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IL CONFLITTO
FEDERAZIONE
CONVEGNI INTERREGIONALI 2012
IL CONFLITTO
Vi esorto ad essere apostoli
di pace e riconciliazione
Don Giacomo Luzietti
CONVEGNO INTERREGIONALE DI PALERMO 20 ottobre 2012
DAL CONFLITTO ALLA MEDIAZIONE
Relazione Del Prof. Giuseppe MANNINO
LUMSA Dipartimento di Giurisprudenza
La parola conflitto il cui significato deriva dal verbo latino cum-fligere ha un
significato duplice e per certi versi ingannevole. Oggi noi diamo al termine i
significati di “urtare, contrastare, combattere”, richiamando oscuri presagi di guerra,
immagini di vincitori e di vinti, idee di potere coercitivo, competizione negativa.
Tuttavia, il termine conflitto originariamente conteneva un secondo significato,
peraltro presumibilmente il primo in senso etimologico, che rimandava ad un idea di
incontro acceso che aveva la possibilità di risolversi positivamente. Il termine
utilizzato in tal senso da Cicerone, rimanda alla possibilità di “fare incontrare
confrontare riunire avvicinare” (Cicerone), solo tardivamente il termine acquisterà
anche le valenze di combattere, contendere ed infine urtare ostilmente. Nella lingua
italiana sembrerebbe reificato soltanto questo ultimo significato.
Gallino definisce il conflitto come un tipo di interazione più o meno cosciente tra
due o più soggetti individuali o collettivi caratterizzata da una divergenza di scopi
tale, in presenza di risorse troppo scarse perché i soggetti possano conseguire detti
scopi simultaneamente, da rendere oggettivamente necessario, o far apparire
soggettivamente indispensabile, a ciascuna delle parti, il neutralizzare o deviare
verso altri scopi o impedirne l’azione altrui, anche se ciò comporta sia infliggere
consapevolmente un danno, sia sopportare costi relativamente elevati a fronte dello
scopo che si persegue1.
1
L. Gallino, Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 1993, p.156.
Le organizzazioni sono luoghi privilegiati di conflitti di diverso tipo, vista la spiccata
qualità relazionale tra individui. Afferma Spaltro: “ogni mutamento e ogni
innovazione passano attraverso il conflitto, tra status quo e speranza futura. Solo se
si pensa che il futuro sia migliore dello status quo è possibile un cambiamento, che
perciò passa attraverso il conflitto tra oggi e domani”2.
Il termine stesso organizzazione è inscindibile dal termine conflitto. “Come non
esiste un uomo senza cuore così non esiste un’organizzazione senza conflitto.”
(Spaltro)
Il conflitto è l’equivalente organizzativo dell’emotività individuale. I conflitti sono le
emozioni del livello collettivo e come tali sono l’origine della vita psichica delle
organizzazioni e dei suoi sintomi o disturbi. Una mancanza di conflitto rende
l’organizzazione rigida e statica, l’eccesso di conflitto la rende invasa e senza
programmabilità.
Sia la mancanza che l’eccesso di conflitto non consentono sviluppo e
differenziazione nelle organizzazioni e dunque le bloccano e schiacciano nel
presente oscurandone il passato ed impedendone il futuro.
La natura del conflitto è soggettiva-percettiva, ermeneutico-fenomenologica:
giocano un ruolo essenziale l’interpretazione e la rappresentazione che le parti
danno della situazione. Il conflitto, quindi, viene percepito in modo diverso dalle
diverse personalità coinvolte, dell’orientamento emotivo relazionale dalla
controparte, dal contesto, dalla struttura degli interessi in gioco.
Il conflitto è frutto di percezioni diverse non per oggetto ma per soggetto
esperiente, nasce da preconsiderazioni sature di menti individuali. La possibilità di
gestire il conflitto riguarda il lavoro di insaturazione dello spazio mentale
organizzativo ed individuale. Una mente satura è bloccata in una presentificazione
che non vede il futuro e nega il passato, una mente insatura vive il presente come il
dinamico frutto dell’impegno soggettivo di reti di significati che nascono nella storia
e si proiettano verso l’infinito.
Conflitto e crisi sono la conseguenza di decisioni non prese, che determinano
contraddizione. Quando si sceglie, si prende una decisione, se non si riesce a
scegliere ci si trova di fronte ad una contraddizione. Se poi la contraddizione, cioè la
decisione non presa, diventa dolorosa, la si rimuove e la si trasforma in conflitto. In
2
Cfr. Spaltro, Enzo e de Vito Piscicelli, Paola, Psicologia per le organizzazioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma,
1990, pp.111-134.
altre parole, quando il dissidio dentro di noi ci dà fastidio, lo trasformiamo e lo
proiettiamo all’esterno come un dissidio tra noi e gli altri.
Ogni conflitto deriva da una scissione interna, infatti, noi lottiamo contro gli altri
quando non riusciamo a lottare dentro noi stessi. Gandhi diceva che " i veri conflitti
sono quelli che si svolgono dentro di noi ed è lì che noi dovremmo adeguatamente
trattarli". Quindi il conflitto appare essere una caratteristica delle situazioni
collettive, ma in realtà è la proiezione sul collettivo di "conflitti interiori".
Ora: vi sarà capitato un adolescente in conflitto… terribile, ingestibile, stancante,
straziante, ma, incredibilmente sano! Al contrario, un adolescente non conflittuale si
configura esistenzialmente in contrasto al suo sviluppo: egli si sviluppa nel fisico ma
il suo pensiero rimane bloccato sulla saturazione familiare o scolastica impedendone
la differenziazione. Il problema è che il primo, l’adolescente conflittuale, reclama
con tutte le sue forze le nostre attenzioni, che, forse, non sempre siamo disponibili a
dare. Il dito indagatore probabilmente va puntato contro se stessi piuttosto che
sull’altro se vogliamo giungere ad una gestione della crisi.
Ury e Smoke nel loro articolo Anatomy of a crisis hanno evidenziato quattro fattori
che rivestono particolare importanza in una crisi e, dunque più in generale, nei
fenomeni conflittuali:
1. La posta in gioco è molto alta: una crisi si distingue dal normale flusso del
processo decisionale per l’aspettativa di grosse perdite e dunque per l’alta
posta in gioco. Quando gli operatori sono sotto stress, possono commettere
errori nel prevedere correttamente l’escalation in un conflitto poiché, ad
esempio, semplificano le difficoltà di giudicare le potenziali conseguenze delle
proprie azioni;
2. Disponibilità temporale ridotta: E’ il caso in cui si ha a disposizione poco
tempo per prendere decisioni cruciali con l’urgenza di agire. La percezione di
un evento come crisi o meno dipende dalla quantità di tempo a disposizione
dei decisori;
3. Forte incertezza: i decision maker spesso riferiscono delle sensazioni nel dover
affrontare una situazione di crisi e tra queste la più citata risulta essere la
grande incertezza derivata dalla mancanza di informazioni importanti;
4. Scarsa disponibilità di opzioni: una crisi può non sembrare grave finché chi
deve decidere sul suo esito sente di avere ancora delle opzioni disponibili. I
decisori tendono a ridurre la propria flessibilità, escludendo alcune possibili
alternative risolutive3.
Ognuno di questi fattori è inevitabilmente più soggettivo che oggettivo, poiché le
persone perseguono gli obiettivi che sperano di potere raggiungere senza incorrere
in situazioni conflittuali. Gli autori sopra citati sostengono che i quattro fattori alla
base del conflitto possono anche essere delle “leve strategiche”, azionabili
intenzionalmente. Nella misura in cui si debba aggravare il conflitto si può alzare la
posta in gioco, accrescere la sensazione di incertezza e ridurre la percezione delle
opzioni a disposizione. Al contrario, se lo scopo è quello di gestire il conflitto e
produrre cambiamento, è necessario orientare le parti a: controllare le poste in
gioco percepite, assicurare adeguate risorse temporali, assicurare un flusso di
informazioni puntuali e credibili4.
Un conflitto gestito aumenta le motivazioni che portano al cambiamento,
all’intervento e all’attività; aumenta la mobilitazione dell’energia psichica e la
capacità innovativa che porta l’individuo ad essere più efficace nel raggiungimento
degli obiettivi lavorativi e relazionali; aumenta la coscienza del proprio ruolo e del
proprio potere nella situazione relazionale e offre continui feed-back, cioè reazioni
della controparte; aumenta l’identità da parte delle due o più componenti
conflittuali: definisce meglio gli amici e i nemici e la loro reciproca interazione; un
conflitto, di qualunque genere sia, determina un’attenzione a tutti i tipi di conflitti
possibili: così un conflitto interpersonale costringe ad analizzare e trattare anche i
conflitti intrapersonali e viceversa, i conflitti interni ad affrontare realisticamente
attivamente i conflitti esterni. Dunque se il concetto del conflitto uscisse
dall’ossessione della riduzione all’unità, della semplificazione e del sentimento di
colpa ed entrasse nella dinamica positiva del conflitto come costruttore e non
distruttore di energia potrà essere considerato forza produttiva e risorsa personale,
relazionale e organizzativa.
Tra il dire ed il fare ci sta di mezzo il mare, direte voi, ed io vi rispondo che tra
l’impotenza e l’onnipotenza è possibile avere la competenza! Fuor di proverbio, non
voglio ignorare che ogni nuova visione, ogni conoscenza genera paura, paura del
cambiamento. E qui noi, siciliani siamo particolarmente bravi a tirarci indietro…
meggghiu diri chi sacciu chi diri chi sapia, cu cancia a vecchia pa nova sapi chiddo chi
lassa e un sapi chiddu ca trova, megghiu u tintu canosciutu ca u novu a canosciri…:
ogni novità genera conoscenza e la conoscenza spinge il cambiamento che fa
3
4
Cfr. G. Gabassi, Psicologia del lavoro nelle organizzazioni, Ed. Franco Angeli, Milano, 2006, pp.181-184.
Ibidem, p. 187.
paura… dunque… meglio non conoscere (pensiero saturo), meglio non cambiare
(morte), meglio non avere paura (assenza di vita)…
Oppure?
Oppure è possibile gestire la complessità, valorizzare la diversità, accettare il dubbio
e l’incertezza, l’ansia dell’ignoto, la creatività ricombinante che crea un nuovo modo
di percepire le vecchie cose! È l’arte della mediazione intesa come gestione del
conflitto.
Ricapitolando:
Se la mediazione è creare un nuovo modo di percepire le vecchie cose;
Se ogni nuova visione produce paura. Paura del cambiamento;
Se Ogni cambiamento è un conflitto;
Se Il conflitto è vita;
Allora La mediazione è una nuova visione che produce conflitto e vita!
L’utilizzo dei conflitti in senso costruttivo e non distruttivo è un importante fattore
per l’organizzazione e dipende dalla capacità di gestire i conflitti negoziando e
mediando5.
Gestire il conflitto è questione di negoziazione, cioè uscire dalla logica dualistica del
bianco o del nero ed imparare a procedere per sfumature, imparare ad usare il
grigio, che a sua volta contiene diverse sfumature.
Peraltro, oggi, una serie di esperienze progressivamente accumulate ci mostrano
come il successo non coincida con la vittoria e che vincere non significa eliminare
l'avversario, ma che il vincere sia lo star meglio noi senza escludere l’altro.
Il soggetto è il titolare di un progetto di vita e di bellessere e come tale va
incentivato ad esprimerlo e realizzarlo6. Ogni individuo ha desiderio di star bene,
anzi meglio. Il bellessere è lo scopo della vita di ognuno e l'idea che il bellessere
nostro sia correlato col bellessere altrui sta alla base di ogni trattamento dei
conflitti.
Per molto tempo ha prevalso l’idea secondo cui il benessere personale può
diventare possibile solo mediante il malessere dell’altro. Detto altrimenti: homo
5
6
Cfr. E. Spaltro, La forza di fare le cose: fondamenti di psicologia del lavoro, Ed. Pendragon, Bologna 2003, p.207.
Ibidem, p.48
homini lupus. Ciò accade nelle società in cui vige uno stato di povertà di risorse. Ma
le risorse scarse, fanno riferimento all’oggettività, ai bisogni ineludibili, non alla
soggettività. Le risorse soggettive fanno riferimento ai desideri che per loro stessa
definizioni sono inifiniti. L’abbondanza delle risorse permette agli uomini di
considerare il proprio e l’altrui bellessere, diffondendo sempre di più la dialettica
della cooperazione e non della competizione. E poichè il benessere non esiste in
origine e va quindi inventato anche a scapito di sé e dell’altro da sé, il bellessere è
invece possibile insieme, se e l’altro, la cooperazione rappresenta la modalità più
efficiente di questa invenzione.
Insieme si sta meglio che da soli; (Χαι αντροποσ ανερ πολιτιχον εστιν) recitava
Aristotele) tutto quello che ci porta a star in compagnia, il bellessere, serve per la
gestione dei conflitti. La vittoria che porta all'eliminazione dei conflitti non facilita la
compagnia e quindi non permette di fare del conflitto una forza produttiva.
Vincere ci fa stare male: prima per vincere e poi per la perdita del nemico. Stare in
conflitto significa stare in compagnia, come tutta l'esperienza sportiva dimostra.
Non abbiamo solo bisogno di etica, ma nutriamo sempre più desiderio di estetica. Il
buono non è sufficiente per gestire i conflitti perché dietro al buono sta in agguato
l'intransigenza, la rigidità ed il fondamentalismo. Il bello aiuta il buono a gestire i
conflitti perché genera futuro e speranza che prendono il sopravvento sul passato e
sulla minaccia.
Il lavoro, l’organizzazione, l’occupazione servono a produrre ricchezza e benessere.
Oggi abbiamo bisogno non solo di buon lavoro ma anche di bel lavoro. Spesso,
cercando la bellezza, si incontrano nuove idee.
Il conflitto può dunque diventare un'occasione di apprendimento, che ci riporta
all'arte della maieutica socratica: un approccio metodologico e di potenzialità nella
formazione e nella conoscenza. Se infatti il conflitto attiva un bisogno di risposte,
ecco che la maieutica basa la sua efficacia sulla capacità delle persone di
riconoscersi attraverso domande che permettano di esplicitare il conflitto nella sua
dimensione evolutiva e creativa. La mediazione a tal proposito si presenta tra due
termini, tra due soggetti, e possiamo considerarla come un traduttore, un operatore
del cambiamento.
Barzelletta del Francescano e del gesuita:
Il francescano: padre posso fumare mentre prego?
Il gesuita: padre posso pregare mentre fumo?
Ciò che conta non è la risposta, è la domanda! Non è la risorsa oggettiva, ma il
desiderio soggettivo! Non è la meta, la vittoria, ma è il viaggio, la condivisione!
Se il tempo del conflitto è il presente, il tempo della mediazione è il futuro.
La gestione del conflitto è una terapia al cuore dell’organizzazione che genera il suo
futuro. “Mediare” significa interporre un terzo tra due elementi, negoziare e, quindi,
creare un sistema ternario laddove, prima, esisteva un sistema binario. Il negoziato,
infatti, trasforma le condizioni di un conflitto e diventa così strumento di
cambiamento, di potere a somma variabile e di bellessere7.
Un buon mediatore agisce come un maieuta, conducendo le parti in conflitto ad
andare alle origini dello stesso con una sorta di autoanalisi che consente loro di
riconoscere gli aspetti emotivi e relazionali in gioco nel rapporto con l'altro e nel
conflitto che si è creato fino a trovare da sole il modo più efficace per risolverlo. Un
buon mediatore sa leggere il conflitto, permettendo così all'invisibile di emergere
chiarendo le necessità, i bisogni, i desideri e soprattutto i veri interessi delle parti, è
capace di fare continue domande (maieutiche), non offrendo risposte, in un
processo di riflessione reciproco fra le parti, che condurrà il sistema relazionale a
trovare da sé la migliore soluzione al problema.
La mediazione, intesa come medi-azione, l'azione di "colui che sta nel mezzo", di
colui che cerca di costruire uno spazio comune di dialogo per evitare che il conflitto
si trasformi in dissidio insanabile, rappresenta questa possibilità. Essa non è
transazione, né compromesso, tanto meno è giudizio: non si tratta di decidere, di
'tagliare' con la spada della giustizia per separare una ragione da un torto, una verità
da una falsità, al fine di attribuire responsabilità. La mediazione non è un spada che
taglia ma un ago che cuce, rivolto al futuro per generare opportunità.
La sua premessa è il valore della persona, l’okness, la preconsiderazione del valore
dell’altro e mio come esseri in cammino e non come lupi in caccia, il ritenere l’altro
un motivo di crescita, apprendimento, e vita non un ostacolo o un limite, la vision e
della vita, dell’universo come sistema omeostatico.
7
Cfr. F. Fontana , Il sistema organizzativo aziendale, Ed. Franco Angeli, Milano, 2005, pp.97-100
Preconsiderazione aprioristica, anche contraria agli eventi: esempio dello zio in
barca a vela e della canzone dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i
fiori. L’altro ed io siamo vita, insieme. Sempre.
La sua logica non è quella escludente dell'aut-aut, del mors tua, vita mea, del
tertium non datur, ma quella inclusiva dell'et-et, del vita tua, vita mea, del noi!
La sua espressione è quella della complessità che contiene in sé ogni diversità e non
riduce nulla a manicheismi o semplificazioni.
Il suo fine non è creare il consenso all’interno di un’organizzazione, ma lasciare che
emergano i tanti modi di pensare esistenti, tanti modi di intendere i ruoli personali e
i valori dell’organizzazione, chiamati “valori condivisi”, nei quali ci si riconosce come
gruppo e, contestualmente, non si rinuncia ad accoglierli e intenderli in modo
diverso. “Apprendere” a gestire la complessità e il dissenso: a questo “valore
condiviso” mira la ricerca della mediazione. A conferma De Toni e Fornasier
acutamente osservano: “Il vero apprendimento va al cuore di ciò che significa essere
umani. Mediante l’apprendimento ci mettiamo in condizione di fare qualcosa che
non siamo mai stati in grado di fare. Mediante l’apprendimento ripercepiamo il
mondo e il nostro rapporto con il mondo. Mediante l’apprendimento, estendiamo la
nostra capacità di creare, di essere parte del processo generativo della vita”8.
Il suo metodo è quello dell’accoglienza dinamica, creativa, ricombinante ed
equilibrante, di tutti gli elementi sinergici del sistema e non l’esclusione o la
preferenza riduttiva.
Il suo risultato è la bellezza unita al bene!
Bè, vorrei dirvi ancora molte cose. Vorrei parlarvi della cultura della mediazione
improntata su valori umani di amore, stupore, umiltà e compassione… ma sono
certo di avervi stancato, ma spero non annoiato, e dunque vi lascio con un “a
risentirci” su questi inesauribili temi e desidero concludere con una storiella che
forse vi resterà più delle mie parole…
I sette cavalieri dei colori
Tanto tempo fa, nel regno dei colori, vivevano sette cavalieri: il rosso, l’arancione, il
giallo, il verde, l’azzurro, l’indaco ed il violetto. Tutti erano assai coraggiosi e valorosi
ed erano molto orgogliosi del proprio colore. Ciascuno di loro passava ore dinanzi
8
A. F. De Toni, A. Fornasier, Guida knowledge management, Ed. Il sole 24 ore, Milano, 2012, p.142
allo specchio conyemplando i riflessi del proprio colore, poiché credeva di essere il
migliore e vedeva degli altri soltanto i difetti.
Un giorno il re bianco e nero, che era il Signore dei sette cavalieri, li chiamò e disse
loro: “Stimati e valorosi cavalieri, sono stanco delle vostre liti e delle vostre vanità. Io
il re bianco e nero vi ordino di andare d’ora in poi, sempre insieme senza discutere
per le vostre differenze. È vero che siamo diversi, che noia se fossimo tutti uguALI!”.
E continuò “presto mia figlia, la principessa biancarosa, si sposerà, e vorrei adornare
il portone del mio palazzo con l’addobbo più bello che si sia mai visto. Affido a voi
questo incarico, cavalieri dei colori!”
Ogni cavaliere cominciò ad esporre la propria idea e cominciò la solita discussione di
sempre. Allora il re bianco e nero ordinò ai suoi servi di prendere i sette cavalieri e di
portarli lontano dove egli non dovesse mai più sentirli. Allora i suoi servi presero i
cavalieri e legatili tutti insieme li spedirono nei cieli al di là delle nubi: oh meraviglia,
oltre le nubi essi formarono l’arco più bello e splendente che si fosse mai visto:
l’arcobaleno! Tutti cavalieri, ciascuno con il suo colore ma insieme agli altri!
Grazie!
Giuseppe Mannino
Approfondimenti tematici
1. organizzazione
L’organizzazione può essere definita come un organismo biologico i cui geni sono
costituiti da routine nelle quali è accumulato il sapere necessario per operare. Le
routine che riescono a prevalere sono quelle che definiscono lo sviluppo
dell’organizzazione, la quale è sostanzialmente ancorata alla sua storia ed alla
conoscenza che è in essa incorporata. Le routine in questione diventano le
competenze su cui l’organizzazione basa il proprio funzionamento e con cui
consegue i suoi risultati.
Il sistema-organizzazione possiede duplice caratteristica: esso, infatti, da un lato
opera sulla base della propria conoscenza, dall’altro è in grado di alimentare
continuamente tale conoscenza9. Essa nasce non da un processo collettivo di
formazione delle scelte, ma dalla interazione continua, dallo scambio di segnali,
dalle elaborazioni individuali, dalle aspettative dei singoli, dalle norme condivise,
9
Cfr. G. von Krogh, J. Roos, K. Slocum "An Essay on Epistemologia Corporate", Strategic Management Journal , 15,
1994, pp 53-73
dalle procedure realizzate, dai meccanismi organizzativi. Accanto agli elementi
intrinseci, appena menzionati, coesistono delle forze di condizionamento, vale a dire
gli attori interni ed esterni, il cui potenziale incide sulla evoluzione stessa del sistema
organizzativo e consente di perseguire i loro obiettivi solo mediante l’osservanza di
un equilibrio nel sistema.
2. Conoscenza come intervento:
Dal momento che condividere la conoscenza non è una prassi spontanea e naturale,
il raggiungimento di tali obiettivi presuppone non poche difficoltà. La conoscenza,
infatti, come abbiamo detto, è una forma di potere, poiché oggi chi possiede un
sapere specifico sull’ambiente circostante ha maggiori possibilità di intervenire sugli
eventi e controllarli. La difficoltà riguarda non solo la condivisione del sapere tra i
membri dell’organizzazione, ma sopratutto la resistenza che essi oppongono alla
“trasparenza della conoscenza”. Per il momento soffermiamoci sulle opportunità di
creare nuova conoscenza attraverso:
1. “risorse dedicate”
2. “caos creativo”
3. “combinazione di conoscenze”.
Questi sono i casi più generali, adattabili a qualunque tipo di organizzazione.
Le risorse dedicate offrono un metodo abituale per la generazione di conoscenza,
attraverso la creazione di unità o gruppi di lavoro impegnati specificatamente a
questo scopo.
Le divisioni di ricerca e sviluppo costituiscono l’esempio standard. L’obiettivo loro
assegnato, infatti, è quello di generare nuova conoscenza, nuovi modi di fare certe
cose.
Alcune biblioteche aziendali sono varianti delle divisioni di ricerca e sviluppo, dalle
quali ci si attende che forniscano nuova conoscenza attraverso l’organizzazione. La
ragione per cui le attività di ricerca e sviluppo sono separate rispetto alle altre è
quella di garantire ai ricercatori la libertà necessaria per esplorare le loro idee senza
sopportare i vincoli imposti da scadenze e obiettivi di profitto.
Considerato che le risorse dedicate rappresentano per definizione qualcosa di
diverso rispetto all’attività ordinaria di un’organizzazione, trasferire tale conoscenza
dove viene richiesta risulta spesso arduo. In generale, nuove idee brevettabili, in
grado di essere comunicate in modo esplicito, provengono più semplicemente da
quella che definiamo conoscenza “interna”, quella conoscenza di tipo procedurale,
più soggettiva, che riguarda il come fare le cose e il come concepirle.
La seconda via per la creazione di conoscenza, abbiamo dette essere il caos creativo.
L’utilità del caos creativo fa riferimento al fatto che l’innovazione spesso avviene in
concomitanza con i momenti di rottura, quando cioè i modi di pensare abituali
vengono interrotti dall’intervento di una fluttuazione, che costringe ad un
incremento dell’interazione con il mondo esterno e di interazione all’interno
finalizzata alla creazione di nuovi concetti27. Da qui constatiamo quanto
l’osservazione dei fattori circostanziali sia essenziale perché ci sia innovazione: la
creatività non è il volo libero di un pensiero indipendente, e nei momenti di rottura
è proprio la capacità ad osservare che viene promossa obbligatoriamente.
Nel processo di sviluppo di una conoscenza nuova per combinazione, riveste un
ruolo importante la verbalizzazione della conoscenza. Infatti, nel momento in cui si
inventa un nuovo nome, viene riconosciuta come conoscenza nuova la
combinazione nuova di conoscenze vecchie.
L’innovazione in altri termini, avviene nei momenti di crisi, di rottura ed è costituita
da una ricombinazione creativa di elementi già presenti nel sistema!
Giuseppe Mannino
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