiato e sostenuto.
Nella storia della Chiesa vi sono movimenti e idee che si fanno
largo nel silenzio e nella persecuzione, penetrando a fondo nelle
coscienze e producendo benefici risultati a distanza di tempo.
Non temiamo d’esser lontani dal vero affermando che Le cinque piaghe sia l’opera più celebre di quante ne scrisse il Rosmini
(e sono assai numerose). Qui la offriamo al pubblico in
un’edizione veramente nuova, ossia offriamo il testo ultimo del
Roveretano, poiché abbiamo condotto il nostro lavoro su di una
copia dell’opera, annotata di proprio pugno dal Rosmini, il quale
aveva intenzione di ristampare, se gli fosse stato possibile, il pro-
III
prio lavoro con non pochi ritocchi e con notevoli aggiunte e dilucidazioni.
****
«Per comprendere Le cinque piaghe, scrive P. Bozzetti3, bisogna anzitutto entrare nell’animo con cui furono scritte. Esso è
chiarissimo a chi legge senza prevenzioni. Rosmini crede nella
Chiesa. Egli la pensa e la sente come la grande opera di Dio
nell’universo, come il regno di Dio, come il corpo mistico di Cristo.
Non vi è cattolico forse nei venti secoli dacché la Chiesa esiste
che l’abbia amata più di lui. Per questo egli si addolora dei mali
che l’affliggono e nel suo dolore non dico che li esagera, ma dà
loro un rilievo che, a chi non ama come lui, può sembrare esagerato. E tuttavia un cotale calore di sentimento non attenua né ottenebra il lume della mente. Erano una realtà quei mali che Rosmini vedeva nella Chiesa in quel principio d’Ottocento. Sì, il senso di Cristo, la vita soprannaturale e liturgica del popolo cristiano
era in ribasso. Per rialzarlo ci voleva un clero fervoroso e sapiente; ma a ciò si richiedeva una più completa formazione. Questo
toccava ai vescovi; ma i vescovi non potevano agire con frutto se
non uniti in corpo, secondo l’istituzione di Cristo, e stretti al loro
capo, il papa. Che cosa impediva questa unione? L’inframettenza
del potere laico; che era riuscito ad avere in sua mano la nomina
dei vescovi. E come era riuscito? Coll’asservire a sé i beni della
Chiesa, servitù ch’era un avanzo del feudalesimo. Ecco le Cinque
piaghe.
«È facile intendere che lo scopo principale e finale del libro è
la rivendicazione della libertà della Chiesa. Per quasi due terzi del
libro non si parla d’altro. Ro smini lo scrisse nel 1832, in una villa
3.
Molti hanno scritto intorno a quest’opera rosminiana. Più oltre indicherò una
bibliografia essenziale. Ho qui sotto gli occhi alcune pagine manoscritte di due
profondi conoscitori della figura e del pensiero del Rosmini, P. Giuseppe Bozzetti (1878-1956) e P. Giovanni Pusineri (1886-1964), che avevano iniziato, in
occasioni diverse, a scrivere intorno alle Cinque piaghe della santa Chiesa. In
questa prefazione riferirò, secondo l’opportunità, le considerazioni in merito
di questi due scrittori rosminiani.
IV
del Padovano, del duca Melzi, Correzzola, e lo finì al Calvario di
Domodossola l’anno seguente: poi lo chiuse in un cassetto. Pubblicarlo allora sarebbe stato uno scandalo. Un suddito dell’Austria
che osasse tanto! Era proprio il sistema di Giuseppe II più che
mai in efficienza che veniva preso di mira: una protezione della
Chiesa che si convertiva in cappa di piombo, la religione
instrumentum regni, un clero pavidamente ossequioso, regola ufficiale il sospetto verso ogni affermazione spontanea di vita spirituale.
Proprio allora Rosmini lo sperimentava in persona a Trento
dove il modesto tentativo d’iniziarvi una casa del suo novello Istituto della Carità, incontrava persecuzioni e vessazioni d’ogni sorta
da parte del Governo, a cui il Principe Vescovo e la Curia tenevano mano con un servilismo che a noi oggi appare incredibile. Erano i tempi in cui, per citare un solo episodio minimo, ci poteva essere un vescovo come il Tschiderer, uomo pio e santo di cui si
tratta la beatificazione, ma che richiesto una volta da un suo sacerdote semplicemente del permesso di andare per un mese in
vacanza nel Veronese, cioè fuori di diocesi, rispondeva: Per me
non ho nulla in contrario; ma cosa dirà il Gubernium?
«Il sacro sdegno dell’animo sacerdotale di Rosmini per un tale stato di cose trabocca nelle pagine delle Cinque Piaghe, e le
rende forse le più vive, le più calde che abbia scritte: facit indignatio versum».
Ma i tempi cambiano e la situazione italiana si apre a nuova
vita. I “tempi propizi” pare al Rosmini arrivino coll’elezione a papa
di Pio IX. Scrive egli infatti: «Ma ora (1846) che il capo invisibile
della Chiesa collocò sulla sedia di Pietro un Pontefice che par destinato a rinnovare l’età nostra e a dare alla Chiesa quel novello
impulso che deve spingere per nuove vie ad un corso quanto impreveduto altrettanto meraviglioso e glorioso; si ricorda l’autore
di queste carte abbandonate, né dubita più di affidarle alle mani
di quegli amici che con esso lui dividevano in passato il dolore ed
al presente le più liete speranze» (n. 165).
Allora Rosmini le tirò fuori - continua P. Bozzetti - e le pubblicò dedicandole al clero italiano. Nel tempo stesso sollecitava gli
amici che avevano qualche influenza nella vita pubblica perché i
nuovi princîpi di libertà fossero praticamente riconosciuti anzitutto
V
verso la Chiesa, la cui libertà egli riteneva come la più sicura e feconda garanzia di tutte le altre libertà. La Chiesa non ha bisogno
di protezione e di privilegi ma di libertà; questa era il chiodo che
batteva. In una lettera a Mons. Moreno, Vescovo d’Ivrea (del 30
aprile 1848) così deplora un opuscolo scritto da un sacerdote con
lodi eccessive dello Statuto di Carlo Alberto: «Convien scrivere
delle cose che si conoscono e non di quelle che si ignorano. La
Costituzione del Piemonte ha gli stessi vizi gravissimi di tutte le
altre e non garantisce in alcun modo la libertà della Chiesa. Questa è quella che il clero deve ora altamente rivendicare, senza lasciarsi illudere dalle insidiose e bugiarde parole del potere laicale:
è già tempo di aprire gli occhi e dimostrare che i sacerdoti non
sono più un fanciullo da prendersi con le ciliege e le chicche». Per
lui era una «chicca», per es., quel primo articolo dello Statuto:
«La religione cattolica è la religione dello Stato»: frase indeterminata ed equivoca che prometteva tutto per non mantener nulla.
Pare che i fatti gli abbiano poi dato ragione.
Rosmini voleva la libertà per la Chiesa come un diritto essenziale che doveva esserle riconosciuto, non come un privilegio concesso quasi per favore e a stretta misura. Libertà di esistere, di
formarsi, di governarsi, di organizzarsi per esercitare il suo ministero spirituale, e di usare dei mezzi anche materiali di cui venisse in possesso legittimamente, secondo il diritto naturale e comune: nulla di più, nulla di meno.
Ma egli si illuse che i tempi fossero maturi. Quando della libertà
si abusava sino ai gravi trascorsi che obbligarono il papa a lasciare
Roma (fuggendo a Gaeta), quel parlare alto di libertà si prestava
nella confusione degli animi a mala interpretazione tra il grosso
pubblico; e ciò spiega la messa all’Indice di un libro pur così caldo di
dritto zelo e sublime amore per la Chiesa. Non c’è dubbio che dopo
l’esperienza di un secolo i cattolici italiani di oggi lo saprebbero intendere nel suo giusto senso. Quanto ai liberali d’allora, si fermarono, quelli che lo lessero, al giudizio di Francesco De Sanctis, che vide nella rivendicazione fatta da Rosmini della libertà della Chiesa
quasi un’affermazione di predominio sullo Stato. In ciò quei liberali
ereditavano la mentalità dei governi assoluti del Settecento4.
4.
P. Bozzetti scriveva queste considerazioni nel 1943, stimolato da una ristampa
VI
Tale mentalità non è ancor morta neppure oggi. Un vero e
autentico concetto di libertà, anche nei confronti della Chiesa, non
è ancora penetrato nella mente di tutti gli uomini moderni. Il pensiero dello Stato come fonte del diritto, di tutti i diritti, fa parte
ancora di molta cultura e di molta politica del nostro tempo. A
questo proposito viene spessissimo sbandierata quell’equivoca
espressione di “Stato di diritto”, come suprema affermazione di
libertà; mentre non è altro che un’affermazione incerta e indeterminata, incapace di riconoscere, di rispettare, di garantire e di
promuovere una vera e reale libertà per ogni persona e per ogni
comunità di persone, al di là di ogni paternalismo e di ogni dispotismo del cosiddetto Stato di diritto.
In Rosmini il concetto di libertà raggiunge veramente una lucidissima e universale coerenza. Le sue opere giuridiche e politiche rappresentano una sfida al liberalismo d’allora, e ad ogni sorta di demagogia libertaria, precisamente sul terreno stesso della
libertà, intesa e applicata nel modo più radicale, più realistico e
concreto possibile, che talvolta lascia sconcertati e scandalizzati
certi democratici e liberali perfettisti e astratti. Il libro delle Cinque piaghe ne è una testimonianza calorosa e vivace.
****
Il Roveretano scrive il suo libro nel 1832. La composizione
delle Cinque piaghe - scrive P. Pusineri5 - in quella data, in quelle
circostanze, può apparire misteriosa, inesplicabile. Egli decise di
mettersi in viaggio, in fretta e furia, per Milano e Venezia, avendo
sentito che i suoi due amici, il conte Giacomo Mellerio e Don Luigi
Polidori, stavano per portarsi a Venezia nel novembre 1832. Volle
approfittare dell’occasione per fare il viaggio in loro compagnia, e
recarsi dal Patriarca di Venezia, Mons. Giuseppe Monico, a chiedergli l’approvazione delle Costituzioni del suo Istituto che allora
delle Cinque Piaghe a cura di E. ZAZO (editore Bompiani).
5.
In vista di un’eventuale pubblicazione delle Cinque piaghe nei nostri giorni, P.
Pusineri iniziava a scriverne la prefazione, interrotta appena iniziata dal sopraggiungere della morte (1964). Ne riportiamo qui alcuni brani inediti, che ci
introducono nell’argomento dell’origine storica dell’opera rosminiana.
VII
aveva avviato. Il Monico, tanta era la stima che faceva del suo
giovane amico, in un battibaleno scorse e approvò le Costituzioni.
Passando per Padova il Mellerio pensò di restare alcuni giorni a
Correzzola, in una tenuta del Duca Melzi d’Eril, di cui era tutore. Il
Rosmini approfittò di quei pochi giorni di sosta per avviare e condurre bene avanti il libro delle Cinque piaghe.
Perché proprio allora e in quella circostanza? La carica psicologica che abbiamo visto non basterebbe a spiegare quell'improvvisa decisione se non ci fosse stata una causa determinante e
pressante. Il problema della Chiesa che sempre, per il suo grande
cuore, gli era presente, gli era stato posto da Niccolò Tommaseo,
come bisogno di una soluzione pratica e immediata. Correvano
anni di rivolgimenti non solo politici e sociali, ma anche religiosi.
Si pensi a tutta l’opera dei campioni della Restaurazione religiosa:
da Chateaubriand a De Maistre, da De Bonald ad Haller e De Lamennais. Questo specialmente aveva suscitato, con qualche diffidenza, un incredibile entusiasmo. A Firenze il Lambruschini, il
Capponi, il Tommaseo s’erano incontrati nel Circolo dell’Antologia
di Pietro Vousseaux: specialmente il Lambruschini era insofferente dei dogmi, dei veti, della disciplina imposta dal Cattolicesimo
Romano, e desideroso di spezzare le catene e di introdurre novità: si era rivolto nell’autunno del 1831 al Capponi, che non ne
volle sapere. Si rivolse al Tommaseo, che s’accordava con lui nel
riconoscere la necessità di uno svecchiamento, di un rinnovamento, anche profondo, se non radicale: i due si comunicarono le loro
idee, ma quando si trattò di scendere a un piano positivo e pratico, si trovarono in un insanabile disaccordo. Il Lambruschini trovava tutto male nella Chiesa cattolica romana e voleva una “religione del cuore”, che assumesse qualche elemento cristiano, ma
anche prendesse dalla riforma protestantica, in cui vedeva pure
del buono, ma specialmente dai Sansimoniani, nei quali di buono
ne trovava molto, e più adatto ai bisogni del tempo.
Il Tommaseo pur accondiscendendo in molto al Lambruschini,
pur riconoscendo il cattivo stato in cui era caduta la cristianità,
ammetteva tutto del cattolicesimo, non voleva saperne né di riforma protestantica né di novità sansimoniane, non negando che
avessero dei meriti. Ma pensava esserci nel cattolicesimo, intrinseci, tutti gli elementi per un rinnovamento della società cristiana,
e quindi non doversi trattare di altro che di restaurazione, di rin-
VIII
giovanimento delle istituzioni, di applicazioni nuove e prudenti di
princîpi antichi. Il punto vero su cui venne un’insanabile frattura
fra i due, fu la ferma volontà del Tommaseo che ogni rinnovamento religioso dovesse essere fatto dai legittimi Pastori6.
Il Tommaseo allora, in quel suo fervore, si rivolse al Rosmini,
amico di antica data e di cui apprezzava la mente come il più profondo pensatore del tempo. Abbiamo alcune lettere scambiate tra
i due in questi anni. Ma una in particolare ha grande importanza.
Il Tommaseo l’annuncia al Rosmini fin dall’estate del 1832, e il
Rosmini l’attende con grande desiderio. Il Dalmata si decide a
mandargliela il 10 ottobre. A distanza di una settimana (il 17 ottobre) si ha la risposta del Roveretano7 .
Ambedue affrontano il tema del dovere di intervenire per
combattere i mali nel mondo e i pregiudizi contro la religione,
fautrice di tutti i beni anche temporali e di tutte le libertà. Ma tra i
due vi è una profonda differenza, relativamente alla priorità. Il
Tommaseo sostiene che ogni superbia debba esser dispersa, per
cui è necessaria la lotta. Ognuno deve intervenire e raddrizzare
ogni errore: «ormai la lotta è inevitabile, io la credo ordinata acciocché si riveli il pensiero di molti cuori». Il focoso Dalmata sente
intimamente una spinta all’azione aperta, alla crociata per il Cristianesimo di fronte al male e agli errori moderni.
Un’altra iniziativa ritiene il Tommaseo debba assumere la religione cristiana, ed è quella di impegnarsi nel benessere sociale e
materiale. «Il mondo si è impadronito dei materiali interessi; e
con essi quasi con chiave apre e serra il cuore degli uomini: di
questi interessi la religione si faccia ella dispensatrice, non per tiranneggiarli, ma per guarentirli e diffonderne l’equabile godimento. Allora gli uomini ritorneranno religiosi, come al vedere i mira6.
Fin qui gli appunti manoscritti di P. Pusineri. In tutto questo argomento si può
consultare con vera utilità il libro di NICCOLÒ TOMMASEO, Delle innovazioni religiose e politiche buone all’Italia (Lettere inedite a Raffaello Lambruschini: 18311832), a cura di R. CIAMPINI con un saggio introduttivo di G. Sofri, Morcelliana, Brescia 1963, pp. 218. Si veda specialmente il saggio del Sofri.
7.
Le due lettere sono riportate integralmente in «Charitas», luglio 1964, pp. 2130.
IX
coli di Gesù Cristo, le moltitudini credevano in lui. Voi vedete che
il cattolicismo, ne’ tempi e ne’ luoghi dove mantenne il suo spirito
e la sua forza, si presentò sempre come un benefizio sociale. Pensiamo a far di lui un elemento della sociale rigenerazione, e doppia gloria ne verrà a Dio, doppia agli uomini utilità». Non si dimentichi che il Tommaseo non riusciva a capacitarsi del modo di
vita assunto dal Rosmini, dedito agli studi, al raccoglimento, alla
vita di perfezione monastica. Più volte lo aveva invitato a gettarsi
nel mondo dell’azione con tutti i suoi talenti. Era cosa da pazzi ritirarsi nella solitudine del Calvario di Domodossola, mentre il
mondo e la Chiesa avevano bisogno di lui.
Rosmini risponde alla lettera del Tommaseo capovolgendo la
prospettiva di azione cristiana. Riconosce che lo stato attuale della religione è doloroso, riconosce innumerevoli mali nel mondo ed
anche nell’interno della Chiesa. Ma come eliminarli? Vi è il principio di passività che deve regolare la vita di ogni cristiano, ossia
quella regola di condotta per cui il cristiano elegge di sua iniziativa l’umiltà operosa nel ritiro e nel nascondimento per non intralciare col suo attivismo l’opera di Dio, pur essendo disposto ad ogni chiamata divina, pronto ad abbandonare il ritiro per dedicarsi
a tutte quelle opere che la volontà di Dio potesse indicare.
Scrive Rosmini che Dio è onnipotente e può disperdere «la
superbia di tutti». «Dio basta a se stesso. Dio è tutto; e il giusto
nei beni eterni ha il suo cuore … Non ha dunque bisogno la religione d’essere giustificata con industrie umane; ma osservata, si
giustifica da se stessa». La carità sia stimolo. Cercate prima di
tutto il regno di Dio e la sua giustizia e il resto verrà in soprappiù.
La povertà è «l’unico mezzo onde la religione del Crocifisso può
giungere a signoreggiare gli interessi umani». Quando «la Chiesa
è carica delle spoglie d’Egitto, come di altrettanti trofei; allora
ch’ella pare divenuta arbitra delle sorti umane, allora solo ella è
impotente, ella è il Davide oppresso sotto l’armatura di Saul;
quello è il tempo del suo decadimento». Ma Dio, che è vigilante,
dopo averla umiliata, le fa capire che «in Lui solo ella è forte e
può confidarsi; mosso a pietà di lei, concede alla ferocia del secolo di buttarsi sui beni temporali della Chiesa, e farne bottino, riducendola in tal modo a quella sua originaria semplicità, che …
trae di nuovo a sé tutto», pronta a rinunciarvi alla voce dello Sposo celeste. Il cristiano trae la sua forza dal Vangelo e dal rinno-
X
vamento della sua coscienza interiore. Non cede alla tentazione di
veder la Chiesa promotrice del benessere temporale e materiale,
il quale potrà essere una conseguenza (anzi lo sarà certamente
per una società che viva coerentemente il Vangelo e le virtù individuali e sociali) della sua opera; ma non lo scopo del suo esistere
e del suo agire, che rimane sempre essenzialmente di ordine spirituale e religioso. La Religione e la Chiesa non possono essere
vivificate attraverso il bene temporale e sociale, ma attraverso il
Vangelo vissuto e praticato fedelmente. Ogni riforma ecclesiastica
e cristiana è essenzialmente riforma della coscienza di ogni individuo, di ogni aspetto religioso della Chiesa, mediante il ritorno
alle fonti e alla semplicità originaria. Tornano qui alla mente le
parole di Giovanni XXIII relative all’opera del Concilio Vaticano II:
«La verità che santifica le anime ha benefica influenza anche su
quanto riguarda la vita ordinaria degli individui e dei popoli». La
posizione del cattolicesimo liberale ottocentesco, specialmente
quello francese, trova un’opposizione intransigente in Rosmini,
che non può ammettere una confusione tra religione e politica. Il
suo pensiero teologico-filosofico-giuridico in proposito è molto esplicito. Egli rivendica una chiara e netta distinzione tra religione
e politica di fronte ad ogni sorta di cristianesimo politico e sociale,
come pure di ogni gallicanesimo, contro cui spende molte pagine
delle Cinque piaghe. Qualcuno aveva visto in lui ingiustamente,
come vedremo, la teoria della separazione tra Stato e Chiesa.
Dal Tommaseo Rosmini era stato stimolato perciò a portare
la sua riflessione su argomenti di vitale importanza per la vita
della Chiesa. Taluno aveva visto uno stimolo al Rosmini anche da
parte dello zio del Tommaseo: il cappuccino P. Antonio, che nel
giugno del 1832 scriveva al Roveretano per avere consigli e osservazioni in merito ad alcuni suoi scritti relativi alle proposizioni
gallicane8. Certo si è che Rosmini nel novembre del 1832 nella
quiete di Correzzola, disponendo di alcuni giorni di tranquillità,
imposta tutto il suo lavoro in modo organico e stende la maggior
parte dell’opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. I vari
problemi del rinnovamento della religione e delle istituzioni ecclesiastiche passano davanti alla mente del Rosmini e acquistano lu8.
F. BONALI: op. cit., II, p.2, n.
XI
ce e vivacità dalla sua esperienza sofferta nei rapporti con il vescovo di Trento legato più all’imperatore che alla Chiesa, dalla sua
conoscenza ed erudizione immensa, dal suo amore verso la Chiesa e dall’aiuto divino. I mali della cristianità sono analizzati con
quella profondità che pervade ogni opera rosminiana e soprattutto con la preoccupazione di indicare nello stesso tempo i rimedi
che fanno al caso, richiamandosi all’anima della Chiesa e alla sua
antica tradizione, capace di informare, di salvare e di santificare i
tempi nuovi, come aveva fatto in altri tempi della sua storia.
****
Un’altra questione vorremo affrontare prima di porre fine a
queste considerazioni introduttorie, ossia la questione della iscrizione nell’Indice dei libri proibiti delle Cinque piaghe della Chiesa.
Le vicende storiche di Rosmini nel 1848-49 sono abbastanza note, meno noti invece i motivi della condanna del suo libro.
Rosmini era stato inviato ufficialmente da Carlo Alberto e dal
governo piemontese a Roma nell’agosto del 1848 per discutere col
Governo pontificio e con altri governi della Penisola un eventuale
progetto di Lega nazionale e di Confederazione tra i vari Stati italiani. Pio IX, che aveva una sincera stima del Rosmini, si disse lietissimo di averlo a Roma. Lo riceveva di frequente per aver consigli e
suggerimenti, intrattenendolo a pranzo al Quirinale. Gli manifestò
anche il suo animo di crearlo cardinale. Quindi facesse tutti i preparativi necessari, perché nel prossimo Concistoro di dicembre lo avrebbe nominato. Molti della Curia lo indicavano già come il futuro
card. Segretario di Stato. Rosmini fece tutti i preparativi. Ma la situazione politica di Roma precipitò e Pio IX dovette fuggire a Gaeta,
manifestando la volontà che il Rosmini lo raggiungesse colà.
Le nuove vicende politiche e le mutate situazioni storiche cambiarono l’animo del pontefice. L’influsso del card. Antonelli e
dell’Austria convinsero Pio IX a ritirare la Costituzione, che aveva data al suo popolo spinto da ideali politici nuovi e dietro suggerimenti
del Rosmini. Inizia a Gaeta il periodo più triste per il Roveretano. Pio
IX è sempre più bloccato dal partito austriacante, che neutralizza
prima e allontana poi dal papa gli uomini migliori, in primo luogo il
Rosmini.
XII
È di questo periodo (16 febbraio 1849) una lettera «confidenziale» dell’Ambasciatore austriaco presso la S. Sede, Maurizio
Esterhazy, al Primo Ministro a Vienna9, in cui Rosmini vi è definito
«il nostro più formidabile nemico» e «il cattivo genio di Pio IX».
L’Antonelli e Pio IX però stanno ritornando, e così anche la maggioranza del S. Collegio. Facilmente si getteranno nelle braccia
dell’Austria, perché quando l’Ambasciatore giunse a Gaeta ebbe
l’impressione d’essere «l’atteso come il Messia». In questo clima
politico lo scritto del Rosmini, mirante a strappare al potere politico la nomina dei vescovi, in nome della libertà della Chiesa, non
poteva non provocare tutta la reazione dell’Austria, che nella nomina regia dei vescovi aveva uno dei maggiori punti di sicurezza
e di forza politica del suo impero.
A tutte le vicende ricordate si aggiungano le accuse di deviazioni ed errori dottrinali abilmente, e da diverso tempo, diffuse
dai suoi avversari in molti ambienti, specie ecclesiastici. Si avrà
così un quadro del tempo e della situazione in cui avvenne la
proibizione delle Cinque piaghe. E non sarà difficile intuire le cause, le intenzioni e le circostanze che provocarono e accompagnarono tale condanna.
Ecco i particolari attraverso cui si arrivò alla messa all’Indice
del libro rosminiano.
Qualche cardinale accusò il Rosmini al papa nell’autunno del
1848 come se nelle Cinque piaghe vi fossero delle dottrine erronee. Pio IX incaricò mons. Corboli di parlarne al Rosmini. I punti
di accusa su cui si desiderava chiarisse meglio la sua mente erano
cinque: 1) affermare essere di diritto divino l’elezione dei vescovi
a clero e popolo; 2) propendere per la trasformazione della liturgia nelle lingue volgari; 3) parlar male degli Scolastici; 4) dire che
i fatti storici sono di diritto divino; 5) volere la separazione dello
Stato dalla Chiesa10.
Rosmini rimase stupito nel sentirsi imputare tali opinioni, facendo notare al monsignore la differenza tra le accuse e ciò che si
9.
D. MARIANI, Rosmini nei rapporti della Cancelleria austriaca, in «Rivista Rosminiana» LVI (1962), 308.
10.
Diari, in «Scritti editi e inediti», ed. Naz., I, Roma, 1934.
XIII
trovava realmente nei propri scritti. Comunque invitava il Corboli
a stendere dei consigli, anzi una lettera da indirizzare al papa, e
che egli, il Rosmini, volentieri l’avrebbe trascritta, sottoscritta e
portata a Pio IX, con pochi ritocchi. Il papa l’accolse benevolmente, promettendo di leggerla; il che non avvenne, perché a distanza di tempo parlando con qualcuno affermò che attendeva dal Rosmini una lettera chiarificatrice. Rosmini saputolo scrisse un’altra
lettera al papa, rimasta anch’essa senza risposta. Oramai temeva
che la sua corrispondenza non giungesse a destinazione. In essa
egli si dichiarava sempre pronto a modificare tutti gli eventuali errori che gli fossero indicati. La stessa cosa ripeté al papa a voce
più volte. Ma nessuno si fece mai vivo.
Frattanto le accuse più diverse e le dicerie più strane circolavano sul conto del Rosmini, che si era trasferito a Napoli. Rosmini
fu alcune volte dal papa, ma si accorse che l’ambiente e l’animo
del papa erano profondamente mutati; ciononostante egli usò
sempre la sua lealtà e schiettezza con tutti. Alla metà di luglio
(1849), dopo soprusi e angherie d’ogni genere della polizia borbonica, che non agiva di proprio capriccio, lasciò Napoli e iniziò il
suo doloroso ritorno attraverso l’Italia fino a Stresa, dove giunse
il 2 novembre, riabbracciato dai cari confratelli. «I dolori e le umiliazioni d’ogni genere non avevano tolto nulla alla serena dolcezza
del suo sorriso, che sotto a quegli occhi profondi e penetranti dava un carattere quasi sovrumano alla sua fisionomia»11.
Durante il viaggio, mentre era ospite del card. Tosti ad Albano, ricevette (13 agosto 1849) una lettera del Maestro dei Palazzi
Apostolici, in cui gli si annunciava che «per ordine del S. Padre fu
adunata in Napoli straordinariamente la S. Congregazione dell'Indice, la quale proibì con decreto del 30 maggio, confermato dal
Papa il 6 giugno … i miei due opuscoli delle Piaghe e della Costituzione … Mi fu tenuto segreto interamente tutto questo lavoro, e
non mi fatto conoscere alcun motivo della proibizione. Io mandai
la piena sottomissione … Sit nomen Domini benedictum»12 11
11.
Diario di Vittoria Manzoni, citato in Vita di A. Rosmini, II, p. 261.
12.
Diari di Rosmini, op. cit., pp. 411-12. La sua sottomissione e la sua umiltà accrebbero immensamente la stima e l’ammirazione generale, specie presso gli
spiriti più illuminati e aperti.
XIV
Dell’esame della Cinque piaghe era stato incaricato il «P. G.
De Ferrari, Commissario del S. Uffizio, e furono giudicate “censurabili secondo le regole dell’Indice” in data 4 novembre 1848 (il
voto si conserva agli Aff. Eccl. Straordinari)»1312. È interessante
osservare tale data, perché il 15 novembre Rosmini prestava un
giuramento alla Minerva alla presenza di otto Cardinali, in quanto
era stato fatto Consultore del S. Uffizio e dell’Indice. Rosmini era
giunto a Roma nell’agosto precedente. I disordini politici al Quirinale iniziarono il 16 novembre. Il Sommo Pontefice gli era ancora
favorevole e benevolo. Ma il partito avverso si era messo immediatamente al lavoro nei primi mesi del suo arrivo a Roma. Si
trattava di strappare il Rosmini, «il cattivo genio di Pio IX»,
dall’affetto e dalla fiducia del pontefice. Le tristi circostanze politiche in cui Pio IX venne a trovarsi colla fuga a Gaeta (24 novembre 1848) e le manovre di funzionari e dignitari facilitarono il gioco, e in poco tempo Rosmini venne travolto. Il tempo però e la
storia hanno dato ragione alla sua intelligenza preveggente. E il
bene che aveva seminato nel dolore e nell’umiliazione risplende
oggi di chiarezza profetica.
Quali i motivi della proibizione delle Cinque piaghe? La denuncia e l’accusa portavano motivazioni dottrinali. Mons. Corboli
infatti gli aveva riferito che era sospettato di dottrine erronee.
Ora la continua insistenza del Rosmini perché gli venissero segnalati e precisati meglio eventuali punti da correggere, il silenzio
sulle motivazioni della condanna, l’insieme dei comportamenti dei
responsabili, le manovre politiche poco chiare, orientano gli studiosi a ritenere tale proibizione un fatto d’opportunità e di prudenza. Lo stesso punto più discusso, quello dell’elezione dei vescovi a clero e popolo, per diritto divino morale, viene chiarito dal
Rosmini nei suoi scritti in modo efficace, così da non lasciare dubbi. Ma i tempi non erano maturi per dottrine e per orientamenti
che pure si richiamavano, e con fondatezza, a tradizioni antiche
nella Chiesa.
Indubbiamente le intenzioni degli avversari di Rosmini sono
oggi facilmente individuabili coi documenti che ormai gli storici
posseggono. Bisognava al più presto impedire che Rosmini diven13.
R. AUBERT, Il Pontificato di Pio IX, Torino 1964, p. 65, n.
XV
tasse cardinale. Per l’Austria poi, col suo giuseppinismo, Le cinque
piaghe erano un’accusa più che evidente. Altri avversari avevano
denunziato inoltre numerosissime proposizioni rosminiane alla
Santa Sede e vedevano in Rosmini un pensatore pericoloso, che
suscitava problemi inquietanti per le consuetudini acquisite in un
determinato sistema curiale. L’influsso di Rosmini sul papa doveva esser mortificato. Nulla di più efficace per ottenere questi risultati che il fatto di porre all’Indice il libro Delle cinque piaghe. La
stessa ipotesi del Rosmini sulla proibizione è questa: «Fui assicurato che niuna proposizione si riscontrò in quello scritto degna di
particolare censura teologica; onde inferisco che debbano probabilmente essere state proibite per timore dell’accusa, e perché
non rimanessero offesi alcuni governi tenaci delle nomine vescovili»14.
Un’opera polemica contro le Cinque piaghe uscì quasi subito,
nel 1849, per la penna del P. Agostino Theiner, che sotto forma di
lettera15 ne tentò una confutazione, con espressioni non sempre
caritatevoli. Rosmini dal canto suo aveva pubblicato a Napoli il rifacimento di tre lettere sulle elezioni vescovili16, in cui espone una
14.
Epistolario Completo, X, p. 623. La preoccupazione della Chiesa nelle nomine
vescovili è sempre stata quella di riuscire a sottrarla al potere politico e di renderla un fatto religioso e liturgico. La presenza attiva del popolo cristiano e
del clero nella scelta dei Pastori della Chiesa è un punto ancor oggi prematuro.
Il problema della partecipazione attiva della plebe cristiana nell’interno della
vita gerarchica della Chiesa è certamente delicato e difficile, ma probabilmente
il tempo maturerà la questione. Anche se le soluzioni saranno non identiche a
quelle che oggi si possono immaginare, poiché lo stesso limite di partecipazione attiva dei laici e le sue varie forme di espressione sono soggetti
all’evoluzione storica come tutte le cose di questo mondo, tuttavia non dubito
che questo sarà uno dei temi che affronteranno i futuri Concili ecumenici. Il
senso di corresponsabilità attiva, viva, nella Chiesa da parte di tutti i fedeli,
quanto più verrà approfondito e sviluppato, tanto più porterà ad una reale
partecipazione a tutti gli aspetti della vita della Chiesa da parte di tutta la ecclesia cristiana.
15.
Lettere Storico-critiche intorno alle Cinque piaghe, Napoli, 1849.
16.
Si tratta delle lettere che si trovano in Appendice a questo libro.
XVI
lunga documentazione storica e dottrinale dell’elezione a clero e
popolo dei Pastori della Chiesa, chiarisce le difficoltà ed indica il
modo e la procedura con cui oggi si potrebbe attuare l’elezione
dei vescovi a clero e popolo. Ma dietro forti eccitamenti del card.
Tosti, Rosmini prepara una forte risposta al Theiner17, in cui rileva
l’incomprensione e la falsa impostazione della questione, oltre a
numerose inesattezze, sbagli, equivoci, idee confuse intorno ai
vari argomenti affrontati. Alcuni amici del Rosmini di Casale riuscirono ad avere in mano la risposta e a persuaderlo di permetterne la pubblicazione, che avvenne infatti nel 1850.
****
È abbastanza facile ricostruire le vicende del testo. Dai «Diari» del Rosmini si desume che la stesura dell’opera iniziò il 18 novembre 1832. Nel «Diario personale» alla data: «1832, 18 novembre», si trova esplicitamente annotato: «Trovandomi a Correzzola (Padova) coll’amico Mellerio tutore del duca Melzi a cui
appartiene quella villa, cominciai a scrivere il libro Delle cinque
piaghe, che poi compii l’11 marzo 1833 (Domodossola). Ma rifusi
l’ultima piaga a Stresa nel novembre del 1847»18. Nel frattempo
aveva scritto e pubblicato la Filosofia del Diritto (1841-45), con
una parte notevole dedicata al diritto della Società Teocratica, in
particolare della Chiesa19. Qui Rosmini svolge il suo pensiero sui
diritti e sulla costituzione della Chiesa in se stessa e nei rapporti
con le altre società, specialmente con la società civile. Così pure
nel 1848 si occupa di un progetto di Costituzione secondo la giustizia sociale per offrire alle nuove speranze del Risorgimento italiano una indicazione costituzionale caratteristica degli italiani e
organica, senza ripetizioni o imitazioni pedantesche di costituzioni
d’altri paesi20.
17.
Risposta ad A. Theiner, Casale, 1850.
18.
«Diari», op. cit., p. 425.
19.
Nel 1963 la Morcelliana di Brescia pubblicò La Società Teocratica, a cura di C.
Riva.
20.
Progetti di Costituzione, Ed. Naz., a cura di C. Gray, Milano 1952.
XVII
La prima edizione delle Cinque piaghe fu fatta a Lugano
(Svizzera) nel 1848 dal Veladini, senza il nome dell’autore. Si ebbero poi numerose ristampe: sempre nel 1848 a Bruxelles dalla
«Société typographique»; nel 1849 a Genova; sempre nel 1849,
a Napoli dal Batelli; ancora a Napoli, 1860, da Enrico De Angelis;
sempre nel 1860 a Firenze dal Le Monnier; nel 1863 a Rovereto,
dedicata ai Pastori della Chiesa riuniti a Trento per il terzo centenario del Concilio Tridentino; nel 1883 a Londra dal Rivington,
tradotta in inglese dal Dr. H. P. Liddon, Canonico anglicano di S.
Paolo; nel 1943 a Milano da Bompiani a cura di E. Zazo. Le tre
lettere riportate in Appendice furono pubblicate sul periodico Fede
e Patria di Casale nel 1848-49; vennero ristampate poi a Napoli
nel 1849, presso la Libreria Nazionale, in un fascicolo e Rosmini vi
apportò ritocchi e notevoli aggiunte, specialmente per la prima e
la terza che vennero completamente rifuse e aumentate. In alcune ristampe delle Cinque piaghe, vengono riportate le prime due,
ma senza i ritocchi e le aggiunte.
Rosmini aveva poi intenzione di preparare una nuova edizione del suo libro con aggiunte e ritocchi chiarificatori che gli venivano maturando nella mente, così da togliere eventuali possibilità
di fraintendimento. Infatti, mentre era a Napoli, su una copia dell'edizione del Batelli del 1849 condusse a termine la revisione accurata dell’opera. Nel far questo egli aveva certamente presenti
quei cinque punti segnalatigli da Mons. Corboli, e a cui abbiamo
sopra accennato.
Per quanto riguarda il punto più delicato dell’elezione dei vescovi a clero e popolo, Rosmini aggiunge varie precisazioni qua e
là nel testo; ma soprattutto voleva aggiungere in Appendice le tre
lettere, a cui si è già accennato e in cui chiarisce meglio il suo
pensiero e lo conforta con un’accurata documentazione dell’antica
tradizione dei Concili ecumenici e dei Padri della Chiesa universale, particolarmente della Chiesa latina, della Chiesa orientale e
della Chiesa d’Africa.
L’elezione dei vescovi a clero e popolo, afferma il Roveretano,
è sì di diritto divino, ma di diritto morale, non di diritto divino costitutivo. Per «diritto divino costitutivo» si intendono tutte quelle
disposizioni e quelle realtà d’istituzione divina che sono necessarie, essenziali e immutabili, pena la invalidità degli effetti. Per «di-
XVIII
ritto divino morale» si intende invece tutto ciò che trova la sua origine in disposizioni divine e apostoliche, che la Chiesa determina
in vari modi a seconda dei tempi e delle necessità storiche senza
che l’effetto sia reso invalido dalla mutazione. Scrive Rosmini nella prima delle tre lettere poste in Appendice: «Colla qual distinzione fra il diritto divino costitutivo e il diritto divino morale si
conciliano i vari pareri degli autori su questa questione. Perocché
sulla medesima vi hanno diversi pareri fra gli scrittori della Chiesa, e non essendovi niuna espressa dichiarazione della Chiesa, si
può opinare per l’una e per l’altra parte. Della quale libertà servendomi io, m’è parso di tenermi nel mezzo, conciliando le opinioni, col dire che le elezioni a clero e popolo non sono di diritto
divino, se si parla di un diritto divino costitutivo, e sono di diritto
divino, se si parla di un diritto divino meramente morale».
Da tutto ciò risulta che anche i vescovi eletti dal potere temporale o in un modo diverso da quello a clero e popolo sono validamente eletti, purché consacrati e mandati dalla legittima autorità religiosa, come è stato stabilito nel Concilio di Trento. Per
convalidare la sua opinione Rosmini si richiama, come è stato
detto, all’antica tradizione apostolica e patristica. Del resto egli,
dopo aver riaffermato il principio di tale elezione a clero e popolo,
riconosce alla Gerarchia ecclesiastica, o meglio, «alla sapienza
della Chiesa e della Santa Sede Apostolica», il potere di determinare «in qual modo, per quali vie, per quali gradi si debba procedere per giungere a questo felice risultato» (Lettera I).
Preoccupazione fondamentale del Rosmini era quella di riaffermare il diritto radicale e primigenio della Chiesa all’elezione dei
propri Pastori e di toglierlo ai poteri temporali, che se lo erano
appropriato. Questa preoccupazione è di ogni tempo della storia
della Chiesa. Anche oggi essa rivendica la sua massima libertà in
questo campo. Paolo VI nel Discorso ai Rappresentanti dei Popoli
e delle Nazioni, presenti alla chiusura del Concilio Vaticano II, il 7
dicembre 1965 diceva: «In questo stesso spirito (della libertà religiosa) la Chiesa domanda ai Governi - e questo è l’oggetto d’un
paragrafo (n. 20) del Decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi - di
consentire a riconoscerle e a renderle la sua piena e intera libertà
in ciò che concerne la scelta e la nomina dei suoi Pastori». E il paragrafo 20 di quel Decreto afferma appunto il diritto della Chiesa
alla massima libertà e «fa voti che per l’avvenire alle Autorità ci-
XIX
vili non siano più concessi diritti o privilegi di elezione, nomina,
presentazione o designazione all’ufficio episcopale. A quelle Autorità civili poi che ora, in virtù di una convenzione o di una consuetudine, godono dei suddetti diritti o privilegi, questo Sacrosanto
Sinodo, mentre esprime riconoscenza e sincero apprezzamento
per l’ossequio da loro dimostrato verso la Chiesa, rivolge viva
preghiera, perché, previe intese con la Santa Sede, ad essi vogliano spontaneamente rinunziare».
Rispetto all’accusa di voler introdurre la lingua volgare nella
liturgia, di fronte all’odierno rinnovamento liturgico, ritengo superfluo dilungarmi. Vorrei solo osservare che Rosmini non era affatto contrario al latino, ma constatava due fatti di fondo, ossia la
reale disunione del popolo dal clero nel culto divino e l’ignoranza
diffusa nel popolo della lingua latina. E suggeriva vari modi con
cui ovviare a questi mali. Si vedano in proposito i nuovi numeri
16, 22, 23.
In terzo luogo Rosmini osservava che non era affatto vero
che egli parlasse male degli Scolastici. Infatti rimanda il lettore, in
una nuova nota aggiunta, alle altre opere, in cui si era «adoperato di rimetterli in onore con vent’anni di fatiche» (N. 40). Così ove
affermava che «i fatti sono di diritto divino», egli precisa che intendeva che «tutto ciò che avviene anche permissivamente ha un
ordine e un fine provvidenziale, che mira alla gloria di Cristo; e
quest’ultimo risultato di tutti i fatti del mondo è di diritto divino»
(N. 126, n. 1).
Infine relativamente all’accusa di volere la separazione dello
Stato dalla Chiesa, Rosmini risponde che non ha mai sostenuto
una simile teoria propria del liberalismo. Egli si è invece battuto
con fede e con coraggio per rivendicare i diritti di libertà piena,
vera e reale della Chiesa dall’oppressione di ogni dispotismo statale. Sostenne anzi nel suo libro Questioni politico-religiose della
giornata (Pescara, 1964) la dottrina «dell’armonia nella distinzione», teoria propria del pensiero giuridico e teologico rosminiano.
Di fronte alle numerose accuse ingiustificate, Rosmini «invoca l’indulgenza dei lettori … pregando istantemente la loro carità a
interpretare in buon senso le sue parole, avendo egli voluto scrivere in edificazione, e non in distruzione: voluto unire e non dividere. Tutto quello che disse lo sottopose al giudizio della Chiesa
XX
con quei sentimenti che stanno espressi nelle parole che precedono all’operetta» (Avvertimento).
…
Infine un’avvertenza è opportuna. Quando Rosmini adopera i
termini «laicale» o «laici», intende generalmente significare realtà
e individui extra-ecclesiali, per cui il potere laicale è per Rosmini il
potere politico e temporale. Così pure quando usa il termine «ecclesiastico» intende sia ecclesiastico in senso stretto come anche
ecclesiale.
Clemente Riva
XXI
Antonio Rosmini
DELLE CINQUE PIAGHE
DELLA SANTA CHIESA
Con un appendice di tre lettere
di Antonio Rosmini Serbati Prete
sopra le Elezioni Vescovili a Clero e Popolo
TRASPOSIZIONE IN LINGUA AGGIORNATA
A CURA DI DON GIANNI PICENARDI
STRESA - 2008
AVVERTIMENTO
L’autore dando alla luce quest’operetta, scritta diciassette anni
fa , in occasione dell’elezione al papato di Pio IX, intendeva farla
conoscere ad alcuni amici scelti, come ha dichiarato nella conclusione della medesima. Ma essendone pervenuti alcuni esemplari in
mano ai librai, questi, contro la volontà dell’autore, ne fecero altre
edizioni con la speranza di trarne guadagno, e così essa ebbe una
pubblicità maggiore e più celere di quanto l’autore medesimo non
desiderasse.
21
Lasciata così in mano ad ogni genere di lettori, il giudizio portatone dal pubblico fu vario: alcuni la innalzarono alle stelle, altri la
depressero nell’abisso. Questo incidente recò tuttavia all’autore un
vero vantaggio. Alcuni pii dotti ecclesiastici gli fecero delle sensate
osservazioni, alle quali egli si dichiara riconoscente; e per mostrare
col fatto quanto egli le apprezzi, si risolse di fare questa nuova edizione, nella quale procurò di emendare diligentemente tutti quei
luoghi che gli furono indicati come degni di emendazione.
Forse nel fervore dello zelo e del dolore che gli procuravano i
mali da cui è oppressa la Chiesa (a causa dei quali l'empietà è portata in trionfo ed è profanato il nome di Cristo), la sua penna dipinse
quei mali con dei tratti oltremodo risentiti, che potevano in qualche
modo offendere buona parte del clero, al quale si gloria di appartenere. Egli riconosce pienamente la santità, la dottrina, lo zelo infaticabile di tanti venerabili prelati e sacerdoti che combattono valorosamente le guerre del Signore, e conducono con assidue fatiche le
21.
[Rosmini scrisse l’Avvertimento nel 1849, mentre le Cinque piaghe, furono composte nel 1832
esattamente 17 anni prima].
3
anime alla salvezza: che fosse del tutto alieno dal suo animo il detrarre affatto ai loro meriti ne chiama in testimonio lo stesso Signore.
Descrivendo i presenti dolori della Chiesa, per farli maggiormente spiccare, egli istituì spesso un confronto fra la condizione in
cui oggi si trova la Chiesa e quella in cui si trovava quando nel popolo cristiano fioriva più ardente la fede e la carità; da ciò alcuni si
persuasero che l’autore proponesse come rimedio universale il richiamare in tutto l’antica disciplina ecclesiastica. Egli non ebbe mai
questo pensiero: riconosce nella moderna disciplina l’opera di quella
stessa divina sapienza che dettò l’antica, e sa che la disciplina non
può esser sempre e totalmente immutabile, anzi conviene adattarla
alle circostanze dei tempi, e la Chiesa lo fa secondo quanto lo Spirito
Santo, che continuamente la assiste, le suggerisce. Lo scopo dell'opera fu di additare semplicemente le calamità della Chiesa; in merito ai
rimedi egli tocca appena quanto lo esige la connessione del discorso:
secondo il suo disegno dovrebbero formare l’argomento di un altro
trattato.
In qualche tratto dell’opera parve rimanesse una lacuna, che
poteva condurre il lettore a supporre nello scrivente sentimenti ch'egli non professa. A ragion di esempio dove egli accenna storicamente che la cessazione della lingua latina fu una delle cause che pose
una divisione di affetti del popolo dal clero nel pubblico culto, l'autore senza trattenersi dal disapprovare il sentire di quelli che vorrebbero introdotte nella sacra liturgia le lingue moderne, passa immediatamente a dire che il clero, qualora la sua formazione fosse
perfezionata, potrebbe recare opportuno rimedio a quello sconcio.
Fu giustamente desiderato che egli aggiungesse una disapprovazione esplicita dell’opinione di quelli che favoriscono la riduzione della
sacra liturgia in lingua volgare, opinione censurata dalla Chiesa.
A questa e alle precedenti osservazioni l’autore ha soddisfatto
nella presente edizione. Anzi non contento delle osservazioni altrui,
4
l’autore stesso, percorrendo diligentemente l'operetta, corresse molti
più luoghi, che da nessuno gli erano stati indicati come occorrenti di
rettifica. Se nonostante ciò il savio lettore incontrasse ancora qualche
passo bisognevole di revisione, sappia che non fu da nessuno indicato all’autore.
Fu detto che l’autore volesse attribuire al popolo l’elezione dei
Vescovi; quanto una tale credenza sia falsa lo dimostra da sé il Capitolo IV, nel quale egli non esprime altro desiderio, se non che il popolo possa in tali elezioni rendere la sua libera e pia testimonianza ai
candidati, secondo lo spirito della Chiesa. A chiarire maggiormente
su di ciò la mente dell’autore in questa edizione si aggiunsero tre lettere già da lui scritte e pubblicate su tale argomento.
Da ultimo l’autore invoca l’indulgenza dei lettori per i difetti
che ancora rimanessero nel suo scritto, pregando la loro carità di interpretare con buona fede le sue parole, avendo voluto scrivere per
edificazione e non per distruzione, per unire e non per dividere. Tutto quello che disse lo sottopose al giudizio della Chiesa con quei sentimenti che stanno espressi nelle parole che precedono all’operetta.
5
ALCUNE PAROLE PRELIMINARI
NECESSARIE A LEGGERSI
1. Trovandomi in una villa del Padovano, io posi mano a scrivere questo libro, a sfogo dell’animo mio addolorato; e forse anche a
conforto altrui.
Esitai prima di farlo; perché stavo proponendo a me stesso la
questione: «È bene, che un uomo senza giurisdizione componga un
trattato sui mali della santa Chiesa? O non è forse già temerario solo
il pensarvi, tanto più lo scriverne, quando ogni sollecitudine della
Chiesa di Dio appartiene di diritto ai Pastori della medesima? E il
rilevarne le piaghe non è forse un mancare di rispetto agli stessi Pastori, quasi che essi o non conoscessero tali piaghe, o non vi ponessero rimedio?».
A questa questione io rispondevo, che il meditare sui mali della
Chiesa, non poteva essere riprovevole neppure per un laico, qualora
fosse mosso dal vivo zelo del bene di essa e della gloria di Dio; e mi
sembrava, esaminando me stesso per quanto un uomo possa assicurare di sé, che tutte le mie meditazioni non provenissero da altre
motivazioni. Mi rispondevo ancora, che se non vi fosse stato nulla di
buono in queste meditazioni, non vi era motivo di celarlo; e se vi
fosse stato qualche cosa di non buono, ciò sarebbe stato rigettato dai
Pastori della Chiesa: perché non avevo intenzione di decidere cosa
alcuna, anzi, esponendo i miei pensieri, intendevo sottometterli ai
Pastori stessi, e principalmente al Sommo Pontefice, le cui venerate
parole mi saranno sempre norma diritta e sicura alla quale adeguare
e correggere ogni mia opinione. I Pastori della Chiesa, occupati e
6
aggravati da molti impegni, non hanno sempre tutto l’agio di dedicarsi a meditazioni tranquille; ed essi stessi desiderano che altri vengano loro in aiuto, proponendo e suggerendo quelle riflessioni che
possano giovar loro nel governo delle Chiese particolari e della universale. E da ultimo mi si presentavano innanzi agli occhi gli esempi
di tanti santi uomini che in ogni secolo fiorirono nella Chiesa, i quali, senza esser Vescovi, come un san Girolamo, un san Bernardo, una
santa Caterina ed altri, parlarono e scrissero con mirabile libertà e
schiettezza dei mali che affliggevano la Chiesa nei loro tempi, e della
necessità e del modo di ristorarla. Non già che mi paragonassi pur
da lontano a quei grandi, ma pensai, che il loro esempio dimostrava
non fosse di per sé riprovevole l'investigare, e il richiamare l'attenzione dei Superiori della Chiesa sopra ciò che travaglia ed affatica la
Sposa di Gesù Cristo.
2. Rassicuratomi sufficientemente con queste considerazioni,
che senza temerarietà potevo dar luogo ai pensieri, che mi si affollavano nell’animo sullo stato e condizione presente della Chiesa, e che
non era riprovevole neppure il metterli su carta e comunicarli ad altri, mi nasceva un altro dubbio relativo alla prudenza, più ancora
che all’onestà della cosa. Consideravo che tutti coloro che hanno
scritto su simili argomenti nel nostro tempo, e che si sono proposto e
hanno dichiarato di voler tenere una strada media fra i due estremi,
al fine di piacere alle due autorità della Chiesa e dello Stato, sono
stati ugualmente sgraditi all’una ed all’altro: il che mi provava la
somma difficoltà che hanno tali materie ad essere trattate con soddisfazione universale; e quindi obiettavo a me stesso, che anziché giovare, nello scrivere le dette mie meditazioni, avrei forse urtato ed offeso tutte e due le autorità.
Ma a questo di nuovo replicavo, che io ragionavo in coscienza e
che perciò nessuno aveva motivo di prendersela contro di me,
quando anche errassi: perché non cercavo affatto il favore degli uomini, né alcun vantaggio temporale; e perciò, se gli uomini delle due
7
parti22 se la fossero presa con me, io sarei stato compensato dal testimonio della mia coscienza, e dall'attesa del giudizio inappellabile.
3. D’altra parte, cercavo con me stesso quali potessero esser le
cose per cui gli uomini delle due parti si dovessero poter offendere.
Dalla parte dello Stato, io consideravo, che una cosa sola poteva
dispiacere ad alcuni, cioè il non saper io approvare la nomina dei
Vescovi lasciata in mano al potere secolare. Ma se io disapprovo un
tale privilegio considerato in se stesso (benché considerato nei tempi
in cui fu concesso, la Chiesa non errò certamente accordandolo, anzi
usò della solita sua prudenza), io sono altresì intimamente persuaso,
che non è meno funesto alla Chiesa che allo Stato; e che è un grave
errore politico quello di credere il contrario. Le ragioni che ho tra le
mani per questo apparente paradosso ed esposte nel presente libro,
sono tali, da potermi appellare a qualsiasi uomo di Stato, il quale
sappia approfondire una questione e vincere ragionevolmente i comuni pregiudizi, che sappia vedere le conseguenze lontane di un
principio politico, che sappia calcolare e accordare insieme tutte le
cause concomitanti, dalle quali sole si può predire e misurare l'effetto totale di una qualsiasi massima di Stato. Ciò posto, io penso di
dimostrare non minor premura per il bene dello Stato, che per il bene della Chiesa, sostenendo una siffatta opinione; e perciò i Sovrani
non potranno ragionevolmente aversene a male per quanto dico, ma
anzi ben riceverlo. Tuttalpiù chi è di contrario avviso, mi opporrà
che io ne so poco di politica; ma questo mio poco sapere sarà mai
giusta ragione di farmi guerra? Perché anche in politica, diceva un
tale, la va bene spesso come la s’intende.
4. Dalla parte della Chiesa, nella materia di questo libro non
trovavo cosa che potesse dispiacere, se non forse ciò che accenno in22.
Dico «gli uomini delle due parti» perché nella Chiesa stessa non entrano né
passioni né partiti, essendo assistita dallo Spirito Santo e quindi sotto questo
aspetto non può esserci nulla da temere da essa.
8
torno all’eccesso delle riserve pontificie nelle elezioni. Ma d’altra
parte, questo abuso non appartiene più al tempo presente, ma alla
storia. E tutti gli uomini di buon senso converranno con me che,
laddove il filo del discorso l’esiga, non è da temersi il confessare ingenuamente così palesi abusi; perché facendo così si manifesta che
noi non parteggiamo in favore degli uomini e delle loro opere, ma
che ci sta a cuore la sola verità, la causa di Dio e della Chiesa stessa.
D’altra parte, mi sembrava non fosse impedimento allo scrivere,
la noia che potessi recare a persone più di buone intenzioni, che di
ampie vedute, avendo motivo di credere che il mio scritto non sarebbe dispiaciuto alla Santa Sede, al cui giudizio intendo sempre sottomettere ogni cosa mia; giacché il pensar bene della Santa Sede io
l’ho sempre ritenuto nobile, dignitoso, e sommamente consentaneo
alla verità ed alla giustizia, e le sue decisioni dogmatiche infallibili.
Ora io non chiamavo abuso se non ciò che i sommi Pontefici hanno
riconosciuto per tale, e come tale corretto, abuso però che fu esagerato dagli eretici e dai maligni, per cui io stesso ho in parte giustificate
quelle riserve (v. n. 71).
Mi tornava alla mente, fra le altre cose, quella insigne Congregazione di Cardinali, Vescovi e Religiosi, a cui Paolo III, l’anno 1538,
affidò, sotto giuramento, il cercare e manifestare liberamente a sua
Santità tutti gli abusi e le deviazioni dalla retta via, introdottisi nella
stessa corte romana. Non potevano darsi persone più rispettabili di
quelle che la componevano: perché entravano in essa quattro dei più
insigni Cardinali, cioè il Contarini, il Carafa, il Sadoleto e il Polo; tre
dei più dotti Vescovi, cioè Federico Fregoso di Salerno, Girolamo
Alessandro di Brindisi, Giovammatteo Giberti di Verona; con questi
si accompagnavano il Cortesi abate di S. Giorgio di Venezia, e il Badia maestro del sacro Palazzo, che furono poi ambedue Cardinali.
Ora questi uomini, sommi per dottrina, per prudenza e per integrità,
i cui nomi valgono più di qualsiasi elogio, adempirono fedelmente il
mandato ricevuto dal Pontefice, e non omisero affatto di segnalare al
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santo Padre in fra i più grandi abusi quello delle grazie espettative e
delle riserve, e tutto ciò che ci era di difettoso nella collazione dei
benefici.
Non omisero neppure di scoprire con sguardo acuto e additare
la profonda radice di tali abusi; e indicarono quella appunto che toglie dalla diritta via nell’uso del loro potere, sia lo Stato, che i ministri della Chiesa, e che anch’io ho voluto indicare, cioè «l’adulazione
raffinata degli uomini di legge». E le parole che usarono su questo
argomento quei sapientissimi Consultori, nella relazione che sottoposero al Pontefice, non possono essere certamente più franche ed
efficaci; perché esse dicono così: «Tua Santità ammaestrata dallo Spirito divino, che, come dice Agostino, parla nei cuori senza alcuno
strepito di parole, ben conosce quale sia stato il principio di questi
mali, cioè come alcuni Pontefici tuoi predecessori si attorniassero di
maestri secondo i loro desideri, che sogliono stropicciare gli orecchi,
come dice l’Apostolo; non per imparare ciò che dovessero fare, ma
per trovare, nello studio e nella scaltrezza, ragione per rendere lecito
ciò che piaceva (senza contare che l’adulazione tiene dietro ad ogni
principato come ombra al corpo, e che fu sempre oltremodo malagevole udire la verità agli orecchi dei Principi): e così avvenne che
all’improvviso uscissero dei dottori, i quali insegnavano che il Papa
fosse padrone di tutti i benefici, e perciò (potendo il padrone vendere quello che è suo, senza ingiustizia) conseguirne, che nel Pontefice
non cade simonia: perciò ancora, la volontà del Pontefice, quale si
voglia fosse la regola secondo cui egli potesse dirigere le sue operazioni ed azioni. Laonde in tale legge si faceva licito ciò che era libito.
Sicché da questa fonte, o santo Padre, quasi da cavallo di Troia,
sboccarono nella Chiesa di Dio tanti abusi e tanti gravissimi morbi,
dei quali noi ora la vediamo aggravata, e quasi sfidata, e la fama di
tali vergogne (lo creda la Santità tua a chi lo sa) giunse fino agli infedeli, che appunto per questa ragione mettono in ridicolo la religione cristiana, di modo che è a causa nostra che il nome di Cristo si
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bestemmia fra le nazioni»23.
Dopo le quali considerazioni, io acquietai dentro di me ogni
dubbio, e con sicuro animo e libera mano mi posi a scrivere questo
piccolo trattato, che prego Iddio d’indirizzare egli alla sua gloria, e a
vantaggio della sua Chiesa.
Correttola, 18 novembre 1832.
23.
[Cfr. Consilium delectorum Carinalium et aliorum praelatorum de emendanda ecclesia S.D.N.
Paulo III ipso iubente conscriptum et exibitum anno 1538. Stampato nel 1538: MANSI, suppl., V,
539 ss. Rosmini può aver attinto alle due fonti principali della sua opera cioè: CLAUDIO FLEURY,
Storia ecclesiastica, L. 138, c. XX; e NOEL ALEXANDRE Storia ecclesiastica, t. VIII, 42-43. Cfr. pure: Bullari romani continuatio (Romae 1845), t. IX, 405-412].
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