Luigi Fontanella 258 `IL SOGNO` DI GIACOMO LEOPARDI Così, tra
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Luigi Fontanella 258 `IL SOGNO` DI GIACOMO LEOPARDI Così, tra
Luigi Fontanella 258 'IL SOGNO' DI GIACOMO LEOPARDI Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo è l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e Γ unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. (G. Leopardi, "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare") Io so ben che non vale beltà né giovanezza incontro a morte. (Leopardi, "Per una donna inferma di malattia lunga e mortale") Allo studioso che si accinga a esaminare "Il sogno," Canto leopardiano non eccessivamente esplorato dalla critica, ο spesso liquidato genericamente come tentativo giovanile, potrebbe tornare utile, preliminarmente, andarsi a leggere un saggio poco noto di Giacomo, pubblicato la prima volta nel 1971 ("La Stampa," 2 dicembre di quell'anno). Il saggio in questione, intitolato "Dissertazione sopra i sogni," risale al biennio 1811-1812. Il 1812 è l'anno in cui Monaldo permette l'accesso pubblico alla propria biblioteca. È l'anno nel quale Giacomo compone gli Epigrammi e la tragedia Pompeo in Egitto. Ed è anche l'anno in cui egli sostiene con i fratelli il pubblico esame, presentando tesi di Teologia, Ontologia, Morale, Psicologia, Fisica e Scienze naturali: gli argomenti delle sue Dissertazioni filosofiche, scritte — non parrà inutile ricordarlo — da un ragazzo che ha poco più di tredici anni, ovvero da un adolescente che si è appena imbarcato in quel settenio "di studio matto e disperatissimo" (come scriverà nell'arcinota lettera del 2 marzo 1818 al Giordani), che lo segnerà fisicamente e psicologicamente per tutta la vita. Vale la pena riassumere qualche tratto saliente di questa Ίl sogno' 259 "dissertazione," erudita, forse perfino un po' oziosa, ma, ciò non di meno, qua e là anche piuttosto precoce, specialmente se messa in relazione alle teorie oniriche che cominceranno a svilupparsi su base prettamente scientifica solo tre quarti di secolo dopo, con qualche anticipazione, da parte del Leopardi, perfino sorprendente. Il termine "dissertazione" sta, tra l'altro, subito a indicarne il carattere prepositivistico e la "prospettiva razionalistica" (Damiani 1988), che qualche anno dopo (1815) Giacomo riprenderà, in chiave storica, nel "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi" (capo quinto intitolato "Dei sogni"). Partendo dalla constatazione che l'anima umana (più avanti denominata anche "mente") è immateriale in quanto la sostanza di cui si nutre, cioè i pensieri, è libera e "connaturale all'umana mente" ("gli umani pensieri si determinano a loro agio senza alcuna intrinseca forza che li costringa, ο li obblighi" (Leopardi I, 673), l'autore passa a esaminare le cause e le proprietà dei sogni, che alimentano la nostra immaginazione nel tempo del sonno. Il quale arriva dopo che la nostra attenzione "si minora appoco appoco in modo che quando l'uomo è in procinto di addormentarsi l'anima percepisce appena languidamente gli oggetti delle proprie sensazioni finché le sue operazioni restano totalmente sospese." Leopardi è interessato, in particolare — in questo rivelando una sorprendente precocità rispetto alle teorie freudiane sugli stati ipnagogici, cui com'è noto di li a poco i surrealisti attribuiranno fondamentale importanza per la personale produzione artistica e poetica, prescindente da qualsiasi proccupazione morale ο estetica — alla fase nella quale c'è il graduale ritorno dell'esercizio delle proprie facoltà, ossia in quel tempo, com'egli sottolinea, in cui l'uomo "forma quelle confuse idee" preludenti, appunto, agli stati ipnagogici, ovvero quegli stati in cui si formano immagini visive ο frammenti di frasi e perfino singole parole ancora un po' confuse. È da questo stato, come vedremo più avanti, che nasce "Il sogno." Sulla scia di un trattato scritto da Ludovico Antonio Muratori, Della forza della fantasia (1745), Leopardi riprende diligentemente la suggestiva teoria degli "spiriti del sangue" che agiscono sulla nostra Fantasia quando questa è in stato di riposo: "Gli spiriti del sangue circolanti per le cellette del cerebro commuovono allora i fantasmi confìtti ne' varj strati, e piegature di esso cerebro, onde vengono a formarsi varie scene regolate, ma per lo più sregolate, e senza connessione veruna." Così il Muratori. E Leopardi aggiunge: Luigi Fontanella 260 Gli spiriti del sangue, ed il fluido nerveo dovendo per l'avvincinarsi dell'uomo alla vigilia scuotersi, e circolare, i medesimi sogliono determinarsi ad eccitare nel celabro quelle sensazioni, che in esso eccitarono nel tempo della vigilia piuttosto, che a produrne delle nuove. Egli è infatti ben raro che si percepiscano nel sonno delle Idee che non abbiano alcuna correlazione coi pensieri avuti nel tempo della vigilia e se sembrano talvolta esser le prime affatto indipendenti dagli ultimi ciò potrà forse avvenire per la confusa unione di più idee concepite nel tempo della vigilia che non possono discernersi ad una ad una (Felici I, 673). Nel sogno l'anima umana non ha il libero esercizio della propria ragione, "e per conseguenza essa non conosce la puerilità ο l'assurdità de' suoi pensieri." Nell'attività onirica, in altre parole, cadono i principi di valore e di "responsabilità": non ci sono sogni che possono giudicarsi "puerili" ο sogni che possano ritenersi "assurdi," essendo, il soggetto sognante, del tutto sganciato da convenzioni sociali, interessi economici e da preoccupazioni morali ο estetiche ο religiose, quali solitamente accompagnano la vita diurna, la vita-di-relazione coi suoi simili. Quest'ultimo è un punto importante, perché in esso inconsapevolmente Leopardi prefigura, sia pure a uno stato embrionale, il moderno dibattito sul sogno e sulla sua utilizzazione in chiave creativa. L'autonomia del sogno è rivendicata "anche" sulla base della sua apparente "mostruosità": le immagini potrebbero perfino non essere "consentanee alle idee concepite nel tempo della veglia," proprio per la libera con-fusione con cui si attaccano (s'intrecciano) a pensieri e immagini dell'esperienza vissuta prima del sogno. Ma questo, secondo Giacomo, può accadere assai raramente. Infine, Leopardi torna di nuovo a sottolineare la condizione di demi-sommeil in cui le immagini-cose ci appaiono ancora in una facies labile e frammentaria, ma estremamente feconda e suggestiva. È uno stato d'incerta durata nel quale il soggetto non è ancora in grado di distinguere ciò ch'è reale e ciò ch'è fantastico: [...] riacquistando la mente collo svanir del sonno le proprie facoltà viene per mezzo di queste ad avvedersi delle impressioni, che fanno gli oggetti esterni negli organi sensorj, ma per la confusione che regna ancora tra le sue idee ella non sa distinguerle perfettamente da quelle, che occupano la sua immaginazione. È esattamente da quest'ultima considerazione teorica che nascerà 'Il sogno' 261 lo spunto iniziale, allucinatorio, ο più esattamente, ipnagogico, di un Canto come "Il sogno." Di "vision hypnagogique; d'un rêve à demi éveillé" ha recentemente parlato anche un leopardista come George Barthouil (Barthouil 1996, 55). Sull'attività onirica come fonte di piacere ο di desiderio ο di nostalgia Leopardi si soffermerà più volte nel corso del suo opus. Per quanto riguarda più strettamente l'argomento del Canto leopardiano non posso fare a meno, inoltre, di ricordare l'operetta morale "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare," composta nel luglio del 1824. Ne ricordo brevemente l'assunto e il suo centro concettuale che risiede nella consapevolezza che il piacere è un desiderio ο un ricordo, non un fatto. È sempre ο passato ο futuro, e non mai presente. Ma accanto a questo motivo il "Dialogo" svolge quello della noia, della solitudine e dell'amore. La prima soffoca l'animo e ha come unico rimedio il sogno, l'oppio ο il dolore e, subordinatamente, la varietà delle occupazioni e dei sentimenti. La seconda "fa quasi l'ufficio della gioventù" e rimette in moto l'immaginazione. Il terzo (l'amore), anche se arriva solo in sogno, sa donare al mortale un intenso, autentico brivido di gioia, specialmente se esso avviene all'alba, "in sullo svegliarvi." Dirà a un certo punto il genio familiare: Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per l'addietro: anzi all'ultimo le stringerai la mano; ed alla guardandoti fiso, ti metterà nell'animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza (Felici I, 529). È, sia detto per inciso, esattamente quanto avverrà nel Canto "Il sogno." Alle rimostranze del Tasso, riluttante ad accontentarsi di un "sogno in cambio del vero," il genio replicherà: "Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai." È in buona parte lo stesso concetto che Leopardi aveva espresso nove anni prima nel Capo quinto del "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi." Si tratta del "capo" intitolato "Dei sogni" a cui ho fatto cenno all'inizio: un capitolo, va sottolineato, nel quale Leopardi appare assai meno critico e saccente — rispetto agli altri capitoli — sugli "errori" comuni degli antichi, dato l'indubbio (ancorché ingannevole) potere di suggestione Luigi Fontanella 262 che quelle credenze sui sogni, portatori comunque di illusioni e di poesia, potevano esercitare sul suo animo. Del resto sul "popolo de' sogni," su "quelle immagini perplesse e indeterminate" come fonti d'inganno ma anche di piacere, Leopardi si sofferma fin dalla prima operetta (Storia del genere umano). *** È venuto il momento di passare a un'analisi serrata di questo Canto. Altri riferimenti sull'onirismo potranno essere opportunamente recuperati nel corso della sua lettura. Pubblicato la prima volta il 13 agosto 1825 in Notizie teatrali bibliografiche e urbane, ossia il Caffè di Petronio, periodico bolognese diretto da Pietro Brighenti, col titolo Il sogno. Elegia (inedita), il Canto fu poi inserito in Nr26 e in B26 col sottotitolo "Idillio IV," e infine in F e in Ν senza sottotitolo. Mancando una testimonianza precisa e diretta dello stesso Leopardi, la critica ha ritenuto far cadere la datazione del "Sogno" fra il 1819 e il 1821, soprattutto a causa di un'annotazione leopardiana scritta in occasione della morte della nonna, avvenuta nel 1820. L'abbozzo, rinvenuto nelle carte napoletane, che poi la critica ha sempre collegato a "Il sogno," fu pubblicato la prima volta nell'edizione commentata dei "Canti," a cura di Francesco Moroncini (Palermo-Milano: Sandron, 1917). Francesco Flora, nel recuperare quest'appunto, nel primo volume leopardiano di Tutte le opere, intitolato Le poesie e le prose (Milano: Mondadori, 1940), gli diede il titolo Del fìngere poetando un sogno. Vale la pena riportarlo per intero, dato il suo carattere semiclandestino. Se tu devi poetando fingere un sogno, dove tu ο altri veda un defunto amato, massime poco dopo la sua morte, fa che il sognante si sforzi di mostrargli il dolore che ha provato per la sua disgrazia. Così accade vegliando, che ci tormenta il desiderio di far conoscere all'oggetto amato il nostro dolore; la disperazione di non poterlo; e lo spasimo di non averglielo mostrato abbastanza in vita. Così accade sognando, che quell'oggetto ci par vivo bensì, ma come in uno stato violento; e noi lo consideriamo come sventuratissimo, degno dell'ultima compassione e oppresso da una somma sventura cioè la morte; ma noi non lo comprendiamo bene allora, perché non sappiamo accordare la sua morte con la sua presenza. Ma gli parliamo piangendo, con dolore, e la sua vista e il suo colloquio c'intenerisce e impietosisce, come di persona che soffra, e non sappiamo, se non 'Il sogno' 263 confusamente, che cosa (Felici I, 460-1). L'appunto porta la data autografa del 3 dicembre 1820. I riferimenti a "Il sogno" sono evidenti anche se non proprio specificamente diretti al personaggio femminile rievocato nel Canto. La data dell'idillio può dunque, plausibilmente, collocarsi ο poco prima ο poco dopo il dicembre del 1820, più probabilmente dopo, magari fino ad arrivare all'estate-autunno del '21, come ha acutamente argomentato Ugo Dotti sulla scorta di convincenti considerazioni e "un indizio abbastanza probante" relativo a un progetto leopardiano, rinvenibile in Disegni letterari, VII (Dotti 1998, 62). Una piccola curiosità: il Flora dà, sulla scorta dell'incipit dell'appunto leopardiano, il titolo Del fìngere poetando un sogno, laddove più appropriato sarebbe stato dire Del poetare fìngendo un sogno, perché a me pare che Giacomo voglia dire proprio questo: cioè scrivere una poesia attraverso la finzione di un sogno. Luigi Blasucci ci ricorda che il titolo di questo Canto fu usato originariamente come intertitolo per uno dei Frammenti, esattamente il XXXV, scritto nel 1819 e pubblicato primamente in NR26 col titolo "Lo spavento notturno," sostituente il titolo "Il sogno," cancellato a mano nell'autografo stesso e spostato successivamente all'idillio in questione. Il nuovo titolo dato al "Frammento" viene mantenuto in B26, ma viene espunto in F. Ritorna in N, per diventare definitivamente il XXXVII in tutte le edizioni successive a quella napoletana del 1835 (Blasucci 1989, 154). Trascrivo ora nella sua interezza "Il sogno" in modo che il lettore potrà agevolmente seguirne lo sviluppo in sincronia con la mia lettura. 1 Era il mattino, e tra le chiuse imposte 2 Per lo balcone insinuava il sole 3 Nella mia cieca stanza il primo albore; 4 Quando in sul tempo che più leve il sonno 5 E più soave le pupille adombra, 6 Stettemi allato e riguardommi in viso 7 Il simulacro di colei che amore 8 Prima insegnommi, e po lasciommi in pianto. 9 Morta non mi parea, ma trista, e quale 10 Degl'infelici è la sembianza. Al capo 11 Appressommi la destra, e sospirando 12 Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna Luigi Fontanella 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 __ Serbi di noi? Donde, risposi, e come Vieni, ο cara beltà? Quanto, deh quanto Di te mi dolse e duoli né mi credea Che risaper tu lo dovessi; e questo Facea più sconsolato il dolor mio. Ma sei tu per lasciarmi un'altra volta? Io n'ho gran tema. Or dimmi, e che t'avvenne? Se tu quella di prima? E che ti strugge Internamente? Obblivione ingombra I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno, Disse colei. Son morta, e mi vedesti L'ultima volta, or son più lune. Immensa Doglia m'oppresse a queste voci il petto. Ella segui: nel fior degli anni estinta, Quand'è il viver più dolce, e pria che il core Certo si renda com'è tutta indarno L'umana speme. A desiar colei Che d'ogni affanno il tragge, ha poco andare L'egro mortal; ma sconsolata arriva La morte ai giovanetti, e duro è il fato Di quella speme che sotterra è spenta. Vano è saper quel che natura asconde Agl'inesperti della vita, e molto All'immatura sapienza il cieco Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara, Taci, taci, diss'io, che tu mi schianti Con questi detti il cor. Dunque sei morta, Ο mia diletta, ed io son vivo, ed era Pur fisso in ciel che quei sudori estremi Cotesta cara e tenerella salma Provar dovesse, a me restasse intera Questa misera spoglia? Oh quante volte In ripensar che più non vivi, e mai Non avverrà ch'io ti ritrovi al mondo, Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa Che morte s'addimanda? Oggi per prova Intenderlo potessi, e il capo inerme Agli atroci del fato odii sottrarre. Giovane son, ma si consuma e perde La giovanezza mia come vecchiezza; 264 'Il sogno' 53 La qual pavento, e pur m'è lunge assai. 54 Ma poco da vecchiezza si discorda 55 Il fior dell'età mia. Nascemmo al pianto, 56 Disse, ambedue; felicità non rise 57 Al viver nostro; e dilettossi il cielo 58 De' nostri affanni. Or se di pianto il ciglio, 59 Soggiunsi, e di pallor velato il viso 60 Per la tua dipartita, e se d'angoscia 61 Porto gravido il cor; dimmi: d'amore 62 Favilla alcuna, ο di pietà, giammai 63 Verso il misero amante il cor t'assalse 64 Mentre vivesti? Io disperando allora 65 E sperando traea le notti e i giorni; 66 Oggi nel vano dubitar si stanca 67 La mente mia. Che se una volta sola 68 Dolor ti strinse di mia negra vita, 69 Nol mel celar, ti prego, e mi soccorra 70 La rimembranza or che il futuro è tolto 71 Ai nostri giorni. E quella: ti conforta, 72 Ο sventurato. Io di pietade avara 73 Non ti fui mentre vissi, ed or non sono 74 Che fui misera anch'io. Non far querela 75 Di questa infelicissima fanciulla. 76 Per le sventure nostre, e per l'amore 77 Che mi strugge, esclamai; per lo diletto 78 Nome di giovanezza e la perduta 79 Speme dei nostri dì, concedi, ο cara, 80 Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto 81 Soave e tristo, la porgeva. Or mentre 82 Di baci la ricopro, e d'affannosa 83 Dolcezza palpitando all'anelante 84 Seno la stringo, di sudore il volto 85 Ferveva e il petto, nelle fauci stava 86 La voce, al guardo traballava il giorno. 87 Quando colei teneramente affissi 88 Gli occhi negli occhi miei, già scordi, ο caro, 89 Disse, che di beltà son fatta ignuda? 90 E tu d'amore, ο sfortunato, indarno 91 Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio. 92 Nostre misere menti e nostre salme 265 Luigi Fontanella 266 93 Son disgiunte in eterno. A me non vivi 94 E mai più non vivrai: già ruppe il fato 95 La fé che mi giurasti. Allor d'angoscia 96 Gridar volendo, e spasimando, e pregne 97 Di sconsolato pianto le pupille, 98 Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi 99 Pur mi restava, e nell'incerto raggio 100 Del sol vederla io mi credeva ancora. Il Canto — lo si vede subito — è composto essenzialmente da un dialogo fra una donna che appare in sogno al poeta e il poeta stesso. La conversazione viene intercalata da alcuni brevi momenti di riflessione ο di descrizione (tre in tutto), più una sorta di preludio teso a fornire la "scena" nella quale si svolgerà il dialogo fra i due. Cinque volte parlerà la donna, quattro il poeta; quindi, complessivamente, il Canto si articola strutturalmente in dodici segmenti, più uno introduttivo ο preparatorio. Nel preludio Leopardi chiarisce subito che egli ha avuto il sogno nelle primissime ore del mattino ("primo albore"). È un particolare importante, perché subito dopo Leopardi sottolinea il fatto che esso fa il suo ingresso proprio "quando in sul tempo che [è] più leve il sonno." Giacomo ha in mente, evidentemente, la tradizione onirologica da lui già trattata in "Dei sogni," capo quinto del "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi," segnatamente laddove sulla scia di Acrone, antico scoliaste di Orazio, viene data particolare importanza ai sogni "veduti dopo mezzanotte ο verso il mattino," perché allora "l'animo più libero, mentre lo stomaco è sgombro dalle pituite, è disposto a vedere sogni veritieri" (Leopardi I 1997, 884). Altro particolare importante è il fatto che la luce di questo "primo albore" non invada la stanza, ma filtri (Leopardi usa il verbo "insinuarsi") "tra le chiuse imposte / Per lo balcone" (quest'ultimo, toponimo squisitamente leopardiano): una luce "obliqua," parziale, impedita; una luce, insomma, che non potendosi diffondere completamente dalla sua sorgente contribuisce a creare, insieme con l'oscurità che essa corrompe, uno stato d'incertezza e di indistinzione; uno stato indefinito dal quale non possono che scaturire "idee indefinite." È uno stato che egli stesso risottolineerà di lì a poco (settembre 1821), ossia a pochi mesi della composizione del "Sogno" nello Zibaldone [1745]: 'Il sogno' _ 267 Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, ο con certi impedimenti ecc. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole ο della luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ecc. ecc. (Il corsivo è di Leopardi). Una situazione, un'ora, che, un secolo dopo, un pittore metafisico come De Chirico avrebbe definito enigmatica, di forte suggestione ottica e psicologica, estremamente feconda per l'imaginaire dell'artista (De Chirico 1971, 133). Accanto a questi due motivi prettamente riguardanti la dinamica onirica legata alla trattazione teorica e letteraria che Leopardi ben conosceva, da Artemidoro a Macrobio, a Niceforo, ecc., per proseguire con la poesia di Teocrito, Mosco — proprio nei primi versi del "Sogno" Leopardi ha presente il II idillio del poeta siracusano da lui tradotto (Santagata 1994, 95; ma il riferimento è presente già nello StraccaliAntognoni 1939, 42) — Orazio, Ovidio, Tibullo, ecc., c'è quello, personale, della propria biografia, che la critica non ha mancato di rilevare. Mi riferisco a un passo tratto dai "Ricordi d'infanzia e di adolescenza," relativo a un episodio del maggio 1819 nel quale s'imbatte nel "bel viso" di Teresa Brini, sua coetanea, per la quale Giacomo provò un immediato turbamento e un'attrazione amorosa così intensa che — scriverà subito dopo — "mi avrebbe proprio eroificato e fatto capace di tutto e anche di uccidermi." Nel ricordo della Brini compaiono alcuni dettagli gestuali e comportamentali, che Leopardi riferisce a un sogno avuto la notte seguente l'incontro con la ragazza; dettagli che il poeta trasferirà poi nell'idillio: alludo, in particolare, alla concitazione del dialogo, la richiesta del baciare la mano, e il sussultante risvegliarsi dal sogno ma con ancora nella mente e negli occhi il viso della fanciulla desiderata: una dinamica "fìsica" che ritornerà puntualmente nel "Sogno." È forse anche per questo che uno studioso attento, come il Marti, a conclusione di un suo agguerrito excursus leopardiano, ha potuto affermare che in questo Canto "il sogno vivo ed erotico della Brini s'è fuso col sogno malinconico, deluso e addolorato della Fattorini, giacente anch'essa come pura potenzialità Luigi Fontanella 268 poetica e memoria psicologica [...]. Il 'nascemmo al pianto' della Fattorini tempera l'ardore vivace ('con un bel fazzoletto in testa vestita di rosso') della Brini nell'intimità dell'incontro sognato" (Marti 1978, 37). Che la donna apparsa in sogno a Leopardi sia da identificare incontestabilmente con Teresa Fattorini mi pare fuor di dubbio per almeno due motivi: il primo perché è la donna stessa a dichiarare che è morta da vari mesi ("mi vedesti / L'ultima volta, or son più lune," vv. 23-24), informazione decisiva, chè la morte di Teresa risale al 30 settembre 1818. Se la data di composizione del "Sogno" — come ho cercato di dimostrare all'inizio — risale plausibilmente al 1821, non ci sono dubbi che il lasso di tempo che intercorre fra i due eventi è ragionevolmente quantificabile in "più lune," ο "gran tempo," come appariva nella prima edizione del Canto. Il secondo motivo risiede nella descrizione che nel "Sogno" viene fatta della "infelicissima fanciulla," ricalcante esattamente quella di "A Silvia." Più avanti, fra l'altro, vedremo che nel "Sogno" vengono anticipati stilemi che ritorneranno puntualmente in "A Silvia." Né, ovviamente, "il simulacro" può identificarsi con la Geltrude Cassi Lazzari, cugina di Monaldo (che al tempo in cui Leopardi scriveva "Il Sogno" era ancora ben viva; morirà nel 1853), benché quel "colei che amore / Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto" (vv. 7-8) potrebbe — ma solo velatamente — farlo supporre, stando a quanto Giacomo ci ha lasciato scritto nel Diario del primo amore. Dunque, sulla natura avverbiale di quel "prima" (v. 8) non dovrebbero esserci dubbi. Se mai, fra il ricordo reale e doloroso della Fattorini, quello fisico ma irrelato della Brini (irrelato perché tra l'altro la Brini non morirà che nel 1882), e quello adolescenziale per la Cassi (improponibile perché scaturito soltanto grazie alla duttilità squisitamente poetica di quel "prima"), potrebbe inserirsi quello di Serafina Basvecchi (Mestica 1901), celebrata nella Canzone "Per una donna inferma di malattia lunga e mortale" (marzo-aprile 1819), ma, di nuovo, su un piano puramente speculare, in quanto in questa Canzone non ci sono precisi riferimenti amorosi per questa donna inferma, ma solo quelli, importanti ma indeterminati, della fisica "beltà" e della innocente "giovanezza" che nulla valgono di fronte alla "implacanda sorte" della morte. È anche vero, una volta identifica l'intera geografia onomastica che sta dietro al "Sogno," che poi, dal punto di vista prettamente poetico, come già a suo tempo scrisse il Russo, risultano 'Il sogno' 269 superflue come curiosità aneddotiche le ricerche dei biografi, che vogliono identificare questa ο quella donna leopardiana. Lo spunto della realtà è sempre minimo ed è rapidamente sorpassato, e tutto è un fingersi nel pensiero. Anche la donna del "Sogno" più che allusione a una vicenda biografica, è il perpetuo idoleggiamento della giovinezza acerbamente spenta (Russo III 1954, 65). Il che è verissimo, ma anche generico, e a mio parere non rende giustizia ai tanti, troppi particolari concreti e circostanziali che emergono dal dialogo fra Giacomo e questa donna per far sì che quest'ultima sia da considerarsi soltanto come semplice "idoleggiamento della giovinezza acerbamente spenta." A tale proposito anche le indubbie rispondenze petrarchesche (Rime, CCCLIX e "Trionfo della morte," II) relative ai vv. 8-16, messe in evidenza dalla critica (vi hanno insistito, tra gli altri, il Flora (1948, 194), il Fubini (1964, 124), e, moderatamente, Dotti (1998, 61-63), sono diluite nella versificazione leopardiana, tanto che c'è chi, in anni più recenti, le ha addirittura rifiutate (Rigoni 1987,949). Più probanti (e diretti) i rimandi allo stesso Leopardi: abbiamo visto quelli riguardanti lo Zibaldone e le varie altre prose e poesie leopardiane. A queste ultime, anche su un piano stilistico, vanno inoltre aggiunti, per completare il quadro di riporto a monte del "Sogno," i riferimenti alla linea idillica moschiano/tassiana rinvenibili nella Telesilla (1819): "che 'Il sogno' prosegue in forme mature [...] con accentuate sfumature elegiache che, nelle forme elocutive, ricorre ampiamente alle ripetizioni acustiche e lessicali" (Santagata 1994,94-5), e quelli, su un piano prettamente elegiaco, al "Coro dei morti" nell'operetta morale Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie (Rigoni 1987, 949), estensibili anche a luoghi delle "Ricordanze," "Passero solitario," "A Silvia," "Consalvo" (ancora Rigoni), e quelli, infine, a "Amore e morte" (in particolare: Dell'Aquila 1995, 55; e Ceragioli 1979, 307; quest'ultima, per quanto riguarda la morte, rovesciandone il ruolo, in quanto nel "Sogno" essa tronca ogni speranza d'amore e di giovinezza, mentre in "Amore e morte" "risana" e "ogni gran male annulla"). Torniamo ora al momento in cui nella "cieca stanza" (nella Vita solitaria troveremo un "chiusa stanza") appare di colpo "il simulacro" della donna. Uso di proposito la locuzione "di colpo" in quanto l'apparizione della donna non è mediata da nessuna progressione dinamico-circostanziale. In quel nudo e diretto "stettemi a lato" Leopardi quintessenzia d'un subito la figura della giovane in tutta la sua Luigi Fontanella 270 assoluta astanza e flagranza. Mi rendo conto che sto usando una terminologia relativa alla critica d'arte. Ma il "quadro" iniziale che appare agli occhi del lettore del "Sogno," è proprio tale, e tale rimarrà, inalterato, per tutta la durata del Canto. La sua fruizione è prima di tutto visuale, con alcuni dettagli e scorci precisi (il letto su cui Giacomo sta dormendo, la donna seduta al suo fianco, la sua mano che s'appressa al capo del giovane, la luce che filtra "tra le chiuse imposte"): un quadro di un realismo vermeeriano straordinario nel quale i giochi di luce e ombra contribuiscono a dargli quel carattere chiuso, prezioso, intimo, magico, esclusivo. Il ricorso a Vermeer è meno peregrino di quanto possa sembrare. Suo ambiente d'elezione è l'interno, creato secondo regole di geometrica purezza; penso poi al soggetto ricorrente dei suoi quadri; la donna fermata in un attimo immutabile e misterioso, mentre su tutto domina la luce, a volte diffusa e profonda, altre con pénombre pulviscolali tale da diventare sostanza stessa delle cose. La fruizione visiva della donna da parte del giovane sognante ο in dormiveglia è sconvolgente quanto immediata. È un particolare di forte suggestione e carica evocativa che non è mai stato messo abbastanza in rilievo dalla critica, ma che a me pare costituisca uno dei momenti di maggiore incantamento di questo idillio. Quel nudo, efficacissimo "stettemi a lato" fra l'altro rafforza lo stato ipnagogico cui ho accennato all'inizio. Insomma, l'ombra della giovane non ha una progressione di avvicinamento, non "si annuncia," ma è; agli occhi del lettore e a quelli di Giacomo essa è già astante e il giovane la coglie in tutta la sua conturbante flagranza. Va poi sottolineato un altro aspetto, per certi versi un po' paradossale e contraddittorio, che però costituisce un ulteriore motivo di fascino seduttorio: la donna che appare a Giacomo è morta, e il rapportarsi amoroso quanto impossibile del giovane verso di lei consiste proprio nel "paradosso" che esso viene agito e perseguito da un essere vivo verso un essere morto; e tuttavia, in tutta la sua durata, in particolare nella prima parte, la confabulazione assumerà i connotati reali di una vera e propria conversazione svolta tra due esseri viventi, con quella dialettica tipica del dialogo d'amore: ora pausata, ora concitata, ora premurosa, ecc., fino a culminare nella febbrile richiesta di un bacio che, negato per necessità dalla donna, riporterà Giacomo al risveglio dal suo stato allucinatorio. Lo struggente rincorrersi delle domande e delle risposte, in un dialogo subito improntato a una sua fisicità, è del resto confermato dalla 'Il sogno' 271 reazione di sorpresa effettiva e di curiosità tutta umana con cui, all'esordio interrogativo, ex abrupto, della donna, Giacomo replica: "[...] come vieni, ο cara beltà?" Beltà è il termine che il giovane usa primamente per denominare la donna, un termine sulla cui natura prima fisica, poi come immagine ideale e "vaga," non ci possono essere dubbi, anche perché è stilema che Leopardi userà qualche anno dopo quasi nello stesso modo in "Alla sua donna" (settembre 1823). Che a "beltà," nella tassiana accezione di "donna bella" (Gabrielli 1989,475), bisogna dare un valore prima di tutto fisico e non ideale (o non solo ideale), è confermato dal fatto che al dormiente la donna appare seduta sulla sponda del suo letto e con la mano destra che si avvicina con naturalezza al suo capo: una fruizione, pertanto, da parte del giovane, che nella sua flagranza (insistito su questo termine) non può che essere prima di tutto sensoriale. E la domanda esordiale della giovane ("Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna / Serbi di noi?") contiene non solamente una sorta di ragionamento a monte (come a dire: "sicché tu vivi," "tu dunque vivi, e conservi ancora il ricordo di noi due?"), ma una schiettezza tale che Giacomo non può non recepire (e ad essa controbbattere) nello stesso modo, usando, appunto, per la donna, l'espressione "cara beltà." Voglio dire, insomma, che nel "Sogno" viene fin dall'inizio ribadita quella "fisicità che articola il rapporto dialogico" (Negri 1987, 96), che a me pare costituire uno dei tratti più fecondi e marcanti di questo intero tête-à-tête, che dobbiamo immaginare tutto svolto nel chiuso di una stanza e nello spazio assai ristretto che va dalla donna seduta sul letto al giovane su di esso coricato. Infine, ma non alla fine, la natura prima di tutto fisica del Beltà (v. 14), viene ulteriormente confermata negli ultimi versi del Canto (vv. 88-9), allorché la donna, in quanto puro simulacro, non potrà accettare (recepire nella sua natura fisica) i baci con cui fremente, ma inutilmente, il giovane "ricopre" la sua mano; la donna gli dirà: "[...] già scordi, ο caro, che di beltà son fatta ignuda?", come dire, in altre parole: già dimentichi che "sono ormai priva del mio del bel corpo?" (Sanguineti 1977, 110). È in questo spazio intimo e ristretto che si svolge l'intenso, concentratissimo dialogo, con un crescendo, da parte di Giacomo, sùbito significato dall'incalzare delle sue numerose domande: ben quattro in poco più di tre versi (vv. 18-20), senza nemmeno voler prendere in considerazione la prima (v. 14), doppia, un po'ingenua, ma assai tenera, tesa a conoscere il luogo e in quale modo la donna è giunta fino a lui. Sono domande letteralmente palpitanti che gli fanno quasi Luigi Fontanella 272 "dimenticare" (dato anche — ripeto — l'obiettivo "appressamento" della donna) il fatto che lei sia defunta; una "palpitazione" che trascende i limiti naturali di vita / morte. Alla "oblivione," e soprattutto alla concitazione del giovane, fa da contrappunto la "razionalità" e la staticità della donna, chiusa nella sua oltranza. E tuttavia l'occasione del sogno, che forse a questo punto saremmo tentati di definire meglio come rêverie, ovvero una "fantasticheria" (Ugniewska 1988, 75), sulla lunghezza d'onda del "Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare" cui prima ho fatto riferimento, serve anche per mettere a fuoco la relazione di interscambiabilità fra dimensione reale, rappresentata dal giovane dormiente, e quella irreale del simulacro della donna che gli appare di fronte, in un continuum magicamente sospeso da cui scaturisce irresistibilmente quel delicato alone di fantastico nel quale si articola tale relazione. È in parte quanto ha rilevato in una pagina assai penetrante Claudio Colaiacomo analizzando "Il sogno" (Colaiacomo 1995, in Asor Rosa, Vol. III, 395): L'essenza è una forma poetica di presenza, e viceversa la presenza, l'Io, è un riflesso dell'altro. La complementarietà contradditoria di tale relazione è adombrata verso il centro del componimento [...]. L'Io non può credere che la donna non viva più e, non per nulla, si domanda cosa sia la morte, dal momento che la stessa morte, l'assenza, il disgiungersi definitivo dalla persona amata sono, al tempo stesso, la forma del perpetuo ritornare di lei. È significativo che dopo la sfilza concitata di domande e, per contro, la pacata, icastica risposta della donna, subentri, strutturalmente, il primo dei momenti riflessivi ("Immensa / Doglia m'oppresse a queste voci il petto" vv. 24-25). È un ritorno alla brusca realtà, e alla consapevolezza da parte del soggetto della morte della donna, che sembra preparare il terreno alle sue amare considerazioni (vv. 26-37). La triste presa di coscienza del poeta è sottolineata da quell'Immensa, parola che "così isolata dal suo sostantivo, grandeggia, e ha quasi il valore di un predicativo" (De Robertis 1978, 188). La donna riporta Giacomo alla realtà e il dirgli "mi vedesti / L'ultima volta, or son più lune" non solo è per noi preziosa indicazione sull'identità del personaggio evocato, ma ribadisce il fatto che adesso il giovane non sta veramente vedendo la donna (l'ha vista l'ultima volta mesi prima), ma sta avendo di lei (cioè di Teresa/Silvia: potremmo a questo punto ben dirlo) solo una visione, ridimensionando, pertanto, la 'Il sogno' 273 pura illusione (oblivione) che gli aveva fino a quel momento ottenebrato la mente. Nelle due lunghe allocuzioni successive, rispettivamente della giovane (vv. 21-37) e del giovane (vv. 37-55) i rimandi lessematici al Canto "A Silvia" sono, del resto, frequenti, a cominciare da quel "nel fior degli anni estinta" (v. "A Silvia," v. 43), per proseguire con "l'umana speme" (in "A Silvia," v. 59), fino a culminare in quel "tenerella" del v. 42, che in "A Silvia" sarà, per strano gioco del destino scrittorio, ricollocato esattamente al v. 42, anche se qui l'aggettivo verrà usato "con maggiore leggerezza" (Russo 1954, 653). Nell'eloquio teso, amaro, ma anche contenuto, della donna (il suo simulacro ha il "potere" di vedere oltre, e vedere da oltre, la dimensione vivente umana), il giovane, che in lei si rispecchia, confermerà a se stesso che la morte è crudele quanto indifferenziante. Siamo arrivati ai versi ispirativi principali dell'intero Canto, su cui occorrerà soffermarsi un momento. La morte è violenta, inconsulta, quando essa colpisce i giovani, i quali vengono cacciati sotto terra, portandosi con sé tutte le speranze con le quali hanno nutrito la propria giovinezza. La morte precoce viene cosi vista come un destino spietato ("duro è il fato") quanto intollerabile, che è "come dire feroce" (De Robertis, 189). Siamo al culmine della riflessione centrale, disperante, che sta alla base di tutta la speculazione leopardiana dal '20 in poi, ovvero quella della "Giovanezza" negata, sconosciuta, se non nel desiderio, e, al contempo, quella della Speranza che nei giovani è coltivata invano se la Morte arriva intempestiva a cancellarla. La Morte dunque, concluderà apoditticamente la donna, è messaggera crudele, epperciò sconsolata: nessun conforto può lenirla. Dirà acutamente il De Robertis: "È più forte. Tanto più forte! Tale cioè che nessuna sapienza libresca può consolare" (De Robertis, 190). Viene in mente il cupo monologo iniziale del Faust goethiano, al quale a nulla è valso "studiare filosofia, giure, medicina e, purtroppo, anche teologia," discipline che non gli hanno procurato gioia, amore e vero sapere; tutta la dottrina da lui imparata non è (stata) in grado di fargli capire il mistero della vita e della morte: [...] Potessi conoscere l'intima forza che tien congiunto il mondo, discernere le energie e gli elementi, e smetterla di baloccarmi con le parole. Oh se stanotte per l'ultima volta tu vedessi la mia pena, ο plenilunio, che tante volte mi trovasti qui vegliando in sulla Luigi Fontanella 274 mezzanotte, quando, ο malinconico amico, mi apparivi raggiando sulle mie carte e sui libri! (Goethe 1965, 17). E Leopardi appunterà, in una sorta di ideale controcanto, in due luoghi dello Zibaldone, rispettivamente il 2 agosto 1821 e il 29 giugno 1822 (dunque scritti proprio a ridosso di questo Canto): [...] E crede pienamente a' poemi e romanzi, benché sappia che sono falsi, cioè se ne lascia persuadere che il mondo sia fatto e vada in quel modo, e crede di trovarlo così. Di maniera che le storie che dovrebbero fare per lui le veci dell'esperienza, e così pure gl'insegnamenti filosofici ecc. gli restano inutili, non già per capriccio, né ostinazione, né piccolezza d'ingegno, ma per opera universale e invincibile della natura (Zibaldone, 1437). Il giovane istruito da' libri ο dagli uomini e dai discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga [...] che il mondo e la vita per esso debbano esser composte d'eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d'entusiasmo; ma più veramente egli si persuade [...] che quel che gli è detto e predicato, cioè l'infelicità, le disgrazie della vita [...], il disprezzo delle passioni grandi, e de' sentimenti vivi, nobili, teneri ecc. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l'opposto [...] (Zibaldone, 2524). Senonché, mentre nel Faust la tragica consapevolezza del Nulla e della Morte, che nessuna sapienza libresca e umana può consolare, è recepita da un uomo adulto, un "dottore" giunto ormai alle soglie della vecchiezza, qui, nell'idillio leopardiano, quella tragedia è ancora più acuta perché a esserne colpita è una giovinetta, ossia una persona che ancora non ha una propria cultura, un'esperienza umana concreta (e che nessuna sapienza può in qualche modo alleviare). E pertanto nei giovani, morti prematuramente, prevale il dolore atroce per la propria sventura, non illuminato ancora dalla coscienza della universale infelicità e dalla naturale limitatezza delle nostre possibilità. Dirà su questo punto assiale del Canto, con illuminata chiarezza, il Fubini: "La conoscenza puramente intellettuale che un giovane può avere della vanità di ogni speranza non riesce ad aver ragione della sua disperazione" (Fubini, cito dal Felici I 1997, 95). Strutturalmente, i due lunghi interventi, rispettivamente del 'Il sogno' 275 "simulacro" (di 16 versi) teso a informare e disilludere Giacomo sul vero, e quello dell'Io (di 19 versi) teso a recepire la disillusione e di conseguenza a interrogarsi ragionandoci sopra ("che cosa è questa / Che morte s'addimanda?"), si distendono strategicamente nella parte centrale del Canto costituendone, per così dire, l'ossatura portante. A leggerli di seguito sembrano le riflessioni di un'unica persona, sdoppiata in due, tanto che alla fine del discorso dell'Io c'è una perfetta simbiosi di vedute e di autoriflessioni che accomunano da un lato "il fior degli anni estinto" della ragazza, e dall'altro l'inutile "giovanezza" del suo interlocutore, la quale "si consuma e perde come vecchiezza": i due stadi esistenziali differiscono ben poco e "la rima al mezzo avvicina tristamente le parole" (De Robertis, 191). Ben più commossa e partecipe è ora la reazione di Giacomo rispetto a quella precedente, all'inizio del Canto, che segnava ancora una fase di umana, trepidante curiosità. La donna ha toccato con mano il cuore del problema, il nucleo irreversibile cui il destino l'ha ridotta; il giovane l'ha recepito appieno facendolo suo e vedendone specularmente una coincidenza totale col suo destino. I tre versi posti esattamente al centro del Canto ("Giovane son, ma si consuma e perde ecc."), non solo sono "i versi più belli di tutto il componimento" (Russo, 653), ma sintetizzano la sua Weltanschauung in un filo psicologico doppio. Quasi tutta la critica leopardiana, su questo punto preciso del Canto, ha ricordato alcuni scritti di Giacomo stesi, significativamente, nello stesso arco di tempo in cui si colloca la composizione del "Sogno," che non starò qui a ripetere. Mi sia concesso, però, di estrapolare almeno due brevi frammenti che meglio ο più di altri veramente sembrano commentare questa raggiunta, amarissima presa di coscienza del Leopardi all'altezza del 1820-1821, ovvero all'epoca della sua più acuta prostrazione. [...] Sono moralmente vecchio, anzi decrepito, perché fino al sentimento e l'entusiasmo, che era il compagno e l'alimento della mia vita, è dileguato per me in un modo che mi raccapriccia. È tempo di morire. È tempo di cedere alla fortuna (Lettera a Pietro Brighenti del 21 aprile 1820). Un passo che si riallaccia a un altro, ben noto, contenuto in un'altra lettera scritta undici mesi dopo. Luigi Fontanella 276 La fortuna ha condannato la mia vita a mancare di gioventù; poiché dalla fanciullezza io sono passato alla vecchiezza di salto, anzi alla decrepitezza sì del corpo, come dell'animo [...]. E la mia vita esteriore ed interiore è tale, che sognandola solamente, agghiaccerebbe gli uomini di paura (Lettera a Giulio Perticari del 30 marzo 1821). È lo stesso tono e lo stesso contenuto che si ritrovano in un'altra lettera, anch'essa ben nota, indirizzata ad Angelo Mai nel medesimo giorno. La presa di coscienza del risolutivo destino che ha colpito Teresa/Silvia comincia proprio da quel "Dunque sei morta," che riecheggia il precedente "Or s'ella è morta" di "Per una donna inferma," ma mentre lì c'era ancora uno stacco descrittivo significato dall'uso della terza persona, qui nel "Sogno" Leopardi è passato a un diretto e drammatico tu ("taci, taci ecc."); un momento fra l'altro che rafforza l'intimità confidenziale dei due interlocutori, dialoganti in una distanza spaziale assai ravvicinata. Si capisce poi (e strutturalmente mi sembra aspetto assai significativo) perché dopo i due lunghi, singoli interventi (singoli ma, come abbiamo visto, specularmente intrecciati per la simbiosi affettiva che li connota) che segnano la fase assiale del Canto, si passi al "noi" ("nascemmo al pianto"), visto come condivisione di una dolorosa condizione, che pur non rifiuta il sarcasmo ("dilettossi il cielo / De'nostri affanni"). Trascorsa la fase distintiva delle due posizioni eloquiali, Giacomo cerca conforto di fronte a un "futuro tolto" a entrambi, e cerca la conferma di un amore, sia pure irrelato, non più terrenamente perseguibile, e tuttavia ancora vibrante nella rimembranza che esso può riverberare proiettandolo nel presente. Il colloquio onirico diventa, in questo frangente, l'unico tramite che possa permettere una sua "realizzazione," meglio, una sua attualizzazione nel presente. Il sogno "permette al disperato amante di sapere di essere stato corrisposto e dunque di avere, nell'assenza, quanto mai avrebbe potuto avere nella presenza" (Gioanola 1995, 451). È uno stato d'animo squisitamente petrarchesco che quasi tutta la critica non ha mancato di rilevare riportandolo a quel secondo capitolo del "Trionfo della morte." La rimembranza è davvero l'ultima àncora che lega il giovane alla vita, in quanto ad essa è congiunto qualcosa che fu vivo. Ritornano qui lucidissime e opportune alcune annotazioni dello Zibaldone (86-87). Ma a quella "favilla d'amore," riproposta dal colloquio onirico, la ragazza 'Il sogno' 277 non può, ormai, che opporre una dolce pietà, che come un ponte fantastico — l'unico possibile — unisce le due anime sventurate. Infelice il fato del giovane; "infelicissima" la sorte della fanciulla, un tempo "festosa." Annoterà De Sanctis, con parole accorate, limpide, e tuttora assai pertinenti: "È una fanciulla infelicissima perché tolta alla vita, quando amava ancora la vita. Ora è fuori di ogni illusione; pure, lamenta che la morte l'abbia tolta alle sue illusioni e abbia abbreviata la sua felicità. [...] Così il fatto particolare di una morte immatura acquista significato universale, l'elegia s'alza a tragedia" (De Sanctis 1983,102). E alla tragedia s'aggiunge, da parte del giovane, l'angoscia ("Allor d'angoscia / Gridar volendo"), derivante dalla consapevolezza che non soltanto Teresa non c'è (sta recependo solo la sua "larva"), ma che non c'è più: non c'è più un suo presente, e l'avvenire è sentito come perdita irreparabile ("a me non vivi / E mai più non vivrai"). Vengono in mente alcune toccanti riflessioni di Jean-Jacques Rousseau, opportunatamente riconducibili all'esperienza amorosa e alla poetica leopardiana: "[...] I suoi sguardi incantevoli, che mi parevano pieni d'amore, poiché me ne ispiravano: di questo si nutrivano le mie idee e ne fantasticavo deliziosamente [...]. Per me la previsione ha sempre sciupato il godimento. Ho visto il futuro solo perdendoci [...]" (Rousseau I 1955, 76). Sono parole distillate, di grande tenerezza e pessimismo. Su questo punto preciso un fine studioso, collaboratore di Jung, scriverà: "Qui è chiaramente espressa l'essenza della visione pessimistica del mondo, cioè la visione del 'futuro' come perdita ο perdere: perdita della possibilità di godere. [...] E questa perdita non ha per i melanconici i caratteri della previsione, ma dell'evidenza" (Binswanger 1971, 1977, 48; corsivi del Binswanger). E propriamente all'evidenza viene ricondotto il giovane attraverso le finali parole della donna. La quale, in quel guardare "teneramente" nei suoi occhi febbrili, concederà comunque di "porgere" la propria mano perché venga ricoperta di baci palpitanti, non importa inutilmente se questo è l'ultimo, impossibile desiderio del suo amante. È un momento di profonda pietà amorosa e di apparente "debolezza," un momento che, con un bel salto in avanti nel tempo, un grande scrittore di questo secolo, Milan Kundera, avrebbe definito di compassione, da intendersi come "co-sentimento," se facciamo derivare la parola non dalla radice "sofferenza" (passio), bensì dal sostantivo "sentimento." In questo caso compassione si bagna di una luce diversa che le dà un senso più ampio: avere compassione (co-sentimento) significa vivere Luigi Fontanella 278 insieme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore. Questa compassione (in ceco: soucit; in polacco: wspól-czucie', in tedesco: Mitgefühl; in svedese: med-känsla) designa quindi la capacità massima di immaginazione affettiva, "l'arte della telepatia delle emozioni. Nella gerarchia dei sentimenti è il sentimento supremo" (Kundera 1985, 28). In quel gesto del "porgere" la propria mano, Teresa concede la sua compassione a Giacomo e sembra dimenticare per un istante la sua natura fantasmatica. Ma sarà solo per un istante, ché subito si affretterà a cancellare questo struggente co-sentimento, visto che esso è possibile, quando possibile, solo fra esseri viventi ("già scordi, ο caro, / Disse, che di beltà son fatta ignuda?"). In quel gesto viene anticipata la glaciale figurazione di quella stessa mano con la quale Silvia, nel Canto omonimo, anni dopo, con planetaria malinconia, gli indicherà il vero ("una tomba ignuda"), e, ancora più tardi, e senz'altro in maniera enfatica e infelice, la figurazione ritornerà parzialmente nel Consalvo (vv. 28, 57-8, 83). In questo la donna si comporterà non diversamente dai Morti interrogati nel "Dialogo di Federico Ruysch"; "gli atti e le parole della fanciulla morta in questo 'Sogno' non sono sostanzialmente difformi da quel concetto," cosi Luigi Russo, via G. A. Levi (Russo, 654). Infine, il virgiliano congedo della donna ("Or finalmente addio"), calco esatto della traduzione leopardiana (Eneide II, 789), e il concomitante "risveglio" del giovane: un risveglio ambiguo, nell'"incerto raggio" che, con il perdurante effetto allucinatorio e "scotomatico" (Barthouil 1996,60), riconduce la chiusa del Canto, come in un'ideale cintura circolare, al suo inizio. L'effetto poetico è di grande forza evocativa, e lo si deve in gran parte proprio all'aggettivo incerto, cui viene affidato "il compito di ricreare, alla fine del componimento, quella preziosa suggestione d'indefinito entro cui esso si era iniziato" (Fubini, in Dotti 1998, 312). *** È tempo di tirare qualche riflessione conclusiva. Va prima di tutto ricordato e risottolineato che la stesura del "Sogno" cade in un periodo estremamente difficile per Leopardi. Ne fa fede l'intenso epistolario. Non mi sembra necessario aggiungere altri esempi probanti, oltre quelli già evidenziati nel corso della mia lettura del Canto. Sono anni, questi che vanno dal '19 al '21, nei quali la 'Il sogno' 279 critica leopardiana ha sempre segnalato la sua cosiddetta conversione filosofica che segue di pochi anni quella "letteraria," avvenuta fra il '15 e il ' 16, da Giacomo stesso denominata come passaggio "dall'erudizione al bello." Se nella prima Leopardi approfondisce profittevolmente di letture che vanno da Omero a Dante, passando per tutti i maggiori classici (con un intenso lavorìo traduttorio, ben sostenuto dalla sua erudizione filologica), e nel contempo, prendendo le distanze dalla letteratura settecentesca prima tanto magnificata, nella seconda, con il passaggio "dal bello al vero," Giacomo, ancorché giovanissimo (ha poco più di vent'anni), s'imbarcherà in un viaggio orrendo senza ritorno. Circondato dalla mediocrità di un ambiente domestico e paesano, ipocrita e codino il primo, asfittico e arretrato il secondo, non ha altra alternativa fra la noia planetaria che l'annienta e gli "istudi micidiali" (lettera al padre scritta a fine luglio 1819, in occasione del suo disperato tentativo di fuga; Russo, 895), che ormai hanno già minato alla base il suo fragile fisico (è proprio di questo periodo, inoltre, l'atroce infermità agli occhi). In questa "ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia" nascerà un Canto come "Il sogno," nel quale proiezione fantastica e (già) precoce rimembranza sono i segni perimetrali del cuore entro cui poter trovare uno sbocco, sia pure illusorio, alla propria solitudine, alla "miserabilissima vita," alla "strana immaginazione" (ancora dalla lettera al padre, 895). Coglie nel segno un fine leopardista quando afferma che a mettere in discussione l'idillio è talvolta proprio il ricordo ("Il sogno," "Le ricordanze"), "come ideologica e consapevole interpretazione di uno stato non più ripetibile" (Dolfi 1973,44). Effettivamente, i poli dai quali drammaticamente la rimembranza non riesce a staccarsi né dal presente né dal futuro, agiscono, in un Canto come "Il sogno," quali spie temporali nel cui interno la momentanea gioia del rammentare leopardiano deve fare puntualmente i conti con la sua limitatezza e la sua natura effimera. Da qui la constatazione che "nessuna immagine della natura può pensarsi distinta dalla rimembranza come disperato ricordo di un mondo di impossibile approdo; la sofferenza non è il ricordo, ma nella coscienza leopardiana che ne fa un 'mito' non più raggiungibile" (Dolfi, 44, corsivo mio). Del resto la "rimembranza," se escludiamo la sua presenza nel Primo amore, appare "per la prima volta nel rapporto con la donna" proprio nel "Sogno" (Bonifazi 1991, 158), e vi appare in maniera Luigi Fontanella 280 letteralmente drammatica, in quanto alla prima fase di trepidazione di fronte alla fulminea agnizione onirica della giovinetta — nella quale amore e ricordo d'amore si fondono nel tutt'uno di quel ritornato, delicatissimo sussulto amoroso — subentra la graduale consapevolezza della volatile apparenza del "simulacro." Il pathos del Canto è davvero "tutto raccolto nell'apparenza e nel destino di sparizione della stessa apparenza" (Prete 1998, 88). E — ancora Prete — una metafisica dell'apparenza, una volta disvelata, espone non il suo splendore, ma il suo patto con l'inesistenza. Anche qui la vita, come accadrà nel Coro dei morti, trasparirà nella sua vuota lontananza, nel brivido della negazione. È esattamente questa negazione fatale della vita, da parte di una natura che per contro dovrebbe esaltarne l'esistenza, ad avvilire l'io poetico del "Sogno." Nell'idillio in questione non è la mancanza dell'amante a suscitare rimpianti e crudele amarezza, ma è proprio la consapevolezza del suo non-ritorno, ovvero della sua sottrazione definitiva e violenta. Il 10 dicembre del 1821, proprio a ridosso del "Sogno," Leopardi annoterà nello Zibaldone: Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, ο una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta a finire, come la vita ο la compagnia della persona la più indifferente per lui, la gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita, ecc. Fuorché se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura [...] Solamente della noia non possiamo dolerci mai che sia finita. La cagione di questi sentimenti, è quell'infinito che contiene in se stesso l'idea di una cosa terminata, cioè al di là di cui non ν'è più nulla; di una cosa terminata per sempre, e che non tornerà mai più (Zibaldone, 2242-2243). Da qui il senso di struggente nostalgia, da intendersi nel suo intenso, polisemico etimo, che pervade soffusamente "Il sogno." La nostalghia leopardiana diventa allora non soltanto dolore per ciò ch'è stato e ora non c'è più, ma un sentimento fortissimo d'angoscia della fuga del tempo e la malattia del fatale enigma della vita. Nell'annotazione su riportata, Leopardi non lamenta una persona particolare ο un oggetto specifico che a un certo punto viene a mancare, ma qualunque cosa 'Il sogno' 281 soggetta a finire, e che non tornerà mai più. Il senso di "indeterminato" coincide con quello di "interminato" in chi assiste alla terminazione (alla sottrazione) di chi e di ciò che ci sta(va) vicino. È da questa ottica che nasce, in termini filosofici, la nichilistica contraddizione dell'essere leopardiano, come ha ben messo in rilievo recentemente Emanuele Severino in un suo denso volume sul pensiero del poeta recanatese. Il nichilismo della contraddizione e cioè del male, dell'infelicità, della sofferenza, non può liberarsi dalla contraddizione dell'essere. Come risultato dell'annientamento, il nulla non è semplice e puro nulla, ma è essere che è divenuto nulla, ossia è essere che è nulla, identità d'essere e nulla (Severino 1997, 466). *** È tempo di sottolineare adesso, anche sulla scorta di queste ultime riflessioni, l'incontrovertibile, straordinaria maturità — sia sul piano espressivo sia su quello tematico — del "Sogno," che solo in anni recenti ha trovato un maggiore e più convinto interesse da parte della critica (Marti, Rigoni, Dell'Aquila, Negri), rispetto al passato in cui furono espresse riserve ο critiche negative (Binni, Russo, De Robertis; salvo poi — questi ultimi due — a "rivalutare" il Canto nelle chiose a pie' di pagina, alcune delle quali di notevole intuizione e valore critico). Va ribadito, inoltre, che "Il sogno" non è un componimento "giovanile" nel senso che debba essere ritenuto un mero esercizio, come pure è stato scritto. Anche "L'infinito" e "La sera del di di festa," due vertici assoluti della lirica leopardiana, sono allora da considerarsi "giovanili," in quanto scritti nello stesso arco di tempo del "Sogno," insieme ad altri componimenti ugualmente significativi come "Il passero solitario" e "Alla luna." Accanto a questi Canti a me pare che "Il sogno" non presenti affatto uno scarto qualitativo minore, né, decisamente, "un tono troppo blando e dolciastro" (Binni). Restano infine due altre importanti osservazioni da fare sul particolare carattere strutturale di questo idillio. La prima risiede nella situazione descritta nel Canto, tutta chiusa in un "quadro" immobile e inalterato all'interno del quale, tuttavia, c'è una forte mobilità e concitazione dialogica. Questi due elementi, l'uno di natura visuale, l'altro di natura fonica, mi sembrano costituire i perni attorno a cui ruota la pregnanza del Canto e al contempo la sua sottile fascinazione, quella che in parte — più accentuata nella dimensione Luigi Fontanella 282 mnestica — ritornerà in "A Silvia." Quest'ultimo è sì Canto parecchio posteriore e più maturo ma, come abbiamo visto, tematicamente e stilisticamente assai legato al "Sogno," e più rilevata diventerà quella che un critico ha felicemente definito la "libido vocativa," a mio avviso già perfettamente in nuce nel "Sogno" (Agosti 1972, 39-43; cito dal recente volume curato da Novella Bellucci 1988, 149). L'elemento visuale risiede naturalmente nella visione e concomitante agnizione del simulacro, che trascina con sé l'aspetto enantiosemico (Lepschy 1988, 185), ovvero di un soggetto linguistico polisemico (in questo caso il soggetto è la "visione" che da un lato rappresenta realisticamente Silvia/Teresa, dall'altro il suo aspetto illusorio evocato nello/dallo stato ipnagogico in cui si trova il sognante). Una dinamica della visione per necessità contrastiva tra quanto effettivamente recepibile con la vista e quanto c'è di invisibile (nel senso di non recepibile in quanto "spettro" ο larva), insomma, fra reale e immaginario, fra tangibile e intangibile, fra distinguibile e indistinguibile; tutte condizioni derivabili da quello stato di demisommeil che ha nutrito tanta letteratura moderna. Ho citato prima l'esempio testuale di De Chirico, ma a questo punto si potrebbero portare esempi letterari ben più celebri e probanti: da certi interni di scintillante seduzione e di forte suggestione visiva di A rebours di Huysmans, alle indimenticabili pagine iniziali della Recherche, quando Proust scopre la magica intimità delle cose che lo circondano, allorché vengono colte sulla soglia tra sonno e veglia, quando esse, cioè, si caricano di significati multipli che vanno e vengono fra passato e presente, tra un'esistenza anteriore e un'altra che la nostra capacità immaginativa e sensoriale è in grado di materializzare nella nostra psiche. Ο si potrebbe fare l'esempio, di pochi anni precedente l'iniziale stesura del primo capitolo della Recherche proustiana, di Visione, primo abbozzo narrativo di Thomas Mann nel quale il soggetto scrivente si abbandona a una propria rêverie, "sfumante nell'oscurità," vagamente erotica, e un certo punto compare una fanciulla che in passato aveva amato l'io narrante, gettandolo ora, grazie a questa visione, nella più profonda commozione. Tutto sommato una situazione, abbastanza vicina a quella descritta nel "Sogno," con, in aggiunta, il particolare inquietante della mano della giovinetta sulla quale "pulsa la vita, lentamente, violentamente palpita la passione" (Mann 1978, 22). E la tela dei rimandi, tutta articolata nello stesso torno di anni, che vanno dall'ultimo scorcio dell'Ottocento ai primi anni del Novecento, potrebbe continuare 'Il sogno' 283 fino ad arrivare alla conturbante Gradiva di Jensen via Freud (1906). Ma, volendo restare in contesto italiano, come non ricordare almeno due noti componimenti pascoliani: La tessitrice e Il bacio del morto? Nel primo, facente parte dei Canti di Castelvecchio, il poeta si siede su una "panchetta" e accanto a lui immagina di ritrovarvi una fanciulla di cui fu innamorato, ma che mori prematuramente a vent'anni. Anche qui, come nel "Sogno," alle domande insistenti del poeta l'infelicissima ragazza risponderà: "Mio dolce amore, / non t'hanno detto? Non lo sai tu? / Io non son viva che nel tuo cuore." Nell'altra poesia (Il bacio del morto) compare ugualmente la scenografia del "Sogno," e non è improbabile che Pascoli dovette tenere ben presente l'idillio leopardiano se nella sua poesia compaiono alcuni stilemi tratti da quel Canto. La situazione interna è quasi analoga: alle prime luci dell'alba il poeta si sveglia con i tremiti dolorosi provocati da un mesto e lugubre sogno, che gli ha perfino lasciato "un solco sul labbro, che duole": allusione — contenuta già nel titolo della poesia — rinviante a "una credenza popolare: il trovarsi al risveglio una vescicola sul labbro è segno che si è stati baciati da un morto" (Baldacci 1982, quinta edizione, 142). Il poeta interroga ansiosamente (sette domande in appena quattro versi) questa larva che è venuta a trovarlo, con quel "donde vieni"? ch'è calco esatto del "Sogno." Infine la consapevolezza che il simulacro è "certo di quelli che amai, / Ma forse non so che sei morta [...]." Anche qui, come nel "Sogno," il poeta rimane nell'esitazione del mistero visuale (cui certo contribuisce anche la luce digradante che filtra dalle imposte), ma anche nel piacere indistinto, dolce, malinconico e perdurante che una tale visione gli ha destato. Su questo punto mi sia permessa un'ulteriore annotazione leopardiana, assai pertinente, scritta, tra l'altro, il 20 settembre 1821, anno in cui molto presumibilmente, come abbiamo visto, è da collocare la stesura del "Sogno." È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov'ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell'astro luminoso ecc. ecc. A questo piacere contribuisce la varietà, l'incertezza, il non vedere tutto, e il potersi perciò spaziare coll'immaginazione, riguardo a ciò che non si vede (Zibaldone, 1745). Dove colpisce la geniale precocità della speculazione leopardiana, perfino in anticipo su alcune moderne teorie del vedere; penso in Luigi Fontanella 284 particolare a tutte quelle svariate e distinte classi di fenomeni classificate sotto la denominazione di "visione non cosciente" su cui Aldous Huxley ha scritto pagine assai penetranti, anche sulla base della sua personale infermità visiva (Huxley 1989,112-16; traduzione italiana di Giulio Gnoli). Su questo luogo preciso della speculazione leopardiana, e proprio relativa al passo dello Zibaldone su riportato, è intervenuto recentemente uno studioso di estetica, affermando che quando Leopardi sottolinea quel "potersi spaziare coll'immaginazione riguardo a ciò che non si vede," egli "introduce a una noesi dell'immaginazione, a un sapere dell'immagine che si propone costitutivamente di rendere visibile l'invisibile: di dare forma e immagine a ciò che è senza forma e senza immagine" (Rella 1997, 72). Una considerazione, quest'ultima, perfettamente applicabile alla dinamica svolta nel "Sogno." Alla dimensione visiva/visionaria di questo Canto va poi di forza aggiunta quella fonica/auditiva, tutta giocata nel serrato dialogo dei due interlocutori, fino a culminare, paradossalmente, per forza esaustiva, alla sconvolgente afonia conclusiva ("[...] di sudore il volto / Ferveva e il petto, nelle fauci stava / La voce"), potentissimo e poeticissimo calco virgiliano, rilevato dalla critica fin dal Carducci e dallo StraccaliAntognoni, ma sulla cui ampiezza di riferimenti classici ha poi riccamente discettato un fine latinista, e non soltanto latinista (La Penna 1991, 272-3). La voce dunque è davvero destinata, come ci ricorda la Ceragioli (1982, 173), a restare un veicolo formidabile della memoria, ed è quello che maggiormente caratterizza il personaggio femminile: dal "Primo amore" al "Sogno," da "A Silvia" alle "Ricordanze." Non mi resta, infine, che insistere sul carattere chiuso, assolutamente intimo di questo Canto. Ne ho già accennato qua e là nel corso del saggio. Ci devo ritornare a chiusura della mia analisi. Questo carattere chiuso (l'intero dialogo si svolge in una stanza in penombra) dà al "Sogno" un contrassegno di unicità all'interno di tutto il canzoniere leopardiano. Non c'è altro Canto, mi sembra, in cui si ripeta la stessa dinamica e la stessa "logistica." È vero che la dimensione onirica è già presente nel Frammento XXXVII ["Odi Melisso"], altrimenti denominato "Lo spavento notturno." Ma lì il sogno viene raccontato esternamente, nel senso che un personaggio (Alceta) descrive un sogno da lui avuto a un altro personaggio (Melisso), e, in ogni caso, si tratta di qualcosa che è al di fuori dei due dialoganti (la luna caduta su di un prato); diversamente da quanto accade nel "Sogno" i cui 'Il sogno' 285 "oggetto" trattato dai due dialoganti è rappresentato dal loro stesso sentimento e dal toccante ricordo del medesimo. Certo, nel corso dell'intero opus poetico (non sto considerando le prose delle Operette dove ovviamente il dialogo è massicciamente presente) ci saranno altri momenti di dialogo e, soprattutto, di soliloquio ("Aspasia," "Consalvo," ecc.), ma a me sembra che questo carattere d'intimità amorosa e raccolta, interamente circoscritta nel chiuso e breve spazio in cui s'intreccia il sommesso dialogo dei due amanti, dia al "Sogno" davvero un suggello di unicità. In questa "cieca stanza" vertiginosamente si condensa, come non mai, sentimento della memoria e sentimento del tempo di cui il sogno si fa veicolo portante. Con un colpo d'ala davvero straordinario Leopardi anticipa una sua poetica della rêverie e quel "complesso indissolubile" che intercorre tra immaginazione e memoria (Bachelard 1972, 109) su cui tanto insisteranno non pochi poeti nella prima metà di questo secolo: da Rilke a Pessoa, a Pasternak, a Ungaretti fino a Breton che lo teorizzerà in uno scritto magistrale del '35 (ora in Breton 1976, 570-93). Con "Il sogno" Leopardi scavalca la dicotomia di "vita" e "morte" in un loro ideale congiungimento autre che permette al sognatore un altrimenti impossibile unione con la donna amata, e a lui violentemente sottratta da un intollerabile destino. Una tematica che ritornerà in vari altri Canti successivi, ma con modalità differenziate da questo idillio che vive davvero di quel "brivido autenticamente romantico con cui vita e morte sono sospese e quasi assimilate alla dolorosa magia del sogno" (Rigoni-Damiani 1987, 950). Un'esperienza unica che s'irradia spettralmente nella penombra e nel silenzio di una stanza cieca, e che Leopardi, "poeta dei silenzi del mondo" (Della Terza 1979, 194) sarà in grado di far uscire fuori, attraverso la sua poesia, e portarcerla intatta e vibrante fino a noi, in tutta la sua vertigine sovratemporale. LUIGI FONTANELLA The State University of New York, Stony Brook, New York OPERE CITATE Questa rassegna contiene, in odine alfabetico, sia le fonti bibliografiche relative ai riferimenti critici posti in parentesi nel corso del mio saggio, sia altre Luigi Fontanella 286 pubblicazioni consultate per "Il sogno." Le citazioni leopardiane sono tratte dall'edizione integrale diretta da Lucio Felici, in due volumi, rispettivamente intitolati Tutte le poesie e tutte le prose, Zibaldone (Roma: Newton Compton, 1997). Per le varie edizioni dei Canti ho usato nel saggio le abbreviazioni e le sigle oggi convenzionalmente adottate dalla critica e riproposte dal Felici, e cioè: Nr26 ("Nuovo Ricoglitore" di Milano, n. 12, gennaio 1826); B26 (Versi I del conte GIACOMO LEOPARDI / Bologna 1826 / dalla Stamperia delle Muse); F (Canti / del conte GIACOMO LEOPARDI / Firenze / presso Guglielmo Piatti / 1831); Ν (Canti / di / GIACOMO LEOPARDI / Edizione corretta, accresciuta, / e sola approvata dall'autore / Napoli / Presso Saverio Starita / Strada Quercia n. 14 / 1835). Colgo l'occasione per ringraziare Emilio Giordano per i preziosi materiali bibliografici messimi a disposizione. A lui è dedicato questo mio saggio. Mi è grato, inoltre, ricordare Dante Della Terza che per primo lesse il mio manoscritto e gli sono riconoscente per le sue osservazioni critiche. Agosti, Stefano. Il testo poetico. Milano: Rizzoli, 1972. Bachelard, Gaston. La poetica della reverie. Bari: Dedalo Libri, 1972. Baldacci, Luigi. Il male nell'ordine. Milano: Rizzoli, 1998. Barthouil, George. La vie vécue en vain. Avignon: Département d'Italien de la Faculté des Lettres, 1996. Binni, Walter. La protesta di Leopardi. Firenze: Sansoni, 1977. Binswanger, Ludwig. Melanconia e mania. Torino: Boringhieri, 1971, 1977, trad, di Maria Marzotto. Blasucci, Luigi. I titoli dei "Canti" e altri studi leopardiani. Napoli: Morano Editore, 1989. . Leopardi e i segnali dell'infinito. Bologna: il Mulino, 1985. Bonifazi, Neuro, in AA. VV., Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento. Firenze: Olschki, 1978. . Leopardi. L'immagine antica. Torino: Einaudi, 1991. Brioschi, Franco. La poesia senza nome. Milano: il Saggiatore, 1980. 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