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L`India nel processo di integrazione internazionale e la posizione

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L`India nel processo di integrazione internazionale e la posizione
QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA
PUBBLICA E TERRITORIALE
n. 2/2010
Silvio Beretta e Renata Targetti Lenti
L'India nel processo di integrazione internazionale.
Dal primo al secondo unbundling e la posizione
dell'Italia
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA
QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E TERRITORIALE
UNIVERSITA’ DI PAVIA
______________________________________________________________________
REDAZIONE
Enrica Chiappero Martinetti
Dipartimento di Economia Pubblica e Territoriale
Università degli Studi di Pavia
Corso Strada Nuova 65
27100 PAVIA
tel. 0039-382-984401 -984354
fax 0039-382-984402
E-MAIL [email protected]
COMITATO SCIENTIFICO
Italo Magnani (coordinatore)
Luigi Bernardi
Renata Targetti Lenti
La collana di QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E
TERRITORIALE ha lo scopo di favorire la tempestiva divulgazione, in forma provvisoria
o definitiva, di ricerche scientifiche originali. La pubblicazione di lavori nella collana è
soggetta, con parere di referees, all’approvazione del Comitato Scientifico.
La Redazione ottempera agli obblighi previsti dall’art. 1 del D.L.L 31/8/1945 n. 660 e
successive modifiche.
Le richieste di copie della presente pubblicazione dovranno essere indirizzate alla
Redazione.
L'India nel processo di integrazione internazionale. Dal primo al secondo unbundling e la
posizione dell'Italia
Silvio Beretta, [email protected]
Renata Targetti Lenti, [email protected]
Abstract. The paradox of India’s current success can be seen as the outcome of what were once considered
policy failures. If compared with other fast-growing Asian economies (as China), India’s pattern of
development is quite idiosyncratic. Indian economy differs from any other at the same development level (in
particular from China) under two respects, namely the skill intensity of its exports and the variety of its
products. The importance of services compared to manufacturing is widely acknoweldged. In addition to
this, within this latter India emphasized skill-intensive rather than labour-intensive manufacturing. Moreover,
within manufacturing India emphasized skill-intensive rather than labour-intensive productions. While China
seems to be absorbing surplus labour from agriculture into manufacturing, there is a growing concern that
India failed to match its neighbour. In fact, according to some scholars the prospects for employment growth
in the skill-based sector are relatively limited. In contrast to other comparable developing Countries, India
put an emphasis on tertiary education. Combined with a wide range of policy distortions, this may account
for channelling the manufacturing sector into more skill-intensive productions. Furthermore, the government
attempted to develop capital goods production (mostly by involving the public sector). This led to India
being a major presence in few industries, requiring a scale of production larger than in other developing
Countries. However, regulatory penalties and constraints on big private businesses implied that - in most
private industries - the average firm size was relatively small. Finally, a rigid labour law regime, as well as
constraints on the scale of private enterprises, might as well have limited India’s presence in labour-intensive
manufacture, i.e. the usual specialization pattern of a populous developing Country. At the same time, the
protectionist policy created an enormously diversified industrial sector, if compared to other similar
economies. Also, such diversification ends up often being quite inefficient. The combination of these
‘‘policy mistakes” can be considered instrumental in shaping the economy of India today. Many authors
complained that India would not revert to the pattern followed by other Countries, despite several reforms
which removed some political obstacles shaping its distinctive path. Now, the challenge is to successfully
combine a rapid rate of growth with a development process, promoting employment and poverty reduction.
Such virtuous path could result not only from national policies, but above all from the globalization process
and the outsourcing and offshoring in the service sectors. In particular, moving from outsourcing of business
services (“first unbundling”) to outsourcing of tasks (“second unbundling”) could be very important. A
theory of global production process focusing on tradable tasks would be especially suitable to investigating
how falling costs of offshoring affect factor prices and employment in the industrialized Countries as well as
in developing countries like India. In this paper, we analyze how national policies contribute to explain
India’s growth and its place in the international division of labour. We first examine India’s pattern of
development, being sure that a snapshot of India at this point reflects the legacy of its unique and muchcommented-upon development strategy: a curious combination of simultaneously favouring and disfavouring
domestic entrepreneurship, with a rich overlay of arcane rules and procedures. Then, we examine the
position of India in the globalization process. In particular, we try to explain the challenges and opportunities
for this system, that could derive from the so-called “second unbundling”.
JEL Classification: F41 L2 L8 O53 O57 P52.
Keywords: Sviluppo economico dell'India, India e globalizzazione, India e Cina, Outsourcing, Offshoring,
Unbundling.
1
1. Introduzione
“Il 6 luglio 2006 è stato riaperto al traffico il passo di Nathu La fra l’India e la Cina, a quasi seimila
metri d’altezza nel cuore dell’Himalaya. La via della seta che aveva contrassegnato per millenni i
rapporti fra i due paesi, e fra la Cina e il resto del mondo, è tornata alla vita dopo essere stata
ermeticamente sigillata per oltre quarant’anni” (Armellini, 2008, p. 7). Così inizia la prefazione di
Antonio Armellini, già ambasciatore d’Italia a New Delhi, alla traduzione italiana di un recente
saggio sui sistemi imprenditoriali di India e Cina (Khanna, 2008). Ma la circostanza evocata
introduce con immediatezza il tema delle prospettive dell’economia indiana nel contesto
internazionale, quali si vanno delineando a seguito del prevedibile intensificarsi dei rapporti
commerciali tra i due sistemi asiatici: ne potrebbero infatti derivare sinergie fra tali sistemi, con
conseguente accelerazione dello sviluppo di entrambi. Infatti “Both nations would be more inclined
to solve cooperatively the relatively small irritants that exist between them, such as border
disputes” (Basu, 2007, p. 30).
È consueto, oggi, mettere a confronto la crescita recente dell’India e quella della Cina (Rampini,
2006). Tale confronto non è, d’altra parte, né irrilevante né di rilievo contingente: è invece
funzionale a meglio comprendere i fattori specifici dello sviluppo economico indiano, e quindi
anche le sue prospettive, che condizioneranno a loro volta quelle dell’intera area asiatica e le stesse
opportunità di crescita delle (e di integrazione con le) economie europee e italiana in questa area. Si
sostiene a tale proposito che Cina e India “si svilupperanno autonomamente secondo linee mutually
reinforcing e non conflittuali” (Armellini, 2008, p. 8): esse continueranno a uniformarsi a modelli
distinti, ma sfrutteranno al meglio le rispettive eccellenze e la loro complementarità produrrà
vantaggi in termini di crescita sia interna sia mondiale (Khanna, 2008).
La progressiva apertura dell’India agli scambi internazionali è una delle conseguenze più
significative del processo di globalizzazione. In un contesto di crescente, generalizzata
interdipendenza l’area asiatica ha complessivamente assunto, ed è destinata ad accrescere, la propria
rilevanza nel quadro delle relazioni triangolari USA-Pacifico-Europa. Le performance della Cina
nella macroregione East Asia and the Pacific e dell’India in quella South Asia costituiscono oggi,
infatti, la determinante del sistematico maggior valore del tasso di sviluppo del Pil - sia effettivo sia
previsto - dei developing countries rispetto al dato medio mondiale 1 : tale effetto risulterebbe
naturalmente ancora maggiore se, per ottenere queste medie “regionali”, i dati della crescita
venissero ponderati per la popolazione. Il processo di integrazione non riguarda più d’altra parte,
come in passato, i soli flussi commerciali ma anche - e soprattutto - i flussi di investimento e la
delocalizzazione dei processi produttivi: questi presentano, per l’Europa e per l’Italia, sfide e
opportunità di crescente rilievo la cui consapevolezza presuppone, ed è questo l’oggetto del
presente lavoro, un approfondimento, di necessità non strettamente economicistico, proprio delle
specificità dello sviluppo indiano.
2. India e Cina: un primo confronto
Se molte sono le analogie fra i due sistemi sotto il profilo dei fondamentali del processo di crescita,
altrettanto numerose - e forse più marcate - appaiono le differenze culturali, socio-politiche e di
struttura produttiva. L’India, così come la Cina, si distingue per un processo di crescita accelerato,
che è andato accentuandosi nell’ultimo decennio e le cui determinanti sono riconducibili alle
1
Simmetricamente, i paesi raggruppati sotto la voce Sub-Saharan Africa registrano valori (sia effettivi sia in
proiezione) sistematicamente inferiori a quelli medi dei developing countries, ma stabilmente superiori (anche nelle
proiezioni a medio termine) alla media mondiale, con la sola eccezione degli anni 1980-2000 (+2,2% contro +3%).
Ancora più in basso nella graduatoria si colloca l’area Middle East and North Africa, limitatamente tuttavia agli anni fra
il 2004 e il 2008 (previsioni), dal momento che sia i valori relativi agli anni 1980-2000 sia quelli previsti per il 2008-30
sono superiori alla media mondiale (rispettivamente +4% contro +2,2% e +3,6% contro +3,3%). Se quindi i paesi
Middle East and North Africa possono essere considerati un “freno” nei confronti del complesso dei developing
countries, sembra che siano i paesi high-income a esserlo quando il contesto è quello mondiale (World Bank, 2008).
2
riforme avviate all’ inizio degli anni ‘90. I tassi di crescita del Pil, sebbene meno elevati di quelli
cinesi, sono stati nell’ultimo decennio - e permangono - molto significativi. L’India è oggi, infatti,
la quinta economia per importanza in termini di Pil 2 .
In entrambi i paesi il ruolo delle imprese pubbliche si è poi rivelato determinante per l’avvio del
processo di crescita. E in entrambi le diverse fasi della crescita sono state contrassegnate da
significativi cambiamenti politici e dall’emergere di personalità come Nehru, i Gandhi e più
recentemente Manmohan Singh in India e come Deng Xiaoping e Jiao Zeming in Cina. In India
risale infatti a Nehru la decisione di promuovere un modello di pianificazione centralizzata basato
sull’ intervento dello Stato sia come regolatore del sistema economico sia come “proprietario” delle
risorse produttive. Per tali vie esso è andato progressivamente assumendo un ruolo preponderante,
quando non esclusivo, in settori rilevanti dell’economia indiana (si parla a questo proposito di
Commanding Height).
Nel periodo immediatamente successivo all’ indipendenza, e fino agli anni ’80, la pianificazione
indiana, pur evidenziando analogie con quella cinese in ragione della priorità assegnata da entrambe
all’industria di base, ha presentato caratteristiche del tutto peculiari. Gli orientamenti di policy
riflettevano in particolare i princìpi gandhiani. La morigeratezza nei comportamenti di consumo
trovava infatti giustificazione nella ricerca di un migliore equilibrio tra uomo e natura ed era
pertanto cruciale ai fini del benessere complessivo degli individui. Tale messaggio si traduceva, in
campo economico, nella difesa delle produzioni locali, di quelle tradizionali e di quelle artigianali a
scapito delle produzioni destinate all’esportazione 3 .
In entrambi i paesi permane rilevante il peso di un’agricoltura in larga misura arretrata. In India, sia
pure per ragioni diverse dalla Cina, il settore agricolo è stato sistematicamente penalizzato,
determinando di frequente scarsità di beni alimentari. In India, così come in Cina, ma il dato è
comune ai paesi emergenti, sono inoltre rilevanti e crescenti le diseguaglianze tra regioni, tra classi
sociali, tra città e campagna. In entrambi i paesi politica estera e alleanze sono state condizionate,
negli ultimi anni, dalla necessità di reperire fonti energetiche aggiuntive. Gli accordi nucleari
recentemente siglati con gli Stati Uniti segnano inoltre l’abbandono da parte dell’India della politica
di “non allineamento” e il suo ingresso tra i protagonisti di maggiore peso della comunità
internazionale (Torri, 2007).
Tra India e Cina sono individuabili, per converso, anche differenze significative. Sul piano
generale, al “socialismo confuciano” della nuova Cina si contrappone in India la “democrazia
diffusa”, contraddistinta da un’ampia autonomia regionale e da un modello di “organizzazione
sociale guidata dal basso” (Armellini, 2008, p.8) nel contesto di istituzioni e di strutture formative
profondamente segnate - specialmente a livello di istruzione superiore - dall’influenza britannica.
In particolare il sistema universitario viene considerato una delle determinanti del ruolo eminente
che l’India occupa nel terziario avanzato (ICT). È infatti nel contesto di un assetto istituzionale
democratico, quindi antagonistico rispetto a quello cinese, che si è sviluppata la produzione di beni
immateriali informatici, biotecnologici e di servizi a elevato contenuto di innovazione. Tale assetto
si è iscritto in una cultura millenaria di pluralismo e di "tradizione argomentativa", nella quale il
dibattito delle idee ha potuto svilupparsi in spirito di reciproco riconoscimento. La tradizione
culturale indiana è infatti, contrariamente a quella cinese, spiccatamente speculativa. Inoltre, come
ha recentemente ricordato Amartya Sen, il concetto stesso di democrazia può essere esteso per
comprendervi non soltanto le istituzioni di natura specificamente politica, ma anche altre rilevanti
caratteristiche del sistema (Sen, 2004). In tale più ampia accezione la democrazia è definibile come
2
Nel 2008 il Pil era di 1,217.5 miliardi di dollari USA, pari a un valore pro capite di 1,070.0 dollari.
Le ragioni remote che contribuiscono a spiegare il mancato avvio di un autentico processo di industrializzazione in
India sono di natura eterogenea: fra le altre gli interessi della Compagnia delle Indie Orientali, che hanno concorso a
frenare lo sviluppo delle industrie tradizionali, e la convenienza a utilizzare tecniche produttive a elevata intensità di
lavoro, cioè della risorsa produttiva più abbondante. Non vi è tuttavia dubbio che la responsabilità principale deve
essere attribuita proprio alle politiche di piano adottate: la centralità assegnata alle lavorazioni artigianali e manuali e la
rigida divisione dei ruoli tra mercanti-capitalisti e artigiani-manuali vennero infatti assunte come canoni ai quali
conformare l’architettura della politica industriale.
3
3
“government by discussion” dove “individual values can and do change in the process of decisionmaking” (Buchanan, 1954, p. 120).
In India il sistema democratico, per di più strutturalmente decentrato, ha rappresentato un freno al
processo di accumulazione. Tasso di risparmio e tasso di investimento risultano infatti
sistematicamente inferiori a quelli cinesi. Mentre in Cina la propensione all’ investimento in
infrastrutture ha favorito la modernizzazione del sistema produttivo, la carenza di infrastrutture
adeguate continua infatti a rappresentare un ostacolo per lo sviluppo indiano. In Cina il controllo
pubblico del sistema bancario e finanziario ha promosso l’ accumulazione e la crescita: in India ha
invece determinato un’offerta di credito insufficiente e distorsioni nella sua composizione. La
struttura dell’economia indiana per settori produttivi è inoltre molto diversa da quella cinese. Il
settore manifatturiero vi occupa infatti un peso tuttora modesto (pari al 29% del PIL nel 2008 contro
il 49% della Cina) mentre più consistente, e in qualche misura anomalo per un paese emergente, è il
peso del settore terziario (pari ben il 53% del PIL nel 2008 contro il 40% della Cina) 4 . La diversità
delle strutture produttive e dei sistemi finanziari trova poi corrispondenza nel diverso ruolo degli
investimenti esteri: in Cina questi suppliscono alle carenze del mercato interno, in India sono
considerati un potenziale ostacolo allo sviluppo del sistema economico (Khanna, 2008).
3. Linee evolutive dello sviluppo indiano
Secondo numerosi osservatori sono le politiche attuate nei decenni che hanno preceduto il processo
riformatore, nonché le liberalizzazioni successive, a spiegare caratteristiche e specificità del sistema
economico indiano (Kochhar et al., 2006; Banerjee, 2006). Queste sono sinteticamente identificabili
in: i) un settore industriale molto differenziato, caratterizzato tanto da imprese pubbliche di grandi
dimensioni, quanto da imprese private di dimensioni medio-piccole e a elevata intensità di lavoro
qualificato, ii) un mercato del lavoro piuttosto rigido nel quale è carente l’offerta di lavoro
qualificato; iii) un settore terziario molto sviluppato in rapporto a quello manifatturiero. Tali
caratteristiche sono la conseguenza: 1) di un’espansione del terziario avanzato più rapida della
norma, per un paese emergente, e 2) della progressiva contrazione registrata, negli anni recenti,
dagli investimenti nell’istruzione superiore.
Nei decenni che seguirono l’indipendenza lo Stato nazionalizzò alcuni settori-chiave dell’economia,
sostenendone altri con ingenti investimenti, e sottoponendo il settore privato a un articolato sistema
di regole e di controlli. Vennero erette barriere tariffarie e doganali a protezione delle industrie
nazionali. Tali politiche ebbero come effetto tassi di crescita di modesta entità. La crescita - pure
contenuta - degli anni ‘80, alla quale ci si riferisce come all’ Hindu rate of growth (Rodrik,
Subramanian, 2004; Srinivasan, 2005), era stata in larga misura determinata da politiche di bilancio
espansive che, unitamente all’ aumento dei sussidi, avevano contribuito ad accrescere il disavanzo
del settore pubblico. Il fabbisogno di quest’ultimo era stato in parte finanziato “monetizzandolo”,
cioè collocando titoli del debito pubblico presso la Banca Centrale. Base monetaria e offerta di
moneta erano aumentate. Il disavanzo pubblico aveva assorbito gran parte del risparmio disponibile
interno, riducendo le risorse a disposizione degli investimenti privati. L’accumulo dei disavanzi si
era tradotto in un aumento del debito pubblico con conseguenze significative in termini di elevati
tassi di inflazione, necessità di ricorrere al credito estero per il finanziamento degli investimenti,
aumento del debito estero: circostanza, quest’ultima, che aveva accresciuto i rischi di insolvenza
delle imprese (con conseguente recessione e perdita di posti di lavoro) derivanti da eventuali
svalutazioni monetarie.
Nonostante gli interventi del FMI, della Banca Mondiale e giapponesi, l’economia indiana
4
I dati sono di fonte World Bank (2009a), Si veda:
http://www.worldbank.org.in/WBSITE/EXTERNAL/COUNTRIES/SOUTHASIAEXT/INDIAEXTN/0,,menuPK:2956
09~pagePK:141132~piPK:141109~theSitePK:295584,00.html
4
manifestava, all’inizio degli anni ’90, preoccupanti segnali di crisi. Le restrizioni commerciali
(tariffarie e non) introdotte non si erano rivelate sufficienti a ridurre il disavanzo di parte corrente, a
determinare il quale avevano contribuito sia le ingenti importazioni di beni alimentari necessarie a
fare fronte all’ insufficiente produzione agricola, sia il permanere della dipendenza dall’estero per
l’approvvigionamento di materie prime (risorse energetiche) e beni capitali. Si erano, di
conseguenza, progressivamente ridotte le riserve valutarie ed era aumentato il debito estero. La
crescente inflazione interna aveva inoltre ridotto la competitività delle esportazioni indiane. È in
questo contesto macroeconomico che si inquadra la crisi nei pagamenti internazionali dell’inizio
degli anni ’90 5 : per farvi fronte l’India concordò con il FMI un nuovo prestito di 1,5 miliardi di
dollari, nonché l’adozione di riforme strutturali.
Le riforme intraprese a partire dal 1991 furono caratterizzate da un mix di politiche di
stabilizzazione e di interventi strutturali di stampo liberista (Bardhan, 2004). Questo processo di
liberalizzazione è noto come “Delhi Consensus”, per sottolinearne la peculiarità rispetto al noto
“Washington Consensus”. La Commissione per il piano venne ridotta a un ruolo consultivo, mentre
il processo di liberalizzazione investì gli investimenti, il tasso di cambio, il regime commerciale, il
settore finanziario e quello fiscale. Durante la fase iniziale del programma di riforme la priorità fu
assegnata all’abolizione del License Raj, il complicato e minuzioso sistema di licenze e di
adempimenti richiesti fin dai tempi dell’indipendenza per iniziare e condurre un’attività economica
nella maggior parte dei settori produttivi. Anche al riequilibrio dei conti pubblici e alle politiche di
stabilizzazione fu assegnata la priorità 6 . Il tasso di crescita del PIL aumentò progressivamente
attestandosi al 6,2% in media all’anno nel periodo 1993-2000, per passare successivamente al 9,4%
nel 2005 e ridursi progressivamente al 7,1% nel 2008. La ripresa è stata particolarmente
significativa nei settori industriale e dei servizi nonché nella domanda di beni di consumo.
Si apre a questo punto la “terza fase” del processo di sviluppo. Gli investimenti diretti esteri erano
passati da 0,6 miliardi di dollari nel 1992-93 a 4,1 miliardi nel 1993-94, con una particolare
accelerazione verso la fine del 1993: tali sviluppi vennero interpretati come una sorta di “voto di
fiducia” nei confronti delle politiche macroeconomiche attuate. Le misure adottate dalla Reserve
Bank of India a partire dal 1994 hanno inoltre consentito di ridurre l’inflazione al di sotto del 5%
nel 1996: in assenza di aggiustamenti significativi in campo fiscale, questo risultato è stato
raggiunto grazie all’aumento dei tassi di interesse reali.
Le riforme economiche varate nel 1991 e i positivi effetti dell’ accresciuta integrazione del paese
nel sistema internazionale hanno favorito la valorizzazione delle sue potenzialità, così da
determinare un aumento del PIL di quasi quattro volte (293 miliardi di dollari USA nel 1988, 1.159
miliardi nel 2008) 7 . Non sono state tuttavia in grado di ridurre in misura adeguata il fenomeno della
povertà, che in molte zone rimane ancora molto elevato 8 : i divari tra zone urbane e zone rurali
permangono inoltre fortissimi 9 . L’India è oggi il secondo paese più popoloso dopo la Cina, con 1
miliardo e 40 milioni di abitanti 10 . Il ragguardevole incremento della popolazione non è
sorprendente dal punto di vista delle regolarità demografiche. Anche i paesi occidentali, quando
5
Le riserve valutarie indiane erano appena sufficienti a sostenere due settimane di importazioni. In più, il rating
dell’India venne abbassato e le obbligazioni indiane vennero declassate a junk bonds.
6
Nel maggio del 1992, appena dopo la prima serie di liberalizzazioni commerciali, venne dimezzata la percentuale di
produzione manifatturiera indiana sottoposta a restrizioni non tariffarie, che passò dal 90% al 46%. Tuttavia i
provvedimenti di liberalizzazione riguardavano, ancora una volta, soprattutto i beni intermedi e i macchinari: in queste
categorie le percentuali dei beni sottoposti a restrizioni non tariffarie erano scese, rispettivamente, al 19% e al 12%. Le
restrizioni non tariffarie sui beni di consumo finale rimanevano invece elevatissime.
7
Si veda World Bank (2009b).
8
Un terzo della popolazione vive ancora in condizioni di povertà: per l'esattezza il 26,1% se si colloca la soglia della
povertà a un livello - comunque molto basso - di 80$ all'anno. La percentuale sale al 44% (la Cina si colloca al 19%) se
si fissa la soglia a 1$ al giorno, cioè al livello convenzionalmente stabilito dalle Nazioni Unite come corrispondente alla
povertà “estrema”. La percentuale sale a circa l’80% se la soglia viene collocata a 2$ al giorno.
9
Secondo stime ufficiali indiane, fra il marzo e l’ottobre del 2004 i casi di suicidi per debiti di contadini sarebbero stati
più di mille, mentre l'Istituto di Studi per lo Sviluppo di Chennai parla di una vera e propria "epidemia".
10
Si veda World Bank (2009b).
5
sono stati socialmente ed economicamente comparabili all’India odierna, hanno registrato
andamenti demografici analoghi. Ma se il tasso di crescita della popolazione indiana può essere
considerato “normale”, valori assoluti e distribuzione territoriale non lo sono. Il 71% circa degli
abitanti vive infatti ancora in zone rurali 11 . Le città molto popolate sono, per ora, relativamente
poco numerose: meno di 40 superano il milione di abitanti, incluse le quattro megalopoli di
Mumbai, Kolkata, Dilli e Chennai.
Per concludere, il processo riformatore degli anni ‘90 (dopo alcuni tentativi che risalgono alla metà
del decennio precedente) e le politiche del governo guidato da Manmohan Singh sotto l’influenza di
Sonia Gandhi hanno consentito all’India, forse per la prima volta dall’ indipendenza, di esercitare
un ruolo di protagonista nel contesto internazionale. Deregolamentazione degli investimenti nella
maggior parte dei settori industriali, sottrazione di molte industrie-chiave alla mano pubblica,
graduale abolizione delle restrizioni quantitative sulle importazioni, avvio della liberalizzazione dei
cambi e della convertibilità di parte corrente, alleggerimento della pressione fiscale e riforme
finanziarie sono alcuni dei provvedimenti/orientamenti assunti in quegli anni12 . E’ andata in tal
modo affermandosi una imprenditorialità diffusa la quale per altro, al momento, costituisce solo una
premessa di sviluppo equilibrato nel medio periodo. La caduta delle limitazioni quantitative al
commercio dei tessili e l’entrata in vigore (1 gennaio 2005) delle norme a tutela della proprietà
intellettuale rappresentano un ulteriore, significativo momento di svolta.
4. Le caratteristiche del settore produttivo
L’India è un’economia di tipo misto in cui il policy maker, a livello sia federale sia statale, svolge
tuttora un significativo ruolo di regolazione, oltre che di gestione diretta delle numerose imprese
pubbliche. Le politiche attuate dopo l’indipendenza, e nei due decenni dall’inizio delle riforme,
hanno prodotto effetti contrastanti che danno luogo, secondo alcuni autori, a un vero e proprio
“paradosso” (Banerjee, 2006). La pianificazione centralizzata, analogamente a quanto accaduto in
Cina, aveva annullato ogni sorta di incentivo, riducendo di conseguenza la produttività e la
competitività del sistema. Erano state introdotte severe (e crescenti) misure di restrizione
commerciale al fine di proteggere le industrie locali, caratterizzate da bassa produttività. Il Licence
Raj, sommandosi a quello dei dazi doganali, aveva determinato gravi distorsioni nel sistema
produttivo favorendo le produzioni destinate a sostituire le importazioni piuttosto che a incentivare
le esportazioni. I prezzi interni erano molto più elevati di quelli internazionali, mentre il sistema
delle licenze aveva dato luogo al formarsi di posizioni di rendita. Uno degli obiettivi del processo di
pianificazione e delle politiche protezionistiche era stato quello di raggiungere l’autosufficienza in
molti settori manifatturieri, favorendo nel contempo i comparti produttori di beni capitali (Kochhar
et al., 2006). Sistema delle licenze e controllo pubblico erano gli strumenti utilizzati per realizzare
gli obiettivi di piano. Contemporaneamente si era cercato di frenare, tramite la legislazione
antimonopolistica, gli eccessi di concentrazione produttiva.
A partire dall’inizio degli anni ’80 e fino al 1990, tuttavia, la strategia di sviluppo ha subìto
modificazioni, in particolare sotto forma di un più accentuato decentramento dei processi
decisionali e della promozione delle privatizzazioni. Il regime delle licenze (l’Hindu rate of reform)
è stato reso più flessibile, sebbene in modo non generalizzato bensì selettivo. Grazie all’adozione di
questi provvedimenti gli anni ‘80 hanno visto una crescita piuttosto sostenuta rispetto ai decenni
11
Al momento dell’ indipendenza, gli abitanti dell’India ammontavano a circa 350 milioni. Oggi sono all’incirca
triplicati. L’India registra attualmente una crescita demografica costante (pari all’1,61% all’anno) notevolmente
inferiore ai picchi raggiunti tra gli anni ‘50 e ’70 del XX secolo, che sollecitarono drastiche misure di pianificazione
familiare, tra cui le impopolari campagne di sterilizzazione: tale andamento era stato determinato dai ragguardevoli
risultati raggiunti nella lotta contro le carestie locali e dal miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, che hanno
prodotto una forte riduzione del tasso di mortalità.
12
Per un inquadramento generale dell’argomento cfr. Bardhan (2004), Per approfondimenti più settoriali cfr. anche
Reddy (2004), Rakshit (2004) e Govinda Rao (2004).
6
precedenti. Gli investimenti si sono progressivamente orientati verso il settore privato. I consumi
interni sono cresciuti. I miglioramenti organizzativi introdotti nel settore industriale e il mutato
atteggiamento del governo nei confronti dell’ imprenditoria privata hanno consentito un incremento
della produttività.
La scomposizione del tasso di sviluppo del reddito ha messo in luce come la modesta crescita
precedente agli anni ‘80 fosse attribuibile all’aumento nella dotazione dei fattori, mentre quella
successiva è da attribuirsi prevalentemente all’ aumento della loro produttività (Basu, 2007, p.10).
Secondo alcuni autori (Rodrik, Subramanian, 2004; Virmani, 2004) tale aumento è ascrivibile al
migliorato utilizzo dei fattori nei diversi settori produttivi più che alla riallocazione degli stessi dai
settori a bassa produttività (agricoltura) verso quelli a produttività più elevata (industria e servizi).
Uno degli obiettivi centrali della politica economica è diventato, a partire dall’inizio degli anni ‘80,
la promozione delle esportazioni. Grazie al deprezzamento del tasso di cambio reale e alla riduzione
delle tariffe, le esportazioni di prodotti sia manifatturieri sia agricoli sono aumentate in misura
significativa. L’aumento delle esportazioni ha inoltre consentito di importare beni capitali e
tecnologie più avanzate. Gli investimenti diretti esteri sono aumentati di circa 15 volte a far tempo
dalla liberalizzazione dell’economia, e di ben 450 volte rispetto al 1988 13 . Oggi l’India è un paese
molto appetibile per gli investitori stranieri. E’ stata progressivamente elevata la quota di
partecipazione consentita alle imprese straniere14 , provvedimento che ha dato immediato impulso a
importanti operazioni nel settore automobilistico, delle telecomunicazioni e dei servizi informatici
con la costituzione di joint venture con importanti partner stranieri (Honda, Toyota, Michelin).
Queste politiche sono all’origine di un sistema produttivo accentuatamente dualistico, non solo dal
punto di vista delle tecniche impiegate, ma anche e soprattutto a seconda che si tratti di imprese
private o pubbliche, di grande o di piccola dimensione, industriali o agricole. Nel settore pubblico le
imprese sono prevalentemente di grande dimensione e utilizzano tecnologie a elevata intensità di
capitale. Nel settore privato prevalgono invece le piccole e medie imprese a conduzione familiare.
La piccola impresa familiare di carattere artigianale era stata considerata dall’autorità di piano come
lo strumento per fare fronte all’abbondante disponibilità di lavoro nelle aree rurali, ma anche per il
raggiungimento dell’autosufficienza nella produzione di alcuni beni di consumo di base e di una
distribuzione più equa del reddito. La prevalenza di imprese di piccole dimensioni si conferma
come una caratteristica distintiva del sistema industriale indiano. Questo ultimo è il risultato di
misure che, in passato, erano state oggetto di critiche (Kochhar et al. 2006). Grazie alle politiche
protezionistiche adottate nel primo periodo della pianificazione si è sviluppato un sistema
industriale assai articolato, prevalentemente finalizzato a soddisfare le esigenze del mercato interno.
Il peso del settore manifatturiero, tuttavia, è ancora relativamente ridotto rispetto a quello del
terziario. Contrariamente a quanto si è verificato in altri paesi emergenti, il sistema manifatturiero
che è andato delineandosi nei primi decenni successivi all’indipendenza, e che tuttora permane, era
caratterizzato da industrie a elevato contenuto di lavoro qualificato e a elevata intensità di capitale
(Banerjee, 2006). Risultava invece inferiore alla media dei PVS la presenza di industrie a elevato
contenuto di lavoro non qualificato. Tali caratteristiche non hanno subìto sostanziali modificazioni a
seguito delle riforme degli anni ’80 e ’90 15 . Da una parte è stato più agevole mantenere la
specializzazione acquisita, dall’altra non è stata sostanzialmente modificata una legislazione che ha
favorito l’impiego del capitale rispetto a quello del lavoro.
Il processo di privatizzazione ha trovato corrispondenza nello sviluppo di alcune grandi imprese a
proprietà familiare (l’esempio più significativo è probabilmente quello del gruppo Tata). La piccola
13
Vedi World Bank (2009b).
Si rimanda per un approfondimento di questo punto ai siti del Ministero delle Finanze
(http://www.finmin.nic.in/foreign_investment/int_finance_issues/index.html) e Doing Business with India
(http://www.madaan.com/investing.htm).
15
La maggior parte della produzione è infatti realizzata in impianti moderni, in particolare nell’industria siderurgica,
petrolchimica e della carta, nella produzione di apparecchiature elettriche ed elettroniche, di prodotti chimici, nella
lavorazione della pelle e dei metalli. Di rilievo sono anche le industrie per la lavorazione del tè e dei cereali, gli oleifici,
gli zuccherifici.
14
7
e media industria, tuttavia, mantiene un ruolo di rilievo: rappresenta infatti circa il 40 % della
produzione, di cui i 2/3 destinati all’esportazione, e assicura il 65% dell’ occupazione.
Contrariamente al modello cinese, basato sulla mano d’opera a basso costo, quello indiano ha
privilegiato specifiche nicchie tecnologiche. Il ricorso alla subfornitura ha inoltre compensato, in
molti casi, la scarsa capienza del mercato interno. Un’altra caratteristica significativa del sistema
industriale indiano (eredità della pianificazione) è il peso relativamente equilibrato dei diversi
settori: prodotti di base, intermedi e beni di consumo (fra questi ultimi il tessile, specialmente
cotoniero, è tra i più antichi e importanti). L’industria cinematografica è tra le prime al mondo per
numero di film prodotti. Negli ultimi anni si è considerevolmente sviluppata anche l’industria a
elevata intensità tecnologica (aeronautica, elettromeccanica), oltre naturalmente al settore
dell’informatica, particolarmente attivo nella produzione di software.
Un’anomalia del sistema industriale è costituita dal modesto turnover delle imprese, determinato
dall’abbondanza di finanziamenti a disposizione anche delle imprese poco efficienti (Topalova,
2004) originata a sua volta da una politica del credito “conservativa” (Banerjee, Duflo, 2004). Una
politica creditizia poco aggressiva, inoltre, ha frenato la crescita dimensionale delle imprese, con
conseguenze negative in termini di efficienza: si tratta del fenomeno noto come under-lending
(Banerjee et al., 2003, p. 142). Negli Stati più dinamici, tuttavia, vanno profilandosi in questo
campo alcuni mutamenti, con conseguente riduzione nel numero delle industrie meno dinamiche
(Kochhar et al., 2006). Un fattore che potrebbe favorire la scomparsa di alcune imprese, e una
riduzione del grado di diversificazione, è costituito dallo sviluppo del settore immobiliare,
determinato dalla vendita di terreni industriali nelle grandi città, come conseguenza del rapido
processo di urbanizzazione (Kochhar et al., 2006).
In India il settore dei servizi presenta una dimensione media superiore a quella caratteristica di un
paese emergente. Alcuni comparti, come quello bancario, sono caratterizzati da bassi livelli di
efficienza. Altri invece, come quelli produttori di software, sono assai dinamici e competitivi. La
loro evoluzione è il risultato delle riforme strutturali del passato oppure di politiche settoriali, in
particolare nel settore dell’istruzione: si tratta comunque di comparti strategici per la collocazione
internazionale del paese.
La trasformazione del sistema bancario ha seguito un percorso parallelo a quello del sistema reale
(Banerjee et. al., 2004). Inizialmente privato, esso aveva subìto un processo di nazionalizzazione a
partire dal 1969. Elevato dirigismo, obblighi di finanziamento di settori considerati prioritari e
vincoli di riserva e di liquidità particolarmente onerosi avevano ridotto l’indipendenza operativa e la
competitività delle banche (Cole, 2002). Solamente in una terza fase, e cioè a partire dal 1992, è
iniziato un percorso inverso finalizzato a liberalizzare il sistema, a favorirne riorganizzazione,
concorrenzialità e autonomia (Banerjee et al., 2003, 2004). E’ stata prevista la possibilità di fondare
banche private, riducendo la quota pubblica nelle banche di Stato mediante offerta pubblica di
acquisto di azioni e facilitando l’accesso al mercato da parte delle banche estere. Sono state
gradualmente introdotte regolamentazioni prudenziali in linea con gli standard internazionali
(Chiarlone, 2008).
L’efficienza degli istituti bancari resta, tuttavia, inferiore a quella riscontrabile in altri paesi
emergenti. Il peso dello Stato nella proprietà delle banche “rimane significativo e il livello di
consolidamento molto basso” (Chiarlone, 2008, p. 108). Permangono obblighi di erogazione e di
riserva che vincolano l’autonomia delle banche. Il limitato sviluppo dell’intermediazione trova
rispondenza, come generalmente avviene nei paesi emergenti, nella sostanziale esclusione
dall’accesso al credito dei segmenti più deboli della popolazione (Banerjee, Duflo, 2005). Infine,
l’apertura agli istituti stranieri “non è ancora completa e sembra che questo passo seguirà il
processo di consolidamento delle banche indiane” (Chiarlone, 2008, p. 108). Nonostante tali limiti,
il sistema bancario ha avuto e conserva un ruolo rilevante per il sistema economico. Esso
rappresenta infatti il principale canale di finanziamento del sistema stesso; sebbene il suo peso sia
molto inferiore a quello della Cina, resta comunque nettamente superiore a quello di altri segmenti
8
del mercato finanziario 16 .
5. Il sistema educativo in India
Una caratteristica del sistema formativo indiano (secondo taluni studiosi un’autentica singolarità
per un paese emergente), è costituita dal fatto che la spesa in higher education è relativamente più
elevata di quella in primary education (Kochhar et al., 2006). Si devono a questa “anomalia” alcune
specificità del sistema sociale, ma soprattutto di quello produttivo. Da una parte il tasso di
analfabetismo permane molto elevato, dall’altra la presenza del lavoro qualificato in alcune
industrie è particolarmente significativa. Tale politica dà luogo a risultati ambigui. Da una parte
essa ha finito con l’alimentare un’emigrazione di lavoratori qualificati verso paesi anglofoni (Usa,
Regno Unito); dall’altra ha favorito la nascita di imprese a elevata intensità tecnologica e di lavoro
qualificato che operano nel terziario avanzato. In un contesto caratterizzato da una severa normativa
antimonopolistica, da elevata protezione tariffaria e da sussidi alle imprese pubbliche, l’abbondanza
di lavoro qualificato ha determinato la nascita di imprese particolarmente competitive (Kochhar et
al., 2006). Secondo Banerjee (2006, p.1022) “The combination made for many interesting
experiments that probably would not have happened in a less dirigiste economy”.
Dopo avere ottenuto l’indipendenza, l’India cercò di sviluppare un sistema scolastico unitario e
integrato, ma la formazione della giovane popolazione indiana, con la complessità sociale e
religiosa che la caratterizza, non fu opera facile 17 . Anche se dall’indipendenza il numero delle
scuole e dei discenti è notevolmente aumentato 18 , circa il 30 per cento dei bambini di età compresa
tra i sei e i dieci anni non frequenta la scuola pubblica. Numerosi fattori spiegano l’elevato tasso di
abbandono scolastico. Esiste, innanzitutto, una sorta di diffidenza da parte delle famiglie povere,
soprattutto nelle zone rurali, verso la scuola pubblica. Il lavoro minorile (presente soprattutto in
agricoltura, ma diffuso anche in attività industriali quali la tessitura dei tappeti, la produzione di
sigarette e la tessitura della seta) è inoltre un fenomeno associato alla povertà: tra analfabetismo e
povertà si determina quindi una sorta di circolo vizioso. In parallelo sono state create Università, di
tradizione anglofona, e centri di ricerca all' avanguardia. Il paese conta circa 200 atenei: i più
antichi sono quelli di Kolkata, Mumbai e Chennai, sorti nel 1857. Ogni anno conseguono la laurea
400mila ingegneri, che trovano immediatamente occupazione, e anzi non sono sufficienti a
soddisfare la richiesta interna. La crescita economica, prossima al 10%, renderà infatti necessaria
l’occupazione di non meno di un milione e 700mila ingegneri. Nonostante le Università siano
praticamente al completo, si prevede per il 2010 un deficit di almeno mezzo milione di laureati.
Negli anni ‘80 gli imprenditori indiani avevano imparato ad adattarsi alle prime pur modeste
liberalizzazioni. A partire dagli anni ‘90, a seguito del processo riformatore, avevano iniziato a
esportare e a sfruttare le potenzialità offerte dalla globalizzazione. Oggi sono gli imprenditori
indiani ad acquisire quote di imprese straniere. Ne è un esempio la scalata da parte dell’indiana
16
Sul tema specifico - quanto rilevante - del microcredito un accurato resoconto dell’esperienza di Sewa (Self Employed
Women’s Association) iniziata nel 1974 - tre anni prima della fondazione della Grameen Bank di Muhammad Yunus - è
contenuto in Gramaglia (2008).
17
Più della metà della popolazione ha meno di 25 anni. Molti di questi giovani non hanno alcuna qualificazione e sono
disoccupati. Il 40% della popolazione sopra i 15 anni di età è ancora analfabeta. La Costituzione indiana aveva previsto
l’eliminazione del sistema delle caste che per secoli aveva escluso da ogni prospettiva di promozione sociale gli strati
inferiori della popolazione. All’indomani dell’indipendenza furono attuate importanti misure per promuovere
attivamente l’istruzione e migliorare le condizioni di vita delle classi marginali, la cui origine si collega al prevalere di
gruppi etnici economicamente e culturalmente superiori su popolazioni sottomesse. Si calcola, tuttavia, che siano ancora
240 milioni i dalit, termine recentemente utilizzato per designare gli harijan, “figli di Dio”, come furono chiamati da
Gandhi gli “impuri”.
18
Dopo le riforme degli anni ‘80 il sistema scolastico, quasi interamente gestito a livello degli stati, prevede l’istruzione
obbligatoria e gratuita dai 6 ai 14 anni. Recentemente è stato inoltre istituito un programma nazionale di
alfabetizzazione degli adulti. Nel 2005 il tasso di alfabetizzazione della popolazione adulta era cresciuto al 56,6%,
contro il 43% degli anni ‘80 dello scorso secolo.
9
Mittal della lussemburghese Arcelor. “Abbiamo capitali e conoscenza per farlo”, ricorda spesso
Nandan Nilekani, che dal 1° gennaio è entrato nel consiglio d'amministrazione di Reuters. “With the
rise in foreign exchange balance and the confidence of success in the software and pharmaceuticals
sector, Indian corporations have gone on a spree of buying international companies, an activity
unheard of ten years ago” (Basu, Maertens, 2007, p. 21).
Nonostante i progressi realizzati dal sistema educativo, cominciano tuttavia a emergere strozzature
connesse alla qualità dei laureati. Nasscom, l'associazione delle imprese di software e dei servizi,
ammonisce che già oggi solo un ingegnere su quattro serve davvero a ciò di cui ha bisogno l'
information technology indiana. «È vero: quella della qualità è una strozzatura della crescita che
dobbiamo correggere», ammette Nilekani 19 . Per questo Infosys ha appena stanziato 300 milioni di
dollari per costruire nuovi edifici, sviluppare i corsi e aggiornare i curricula nel campus di Mysore,
nel Karnataka, dove oggi studiano 4.500 giovani (13mila fra un paio d' anni).
6. La collocazione del sistema economico indiano nel processo di globalizzazione
Quale è la prevedibile collocazione dell’India nell’economia internazionale se si tiene
contemporaneamente conto della sua evoluzione di sistema e delle caratteristiche del processo di
globalizzazione? Quali sono inoltre gli elementi positivi e quali quelli negativi dello sviluppo
passato, che oggi possono favorire oppure frenare l’ integrazione dell’India nell’economia
internazionale?
Per quanto si possa essere tentati dal consentire con Ulrich Beck (1999, p.13) nel considerare il
termine globalizzazione una “…orribile parola…diventata inevitabile in ogni dichiarazione
pubblica”, e si possa quindi desiderare di astenersi dall’usarla, non v’è dubbio che i fenomeni che
essa sottende, e nei quali consiste, siano a tal punto incombenti e rilevanti da proporci di continuo
nuove occasioni di attenzione e ulteriori prospettive di analisi. E ciò vale tanto se si ritiene, come fa
Anthony Giddens (2000), che il termine sia sufficientemente autoesplicativo da esimerci da ogni
impegno definitorio, quanto se ci si impegna nella ricerca di definizioni più o meno puntuali, come
è consuetudine che facciano sia le organizzazioni internazionali (sottolineando ad esempio la natura
della globalizzazione in quanto “processo dinamico e multidimensionale di integrazione
economica” 20 ) sia tanti studiosi, magari per tentarne periodizzazioni o per puntualizzarne aspetti
rilevanti, oltre che funzionali a impostare discussioni più fondate di quanto non lo consenta, di
norma, tanta pubblicistica d’occasione (Osterhammel, Petersson, 2005). E sono proprio studiosi
indiani a svolgere un ruolo eminente in tale discussione, quali esponenti di primo piano di quella
“rete internazionale”, o “rete d’interazione”, che secondo taluni costituisce l’accezione tuttora
prevalente di uno “spazio globale” (e dei correlati “assetti sociali globali”) ancora allo stadio di
19
Nandan Nilekani è stato cofondatore, a 27 anni, di Infosys e Ceo. Recentemente il ministro indiano delle Finanze
Chidambaram ha sostenuto che “l'Ibm è il passato, Infosys il futuro”. “Infy”, come la chiamano gli indiani, è la prima
impresa indiana quotata al Nasdaq. Oltre al quartier generale di Electronic City, a Bangalore, dispone di nove centri di
sviluppo e di 30 uffici in 20 Paesi. Quando fu creata nel 1981 da Murthy, Nilekani e altri cinque amici, Infosys
Technologies aveva un capitale sociale corrispondente alle 10mila rupie (circa 200 dollari) prestate da Sudha, la moglie
di Narayana Murthy. Alla chiusura dell' ultimo anno fiscale la sua capitalizzazione di mercato superava i 30 miliardi di
dollari. Da 26 trimestri ottiene risultati superiori alle previsioni e per 13 trimestri il suo rendimento ha superato il 15%.
“Siamo in un mercato dalle tremende opportunità”, afferma Nilekani senza tuttavia riuscire a dissimulare il proprio
ottimismo. In realtà Infosys “fa le cose più in fretta, meglio e più a buon mercato perché siamo riusciti a creare una
compagnia su scala mondiale”.
20
OECD (2005, p.11). La stessa fonte ufficiale sottolinea (p. 16) come alla crescente internazionalizzazione dei mercati
abbiano contribuito soprattutto “i) la liberalizzazione e la deregolamentazione dei movimenti di capitale, e
particolarmente dei servizi finanziari; ii) l’ulteriore apertura dei mercati agli scambi commerciali e agli
investimenti…iii) il ruolo strategico svolto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT)
nell’economia”.
10
utopia o di struttura “a tendere” 21 , Il riferimento è, in particolare, a Jagdish Bhagwati (2000, 2005,
2006) e al suo lavoro di sistematizzazione del problema dei costi e dei benefici della
globalizzazione, degli obiettivi di minimizzazione e di massimizzazione correlati, della gestione
della transizione verso livelli sempre più elevati di integrazione 22 e della connessa velocità ottimale
di aggiustamento; del cruciale problema, infine, del rapporto fra globalizzazione e democrazia, con i
connessi riferimenti esemplificativi (con riferimento alla realtà indiana) alla relazione fra diffusione
delle tecnologie informatiche, accesso ai mercati internazionali e sviluppo delle attività artigianali
(Bhagwati, 2005). Ci si riferisce inoltre, naturalmente, all’opera complessiva di Amartya Sen, tutta
finalizzata a individuare condizioni e caratteristiche della buona “società aperta” e delle relative
“regole di governo” 23 .
Il sistema economico indiano ha registrato un crescente grado di apertura nei confronti dell’estero,
pur non potendosi ancora considerare l’India un sistema particolarmente “aperto”. Il suo “grado di
apertura”, misurato dall’interscambio di beni e servizi, è passato infatti dal 20,4% nel 2000 al
29,9% nel 2005 e al 38,6% nel 2008 (World Bank, 2009a, 2009b), a segnalare una progressiva
integrazione nel mercato internazionale 24 . Il tasso annuo di crescita delle importazioni (8,6% nel
2007 e 17,9% nel 2008) ha sempre superato quello delle esportazioni (tasso di crescita medio annuo
pari al 7,5% nel 2007 e al 12,8% nel 2008) con conseguente persistente disavanzo commerciale (54
miliardi di dollari nel 2007 e quasi 70 nel 2008). L’incremento dell’interscambio è stato inoltre
favorito dalla creazione delle “Zone Economiche Speciali” (Special Economic Zones)
particolarmente vantaggiose sotto i profili fiscale, doganale e, in generale, regolativo e procedurale.
La crescita dell’interscambio dell’India con il resto del mondo (unitamente a quello della Cina)
costituisce uno dei fenomeni più significativi dell’ultimo decennio, destinato a modificare
radicalmente non solo gli equilibri geopolitici, ma anche la dinamica della diseguaglianza a livello
mondiale sia tra paesi sia al loro interno (Topalova, 2006; Harrison, McMillan, 2007).
La Banca Mondiale (World Bank, 2008), facendo riferimento alla vasta letteratura disponibile,
fornisce indicazioni significative 25 . L’approccio della Intercountry inequality, che misura le
variazioni del reddito pro-capite fra paesi prescindendo dalla numerosità della popolazione, porta a
concludere che nel corso degli ultimi due decenni la distribuzione mondiale del reddito è diventata
più iniqua. Quello che misura invece la International inequality, ponderando i redditi pro capite per
la popolazione, suggerisce la conclusione opposta in ragione, soprattutto, dell’evoluzione registrata
proprio dai sistemi economici cinese e indiano. L’approccio della Global inequality, infine,
consente di misurare la diseguaglianza a livello mondiale effettuando confronti fra redditi
21
Per una sintetica rassegna di posizioni su questo punto cfr. J. Osterhammel, Petersson (2003). Per un punto di vista
italiano cfr. Deaglio (2004).
22
Alla critica della politica dell’Amministrazione Clinton a questo proposito, per quanto riguarda tanto i flussi
finanziari quanto quelli commerciali, Bhagwati dedica in particolare una raccolta di interventi. Si veda Bhagwati
(2000).
23
Cfr., fra i tanti, Sen (2002). particolarmente per gli scenari aperti (pp. 3-9) dal primo capitolo, dal titolo Dieci punti
sulla globalizzazione. L’ “avversario” viene esemplificato mediante l’immagine (contenuta in almeno quattro testi
sanscriti a partire dal 500 a.C.) della ranocchia che trascorre l’intera vita in un pozzo ed è timorosa di tutto quello che
ne sta al di fuori. La ranocchia, ammette Sen, “…aveva una ‘visione del mondo’, ma circoscritta a quel piccolo
pozzo….Questo rimane un problema importante, perché in giro, al giorno d’oggi, ci sono miriadi di ranocchie e anche,
naturalmente, i loro sostenitori e difensori” (p. 17). In tema di “regole di governo”, la necessità di istituzioni finalizzate
allo sviluppo della conoscenza e alla sua trasmissione internazionale (fattore considerato ancora più strategico dello
sviluppo dei mercati ai fini di una globalizzazione più equilibrata) è sottolineata da Pasinetti (2007).
24
L’India esporta un’ampia varietà di prodotti, principalmente tessili, capi di vestiario, gemme e gioielli, articoli in
pelle, tè, apparecchiature meccaniche e prodotti chimici di base. Stati Uniti, Germania, Giappone, Gran Bretagna,
Arabia Saudita, Belgio e alcuni paesi del Commonwealth sono i suoi principali partner commerciali.
25
La centralità dell’argomento è enfatizzata da Sen (2002, p. 5) che sottolinea: “La sfida principale ha a che fare, in un
modo o nell’altro, con la disuguaglianza, sia tra le nazioni sia nelle nazioni. Le disuguaglianze rilevanti comprendono le
differenze nella ricchezza, ma anche le macroscopiche asimmetrie nel potere politico, sociale ed economico. Una
questione cruciale è la divisione, tra paesi ricchi e paesi poveri o tra differenti gruppi in un paese, dei guadagni
potenziali generati dalla globalizzazione”. Per una sistematizzazione della complessa relazione fra povertà, crescita e
disuguaglianza cfr. Bourguignon (2003), e altresì Kanbur (2005).
11
indipendentemente dal paese di appartenenza. Questa misura, riflettendo sia le diseguaglianze tra
paesi (between countries) sia quelle all’interno dei paesi (within countries), mostra una sostanziale
stabilità a partire dalla fine degli anni ’80 (World Bank, 2008). Si stima che proprio la rapida
crescita delle “grandi economie emergenti” (Cina e India in particolare) abbia consentito di
“bilanciare” la tendenza alla crescita delle diseguaglianze all’interno dei diversi paesi.
Particolarmente utili ai nostri fini sono le elaborazioni di Milanovic e Yitzhaki (2002). Esse
consentono, nell’ottica dell’approccio della Global inequality, di segnalare l’emergere di una
“classe media mondiale”, e di identificare la sua distribuzione per grandi aree del mondo. Dopo
avere convenzionalmente identificato tre categorie “globali” di percettori di reddito (“poveri”,
“classe media” e “ricchi”), i due autori mettono in evidenza il fatto che la classe media pesava, nel
1993, per l’8% della popolazione mondiale e per il 12% del reddito (Milanovic, Yitzhaki, 2002, p.
173). Ulteriori elaborazioni calcolano nel 7,6% e nel 13,8% i rispettivi valori riferiti al 2000 e nel
16,1% e nel 14,0 % quelli previsti al 2030 (World Bank, 2008, p.101). La classe media proveniente
da East Asia and the Pacific (prevalentemente Cina), stimata pari all’1,3% della popolazione
mondiale (e al 2,0 % del reddito) nel 2000, viene proiettata al 7,3% (e al 6,4% del reddito) nel 2030:
i dati relativi alla South Asia (prevalentemente India) registrano un incremento dallo 0,1 all’1,6%
della popolazione mondiale (e dallo 0,1% all’1,3% del reddito).
I paesi nei quali si verificheranno incrementi rilevanti nelle dimensioni della classe media (Cina e
India sono e/o saranno i più “probabili” fra questi) sperimenteranno anche le implicazioni di tale
fenomeno, così come ne sarà condizionata la struttura stessa della produzione mondiale. La
composizione del ”paniere” globale di beni e servizi domandati tenderà infatti a subire un
riorientamento potenzialmente radicale, e ciò tanto più accadrà quanto più la classe media dei paesi
emergenti “peserà” sulla classe media mondiale. Questa ultima circostanza tenderà inoltre a
determinare conseguenze in termini di political economy, e queste consisteranno nell’incremento di
“popolarità” dell’opinione (e quindi delle politiche) pro-globalizzazione, che vedranno aumentare la
propria “base sociale” di riferimento, oltre che il peso politico di questa 26 . Proprio in India, negli
ultimi anni, si è andata formando una consistente classe borghese e imprenditoriale.
Alla globalizzazione commerciale (è ancora il caso indiano ad avvalorare questa tesi) dovranno
essere affiancate - per “captarne” i guadagni - politiche ulteriori, idonee a favorire la mobilità del
lavoro (Munshi, Rosenzweig, 2004). L’integrazione finanziaria, in quanto sia all’origine di
instabilità (specie in situazioni di fragilità istituzionale), è infatti onerosa per i “poveri”, e le crisi
finanziarie che si sono succedute (fra cui quelle asiatiche) sono di ciò una dimostrazione
convincente. La non univocità della relazione fra povertà e globalizzazione emerge infine dal peso
del fattore “progresso tecnico”, nella misura in cui questo ultimo risulti indipendente dagli sviluppi
della globalizzazione e sia invece rilevante nel determinare i differenziali di reddito.
La composizione delle esportazioni indiane non riflette i vantaggi comparati caratteristici di un
paese emergente. Contrariamente a quanto avviene nella maggior parte di tali paesi, non solo la
produzione interna, ma anche le esportazioni sono costituite da prodotti dotati di un elevato
contenuto di lavoro qualificato. “The two things that distinguish India from any other economy at
its level of development are the skill intensity of its exports and the diversity of what it produces”
(Banerjee, 2006, p.1022). Secondo Banerjee e Duflo (2000), tuttavia, la quota di esportazione sul
totale mondiale di questi prodotti, in passato, è stata meno elevata di quanto sarebbe stato
giustificabile sulla base del grado di sviluppo del settore. Il successo nelle esportazioni di prodotti
informatici dipende più dal livello di reputazione che non dal prezzo. Solo introducendo sistemi di
rating in grado di segnalare il grado di affidabilità delle singole industrie sarà possibile
incrementare le esportazioni di questi prodotti. Anche il settore delle biotecnologie ha sperimentato,
ed è destinato a subire, un’evoluzione molto simile a quella del settore informatico. Il fattore che
contribuirà a mantenere elevato il grado di competitività delle esportazioni di high-tech customized
26
Per alcuni riferimenti alle connessioni con il teorema di Stolper-Samuelson, all’approccio delle preferenze
dell’”elettore mediano” (in relazione al peso crescente di questo ultimo nei paesi in sviluppo) oltre che agli “effetti di
ritorsione” ipotizzabili nei paesi industrializzati (e alle relative verifiche empiriche), cfr. World Bank (2008).
12
software è la reputazione che i prodotti indiani saranno in grado di conquistare nel tempo.
Questo modello di specializzazione in industrie a elevata intensità di lavoro qualificato potrebbe,
nel futuro immediato, presentare elementi di debolezza dal punto di vista della sostenibilità in
relazione agli aumenti di costo del lavoro qualificato. Questi effetti si sono già manifestati sotto
forma di incrementi dei livelli retributivi, e quindi di un aumento della diseguaglianza salariale.
Secondo stime recenti il divario tra le retribuzioni dei lavoratori con istruzione superiore e quelle
dei lavoratori con istruzione secondaria è aumentato dal 34% al 50% (Azam, 2009, p. 2).
Due sono le possibili spiegazioni di tali aumenti. Secondo alcuni autori i mutamenti nei salari
relativi sono attribuibili all’ aumento della domanda di lavoro qualificato (Chamarbagwala, 2006),
particolarmente in numerosi comparti del settore industriale (Kijima, 2006; Chamarbagwala, 2006).
“Skill biased technological change is the most probable reason for shift in demand in favor of
tertiary graduated workers” (Azam, 2009, p.14). Secondo altri, invece, tali divari sono attribuibili
all’aumento dei rendimenti dell’istruzione superiore (Kijima, 2006). Tale aumento, che si è
concentrato tra la fine degli anni ’90 e il 2004, sarebbe stato causato dall’arresto della crescita
relativa dell’offerta di lavoratori laureati. Cambiamenti nelle politiche dell’istruzione, che si sono
tradotti in un maggiore impegno nella formazione primaria e secondaria a svantaggio di quella
superiore, si sono “combinati” con un aumento della domanda di lavoro qualificato, e quindi dello
skill premium (Azam, 2009).
7. Globalizzazione e forme alternative di outsourcing e offshoring
L’outsourcing, o per meglio dire seguendo Krugman (2007, p.1) l’ offshore outsourcing, può essere
definito come il commercio internazionale in input intermedi, che talvolta attraversano più volte le
frontiere prima di essere incorporati nei beni finali. Si tratta di un fenomeno relativamente recente,
reso economicamente conveniente dalla diminuzione dei costi di trasporto e di comunicazione, che
agevola la combinazione di input provenienti da paesi diversi in vista della produzione di un
determinato bene o servizio (Sharma, 2005). Secondo Blinder (2005, p. 2) “economists who
interpret offshoring as nothing more than international business as usual are greatly
underestimating both its importance and its disruptive impact on Western societies.”
E’ possibile spiegare l’aumento della domanda relativa di lavoro qualificato, e del conseguente
aumento delle retribuzioni, ricorrendo a un modello formulato da Feenstra (2007) per analizzare gli
effetti dell’attività di outsourcing. Il modello è stato elaborato per spiegare la dinamica relativa (nel
paese di origine e in quello di arrivo) delle retribuzioni dei lavoratori specializzati rispetto a quelli
non specializzati, conseguente al trasferimento di una fase del processo produttivo di beni e di
servizi. Precisamente “The provision of services or the production of various parts of a good in
different countries that are then used or assembled into a final good in another location is called
foreign outsourcing or more simple outsourcing” (Feenstra, Taylor, 2008, p. 228). La
delocalizzazione produttiva a cui il modello si applica è quella tradizionale, relativa a uno specifico
settore. Parti del processo produttivo e/o componenti del prodotto sono ottenute in uno o più paesi
diversi da quello di residenza dell’industria che organizza il processo produttivo e commercializza il
prodotto finale.
Per spiegare gli effetti dell’outsourcing è opportuno distinguere, all’interno della catena di
formazione del valore di un bene, le diverse fasi, da quella iniziale di ricerca e sviluppo a quella
finale della commercializzazione (fig.1a). Se queste attività vengono separate sulla base del diverso
impiego di lavoro qualificato, è agevole individuare quelle che verranno presumibilmente trasferite
all’estero. Si veda su questo punto la fig.1b desunta da Feenstra, Taylor (2008, p. 232). Saranno
trasferite quelle fasi della lavorazione del prodotto, collocate alla sinistra della linea di confine A,
che richiedono un maggiore impiego di lavoro non qualificato, il cui prezzo è inferiore nei paesi
emergenti. Si tratta, generalmente, di una parte dell’ attività di produzione dei componenti e
dell’assemblaggio degli stessi.
13
Fig. 1a
Le fasi del processo produttivo ordinate per sequenza temporale
Fig. 1b Le fasi del processo produttivo ordinate per qualificazione del lavoro
Fonte: Feenstra, Taylor (2008), p.232.
Mano a mano che i costi del trasporto o del capitale diminuiscono nel paese straniero, risulterà
conveniente trasferirvi un maggior numero di attività. La linea di confine tra attività trasferite e
attività che restano nel paese di origine si sposta verso destra da A a B (fig. 2). Il primo effetto
consiste nella diminuzione dell’impiego di lavoro non qualificato e nel corrispondente aumento del
prezzo relativo del lavoro qualificato nel paese di origine, cioè “the relative wage of skilled labor
will increase because of outsourcing” (Feenstra, Taylor, 2008, p. 236). Analogamente il
trasferimento di attività a più elevato contenuto di lavoro qualificato determina anche nel paese
straniero un aumento della domanda di lavoro qualificato: conseguentemente anche in questo paese
aumenta il prezzo relativo di questa tipologia di lavoro. L’evidenza empirica raccolta da Feenstra e
Taylor (2008) sulla base dei dati del NBER conferma questa ipotesi.
Fig.2 La linea divisoria nella catena del valore si sposta verso destra
Fonte: Feenstra,Taylor (2008), p. 236.
I costi relativi del lavoro trovano corrispondenza in minori prezzi relativi dei componenti prodotti
all’estero rispetto ai prezzi delle produzioni a più elevata intensità di lavoro qualificato realizzate
nel paese di origine. Si osserverà pertanto una riduzione delle ragioni di scambio di questi due tipi
di attività, alla quale corrisponderà uno spostamento delle produzioni all’esterno della frontiera, con
conseguente passaggio, in termini di livelli di produzione, dal livello Y0 al livello Y1 (Feenstra,
Taylor, 2008, p. 250). Si veda a questo proposito la fig. 3.
14
Fig.3 Equilibrio con outsourcing: un modello semplificato
Fonte: Feenstra, Taylor (2008), p. 250.
Gli effetti dell’outsourcing nel paese che coordina il processo produttivo (generalmente il paese
industrializzato) sono molteplici. Innanzitutto si determina una riduzione dei costi, e quindi anche
del prezzo di vendita del prodotto. In secondo luogo si determina un mutamento nel peso relativo
dei diversi tipi di occupazione a seconda del grado di specializzazione, e conseguentemente anche
nelle retribuzioni relative. Questi effetti sono analoghi a quelli che si verificherebbero se si
utilizzassero le prestazioni di lavoratori immigrati. “When a good or service is produced more
cheaply abroad, it makes more sense to import it than to make or provide it domestically” (Mankiw,
2004, p. 229).
Nel corso del tempo si è intensificato l’outsourcing dei componenti, cioè quello interno al settore
manifatturiero. In parallelo è aumentato anche l’outsourcing dei servizi alle imprese. La produzione
di servizi richiede tuttavia un impiego di lavoro qualificato superiore a quello richiesto nel settore
manifatturiero. Secondo alcuni autori l’outsourcing di servizi rientra nel modello tradizionale di
commercio internazionale. In un modello di tipo ricardiano il fenomeno interesserà pertanto i paesi
caratterizzati da un vantaggio comparato nella produzione di servizi. “The growing outsourcing of
services in industrial countries is simply a reflection of the benefits from the greater division of
labor and trade…” (Amiti, Wei, 2004, p. 37). Il fenomeno nuovo, secondo questi autori, è
costituito dal timore della perdita dell’occupazione da parte di categorie di lavoratori (liberi
professionisti, contabili, disegnatori) che in precedenza erano protetti nei confronti della
concorrenza internazionale. D’altra parte l’evidenza empirica raccolta da Amiti e Wei (2004, 2005a,
2005b) non sembrava confermare, almeno fino al 2003, questi timori. “Drawing on the experiences
of the United States and the United Kingdom, we can say that, in the aggregate, outsourcing does
not appear to be leading to net job losses - that is, jobs lost in one industry often are offset by jobs
created in other growing industries” (Amiti, Wei, 2004, p. 37).
Probabilmente, tuttavia, l’outsourcing di servizi presenta, di fatto, aspetti di novità rispetto al
modello tradizionale dei costi comparati, come conseguenza della crescente complessità del
contesto socio-economico mondiale: si parla a questo proposito di seconda globalizzazione.
15
8. Globalizzazione e nuove forme di outsourcing. Il secondo unblunding
La seconda globalizzazione è caratterizzata dalla crescente rilevanza dell’ outsourcing delle
mansioni. Si tratta di un processo diverso da quello descritto nel paragrafo precedente (Grossman,
Rossi-Hansberg, 2006, 2008; Blinder, 2006). In questo caso, infatti, lo “spacchettamento”, e il
corrispondente trasferimento all’estero, non riguardano più le diverse fasi del processo produttivo,
bensì l’organizzazione stessa d’ impresa, distinta sulla base delle diverse mansioni (Baldwin,
2006) 27 .
Fig.4 Il primo e il secondo unbundling
Fonte: Baldwin (2006), p. 25.
Ne conseguono, in altri termini, mercati globali di mansioni nei quali tendono a confluire
trasversalmente unità di competenze facenti capo a settori produttivi eterogenei sotto il profilo sia
della collocazione geografica sia dei livelli di produttività (fig. 4). Ne risulta superata la
corrispondenza fra dotazione di lavoro qualificato e protagonisti “vincenti” del processo di
globalizzazione, come anche quella, simmetrica, fra lavoro non qualificato e “perdenti”. Molte
professioni legate alla società dell’informazione e all’ economia della conoscenza rispondono più di
altre, oggi, alla pratica di questo tipo di outsourcing. La nuova globalizzazione, che si realizza
secondo il nuovo paradigma, si distingue pertanto dalla prima per il fatto di operare a livelli di
disaggregazione molto più spinti. In quanto tale può coinvolgere processi produttivi tanto industriali
quanto terziari, tanto di fabbrica quanto di ufficio, frammentandoli. La caduta dei costi di
comunicazione e di coordinamento, nonché differenziali salariali non compensati da divari di
produttività adeguati, determinano e/o favoriscono tale processo.
Gli effetti sulla domanda e sulle remunerazioni dei differenti tipi di lavoro possono risultare
rafforzati quando si introduca questo ulteriore, e inedito, concetto di delocalizzazione, riferito non a
fasi di un singolo processo produttivo, ma a specifiche mansioni afferenti contemporaneamente a
più settori. Questo tipo di outsourcing, sulla scorta dell’approccio noto come “paradigma di
Princeton”, e che fa perno sulla crescente rilevanza della concorrenza internazionale fra mansioni
individuali rispetto a quella che opera fra aziende e/o fra settori industriali, ruota attorno al
cosiddetto secondo unbundling, o secondo “spacchettamento” (Grossman, Rossi-Hansberg, 2006,
2008). Questo fenomeno si è venuto determinando a seguito del pratico annullamento dei costi di
comunicazione, e a esso consegue la pressoché perfetta trasferibilità interspaziale delle mansioni
“codificabili” (Baldwin, 2006). Il punto appare di particolare rilevanza, fin da oggi ma ancora di
più in prospettiva, sia per il sistema socio-economico indiano sia per le relazioni fra questo e il
27
Un esercizio di integrazione fra trade-in-tasks theory e trade-in-goods theory è contenuto in Baldwin, Robert-Nicoud
(2010).
16
resto del mondo.
Emerge immediatamente, a questo proposito, una significativa differenza tra il new paradigm (così
definito da Grossman, Rossi-Hansberg, 2006, p. 1) e l’old paradigm. Secondo Blinder (2005, 2006)
l’outsourcing di servizi può essere addirittura valutato alla stregua di una seconda “rivoluzione
industriale”. L’outsourcing di componenti era giustificato dai differenziali nel costo del lavoro non
qualificato rispetto a quello qualificato, ed era favorito dalla riduzione dei costi di trasporto che
interessava in uguale misura tutti i settori produttivi (Harrison, McMillan, 2009). L’outsourcing di
mansioni, invece, può essere attuato solo in determinati casi (Sako, 2006; Sako, Tierney 2005), in
relazione alla natura della mansione e non al contenuto relativo di lavoro non qualificato.
L’esempio più convincente è quello dei conducenti di mezzi di trasporto. Si tratta di una mansione
il cui contenuto di lavoro non qualificato è elevato, ma che non può essere trasferita all’estero
(Baldwin, 2006). In generale si può ipotizzare che non possano essere trasferite le mansioni che
richiedono un rapporto face-to-face con il cliente. Tuttavia “As information technology improves,
more and more personal services will migrate over the line and become impersonal services. At this
point, we cannot even guess the ultimate dimensions of the migration. But it is likely to be large”
(Blinder, 2005, p. 15).
Amiti e Wei (2004) hanno documentato che, tra il 1992 e il 2000, l’outsourcing di servizi da parte
di imprese manifatturiere degli Stati Uniti è aumentato del 6%. Nello stesso tempo, tuttavia, erano
aumentate anche le esportazioni di servizi, così da determinare un surplus netto (Garner, 2004). Il
medesimo fenomeno si osserva in altri paesi industrializzati come Regno Unito e Svizzera. I paesi
emergenti che registrano un surplus netto nel comparto dei servizi sono India, Singapore e Hong
Kong (Amiti, Wei, 2004).
In sintesi l’outsourcing di mansioni verso l’estero produce tre effetti all’interno (Grossman, RossiHansberg, 2006). In primo luogo si riduce il prezzo relativo dei beni ottenuti impiegando lavoratori
che percepiscono salari più bassi. Inoltre si riducono domanda di lavoro e occupazione. Aumenta
infine la produttività media dei lavoratori, dal momento che rimangono nel paese le funzioni
caratterizzate da un più elevato livello di produttività. L’ipotesi di Grossman e Rossi-Hansberg
(2006) è che la tecnologia più avanzata dell’economia “domestica” si combini con un lavoro meno
costoso all’estero, con effetti paragonabili a quelli che si otterrebbero con l’introduzione del
progresso tecnologico: gli effetti in termini di benessere dovrebbero quindi essere comunque
positivi.
Alcuni autori hanno distinto le mansioni in due categorie: quelle basate su routine e quelle non
routinarie. “The idea is that the routine tasks, which include “routine manual” and routine
cognitive” categories could be offshored to educated workers in low-wage nations” (Baldwin,
2006, p. 34). Spitz (2004) ha osservato in particolare, in Germania, una contrazione
nell’occupazione delle mansioni di natura routinaria, accompagnata da un aumento
nell’occupazione di quelle “non trasferibili”: egli sottolinea inoltre il diverso ruolo delle tecnologie
informatiche nelle differenti mansioni, dal momento che “computer technology is complementary to
workers in executing analytical and interactive activities, whereas it substitutes for workers in
performing manual and cognitive routine tasks” (Spitz, 2004, p. 1). Non bisogna dimenticare inoltre
che l’effettivo trasferimento dipenderà anche dall’esistenza (o non) di costi di coordinamento di
mansioni complementari. Si darà pertanto un limite al di sopra del quale il trasferimento non risulta
conveniente (Baldwin, 2006).
Nel trasferimento di mansioni la distinzione rilevante è quindi quella tra le attività che possono
transitare sulla fibra ottica e le altre, e non quella tradizionale basata sul livello di istruzione dei
lavoratori (Blinder, 2005). Bardhan e Kroll (2003), Jensen e Kletzer (2005), Van Welsum e Reif
(2006) individuano, con riferimento agli Stati Uniti, un numero piuttosto elevato di professioni
trasferibili: in particolare analisti finanziari, tecnici in campo medico, specialisti in informatica o in
discipline matematiche. Mann (2005) ha calcolato che negli Stati Uniti, tra il 1999 e il 2004, circa
un terzo delle occupazioni a bassa qualifica nel settore informatico (operatori telefonici e
informatici) è stata trasferita all’estero. E’ invece aumentato l’impiego di lavoratori specializzati.
17
Alcuni studi hanno evidenziato, sia teoricamente che empiricamente, i vantaggi che possono essere
ottenuti dalle imprese che ricorrono all’outsourcing di servizi (Abramovsky et al., 2004). Glass e
Saggi (2001) giungono alla conclusione che l’outsourcing, riducendo i costi, determina un aumento
dei profitti e di conseguenza anche delle spese per ricerca e sviluppo. Altri studi, utilizzando dati
relativi a singole imprese e/o impianti, mostrano come l’outsourcing di servizi sia generalmente
associato a un aumento di produttività nell’impresa che utilizza servizi importati (Hijzen et al.,
2006; Gorg et al., 2008; Tomiura, 2007; Olsen, 2006). Secondo Sako (2006) l’aumento di
produttività è attribuibile alla combinazione di tre fattori: 1) la standardizzazione dei processi di
fornitura di servizi, 2) una maggiore specializzazione accompagnata da incentivi per migliorare le
performance, 3) l’utilizzo “domestico” di servizi a più elevato contenuto di lavoro specializzato.
Generalmente l’aumento di produttività si accompagna a una riduzione del costo del prodotto, con
vantaggio per le imprese che utilizzano i relativi beni come input. Se poi si verifica una perdita di
occupazione nel settore che ricorre all’outsourcing, questa è generalmente compensata
dall’aumento dell’ occupazione in altri settori (Amiti, Wei, 2004). Nel complesso, dunque, non si
osserva una significativa riduzione della domanda di lavoro con effetti negativi sull’accumulazione
di capitale umano (Crinò, 2009).
Uno studio recente utilizza dati a livello di impianto riferiti all’Irlanda, con l’obiettivo di stimare la
relazione tra outsourcing di servizi, profitti e innovazione. I risultati confermano le attese, e cioè
l’esistenza di una correlazione positiva tra outsourcing e andamento delle innovazioni. Secondo
questa interpretazione “outsourcing allows a plant to restructure activities towards more skill
intensive (innovative) activity” (Gorg, Hanley, 2009, p. 5). Si sposta quindi verso l’esterno la
frontiera tecnologica. Si tratta di un risultato di rilievo, che consente di ridimensionare gli effetti
negativi prodotti dall’outsourcing di servizi in termini di riduzione dell’occupazione; consente
inoltre di prevedere che il divario tecnologico tra paesi industrializzati e paesi emergenti permarrà e
che l’outsourcing di servizi è una strategia destinata a perdurare (Gorg, Hanley, 2009).
Da quanto osservato discendono alcune significative conseguenze in ordine alle politiche che i paesi
industrializzati dovrebbero adottare per compensare la riduzione di occupati derivante
dall’outsourcing. Le conseguenze della prima ondata erano abbastanza definite. Il trasferimento
aveva interessato prevalentemente i settori tradizionali, a basso contenuto tecnologico. I lavoratori
qualificati e con elevato grado di istruzione avevano tratto vantaggio dal trasferimento all’estero
delle fasi della produzione a più elevato contenuto di lavoro non qualificato. Le politiche di
sostegno finalizzate a compensare la perdita di posti di lavoro si prefiggevano quindi di migliorare
il livello di istruzione dei lavoratori meno qualificati e di incentivare la nascita di attività industriali
nei settori a più elevato contenuto tecnologico.
Molto più complesso è invece progettare politiche adeguate a fronteggiare gli effetti negativi del
secondo “spacchettamento”. Un eccesso di impegno delle politiche formative europee a favore delle
mansioni soggette a tale modalità di outsourcing aumenta per ciò stesso, e proprio nella misura in
cui consegue i propri obiettivi in termini di miglioramento delle qualifiche professionali, il numero
dei lavoratori passibili di subire le conseguenze negative dei processi di delocalizzazione, quando
tali lavoratori siano occupati in mansioni agevolmente trasferibili. Paradossalmente risultano meno
esposti alla concorrenza internazionale i lavoratori poco specializzati, che occupano posizioni per
loro natura non trasferibili (Blinder, 2005). Si è già osservato come alcune mansioni nel campo dei
servizi alla persona, delle pulizie, dei trasporti siano per definizione “locali”. Già in passato, in un
articolo scritto per il centenario del New York Times come se scrivesse nel 2096, Krugman (2006,
p.1) aveva attirato l’attenzione sui rischi che potevano derivare da una offerta “eccessiva” di
lavoratori specializzati nella cosiddetta economia della conoscenza: “… ultimately an economy
must serve consumers - and consumers don't want information, they want tangible goods …. A
world awash in information will be a world in which information per se has very little market
value”. Anche Blinder (2006) ha sottolineato come la domanda di beni materiali sia destinata ad
aumentare anche nei paesi emergenti. Il ritmo di espansione della domanda di informazione
potrebbe invece risultare più lento rispetto all’offerta. Come osserva Baldwin (2006, p. 42) “If ten
18
or twenty percent of the two and a half billion people in China and India learn how to manipulate
information online, the reward to “information society” jobs could plummet”. E’ sempre Krugman
(2006, p.5) ad affermare: “So over the course of this century many of the jobs that used to require a
college degree have been eliminated, while many of the rest can, it turns out, be done quite well by
an intelligent person whether or not she has studied world literature”. Ne segue che non sarà più il
diverso livello di istruzione a rendere “più richiesti” i lavoratori qualificati, ma saranno altre
caratteristiche a determinare la loro capacità di affrontare e risolvere problemi nuovi.
In tale contesto, che è per definizione più imprevedibile, soggetto a cambiamenti più repentini e più
orientato all’individuo (piuttosto che al settore, all’impresa o al gruppo di imprese) emerge, ad
esempio a carico delle politiche europee, l’opportunità/necessità della cautela nella scelta fra
destinazioni alternative degli investimenti in formazione. Sempre Blinder (2005, p. 23) ammonisce
che “Simply providing more education is probably a good thing on balance, especially if a more
educated labour force is a more flexible labour force, one that can cope more readily with
nonroutine tasks and occupational change. However, education is far from a panacea ... In the
future, how children are educated may prove to be more important than how much.”
Si pone di conseguenza il problema di promuovere un sistema di protezione sociale orientato più
all’individuo che al “posto” di lavoro, più alla tutela sociale che alla conservazione delle strutture
produttive esistenti. Baldwin (2006) ha sottolineato come sia molto difficile prevedere quali
mansioni saranno trasferite. La convenienza al trasferimento può infatti rivelarsi un evento
improvviso, che riguarda non più i settori ma le singole mansioni. Dovrebbe avere dunque
conseguenze di carattere individuale. Baldwin (2006, p. 44), in particolare, osserva: “Given the
unpredictability of adjustment needs, it may not be wise to establish lists of tasks that are eligible
for globalisation adjustment-assistance. Rather, the new paradigm suggests that some of the money
spent on helping sectors adjust would be more effectively spent on helping workers adjust”.
9. Le prospettive del sistema indiano
Quali prospettive si vanno delineando per il sistema economico indiano e per il processo di
integrazione tra India ed Europa/Italia, tenendo conto anche delle nuove caratteristiche che la
globalizzazione è andata assumendo, nonché dei punti di forza e di debolezza di quel sistema anche
nei confronti di un competitor come la Cina?
In talune produzioni l’India è considerata già oggi un’alternativa significativa alla Cina, anche in
ragione dei livelli retributivi più contenuti del lavoro non qualificato, sebbene in tutto o in parte
compensati, a seconda dei settori, da una più bassa produttività del lavoro 28 . Il confronto deve
tuttavia essere effettuato tenendo conto anche di fattori ulteriori, che possono condizionare
l’attrattività del paese, in positivo o in negativo. Fattori sicuramente positivi sono la disponibilità di
lavoro qualificato, utilizzabile in modo complementare a quello non qualificato, e l’esistenza di un
terziario avanzato che potrebbe fornire importanti servizi alle imprese europee (e in particolare
italiane).
I prodotti industriali e informatici indiani hanno ormai raggiunto standard qualitativi del tutto
comparabili a quelli occidentali, con un elevato contenuto di valore aggiunto, innovazione e design.
Basti leggere la descrizione che Rampini fa di Bangalore per rendersi conto della profonda
trasformazione in atto a questo riguardo (Rampini, 2006) 29 .
Per valutare l’effettivo grado di competitività del sistema indiano rispetto a quello cinese sia
nell’attrarre investimenti esteri, sia nel definire il proprio ruolo nella divisione internazionale del
28
Per una comparazione fra i due sistemi in campo tecnologico cfr. Fan (2008). Per una comparazione fra le rispettive
specializzazioni produttive, e per un esame dei rapporti economici fra i due sistemi e fra questi e il resto del mondo, cfr.
Qureshi, Wan (2008).
29
Si stima che nel 2006 le esportazioni di software indiano siano cresciute del 33% rispetto al 25% del 2005.
19
lavoro occorre fare riferimento a una “batteria” standard di “indicatori di affidabilità”30 . La Cina, ad
esempio, risulta avvantaggiata quanto a tempo (in termini di giorni) richiesto per fare rispettare un
contratto, per registrare una proprietà, per avviare un’attività e al tempo (in termini di anni)
richiesto per comporre un’insolvenza (Basu, Maertens, 2007). L’India risulta, invece, preferibile
quanto a tempo (in termini di ore) necessario per adempiere agli obblighi fiscali, il che parrebbe
segnalare una maggiore efficienza dell’apparato burocratico. Offre inoltre condizioni migliori dal
punto di vista della qualità dell’imprenditoria locale, di alcuni indicatori di qualità delle istituzioni
(diritto di espressione, efficacia della legge, controllo della corruzione 31 ), della protezione della
proprietà intellettuale. È inoltre caratterizzata da una situazione demografica più favorevole in
termini di popolazione giovane (oltre il 40% degli indiani ha meno di 30 anni) sia in valore
assoluto (450 milioni contro 400) sia, a maggior ragione, in termini relativi. Il peso relativo della
popolazione anziana previsto in Cina per il 2050 è altresì superiore a quello indiano. Questa
caratteristica della struttura demografica potrebbe rallentare la crescita della produttività
complessiva, nonché incidere sull’impiego del risparmio: una quota crescente di esso dovrebbe
infatti essere destinata al finanziamento dello stato sociale, con conseguente contrazione degli
investimenti e del tasso di accumulazione.
L’India inoltre, anche grazie a una struttura istituzionale più frammentata, appare più propensa a
fronteggiare, quantomeno in termini di propensione alle compensazioni di sistema (una sorta di
automatismo omeostatico), situazioni di tensione interna che le sono più che ad altri familiari in
ragione della sua stessa molteplicità etnica, linguistica, religiosa, che pure può essere considerata
all’origine di una maggiore lentezza relativa nell’ elaborazione e nell’attuazione dei processi di
riforma. Come spesso accade nei sistemi complessi (non soltanto in quelli socio-economici, specie
se di grandi dimensioni) il combinarsi di caratteristiche comparativamente eterogenee, quando non
opposte, dà luogo a fenomeni di “ricomposizione”, determinando risultati di sistema caratterizzati
da una propria coerenza interna e quindi idonei a consentire, per quanto utili e significative, delle
graduatorie. Tradizionalmente, infatti, proprio la frammentazione politica, castale, religiosa e
linguistica ha costituito un nodo problematico fondamentale del sistema indiano, pure se sullo
sfondo di una tradizione democratica ormai consolidata e in presenza di fattori giuridicoistituzionali (le pratiche commerciali ad esempio) in grado di accreditare l’esistenza di meccanismi
di path dependence virtuosa, dei quali invece la Cina non appare fornita.
D’altra parte sono numerosi anche i fattori negativi che rendono l’India meno competitiva. Primi fra
tutti le carenze infrastrutturali materiali e istituzionali (strade, irrigazione, istituti e cooperative di
credito) a supporto delle attività industriali (Chakravorty, Lall, 2007). In alcune regioni,
segnatamente quelle del Sud, queste carenze rappresentano un vero e proprio ostacolo alle
comunicazioni infraregionali e interregionali. Tra le carenze istituzionali occorre segnalare il cattivo
funzionamento del mercato del lavoro 32 : questo è segmentato, piuttosto rigido, caratterizzato da una
legislazione accentuatamente vincolistica, da scarsa mobilità e da un rilevante peso delle “attività
informali” (Biggeri, Mehrotra, 2008; Basu, Maertens, 2007).
E’ comunque improprio spingersi troppo oltre nel confronto fra India e Cina, ricavando dal
confronto un “eccesso di conclusioni”: si rischierebbe infatti di indulgere in un esercizio
eurocentrico dettato più da finalità “esorcistiche” (l’abituale atteggiamento troppo impaurito di un
continente troppo diviso) che non da analisi ben fondate 33 . A ridimensionare ulteriormente il
confronto/contrapposizione fra i due sistemi concorre, ad esempio, il forte incremento dei rapporti
30
Per un commento su elaborazioni IFC e Banca Mondiale in argomento cfr. Gahia, Kulkarni (2007).
I valori degli indicatori di stabilità politica, di efficienza del governo e di qualità normativa vedono invece in
vantaggio la Cina.
32
Per un’analisi del mercato del lavoro indiano con particolare riguardo al peso delle “attività informali”, ai connessi
problemi definitori e alle relative esperienze riformatrici (oltre che alla letteratura in argomento) si veda Biggeri,
Mehrotra (2008).
33
Si noti, incidentalmente, che nella classifica EIU (Economist Intelligence Unit) il rischio-paese indiano è inferiore a
quello cinese. Le valutazioni Sace classificano comunque l’India fra i paesi “A”, assicurabili senza particolari
condizioni; la categoria di rischio Ocse dell’India è 3, in un range da 1 a 7 in ordine crescente di rischio.
31
20
reciproci fra i due paesi: nel quadriennio 1999/2003 le esportazioni indiane verso la Cina sono
infatti aumentate di oltre il 50% in media all’anno, contro il 27% circa di quelle cinesi in India: il
settore dell’IT indiano è inoltre oggetto di particolare attenzione da parte cinese (Srinivasan, 2004).
Ipotesi di complementarità prospettica fra i due sistemi nelle produzioni offshore sono d’altronde
state già avanzate, ipotizzando una specializzazione della Cina nel low cost offshore e una
complementare dell’India nel low cost a più elevata intensità tecnologica (Giridharadas, 2006).
Quanto all’Italia, è stata sottolineata una significativa complementarità fra la struttura economica
dell’India (dove permangono vincoli normativi in materia di investimenti diretti esteri,
particolarmente nei settori dei servizi finanziari e assicurativi e nelle microimprese) e quella
italiana 34 , con analogie specifiche quanto al ruolo della piccola e media impresa a struttura
familiare. Occorre tuttavia premettere che la partnership italo-indiana, dal punto di vista sia
commerciale sia degli investimenti diretti, permane relativamente esigua, anche se le presenze
industriali italiane sono qualitativamente significative (Gaiha, Kulkarni, 2007). Se poi si applicano
anche ai confronti italo-indiani alcuni degli indici di affidabilità già richiamati, si riscontra un
vantaggio italiano per quanto riguarda i tempi di registrazione di una proprietà (27 giorni contro 67
nel 2005), quelli richiesti per avviare un’attività (13 giorni contro 71) e quelli necessari per
comporre un’insolvenza (1,2 anni contro 10), e per contro uno indiano quanto ai tempi di
adempimento degli obblighi fiscali (264 ore contro 360 in Italia) e a quelli richiesti per
l’applicazione dei contratti (425 giorni contro 1.390).
L’UE è il primo partner dell’India 35 . All’interno di questo aggregato, come si è anticipato, la quota
italiana non è particolarmente significativa, sebbene il mercato indiano costituisca, in prospettiva,
uno sbocco promettente, soprattutto nei settori che impiegano tecnologie avanzate e in quelli che
producono specifici beni di consumo (beni di uso personale, prodotti per l’abitazione) idonei a
intercettare l’accresciuta capacità di spesa di una fascia crescente della popolazione indiana (la
middle class cui si è fatto cenno in precedenza).
Le importazioni indiane dall’Italia sono aumentate, fra il 2005/6 e il 2006/7, del 44,1%, ma il loro
peso relativo sul totale delle importazioni indiane è passato dall’1,2% all’1,4% soltanto. Il tasso di
sviluppo delle esportazioni indiane verso l’Italia è stato nello stesso anno del 42,2%: la quota
relativa delle esportazioni indiane verso l’Italia sul totale dell’export indiano è salita dal 2,4% al
2,8%. In ambito UE, l’Italia rappresenta il quinto partner dopo Germania, Francia, Regno Unito e
Belgio, anche se il tasso di incremento più recente delle importazioni indiane dall’Italia (appunto il
44,1%) è stato di gran lunga superiore a quello registrato da ciascuno degli altri paesi UE. L’Italia
rappresenta quindi a tutt’oggi, per l’India, un partner commerciale comparativamente non primario
(si pensi che le importazioni indiane dalla Svizzera pesavano, nel 2006/7, per il 4,9% delle
importazioni indiane complessive, contro l’1,4% di quelle dall’Italia). L’indice di complementarità
commerciale fra India e Italia (Qureshi, Wan, 2008), che segnala il potenziale di espansione degli
scambi interpaese, risulta tuttavia (nel periodo 1990-2005) abbastanza elevato anche se inferiore a
quello relativo alle relazioni commerciali italo-cinesi (0,32 contro 0,43) 36 Nel settore strategico dei
trasferimenti di tecnologia, il primo partner dell’India sono gli USA, seguiti da Germania e
Giappone. L’Italia si colloca al quinto posto, con una quota pari al 6% del totale. Gli investimenti
diretti indiani in Italia, a loro volta, sono stati, fino a poco tempo fa, molto limitati 37 .
Per quanto riguarda il sistema italiano e i suoi processi di internazionalizzazione, occorre notare
come la perdita di quote di mercato registrata fino al 2002 sia riconducibile al permanere di una
34
A tale proposito è stata utilizzata, in sede ufficiale, l’espressione “equazione naturale”. Cfr. Gahia, Kulkarni (2007,
p.13).
35
L’UE aveva ricevuto nel 2006 il 20,4% delle esportazioni indiane, alimentando il 14,9% delle importazioni (ICE
NEW DELHI, novembre 2007, p. 6).
36
Cfr. Qureshi, Wan, (2008), p. 21 (Tabella A3 dell’Appendice). I valori del coefficiente di specializzazione e del
coefficiente di conformità (che si collocano fra 0 e 1, dove 0 segnala strutture di esportazione del tutto dissimili e 1
strutture di esportazione del tutto coincidenti), sono rispettivamente (per i rapporti India-Italia) 0,40 e 0,33 nello stesso
periodo (contro 0,47 e 0,55 per i rapporti Cina-Italia).
37
L’investimento Videocon ad Anagni ha tuttavia segnato, a questo proposito, un’inversione di tendenza.
21
specializzazione “scorretta”, in quanto concentrata nei settori tradizionali, più esposti alla
concorrenza dei paesi a relativamente basso costo del lavoro (Barba Navaretti e altri, 2007). Tale
considerazione appare tuttavia più in linea con le caratteristiche della prima globalizzazione,
contrassegnata dalla prevalenza della logica del settore produttivo, che non con quella della
seconda, contrassegnata invece dalla crescente rilevanza del fenomeno dello skill upgrading e dalla
tendenza alla frammentazione geografica non solo della fabbrica ma anche dell’ufficio.
Proprio a partire dal 2002 il panorama della situazione italiana segnala un recupero di competitività
anche da parte di settori che, in precedenza, erano andati perdendo quote di mercato. E’
significativo notare come tali settori siano tra loro eterogenei, includendo sia attività “tradizionali”,
il cui peso nel commercio mondiale è in declino (tessile), sia altre, in espansione, caratterizzate da
elevata intensità di capitale umano e di tecnologia. A determinare tale miglioramento è risultato
decisivo il ruolo dei “grandi esportatori”, grazie alle performance consentite loro dalle molteplici
determinanti (dimensionali, finanziarie, di struttura proprietaria, capacità di sostenere elevati costi
fissi di entrata e così via) del loro vantaggio competitivo nei processi di internazionalizzazione
(Mayer, Ottaviano, 2007). In altre parole, il fattore di competitività che oggi sembra “contare” per
le imprese non è tanto il settore di appartenenza e/o il livello tecnologico quanto piuttosto la
dimensione in relazione alla capacità di partecipare al processo di internazionalizzazione.
Non vi è dubbio che, nel mercato globale delle mansioni dotate delle caratteristiche che rispondono
allo “spacchettamento” (call center, disegno tecnico, trattamento dati), l’India si presenta come un
fornitore dalle rilevanti potenzialità. Come sottolinea Blinder (2005, p. 13) “…the fraction of
service jobs in the United States and other rich countries that can potentially be moved offshore is
thus certain to rise inexorably as the technology improves and as countries like India and China
continue to modernize, prosper, and educate their workforces”. L’India, ad esempio, gode di un
vantaggio comparato nella produzione di servizi rispetto ai manufatti. I costi in questo settore sono
bassi se comparati a quelli prevalenti negli Stati Uniti (Feenstra, Taylor, 2008). Nello stesso tempo
“the costs of ousourcing relatively unskilled manufacturing activities to India are much greater
than the costs of outsourcing skilled services activities” (Feenstra, Taylor, 2008, p. 260). In India,
infatti, i costi di trasporto sono piuttosto elevati a causa dell’ inadeguatezza delle infrastrutture.
D’altra parte l’India gode di un’ottima rete di telecomunicazioni: questa, unitamente alla
disponibilità di lavoro qualificato e istruito, spiega il tipo di specializzazione e di outsourcing verso
l’India (Blinder, 2005). La percentuale di lavoratori a elevato livello di istruzione (e che parlano
correntemente l’inglese) non è ancora molto elevata, ma è destinata ad aumentare (Bhagwati,
Panagariya, Srinivasan, 2004). Come sottolinea Blinder (2005, p. 27) “Americans, and residents of
other English-speaking countries, probably need to start thinking less about the challenge from
China, which is largely about manufactured goods, and more about the challenge from India, which
is in services. In today’s world, speaking English is already a notable source of comparative
advantage when it comes to providing services electronically. And this advantage seems destined to
grow in importance as impersonal services account for relatively more international trade and
manufactured goods account for relatively less”. Le attività coinvolte sono numerose: non solo call
center, ma anche “accounting and finance, writing software, R&D…” (Feenstra, Taylor, 2008, p.
265).
La sostenibilità di questo modello di specializzazione, fino a oggi vincente, potrebbe tuttavia essere
messa in discussione proprio nel comparto del software a opera di altri paesi dell’Asia del Sud come
il Pakistan (Banerjee, 2006). Si prevede, tuttavia, che le migliori aziende indiane del settore
informatico siano pronte a decentrare parte delle proprie operazioni in altri paesi dove il costo del
lavoro è inferiore. In tal caso sarebbe l’India stessa a dare vita a una nuova forma di outsourcing.
Già nel 2003 la quota di servizi che l’India aveva trasferito all’estero, e successivamente importato,
era pari al 2,5 % del PIL, significativamente più elevata dello 0,4% degli Stati Uniti (Amiti, Wei,
2004, p. 37) 38 . Nel 2003 l’India era il quarto paese (dopo Regno Unito, Stati Uniti e Hong Kong) a
38
I dati sono tratti dall’ International Monetary Fund (2003).
22
presentare un surplus netto nel commercio di servizi, per circa 10 miliardi di dollari (Amiti, Wei,
2004).
10. Considerazioni conclusive
Sulla base delle considerazioni formulate a proposito tanto della “nuova globalizzazione”, con
particolare riferimento al fenomeno dell’outsourcing, quanto delle più recenti dinamiche di
internazionalizzazione delle imprese italiane, si può sostenere che le politiche di contesto siano
preferibili, al fine di sostenere le imprese italiane, agli interventi diretti settoriali e/o aziendali:
“…general worker retraining programmes would be one example of new-paradigm adjustment
programme” (Baldwin, 2006, p.44).
Allo stesso modo appare preferibile, nel quadro delle politiche di sostegno dei costi di
aggiustamento, potenziare strutture di welfare orientate al sostegno alla persona, sebbene queste
possano rivelarsi onerose per i profili di political economy, cioè per le maggiori difficoltà di
consenso che tendono a suscitare.
Nella prospettiva dei rapporti italo-indiani 39 , è pertanto possibile formulare alcune ipotesi di
scenario. In particolare è ragionevole domandarsi quanto duraturo possa essere il (recente)
miglioramento, per altro gestito più dal sistema delle imprese (o da singole imprese) che non dalle
politiche pubbliche, della nostra struttura produttiva quanto a intensità di internazionalizzazione e
quindi a posizione competitiva. E anche in quali termini si possa configurare (prescindendo dai
rapporti di concorrenza/collaborazione fra grandi gruppi) l’“incontro” fra l’impresa
internazionalizzata italiana e quella indiana, tenendo conto sia dei progressi compiuti dalla seconda
nel campo dello skill upgrading, sia della speciale attitudine della piccola e media impresa indiana a
combinare convenientemente abilità manuale e innovazione tecnologica 40 . A questo proposito
sarebbe augurabile che l’Italia valutasse con attenzione i rischi impliciti nell’ipotesi che gli sviluppi
“domestici” (verso una specializzazione più spinta nei settori produttivi a più elevata intensità di
tecnologia avanzata e di capitale umano) ai quali si è accennato si trovino a “intercettare”
l’economia indiana proprio su quel sentiero del secondo unbundling, cioè della nuova
globalizzazione, nella quale l’India sembra esprimere, e consolidare, un vantaggio di sistema. Di
conseguenza le politiche rilevanti (formative e non, nazionali ed europee) dovrebbero essere
finalizzate a intensificare i processi di internazionalizzazione d’impresa (indipendentemente dalla
collocazione settoriale e dalle caratteristiche dimensionali di quest’ ultima) piuttosto che a “forzare”
specializzazioni nelle quali potremmo trovarci a subire (proprio nei confronti di paesi come
l’India) le conseguenze di un vero e proprio “svantaggio globale”. L’ indeterminatezza del contesto
è infine accentuata dalla tendenza delle “due globalizzazioni” a operare in sovrapposizione, e non
solo in successione: ci sono comunque tutti i motivi per prevedere fondatamente che, di questi
sviluppi, l’India si appresti a diventare protagonista.
39
Un dettagliato dossier sull’argomento è contenuto nello studio predisposto dal Research Team dall’IPALMO (2007).
Significativo, a questo proposito, è proprio l’esempio dei cluster indiani in quanto concentrazioni geograficosettoriali di imprese medio-piccole (circa 400 di piccole imprese moderne e 2000 di attività rurali e artigiane). Il
complesso dei cluster indiani contribuisce per il 60% all’esportazione di manufatti e per il 40% alla produzione
industriale del paese. Alcuni di questi rappresentano il 90% della produzione complessiva di particolari settori di
trasformazione, come nel caso della maglieria di Ludhiana, della gioielleria di Surat e di Mumbai e della pelletteria di
Chennai, Agra e Calcutta. Cfr. su questo punto l’intervento di Vishwanath (2007).
40
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“India
at
a
glance”,
World
Bank,
2009b,
http://devdata.worldbank.org/AAG/ind_aag.pdf
28
ELENCO DEI QUADERNI DEL DIPARTIMENTO DI ECONOMIA PUBBLICA E
TERRITORIALE PUBBLICATI
n. 1/2010
n. 2/2010
Silvio Beretta, Variabili finanziarie ed economia globale in tempo di crisi
Silvio Beretta, Renata Targetti Lenti, L'India nel processo di integrazione
internazionale. Dal primo al secondo unbundling e la posizione dell'Italia
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n. 1/2009
Giorgio Panella, Andrea Zatti, Fiorenza Carraro, Market Based Instruments for
Energy Sustainability
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n. 1/2008
n. 2/2008
n. 3/2008
n. 4/2008
n. 5/2008
Italo Magnani, Il pubblico e il privato nella economia della città
Italo Magnani, Note a margine di una recente opera sull'indirizzo sociologico della
scienza delle finanze italiana
Italo Magnani, La riforma sociale nella formazione di Nitti economista
Marisa Bottiroli Civardi, Renata Targetti Lenti and Rosaria Vega Pansini, Multiplier
Decomposition, Poverty and Inequality in Income Distribution in a SAM
Framework: The Vietnamese Case
Luca Mantovan, A Study on Rural Subsistence in the Ethiopian Northern Highlands
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n. 1/2006
Italo Magnani, Città. L’intreccio pubblico-privato nella formazione dell’ordine
sociale spontaneo
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n. 1/2005
n. 2/2005
n. 3/2005
n. 4/2005
Paola Salardi, How much of Brazilian Inequality can be explained?
Italo Magnani, Economisti Campani: a proposito della pubblicazione di due inediti
di Carlo Antonio Broggia
Italo Magnani, Ricordo del Professor Giannino Parravicini
Italo Magnani, A proposito degli “Studi in onore di Mario Talamona”
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n. 1/2004
n. 2/2004
n. 3/2004
n. 4/2004
n. 5/2004
Italo Magnani, Il “Paretaio”
Italo Magnani, L’economia di Luigi Einaudi: ovvero la virtù del buon senso
Marisa Bottiroli Civardi e Enrica Chiappero Martinetti, Povertà between and within
groups: a reformulation of the FGT class of index
Marco Missaglia, Demand policies for long run growth: being Keynesian both in the
short and in the long run?
Andrea Zatti, La tariffazione dei parcheggi come strumento di gestione della
mobilità urbana: alcuni aspetti critici
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n. 1/2003
Giorgio Panella, La gestione delle aree protette: il finanziamento dei parchi
regionali
n. 2/2003
n. 3/2003
Marco Stella, A Ban on Child Labour: the Basu and Van’s Model Applied to the
Indian “Carpet-Belt” Industry
Marco Missaglia e Paul de Boer, Employment programs in Palesatine: food-for-work
or cash-for-work?
Aprile 2010
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