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IL CONFLITTO
FEDERAZIONE CONVEGNI INTERREGIONALI 2012 IL CONFLITTO Vi esorto ad essere apostoli di pace e riconciliazione Don Giacomo Luzietti CONVEGNO INTERREGIONALE DI PALERMO 20 ottobre 2012 DAL CONFLITTO ALLA MEDIAZIONE Relazione Del Prof. Giuseppe MANNINO LUMSA Dipartimento di Giurisprudenza La parola conflitto il cui significato deriva dal verbo latino cum-fligere ha un significato duplice e per certi versi ingannevole. Oggi noi diamo al termine i significati di “urtare, contrastare, combattere”, richiamando oscuri presagi di guerra, immagini di vincitori e di vinti, idee di potere coercitivo, competizione negativa. Tuttavia, il termine conflitto originariamente conteneva un secondo significato, peraltro presumibilmente il primo in senso etimologico, che rimandava ad un idea di incontro acceso che aveva la possibilità di risolversi positivamente. Il termine utilizzato in tal senso da Cicerone, rimanda alla possibilità di “fare incontrare confrontare riunire avvicinare” (Cicerone), solo tardivamente il termine acquisterà anche le valenze di combattere, contendere ed infine urtare ostilmente. Nella lingua italiana sembrerebbe reificato soltanto questo ultimo significato. Gallino definisce il conflitto come un tipo di interazione più o meno cosciente tra due o più soggetti individuali o collettivi caratterizzata da una divergenza di scopi tale, in presenza di risorse troppo scarse perché i soggetti possano conseguire detti scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o deviare verso altri scopi o impedirne l’azione altrui, anche se ciò comporta sia infliggere consapevolmente un danno, sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello scopo che si persegue1. 1 L. Gallino, Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 1993, p.156. Le organizzazioni sono luoghi privilegiati di conflitti di diverso tipo, vista la spiccata qualità relazionale tra individui. Afferma Spaltro: “ogni mutamento e ogni innovazione passano attraverso il conflitto, tra status quo e speranza futura. Solo se si pensa che il futuro sia migliore dello status quo è possibile un cambiamento, che perciò passa attraverso il conflitto tra oggi e domani”2. Il termine stesso organizzazione è inscindibile dal termine conflitto. “Come non esiste un uomo senza cuore così non esiste un’organizzazione senza conflitto.” (Spaltro) Il conflitto è l’equivalente organizzativo dell’emotività individuale. I conflitti sono le emozioni del livello collettivo e come tali sono l’origine della vita psichica delle organizzazioni e dei suoi sintomi o disturbi. Una mancanza di conflitto rende l’organizzazione rigida e statica, l’eccesso di conflitto la rende invasa e senza programmabilità. Sia la mancanza che l’eccesso di conflitto non consentono sviluppo e differenziazione nelle organizzazioni e dunque le bloccano e schiacciano nel presente oscurandone il passato ed impedendone il futuro. La natura del conflitto è soggettiva-percettiva, ermeneutico-fenomenologica: giocano un ruolo essenziale l’interpretazione e la rappresentazione che le parti danno della situazione. Il conflitto, quindi, viene percepito in modo diverso dalle diverse personalità coinvolte, dell’orientamento emotivo relazionale dalla controparte, dal contesto, dalla struttura degli interessi in gioco. Il conflitto è frutto di percezioni diverse non per oggetto ma per soggetto esperiente, nasce da preconsiderazioni sature di menti individuali. La possibilità di gestire il conflitto riguarda il lavoro di insaturazione dello spazio mentale organizzativo ed individuale. Una mente satura è bloccata in una presentificazione che non vede il futuro e nega il passato, una mente insatura vive il presente come il dinamico frutto dell’impegno soggettivo di reti di significati che nascono nella storia e si proiettano verso l’infinito. Conflitto e crisi sono la conseguenza di decisioni non prese, che determinano contraddizione. Quando si sceglie, si prende una decisione, se non si riesce a scegliere ci si trova di fronte ad una contraddizione. Se poi la contraddizione, cioè la decisione non presa, diventa dolorosa, la si rimuove e la si trasforma in conflitto. In 2 Cfr. Spaltro, Enzo e de Vito Piscicelli, Paola, Psicologia per le organizzazioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1990, pp.111-134. altre parole, quando il dissidio dentro di noi ci dà fastidio, lo trasformiamo e lo proiettiamo all’esterno come un dissidio tra noi e gli altri. Ogni conflitto deriva da una scissione interna, infatti, noi lottiamo contro gli altri quando non riusciamo a lottare dentro noi stessi. Gandhi diceva che " i veri conflitti sono quelli che si svolgono dentro di noi ed è lì che noi dovremmo adeguatamente trattarli". Quindi il conflitto appare essere una caratteristica delle situazioni collettive, ma in realtà è la proiezione sul collettivo di "conflitti interiori". Ora: vi sarà capitato un adolescente in conflitto… terribile, ingestibile, stancante, straziante, ma, incredibilmente sano! Al contrario, un adolescente non conflittuale si configura esistenzialmente in contrasto al suo sviluppo: egli si sviluppa nel fisico ma il suo pensiero rimane bloccato sulla saturazione familiare o scolastica impedendone la differenziazione. Il problema è che il primo, l’adolescente conflittuale, reclama con tutte le sue forze le nostre attenzioni, che, forse, non sempre siamo disponibili a dare. Il dito indagatore probabilmente va puntato contro se stessi piuttosto che sull’altro se vogliamo giungere ad una gestione della crisi. Ury e Smoke nel loro articolo Anatomy of a crisis hanno evidenziato quattro fattori che rivestono particolare importanza in una crisi e, dunque più in generale, nei fenomeni conflittuali: 1. La posta in gioco è molto alta: una crisi si distingue dal normale flusso del processo decisionale per l’aspettativa di grosse perdite e dunque per l’alta posta in gioco. Quando gli operatori sono sotto stress, possono commettere errori nel prevedere correttamente l’escalation in un conflitto poiché, ad esempio, semplificano le difficoltà di giudicare le potenziali conseguenze delle proprie azioni; 2. Disponibilità temporale ridotta: E’ il caso in cui si ha a disposizione poco tempo per prendere decisioni cruciali con l’urgenza di agire. La percezione di un evento come crisi o meno dipende dalla quantità di tempo a disposizione dei decisori; 3. Forte incertezza: i decision maker spesso riferiscono delle sensazioni nel dover affrontare una situazione di crisi e tra queste la più citata risulta essere la grande incertezza derivata dalla mancanza di informazioni importanti; 4. Scarsa disponibilità di opzioni: una crisi può non sembrare grave finché chi deve decidere sul suo esito sente di avere ancora delle opzioni disponibili. I decisori tendono a ridurre la propria flessibilità, escludendo alcune possibili alternative risolutive3. Ognuno di questi fattori è inevitabilmente più soggettivo che oggettivo, poiché le persone perseguono gli obiettivi che sperano di potere raggiungere senza incorrere in situazioni conflittuali. Gli autori sopra citati sostengono che i quattro fattori alla base del conflitto possono anche essere delle “leve strategiche”, azionabili intenzionalmente. Nella misura in cui si debba aggravare il conflitto si può alzare la posta in gioco, accrescere la sensazione di incertezza e ridurre la percezione delle opzioni a disposizione. Al contrario, se lo scopo è quello di gestire il conflitto e produrre cambiamento, è necessario orientare le parti a: controllare le poste in gioco percepite, assicurare adeguate risorse temporali, assicurare un flusso di informazioni puntuali e credibili4. Un conflitto gestito aumenta le motivazioni che portano al cambiamento, all’intervento e all’attività; aumenta la mobilitazione dell’energia psichica e la capacità innovativa che porta l’individuo ad essere più efficace nel raggiungimento degli obiettivi lavorativi e relazionali; aumenta la coscienza del proprio ruolo e del proprio potere nella situazione relazionale e offre continui feed-back, cioè reazioni della controparte; aumenta l’identità da parte delle due o più componenti conflittuali: definisce meglio gli amici e i nemici e la loro reciproca interazione; un conflitto, di qualunque genere sia, determina un’attenzione a tutti i tipi di conflitti possibili: così un conflitto interpersonale costringe ad analizzare e trattare anche i conflitti intrapersonali e viceversa, i conflitti interni ad affrontare realisticamente attivamente i conflitti esterni. Dunque se il concetto del conflitto uscisse dall’ossessione della riduzione all’unità, della semplificazione e del sentimento di colpa ed entrasse nella dinamica positiva del conflitto come costruttore e non distruttore di energia potrà essere considerato forza produttiva e risorsa personale, relazionale e organizzativa. Tra il dire ed il fare ci sta di mezzo il mare, direte voi, ed io vi rispondo che tra l’impotenza e l’onnipotenza è possibile avere la competenza! Fuor di proverbio, non voglio ignorare che ogni nuova visione, ogni conoscenza genera paura, paura del cambiamento. E qui noi, siciliani siamo particolarmente bravi a tirarci indietro… meggghiu diri chi sacciu chi diri chi sapia, cu cancia a vecchia pa nova sapi chiddo chi lassa e un sapi chiddu ca trova, megghiu u tintu canosciutu ca u novu a canosciri…: ogni novità genera conoscenza e la conoscenza spinge il cambiamento che fa 3 4 Cfr. G. Gabassi, Psicologia del lavoro nelle organizzazioni, Ed. Franco Angeli, Milano, 2006, pp.181-184. Ibidem, p. 187. paura… dunque… meglio non conoscere (pensiero saturo), meglio non cambiare (morte), meglio non avere paura (assenza di vita)… Oppure? Oppure è possibile gestire la complessità, valorizzare la diversità, accettare il dubbio e l’incertezza, l’ansia dell’ignoto, la creatività ricombinante che crea un nuovo modo di percepire le vecchie cose! È l’arte della mediazione intesa come gestione del conflitto. Ricapitolando: Se la mediazione è creare un nuovo modo di percepire le vecchie cose; Se ogni nuova visione produce paura. Paura del cambiamento; Se Ogni cambiamento è un conflitto; Se Il conflitto è vita; Allora La mediazione è una nuova visione che produce conflitto e vita! L’utilizzo dei conflitti in senso costruttivo e non distruttivo è un importante fattore per l’organizzazione e dipende dalla capacità di gestire i conflitti negoziando e mediando5. Gestire il conflitto è questione di negoziazione, cioè uscire dalla logica dualistica del bianco o del nero ed imparare a procedere per sfumature, imparare ad usare il grigio, che a sua volta contiene diverse sfumature. Peraltro, oggi, una serie di esperienze progressivamente accumulate ci mostrano come il successo non coincida con la vittoria e che vincere non significa eliminare l'avversario, ma che il vincere sia lo star meglio noi senza escludere l’altro. Il soggetto è il titolare di un progetto di vita e di bellessere e come tale va incentivato ad esprimerlo e realizzarlo6. Ogni individuo ha desiderio di star bene, anzi meglio. Il bellessere è lo scopo della vita di ognuno e l'idea che il bellessere nostro sia correlato col bellessere altrui sta alla base di ogni trattamento dei conflitti. Per molto tempo ha prevalso l’idea secondo cui il benessere personale può diventare possibile solo mediante il malessere dell’altro. Detto altrimenti: homo 5 6 Cfr. E. Spaltro, La forza di fare le cose: fondamenti di psicologia del lavoro, Ed. Pendragon, Bologna 2003, p.207. Ibidem, p.48 homini lupus. Ciò accade nelle società in cui vige uno stato di povertà di risorse. Ma le risorse scarse, fanno riferimento all’oggettività, ai bisogni ineludibili, non alla soggettività. Le risorse soggettive fanno riferimento ai desideri che per loro stessa definizioni sono inifiniti. L’abbondanza delle risorse permette agli uomini di considerare il proprio e l’altrui bellessere, diffondendo sempre di più la dialettica della cooperazione e non della competizione. E poichè il benessere non esiste in origine e va quindi inventato anche a scapito di sé e dell’altro da sé, il bellessere è invece possibile insieme, se e l’altro, la cooperazione rappresenta la modalità più efficiente di questa invenzione. Insieme si sta meglio che da soli; (Χαι αντροποσ ανερ πολιτιχον εστιν) recitava Aristotele) tutto quello che ci porta a star in compagnia, il bellessere, serve per la gestione dei conflitti. La vittoria che porta all'eliminazione dei conflitti non facilita la compagnia e quindi non permette di fare del conflitto una forza produttiva. Vincere ci fa stare male: prima per vincere e poi per la perdita del nemico. Stare in conflitto significa stare in compagnia, come tutta l'esperienza sportiva dimostra. Non abbiamo solo bisogno di etica, ma nutriamo sempre più desiderio di estetica. Il buono non è sufficiente per gestire i conflitti perché dietro al buono sta in agguato l'intransigenza, la rigidità ed il fondamentalismo. Il bello aiuta il buono a gestire i conflitti perché genera futuro e speranza che prendono il sopravvento sul passato e sulla minaccia. Il lavoro, l’organizzazione, l’occupazione servono a produrre ricchezza e benessere. Oggi abbiamo bisogno non solo di buon lavoro ma anche di bel lavoro. Spesso, cercando la bellezza, si incontrano nuove idee. Il conflitto può dunque diventare un'occasione di apprendimento, che ci riporta all'arte della maieutica socratica: un approccio metodologico e di potenzialità nella formazione e nella conoscenza. Se infatti il conflitto attiva un bisogno di risposte, ecco che la maieutica basa la sua efficacia sulla capacità delle persone di riconoscersi attraverso domande che permettano di esplicitare il conflitto nella sua dimensione evolutiva e creativa. La mediazione a tal proposito si presenta tra due termini, tra due soggetti, e possiamo considerarla come un traduttore, un operatore del cambiamento. Barzelletta del Francescano e del gesuita: Il francescano: padre posso fumare mentre prego? Il gesuita: padre posso pregare mentre fumo? Ciò che conta non è la risposta, è la domanda! Non è la risorsa oggettiva, ma il desiderio soggettivo! Non è la meta, la vittoria, ma è il viaggio, la condivisione! Se il tempo del conflitto è il presente, il tempo della mediazione è il futuro. La gestione del conflitto è una terapia al cuore dell’organizzazione che genera il suo futuro. “Mediare” significa interporre un terzo tra due elementi, negoziare e, quindi, creare un sistema ternario laddove, prima, esisteva un sistema binario. Il negoziato, infatti, trasforma le condizioni di un conflitto e diventa così strumento di cambiamento, di potere a somma variabile e di bellessere7. Un buon mediatore agisce come un maieuta, conducendo le parti in conflitto ad andare alle origini dello stesso con una sorta di autoanalisi che consente loro di riconoscere gli aspetti emotivi e relazionali in gioco nel rapporto con l'altro e nel conflitto che si è creato fino a trovare da sole il modo più efficace per risolverlo. Un buon mediatore sa leggere il conflitto, permettendo così all'invisibile di emergere chiarendo le necessità, i bisogni, i desideri e soprattutto i veri interessi delle parti, è capace di fare continue domande (maieutiche), non offrendo risposte, in un processo di riflessione reciproco fra le parti, che condurrà il sistema relazionale a trovare da sé la migliore soluzione al problema. La mediazione, intesa come medi-azione, l'azione di "colui che sta nel mezzo", di colui che cerca di costruire uno spazio comune di dialogo per evitare che il conflitto si trasformi in dissidio insanabile, rappresenta questa possibilità. Essa non è transazione, né compromesso, tanto meno è giudizio: non si tratta di decidere, di 'tagliare' con la spada della giustizia per separare una ragione da un torto, una verità da una falsità, al fine di attribuire responsabilità. La mediazione non è un spada che taglia ma un ago che cuce, rivolto al futuro per generare opportunità. La sua premessa è il valore della persona, l’okness, la preconsiderazione del valore dell’altro e mio come esseri in cammino e non come lupi in caccia, il ritenere l’altro un motivo di crescita, apprendimento, e vita non un ostacolo o un limite, la vision e della vita, dell’universo come sistema omeostatico. 7 Cfr. F. Fontana , Il sistema organizzativo aziendale, Ed. Franco Angeli, Milano, 2005, pp.97-100 Preconsiderazione aprioristica, anche contraria agli eventi: esempio dello zio in barca a vela e della canzone dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fiori. L’altro ed io siamo vita, insieme. Sempre. La sua logica non è quella escludente dell'aut-aut, del mors tua, vita mea, del tertium non datur, ma quella inclusiva dell'et-et, del vita tua, vita mea, del noi! La sua espressione è quella della complessità che contiene in sé ogni diversità e non riduce nulla a manicheismi o semplificazioni. Il suo fine non è creare il consenso all’interno di un’organizzazione, ma lasciare che emergano i tanti modi di pensare esistenti, tanti modi di intendere i ruoli personali e i valori dell’organizzazione, chiamati “valori condivisi”, nei quali ci si riconosce come gruppo e, contestualmente, non si rinuncia ad accoglierli e intenderli in modo diverso. “Apprendere” a gestire la complessità e il dissenso: a questo “valore condiviso” mira la ricerca della mediazione. A conferma De Toni e Fornasier acutamente osservano: “Il vero apprendimento va al cuore di ciò che significa essere umani. Mediante l’apprendimento ci mettiamo in condizione di fare qualcosa che non siamo mai stati in grado di fare. Mediante l’apprendimento ripercepiamo il mondo e il nostro rapporto con il mondo. Mediante l’apprendimento, estendiamo la nostra capacità di creare, di essere parte del processo generativo della vita”8. Il suo metodo è quello dell’accoglienza dinamica, creativa, ricombinante ed equilibrante, di tutti gli elementi sinergici del sistema e non l’esclusione o la preferenza riduttiva. Il suo risultato è la bellezza unita al bene! Bè, vorrei dirvi ancora molte cose. Vorrei parlarvi della cultura della mediazione improntata su valori umani di amore, stupore, umiltà e compassione… ma sono certo di avervi stancato, ma spero non annoiato, e dunque vi lascio con un “a risentirci” su questi inesauribili temi e desidero concludere con una storiella che forse vi resterà più delle mie parole… I sette cavalieri dei colori Tanto tempo fa, nel regno dei colori, vivevano sette cavalieri: il rosso, l’arancione, il giallo, il verde, l’azzurro, l’indaco ed il violetto. Tutti erano assai coraggiosi e valorosi ed erano molto orgogliosi del proprio colore. Ciascuno di loro passava ore dinanzi 8 A. F. De Toni, A. Fornasier, Guida knowledge management, Ed. Il sole 24 ore, Milano, 2012, p.142 allo specchio conyemplando i riflessi del proprio colore, poiché credeva di essere il migliore e vedeva degli altri soltanto i difetti. Un giorno il re bianco e nero, che era il Signore dei sette cavalieri, li chiamò e disse loro: “Stimati e valorosi cavalieri, sono stanco delle vostre liti e delle vostre vanità. Io il re bianco e nero vi ordino di andare d’ora in poi, sempre insieme senza discutere per le vostre differenze. È vero che siamo diversi, che noia se fossimo tutti uguALI!”. E continuò “presto mia figlia, la principessa biancarosa, si sposerà, e vorrei adornare il portone del mio palazzo con l’addobbo più bello che si sia mai visto. Affido a voi questo incarico, cavalieri dei colori!” Ogni cavaliere cominciò ad esporre la propria idea e cominciò la solita discussione di sempre. Allora il re bianco e nero ordinò ai suoi servi di prendere i sette cavalieri e di portarli lontano dove egli non dovesse mai più sentirli. Allora i suoi servi presero i cavalieri e legatili tutti insieme li spedirono nei cieli al di là delle nubi: oh meraviglia, oltre le nubi essi formarono l’arco più bello e splendente che si fosse mai visto: l’arcobaleno! Tutti cavalieri, ciascuno con il suo colore ma insieme agli altri! Grazie! Giuseppe Mannino Approfondimenti tematici 1. organizzazione L’organizzazione può essere definita come un organismo biologico i cui geni sono costituiti da routine nelle quali è accumulato il sapere necessario per operare. Le routine che riescono a prevalere sono quelle che definiscono lo sviluppo dell’organizzazione, la quale è sostanzialmente ancorata alla sua storia ed alla conoscenza che è in essa incorporata. Le routine in questione diventano le competenze su cui l’organizzazione basa il proprio funzionamento e con cui consegue i suoi risultati. Il sistema-organizzazione possiede duplice caratteristica: esso, infatti, da un lato opera sulla base della propria conoscenza, dall’altro è in grado di alimentare continuamente tale conoscenza9. Essa nasce non da un processo collettivo di formazione delle scelte, ma dalla interazione continua, dallo scambio di segnali, dalle elaborazioni individuali, dalle aspettative dei singoli, dalle norme condivise, 9 Cfr. G. von Krogh, J. Roos, K. Slocum "An Essay on Epistemologia Corporate", Strategic Management Journal , 15, 1994, pp 53-73 dalle procedure realizzate, dai meccanismi organizzativi. Accanto agli elementi intrinseci, appena menzionati, coesistono delle forze di condizionamento, vale a dire gli attori interni ed esterni, il cui potenziale incide sulla evoluzione stessa del sistema organizzativo e consente di perseguire i loro obiettivi solo mediante l’osservanza di un equilibrio nel sistema. 2. Conoscenza come intervento: Dal momento che condividere la conoscenza non è una prassi spontanea e naturale, il raggiungimento di tali obiettivi presuppone non poche difficoltà. La conoscenza, infatti, come abbiamo detto, è una forma di potere, poiché oggi chi possiede un sapere specifico sull’ambiente circostante ha maggiori possibilità di intervenire sugli eventi e controllarli. La difficoltà riguarda non solo la condivisione del sapere tra i membri dell’organizzazione, ma sopratutto la resistenza che essi oppongono alla “trasparenza della conoscenza”. Per il momento soffermiamoci sulle opportunità di creare nuova conoscenza attraverso: 1. “risorse dedicate” 2. “caos creativo” 3. “combinazione di conoscenze”. Questi sono i casi più generali, adattabili a qualunque tipo di organizzazione. Le risorse dedicate offrono un metodo abituale per la generazione di conoscenza, attraverso la creazione di unità o gruppi di lavoro impegnati specificatamente a questo scopo. Le divisioni di ricerca e sviluppo costituiscono l’esempio standard. L’obiettivo loro assegnato, infatti, è quello di generare nuova conoscenza, nuovi modi di fare certe cose. Alcune biblioteche aziendali sono varianti delle divisioni di ricerca e sviluppo, dalle quali ci si attende che forniscano nuova conoscenza attraverso l’organizzazione. La ragione per cui le attività di ricerca e sviluppo sono separate rispetto alle altre è quella di garantire ai ricercatori la libertà necessaria per esplorare le loro idee senza sopportare i vincoli imposti da scadenze e obiettivi di profitto. Considerato che le risorse dedicate rappresentano per definizione qualcosa di diverso rispetto all’attività ordinaria di un’organizzazione, trasferire tale conoscenza dove viene richiesta risulta spesso arduo. In generale, nuove idee brevettabili, in grado di essere comunicate in modo esplicito, provengono più semplicemente da quella che definiamo conoscenza “interna”, quella conoscenza di tipo procedurale, più soggettiva, che riguarda il come fare le cose e il come concepirle. La seconda via per la creazione di conoscenza, abbiamo dette essere il caos creativo. L’utilità del caos creativo fa riferimento al fatto che l’innovazione spesso avviene in concomitanza con i momenti di rottura, quando cioè i modi di pensare abituali vengono interrotti dall’intervento di una fluttuazione, che costringe ad un incremento dell’interazione con il mondo esterno e di interazione all’interno finalizzata alla creazione di nuovi concetti27. Da qui constatiamo quanto l’osservazione dei fattori circostanziali sia essenziale perché ci sia innovazione: la creatività non è il volo libero di un pensiero indipendente, e nei momenti di rottura è proprio la capacità ad osservare che viene promossa obbligatoriamente. Nel processo di sviluppo di una conoscenza nuova per combinazione, riveste un ruolo importante la verbalizzazione della conoscenza. Infatti, nel momento in cui si inventa un nuovo nome, viene riconosciuta come conoscenza nuova la combinazione nuova di conoscenze vecchie. L’innovazione in altri termini, avviene nei momenti di crisi, di rottura ed è costituita da una ricombinazione creativa di elementi già presenti nel sistema! Giuseppe Mannino