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IO FOTOGRAFA Collaborare con una rivista

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IO FOTOGRAFA Collaborare con una rivista
Rocchini Agosto_ghisetti giugno ok 5,0 14/07/11 16.16 Pagina 66
IO FOTOGRAFA
Collaborare con
una rivista:
indicazioni utili a
un corretto
approccio per non
essere cestinati
senza riscontro
di Claudia Rocchini
ualche mese fa, a seguito dell’ennesima mail con richiesta di visione e
analisi di un portfolio da farsi “a
tempo perso e in cinque minuti”, scrissi sul
mio blog un decalogo ironico sull’approccio
necessario da tenersi con professionisti e/o
riviste per avere un minimo di speranza di
essere presi in considerazione. Da allora,
“Come collaborare con una rivista” è una
delle chiavi di ricerca più gettonate del mio
sito: non c’è da stupirsi perché proporsi a un
magazine o chiedere di essere l’assistente di
un fotografo sono le due principali porte
d’accesso alla professione.
Esistono svariati modi di presentarsi a un
professionista o a una testata, sia che ci si
proponga come fotografi sia come fotogiornalisti: c’è chi sceglie di inviare materiale in
redazione tramite posta ordinaria, e quindi
Q
REGOLE D'INGAGGIO
cd e stampe, chi tramite mail, con articoli e
fotografie o link al proprio sito. Chi invece
chiede direttamente un appuntamento, presentandosi armato di iPad, il miglior strumento attualmente in circolazione per mostrare i propri lavori di persona. Sempreché
si riesca a ottenere un appuntamento.
E’ questo il punto più delicato perché in
generale, parlando con colleghi della nostra
e di altre riviste, emerge che la stragrande
maggioranza delle richieste di collaborazione o incontro è inadeguata, per approccio e
contenuti. La prima considerazione da tener
presente è che ci si sta rivolgendo a chi di
fotografia e dintorni ci vive, dunque vanno
evitate frasi come “a tempo perso” e “in cinque minuti”. Sono indice di scarso rispetto
sia per il proprio lavoro sia soprattutto per la
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professionalità altrui: se infatti possono bastare cinque minuti per capire il livello di
chi si sta proponendo, ci vuole almeno un’ora per rispondere con una mail che contenga
una valutazione d’insieme, seria e professionale; riguardo poi al tempo da perdere, ammesso e non concesso di averlo, magari si
preferisce dedicarlo a fatti propri.
Ciò detto, analizziamo insieme gli step da
affrontare, con due premesse: innanzitutto
vorrei sfatare il mito negativo che le proposte di collaborazione ormai non vengano
quasi più considerate. Crisi o non crisi, anche se in generale i responsabili di redazione o i direttori sono persone molto impegnate, hanno sempre un occhio di riguardo per
la ricerca di nuovi talenti. Semmai va considerato un altro punto di vista, appena accen-
nato: data l’esperienza e il poco tempo a disposizione, riescono a cogliere al primo colpo d’occhio i potenziali di chi si propone,
dunque è essenziale curare con attenzione
ogni dettaglio dell’approccio e del proprio
lavoro.
La seconda: fermo restando gli spazi riservati alle segnalazioni di fotografi emergenti con pubblicazione di un portfolio
commentato, ormai le riviste raramente cercano “fotografi puri”, gradirebbero anche
capacità giornalistiche. Tradotto, vuol dire
saper scrivere. Possibilmente, saper scrivere
un articolo. Ciò significa che se litighiamo
con l’italiano, con le consecutio, la punteggiatura o, peggio, abbiamo la pessima abitudine di usare la “x” al posto della preposizione “per” (tipico linguaggio da sms), me-
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glio lasciar perdere. Anche lo stile è importante: magari si gestisce un blog fotografico
con migliaia di accessi quotidiani e si è convinti di avere un potenziale, ma scrivere su
un blog non è la stessa cosa che scrivere per
una rivista.
Il primo step uguale per tutti (aspiranti fotografi e fotogiornalisti) è conoscere l’oggetto dei nostri desideri: prima ancora di
pensare a cosa mandare in redazione, sarà
opportuno fare i compiti a casa, cioè acquistare qualche numero della rivista a cui vogliamo proporci e studiarne struttura, contenuti, stile, pubblico di riferimento. La logica
dell’inoltra la stessa mail a differenti redazioni sarà anche comoda e voloce, ma non
funziona. Chiediamoci per esempio se c’è
una sezione del giornale che sembra fatta apposta per noi oppure, se non esiste, pensiamo
a come proporne una, spiegando il nostro intento. Leggiamo gli editoriali del direttore e
cerchiamo di capire le sue preferenze, il suo
stile, il suo pensiero sulla fotografia. Prestiamo massima attenzione allo stile, perché il
nostro, inteso come approccio e contenuto,
dovrà essere adeguato: inutile proporsi come
alternativi se si sta scrivendo a una rivista
tradizionale e conservatrice. E viceversa.
Terminato questo passaggio possiamo cominciare a pensare a cosa mandare in redazione, come e a chi, tenendo presente che a
guidarci dovrà essere un solo pensiero: facilitare l’analisi dei nostri lavori.
Se decidiamo di inviare un cd, in molti si
preoccupano di dare la massima evidenza
alla copertina della custodia, salvo poi scordarsi di apporre un’etichetta con le generalità direttamente sul cd, o di scriverle con un
pennarello. Non guasta scrivere anche il numero di cellulare. Sembra una puntualizzazione dell’ovvio, ma ricordiamoci che i cd
che giungono nelle riviste subiscono lo stesso trattamento dei nostri cd in auto: riposti
in ordine sparso in custodie a caso, quasi
sempre la prima che ci capita sottomano. E
quasi mai al momento giusto ci capiterà di
ritrovare quel cd che stavamo cercando, men
che meno se senza indicazione. All’interno
del cd ricordiamoci di inserire, oltre al materiale che vogliamo far esaminare, anche
un file con una lettera di presentazione, cercando di essere concisi. All’apertura del cd
quasi sempre sarà il file di testo ad essere
aperto per primo: ci stiamo rivolgendo a
giornalisti, pertanto l’attenzione sarà inevitabilmente concentrata, di primo acchito, sul
testo con cui ci proponiamo. Senza contare
che la lettera di presentazione è la prima impressione che diamo di noi.
Evitiamo le lettere che cominciano con
“Ho iniziato a fotografare da bambino…” e
a seguire l’elenco dell’attrezzatura utilizzata
nel tempo: è il metodo migliore per essere
In apertura, la facciata del New York Times in una fotografia di Giulio Forti. Sopra, un esemplare di
Bucero Trombettiere. Che ci azzecca con il tema di questo articolo? Nulla. A dimostrazione che saper
fare fotografie non significa essere sempre in grado di saper illustrare fotograficamente una notizia.
cestinati. Meglio andare subito al punto cioè
illustrare qual è la nostra idea di collaborazione e perché riteniamo che possa interessare ai lettori della rivista. Spieghiamo perché pensiamo di essere persone adatte, indichiamo se abbiamo già esperienze, insomma
tutto ciò che di concreto abbiamo fatto e che
riteniamo possa essere utile come referenza.
Se invece decidiamo di proporci utilizzando la posta elettronica, consideriamo che la
lettera di presentazione è l’equivalente di
quanto scritto nel corpo della mail. Sarà
quindi necessario prestare ancor più attenzione ai minimi dettagli, a partire dal referente opportuno e dall’oggetto della mail.
Quasi tutti tendono a scrivere al direttore,
soprattutto se trovano la mail indicata nella
gerenza, chiamata anche colophon (lo spazio, obbligatorio per legge, in cui sono indicati i riferimenti del giornale, ndr). L’indirizzo mail trovato sul colophon, ammesso
che ci sia, quasi mai sarà quello personale
del direttore, quasi sempre verrà letto da
un’assistente che di frequente è persin più
“spietato” del direttore stesso rispetto alla
scelta delle mail da inoltrare. Il mio suggerimento è di non scrivere mai in prima battuta al direttore, ma al capo redattore e/o alla
segreteria di redazione, figure strategiche in
qualsiasi redazione e con cui, in caso di esito positivo, dovremo costantemente confrontarci.
Al direttore possiamo rivolgerci in seconda
battuta in caso di mancato riscontro e lasciato passare un tempo opportuno che può variare da quindici giorni a un mese: evitiamo i
toni lamentosi o impermalositi, piuttosto
chiediamo di avere un suo parere, anche negativo, per capire in cosa si è sbagliato e come fare in futuro per proporsi al meglio. Non
sempre è un approccio che funziona, a me in
un paio di occasioni hanno fatto il favore di
spiegarmi gli errori, e ne ho fatto tesoro.
Altro dettaglio importante è l’oggetto delFOTOGRAFIA REFLEX AGOSTO 2011
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la mail: se noi poveri mortali aprendo la posta elettronica ci ritroviamo decine di mail
da gestire, immaginiamoci il numero di mail
presenti nella casella di un capo redattore o
di un photo editor. Dunque, il nostro primo
obiettivo sarà studiare un oggetto che attiri
la sua attenzione, portandolo ad aprire il nostro messaggio. Da evitare quindi oggetti
generici tipo “Portfolio” o “Curriculum”.
Anche “Proposta di collaborazione” non
sembra generare molto interesse. Suggerirei
di lavorare concretamente di fantasia: non
c’è nulla di nuovo in fotografia, a parte le
innovazioni tecnologiche, e dunque si tratta
di proporre le solite cose ma in modo accattivante e differente.
Esempio: vi state proponendo come tester
di attrezzatura? Potrebbe suscitare interesse,
in aggiunta a “Proposta di collaborazione”
entrare nel merito con un oggetto tipo
“Un’alternativa ai test tradizionali” (purché
sia davvero un’alternativa). O ancora: siete
Sopra e a lato, due
esempi di scatti sbagliati: la gatta ripresa con sguardo quasi
supplicante una collaborazione con Reflex è un’interpretazione forzata e fantasiosa del tema dell’articolo. Invece, la
fotografia di Giulio
Forti nel suo studio,
per quanto simbolica, lo ritrae in abbigliamento invernale:
poco adatto a una
pubblicazione su un
numero estivo.
interessati a gestire una rubrica sul fotoritocco? Anche in questo caso, un occhio alle
tendenze non guasta e potrebbe essere efficace scrivere “Fotoritocco: c’è ma non si vede. Scommettiamo?”. Sono esempi banalissimi, magari neanche tanto efficaci, di certo
però lo sono molto di più di oggetti generici
e comuni.
Passiamo al contenuto della mail. Se lo
scopo è portare il lettore sul nostro sito, evitiamo di indicare decine di link alle singole
sezioni o, peggio, il semplice link all’home
page, lasciando libertà di navigazione. Molto meglio segnalare un unico link a un set
che avremo preparato appositamente, con
una frase di questo tipo: “Per agevolarle la
consultazione, qui il link a una gallery dedicata. Se lo riterrà opportuno, potrà visionare tutti i miei lavori navigando sul mio sito”.
Un approccio simile comunica sensibilità e
rispetto per il tempo del professionista cui ci
stiamo rivolgendo e ben predispone. Viceversa, mail di questo tipo, giunta realmente
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pochi giorni fa: “Buongiorno, mi chiamo
Pinco Pallino, sono un fotografo non professionista. Mi propongo alla vostra testata per
una collaborazione professionale. Vi invito a
visionare alcune mie foto su Flickr. Ecco il
link.”, non avranno molto seguito.
Se invece non abbiamo un sito o se il sito c’è ma decidiamo di giocarcela tutta in
mail inviando anche allegati, il discorso si
fa delicato perché sono molti di più i potenziali boomerang da considerare. Per meglio
spiegare l’approccio corretto, faccio due
esempi distinti e cioè il caso in cui ci si sta
proponendo come fotografi puri e il caso in
cui si aspira a essere fotogiornalista, intesa
come figura che propone foto e testo, di
qualsiasi genere, dal reportage, al tutorial, al
tester di attrezzatura eccetera.
Se ci si propone come fotografi, va da sé
che sarà utile fare una selezione delle nostre
fotografie migliori. E per migliori significa
letteralmente quelle migliori. E’ inutile e
controproducente inviare un mix di foto stu-
pende e bruttine, confidando nel fatto che
nel mucchio quelle poco efficaci siano meno notate. Comunicheremmo solo scarsa
professionalità, mentre il nostro intento è
comunicare che siamo persone in grado di
offrire un’alta qualità, soprattutto costante
nel tempo. Evitiamo di dire che facciamo
fotografie stupende: se sono tali, lasciamolo
dire a chi ci sta valutando.
Se ci dedichiamo a differenti generi, vanno fatti differenti portfolio: inutile mischiare foto naturalistiche con foto di ritratti o
still life. Anche la sequenza è importante: va
tenuta desta l’attenzione di chi sta esaminando il nostro lavoro quindi va bene mettere le fotografie più belle all’inizio, ma accertiamoci di lasciarne qualcuna di forte impatto anche verso la fine. Non inseriamo più
fotografie di un medesimo soggetto: comunicheremmo solo incertezza, viceversa dobbiamo essere noi a scegliere, non il redattore. E ancora. Proponiamo scatti orizzontali e
verticali, c’è più scelta per il photo editor
che dovrà tener conto dell’impaginazione
della testata. Creiamo poi sul nostro desktop
tante cartelle quanti sono i generi e nominiamole di conseguenza. All’interno metteremo le fotografie prestando attenzione alle
dimensioni, alla risoluzione, al nome.
Inutile inviare giga di dati, al massimo la
nostra fotografia potrà essere stampata su
una doppia A4; viceversa, è da evitare anche
l’eccesso contrario, cioè fotografie troppo
piccole: sono in molti, forse per timore di
furti, a inviare in redazione file inadeguati
per la stampa tipografica. Sono entrambi
elementi che disincentivano: nel primo caso,
i giga di dati intasano la posta elettronica,
nel secondo, foto troppo piccole impediscono un’analisi corretta. Per capire il tipo di
formato richiesto da una rivista, cerchiamo
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sul sito o sul giornale se è presente (c’è quasi sempre) una sezione in cui vengono spiegate dimensioni e formati e atteniamoci letteralmente a quanto indicato. Anche questo
sarà un elemento che verrà tenuto in considerazione: se qualcuno della redazione ha
ritenuto opportuno elaborare un documento
simile, è perché è stato necessario farlo.
Quando mi sono proposta a Fotografia Reflex senza alcuna velleità di collaborazione,
ho inviato una sola fotografia di uno struzzo
che a me pareva molto simpatico, seguendo
religiosamente le indicazioni contenute nella pagina “Collabora” del nostro sito, che vi
invito a consultare prima di mandarci materiale.
ll nome delle fotografie è altrettanto indicativo: facciamo un piccolo sforzo e personalizziamo i file. Possiamo titolarli (nel
mio caso avevo scelto il titolo “Incompresa”) oppure procedere numerandoli in sequenza, aggiungendo la sigla del nostro nome e cognome e il genere, in caso di invio
di più fotografie di generi differenti: qualcosa tipo claro_natura1 oppure claro_roma1 e via dicendo.
Sarà importante scrivere e indicare la presenza delle didascalie all’interno dei singoli file, troppo spesso elemento sottovalutato
dai fotografi. Mettiamoci nei panni di un
lettore qualsiasi e pensiamo a come ci comportiamo di fronte a un articolo su una rivista di fotografia: l’attenzione cadrà sulla foto di apertura, sul titolo, poi sulle altre immagini dell’articolo, di cui leggeremo incuriositi le didascalie. Solo alla fine, forse, andremo a leggere l’articolo. Dunque, un’efficace didascalia è un elemento utile ad attirare l’attenzione, se non a guidarla.
Una volta pronto il nostro materiale sul desktop, quindi una o più cartelle con le fotografie, facciamo un’unica cartella e compattiamola, accertandoci di utilizzare un programma di compressione valido per ogni sistema operativo e, possibilmente, gratuito.
Mai inviare multiple mail con fotografie come singoli file allegati: è un approccio che
costringerà il ricevente a scaricarli uno per
uno sul proprio desktop e inserirli in cartelle
che lui stesso dovrà creare. Per non parlare
dei casi in cui non si è provveduto a nominare i file e, magari, alcuni scatti hanno lo stesso numero corrispondente alla sequenza data dalla macchina fotografica: quando si scaricano, apparirà un avviso che indica la presenza di file uguali. Irritante, non trovate?
Se ci si propone come fotogiornalisti, il
lavoro è doppio perché va considerato anche
il lato scrittura sia da parte di chi si propone,
sia da parte di chi deve valutare. Se un articolo passa la prova “attacco”, cioè se le prime righe sono sufficientemente coinvolgenti da spingere alla lettura completa, il tempo
da dedicare è maggiore rispetto alla “semplice” valutazione di fotografie. Ho già accennato all’importanza dello stile. Diamo
per assodato che sappiamo fare buone foto-
L’iPad è un ottimo strumento per la presentazione
de visu di un portfolio: è pratico, efficace ed esistono numerose applicazioni gratuite che permettono di creare suggestive gallerie fotografiche.
grafie e che ce la caviamo benino anche con
la scrittura. Iniziano le dolenti note. Un elemento strategico è considerare che saper fare fotografie non significa essere in grado
di saper illustrare fotograficamente una
notizia.
Faccio da cavia e vi racconto i pregressi di
questo articolo. Quando l’ho proposto in redazione, il caporedattore, di fronte alla mia
indecisione su come illustrarlo, mi ha suggerito alcune soluzioni che in parte ho raccolto. Una di queste riguardava persone al
lavoro nella scelta del materiale. Non avendo possibilità di recarmi in redazione e lavorando al solito con tempi stretti, mi sono
ricordata di una fotografia fatta a Giulio
Forti quest’inverno nel suo studio, e che ritenevo adatta addirittura come apertura: è
l’editore di Reflex ritratto al lavoro davanti
al pc, mentre sfoglia un libro. Vero, indossa
un golf e siamo ad agosto ma… Così gli ho
scritto, allegando lo scatto: “Credo che come fotografia di apertura di un articolo su
come proporsi a una redazione, tu ci stia ad
hoc. Che ne pensi?”. Come volevasi dimostrare, mi ha subito stroncata: “Ne penso
male. Ho un golf ed è agosto e non si capisce cosa sto facendo. Sorry!”. Visto che
quella fotografia a me piaceva molto e che
ogni rifiuto è un’opportunità, gli ho proposto di utilizzarla come esempio al negativo
e, obtorto collo, ha accettato: “Purché piccola”.
E’, questo, un altro aspetto delicato del
rapporto che instauriamo con i nostri referenti: all’occorrenza è necessario saper spiegare la validità di una nostra proposta o
semplicemente saper “imporre” una fotografia solo perché ci piace. Per far questo
dobbiamo sentirci a nostro agio con gli interlocutori e ciò è possibile solo se si riesce
a costruire un rapporto al di là dell’asetticità
professionale. Rapporto che andrà impostato ancor prima di iniziare con lo studio, come suggerito, dello stile di chi scrive per la
rivista con cui vogliamo collaborare per capire se possiamo essere adatti.
Passiamo al formato dei testi. Di solito chi
invia testi in redazione non si preoccupa dei
formati: tanto al giorno d’oggi Pc o Mac non
fa più differenza. A parte che non è proprio
così, quasi tutti inviano file salvandoli nel
formato dell’ultima versione del software di
scrittura. Notizia: raramente le redazioni saranno in possesso dell’ultimo aggiornamento, in molte addirittura sono passate a software liberi, come Open Office. Dunque, per andar sul sicuro e se non conosciamo il sistema
usato in redazione, meglio inviare i testi nel
sempreverde e affidabile formato rtf.
Un altro aspetto quasi del tutto sconosciuto ai non addetti ai lavori è quell’oscuro territorio chiamato editing di un testo. In molti, pensando di risparmiare spazio, inviano
testi cosiddetti “a piombo” cioè senza un paragrafo, e scritti con caratteri piccoli, per
giunta senza mai andare a capo tra un periodo e l’altro. Così facendo non si agevola la
lettura, anzi, è il miglior modo per non essere presi in considerazione. La lunghezza di
un testo non viene misurata in base al numero di pagine, ma al numero di caratteri,
spazi inclusi o esclusi. Ultimo suggerimento: i testi vanno letti e riletti, lasciati decantare e poi ripresi, badando a ogni minimo
dettaglio, perché chi ci legge per la prima
volta sarà portato a concentrarsi più sugli errori (di stile, di grammatica, di punteggiatura, di ripetizione, di uso eccessivo di avverbi o frasi troppo lunghe, fino ai banali refusi) che non sulla validità di quanto stiamo
proponendo.
Passati positivamente questi step, spesso e
volentieri si viene invitati in redazione: in
questo caso possiamo avere la possibilità di
far visionare ulteriori nostri lavori. Cerchiamo di essere pronti a parlare del nostro lavoro e, soprattutto, a spiegare come abbiamo ottenuto un determinato risultato. In questi casi
potrà essere utile presentarsi con un iPad: non
è pubblicità indiretta, solo praticità perché ci
permette di fare vedere il prima e il dopo,
magari qualche scatto di back stage o di preparazione, evitando cd, chiavette, senza dover
lasciare nulla, se non la conferma o la smentita di un’impressione.
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