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8 marzo, Amnesty: fermiamo il femminicidio in Italia

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8 marzo, Amnesty: fermiamo il femminicidio in Italia
8 marzo, Amnesty: fermiamo il femminicidio in Italia
di Monica Ricci Sargentini
Donne
In occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale delle donne, Amnesty International Italia ha
nuovamente ribadito l’urgenza di fermare gli alti livelli di violenza domestica e le crescenti
uccisioni di donne in quanto donne, da parte di uomini, che caratterizzano l’Italia.
“La situazione è allarmante, come ricordato nel rapporto sull’Italia, pubblicato nel 2012, dalla
Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne – ha dichiarato Christine
Weise, presidente di Amnesty International Italia – In Italia la violenza domestica sta sfociando in
un crescente numero di uccisioni di donne per violenza misogina”.
Negli ultimi 10 anni, ha ricordato Amnesty International Italia, il numero di omicidi da uomo su
uomo è diminuito, mentre è aumentato il numero di donne uccise per mano di un uomo: oltre 100
ogni anno. Secondo le ultime statistiche fornite dalla Casa delle Donne di Bologna che raccoglie
dati sul feminicidio dal 2005: sono 124 le donne uccise nel 2012. In leggero calo rispetto al 2011
quando le vittime erano state 129. Ma nel dato del 2012 vanno anche conteggiati i 47 tentati
femminicidi che, fortunatamente, non hanno portato alla morte della donna. E le 8 vittime, tra figli
e altre persone (che portano il totale a 132). Vittime italiane nel 69% dei casi, così come gli
assassini (73%). Il 60% dei delitti è avvenuto nel contesto di una relazione tra vittima e autore, in
corso o conclusa. Nel 25% dei casi le donne stavano per porre fine alla relazione o l’avevano già
fatto.
Le regioni del nord restano quelle in cui i delitti sono più frequenti (52%) a dimostrazione che, si
legge nel rapporto della Casa delle Donne, “laddove le donne vivono situazioni di maggior
autonomia e indipendenza, e sono meno propense ad accettare di subire violenza e disparità di
potere nella relazione esse sono anche maggiormente a rischio di finire vittime della violenza
maschile”. L’Emilia-Romagna è tra quelle in cui si realizza il maggior numero di casi, con 15 eventi,
preceduta solo da Lombardia e Campania. Dal 2006 in Emilia-Romagna sono state 78 le donne
vittime di femminicidio, mentre a Bologna dal 2009 sono state uccise 3 donne all’anno con
un’incidenza pari al 30,5% rispetto alla media regionale.
L’appello di Amnesty è rivolto al governo perché si impegni a combattere il fenomeno: “Per
contrastare adeguatamente queste violazioni dei diritti umani, le istituzioni italiane devono
ratificare al più presto la Convenzione del Consiglio d’Europa del 2011 sulla violenza contro le
donne e devono mettere in campo un impegno serio e determinato per dare attuazione alle
raccomandazioni del rapporto della Relatrice speciale. Tra le richieste, ricordiamo quella di
adottare una legge specifica sulla parità di genere e sulla violenza contro le donne” ha affermato
Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia.
L’associazione per i diritti umani ritiene che la società nel suo complesso e in particolare gli organi
d’informazione dovrebbero essere sensibilizzati sulla violenza contro le donne, anche al fine di una
rappresentazione non stereotipata delle donne e degli uomini nei media. I centri di accoglienza
per donne vittime di violenza andrebbero mantenuti e aumentati, assieme alla garanzia di un
adeguato coordinamento tra la magistratura, la polizia e gli operatori sociosanitari che si occupano
della violenza contro le donne.
Anche la Casa delle donne di Bologna chiede che vengano destinate risorse ai centri antiviolenza,
che siano rafforzate le reti di contrasto alla violenza tra istituzioni e privato sociale qualificato e
che sia effettuata una corretta formazione degli operatori sanitari, sociali e del diritto perché “più
donne possano sentirsi meno sole, possano superare la paura e divenire consapevoli che
sconfiggere e sopravvivere alla violenza è possibile”.
Alle donne vittime di violenza la Rai dedica la giornata di oggi, illuminando di rosa i principali
palazzi dei suoi Centri di produzione a Milano, Torino, Roma e Napoli.
SORELLE MIRABAL
Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal nacquero a Ojo de
Agua provincia di Salcedo nella Repubblica Dominicana da una famiglia benestante. Combatterono
la dittatura(1930-1961) del dominicano Rafael Trujillo, con il nome di battaglia Las Mariposas (Le
farfalle).
Il 25 novembre 1960 Minerva e Maria Teresa decidono di far visita ai loro mariti, Manolo Tavarez
Justo e Leandro Guzman, detenuti in carcere. Patria, la sorella maggiore, vuole accompagnarle
anche se suo marito è rinchiuso in un altro carcere e contro le preghiere della madre che teme per
lei e per i suoi tre figli. L’intuizione della madre si rivela esatta: le tre donne vengono prese in
un’imboscata da agenti del servizio segreto militare, torturate e uccise.
Il loro brutale assassinio risveglia l’indignazione popolare che porta nel 1961 all’assassinio di
Trujillo e successivamente alla fine della dittatura.
Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 54/134, dichiara
il 25 novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne in loro
memoria.
La militanza politica delle tre sorelle Mariposas era iniziata quando Minerva, la più intellettuale
delle tre, il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal, organizzata dal dittatore per la
società più ricca di Moca e Salcedo, aveva osato sfidarlo apertamente sostenendo le proprie idee
politiche.
Quella data segna l’inizio delle rappresaglie contro Minerva e tutta la famiglia Mirabal, con periodi
di detenzione in carcere per il padre e la confisca dei beni per la famiglia.
Minerva mostra fin da bambina un carattere forte e indipendente e una grande passione per la
lettura, il suo paese e la libertà. La sua influenza sulle sorelle è notevole, soprattutto su Maria
Teresa, la più piccola, che la prende a modello e cerca di emularla negli studi universitari,
iscrivendosi ad Architettura, facoltà che non termina, conquistando soltanto il grado tecnico in
Agrimensura.
Maria Teresa segue Minerva giovanissima nella militanza politica, dopo essersi fidanzata con un
altro attivista politico, Leandro Guzmàn, amico del marito di Minerva.
Dopo la conclusione degli studi superiori Minerva chiede ai genitori il permesso di studiare Diritto
all’Università (suo grande sogno fin dall’infanzia), ma la madre di oppone: conoscendo le sue
spiccate idee politiche, teme per la sua incolumità. Per consolarla del diniego il padre le permette
di imparare a guidare e le regala un automobile su cui, con grande audacia per i tempi, scorrazza
da sola per tutta la provincia.
Ma nel 1952, all’età di ventisei anni, Minerva riesce a iscriversi all’Università di Santo Domingo,
che frequenterà fra divieti e revoche. Dopo la laurea però non le viene consentito l’esercizio della
professione.
Minerva, unica donna insieme a Dulce Tejada in un gruppo di uomini, il 9 gennaio del 1960 tiene
nella sua casa la prima riunione di cospiratori contro il regime che segnò la nascita
dell’organizzazione clandestina rivoluzionaria Movimento del 14 giugno e il cui presidente fu suo
marito Manolo Tamarez Justo, assassinato nel 1963.
Minerva fu l’anima del movimento «Durante un’epoca di predominio dei valori tradizionalmente
maschili di violenza, repressione e forza bruta, dove la dittatura non era altro se non l’iperbole del
maschilismo, in questo mondo maschilista si erse Minerva per dimostrare fino a che punto ed in
quale misura il femminile è una forma di dissidenza». (Dedè Mirabal)
Ben presto nel Movimento 14 giugno, oltre alla giovanissima (quando fu assassinata aveva
soltanto venticinque anni) Maria Teresa e al marito, che già da anni erano attivisti politici, furono
coinvolti anche la materna e solidale Patria e il marito Pedro Gonzalez.
Patria aveva abbandonato gli studi presso una scuola secondaria cattolica di La Vega (come farà
Dedé per badare all’attività familiare) per sposare a sedici anni un agricoltore. Patria è molto
religiosa e generosa, allegra e socievole; si definisce “andariega”, girovaga, perché ama molto
viaggiare. Era madre di quattro figli (ma l’ultimo visse soltanto pochi mesi) e non esita ad aderire al
movimento per « non permettere che i nostri figli crescano in questo regime corrotto e tirannico».
La loro opera rivoluzionaria è tanto efficace che il Dittatore in una visita a Salcedo esclama: «Ho
solo due problemi: la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal».
Nell’anno 1960 Minerva e Maria Teresa vengono incarcerate due volte; la seconda volta vengono
condannate a cinque anni di lavori forzati per avere attentato alla sicurezza nazionale, ma a causa
della cattiva reputazione internazionale di Trujillo dopo l’attentato al presidente venezuelano
Betancourt, vengono rilasciate e messe agli arresti domiciliari.
Anche i loro mariti e il marito di Patria, Pedro Gonzalez, vengono imprigionati e torturati.
Trujillo progetta il loro assassinio in modo che sembri un incidente, per non risvegliare le proteste
nazionali e internazionali; infatti i corpi massacrati delle tre eroine vengono gettati con la loro
macchina in un burrone.
L’assassinio delle sorelle Mirabal provoca una grandissima commozione in tutto il paese, che pure
aveva sopportato per trent’anni la sanguinosa dittatura di Trujillo. La terribile notizia si diffonde
come polvere, risvegliando coscienze in letargo.
L’ unica sorella sopravvissuta, perché non impegnata attivamente, Belgica Adele detta Dedé, ha
dedicato la sua vita alla cura dei sei nipoti orfani: Nelson, Noris e Raul, figli di Patria; Minou e
Manuelito, figli di Minerva, che avevano perso il padre e la madre, e Jaqueline figlia di Maria
Teresa, che non aveva ancora compiuto due anni. Dedé esorcizzerà il rimorso per essere
sopravvissuta alle amatissime sorelle dandosi il compito di custode della loro memoria:
«Sopravvissi per raccontare la loro vita». Nel marzo 1999 ha pubblicato un libro di memorie Vivas
in su jardin dedicato alle sorelle, le cui pagine sono definite come «fiori del giardino della casa
museo dove rimarranno vive per sempre le mie farfalle».
La loro vita è stata narrata anche dalla scrittrice dominicana Julia Alvarez nel romanzo Il tempo
delle farfalle (1994), da cui è stato tratto nel 2004 il film di Mariano Barroso In The time of
Butterflies, con Salma Hayek.
25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Un giorno che dovrebbe
diventare tutti i giorni. Giorni in cui dire basta,fare proposte,metterle in atto. Giorni in cui chiedere
a gran voce che governo e parlamento si adoperino al più presto per la ratifica della Convenzione
di Instanbul.
Ci vorrebbero uno, cento, mille 25 novembre. Tanti 25 novembre per chiedere che venga
introdotta l’educazione sessuale nelle scuole.Tanti 25 novembre in cui supportare i centri
antiviolenza, i centri di ascolto e fare in modo che la scure dei tagli non si abbatta su questi
preziosi strumenti.
Tanti 25 novembre in cui passare dalle parole ai fatti. Fatti che servono a combattere sul nascere il
germe della violenza. Tanti 25 novembre in cui chiedere al giornalismo di cambiare linguaggio.
Nessuna donna infatti muore di passione, di caldo o di follia. Le donne vittime di violenza
muoiono a causa di una cultura sbagliata ormai radicata nella nostra società. Una cultura che vede
le donne come corpi da esibire, come merce da possedere.
Tanti 25 novembre in cui chiedere agli uomini di camminare al nostro fianco, di camminare
insieme, di lottare con noi affinché le cose cambino sul serio.
Tanti 25 novembre per arrivare al giorno in cui non ci sarà più bisogno di un 25 novembre.
Che cosa ha di umano una società
che non sa proteggere i bambini?
di Anna Costanza Baldry Resp. sportello antistalking 'Astra'
Tags: violenza
A CURA DEGLI ALLIEVI CORSO D
In Siria da marzo 2011 a gennaio 2012 è stata compiuta una strage che continua tutti i giorni. Il
portavoce dell’Unicef, Marixie Mercado ha dichiarato che si stimano oltre 400 bambini
massacrati dall’inizio dei bombardamenti.
Di fronte ai bambini, chiunque dovrebbe e deve abbassare le armi, tutte, quelle da fuoco ma
anche armi in cui si trasformano le mani che strangolano, che picchiano che accoltellano,
che uccidono, che diventano micidiali.
Quando anche questo unico baluardo, questa unica certezza spariscono dall’umanità,
possiamo solo dire che la fine del mondo è già arrivata e che può accadere di tutto.
Venti bambini sono stati uccisi da un pazzo criminale nella loro scuola, nel Connecticut.
Non riesco a non pensare ininterrottamente ai loro visi terrorizzati, ai loro corpicini straziati,
al loro sguardo incredulo che non comprende neppure cosa sta accadendo, ai loro regali di
Natale che non vedranno mai, ai loro genitori, a una vita che per tutti si è fermata lì. E non
era la prima volta.
Sono vittime che non potranno mai capire che il mondo è comunque un posto bellissimo
dove, comunque vada, tutto ha un senso. Pian piano anche loro se ne sarebbero accorti e
avrebbero affrontato la loro vita con gioie, tristezze, dolori, speranze, amore.
Uccidere un bambino è quanto di più inconcepibile con cui noi essere umani ci dobbiamo
confrontare. Perché i bambini sono di tutti, nel senso che sono la gioia di tutti che rallegra
ogni giornata grigia; sono la speranza del futuro e del cambiamento, sono l’innocenza della
sincerità dei sentimenti e dei vissuti.
E non si sa bene che dire, perché qualunque cosa sarebbe inadeguata.
Come non saprei cosa dire ai tre bimbetti di Giovanna uccisa dal marito Giovanni a San Felice a
Cancello. Erano in casa quando la loro mamma è stata uccisa dal loro papà; erano nell’altra
stanza e una di loro ha anche chiamato la nonna perché papà stava facendo del male a
mamma.
E non sono stata neppure capace di sapere cosa dire ai due bimbi di Beatrice che non hanno più
la mamma, strangolata sapremo fra non molte ore da chi a Montecatini.
Ogni anno oltre alle cento e più donne uccise, ci sono altrettanti bambini che
improvvisamente rimangono orfani della loro mamma spesso uccisa dal loro stesso
padre. Psicologicamente è come morire, è come aver ucciso anche loro.
Questi uomini che uccidono le mamme dei loro stessi figli, non solo uccidono quelle
donne, ma stanno uccidendo anche i loro figli perché gli portano via quanto di più caro e
prezioso hanno. Questo non è amore, non voglio che venga chiamato amore, né amore
malato, né gelosia, né amore criminale. E’ omicidio e basta, è violenza e basta, è crudeltà e
basta, è vigliaccheria e basta.
A questi bambini voglio dare voce, rispettandoli per sempre ma anche portando sulla
coscienza la macchia di una umanità che ha perso ogni diritto di chiamarsi tale che non è
stata capace di proteggerli.
CARMELA
PERTUCCI
Navigano su Internet, si esprimono liberamente sui social network, sono costantemente
connessi, si intrattengono in incontri erotici on line. Spesso inconsapevolmente si danno al
cyberbullismo. Un fenomeno diffuso soprattutto nella scuola secondaria superiore e
caratterizzato da comportamenti come l'attaccare qualcuno in rete o attraverso il cellulare, il
diffondere maldicenze online e foto/video compromettenti, l'escludere qualcuno da un social
network, il violare account altrui o crearne di falsi, e l'aggredire qualcuno in un gioco online.
È Una delle tante fotografie degli adolescenti emiliano-romagnoli scattate dal Corecom nella
ricerca "stili di vita on line e offline degli adolescenti in Emilia-Romagna". La ricerca ha
coinvolto 3 mila adolescenti che hanno compilato un questionario online e ha avuto l'obiettivo
di indagare l'utilizzo dei media e delle tecnologie, gli stili di vita e i comportamenti a rischio tra
gli adolescenti della Regione Emilia-Romagna, fornendo una visione articolata e complessa
dei diversi contesti di esperienza o nline e offline vissuti dagli adolescenti.
Non solo cyberbullismo dunque. Dai risultati emerge una crescita del disagio con il passaggio
dalla scuola secondaria di primo grado alla scuola secondaria di secondo grado, e una
maggiore difficoltà di adattamento riportata dai ragazzi stranieri che più degli altri segnalano
problemi comportamentali, rapporti problematici tra pari, sintomi emozionali e problemi
psicologici. Degna di attenzione una percentuale comunque minoritaria che ha
comportamenti problematici legati all'uso e all'abuso di alcol, droghe e tabacco. L'ultimo tema
approfondito è la percentuale di ragazzi che intrattengono incontri erotici online (8%).
Sono soprattutto i maschi a dichiarare di aver avuto incontri online con persone conosciute o
meno (riposta l'agenzia Dires-redattore sociale). "La ricerca è importante perchè pone
l'attenzione su fenomeni prima di tutta da comprendere, e a volte non è affatto facile - spiega
Primarosa Fini, responsabile del Corecom Emilia-Romagna - i destinatari di questo studio
sono sopratutto genitori ed educatori. Spesso si vigila su ciò che succede nella vita reale e
non si dedica la giusta attenzione alla vita on line dei ragazzi. Per poter lavorare con loro,
parlare la loro lingua, sensibilizzarli e renderli più consapevoli è utile prima di tutto capire
come si comportano".
HOLLY
GROGAN
UK adolescente di Holly Grogan, 15, tormentato da messaggi su Facebook si uccide
Aggiornato: 05 Mar 2010Condividi questa notizia? ... Fare clic sulla casella
Per saperne di più su di Holly Grogan
scuola di St Edward
Inquest: Holly Grogan foto di Facebook e, a destra, festeggia il suo compleanno
'Bullismo': Holly frequentato la scuola di St Edward in Cheltenham, Gloucestershire, dove
sarebbe stato schernito dai compagni di classe
Una ragazza di 15 anni è passato da un ponte alla sua morte dopo essere stato vittima di
bullismo da compagni di classe presso la sua scuola privata.
Agrifoglio Grogan era stato tormentato da insulti di persona e da messaggi su Facebook più
di accuse che aveva una relazione con il fratello di un'altra ragazza.
Agrifoglio è stato detto di essere stato molto turbato dalle accuse e morì poche ore dopo dopo
essere caduto 30ft su una strada trafficata a due.
Ieri il padre Steve Grogan, 45, ha detto a un'inchiesta di suo rammarico di non sollevare
questioni di bullismo con il personale presso la Scuola di 11.000 a un anno £ St Edward in
Cheltenham, Gloucestershire.
Signor Grogan, un costruttore, ha detto che poco prima di morire la figlia era stata felice di
essere stato invitato alla festa di un allievo del collega.
Il giorno dopo, durante una lezione di PE, tre ragazze accusata di andare a letto con un
amico di 17 anni, fratello, che lei ha negato.
Sig. Grogan ha detto l'inchiesta: 'Holly ha detto loro domande e accuse sconvolta e fatta
piangere. Le ragazze ha continuato a dire che Holly non dovrebbe andare alla festa. '
Ricordando la mattina dopo, quando ormai il corpo di sua figlia era stata trovata sulla A40, il
signor Grogan ha continuato: 'Mia moglie Anita andò a svegliare Holly e notato il suo letto non
era stato dormito dentro
'C'era una nota sulla scrivania. Credo che sono stati i fatti del giorno che hanno fatto pendere
agrifoglio oltre il bordo. '
Nella sua lettera di Holly ha scritto: 'Non voglio fare nomi, ma vorrei solo che la gente
potrebbe imparare a perdonare e dimenticare e di essere più attento alle persone e
permettere alle persone di andare avanti.'
Mr Grogan ha aggiunto: 'Non abbiamo mai posto il problema del bullismo con la scuola.
'Holly certamente non vogliono farci e, col senno di poi, abbiamo voluto avere. E 'stata la
decisione sbagliata.'
Uno degli amici di Holly ha detto l'inchiesta: 'Ci sono state tre ragazze che diffondono voci su
di lei e chiamato i suoi nomi.
'Hanno anche composto da una sindrome chiamata "HGS", Holly Grogan sindrome, che è
stato messo su Facebook e discusso da altre ragazze.'
Il corpo di Holly è stato trovato sulla strada sotto Pirton Corsia Ponte, In Churchdown,
Gloucestershire, in ritardo il 16 settembre 2009, lo stesso giorno del confronto con le tre
ragazze della sua scuola mista.
Registrazione di un verdetto di suicidio all'inchiesta in Gloucester ieri il vice coroner David
Dooley ha detto Holly compagni di classe erano 'si configura come arbitro morale su qualcosa
quando non ha niente a che fare con loro'.
Dopo la sua morte, i genitori di Holly ha detto: 'Holly lottato per far fronte alle enormi pressioni
su di lei poste dalla complessità dei moderni "gruppi di amicizia" e social networking.
'Sono sicuro che ogni genitore responsabile sarà entrare in sintonia con la nostra battaglia
costante per infondere convinzione e fiducia nei nostri figli.'
FONTE: www.dailymail.co.uk
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Diritti delle donne: In Bolivia una legge contro il
femminicidio
Roma, 11 marzo 2013 - Nel Codice penale della Bolivia, è stata introdotta la nuova norma contro
"la violenza e l'omicidio di una donna a causa della sua condizione di femminilità". E' stato così
riconosciuto il reato di "femminicidio". La pena prevista è la più elevata mai riconosciuta
all'interno del diritto boliviano: 30 anni, senza alcun diritto di grazia.
Quella firmata ieri (10 marzo n.d.r.) da Evo Morales, nel corso di una cerimonia tenutasi nel
Palazzo del Governo a La Paz, alla presenza delle rappresentanti di alcune organizzazioni indigene
e di attiviste per i diritti umani, è una una norma estremamente complessa, in cui nulla pare
essere stato lasciato al caso e che si compone di ben 100 articoli. Qui, si individuano varie tipologie
di violenza: da quella fisica a quella psicologica, a quella sessuale e "riproduttiva", fino a quella
economica e "mediatica". Inoltre, per garantire maggiore tutela e sicurezza alle vittime sono stati
introdrotti una task force della polizia esclusivamente dedicata, nonché speciali tribunali e pubblici
ministeri.
Lo scopo di questa legge non più "procrastinabile", come sottolineato dallo stesso Morales, è
quello di "garantire una vita libera da violenze di genere", in un Paese in cui almeno 403 donne
sono state barbaramente uccise negli ultimi 4 anni. Un orrendo valore che non intende certo
ridursi oggi, nel 2013: nei primi 58 giorni del 2013, infatti, 21 persone di sesso femminile sono
state ammazzate entro i confini nazionali boliviani.
Combattere la violenza sulle donne è un'emergenza che travalica i confini della Bolivia.
L'introduzione di questa norma è un esempio che molti altri paesi, tra cui l'Italia - più volte
"bacchettata" dalla stessa UE - dovrebbero accingersi a seguire. Al più presto possibile.
24 febbraio 2013La strage delle donne
Napoli: donna uccisa dal marito, sale a 6 numero omicidi nel 2013Napoli, 14 feb. (Adnkronos) Morta dopo 3 giorni di agonia per le ferite provocatole dal marito, Vincenzo Carnevale, poi
arrestato dai carabinieri, sale a 6 il numero delle persone uccise dall'inizio del 2013. Le ultime due
vittime sono entrambe di sesso femminile. Prima di Giuseppina Di Fraia un'altra donna era stata
uccisa a colpi di pistola dal figlio [Repubblica - Napoli].
Si riuscirà finalmente a fare qualcosa per fermare la strage delle donne: questa scia di sangue che
uccide una donna ogni 3 giorni?
Donne uccise dal marito o dall'ex marito dopo una separazione. Dal fidanzato o dal convivente.
Donne che diventano casi di cronaca, a delitto ancora caldo, per poi tramutarsi, finita
l'indignazione, in freddi numeri di una statistica che interessa a pochi.
Eppure basterebbe poco: certo, un cambio di cultura che richiede un certo numero di anni. Una
cultura che insegna ai futuri uomini il rispetto delle donne. Rispetto della loro indipendenza,
rispetto delle loro scelte.
E la politica potrebbe fare molto, investendo nell'educazione scolastica. Dando fondi certi ai centri
antiviolenza, affinché le donne maltrattate in casa non siano costrette a rimanere nella mani del
loro (futuro) carnefice non sapendo dove andare.
Nel resto dell'Europa sono riusciti a ridurre i numeri di questa statistica che è una nostra vergogna.
Quando ci impegneremo veramente anche in Italia?
Sono più di 100, le donne uccise nel 2012: Iacona e i suoi collaboratori hanno girato l'Italia per
raccontare i loro casi, questa sera a Presa diretta “Strage di donne”.
Il sinossi della puntata:
In uno speciale viaggio durato due mesi Riccardo Iacona vi racconta da vicino le storie delle tante
donne uccise nel nostro Paese, un numero che negli ultimi anni non accenna a diminuire.
E' dal 2006, infatti, che la statistica delle donne uccise nel nostro paese è in continuo aumento fino
alle centodieci donne uccise nel 2012 , quasi una ogni tre giorni. Quasi tutte uccise dai mariti, ex
mariti, fidanzati, ex fidanzati, cioè dalle persone che gli stavano più vicino, che conoscevano
meglio, spesso dal padre dei loro figli. Di queste storie la cronaca ci racconta tutto, anche i dettagli
più terribili, le trenta coltellate, gli ottanta colpi di mattarello, le botte prima dell’annientamento
fisico. Ma la cronaca non mette mai queste storie l’una a fianco all’altra, le tratta come fossero
storie singole, nate dentro un rapporto d’amore sbagliato, donne morte per passione, per
possesso, per gelosia. E cosi questa cronaca uccide le donne una seconda volta, perché cancella
del tutto quello che queste morti ci stanno gridando, ogni tre giorni , dai marciapiedi delle nostre
citta’ : “LIBERTA’”,“INDIPENDENZA”, “AUTONOMIA”, ecco cosa ci gridano queste storie.
Tutte le donne vengono uccise infatti nel momento in cui vogliono riprendersi la vita in mano,
lasciare l’uomo con cui stavano e riprendersi la libertà. Martiri per la libertà sono le tante donne
uccise nel nostro Paese, nell’indifferenza generale, nella rimozione e nell’assenza di politiche
attive volte ad arginare l’endemica violenza di cui le donne italiane sono oggetto e ridurre la
statistica delle donne uccise ogni anno.
STRAGE DI DONNE è un racconto di Francesca Barzini, Giulia Bosetti, Sabrina Carreras e Riccardo
Iacona
Il libro di Riccardo Iacona “Se questi sono gli uomini”, Chiarelettere editore.
PS: è giorno di elezioni. Protestate pure, indignatevi, votate chi volete (ma poi non fate gli ipocriti
andandovi a nascondere).
Angela Gennaro.
Le vittime di omicidio da parte di partner o ex partner sono passate da 101 nel 2006 a 127 nel
2010.
In contemporanea in diverse città d’Italia, nei giorni scorsi sono state accese migliaia di fiaccole
per ricordare Stefania Noce. Uccisa da un uomo che dice di aver amato «più della sua vita». Luci e
fiamme per lei e per tutte le donne vittime di violenza, volute da «Se non ora quando» di Catania,
da tutta Snoq e da tante associazioni e organizzazioni politiche. In tutto il mondo, la violenza
maschile è la prima causa di morte per le donne: in Italia sono aumentate del 6,7% nel 2010. La
violenza di compagni, mariti, o ex è la prima causa di morte per le donne dai 15 ai 44 anni. «Con
dati statistici che vanno dal 70% all’87% la violenza domestica risulta essere la forma di violenza
più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il Paese», ha detto la relatrice speciale delle
Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, al termine della sua visita ufficiale in
Italia.
Le vittime di omicidio da parte di partner o ex partner sono passate da 101 nel 2006 a 127 nel
2010. Molte violenze non vengono neppure denunciate, per quello che è ancora il contesto
italiano, «patriarcale e incentrato sulla famiglia». Vi è di più: capita ancora che la violenza
domestica non venga percepita come reato. E «un quadro giuridico frammentario e
l’inadeguatezza delle indagini, delle sanzioni e del risarcimento alle vittime sono fattori che
contribuiscono al muro di silenzio e di invisibilità che circonda questo tema».
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta
alla violenza nei confronti delle donne firmato a Istanbul lo scorso maggio da 10 stati europei. La
piattaforma italiana «Lavori in Corsa: 30 anni CEDAW», D.I.Re (Donne in Rete contro la violenza), e
l’UDI (Unione Donne italiane), ne chiedono in questi giorni l’immediata ratifica. E un triste primato
tutto italiano è quello di vedersi affibbiata in un documento ufficiale delle Nazioni Unite la parola
«femminicidio». In questo lo Stivale è insieme al Messico, condannato nel 2009 dalla Corte
interamericana per i diritti umani per il femminicidio di Ciudad Juarez. Una storia della quale si
parla poco e dai confini ancora troppo incerti: centinaia di donne, più di 500, violentate e uccise
nella totale indifferenza delle autorità dal 1993. E altrettante sarebbero scomparse. Donne,
ragazze e bambine (bambine) uccise ma prima sequestrate, torturate, mutilate, violentate (ed è un
eufemismo) nello Stato di Chihuahua. I cadaveri straziati – nei corpi ancora in vita inseriti oggetti a
beneficio di giochi erotici (anche questo è un eufemismo) mortali – buttati nella monnezza, o
sciolti nell’acido. Secondo alcune denunce, si sarebbero macchiati di questi crimini anche uomini
delle forze dell’ordine. Ma tanto, nonostante l’aumento della violenza contro le donne, il dibattito
politico in paesi come il Messico e il Guatemala continua secondo molti osservatori ad archiviare
tutti questi orrori come un danno collaterale della grande guerra del narcotraffico.
Nel 1985 l’Italia ha ratificato la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione
contro le donne (CEDAW) adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel ’79, impegnandosi ad
adottare «misure adeguate per garantire pari opportunità a donne e uomini in ambito sia pubblico
che privato». Il monitoraggio dei risultati avviene ogni quattro anni. Gli Stati firmatari presentano
un rapporto governativo con tutti gli interventi portati avanti per raggiungere i risultati richiesti
dalla Cedaw. Oltre al rapporto governativo, in parallelo e autonomamente anche la società civile
redige un proprio rapporto, il «Rapporto Ombra». Il Comitato Cedaw, composto da 23 esperti
provenienti da tutto il mondo, eletti dagli Stati firmatari, esamina entrambi i rapporti e formula le
proprie raccomandazioni allo Stato, che è tenuto a considerarle nell’ottica dell’avanzamento delle
donne nella società e a risponderne negli anni successivi.
L’organismo delle Nazioni Unite ora ha chiesto all’Italia un aggiornamento entro due anni (invece
dei canonici quattro) sulle misure adottate. Le ultime raccomandazioni fatte al nostro Paese,
pubblicate il 3 agosto, sono state finalmente pubblicate sul sito delle Pari Opportunità in lingua
italiana solo in questi giorni. Tra quattro anni sarà la volta di un nuovo rapporto periodico, il
settimo da quando esiste la Convenzione. Nelle raccomandazioni del 2011, il Comitato Cedaw ha
accolto con favore l’adozione della legge del 2009 che introduce il reato di stalking in Italia, «il
Piano di Azione Nazionale per Combattere la Violenza nei confronti delle donne e lo Stalking, così
come la prima ricerca completa sulla violenza fisica, sessuale e psicologica nei confronti delle
donne, sviluppata dall’Istat». Azioni che, però, non bastano: «il Comitato rimane preoccupato per
l’elevata prevalenza della violenza nei confronti di donne e bambine nonché per il persistere di
attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica, oltre ad essere preoccupato per la
mancanza di dati sulla violenza contro le donne e bambine migranti, Rom e Sinte». E qui l’affondo:
«Il Comitato è inoltre preoccupato per l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o expartner (femminicidi), che possono indicare il fallimento delle Autorità dello Stato-membro nel
proteggere adeguatamente le donne, vittime dei loro partner o ex-partner».
«Femminicidio» è la distruzione fisica, psicologica, economica, istituzionale, della donna in quanto
tale, della donna che non rispetta il suo ruolo. Il termine è stato coniato per i fatti di Ciudad Juarez,
e ha fatto il giro del mondo. Barbara Spinelli, avvocato di Giuristi Democratici, tra le associazioni
della società civile che si occupano del Rapporto Ombra rappresentante della piattaforma Lavori in
Corsa – 30 anni CEDAW, ne parla in un libro scritto già nel 2008. «Femminicidio. Dalla denuncia
sociale al riconoscimento giuridico internazionale». Già, perché tante sono e sono state nel tempo
le richieste delle organizzazioni che si occupano di diritti umani di riconoscimento giuridico del
femminicidio come reato e crimine contro l’umanità. Questo, si legge nella descrizione del libro,
per «individuare il filo rosso che segna, a livello globale, la matrice comune di ogni forma di
violenza e discriminazione contro le donne, ovvero la mancata considerazione della dignità delle
stesse come persone».
Ai sensi della Convenzione Cedaw, spiega Barbara Spinelli a Linkiesta, «lo Stato ha delle
obbligazioni note internazionalmente come le 4P»: prevenire la violenza sulle donne, attraverso
un’adeguata sensibilizzazione, proteggere le donne che decidono di uscire dalla violenza,
perseguire i reati commessi e procurare riparazione alle donne, supporto psicologico e sostegno
all’ingresso nel mondo del lavoro. Inutile dire che, per le 4P, l’Italia potrebbe fare di più. «Il
rapporto presentato dal governo italiano al Comitato Cedaw non dedica un capitolo specifico alla
violenza sulle donne come richiesto», spiega la giurista. E «illustra troppo genericamente i
provvedimenti che l’Italia ha preso». Quello che manca è «l’inquadramento della violenza
dell’uomo sulle donne come carattere culturale». Le violenze si consumano soprattutto in famiglia,
e soprattutto quando una famiglia si sta spaccando: ecco perché si auspica l’introduzione del
divorzio breve. «La violenza sulle donne non è frutto di raptus, ma dalle relazioni di genere. E
l’incapacità di adattare un’ottica di genere si riflette in un’inadeguatezza», dice la Spinelli.
Inadeguatezza e non sistematicità nella formazione degli operatori sanitari, sociali, delle forze
dell’ordine e dei magistrati, «che costituiscono il primo ostacolo concreto alla protezione delle
donne». Su 10 femminicidi, 7.5 sono stati preceduti da denunce alle forze dell’ordine o agli
operatori sociali. «Quindi c’è una risposta inadeguata da parte dello Stato», spiega Barbara. Il
comitato Cedaw «si dice appunto preoccupato per l’elevato numero di femminicidi che
potrebbero evidenziare una responsabilità dello Stato nel non dare alle sue azioni in questo
ambito carattere strutturale e culturale». Garantendo, tanto per cominciare, il risarcimento alle
vittime. Ad oggi in Italia «la legge europea che prevede il risarcimento per le vittime è stata
attuata per le vittime della violenza negli stadi, ma non per le donne», conclude amara
l’esponente di Giuristi Democratici.
http://www.youtube.com/watch?v=q0FxkGdTKwQ&feature=player_embedded
3
•
Cina: la maledi
aledizione del nascere
ere donna
d
9 settembre 2009
by Giovan
iovanni De Sio Cesari
Nella Cina tradizionale nasce
nascere donna era una maledizione: si do
dovettero addirittura
promulgare leggi che vietasse
tassero ai mariti di picchiare le proprie
e mo
mogli che partorissero
delle femmine perché anche
nche questo avveniva.
Nei ceti più poveri e nei tempi di carestia, le bambine venivano
ve
addirittura
abbandonate e lasciate morire
orire. Perchè mai?
In realtà anche nella nostra
stra civiltà la nascita di un maschio era
ra ne
nel passato cosa più
gradita dei quella di una femm
femmina tanto che un tempo si diceva agli sposi “auguri e figli
maschi”.
Il figlio maschio infatti veniva considerato come il continuatore
e del
della famiglia, poteva
lavorare e produrre mentre
ntre la femmina veniva vista come un deb
debito perche ad essa
bisognava accordare una cong
congrua dote.
Tuttavia da noi vi era una preferenza
pr
per il figlio maschio ma la
a figl
figlia femmina non era
certo una maledizione: sii face
faceva feste per tutte e due.
La differenza nasceva dalla diversità di struttura della famiglia cine
cinese rispetto a quella
europea. La famiglia cinese
ese a
aveva una struttura patriarcale molto
olto p
più accentuata che
la nostra nella quale invece
ece la coppia aveva sempre un suo riconos
conoscimento e una sua
autonomia. La donna cinese,
ese, n
nel momento in cui si sposava perdeva
eva p
praticamente quasi
ogni rapporto con la sua famig
famiglia di origine: questa pertanto aveva
va il ccompito di allevarla
fino a all’età del matrimonio
onio dopo di che la perdeva quasi comple
mpletamente. La donna
produceva allora, soprattutto
tutto i figli, ma per un’altra famiglia e i suo
suoi genitori una volta
diventati anziani non poteva
otevano sperare di essere da lei assistiti.
istiti. La donna entrava
invece pienamente nella famiglia
fam
dello sposo e quindi diveniva sogg
soggetta non solo e non
tanto al marito ma anche e so
soprattutto ai suoceri.
Si capisce facilmente come le suocere in particolare fossero
sero incline a trattare
duramente le nuore con le qua
quali non vi era nessun legame di affetto
tto n
naturale, un po’ per
la naturale gelosia di mamme
mme e poi soprattutto facevano pagare alle giovani nuore tutto
quello che esse avevano dovu
dovuto sopportare, quando a loro volta,
lta, e
erano state giovani
spose: una specie di girone
rone infernale quindi in cui si diventava
va p
prima vittime e poi
carnefici.
Nelle famiglie occidentali
li inv
invece la donna, anche se prende il nom
nome del marito e lo
continua nei suoi figli, non p
perde affatto il rapporto con la famigli
miglia di origine che si
mantiene sempre vivo. I rap
rapporti fra nonni e nipoti sono identici
entici sia per via parte
femminile che maschile. La cura dei genitori anziani ricade soprattutto sulle figlie e solo
indirettamente sulle nuore. Verso i suoceri è previsto un generico rispetto come a
persona più anziana ma nessuna subordinazione anzi le nuore fanno subito sentire che
le suocere debbono “farsi i fatti loro”. Spesso anche in modo piuttosto rude.
Nel presente, in Cina le vecchie tradizioni sono state sradicate. Il comunismo
soprattutto ha lottato tenacemente e con successo per inserire le donne nel lavoro e
nella politica a parità con l’uomo. Attualmente in Cina le donne possono ricoprire ogni
ruolo e lavorano praticamente tutte come gli uomini in ciò favorite dalla prescrizione
del figlio unico. Sono ora i nonni, materni o paterni senza distinzione, a prendersi
carico dell’allevamento dei nipoti, come avviene un po’ dappertutto nella società
moderna.
Tuttavia la preferenza per il figlio maschio resta sempre forte in Cina: la politica del
figlio unico impedisce alle coppie che abbiano avuto una femmina di poter pensare di
avere anche un maschio. Questo fatto fa sì che, a volte, nel momento in cui una coppia
conosce attraverso la ecografia di aspettare una femmina ricorra all’aborto. Sarebbe
proibito per legge comunicare ai genitori il sesso del nascituro: ma chiaramente è una
prescrizione poco realistica.
Il risultato è che in Cina il numero dei maschi supera abbondantemente quelle delle
femmine: a un certo punto i giovani cinesi non troveranno più mogli e bisognerà quindi
“importarle” dai paesi limitrofi più poveri del sud est asiatico.
Il fenomeno è già cominciato e presumibilmente si amplierà sempre di più.
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Cina: la maledizione del nascere donna, 5.6 out of 10 based on 472 ratings
Femminicidio
Alla vigilia dell’8 marzo l’Italia farebbe bene a interrogarsi. Ma davvero siamo un Paese che perseguita la
donna? Il dipartimento delle Pari opportunità ha addirittura pensato di istituire la figura di un avvocato
specializzato nella sua difesa. E Rashida Manjoo, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza
contro le donne, ha appena parlato di femminicidio: «È la prima causa di morte in Italia per le donne tra i 16
e i 44 anni». Femminicidio è un neologismo ed è una brutta parola: significa la distruzione fisica, psicologica,
economica, istituzionale della donna in quanto tale.
È un termine coniato ufficialmente per la prima volta nel 2009, quando il Messico è stato condannato dalla
Corte interamericana dei diritti umani per le 500 donne violentate e uccise dal 1993 nella totale indifferenza
delle autorità di Ciudad Juarez, nello Stato di Chihuahua. C’erano cadaveri straziati buttati nella monnezza o
sciolti nell’acido: secondo alcune denunce si sarebbero macchiati di questi orrori anche uomini delle forze
dell’ordine. Certo, in Italia non siamo arrivati a questi livelli. Però, si tratta di delitti trasversali a tutte le
classi sociali.
Stefania Noce, femminista del Movimento studentesco, è stata uccisa a Catania dal compagno laureando in
psicologia che lei diceva di amare «più della sua vita». A marzo di un anno fa nella periferia romana è stato
trovato il tronco del cadavere di una donna mutilato: il caso è stato archiviato subito anche dai giornali.
Come se volessimo tutti chiudere gli occhi davanti a questo orrore. Rashida Manjoo nella sua relazione ha
detto che «la violenza domestica si rivela la forma più pervasiva che continua a colpire le donne in tutto il
Paese, come confermano le statistiche: dal 70 all’87 per cento dei casi si tratta di episodi all’interno della
famiglia».
C’è chi sta peggio, l’abbiamo capito: dieci Paesi del Sudamerica, a cominciare dal Messico. Ma nel mondo
cosiddetto civilizzato dell’Europa siamo messi davvero male. I numeri sembrano quelli di una strage. Nel
2010 le donne uccise in Italia sono state 127: il 6,7 per cento in più rispetto all’anno precedente. Dati in
continua crescita dal 2005 a oggi, e solo dal 2006 al 2009 le vittime sono state 439. Secondo l’associazione
«Casadonne» di Bologna, si tratta di «un fenomeno inarrestabile».
Nei primi mesi del 2011, le statistiche parlano già di 92 donne uccise. Nella stragrande maggioranza dei casi
gli assassini sono all’interno della famiglia, mariti (36 per cento), partner (18), parenti (13), ex (9), persino
figli (11). Come se non bastasse, poi, «i dati sono sottostimati perché non tengono conto delle donne
scomparse, dei ritrovamenti di donne senza nome o di tutti quei casi non ancora risolti a livello personale».
Ogni tre giorni una donna in Italia viene uccisa per mano del proprio partner. Secondo i dati della Polizia e
dell’Istat una donna su 4, nell’arco della vita, subisce violenza, e negli ultimi nove anni, ha stabilito un
rapporto dell’Eurispes, «il fenomeno è aumentato del 300 per cento». Le Nazioni Unite sostengono che «in
125 Paesi del mondo le leggi penalizzano davvero la violenza domestica e l’uguaglianza è garantita».
L’Italia, purtroppo, sembrerebbe far parte degli altri 139 Paesi. Davvero siamo messi così male? A sentire la
coordinatrice della Commissione Pari opportunità del Consiglio Forense Susanna Pisano pare proprio di sì:
solo il 6 per cento delle donne italiane denuncia la violenza subita. «La nostra è una piaga silenziosa e
nascosta», dice. Non è solo una questione di costume, ma anche di diritto, come spiega bene, in fondo, la
recente sentenza della Cassazione secondo la quale gli autori di uno stupro di gruppo non meritano il carcere.
E non è un caso, alla fine, che proprio in Italia stia per nascere la figura di un avvocato specializzato solo nella
difesa delle donne.
FEMMINISMO IN ITALIA
L'Italia ha raggiunto l'unità solo nel 1861 , per cui nel nostro paese, la lotta per l'emancipazione della donna,
si accese in ritardo rispetto al resto dell'Europa, anche perché la rivoluzione industriale giunse solo verso la
fine del secolo diciannovesimo. Per rivendicare il diritto di voto, comunque, anche in paesi come l'Italia,
nella seconda metà dell'Ottocento , nacquero i primi movimenti delle suffragette , così chiamate perché
rivendicavano il suffragio femminile. Durante la Prima Guerra Mondiale le suffragette dovettero sostituire gli
uomini partiti per il fronte, lavorando nelle fabbriche e assumendo ruoli chiave della società . Quando il
conflitto ebbe termine non fu più possibile negare loro il diritto di voto. Nel 1919 , così, le donne italiane
ottennero l’ emancipazione giuridica , facendo abolire l’obbligo dell’autorizzazione maritale sulla gestione dei
propri beni. Mentre nel 1923 ottennero il diritto di voto alle elezioni amministrative, ma tale diritto non trovò
applicazione a causa della riforma fascista degli enti locali. Ai primi nuclei femminili organizzati aderirono in
un primo tempo le donne della borghesia , alle quali si affiancarono successivamente le masse femminili
cattoliche e socialiste . Tra queste ultime, sostenute dal partito socialista, si distinsero in modo particolare
Giuditta Brambilla , Carlotta Clerici e Anna Kuliscioff . Nel 1910 le rappresentanti delle associazioni
femminili italiane parteciparono al Primo Congresso Internazionale Femminile di Copenaghen, durante il
quale l' 8 marzo fu dichiarata Giornata della Donna . Anche le nostre suffragette, tuttavia, dovettero
attendere ancora dei decenni prima di ottenere il diritto al voto . Quest'ultimo venne infatti riconosciuto solo
nel 1945 con un decreto di Umberto di Savoia, ultimo re d'Italia. Nel dopoguerra, all'Assemblea Costituente
vennero elette 21 donne . Negli anni '50 le femministe italiane lottarono per le riforme legislative e si
schierano dalla parte delle mondine e delle operaie conserviere molestate dai padroni. Negli anni '60 inizia la
campagna per il diritto all' aborto in strutture sanitarie non clandestine. Negli anni '70 , anche grazie al
movimento femminista, passa in Italia la legge sul divorzio e viene approvata la legge sul diritto di famiglia .
Negli anni successivi , infine, passa l'emendamento che dichiara lo stupro un reato e nasce anche la
commissione nazionale per le pari opportunità .
STORIA DELLA DONNA
Le donne sono forti e devono tenere le redini della famiglia e del lavoro. Una doppia fatica che richiede
energie, impegno, efficienza, senso del dovere. Ma a volte tutto ciò sembra non bastare. Perché a questo si
aggiunge la fatica di "sfondare" un mondo che è ancora molto maschile nelle sue richieste e pretese. Una
società che chiede ancora alle donne di "portare i pantaloni" quando è ormai tempo di indossare con orgoglio
la gonna e di sfruttare tutte le capacità che sono racchiuse nel ruolo femminile, e le sono proprie da sempre.
Le donne sono sempre state brave a gestire "casa e bottega", famiglia e affari. Già nell’età della pietra stavano
dentro le caverne e badavano ai cuccioli, prendendosene cura e sfamandoli. Si occupavano anche di
trasformare quanto cacciato dall’uomo in qualcosa di commestibile ma non solo. Dai prodotti dell’animale
cacciato tiravano fuori pelli per coprirsi, cibo per sfamarsi, conservando tutto quanto era utile per la
sopravvivenza. Una pratica questa che si ritrova anche nelle popolazioni dei pellerossa americani, dove le
rappresentanti del sesso femminile accompagnano gli uomini nelle loro attività di caccia aiutandoli
attivamente in questa pratica. Dopotutto nelle civiltà arcaiche il matriarcato era potentissimo: la donna era
regina della famiglia e della comunità. La sua figura mitica veniva associata alla madre terra, generatrice di
vita e potente forza della natura. Tutta l’economia della casa era nelle sue mani, la sua parola era legge anche
per gli uomini che dovevano abbandonare il focolare per recarsi al lavoro nei campi, a delegare tutto il resto
all’impeccabile organizzazione femminile. Poi sono arrivati i grandi imperi dell’antichità, le civiltà classiche:
anche qui, nell’antica Roma ad esempio, le mogli degli imperatori facevano la vera politica tessendone le
trame nell’ombra. Le donne erano potenti e libere. Tutto cambia nel Medioevo, quando l’essere femminile
viene percepito in due differenti modalità: angelico e spirituale oppure stregonesco e maligno. Il Bene e il
Male si incarnano nell’essere umano femminino che si allontana così dalla concretezza e soprattutto dal
potere di decidere e di fare qualsiasi cosa di diverso dal suo ruolo di madre e moglie, piegata al volere
dell’uomo. Nel Seicento la paura della forza al femminile, si trasforma in persecuzione fino al loro estremo
sacrificio perpetuato contro le streghe al rogo: esperte nell’arte della stregoneria, così erano considerate
quelle donne che decidevano di "ribellarsi" al volere maschile e alle regole imposte dalla società, essendo
infine relegate ai margini di essa. Tutte le altre andavano in spose o entravano in convento. Il Settecento vede
le donne ancora racchiuse tra le mura domestiche o nelle corti a tessere trame e a cercare di "accasarsi" al
meglio. Poche le occasioni di entrare in società con un ruolo diverso da quello di future spose e madri. È con
l’Ottocento che la donna torna alla ribalta, soprattutto nella sua veste di lavoratrice. La sua forza lavoro, mai
venuta meno nella storia, solo ora ricomincia ad avere un importante peso sociale in piena società
industriale, soprattutto dal punto di vista economico e produttivo in senso stretto. L’individuo femminile
comincia faticosamente a farsi riconoscere il diritto ad essere un soggetto sociale lavoratrice e cittadina e
quindi a potersi svincolare dal potere dell’uomo, marito o padre. Lavoratrici con le gonne si cominciano a
vedere non solo nelle fabbriche ma anche nelle scuole come maestre, nelle corsie degli ospedali soprattutto
come ginecologhe conquistando un’indipendenza economica che rompe gli stretti vincoli domestici. Negli
Stati Uniti, nel 1840, viene anche sancito il diritto alla libera disponibilità dei guadagni. Le donne cominciano
anche a spogliarsi di quegli indumenti fatti di bustini strettissimi e di stecche e indossano abiti fluidi e
costumi da bagno, lontani antenati dei bikini. Anche questo è lento progresso verso la parità all’alba del
Ventesimo secolo, quando iniziano i primi riconoscimenti dei diritti politici alle donne in Nuova Zelanda
(1893), poi negli Usa (1914) e a seguire in tutto il resto del mondo occidentale.
Il Novecento è il secolo delle suffragette, del grande movimento femminista, delle conquiste dei diritti civili,
dall’uguaglianza al voto alla possibilità di accedere a tutte le professioni di esclusiva pertinenza degli uomini.
La donna della seconda metà del ‘900 conquista la sua libertà e la sua indipendenza economica, giuridica,
politica, sessuale: diventa un individuo a pieno titolo, una cittadina moderna proiettata verso la modernità.
Un esempio importante dell’emancipazione della donna in questa nuova era arriva dall’India dove le donne, a
partire dagli anni Novanta, sono uscite dal loro isolamento dentro case e famiglie, vittime di una società
settaria, per aggredire il mondo del lavoro e dell’economia con la loro intraprendenza. Gli esempi sono
numerosi: le giovani donne indiane con la potenza del loro lavoro sono da alcuni decenni un antidoto alla
crisi economica perché credono nelle proprie capacità imprenditoriali e nella solidarietà. Molte hanno
iniziato dando vita alla bottega dietro casa dove confezionano vestiti e gioielli destinati all’esportazione nel
resto del mondo. O come in Bangladesh dove un solo uomo, Muhammad Yunus ha dato una mano a un
gruppo di donne povere lavoratrici facendole uscire dalla loro condizione miserevole: negli anni Settanta
dopo una forte carestia si è recato nel villaggio di Jobra e ha offerto loro un piccolo credito finanziario, che le
grandi banche non avrebbero mai concesso, per far vivere le loro piccole imprese. Ha finanziato le loro
attività artigianali dedicate alla lavorazione di mobili in bambù, dando vita a quell’esperienza straordinaria
del microcredito che gli ha fatto meritare il Premio Nobel per la pace 2006. Ma nella società indiana non
mancano gli esempi di manager e donne in carriera. Il progresso economico è da tempo in quest’area del
mondo strettamente connesso al protagonismo delle donne.
Ma, nonostante questi esempi, oggi, all’alba
del millennio qualcosa sembra ancora non tornare…Tuttavia oggi le donne hanno ancora molta strada da
percorrere per riaffermare la loro femminilità fatta di quei valori profondi e unici che avevano già nelle
caverne! Ma per farlo è necessario riappropriarsi di quanto non è mai venuto meno: forza, equilibrio,
passione, intelligenza, coraggio, abilità intellettive e manuali. Essere donne, ribelli, selvagge, streghe,
guerriere, protagoniste. Come le donne che parlano dalle pagine di questi libri interessanti che vogliamo qui
consigliare.
LA NORMATIVA SULLA
CONDIZIONE FEMMINILE
Ecco, in estrema sintesi, alcune tra le più significative leggi in favore delle donne.
Legge 23 aprile 2009, n. 38
"Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di
atti persecutori"
Direttiva del 23 maggio 2007
Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche
Direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006
Attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia
di occupazione e impiego
Provv. del Min. Lavoro e delle Politiche Sociali del 30 maggio 2006 - G.U. n. 160 del 12 luglio
2006
Programma-obiettivo per la promozione della presenza femminile nei livelli e nei ruoli di responsabilità
all'interno delle organizzazioni, per il consolidamento di imprese femminili, per la creazione di progetti
integrati di rete
Decreto legislativo 11 aprile 2006 n. 198
Codice delle pari opportunità tra uomo e donna
Legge 19 febbraio 2004, n. 40
Norme in materia di procreazione medicalmente assistita
Legge 15 ottobre 2003, n. 289
"Modifiche all'articolo 70 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, in materia di
indennità di maternità per le libere professioniste
Legge 11 agosto 2003, n. 228
Misure contro la tratta di persone
Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216
Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro
Decreto Ministeriale 16 maggio 2003
Fondo di rotazione per il finanziamento in favore di datori di lavoro che realizzano, nei luoghi di lavoro,
servizi di asilo nido e micro-nidi
Provvedimento 30 maggio 2001
Programma - obiettivo per la promozione della presenza femminile all'interno delle organizzazioni anche
al fine di rendere le stesse più vicine alle donne
Legge 5 aprile 2001, n. 154
Misure contro la violenza nelle relazioni familiari
Legge 28 marzo 2001 n. 149
Modifiche alla legge 4 maggio 1983 n. 184 recante: "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei
minori" nonché al titolo VIII del libro del c.c.
Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151
Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità,
a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53
Legge 8 marzo 2001 n. 40
Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori Decreto legislativo del
28 gennaio 2000: disposizioni in materia di part-time
Legge n. 53 dell'8 marzo 2000
Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per
il coordinamento dei tempi delle città.
Decreto n. 306 del 15 luglio 1999
Emesso dal Ministro per la Solidarietà sociale, recante disposizioni relative agli assegni per il nucleo
familiare e di maternità, a norma degli art.65 e 66 della legge 23 dicembre 1998 n.444, come modificati
dalla legge 17 maggio 1999 n.144
Legge n. 157 del 3 giugno 1999
In materia di rimborso di spese elettorali. L'art.3 n.1 di tale legge mira a favorire, secondo quanto più
volte richiesto dalla Commissione Nazionale di Parità, la partecipazione attiva delle donne alla vita
politica, disponendo che "ogni partito o movimento politico destini una quota pari almeno al 5 per cento
dei rimborsi ricevuti per consultazioni elettorali ad iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva
delle donne alla politica"
Legge n. 25 del 5 febbraio 1999 (legge comunitaria 1998)
L'art. 17 di tale legge, al fine di adeguare la legge italiana alla sentenza della Corte di Giustizia delle
Comunità Europee 4 dicembre 1997, ha abrogato il divieto di lavoro notturno per le lavoratrici tessili (per
le altre lavoratrici il divieto non operava già in precedenza), escludendo comunque dalla prestazione del
lavoro notturno le donne in stato di gravidanza fino ai tre anni di età del minore, ovvero da parte dei
lavoratori con disabili a carico
Decreto del Ministro dell'Agricoltura del 13 ottobre 1997
Istituisce l'Osservatorio Nazionale per l'imprenditoria femminile ed il lavoro in agricoltura.
Direttiva del 27 marzo 1997 del Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Romano Prodi, in favore
di azioni volte a promuovere l'attribuzione di poteri e responsabilità delle donne, a riconoscere e garantire
libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini.
La direttiva è stata emanata in seguito alla considerazione che i movimenti delle donne, portatori dell'idea
di differenza di genere, sono stati elemento propulsivo nella redazione del programma di azione di
Pechino e altresì alla considerazione che nella quarta conferenza mondiale sulle donne sono stati
individuati numerosi obiettivi strategici per l'uguaglianza, lo sviluppo e la pace e che i governi si sono
impegnati a realizzare azioni conseguenti in relazione alle specificità delle singole realtà nazionali.
Decreto 19 febbraio 1997
Istituzione presso gli uffici del Ministro per le Pari Opportunità della Commissione per la promozione e lo
sviluppo dell'imprenditorialità femminile e dell'osservatorio per l'imprenditorialità femminile Legge n.66
del 1996, classifica come reato contro la persona il reato di violenza sessuale (che include sia la violenza
carnale vera e propria che gli atti di libidine violenti, di solito perpetrati nei confronti dei minori) così
mutando la qualificazione della normativa precedente che lo definiva reato contro la morale. In tal modo
viene restituita dignità alla vittima, finalmente considerata "persona", mentre si è cercato di punire il
reato in modo tale (con pena graduabile fra i tre ed i cinque anni) che non fosse possibile il
patteggiamento (ammesso per pene inferiori ai due anni), di modo che lo stupratore non restasse
sostanzialmente impunito. Tuttavia con la legge C. Simeoni (dal nome del relatore) è oggi possibile che lo
stupratore ottenga subito gli arresti domiciliari. Sono previste circostanze aggravanti che comportano
l'aumento della pena fino a 12 anni, quali la violenza commessa nei confronti di persona minore di anni
14 ovvero di anni 16, se il colpevole è un genitore o un nonno, ovvero con l'uso di armi, sostanze
alcoliche o stupefacenti o sostanze comunque dannose per la salute, ovvero quando il violentatore sia un
pubblico ufficiale, ovvero quando la violenza sia stata compiuta su persona sottoposta a limitazioni della
libertà personale Legge n.52 del 6 febbraio 1996 (legge comunitaria). L'art. 18 recepisce, previa
consultazione della Commissione Nazionale di Parità e del Comitato per le pari opportunità presso il
Ministero del Lavoro la normativa europea in tema di parità di trattamento fra uomini e donne Legge
n.332/95, art.5, che modifica l'art.275, 4c., codice di procedura penale, prevedendo il divieto di custodia
cautelare in carcere di donne incinte o madri fino al compimento del terzo anno d'età del figlio Legge
n.236/93, art.6, sul vincolo, nei licenziamenti collettivi, di non effettuare espulsioni di lavoratrici in misura
percentuale superiore a quella del personale femminile occupato nell'impresa nelle medesime mansioni, e
con interventi in favore delle lavoratrici madri durante la mobilità.
Decreto legislativo n. 29/93, art. 7 e 61
Rispettivamente sulla parità e pari opportunità sia per l'accesso al lavoro sia per il trattamento sul lavoro
relativamente alla gestione delle risorse umane (art.7) e sulla istituzione di quote di donne nelle
commissioni di concorso sulla pari dignità di uomini e donne sul lavoro e sulla partecipazione delle
dipendenti delle Pubbliche amministrazioni ai corsi di formazione e aggiornamento professionale (art. 61)
(questa legge dà la possibilità, ex art.7, ai comitati paritetici del settore pubblico di concorrere alla
gestione delle risorse umane)
Legge n. 166/91, art.8
Sul trattamento economico delle lavoratrici madri dipendenti da amministrazioni pubbliche
Legge n.979/90, sull'indennità di maternità per le libere professioniste
Decreto legislativo in materia di armonizzazione della contribuzione figurativa, con interventi a favore del
suo riconoscimento durante i periodi di astensione dal lavoro per maternità
Delibera del 6 ottobre 1989 del Consiglio della magistratura militare
Accesso alle donne alla magistratura militare
Legge n. 25 del 27 gennaio 1989
L'art. 2 di questa legge eleva a quarant'anni la data di partecipazione ai concorsi pubblici, come
sollecitato anche dalla Commissione Nazionale di Parità per consentire anche alle donne che non abbiano
potuto dedicarsi ad attività lavorativa in età giovanile, perché impegnate in incombenze familiari, di
inserirsi nel mondo del lavoro
Legge n. 546 del 29 dicembre 1987
L'art.1 di questa legge estende l'indennità giornaliera di gravidanza e puerperio alle lavoratrici autonome,
coltivatrici dirette, mezzadre, colone, artigiane ed esercenti attività commerciali.
Le donne nel mondo, tra
discriminazioni e potere al femminile
La discriminazione sessuale a discapito del mondo femminile è un capitolo ancora aperto in tre quarti del
pianeta. Una discriminazione che si configura addirittura come crimine, in molti Paesi dove il passare del
tempo non ha aperto le porte al progresso della civiltà e della democrazia. Dove la rivendicazione dei diritti
da parte delle donne può costare la libertà, l'incolumità fisica o la vita stessa. Un viaggio fra le diverse,
seppure spesso simili, realtà di questi universi femminili nel mondo lo ha realizzato per noi Daniela Lami,
riferendoci gli elementi dolorosi, ma anche gli spiragli di cambiamento. Non manca una tappa in una terra,
l'Islanda, dove la civiltà e l'emancipazione sono regola quotidiana, dove le donne sono quasi le uniche
detentrici dei pilastri dell'economia, della società e della famiglia.
Divorzio all'Egiziana
Strano universo quello delle donne egiziane. Belle, spesso bellissime, come la regina Nefertari, una donna
coraggiosa e determinata, ma inevitabilmente sovrastata dalla figura prepotente del marito, il faraone
Ramses II. Come lei limitate in molti aspetti della loro vita da una legge, quella coranica, che tuttora rende
loro difficile trovare un posto nella società. Le vedi per le strade: di alcune non riesci a scorgere neanche un
centimetro di pelle tanto sono coperte. E le vedi sempre un passo dietro al marito. Le più giovani hanno
un'aria più spensierata, alcune vestono in modo moderno e in nulla diverso dalle coetanee occidentali, se
non per il fatto che hanno la testa coperta da un chador. Nero per le già maritate, colorato per tutte le
altre.
Ma in questo paese, dove la vita sembra essersi fermata a decenni fa, dove vedi ancora le donne che lavano
i panni nel Nilo, gli uomini muoversi per le strade del Cairo a "bordo" di un asino... beh, in questo mondo a
volte incomprensibile per noi occidentali, qualcosa sta lentamente cambiando. Proprio per le donne. L'alta
Corte egiziana ha finalmente sancito che anche loro hanno il diritto di ottenere un passaporto. Nessuno, e
tanto meno il marito, potrà più impedire loro di viaggiare all'estero. Non che fino ad oggi esistesse un vero
e proprio vincolo legale. Anzi: il diritto di ottenere un passaporto e, di conseguenza, di viaggiare all'estero,
in quanto espressione della libertà personale, viene protetto anche dalla Costituzione. Ma, in questa
società maschilista, e per la maggior parte islamica, il divieto era ormai una consuetudine molto semplice
da applicare. Per il marito, infatti, era sufficiente recarsi al Ministero degli Interni e far inserire il nome della
propria moglie in una sorta di lista nera, così da impedirle di ottenere il passaporto. Un bel risultato, quindi.
Ma attenzione. Niente facili entusiasmi. Di fatto gli uomini potranno ancora impedire alle loro mogli di
varcare i confini nazionali, anche se la prassi sarà un po' più complicata: dovranno presentare un'apposita
petizione alla Corte che valuterà caso per caso, e non più di ufficio, se la donna può viaggiare o meno. Cosa
accadrà nella pratica, resta dunque da vedersi, ma certo la norma ha un grande valore simbolico.
Anche perché arriva solo alcuni mesi dopo un'altra importante e controversa decisione: quella di facilitare
alle donne la richiesta di divorzio dai loro mariti. Mentre gli uomini possono divorziare all'istante e senza
particolari giustificazioni, per una donna egiziana, lasciare il marito, era praticamente impossibile. Per farlo
doveva dimostrare di essere stata maltrattata. Adesso, invece, potrà chiedere il divorzio anche per
incompatibilità. Spetterà a due "arbitri" designati dalla Corte, di verificare se davvero la riconciliazione tra i
due coniugi è impossibile. A questo punto il divorzio verrà concesso. Ma, anche in questo caso, attenzione:
la donna otterrà sì il divorzio, ma dovrà rinunciare a ogni pretesa finanziaria e, quindi a ogni forma di
alimento e, in più, dovrà restituire al marito la dote ricevuta. Del resto, il profeta Maometto diceva che
"una donna può lasciare il proprio marito anche se non ha ricevuto alcun male fisico ma, se lo fa, deve
restituirgli il giardino che lui le ha dato". Dunque, per le donne un altro successo a metà: di fatto le uniche
che potranno usufruire di questo diritto saranno le donne benestanti e comunque coloro che hanno i mezzi
per restituire la dote e per mantenersi senza usufruire degli alimenti del marito. Inoltre, hanno sottolineato
in molti, sarà comunque difficile per una donna ottenere il divorzio, in un paese in cui non un solo giudice è
di sesso femminile.
Paesi arabi: l'emancipazione abita anche qui
Quando parliamo di donne arabe, nel nostro immaginario entrano solo immagini di sottomissione,
frustrazione, diritti violati. In effetti è così. Non bisogna mai generalizzare, ma in generale è così. Tuttavia,
per avere un quadro completo, è necessario aggiungere alcuni tasselli al nostro mosaico. Forse non tutti lo
sanno, ma anche da queste parti si sono affacciate, in tempi più o meno recenti, delle rivendicazioni di
carattere femminista. Nei Paesi arabi, i movimenti femminili sono sorti agli inizi del XX secolo, precisamente
nel 1879 in Libano, nel 1923 in Egitto, nel 1944 in Giordania e in Marocco, nel 1953 in Bahrein e negli anni
'50 in Tunisia, epoca nella quale le Tunisine si sono impegnate nel movimento di liberazione anticoloniale.
Questi movimenti miravano soprattutto ad avanzare rivendicazioni politiche, ma senza grandi risultati, visto
che soffrivano di mancanza d'organizzazione e si scontravano contro i diversi scogli rappresentati dai loro
rispettivi governi. È con la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, che si assiste all'emergere di un nuovo
discorso femminista. Anche se è solo nel 1975 (data del 1° Congresso mondiale sulla Donna in Messico) che
le Nazioni Unite hanno cominciato a parlare delle donne come delle "partners nello sviluppo". Questo fu
anche il punto di partenza di un progetto mirante ad eliminare ogni forma di discriminazione contro la
donna, per collegare la questione femminile al discorso dei Diritti dell'Uomo. Un progetto che i Paesi arabi
devono sottoscrivere se vogliono vincere la scommessa dello sviluppo.
Fra i 21 paesi arabi, soltanto 8 (fino al 1995) hanno sottoscritto l'accordo concernente l'eliminazione d'ogni
forma di discriminazione contro la donna. Un risultato già di per se modesto, a cui va aggiunta una
considerazione: la firma delle convenzioni internazionali non porta necessariamente alla loro applicazione.
Ed è questo è uno degli ostacoli contro cui si scontrano ancora oggi un buon numero di movimenti
femminili nel mondo arabo. La strada verso l'emancipazione delle donne arabe dalle rigide regole della
Sharia, la legge islamica, soprattutto nei ricchi ma conservatori Paesi petroliferi del Golfo non è mai stata
facile, né sarà breve.
Ciò nonostante, non si può fare di tutta un'erba un fascio. In alcuni di questi Paesi alle donne sono
riconosciuti ruoli sociali, e soprattutto diritti civili, che in altri - come l'Arabia Saudita - sono ancora
disconosciuti. Il Kuwait è l'unico regno del Golfo ad avere un Parlamento democraticamente eletto. Un
paese in cui a prima vista la situazione delle donne è tutt'altro che nera. Il ruolo femminile del Paese,
infatti, è molto importante. Ci sono donne che ricoprono alti incarichi in aziende statali e private. Numerose
sono le donne inserite nel lavoro, e molte sono le intellettuali, le scrittrici e le giornaliste, che fanno sentire
alta la loro voce anche nei tribunali per il riconoscimento dei propri diritti civili cui si oppongono i
parlamentari islamici più integralisti. Alle donne è inoltre riconosciuto il diritto non solo di arruolarsi nella
polizia ma anche nell'esercito. Dunque donne che hanno diritto a fare praticamente tutto...tranne votare.
Il primo Paese del Golfo in cui tutte le donne sono andate alle urne è stato il Qatar. Nel marzo 1999, si sono
svolte le prime elezioni amministrative a suffragio universale, anche se le sei candidate donne non sono
state elette. La consultazione è stata considerata, da molti analisti, come un importante esperimento verso
la democratizzazione dell'emirato ed un primo passo verso la prossima elezione di un Parlamento. Altra
singolare conquista: lo scorso maggio un gruppo di qatariote - non scortate dai mariti o da parenti maschi hanno potuto assistere nello stadio di Doha (da una tribuna riservata) alla finale di un torneo di calcio.
Anche in Oman le donne possono votare, ma non tutte. L'Oman ha infatti una Shura (Consiglio consultivo,
eletto nel 1997) ma ad eleggerla sono soltanto 50.000 omaniti - uomini e donne - appositamente scelti dal
sultano. Nel sultanato esistono però tre donne sottosegretario, altre due fanno parte della Shura ed una è
stata nominata recentemente ambasciatore in Olanda. Un'altra curiosità: dallo scorso maggio il governo del
sultanato ha concesso alle donne omanite che lavorano come tassiste di poter prendere a bordo delle
proprie auto anche passeggeri maschi, cosa sino ad allora proibita.
India le donne dimenticate
Paradossale, assurda, incomprensibile e piena contraddizioni. Così si potrebbe riassumere la condizione
femminile in India, un in cui le donne sono formalmente uguali agli uomini, con gli stessi diritti politici e le
stesse opportunità sociali e di lavoro. Un paese in cui la discriminazione sessuale è addirittura vietata dalla
Costituzione indiana. Un paese in cui ai vertici della vita economica e sociale si affermano sempre di più
nomi femminili, come quello della scrittrice Arundhati Roy, autrice di "Il dio delle piccole cose" o quello di
Bhartia Shoban, proprietaria dell'Hindustan Times, uno dei giornali più autorevoli del Paese.
Ma anche un paese negato alle donne. Un paese in cui la cui discriminazione di massa resta una realtà, che
affonda le sue radici in tradizioni arcaiche, che le statistiche generali mettono bene in evidenza. Su una
popolazione di circa un miliardo di individui, infatti, le donne, a differenza di quel che avviene in quasi tutto
il mondo, sono in minoranza: il 48 per cento. Il rapporto è di 929 donne per 1.000 uomini, a conseguenza di
una selezione spietata praticata talvolta ancora prima della nascita. Quaranta donne su cento non hanno
alcun grado di istruzione, e se in alcuni Stati, come il Kerala, l'alfabetizzazione primaria è prossima alla
totalità della popolazione femminile, in altri, come il Bihar, non raggiunge il 28 per cento. Le donne
occupano solo l'8 per cento dei posti in Parlamento, il 6,1 dell'amministrazione pubblica, un quarto di tutta
la forza lavoro registrata. E se sempre più numerose sono le giovani che frequentano le facoltà di
Ingegneria, di Informatica o di Economia, la presenza femminile nelle università è soltanto del 5 per cento.
Ma questi in fondo sono solo numeri.
E le storie? Quelle delle donne indiane, raccontano casi strazianti di sfruttamento, di spose bambine
vendute per un sacco di riso, di ripudi e prepotenze, di eliminazioni fisiche per questioni di dote. Il rifiuto
preconcetto di un figlia, considerata come un peso per la famiglia. Su ottomila aborti registrati a Bombay,
dopo un ciclo di esami mirati ad accertare il sesso del nascituro, 7.999 erano feti femminili. Solo un
maschio: "La madre era un'ebrea e voleva una figlia". La discriminazione tra uomini e donne nasce e si
perpetua nella famiglia, secondo antiche convenzioni. La donna è destinata fin dalla nascita a stare in
cucina, ad occuparsi della casa, sostenendone tutto il peso. È difficile cambiare la mentalità. È così nei
villaggi, è così ancora in molti ambienti della città. Se si va a cena in una famiglia borghese, anche
benestante, è normale che il cibo venga servito agli ospiti uomini dalle donne, che poi mangiano per conto
loro. Molte cose stanno cambiando anche nella società indiana, ma nella profonda India, quella dei villaggi,
le tradizioni resistono anche alle riforme, nonostante il sorgere di movimenti di pressione. Dal 1993 un
emendamento della Costituzione riserva il 33 per cento dei posti nei consigli locali alle donne. Di fatto,
anche quando vengono elette, molte sono convinte a lasciare la delega al marito, perché non hanno il
tempo o la capacità di seguire i lavori. Così la forma è rispettata e la sostanza non cambia. Forse ha ragione
chi dice che: "Per cambiare le donne dell'India, c'è un solo modo: cambiare gli uomini".
Israele: donne di proprietà
Cosa pensereste di un marito che preferisce aggiustare la sua macchina, piuttosto che portare la moglie,
che sta per partorire, in ospedale? E se vi dicessimo anche che il risultato di tanto egoismo è che il bambino
è nato morto? Terribile. Eppure sono cose che capitano. Capitano ad esempio nel deserto del Neghev, in
Israele. Sorvolando dall'alto questo fazzoletto del mondo, si notano tante piccole oasi abitate: sono i villaggi
dei beduini. Non vivono in case, ma in grosse tende e dormono su materassi sparsi sulla sabbia all'ombra di
larghe tele. Intorno alle tende corrono sempre dozzine di bambini, spesso figli dello stesso padre, ma non
della stessa madre. E dentro le tende, vivono rinchiuse le donne beduine. Donne che, neanche a dirlo, sono
considerate proprietà del marito. Già, una proprietà. E questa è la somma di una triplice forma di
discriminazione:
innanzi tutto, queste donne sono musulmane, e all'interno della società ebraica israeliana, rappresentano
una minoranza;
in secondo luogo, sono donne che vivono in una società fortemente patriarcale, dove mariti e padri hanno
il completo controllo su di loro;
infine, vivono nel Neghev, una zona periferica, rispetto al centro di Israele, e lontana dalle zone
industrializzate.
La donna beduina è la vittima di una tradizione molto forte, in cui la religione è mal interpretata. Tra queste
donne, ci sono molte vittime di stupri e incesti. Vittime che non hanno nessuno a cui rivolgersi, all'interno
della comunità, e sicuramente non possono presentare denunce alla polizia, perché rischierebbero di
essere uccise. Non deve stupire, quindi, che le donne beduine siano molto chiuse, difficilmente facciano
capire le loro sensazioni e i loro stati d'animo: non sono abituate a parlare con stranieri, e quindi è difficile
capire cosa le faccia star male. Molte di loro soffrono, ad esempio, di tumori al seno ma, nonostante il
vicino ospedale Soroka di Beer Sheva abbia i macchinari per mammografia più avanzati al mondo, quasi
nessuna si fa visitare: i mariti non vogliono che le proprie mogli vengano visitate da estranei. Certo,
possiamo fare ben poco, per loro. Ma sicuramente parlarne è meglio che tacere!
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Sveliamo le donne afgane
È molto difficile comprendere come ci si sente ad essere donna a Kabul. Sicuramente molto difficile per noi,
donne occidentali, che non facciamo che lamentarci delle - peraltro ingiuste - discriminazioni che tuttora
subiamo in certi ambienti di lavoro e in certi strati di società. Quel che accade in Afghanistan è fuori dalla
portata della nostra immaginazione e fa gelare il sangue, solo a pensarci.
Per chi non ricordasse cosa significa essere donna sotto il regime dei talebani, ecco un piccolo elenco
esemplificativo di divieti. Le donne non possono lavorare. Non possono uscire da casa, se non
accompagnate da un mehram (marito, padre o fratello), non possono andare a scuola ("i talebani
sostengono che le donne hanno il cervello più piccolo degli uomini, e quindi non ne vale la pena"); non
possono parlare o dare la mano a uomini che non siano mehram; non possono apparire in tv, né
partecipare a riunioni; non possono ridere forte, né indossare abiti dai colori vivaci; devono usare autobus
riservati; le finestre delle loro case devono essere oscurate, affinché non possano essere viste dall'esterno.
Una donna che non indossa il burqa (o lascia, per esempio, le caviglie scoperte) rischia la fustigazione
pubblica, e se ha le unghie dipinte l'amputazione delle dita.
Certo, l'oppressione e la discriminazione nei confronti delle donne è un fenomeno diffuso in tutto il mondo.
Così come lo è la lotta della donna per i propri diritti, ma in Afganistan la battaglia delle donne per
l'uguaglianza dei propri diritti, è un'idea troppo stravagante, per poter essere anche solo concepita. In
Afganistan, sotto il regime fondamentalista, le donne dovevano lottare, per essere riconosciute come esseri
umani. L'odio nei confronti della donna, come essere subumano, è uno dei principi del fondamentalismo
islamico. La situazione delle donne afgane non era mai stata una situazione felice, ma nell'ultima metà del
secolo, le cose stavano iniziando a migliorare, soprattutto grazie all'educazione e ai rapidi cambiamenti che
stavano avvenendo in tutte le parti del mondo. La consapevolezza che le donne avessero delle potenzialità
e fossero capaci di altro, oltre che ad avere figli, stava iniziando ad illuminare le menti degli strati più bassi
di questa società, conservatrice e tradizionalista. Ma, con l'avvento dei fondamentalisti, la ruota della storia
è stata rimandata indietro di centinaia di anni. Per tutto il periodo, dal 1996 al 2001, nel quale i Talibani
sono stati i padroni di Kabul, le donne di ogni età, anche bambine, sono state vittime di un assurdo regime
di segregazione, instaurato per legge. Senza diritti. Da esseri invisibili. Ed anche oggi, nonostante il ritorno
della democrazia, la strada per l'emancipazione sembra ancora molto lunga, per le donne afgane.
Islanda: civiltà al femminile
Ragazze che spingono carrozzine con splendidi bambini dagli occhi blu infagottati per ripararsi dal freddo.
Ragazze alte e snelle, con le facce slavate e gli occhi chiari e vivaci, intelligenti e sereni, anche se poco più
che adolescenti È questa, la prima immagine che si coglie appena sbarcati in Islanda. Tante giovani mamme.
Anche troppo giovani e persino troppo numerose, per lo standard europeo. Ma non c'è da stupirsi. Le
statistiche demografiche dell'Islanda potrebbero fare impazzire uno studioso della tendenza. Il trend che
descrive la donna del ventunesimo secolo come single, o comunque disposta a rinunciare alla famiglia e
figli, assolutamente non vale nell'isola di ghiaccio. In Islanda si fanno più figli che in qualsiasi altro paese
d'Europa occidentale, il doppio rispetto a quanto accade in Italia.
Eppure, oltre l'85 per cento di esse lavora fuori casa. Sono molto emancipate e molte di loro scelgono,
liberamente e senza rischiare di essere vittime di discriminazioni e pregiudizi, di essere ragazze madri.
Donne forti, quindi. Una forza che hanno forse ereditato dalle loro madri e dalle loro nonne, costrette ad
occuparsi di tutto, perché i loro uomini erano quasi sempre in mare. Donne forti, che abituavano i figli
maschi ad essere uomini forti, perché soltanto così avrebbero potuto, d'inverno, strappare all'oceano il cibo
per tutta la famiglia. Donne forti e all'avanguardia, non solo nella vita privata, ma anche in quella politica.
L'Islanda è uno dei primi paesi ad ottenere il diritto di voto per le donne (era il 1915). È anche uno dei primi
paesi ad avere avuto un partito delle donne, una signora sindaco della capitale e una presidente donna
(Vigdis Finnbogadòttir, 1980-1996). Eletta alla suprema carica dello Stato nel 1980 (la prima donna al
mondo a diventare presidente in seguito ad un'elezione popolare), Vigdis Finnbogadòttir si è distinta anche
per aver fatto della difesa dell'ambiente una delle linee fondamentali della sua azione, assieme a quella
dell'educazione attiva dei ragazzi. Sotto la sua presidenza, l'Islanda ha conquistato il primato mondiale della
riforestazione e in un anno, ogni islandese, ha piantato in media 20 alberi. Donne dunque pedine
fondamentali della società islandese. Avete qualche dubbio? Chiedete a un islandese se si ricorda cosa
accadde il 24 ottobre 1975: le donne, in Islanda, si presero un "giorno libero!". E il paese si fermò.
Donne acrobate tra lavoro e famiglia
Maggio 2010 - Una grande potenzialità che il nostro Paese non riesce ancora a valorizzare completamente.
Sono le donne italiane, vere acrobate che si dimenano tra lavoro, famiglia e società, fotografate dal
Rapporto Italia dell’Eurispes. Dall'indagine emerge che in Italia permane una cultura che, a trent’anni
dall’inizio del processo di femminilizzazione del mercato del lavoro, stenta ancora a riconoscere il mutato
ruolo della donna in seno alla famiglia e alla società, e che è ben lontana dal fornire effettiva sostanza al
principio delle pari opportunità.
Rispetto ai paesi del Nord Europa, dove le donne lavorano senza per questo rinunciare alla maternità e i
tassi di occupazione femminili sono elevati, l’Italia si caratterizza da un bassissimo livello di fecondità (1,41
nel 2008) e da un altrettanto modesto tasso di occupazione femminile (46,6), il più basso in Europa nel
2008. Ma il nostro paese è anche tra quelli in cui si è verificato un maggiore incremento occupazionale delle
donne (+7% rispetto al 2000).
I dati relativi a carriere e retribuzioni di uomini e donne mostrano un evidente gap di genere: per il gentil
sesso risulta ancora complicato riuscire ad occupare posizioni di rilievo nelle aziende e nella politica. I ruoli
di comando, infatti, sono quasi del tutto appannaggio degli uomini in politica (89% contro l'11% di presenza
femminile), in economia (84,5% contro 15,5%) e cultura e professioni (81,5% contro 18,5%). Questo divario
si riduce nel settore arte e comunicazione (62,2% contro 37,8%).
Per quanto riguarda le retribuzioni il Rapporto Eurispes, su dati Unioncamere, mostra come, a parità di
impiego, le donne percepiscano stipendi più bassi: lo scarto percentuale è pari al 16%, partendo da un
minimo dell'1,7% nelle professioni meno qualificate ad un massimo del 20,8% degli operai specializzati. La
mancanza di una piena meritocrazia e di pari opportunità nel mondo del lavoro sono la causa principale
della progressiva precarietà lavorativa della donna e del suo frequente abbandono della carriera in favore
della cura di casa e famiglia. Maternità e lavoro, d'altra parte, risultano due realtà non sempre conciliabili.
Dallo studio Donne e lavoro la conciliazione che non c'è, realizzato dall'Eurispes nel primo semestre del
2008, emerge che il 65,7% delle intervistate sono convinte che la carriera costringa molte donne a
rinunciare o rimandare la maternità. I motivi? In primo luogo la maternità è vista come un vero e proprio
handicap per l'azienda da parte dei datori di lavoro, che devono affrontare problemi come la minore
disponibilità della madre lavoratrice, le sue assenze dovute alle malattie del bambino e quindi la sua
presenza incostante sul posto di lavoro e spese aggiuntive per l'impresa.
Anche i costi troppo alti di asili nido e baby sitter e l'assenza di una solida rete parentale spingono molte a
lasciare un lavoro poco redditizio per dedicarsi completamente alla cura dei figli. Una donna su nove,
secondo un'indagine Isfol Plus, è uscita dal mercato del lavoro in maniera temporanea o definitiva dopo la
nascita di un figlio perché non supportata dal partner e dai servizi del sistema di welfare.
Un'inversione di tendenza, infine, si registra nel campo dell'imprenditoria femminile. Aumentano in Italia le
aziende con donne al timone di comando: tra il 2003 e il 2008 il numero di imprese femminili è cresciuto
del 5,8%, cioè il 2,2% in più rispetto al totale delle aziende italiane, e rappresentano il 24% del tessuto
imprenditoriale del Belpaese.
25 NOVEMBRE
Sorelle Mirabal Ojo de Agua (Santo Domingo): Patria 1924-1960; Minerva 1926-1960; Maria Teresa 19361960; Dedé 1925 - vivente
Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal nacquero a Ojo de Agua
provincia di Salcedo nella Repubblica Dominicana da una famiglia benestante. Combatterono la
dittatura(1930-1961) del dominicano Rafael Trujillo, con il nome di battaglia Las Mariposas (Le farfalle).
Il 25 novembre 1960 Minerva e Maria Teresa decidono di far visita ai loro mariti, Manolo Tavarez Justo e
Leandro Guzman, detenuti in carcere. Patria, la sorella maggiore, vuole accompagnarle anche se suo marito è
rinchiuso in un altro carcere e contro le preghiere della madre che teme per lei e per i suoi tre figli.
L’intuizione della madre si rivela esatta: le tre donne vengono prese in un’imboscata da agenti del servizio
segreto militare, torturate e uccise.
Il loro brutale assassinio risveglia l’indignazione popolare che porta nel 1961 all’assassinio di Trujillo e
successivamente alla fine della dittatura.
Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 54/134, dichiara il 25
novembre Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne in loro memoria.
La militanza politica delle tre sorelle Mariposas era iniziata quando Minerva, la più intellettuale delle tre, il
13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal, organizzata dal dittatore per la società più ricca di Moca e
Salcedo, aveva osato sfidarlo apertamente sostenendo le proprie idee politiche.
Quella data segna l’inizio delle rappresaglie contro Minerva e tutta la famiglia Mirabal, con periodi di
detenzione in carcere per il padre e la confisca dei beni per la famiglia.
Minerva mostra fin da bambina un carattere forte e indipendente e una grande passione per la lettura, il suo
paese e la libertà. La sua influenza sulle sorelle è notevole, soprattutto su Maria Teresa, la più piccola, che la
prende a modello e cerca di emularla negli studi universitari, iscrivendosi ad Architettura, facoltà che non
termina, conquistando soltanto il grado tecnico in Agrimensura.
Maria Teresa segue Minerva giovanissima nella militanza politica, dopo essersi fidanzata con un altro
attivista politico, Leandro Guzmàn, amico del marito di Minerva.
Dopo la conclusione degli studi superiori Minerva chiede ai genitori il permesso di studiare Diritto
all’Università (suo grande sogno fin dall’infanzia), ma la madre di oppone: conoscendo le sue spiccate idee
politiche, teme per la sua incolumità. Per consolarla del diniego il padre le permette di imparare a guidare e
le regala un automobile su cui, con grande audacia per i tempi, scorrazza da sola per tutta la provincia.
Ma nel 1952, all’età di ventisei anni, Minerva riesce a iscriversi all’Università di Santo Domingo, che
frequenterà fra divieti e revoche. Dopo la laurea però non le viene consentito l’esercizio della professione.
Minerva, unica donna insieme a Dulce Tejada in un gruppo di uomini, il 9 gennaio del 1960 tiene nella sua
casa la prima riunione di cospiratori contro il regime che segnò la nascita dell’organizzazione clandestina
rivoluzionaria Movimento del 14 giugno e il cui presidente fu suo marito Manolo Tamarez Justo, assassinato
nel 1963.
Minerva fu l’anima del movimento «Durante un’epoca di predominio dei valori tradizionalmente maschili di
violenza, repressione e forza bruta, dove la dittatura non era altro se non l’iperbole del maschilismo, in
questo mondo maschilista si erse Minerva per dimostrare fino a che punto ed in quale misura il femminile è
una forma di dissidenza». (Dedè Mirabal)
Ben presto nel Movimento 14 giugno, oltre alla giovanissima (quando fu assassinata aveva soltanto
venticinque anni) Maria Teresa e al marito, che già da anni erano attivisti politici, furono coinvolti anche la
materna e solidale Patria e il marito Pedro Gonzalez.
Patria aveva abbandonato gli studi presso una scuola secondaria cattolica di La Vega (come farà Dedé per
badare all’attività familiare) per sposare a sedici anni un agricoltore. Patria è molto religiosa e generosa,
allegra e socievole; si definisce “andariega”, girovaga, perché ama molto viaggiare. Era madre di quattro figli
(ma l’ultimo visse soltanto pochi mesi) e non esita ad aderire al movimento per « non permettere che i nostri
figli crescano in questo regime corrotto e tirannico».
La loro opera rivoluzionaria è tanto efficace che il Dittatore in una visita a Salcedo esclama: «Ho solo due
problemi: la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal».
Nell’anno 1960 Minerva e Maria Teresa vengono incarcerate due volte; la seconda volta vengono condannate
a cinque anni di lavori forzati per avere attentato alla sicurezza nazionale, ma a causa della cattiva
reputazione internazionale di Trujillo dopo l’attentato al presidente venezuelano Betancourt, vengono
rilasciate e messe agli arresti domiciliari.
Anche i loro mariti e il marito di Patria, Pedro Gonzalez, vengono imprigionati e torturati.
Trujillo progetta il loro assassinio in modo che sembri un incidente, per non risvegliare le proteste nazionali e
internazionali; infatti i corpi massacrati delle tre eroine vengono gettati con la loro macchina in un burrone.
L’assassinio delle sorelle Mirabal provoca una grandissima commozione in tutto il paese, che pure aveva
sopportato per trent’anni la sanguinosa dittatura di Trujillo. La terribile notizia si diffonde come polvere,
risvegliando coscienze in letargo.
L’ unica sorella sopravvissuta, perché non impegnata attivamente, Belgica Adele detta Dedé, ha dedicato la
sua vita alla cura dei sei nipoti orfani: Nelson, Noris e Raul, figli di Patria; Minou e Manuelito, figli di
Minerva, che avevano perso il padre e la madre, e Jaqueline figlia di Maria Teresa, che non aveva ancora
compiuto due anni. Dedé esorcizzerà il rimorso per essere sopravvissuta alle amatissime sorelle dandosi il
compito di custode della loro memoria: «Sopravvissi per raccontare la loro vita». Nel marzo 1999 ha
pubblicato un libro di memorie Vivas in su jardin dedicato alle sorelle, le cui pagine sono definite come «fiori
del giardino della casa museo dove rimarranno vive per sempre le mie farfalle».
La loro vita è stata narrata anche dalla scrittrice dominicana Julia Alvarez nel romanzo Il tempo delle farfalle
(1994), da cui è stato tratto nel 2004 il film di Mariano Barroso In The time of Butterflies, con Salma Hayek.
25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Un giorno che dovrebbe diventare tutti i
giorni. Giorni in cui dire basta,fare proposte,metterle in atto. Giorni in cui chiedere a gran voce che governo e
parlamento si adoperino al più presto per la ratifica della Convenzione di Instanbul.
Ci vorrebbero uno, cento, mille 25 novembre. Tanti 25 novembre per chiedere che venga introdotta
l’educazione sessuale nelle scuole. Tanti 25 novembre in cui supportare i centri antiviolenza, i centri di
ascolto e fare in modo che la scure dei tagli non si abbatta su questi preziosi strumenti.
Tanti 25 novembre in cui passare dalle parole ai fatti. Fatti che servono a combattere sul nascere il germe
della violenza. Tanti 25 novembre in cui chiedere al giornalismo di cambiare linguaggio.
Nessuna donna infatti muore di passione, di caldo o di follia. Le donne vittime di violenza muoiono a causa di
una cultura sbagliata ormai radicata nella nostra società. Una cultura che vede le donne come corpi da
esibire, come merce da possedere.
Tanti 25 novembre in cui chiedere agli uomini di camminare al nostro fianco, di camminare insieme, di
lottare con noi affinché le cose cambino sul serio.
Tanti 25 novembre per arrivare al giorno in cui non ci sarà più bisogno di un 25 novembre.
Rashida Manjoo
Ms. Rashida Manjoo (Sud Africa) è stato nominato relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro
le donne, le sue cause e le conseguenze per un periodo iniziale di tre anni, da parte delle Nazioni Unite per i
diritti umani del Consiglio nel giugno 2009 e ha iniziato le sue funzioni nel mese di agosto 2009. Rashida
Manjoo in possesso di un posto a tempo parziale come professore presso il Dipartimento di Diritto Pubblico
dell'Università di Città del Capo. Lei è l'ex commissario parlamentare della Commissione sulla parità di
genere (CGE) in Sud Africa, un organo costituzionale incaricato di sovrintendere alla promozione e alla tutela
della parità di genere. Prima di essere nominato alla CGE è stata coinvolta nella formazione contesto sociale
per i giudici e gli avvocati, dove ha progettato sia il contenuto e la metodologia durante il suo tempo alla gara
Legge, e Unità di Ricerca di genere, Università di Città del Capo e presso l'Università di Natal, Durban.
Ha tenuto numerose cattedre tra cui, recentemente in visita presso l'Università della Virginia, negli Stati
Uniti. Ha servito come Lee Des Distinguished Visiting Professor presso la Webster University, Stati Uniti
d'America dove ha insegnato i corsi in materia di diritti umani, con particolare attenzione per i diritti umani
delle donne e della giustizia di transizione. Era la Fellow Eleanor Roosevelt con il Programma per i diritti
umani presso la Harvard Law School (2006-07) e anche un istruttore clinico nel programma nel 2005-6.
“Il femmicidio è l’estrema conseguenza delle forme di violenza esistenti contro le donne. Queste morti non
sono isolati incidenti che arrivano in maniera inaspettata e immediata, ma sono l’ultimo efferato atto di
violenza che pone fine ad una serie di violenze continuative nel tempo.” Violenza in casa, soprattutto.
Violenza, ha detto Manjoo, da parte di partner, mariti, ex fidanzati. Violenza, nella maggior parte dei casi,
non denunciata, perché – afferma – le donne “vivono in un contesto culturale maschilista dove la violenza in
casa non è sempre percepita come un crimine; dove le vittime sono economicamente dipendenti dai
responsabili della violenza; e persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non sono appropriate e
di protezione”.
E ancora: “Femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per
incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni
e di violenza durante la loro vita. In Italia, sono stati fatti sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di
leggi e politiche, incluso il Piano di Azione Nazionale contro la violenza: questi risultati non hanno però
portato ad una diminuzione di femmicidi o sono stati tradotti in un miglioramento della condizione di vita
delle donne e delle bambine.”
LA STRAGE DELLE DONNE –
RICCARDO IACONA
127 DONNE UCCISE NEL 2011
“Quest’anno è stato l’anno della strage, da gennaio ogni due giorni, ogni tre giorni, le cronache ci dicevano:
“E stata uccisa questa donna”, dappertutto, una volta in Sicilia, una volta nel Centro Italia, tre volte a Milano.
Ci sono giorni addirittura dell’anno in cui, per questo parlo di strage, se ne uccidevano due, tre alla volta. I
giornali ne hanno cominciato a parlare diversamente, perché in genere queste storie vengono trattate come
se fossero delle storie estreme e in effetti sono estreme perché non c’è niente di più estremo che un uomo che
arriva con il mattarello, com’è successo nella Provincia di Milano poco tempo fa, insegue la sua ex, la prende
con 80 colpi di mattarello e la uccide davanti a tutti, davanti ai suoi figli.
In genere sono anche esecuzioni pubbliche, quindi non c’è niente di più estremo. In realtà l’inchiesta del libro
quando siamo andati a parlare con i protagonisti, a vedere il contesto, a ricostruire le storie d’amore che
c’erano dietro, abbiamo scoperto che non sono per niente estreme, sono solo la punta estrema di una
violenza endemica però, che attraversa l’intero Paese contro le donne. Perché parlo di violenza endemica? Lo
dicono i numeri dell’unica ricerca fatta dall’Istat nel 2007 sui casi di violenza del 2006 che parlano di quasi 5
milioni di donne che, almeno una volta nella vita, hanno subito violenza. E’ una media, quindi ci sono delle
donne che la violenza la subiscono tutti i giorni. 5 milioni, vi rendete conto? È il 39% della popolazione
femminile, una donna su 3, sono dati enormi, considerando poi il fatto che il 93% delle donne neanche
denunciano i loro partner, che cioè c’è un sommerso enorme, stiamo parlando di numeri che coinvolgono
l’intera nostra società, la coinvolgono tutta, coinvolgono il nostro modo di intendere il ruolo della donna nel
nostro paese. E’ notizia di oggi che in Norvegia una donna di 29 anni è diventata Ministro, ma lì non è una
notizia perché più del 50% del governo norvegese è fatto di donne, ci sono delle leggi che aiutano le donne nel
loro lavoro, gli uomini si occupano dei bambini anche per un anno a casa quando nascono, c’è un Paese che
vive sulle pari opportunità e noi abbiamo raccontato che vita difficile che fanno le donne nel nostro Paese, ma
vengono anche uccise.
Questo è un campanello di allarme. Sta succedendo che questa sotto utilizzazione della donna, il fatto che la
donna non conta mai niente, che non la trovi mai in politica, in economia, che deve fare il doppio della fatica,
che guadagna meno degli uomini etc., è il risultato di un vero e proprio apartheid. La vita è difficile in Italia,
questo Paese, bisogna cominciare a dirlo brutalmente, è ostile alle donne, le tiene sottomesse. Ecco perché
vengono uccise. Dietro a queste uccisioni, ci sono milioni, centinaia di migliaia, perlomeno centinaia di
migliaia di case – prigioni, dove regolarmente si usa violenza fisica, psicologica, sottomissione nei confronti
delle donne. Una società così è una società malata, una società dove più del 50% dell’intelligenza delle donne
non viene utilizzata, ma anzi la donna viene sottomessa. Una società decapitata. Questo improvviso aumento
costante dal 2006: l’anno scorso sono state uccise 137 donne in Italia, una ogni 3 giorni, l’anno prima di
meno, l’anno prima ancora un po’ di meno, un dato in costante aumento.
La maggioranza delle donne vengono uccise al nord, non al sud, non sono nelle situazioni in cui non
lavorano, ma hanno cominciato a conquistare, grazie al lavoro indipendenza, autonomia, sono donne che
facilmente si separano per esempio. Se la storia è finita vanno dal giudice e chiedono la separazione, se il
marito è molesto, picchia, magari fanno la denuncia ai Carabinieri. L’uccisione delle donne è una reazione a
questa voglia e a questo necessario processo di autonomia, indipendenza, questo avvicinamento nostro agli
standard europei. Questa guerra si sta svolgendo nel buio… sì ne parlano i giornali, sono storie che fanno
molto effetto, poi dopo ce ne è un’altra di queste storie.
LA DONNA DOPO LA DENUNCIA, RIMANE DA SOLA
La difesa della donna non è nell’agenda politica, se ci fosse ci sarebbero tutti i centri antiviolenza che
servono. In Spagna l’anno scorso hanno ucciso 62 donne, 7 anni fa ne ammazzavano una al giorno: risultato
di politiche attive, si possono fare delle politiche attive per diminuire questa lista delle donne uccise, per
prevenire la violenza nelle case, per difendere il diritto costituzionale a una vita libera. Molti dei casi delle
donne uccise quest’anno erano omicidi annunciati, donne che avevano fatto denunce, spesso anche 4/5 anni
prima,vedete come reagiscono i palazzi di giustizia, vedete quanto tempo, quante di queste storie finiscono in
prescrizione? La donna fa la denuncia e poi si trova sola, quante volte l’uomo che poi l’ha uccisa gliel’ha
detto, gliel’ha promesso e l’ha detto davanti a tutti, davanti agli amici, ai figli.
È un altro aspetto di questa grande storia che ci riguarda tutti, perché in un mondo in cui sia possibile
estirpare questa violenza endemica nei confronti delle donne, è un mondo dove tutti viviamo meglio, vivono
meglio le donne, vivono meglio gli uomini e vivono meglio i figli che subiscono dei drammi perché questa
ondata di ritorno, di sofferenza parte da centinaia di migliaia di case – prigione. Ho scritto questo libro per
tirare fuori dalle pagine della cronaca dei giornali queste storie e cercare di allertare e far capire che che non
finiscono lì, che hanno a che fare con la pancia profonda del paese, di come siamo, di come intendiamo un
rapporto uomo donna.
È un uomo che ha scritto questo libro, nessuno si può tirare fuori, certo, tra un litigio, uno schiaffo, un urlo,
una violenza psicologica e l’omicidio c’è il mare di mezzo, però quell’omicidio nasce da quell’urlo, da quello
schiaffo, da questa nostra impossibilità, capacità di capire. Nei paesi del nord Europa il giudice impone
all’uomo maltrattante di fare una cura, queste cure sono naturalmente molto lunghe nel tempo e sono delle
vere e proprie psicoterapie, però anche in Italia da qualche parte si sta facendo e nel libro siamo riusciti a
raccogliere delle interviste che secondo me sono preziose, di uomini che raccontano il loro episodio, uno di
questi dice una cosa che mi ha colpito tantissimo: “Guarda io la violenza la usavo perché non riuscivo a
rispondere alle sue argomentazioni, lei scappava, correva, era più veloce di me, andava avanti, avevo paura di
perderla etc. E io usavo l’unica cosa che avevo, l’unico strumento che avevo in mano cioè la violenza”. In
realtà così aveva distrutto il suo rapporto perché lei l’aveva denunciato, adesso sono due anni che lui non
vede il bambino, quindi in questi due anni lui è maturato e quando dice quelle parole, parla a tutti gli uomini
italiani. Se usciamo da questa spirale di violenza diventiamo un Paese più civile e economicamente più
interessante perché il 50% delle donne che vivono nel nostro paese possono rientrare in circolo e non
rimanere chiuse dentro le case.
Normalmente si possono fare tante cose per limitare sia gli omicidi delle donne, e per estirpare questa
violenta, non è solo un fatto di cultura, certo la cultura c’entra, c’entrano le scuole, a scuola non si parla mai
di queste cose, vanno lì a fare i corsi sulle droghe, sono giusti, ma pochi sono gli incontri strutturali, costanti
nel tempo con gli adolescenti, sul rapporto uomo – donna, come va interpretato. Questo è il Paese dove
bisogna far rispettare la legge, dello stalking, tra l’altro è un’ottima legge perché per la prima volta dà agli
investigatori, ai poliziotti, ai Carabinieri, ai magistrati degli strumenti concreti per colpire l’uomo
maltrattante, la legge c’è ma poi c’è metà dell’Italia che non ha dei centri antiviolenza, per cui dici: “Va beh
perché le donne non denunciano?” Vai a denunciare nella Provincia di Enna dove non c’è un posto letto dove
ricoverare una donna la cui vita è minacciata, che per fare questo deve lasciare la sua città e magari deve, con
i suoi figli, trasferirsi a 300 chilometri di distanza, diventa un po’ punitivo nei confronti della donna, non c’è
questa rete, non c’è quanta ne servirebbe, largamente inferiore rispetto non solo al bisogno, ma anche
rispetto ai parametri fissati dall’Unione Europea di almeno 5.500 posti letto e noi in Italia ne abbiamo 500
posti letto dove ricoverare donne e bambini.
Vanessa aveva solo 20 anni quando è stata uccisa dal fidanzato con cui stava da 4 mesi, un uomo più grande
di lei, 34 anni, a Enna . Rosa Trovato invece era una donna di 45 anni, che era già stata oggetto di violenza
per tanti anni dal marito, lo sapevano tutti ma nessuno ha fatto niente fino a che il marito non l’ ha uccisa.
Enza Anicito viveva nella Provincia di Catania ed è stata uccisa dal suo ex, una storia incredibile, l’ha uccisa
davanti alla figlia, si sono dati appuntamento in una strada perché lei l’aveva lasciato, lui allora ha detto:
“Scambiamoci le ultime cose, tu mi ridai indietro l’anello, io ti ridò indietro le foto”, lui invece aveva
programmato tutto, aveva portato la pistola e l’ha uccisa davanti alla figlia, non solo, quando la figlia si è
buttata per terra e ha visto la madre che cascava in un lago di sangue, lui uccide anche la figlia.
OMICIDI ANNUNCIATI
Quasi sempre in queste storie di omicidi di donne, c’è la voglia non solo di annientare la compagna, ma anche
i figli della compagna, anche i tuoi figli, i figli che tu hai fatto con questa donna. Sono tutte esecuzioni
pubbliche, mafiose in questo senso, fatte davanti ai figli, sulla strada, davanti alla gente, nei posti di lavoro,
come se fosse un modo per dire a tutti: “Guarda tu sei mia e non sei di nessuno e lo faccio davanti a tutti
perché tutti sappiano che stai pagando questa colpa di essere indipendente, autonoma”.È impressionante,
moltiplicatelo per 80 omicidi in Italia dall’inizio dell’anno, ci danno un quadro del Paese impressionante, per
questo ho voluto vedere da vicino, sono entrato nei quartieri, ho parlato con le persone, ho tutto questo
viaggio da sotto fino a su, ho parlato con le Procure della repubblica, con i Carabinieri che avevano indagato,
per cercare di capire cosa c’è dietro questa uccisione delle donne e c’è una violenza endemica pazzesca, c’è il
fatto che questo è un paese ostile alle donne!
Se volete capire quanto investiamo poco, basta andare a vedere e fare i paragoni con gli altri paesi
dell’Europa e del mondo la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, i paesi del nord Europa anche l’Austria, persino
la Grecia hanno tutti più posti letto di noi, ma facciamo peggio di Paesi come l’Albania, l’Armenia, la Bosnia
Erzegovina, la Croazia, Cipro, la Georgia, Islanda, l’Irlanda e la Macedonia che ci ha battuto la Macedonia
con 0,33 posti letto per 10 mila abitanti mentre noi siamo a 0,09 posti letto per 10 mila abitanti.
C’è un altro aspetto che esce fuori drammaticamente da queste storie, le storie delle donne ammazzate di
quest’anno sono quasi tutti omicidi annunciati, però bisogna anche entrare nel dettaglio di questi omicidi
annunciati: lo sapevano i Carabinieri, lo sapeva la polizia, spesso lo sapevano anche i giudici perché la
denuncia era arrivata alla Procura della Repubblica, ma ancora più spesso lo sanno i vicini, i parenti, è largo
il contesto all’interno del quale poi alla fine queste donne vengono uccise. È incredibile che questo Paese sia
sordo, che consideri ancora il litigio in famiglia come una questione privata, ma quante volte i vicini di casa
hanno chiuso le orecchie? Perché diceva: tanto si sa che quelli litigano, guardate nei grandi condomini, ma
tutti sanno in quale casa volano le botte, ma bisogna aspettare che venga uccisa la donna dentro!
Molti di questi reati vanno in prescrizione dopo 7,5 anni, per esempio le minacce e le violenze, l’omicidio no
naturalmente, ma ormai la donna è stata uccisa, però il tentato omicidio va in prescrizione. Adesso si sono
inventati un po’ di percorsi nelle procure per cui hanno fatto dei pool per fare in modo che l’intervento sia più
efficace, come potete bene immaginare se denuncio un uomo violento è quello il momento in cui rischio la
vita, quello deve essere il momento più alto della risposta dello Stato. Quindi la Procura va veloce, però poi al
Tribunale ti mettono tra le varie e eventuali, proprio perché non c’è la percezione dell’emergenza, della
priorità, di quanto importante per la salute pubblica di questo Paese sia costruire un posto dove le donne
vengono difese, come premessa perché nasca un rapporto diverso tra uomo e donna, non basato sul dominio
ma sull’amore e sul reciproco rispetto anche quando lei la pensa diversamente, anche se lei ti vuole lasciare.
Sono tre mesi di lavoro, un viaggio lungo dal Sud al Nord fatto consumando le scarpe, pieno di
testimonianze, parlando con i protagonisti, tanto virgolettato. “Se questi sono gli uomini”.
L’ indagine
Il 100 per cento delle madri che in casa subiscono violenza sta zitto per difendere l’unità familiare. Ma quasi
tutte (il 97 per cento), se ad andarci di mezzo sono anche i figli, rompono il silenzio. A dirlo è un’indagine
europea, Daphne III, condotta parallelamente in Italia, a Cipro, in Romania e in Slovacchia per scoprire quali
sono le conseguenze su bambini e ragazzi della violenza sulle madri.
LA RICERCA - Stando agli ultimi dati Istat, nel 62,4 per cento dei casi i figli assistono alla violenza domestica
e quasi la metà di essi ha meno di 11 anni, secondo Daphne III. Il danno è permanente: se l’episodio avviene
prima dei 15 anni, può portarli a non desiderare né una famiglia né una relazione propria per paura di
ripetere il comportamento di cui sono stati testimoni. Aggressività verso i genitori e i pari, bullismo, scarsa
autostima sono solo alcune delle conseguenze più diffuse tra i figli di madri vittime di violenza, che, nel 100
per cento dei casi, inizia con una minaccia verbale. E non si ferma alle parole: il 79 per cento delle intervistate
ha uno o più referti del Pronto soccorso.
Tra i pretesti che danno il via all’escalation, futili motivi, “stati emotivi dell’uomo definiti come egocentrismo
e gelosia”, separazione, gravidanza non desiderata, gestione familiare e successo professionale della donna.
Le testimonianze italiane, raccolte grazie ai verbali anonimi forniti dalla Polizia soprattutto nel Sud Italia e
nelle isole, riguardano donne che hanno subito violenza tra i 16 e i 60 anni, con figli fino a 27. “Sono quelle
che hanno rotto il silenzio, perciò riconoscono la violenza e l’hanno narrata e ben definita in ogni sua
manifestazione” spiega Sandra Chistolini, responsabile del progetto Daphne III per l’Università Roma Tre.
Ilfattoquotidiano.it l’ha intervistata.
Sandra, il silenzio che accompagna la violenza domestica è una peculiarità tutta italiana o è riscontrabile
anche negli altri Paesi oggetto dell’indagine?
E’ presente in tutti i Paesi che abbiamo analizzato. Le ragioni sono culturali, religiose, valoriali. La letteratura
scientifica documenta ampiamente il dato anche per altri Paesi come quelli del Nord America. Tra i motivi
del silenzio delle donne, oltre al voler proteggere la famiglia vi è anche la paura di rimanere senza partner,
nonché la speranza che questo sia pentito della violenza e possa non farne più uso.
La distribuzione geografica della ricerca è casuale o al Sud ci sono più casi di violenza (o più casi di violenza
denunciati) in seno alle famiglie?
Sono state riscontrate molte difficoltà a raccogliere i verbali, per questo abbiamo accettato quello che è stato
fornito senza poter procedere a un campionamento proporzionale per ripartizione geografica.
La persona che esercita violenza è sempre il partner o anche altro parente?
In alcuni casi sono altri familiari. Emerge comunque il ciclo ripetitivo della violenza: il carnefice e la vittima
sono stati a loro volta oggetto di violenza nella famiglia di origine, dove hanno appreso il ruolo di colui che
aggredisce e di colei che subisce sin da piccoli, senza sperimentare un’alternativa valida che rompesse la
dinamica.
Pensa che sia in atto, o sia possibile, un cambiamento culturale nella società italiana?
Il cambiamento è possibile ed è in atto sia a livello di sensibilizzazione dei mass media, sia nella coscienza
delle donne.
Le istituzioni hanno coscienza di quanto sia grave e diffuso questo fenomeno?
Le istituzioni (polizia, carabinieri, ospedali, scuola, centri anti-violenza, associazioni, parrocchie, vicinato,
università) talvolta sono lente, disattente, passive, e come prima reazione in genere si tende a non prestare
fiducia a quello che la donna racconta o a sminuirne la portata.
Quali sono i comportamenti violenti perpetrati abitualmente a livello psicologico, sociale, economico, che la
maggior parte di noi donne italiane non riconosce come tale?
Le violenze verbali e psicologiche sono le prime a comparire e sono anche quelle più nascoste. Infatti solo i
referti medici che mostrano la violenza fisica fanno iniziare di fatto l’iter della difesa giuridica della donna.
Poi arrivano lo stalking e la privazione economica. La violenza sociale, che emerge chiaramente in tutte le
narrazioni delle donne, si manifesta nell’isolamento della famiglia e nella difficoltà dei minori testimoni di
violenza a stabilire relazioni con i pari. Il danno al minore, di cui la nostra ricerca Daphne III si è occupata, è
ancora tutto da esplorare.
CEDAW
Simona Lanzoni, direttrice progetti di Fondazione Pangea e parte della Piattaforma CEDAW si è augurata che
le raccomandazioni di Manjoo “rappresentino i pilastri guida su cui il Dipartimento Pari Opportunità
costruirà il prossimo Piano di Azione Nazionale contro al violenza sulle donne nel 2013 assieme alla società
civile e DIRE, la rete dei centri antiviolenza”, e ha aggiunto: ” invitiamo la Ministra Fornero a esporsi su
questo tema. Anche la violenza sulle donne incide sul PIL italiano! Azioni di prevenzione aiuterebbero le
donne ed il PIL verso uno sviluppo della società italiana sul piano economico oltre che sul piano culturale”.
Le donne vittime di violenza infatti non partecipano alla costruzione del reddito nazionale, e ricadono sui
costi della sanità pubblica, del sistema giudiziario, dell’assistenza sociale, per non parlare del problema che si
presenta nei casi di figli che assistono alla violenza a cui viene rubato anche il futuro e alle difficoltà di
reinserimento lavorativo, quasi sempre nel mercato nero. Conclude Lanzoni “La mancanza di dati certi e
aggiornati non permette a chi governa di rendersi conto della gravità della situazione e dei loro costi sociali.
Basti pensare che l’unica raccolta di dati ISTAT risale al 2006 e che la società civile conta solo nel 2012 in 6
mesi già 63 omicidi di donne uccise da uomini violenti.”
D.I.R.E., la rete dei centri antiviolenza ogni anno accoglie circa 14.000 richieste di aiuto da donne spesso
accompagnate dai figli per uscire dalla violenza “Sono ancora tantissime coloro che non denunciano e
altrettante che non riescono a ricevere supporto!” sottolinea la Presidente Titti Carrano. “Per la prima volta è
stato presentato alle Nazioni Unite un rapporto tematico sul femminicidio, o meglio sugli omicidi basati sul
genere, femmicidi e femminicidi. Si tratta di un evento epocale, che costringe i Governi di tutto il mondo a
confrontarsi con la propria responsabilità per quello che Amartya Sen ha definito ‘il genocidio nascosto” -ha
detto Barbara Spinelli, Avvocata di Giuristi Democratici parte della Piattaforma CEDAW- “Sono
estremamente onorata di aver contribuito, unica europea, ai lavori che hanno portato alla stesura di questo
Rapporto e insieme a tutte/i coloro che lo vorranno, ci adopereremo affinché le raccomandazioni in esso
contenute vengano attuate dalle Istituzioni italiane senza ritardo”.
PROPOSTE
• Stabilire un sistema appropriato di raccolta di dati su tutte le forme di violenza contro le donne, e i suoi
costi sociali, in maniera coordinata tra tutti i ministeri competenti, l’Istat, DIRE e le organizzazioni della
società civile che operano sul tema con un approccio di genere.
• Rafforzare il coordinamento e lo scambio di informazioni tra magistratura, polizia, assistenti sociali,
operatori della salute mentale e sanitari che vengono in contatto con situazioni di violenza sulle donne
• Assicurare che i tempi di prescrizione siano più lunghi per i procedimenti penali relativi ai reati di stalking e
agli abusi in famiglia.
• Colmare i vuoti normativi in materia di affido condiviso, attraverso la previsione di misure per la protezione
ldi donne e minori vittime di violenza domestica diretta o assistita.
• Assicurare che tutti gli attori coinvolti nel settore del contrasto alla violenza sulle donne siano formati su
tale argomento (assistenti sociali, operatori sanitari, giudici, avvocati, forze dell’ordine, etc.),
• Provvedere finanziamenti certi e continui nel tempo per le case rifugio esistenti ed i centri antiviolenza che
lavorano con un approccio di genere;
• Prevedere programmi di educazione per le scuole e le università, sull’identità di genere, la sessualità
consapevole, la decostruzione degli stereotipi e al contrasto della violenza,
• Formare giornalisti sui temi della violenza contro le donne e all’uso di un linguaggio appropriato per
divulgare le informazioni sugli episodi relativi alla violenza di genere e alle discriminazioni;
Se qualcuno chiedeva cosa fare per fermare la violenza contro le donne, i punti sono questi. Vanno diffusi,
condivisi, e messi in atto.
IL 25 NOVEMBRE.
25 Novembre: Questo non è un mondo per donne…
"...I problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi
fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo:il fatto di essere donne...".
Oggi 25 Novembre, come ogni anno da quando nel 1999 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite designò
questa data come la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, in tutto il mondo
sono state organizzate manifestazioni, fiaccolate, dibattiti, mostre fotografiche ed eventi di ogni sorta per
sensibilizzare l’opinione pubblica ad affrontare più chiaramente e a dire di NO alla violenza sulla donne.
Ma perché proprio il 25 Novembre? In pochi sanno che questa data fu scelta da un gruppo di femministe
latinoamericane e dei Caraibi nel 1981, durante un incontro femminista tenutosi a Bocotà (Colombia) in
memoria delle sorelle Mirabal. Le Mirabal altro non erano che tre giovani donne che negli anni Sessanta
ebbero il coraggio di lottare per la libertà politica del loro Paese (la Repubblica Dominicana), opponendosi a
una delle tirannie più spietate dell’America Latina, quella di Rafael Leónidas Trujillo Molina. La storia delle
sorelle Mirabal è tanto semplice quanto cruenta: a causa del loro impegno rivoluzionario, mentre si recavano a
far visita ai loro mariti in prigione, furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare.
Condotte in un luogo nascosto, furono torturate, massacrate di colpi e strangolate, per poi essere gettate in un
precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente.
A distanza di ben cinquantadue anni da questa vicenda, molte cose sono cambiate in meglio nel mondo ma c’è
una cosa è rimasta invariata: oggi come allora, nonostante tutto, questo NON è ancora un mondo per donne.
Solitamente si dice (ognuno riferendosi al proprio) che “questo non è un Paese per donne”, ma guardandomi
intorno e con fatti di cronaca e dati statistici in mano, arrivo all’idea che se c’è un ambito in cui di piena
globalizzazione si può parlare, quello è certamente quello della violenza sulle donne. Quando si parla di questo
argomento, come di sessismo, maschilismo e cultura patriarcale, il pensiero corre sempre all’Islam, ai Paesi
arabi e in toto alla cultura musulmana. I Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Vicino Oriente, sono
visti infatti come l’incarnazione perfetta di un rapporto tra i sessi che vede fronteggiarsi il dominatore (l’uomo)
e il subalterno (la donna), e che si contrappone a quello paritario che vige ( sarebbe meglio dire che “si crede
sia vigente”) in Occidente. Questa idea sul mondo musulmano è senza dubbio imprigionata da cliché che
andrebbero eliminati con uno studio approfondito dell’Islam in tutte le sue componenti, ma è anche una
concezione il cui fondamento non è inventato…anzi.
Non c’è dubbio per esempio che la famiglia nel mondo musulmano sia fondata su un ordine patriarcale e che il
capofamiglia sia senza dubbio l’uomo che detiene il ruolo di punta e di maggior forza all’interno dell’istituzione
familiare. Non c’è dubbio che per le ragazze sposarsi, quindi diventare mogli e madri, rappresenta un
mutamento sostanziale della loro identità, mentre per i giovani maschi l’essere sposati non altera in profondità
il loro status sociale e la loro autonomia, perché l’uomo possiede già il potere decisionale e lo mantiene, anzi lo
rafforza dopo il matrimonio. Non c’è dubbio che l’uomo, molto più che la donna, con il contratto nuziale
acquisisce diritti di esclusività sul corpo della moglie e sulla sua persona, così come acquisisce in molti Paesi
arabi la capacità unilaterale di sciogliere il vincolo matrimoniale attraverso il ripudio. Non c’è dubbio che ci
siano Paesi musulmani in cui è ancora costituzionalmente legale il delitto d’onore ( la Giordania, per esempio).
Non c’è dubbio che uccidere una donna scagliandole addosso delle pesanti pietre sia un’orribile pratica ancora
diffusa, e che costituisce la pena a cui le donne sovente vengono condannate per il reato di adulterio.
RICCARDO IACONA.
Riccardo Iacona racconta in Strage di donne un pezzo d’Italia in cui a farla da padrone è ancora la forza
maschile brutale e incontrollata. Non siamo in Messico, non siamo a Ciudad Juarez dove milioni di donne
muoiono ogni anno. No, siamo nel Belpaese, a volte in città ricche e splendenti, del Nord o del Sud, in piccoli
paesi dispersi tra i monti o in bei paesini affacciati sul mare. L’unica cosa che accomuna questi luoghi è la vera e
propria strage di donne. Solo nel 2011, racconta il giornalista di Presadiretta, sono state uccise 137 donne, una
ogni 3 giorni. Ma nel 2012 cosa accadrà? La stima approssimativa e parziale dell’anno in corso conferma tale
cifra. E il tutto non fa notizia, fa parlare i tg per un minuto scarso, crea scalpore nell’ascoltatore per un
momento e poi si cambia pagina perché si pensa che non tocchi mai a noi, ai nostri vicini di casa, alle nostre
famiglie e che le povere vittime di questi omicidi vivano in contesti d’ignoranza e povertà. Iacona però ci dice e
ci conferma che non è così, che a essere vittime sono donne di varie tipologie e classi sociali che hanno l’unica
colpa di incontrare nella loro strada un mostro. Ammazzate di botte, stuprate, bruciate o mutilate: la violenza e
l’efferatezza delle modalità con cui vengono colpite a morte stordisce e colpisce. Prima dell’omicidio di solito
c’è la persecuzione, la violenza domestica o la minaccia. Spesso queste cose sebbene vengano denunciate
passano poi inosservate dalle forze dell’ordine e dai media. Sono troppi i casi a cui dovrebbero far fronte. E
allora per tutti noi è più facile chiudere gli occhi. Il giornalista, reso celebre da Michele Santoro in Samarcanda,
ci costringe ad aprire gli occhi e a guardare in faccia la sconcertante realtà che porta un Paese come l’Italia a
una percentuale di vittime pari ai Paesi del terzo mondo. Con Strage di donne Iacona aiuta il lettore a
comprendere questo fenomeno e a far luce su cosa legittima gli uomini a sentirsi ancora così forti e così
protetti.
RASHIDA MANJOO.
Nel 2009 la CEDAW ha compiuto trent’anni. Elaborata nel 1979, rappresenta ancora uno strumento legislativo
fondamentale contro la violenza di genere, piaga sociale dai mille volti. Nell’anno appena trascorso sono stati
organizzati numerosi eventi in Italia per ricordare questa convenzione e per aumentarne la diffusione. Il 13
gennaio scorso, volendo mantenere alta l’attenzione sul tema della violenza sulle donne, si è svolto a Roma,
presso la Casa Internazionale delle Donne, l’incontro tra alcune Ong e associazioni femminili e Rashida Manjoo,
Special Rapporteur dell’Onu sulla violenza di genere. L’evento è stato organizzato dall’Associazione Nazionale
dei Giuristi Democratici in collaborazione con la Fondazione Pangea. La Manjoo è un’attivista, accademica ed
avvocato, originaria del Sudafrica, ed ha insegnato in molte prestigiose università americane, così come a
quella di Città del Capo, e fa parte della rete di donne “Women living under Muslim Laws Network”. Figura di
riferimento nella lotta alle discriminazioni e la violenza contro le donne, ha affrontato un dibattito aperto sulle
politiche internazionali con particolare riferimento a quelle europea ed italiana, illustrando i fini e le modalità
del suo mandato alle Nazione Unite, carica che esiste da 15 anni e dura tre anni (nel caso di Rashida dal 2009 al
2012), che possono essere rinnovati. Il suo compito principale è fare da punto di raccordo tra governi,
associazioni di donne e ONG, nel coordinamento di politiche contro la violenza sulle donne. Quattro sono le
mansioni assegnatele; in primis la stesura di un rapporto annuale inviato all’osservatorio sui Diritti Umani delle
Nazioni Unite, che tenga conto dei notevoli punti di contatto tra la questione della violenza di genere e altre
tematiche come la diffusione dell’HIV/AIDS, l’influenza dei credi religiosi, il dibattito sulle differenze di
orientamento sessuale, le condizioni di lavoro, ecc…Proprio su questo ultimo punto Rashida ha affermato che si
devono riconoscere i molti collegamenti tra la povertà e la violenza di genere. “Se ci domandiamo da dove
viene la cosiddetta femminizzazione della povertà, possiamo rispondere che è il risultato di uno squilibrio tra i
generi, di un iniquo diritto allo studio, di paghe diseguali, di una mancanza di opportunità per molte donne. La
violenza e la povertà sono causa e conseguenza l’una dell’altra, in un circolo vizioso che non si arresta, se non
con interventi sulle cause strutturali della violenza, che toccano indubbiamente i sistemi macroeconomici.”
Rashida ha poi raccontato delle sue missioni all’estero, ad esempio quella in Kurdistan nel novembre del 2009 e
della difficoltà di ottenere il permesso per entrare nel paese a investigare sulla condizione delle donne
autoctone, raccontata in un rapporto breve. La terza mansione è legata a violenze particolarmente gravi ai
danni di donne per cui mobilitarsi con delle segnalazioni speciali. In ultimo, Rashida è chiamata a collaborare
con la società civile, organizzando incontri in cui si discuta delle misure da prendere contro la violenza, che ha
definito “un fenomeno pervasivo, che tocca tutte le società” in cui “spesso non fa differenza il colore, l’età, o la
condizione economica, qualsiasi donna è una potenziale vittima di violenza, in particolare tra le mura
domestiche.” Nonostante la portata del fenomeno sia enorme, tanto da annientare spesso ogni tentativo di
fermarlo, Rashida ha ribadito l’importanza dell’impegno e di un piano di intervento che comprenda cinque
punti chiave: l’adozione di leggi nazionali, l’attuazione di piani multi-settoriali con cospicue risorse da investire
nella prevenzione, la raccolta e l’analisi dei dati relativi alle violenze, l’attuazione di campagne di
sensibilizzazione, in grado di sollecitare il coinvolgimento dell’intera società civile garantendo sostegno alle
vittime e infine gli sforzi costanti e specifici per contrastare la violenza sulle donne in situazioni di conflitto. E
riferendosi all’Italia, ha ricordato la questione dell’immigrazione e delle difficoltà enormi a cui vanno incontro
le donne migranti, lasciate sole e nei casi più gravi (ma piuttosto frequenti) criminalizzate a seguito delle
denunce esposte.
La Manjoo infine si è soffermata sull’incapacità di un organismo internazionale come l’ONU nel risolvere gravi
questioni, spesso a causa della mancanza di collaborazione da parte degli stati membri. Da qui la necessità di
una doppia strategia: da un lato il mainstreaming di genere e dall’altro l’analisi dei casi specifici. L’attivista
sudafricana ha posto, infatti, l’accento sulle differenze tra culture e sull’eterogeneità dei processi di
emancipazione nelle varie regioni del pianeta, prendendo come esempio la realtà africana. “Le donne del mio
continente sono rappresentate in maniera impropria dai mass media, eppure ce ne sono alcune che sono in
grado, pur seguendo la tradizione ancestrale, di battersi per i diritti che ritengono giusti e fondamentali. Non si
deve pensare che ci sia un modello giusto da seguire, rappresentato dal modus vivendi delle donne occidentali.
Molte di noi, donne africane, rimangono legate alla cultura del villaggio pur sfidando il patriarcato.” Il nostro
breve incontro si è concluso con un pensiero di Rashida sulle cause più intime della violenza, che trovano radici
nella considerazione dell’altro (spesso sinonimo della donna) non come elemento di confronto bensì come
parametro da cui discostarsi e contro il quale far valere la “ragione del più forte”.
FEMMINISMO (XIV, p. 990). - La nuova realtà dei movimenti femministi emerge agl'inizi degli anni Sessanta
negli Stati Uniti e rapidamente si estende nei paesi a capitalismo avanzato. Se le suffragette all'inizio del secolo
si battevano per conquistare diritti civili uguali agli uomini nella società, le femministe odierne lottano non solo
per una parità formale ma anche perché tutta la società cambi e abbia fine la divisione dei ruoli sessuali, lo
sfruttamento e l'oppressione delle donne. S. De Beauvoir nel suo libro Le deuxième sexe (1949) dimostra che non
è la condizione biologica ma la cultura a determinare nel corso dei secoli l'inferiorità della donna nella società.
Anche l'antropologa americana M. Mead rileva il peso del condizionamento sociale del sesso femminile nelle
diverse società. Il f. si appropria di queste analisi e ricerche e inizia un'elaborazione politica autonoma. È
all'interno dei vasti movimenti giovanili americani contro la guerra in Vietnam e contro il razzismo che nascono
i primi fermenti femministi. Del resto il presidente J. Kennedy già nel 1961 istituisce la "commissione
presidenziale sulla condizione della donna", la prima nella storia degli SUA.
La difficile condizione della donna, anche in una società del benessere, trova infatti la sua conferma
nell'inchiesta di B. Friedan Feminine mystique (1963). La Friedan dimostra che la donna media americana, la
moom (la madre), non è affatto una casalinga felice ed emancipata, al contrario di quanto appare. Dev'essere
madre perfetta, consumatrice infaticabile, ottima padrona di casa, oggetto sessuale per essere socialmente
approvata e si scopre sempre più spesso chiusa in una gabbia dorata, che l'obbliga a non esprimersi mai come
essere umano completo. I dati dimostrano che nella famiglia, nella scuola e nel lavoro alle donne si richiede di
adeguarsi al modello della "mistica della femminilità".
Il 29 giugno 1966 B. Friedan fonda il NOW (National Organization for Women), il primo movimento moderno
contro l'oppressione e lo sfruttamento esercitato dal maschio sulla femmina. Appena 4 anni dopo il NOW conta
5000 militanti (tra i quali anche 100 uomini), 50 sezioni in 25 stati. L'organizzazione lotta per l'aborto legale e
gratuito, il controllo delle nascite, la parità di accesso agl'impieghi e all'istruzione superiore, il riconoscimento
giuridico della professione di "madre di famiglia" con diritto di pensione e nidi d'infanzia pubblici e gratuiti per
le lavoratrici madri. Ci si batte fin dall'inizio per "avere più potere". Ma l'obiettivo non è condiviso da tutte. Nel
1968 Ti-Grace Atkinson si separa dal NOW e fonda con molte altre un nuovo gruppo, Feminist, che punta alla
distruzione del potere, "in quanto risultato del secolare dominio maschile sulle donne". Successivamente si
formano altri gruppi, riuniti poi nella sigla generale di WL (Women's Liberation), che diversamente dal NOW
hanno posizioni radicali di sinistra. Per es. le Radical Feminists divise in 11 brigate rionali a New York
discutono a lungo sulla sessualità femminile. Altro tema di discussione è se le donne siano oppresse
prevalentemente dal capitalismo o dal patriarcato. Grande influenza su tutte le femministe ha in questo periodo
Sexual politics di K. Millet (1969), uno dei primi e più compiuti tentativi di analisi dell'oppressione femminile da
parte del sistema patriarcale. Si evidenziano due posizioni, quella delle sessiste che attribuiscono ogni
responsabilità al maschio e quella delle politiche che individuano nel capitalismo il nemico principale.
Da queste due nascono molte nuove formazioni: WITCH (Women's International Terroristic plot Coming from
Hell), nota per le azioni di guerriglia contro i concorsi di bellezza e per avere "infiltrato" alcune sue militanti
nelle compagnie telefoniche; le Redstockings divise in "piccoli gruppi di crescita di coscienza" (small
consciousness raising group). Ogni gruppo è formato da circa dieci donne che si riuniscono periodicamente e
attraverso il confronto collettivo delle proprie esperienze quotidiane ricercano le origini e le cause della propria
oppressione e del proprio condizionamento superando così la separazione e l'isolamento. "Poiché la causa ultima
di tutti i mali del mondo", sostengono le Redstockings, "è la supremazia del maschio nella società, è
indispensabile per le donne prenderne coscienza collettivamente". Altri gruppi sono: Radical mothers, Radical
lesbians, in qualche caso organizzate in comunità, la National organization black feminists, Bread and roses
attivo soprattutto a Boston, la Young socialist alliance, il National political women's caucus. Ancora verso la
fine degli anni Sessanta appare un singolare manifesto: SCUM (Society for Cutting Up Men) tradotto in seguito
in molti paesi. Si tratta di un documento-farsa, grottesco e disperato, all'apparenza un manuale di guerriglia per
"distruggere il sesso maschile".
Nonostante la varietà dei gruppi femministi si verificano momenti di unità come accadde per es. il 26 agosto del
1970 (50° anniversario del diritto di voto alle donne) con la proclamazione di uno sciopero "domestico"
nazionale in 80 città degli SUA. Nel luglio del 1972 inizia le sue pubblicazioni MS, il primo periodico
femminista americano che vende oggi centinaia di migliaia di copie. Negli ultimi anni soprattutto si sviluppa una
larga campagna per la libertà d'aborto e il Movimento femminista crea cliniche femministe (Summit Medical
Center a Washington), per praticare il self-help, una forma di medicina delle donne per conoscere il proprio
corpo, curarsi e se necessario abortire senza ricorrere alla medicina ufficiale. La tecnica e la teoria del self-help
come la questione dell'aborto sono oggetto di discussione in tutto il movimento.
Il f. mondiale s'incontra in convegni internazionali per confrontare le diverse posizioni. Nel dicembre del 1974 a
Francoforte il primo convegno femminista europeo decise d'inviare a K. Waldheim, segretario generale
dell'ONU, una lettera aperta contestando l'"anno della donna" promosso per il 1975 dall'ONU stessa. Nell'estate
dell'anno successivo giungono a Città di Messico femministe da tutto il mondo per opporsi alle "celebrazioni
ufficiali" per l'"anno della donna", aperto sui temi "donne, uguaglianza, sviluppo e pace". In risposta all'iniziativa
dell'ONU nel marzo del 1976 a Bruxelles le femministe si riuniscono in un "tribunale contro la violenza" alle
donne, portando numerose testimonianze. Scopo del tribunale è dimostrare che lo stupro è solo la più
appariscente violenza che una donna può subire, alla quale si deve aggiungere la quotidiana emarginazione dal
lavoro, dalla cultura, dalla società. In quella occasione le donne del Terzo Mondo sottolineano la necessità di una
lotta unitaria con gli uomini contro i regimi dittatoriali.
In Europa occidentale, contemporaneamente in Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, Paesi Scandinavi e Italia,
gruppi di donne si organizzano spontaneamente per la propria liberazione.
In Francia il f. nasce all'interno del movimento studentesco. Il Mouvement de Libération des Femmes (MLF)
raccoglie migliaia di militanti che anche se con posizioni diverse praticano la rigorosa separazione dai maschi e
si organizzano in modo autonomo. Si forma il MLAC (Mouvement pour la Liberté d'Avortement et
Contracception) che in collaborazione con l'MLF pubblica nell'aprile del 1970 un manifesto nel quale 343 donne
dichiarano di essersi sottoposte, contro la legge allora vigente, ad aborto. Tra le firmatarie nomi famosi della
cultura e dell'arte. Negli anni successivi il movimento femminista continua la battaglia per la liberalizzazione
dell'aborto creando un'organizzazione capillare, in collaborazione con alcuni medici, in grado di praticare aborti
con le tecniche più moderne (aspirazione con il metodo Karman). Grande scalpore anche internazionale suscita il
processo per aborto, intentato nell'ottobre del 1972 a Bobigny, a una minorenne e trasformato dall'MLF in
processo politico. Tra gli altri gruppi che fanno parte dell'MLF (Femmes révolutionnaires, Gouines Rouges,
ecc.), è da ricordare Psychanalyse et politique, soprattutto perché ritiene fondamentale per la liberazione non più
solo la politica tradizionalmente intesa ma anche l'analisi delle motivazioni inconsce e la lotta ai valori maschili
interiorizzati nel tempo dalle donne. L'8 marzo 1974 nasce la Lega per i diritti delle donne, che, presieduta da S.
de Beauvoir, organizza l'SOS Femmes, per aiutare le donne in difficoltà (violenze sessuali e di altro genere,
consigli legali, ecc.). Nel novembre dell'anno successivo, nel teatro della Mutualité a Parigi, si tiene il primo
congresso delle prostitute francesi, con la solidarietà delle femministe. Tra le molte iniziative del movimento
femminista, oltre alle Maisons des femmes, da segnalare la creazione di una casa editrice femminista (Editions
des femmes) che dal 1972 stampa testi scritti da donne per le donne e dal 1974, con periodicità irregolare, le
Quotidien des Femmes.
In Inghilterra è ancora il 1970 a segnare l'inizio del f. con il confluire nel Women's liberation movement di donne
che militavano nel movimento degli studenti e del partito laburista. I temi delle lotte sono analoghi a quelli degli
altri paesi: parità salariale a parità di lavoro, tutela delle ragazze madri, legislazione sull'aborto, lotta alla
divisione dei ruoli, recupero della sessualità femminile contrapposta e condizionata da quella maschile,
valorizzazione di tutto il corpo, lesbismo. Nel 1969 si era ottenuta, con l'abortion act, una legislazione
favorevole alle donne e l'anno successivo diventa legge il principio di uguale salario per uguale lavoro, richiesto
con forza nel convegno femminista di Oxford nel luglio precedente. Nel 1970, durante la contestazione del
concorso di bellezza per l'elezione di Miss Mondo, si leggono i primi cartelli contro lo "sciovinismo maschile".
È del 1971 il primo centro londinese per la tutela delle "donne malmenate" e contro ogni violenza, anche carnale;
dopo appena quattro anni sono sorti 40 centri analoghi in tutta la Gran Bretagna. L'iniziativa si sta attualmente
diffondendo anche negli altri paesi europei, dove si creano i rape center (centri antistupro). Tra le campagne dei
gruppi aderenti al WL da ricordare quella contro la pubblicità di indumenti intimi femminili, condotta ricoprendo
i manifesti con striscioline di carta. Anche le femministe inglesi ritengono infatti che la pubblicità sfrutta la
donna come oggetto sessuale. Sul tema dello sfruttamento si organizza il PUSSI (Prostitute Unite per
l'Integrazione Sociale e Sessuale).
La prima manifestazione pubblica del WL si ha a Londra nel febbraio del 1971 per chiedere uguaglianza reale
nella famiglia, maggiore presenza di donne nel sindacato, servizi sociali e libero accesso a tutte le professioni. Il
f. inglese si organizza in workshops (luoghi d'incontro e di dibattito) diffusi ora in tutte le città e i centri minori.
La rivista Shrew, redatta a turno da gruppi diversi, coordina nelle sue fasi iniziali il movimento femminista, ma
oggi sono numerosissime le testate femministe anche se a circolazione locale.
Anche nei Paesi Bassi il f. è molto attivo. Sono conosciuti soprattutto due gruppi, l'MVM
Man-Vrouw-Maatschappij ("Uomo-Donna-Società"), nato negli anni Sessanta e le Dolle Minas ("Mine matte")
che prendono il loro nome da Mina (Guglielmina) Drucker, una suffragetta dell'inizio del secolo.
L'MVM contesta l'attuale società, responsabile dell'alienazione di uomini e donne; quindi lotta per la
modificazione della struttura sociale. Si organizza in gruppi di ricerca e di attività teorizzando la maggiore
"infiltrazione" possibile in tutte le istituzioni. Le Dolle Minas sono note invece per le loro azioni di disturbo
contro i clubs maschili e per avere tappezzato, nel passato, i bagni pubblici, riservati ai soli uomini, di nastri
rosa.
Nel 1970 si contrappongono, all'interno del gruppo, due posizioni, la strutturalista e la mentalista, la prima
privilegia la lotta al sistema sociale, la seconda propone una modificazione interiore per uomini e donne che
preceda ogni radicale cambiamento della società. Prevale la prima posizione che attualmente si esprime con lo
slogan "la vera liberazione è possible solo nella società socialista". Il loro giornale si chiama Evoluzione. Come
altrove le lotte quotidiane per i servizi sociali, il controllo delle nascite, la formazione professionale femminile,
vedono l'unità tra tutti i gruppi.
In Svezia le femministe più attive sono nel Gruppo 8, organizzato in "piccoli gruppi" autonomi di studio e di
azione. Le femministe svedesi ritengono che la donna sia sfruttata "come salariata e come casalinga", sostengono
perciò che la lotta per il socialismo e quella per la liberazione sono "profondamente connesse" oltre che essere
alla base della liberazione di tutti gli esseri umani. Il Gruppo 8 ha un suo giornale dove documenta le attività dei
collettivi sui temi: aborto, scuole materne, parto indolore, bassi salari.
Il primo intervento ufficiale del femminismo tedesco è del 1968, quando a un congresso dell'SDS (movimento
studentesco) a Francoforte, un gruppo di donne, l'Aktionrat zur Befreiung der Frauen denuncia il "maschilismo"
delle organizzazioni politiche, rivendicando il diritto a battersi per la propria liberazione. Si formano allora nelle
maggiori città della Germania organizzazioni di sole donne come lo SFB ("Lega delle donne socialiste") a
Berlino, e il Weiberrat a Francoforte. Nel 1971 si lancia una campagna nazionale per la libertà d'aborto che
prende il nome di Aktion 218. Da questo momento il f. tedesco comincia a estendersi in tutto il paese fino ad
arrivare al primo congresso nazionale (Francoforte 1972) dove sono presenti 35 gruppi da più di 20 città, tra i
quali Brot und Rosen e l'FBA ("Azione-Liberazione della donna"). Anche in Germania emergono posizioni
diverse all'interno del movimento femminista. Nel congresso nazionale di Francoforte del 1973 si verifica una
spaccatura tra le militanti di formazione marxista e quelle più vicine al f. radicale americano. Ciononostante le
donne sono attive nell'organizzare strutture alternative (negozi, asili nido, ecc.), aprire consultori e centri della
donna, gestire i propri organi d'informazione. Si formano anche i primi gruppi lesbici; nell'estate del 1974 a
Itzehoe le femministe manifestano contro le prevenzioni della corte durante un processo per omicidio contro due
donne lesbiche. Numerose le iniziative in campo culturale; in primo luogo la stampa femminista (EFA,
Frauenzeitung, Lesbenpresse, Frauen und film, ecc.). Nel 1973 si è tenuto a Berlino il primo seminario
internazionale di film delle donne e l'anno successivo il gruppo femminista Uni-Frauen ("Donne dell'università")
ha ottenuto l'istituzione di una cattedra sulla condizione della donna e "l'ideologia della femminilità". Nel 1975 si
costituisce a Monaco la prima casa editrice femminista (Frauenoffensive) che stampa le elaborazioni del
movimento. Una delle teoriche più famose è A. Schwarz.
Di recente si è formato a Berlino il gruppo Frauen in der Kunst che organizza mostre e dibattiti. Agl'inizi del
1976, dichiarata l'incostituzionalità del progetto di legge sull'aborto, il movimento femminista ha risposto con
manifestazioni di piazza e la diffusione del self-help.
Anche in Italia per il f. l'anno cruciale è il 1968, l'anno della rivolta studentesca. Ma già nel 1966 è presente a
Milano un gruppo di sole donne, il DEMAU (DEMistificazione AUtoritarismo patriarcale). L'obiettivo è
superare le tradizionali concezioni "emancipazioniste" delle organizzazioni storiche femminili, in particolare
dell'UDI (Unione Donne Italiane).
Nel 1970 si costituisce l'MLD (Movimento di Liberazione Della Donna) che, federato al Partito radicale,
ammette al suo interno anche gli uomini come possibili alleati nella lotta per la liberazione. L'MLD, nel suo
primo congresso (1971), denuncia la "natura specifica dell'oppressione della donna a livello economico,
psicologico e sessuale" e propone un disegno di legge per la legalizzazione dell'aborto, richiede la
liberalizzazione degli anticoncezionali e l'istituzione di asili nido antiautoritari. Ugualmente aperto agli uomini
ma con una maggiore attenzione agli aspetti sociali della discriminazione verso le donne nasce nel 1970 il FILF
(Fronte Italiano di Liberazione Femminile). Crisi occupazionale, crisi della famiglia, esplosione demografica e
inquinamento, sono i temi fondamentali sui quali si muove il Fronte. Organo d'informazione del gruppo è la
rivista Quarto Mondo. Tra i gruppi di più antica data Rivolta Femminile (estate 1970) che, a differenza di quelli
già citati, è rigidamente separatista, esclude cioè dall'organizzazione gli uomini.
Solo partendo dalle condizioni specifiche di donne, infatti, le femministe pensano di potersi sottrarre a ogni
forma di subordinazione alla società attuale, rifiutando di delegare ad altri la propria liberazione.
Le militanti di Rivolta Femminile si dividono in piccoli gruppi di "auto coscienza", per individuare attraverso il
confronto tra le singole esperienze elementi di unità tra le donne. Per la prima volta in Italia si afferma che tutte
le donne subiscono un'oppressione a "prescindere da proletariato, borghesia, tribù, razza, età e cultura". Rivolta
Femminile rifiuta ogni tipo di organizzazione o di proselitismo come dichiara nel suo manifesto di fondazione,
mentre altri gruppi di donne si formano spontaneamente in alcune città del Nord.
Intanto a Trento, all'interno dell'università occupata dal movimento studentesco, il collettivo Cerchio Spezzato
elabora uno tra i più noti documenti ("non c'è rivoluzione senza liberazione della donna") del f. italiano. Il
risultato dell'elaborazione dei temi espressi in quel documento è il libro La coscienza di sfruttata, la prima
analisi femminista sulla condizione della donna in Italia. L'anno successivo si svolge a Milano il primo convegno
nazionale femminista, un "incontro tra donne" che ha già i caratteri antileaderistici e antiburocratici che
assumerà poi tutto il movimento. Argomento delle discussioni, l'autonomia politica e organizzativa e il
separatismo. "Il nostro deve essere un movimento di sole donne perché non può esserci un'unità tra uomini e
donne se non c'è prima unità tra donne". La proposta che scaturisce dall'incontro è l'organizzazione in "piccoli
gruppi di autocoscienza" che oggi è uno dei cardini del f. in tutto il mondo. Anche se le militanti provenienti
dalle organizzazioni politiche tradizionali della sinistra privilegiano soprattutto l'intervento sociale, si preferisce
sensibilizzare le donne sulla richiesta di "salario al lavoro domestico" (Lotta Femminista, Comitato Triveneto
per il salario, con collegamenti internazionali) e intervenire nelle fabbriche a prevalente occupazione femminile
(MLDA, Movimento di Liberazione della Donna Autonomo). Tra i gruppi che fin dall'inizio hanno scelto
esclusivamente la pratica dell'autocoscienza i più conosciuti sono quello di via Cherubini e l'Anabasi a Milano, il
Movimento femminista romano e le Nemesiache a Napoli.
L'esistenza in Italia di una tradizione di lotte del movimento operaio si fa sentire in tutto il movimento
femminista a differenza di altri paesi. Infatti la necessità di collegare la liberazione della donna a un
cambiamento sociale generale e profondo è un tema sempre presente in tutti i gruppi femministi (tra questi i
Collettivi femministi comunisti).
Pur nella diversità d'impostazione restano validi per tutte i contenuti fondamentali del movimento femminista:
autonomia politica e organizzativa, critica radicale della famiglia come centro dell'oppressione, lotta al doppio
lavoro e ai ruoli sessuali, rifiuto della sessualità finalizzata alla riproduzione, omosessualità, libertà e gratuità
dell'aborto e della contraccezione, lotta contro ogni violenza.
Il 5 giugno 1973 il processo a G. Pierobon, accusata di procurato aborto, si trasforma in una manifestazione di
protesta con il confluire a Padova di femministe da tutta Italia. Da questo momento il f. promuove varie
iniziative per la liberalizzazione dell'aborto, culminate in una grande manifestazione di piazza con decine di
migliaia di donne a Roma nella primavera del 1975. Si diffonde il self-help: gruppi di donne s'incontrano per
approfondire la conoscenza tecnica e psicologica del corpo femminile in modo da poter controllare la propria
salute. Altre donne che rivendicano una medicina che risponda alle loro esigenze creano i Centri di salute della
donna che con i consultori femministi iniziano l'autogestione dell'aborto. Opera in molte città il CISA (Centro
Italiano Sterilizzazione e Aborto) che offre assistenza e consigli pratici alle donne che vogliono abortire, mentre
il CRAC (Comitato Romano Aborto e Contraccezione), dopo un periodo di autogestione di propri consultori, si
batte ora per la gestione e il controllo di tutte le donne nei consultori pubblici previsti da apposite leggi regionali.
Negli ultimi due anni il f. si estende ancora nei quartieri e nei luoghi di lavoro, coordinandosi nelle diverse città,
come accade a Roma con il Centro della donna di Via Capo d'Africa.
Il f. in Italia ritiene che la manifestazione di piazza non dev'essere un "gesto clamoroso", ma il risultato di una
reale ed estesa maturazione delle donne. A questo riguardo alcuni collettivi respingono la manifestazione in sé,
tra questi quello di Via Cherubini a Milano, che teorizza la massima valorizzazione dell'"inconscio femminile".
Dal 1974 a oggi sono state solo tre le manifestazioni nazionali e di queste va menzionata per la sua originalità
quella che si è svolta di sera a Roma alla fine del 1976 contro la violenza, con lo slogan "riprendiamoci la notte,
riprendiamoci la vita". Per scambiare esperienze, per concordare obiettivi comuni, per incontrarsi "tra donne"
centinaia di femministe si riuniscono ogni anno (a Pinarella nel 1974 e 1975, a Paestum nel 1976). Punti
d'incontro e di dibattito del movimento sono la libreria femminista La Maddalena a Roma e quella in Via della
Dogana a Milano.
Abbastanza varia la stampa femminista, che con una rivista mensile (Effe) è presente anche al convegno della
stampa femminista europea a Parigi (marzo 1977). Altre pubblicazioni di movimento sono Sottosopra,
Differenze, Le Operaie della casa. Recente anche la costituzione delle Edizioni delle donne, che ha già diffuso
numerosi testi italiani e stranieri. Le femministe inoltre sono presenti in varie città con trasmissioni radio
autogestite (la più conosciuta è "Radio Donna" a Roma). In conclusione il f. italiano ha influito nel paese
soprattutto per quanto riguarda la legislazione sull'aborto ma anche modificando il costume e la "tradizionale
immagine della donna".
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Nicoletta Varani. La condizione della donna nell’Africa sub-sahariana
Alcune riflessioni sulla geografia di genere / Diritti Umani in Africa –
Fig. 1 - Diffusione della pratica delle mutilazioni femminili
19 Febbraio 2009
Il quadro di riferimento
Nel 2000 la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite ha posto degli importanti obiettivi di sviluppo
che hanno impegnato la comunità internazionale al raggiungimento di traguardi concreti, quali lo sviluppo e
la riduzione della povertà entro il 2015.
Tra questi obiettivi, fondamentale è quello che si prefigge di promuovere l’uguaglianza di genere e
l’empowerment delle donne, essendo questo un prerequisito essenziale per la realizzazione della giustizia
sociale, dello sviluppo e della pace e, quindi, per il conseguimento degli altri obiettivi.
Anche un altro obiettivo (che tutti i bambini possano completare un intero ciclo di scuola primaria entro il
2015) è un diritto in particolare negato più alle bambine le quali - in condizioni gravemente disagiate vengono spesso costrette - fin dalla loro tenera età - a svolgere mansioni all’interno della famiglia di origine
che le priva di poter avere l’educazione loro necessaria per affrontare un futuro più consapevole.
Nonostante gli importanti progressi compiuti in questo campo, infatti, la disuguaglianza tra i sessi continua
ad esistere. Le donne sono fortemente discriminate a tutti i livelli e hanno limitate possibilità di accesso
all’istruzione, all’informazione, alle risorse e ai servizi, subendo, spesso, violenze e abusi di ogni tipo.
Alla luce di ciò, la presente riflessione si è proposta di analizzare sinteticamente in prima battuta lo status
economico, sociale e politico della donna in Africa, continente in cui la condizione di inferiorità della donna
assume toni particolarmente drammatici; e in seconda analisi fornire un quadro dei principali strumenti
giuridici sui diritti umani del continente africano con riferimento alla tutela da questi prevista per i diritti
della donna: Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, Carta araba dei diritti dell’uomo e Carta africana
dei diritti dell’uomo e dei popoli, documenti molto diversi tra loro per origine, natura e forza vincolante.
Infine, vengono presi in considerazione alcuni casi di studio per confrontare realtà diverse, per storia e
tradizioni, di Paesi dell’Africa sub-sahariana, ma accomunate da importanti progressi nella strada verso
l’emancipazione femminile.
Donne e disuguaglianze di genere
Parlare della condizione della donna in Africa non è certo questione da poco, non lo è mai parlare della
donna e l’argomento si fa ancor più complesso quando le realtà da considerare e trattare sono tanto
frammentate e diversificate.
Condizione della donna, lavoro della donna: le due cose non possono essere prese separatamente. Se in
occidente lavoro significa spesso emancipazione, realizzazione personale e autonomia, nei Paesi africani la
questione diventa vitale, parlare di lavoro porta il discorso sulla vita stessa delle donne, il loro valore e la
loro sopravvivenza. A questo proposito si è parlato di mani invisibili che silenziosamente, da sempre,
costruiscono l'Africa, ne strutturano la stessa società.
Donna come lavoratrice, dunque, comunque e sempre; non esiste, in Africa, donna che non lavori, la sua è
una forza doppiamente produttiva, come donna madre-nutrice e come donna produttrice. La situazione
non cambia molto se si vogliono considerare le particolarità di ogni diverso paese, le singolarità delle più
varie tradizioni.
Cambiano i ruoli, forse, cambiano i rapporti familiari (in parte), la religione e il suo peso all’interno della
comunità, ma ciò che resta invariata è l’importanza e il significato del ruolo femminile.
Per quanto un diverso peso possano avere le leggi consuetudinarie e religiose dei diversi Stati, va subito
detto che il ruolo della donna africana è, ovunque e comunque, insostituibile: è responsabile della casa e
della famiglia, dell’educazione dei figli e così come la parte del lavoro di sussistenza che ha luogo entro il
territorio domestico (in campagna, ad esempio, gli animali da cortile sono regolarmente alimentati e seguiti
dalle donne).
In merito andrebbe fatta una decisa distinzione fra la condizione delle donne di città e quelle di campagna,
ricordando che in linea di massima, per quanto sembri contraddittorio, la donna tende a godere di un
benessere maggiore (almeno per quanto riguarda l’importanza e il riconoscimento del suo ruolo) negli
ambienti rurali. Il suo spostamento nelle città porta spesso all’annullamento di tradizioni e di valori che
ancora sopravvivono nelle campagne e di conseguenza ad un peggioramento, in alcuni casi, del suo status
sociale. A ciò si contrappone l'importante fatto che nelle campagne la donna affronta la gestione
quotidiana della famiglia e dell'abitazione, impegni che sono notevolmente più duri e pesanti che nelle
situazioni urbane. La madre (ma anche le figlie o le altre donne del nucleo familiare) avrà il compito
quotidiano e pesantissimo di andare tutti i giorni a procurare la legna da ardere (impresa questa spesso
gravosa, vista la scarsità di legna da ardere a causa del disboscamento intensivo avvenuto in molti Paesi o
perché altri sono nella vasta area del Sahel) e prendere l'acqua al pozzo (solitamente lontano diversi
chilometri dal villaggio) il compito di garantire acqua alla propria famiglia. In molte zone aride dell’Africa
sub-sahariana la raccolta dell’acqua è un un’incombenza quotidiana che costringe le donne (mamme, figlie,
giovani e bambine) a percorrere 2-3 ore di cammino per raggiungere una fonte e portare a casa una
provvista giornaliera. La raccolta e il trasporto dell’acqua diventa un onere che ruba il tempo ad altre
attività, ad esempio alla scuola dove le bambine sono discriminate rispetto ai bambini nell’accesso
all’istruzione proprio perché molti compiti domestici sottraggono loro molto tempo della giornata. Con
l'inurbamento (e la dominazione coloniale) la donna ha subito il passaggio, avvenuto negli ultimi due secoli,
dalle leggi consuetudinarie alle legislazioni moderne, che, invece di migliorarne le sorti, talvolta le ha
addirittura peggiorate. Si prenda ad esempio il Senegal, dove la legge sulle comunità rurali mostra come
una legislazione, in prima analisi sessualmente neutrale, possa ritorcersi contro le donne. Qui un consigliere
rurale su tre deve essere il rappresentante di una cooperativa, e ciò ha portato i gruppi più diffusi, cioè le
comunità di donne, a trovarsi di fatto escluse dalle istanze decisionali.
Negli ultimi anni, sempre nel consolidato rispetto delle tradizioni familiari e comunitarie, lo spirito di
intraprendenza che contraddistingue le donne africane ha prodotto diverse soluzioni per contrastare
l’inefficienza dei poteri pubblici e i risultati spesso solo teorici delle politiche di sostegno. Per prima la
solidarietà e l’aggregazione di gruppo. Ad esempio nella stessa struttura poligamica le diverse mogli
trovano tra di loro sostegno e aiuto nelle innumerevoli mansioni familiari, così all'interno della più estesa
società le donne trovano il modo di sostenersi anche economicamente. Ecco allora il crearsi delle mutue e
di “tontine” (associazioni molto antiche in cui i partecipanti pagano una quota e alimentano una cassa
comune di cui ciclicamente dispongono per portare a termine i loro progetti. Nel Camerun, ancora oggi la
tontina è il pretesto per un modo di associarsi ed aiutarsi a vicenda che viene chiamato “la società degli
amici”. Il denaro motiva le persone a riunirsi, ma l'obiettivo non è quello. Peraltro la quota può essere
molto esigua ed essere versata in natura. La priorità è data alla qualità dei legami sociali e di amicizia che si
creano. Si forma così una società reale, fuori dall’economia e fuori dallo Stato, che funziona con le sue
proprie regole, e che ha quindi anche inventato dei sistemi di regolazione dei conflitti e dei litigi; un
ingegnoso metodo di risparmio gestito all’interno di un gruppo di pari). Non è un caso infatti se oggi le
giovani donne africane si appassionano per tutti i corsi di formazione che riguardano i meccanismi bancari e
le strutture di finanziamento. Dalle numerose ricerche sociali condotte sulla popolazione femminile è poi
emerso come l'istruzione sia vista come una delle esigenze più fortemente sentite: purtroppo in molti Paesi
i corsi rivolti alle ragazze sono ancora prevalentemente di economia domestica o discipline simili che ben
poco possono offrire in termini di sviluppo lavorativo e di affrancamento sociale. Si deve, poi, aggiungere
che spesso gli uomini impediscono la strada di accesso all’università, difficoltà a cui, solo negli ultimi tempi,
le donne hanno risposto formando dei gruppi di risparmio per mantenere agli studi le ragazze più povere
del loro villaggio come è accaduto ad esempio in Camerun e in Ghana.
Sono fondamentali dati più precisi e analisi accurate, specialmente su temi come la mortalità materna, la
violenza contro le donne, l'istruzione, il lavoro, il salario, il lavoro non pagato e l'impiego del tempo, la
partecipazione in politica
La condizione economico sociale della donna africana
Per quanto solo raramente e difficilmente riconosciute oltre il loro ruolo di mogli e madri, resta il fatto che
l’Africa sub-sahariana è una delle regioni al mondo in cui le donne, indipendentemente dall’età, lavorano di
più e, elemento da non sottovalutare, a tale forza economica non corrisponde, se non in parte minima, un
potere sociale e politico. Le ore di lavoro di una donna senegalese che vive nelle zone agricole possono
arrivare a diciotto e la situazione non cambia di molto per chi vive nei Paesi vicini.
Per fornire un’idea più precisa, che cosa fanno, le donne, e quali sono i molti lavori in cui il loro apporto è
praticamente indispensabile basti pensare alle zone rurali dove la giornata lavorativa inizia all'alba e non
termina finché ogni membro della famiglia non è stato nutrito e curato. Per quanto concerne il lavoro nei
campi ad esempio la risicultura in Africa occidentale è una delle attività che talvolta vede impegnate solo le
donne, mentre nelle terre Peul è loro affidato l'allevamento; in generale le donne rappresentano l'80%
della forza lavoro utilizzata nella produzione alimentare. A fronte di questo impegno si ricordi che, salvo
rare eccezioni in cui è femminile anche la proprietà di terre e bestiame (la Namibia per il bestiame o i Paesi
Zulu per campi e granai), la donna non può né possedere né controllare la terra che lavora.
Nel contesto lavorativo della donna africana non va tralasciato un altro importante aspetto: per molte
comunità l'uomo col matrimonio (e con la dote che consegna alla famiglia della sposa) acquista il lavoro
della moglie, la quale avrà come uniche alleate e aiuti le eventuali altre mogli dello sposo e i figli. All'uomo
spetta tradizionalmente il lavoro cosiddetto pesante, (la caccia, la pesca, la costruzione delle capanne,
l'abbattimento degli alberi...) ma alla donna spetta in genere l'intera gestione del lavoro all'interno della
casa e, in caso, della campagna. Oltre alla preparazione dei cibi (che impegna numerose ore al giorno) e,
come già detto, la ricerca e raccolta di legna e trasporto dell'acqua, non è raro che la donna si impegni nella
vendita e in altre attività il cui reddito servirà totalmente ai fabbisogni della famiglia, mentre i guadagni
dell'uomo spesso non sono messi a disposizione dei bisogni comuni. Le donne si trovano quindi a non poter
gestire autonomamente le proprie entrate. Sempre nelle campagne, la tecnica, quando interviene in forma
di attrezzi e strumentazioni moderne, è considerata un bene unicamente degli uomini, mentre le donne
devono continuare a lavorare con mezzi arcaici e inadeguati.
La situazione nelle città è ancor peggiore: la mancanza di formazione spinge in massa verso il lavoro nero e
la crisi, la miseria è aggravata dalla competizione con l'uomo.
Così, nelle città, decine di migliaia di disoccupati fanno concorrenza alle piccole commercianti e altre
lavoratrici, contendendo loro le attività più retribuite. Se sono le prime ad essere colpite, le donne si
dimostrano però anche le prime ad arrangiarsi e a trovare soluzioni per risollevarsi. Negli anni Ottanta, ad
esempio, quando i tagli drastici hanno gettato sul lastrico migliaia di dipendenti statali congolesi, sono state
le donne ad andare al mercato per mantenere la famiglia.
Grande capacità di organizzazione e immensa energia, dunque, ma la possibilità di ottenere un credito per
una donna resta ancora un'impresa ardua: per accedere a un prestito, infatti, bisogna poter dare un bene in
pegno e possedere fondi sufficienti, condizioni entrambe che escludono le donne dal farne ricorso.
Nonostante questo, però, ci sono casi, alcuni veramente eclatanti, in cui le donne sono riuscite ad aggirare
la dura legge locale e a ricoprire ruoli importanti nelle reti commerciali. È questo il caso delle cosiddette
Nanas-Benz, un gruppo di donne che, più di trent'anni fa, in Togo, ha capito come il denaro sia alla base
della guerra dei sessi. Queste donne, nubili, vedove o divorziate, hanno fatto fortuna concludendo accordi
in esclusiva con le grandi imprese europee di import-export per la vendita di accessori nel settore del tessile
per poi svilupparsi in altri settori.
Anche nei settori come l'agroalimentare le donne sono molto presenti. In Nigeria, ad esempio, le
commercianti yoruba utilizzano i loro contatti nel villaggio (se necessario facendo ricorso anche ai vincoli di
solidarietà familiare) per ottenere informazioni sui futuri raccolti. In Burkina creano campi collettivi mentre
a Lomé i grandi commercianti di pesce sono donne e possiedono due terzi dei pescherecci del porto. Come
si vede, là dove la tradizione e la legge crea barriere e limiti, l'intraprendenza e intelligenza delle donne
riesce, comunque, a spuntarla grazie allo spirito di solidarietà e quindi all'unione.
Queste realtà restano, però, delle eccezioni in una situazione diffusa in cui il peso enorme del
mantenimento di una famiglia e del rispetto delle leggi consuetudinarie impedisce alle capacità femminili di
avere la giusta espressione e ricompensa.
Sono ancora troppe le donne soffocate, e rese invisibili da una società consuetudinaria di impronta
maschile o, se sole, stritolate dalle prime necessità vitali e costrette ai lavori meno dignitosi anche e
soprattutto a causa del bassissimo livello di istruzione che vieta loro l'accesso agli impieghi meglio retribuiti
Ancora è importante sottolineare che il valore primo di una donna, quello per cui essa viene data in sposa e
per la quale la sua famiglia riceve una dote dal marito, è, oltre alla sua forza lavoro, la sua fertilità; a queste
condizioni di vita si può ben capire come tale capitale divenga un bene perennemente a rischio e, nel
contempo, quanto le gravidanze e i parti siano a loro volta un pericolo sempre più grave per queste vite già
rese deboli dalle fatiche quotidiane. La maggior parte delle donne che vivono nelle campagne (ma non solo)
sono date in spose a una età giovanissima e cominciano a far figli quando sono poco più che delle bambine
(e come noto la salute delle ragazze è minata, fin dalla più tenera età, dalle pratiche ancora molto diffuse
dell'escissione e dell'infibulazione); questo, aggiunto alla frequenza delle gravidanze e al fatto che non
esista riposo per la donne gravida (che continua a faticare fino alle ultime settimane prima del parto) porta
a un tasso altissimo di mortalità. Una cifra per tutte, fornita dal rapporto UNICEF (2007): oltre 160.000
donne africane muoiono ogni anno durante il parto o nelle settimane successive (nell’Africa sub-sahariana
una donna su 16 muore durante la gravidanza o il parto) o dopo aborti clandestini ad alto rischio. Questo
per non parlare delle complicazioni che possono seguire il parto, le infezioni e le malattie che una
pressoché assente o comunque scadente copertura sanitaria non riesce a prevenire e curare. È abbastanza
semplice comprendere che le cause di questo dramma sono da attribuirsi sì a una tradizione e una religione
locale che mette la salute e la vita stessa della donna in secondo piano rispetto alla sua “funzione” di
genitrice, ma anche alla mancanza di una corretta educazione sanitaria e una diffusa azione preventive. Il
vedere la donna sempre come riproduttrice, conduce, poi, al paradosso che le cure e le campagne di
prevenzione la sfiorano solo indirettamente, portandola così a non essere mai studiata per se stessa ma
solo come madre‚ dai grandi progetti internazionali e dalle autorità nazionali.
Anche i progetti di sensibilizzazione delle donne africane compiuti dalle Nazioni Unite al fine di porre un
freno all'eccessiva natalità in queste zone non hanno quasi mai colto a segno l'obiettivo; non si può, infatti,
parlare di libertà di scelta della donna per quanto riguarda la sua fertilità o addirittura di scelta di non
procreare. Nell’Africa sub-sahariana la sterilità può portare una donna ad essere messa al bando nella sua
società, è quindi impensabile partire dalla limitazione delle nascite.
Il problema da risolvere in prima emergenza è, invece, quello delle malattie e della morte per parto. Le
cause sono, come si è visto, molteplici e complesse, ma le più importanti vanno senza dubbio attribuite alla
fatica dei ritmi di lavoro, cui si uniscono numerose carenze nutrizionali, soprattutto di ferro (da cui il rischio
di anemie responsabili del 20% delle morti al momento del parto), vitamina A, zinco e iodio. Molte donne
giungono al termine della gestazione in gravi condizioni di denutrizione, col risultato di non essere in grado
di sostenere la fatica del parto e le frequenti complicazioni che in tali condizioni facilmente si presentano.
La malaria rappresenta un pericolo particolarmente grave: il 75% delle donne africane vive in zone
malariche malattia che ha avuto una forte recrudescenza negli ultimi anni) il che provoca frequenti crisi di
paludismo con distruzione dei globuli rossi; si accentua così il rischio di anemia per le gravide,
particolarmente vulnerabili alla malattia.
Come se ciò non bastasse, le donne sono, da sempre, le vittime più esposte all'infezione del virus dell'HIV:
per quanto la conoscenza sui rischi sia relativamente diffusa, le donne in Africa subiscono, una volta di più,
la loro scarsissima facoltà decisionale all'interno dei rapporti familiari e di coppia. Pochissima prevenzione
per quanto riguarda l'Aids, dunque, e il discorso non migliora se si considerano le donne più anziane.
Come si vede, dunque, la situazione di vita, prima ancora che lavorativa (anche se i confini si fanno sempre
più sfumati) delle donne è una realtà dura e difficilmente risolvibile poiché anche quando si rendono conto
di quali sono i propri bisogni in termini medici e nutrizionali, le donne spesso non possono fare nulla per
provvedere, perché le loro primarie necessità ( cibo e cure) sono sempre secondarie rispetto a quelle del
resto della famiglia.
Volendo trarre delle conclusioni, è fin troppo evidente come la responsabilità di tanti problemi, dalla
nutrizione alla salute, l'istruzione e il lavoro, non possa essere banalmente attribuita a leggi e regole
consuetudinarie troppo dure da scalfire.
Lavoratrici invisibili, senza retribuzione, senza diritto alla terra, alla proprietà, al credito, all'eredità.
Sfruttate a piacimento su terre che non gli appartengono e che, in caso di divorzio o di morte del marito, gli
saranno subito tolte dalla famiglia acquisita.
Anche le donne delle città assolvono ai lavori più faticosi e meno retribuiti. La mancanza di formazione le ha
spinte in massa verso il lavoro nero: nell'Africa sub-sahariana il 60% delle donne che lavora lo fa in proprio
(il tasso più alto del mondo): piccole venditrici di frutta e verdura, di medicinali più o meno adulterati,
distillatrici di alcol di manioca, venditrici di acqua. In Africa lavorare non è una questione di scelta, e ancor
meno di soddisfazione personale o di emancipazione, è una questione di sopravvivenza. Dai pochi spiccioli
racimolati ogni sera dipende la vita della famiglia: spesso il minimo indispensabile per sfuggire alla miseria .
La crisi è aggravata dalla competizione tra uomini e donne. Nell'agricoltura, dove i programmi di
aggiustamento hanno colpito duramente le contadine, privilegiando le coltivazioni di rendita e
l'appropriazione privata delle terre. Nel mondo del lavoro ufficiale, dove sono state le prime a essere
licenziate (in proporzione le donne hanno sofferto per le restrizioni di bilancio più degli uomini). Nel lavoro
nero, dove i programmi di aggiustamento hanno colpito duramente anche le piccole commercianti delle
città, riducendo il potere d'acquisto dei loro clienti e gettando sul
lastrico decine di migliaia di disoccupati che oggi fanno loro concorrenza e gli contendono le attività più
retribuite. La crisi ha messo in luce e ha aggravato la precarietà del lavoro delle donne e inoltre ha rivelato il
loro ruolo centrale nell'economia africana.
Diritti umani violati: la violenza fisica
Diritti umani, pace e sicurezza sono obiettivi universali. Si potrebbe quindi pensare che siano termini
neutrali per le donne, ma non è così. Per una donna, la sicurezza è qualcosa di diverso che per un uomo e
come segnala l’UNIFEM, nonostante il gran numero di accordi internazionali e di convenzioni delle Nazioni
Unite contro la discriminazione nei confronti delle donne (Tab. 2), la disuguaglianza di genere è ancora
molto diffusa e profondamente radicata in molte culture.
E al momento attuale sono intervenute nuove “variabili”, che compromettono le azioni e le risorse da
investire in questo campo, come la sopraggiunta crisi finanziaria internazionale che sta spostando
l’attenzione verso quelle che ora vengono viste come “sfide dello sviluppo” molto più importanti
dell’uguaglianza di genere.
Tabella 2 – La condizione della donna nella legislazione internazionale e nei documenti dei diritti umani
dell’Africa
La legislazione internazionale vieta ogni forma di discriminazione contro donne e bambine. I principi sanciti
dalla Dichiarazione Universale sono stati ripresi, infatti, da tutta una articolata documentazione
internazionale (convenzioni, protocolli, dichiarazioni, carte, ecc.) tra cui per citare i più recenti il documento
finale del “Donne 2000. Uguaglianza di genere, sviluppo e pace” della 23ª Sessione Speciale dell’Assemblea
dell’Onu del 10 giugno 2000, gli Obiettivi del Millennio (di cui 3 su 8 riguardano direttamente e/o
indirettamente la condizione della donna), o ancora l’incisiva campagna internazionale “Dite NO alla
violenza contro le donne” lanciata nel 2007 dall’UNIFEM (il Fondo ONU di sviluppo per le donne) che ha
avuto l’adesione di oltre 5 milioni di persone nel mondo che si sono unite all’appello in cui si chiede che lo
stop alle violenze diventi una priorità dei Governi. E alla quale hanno aderito 29 capi di stato o di governo e
188 ministri rappresentanti di 60 governi, e oltre 600 parlamentari di oltre 70 Paesi.
Secondo molti attivisti, impegnati in programmi internazionali e regionali, per porre fine alla violenza sulle
donne, non è sufficiente una migliore legislazione per porre fine a questo fenomeno poiché la cultura
rappresenta ancora un forte ostacolo a cambiare o modificare certe “usanze”. La convinzione ancora
diffusa che le donne africane siano proprietà degli uomini e che perciò devono essere maltrattate è solo
una delle “norme culturali” riconosciute come dannose per le donne
Tra queste pratiche, matrimoni tra minori, mutilazione genitale femminile, violenza sulle donne, delitti
d’onore, e disuguaglianza di genere diffusa. In molti Paesi, queste pratiche sono illegali - vanno contro la
legge - eppure persistono perché sono profondamente radicate nella cultura o addirittura sono accettate
come norme culturali in alcune società.
Tra le altre pratiche che promuovono la violenza contro le donne, l’eredità sulla moglie, ancora
profondamente radicata in diverse società africane. Una vedova viene “ereditata” dal cognato o da un
pretendente scelto dagli anziani del villaggio, dopo la morte del marito. In alcuni casi, le vedove vengono
ereditate con la forza; se rifiutano, vengono maltrattate fisicamente oppure cacciate dal nucleo familiare.
Queste tradizioni e pratiche culturali si sono dimostrate difficili da spezzare, nella lotta contro la violenza
sulle donne. È facile dire che la cultura rappresenta una grande sfida alla lotta contro questo tipo di
violenza; quanto alle risposte effettive nella cultura, il cammino non è ancora neanche iniziato. Tanto che in
molti Paesi dell’Africa sub-sahariana ( ma anche in molti altri Paesi del mondo) le tradizioni culturali e le
credenze sono spesso più forti delle leggi.
È quindi importantissimo cominciare a guardare seriamente quali tipi di intervento sono necessari per
affrontare il problema culturale, poiché è nella cultura che si scrive il copione del conflitto di genere.
Secondo il rapporto dell’UNFPA, il potere culturale opera attraverso la coercizione. La coercizione può
essere visibile, nascosta all’interno delle strutture di governo e delle leggi, oppure radicata nella percezione
che le persone hanno di sé. Lo studio osserva come i progressi nella parità di genere non sono mai venuti
senza una battaglia culturale e al contempo sottolinea come possa essere rischioso generalizzare sul tema
delle culture perché può risultare particolarmente pericoloso giudicare una cultura in base alle norme e ai
valori di un’altra. Anche all’interno di una stessa cultura, prosegue lo studio, non tutti concordano sulle
stesse norme e valori - in realtà, il cambiamento avviene quando c’è una qualche resistenza alle pressioni
culturali.
Inoltre nel rapporto viene fatto l’esempio di come le organizzazioni di donne che si battono contro la
violenza sulle donne e la diffusione dell’Hiv/Aids non sono “molto amate” tanto che . non ricevono gli stessi
fondi di quanti ne vengono concessi ad organizzazioni che fanno capo a uomini.
La violenza contro le donne è stato uno dei temi centrali del VI Forum sullo sviluppo dell’Africa (ADF-VI)
tenutosi nel novembre 2008 ad Addis Abeba in Etiopia, il cui tema era l’Azione sulla parità di genere,
l’empowerment femminile e porre fine alla violenza contro le donne in Africa, Organizzato da Unione
Africana, Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa e Banca di sviluppo africana. Tra gli
obiettivi dell’ADF - VI:
- la creazione di un piano d’azione per stabilire tra le altre cose una rigida attuazione delle legislazioni
nazionali ed internazionali sulla violenza contro le donne, e i successivi controlli;
- interventi pratici e immediati che dovrebbero cominciare a livello del nucleo famigliare dove spesso inizia
la discriminazione di genere, poiché molto spesso sono i genitori che non educano allo stesso modo maschi
e femmine nel fare una netta distinzione tra il ruolo dei maschi e le funzioni che spettano solo alle
femmine.
L’impegno del Forum è stato quello di impegnarsi di fronte al fallimento nell’attuazione delle dichiarazioni
internazionali per porre fine alla violenza contro le donne. Tra le dichiarazioni citate all’incontro, e firmate
dai leader del Continente, il Protocollo della Carta Africana sui diritti umani e dei popoli: adottato nel 1998
a Banjul, Gambia, in cui si assumono specifici impegni alla lotta contro la violenza sulle donne.
I leader hanno poi aderito alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le
donne, del 1979; un accordo che prevedeva già quasi vent’anni fa la creazione di strutture specifiche per
combattere la violenza sulle donne.
Questi esempi dimostrano i ritardi che esistono in diversi Paesi sulle effettive applicazioni della legislazione.
E gli esempi sono molti altri ancora. In Kenya, la legge sulla violenza domestica (di tutela della famiglia) è
ancora sospesa, dopo essere stata introdotta in parlamento otto anni fa. In Uganda, la analoga legge sulle
relazioni domestiche langue in parlamento da circa dieci anni.
E ancora la legge sui reati sessuali del Kenya approvata nel 2006 contiene una clausola che molti ritengono
possa penalizzare le donne che denunciano i colpevoli degli abusi sessuali, pregiudicando l’efficacia stessa
della legge. Per di più, la legge è stata criticata perché prevede una pena massima per stupro - l’ergastolo ma non stabilisce la sentenza minima, che è lasciata alla discrezione del giudice. Questa ambiguità
sminuisce la gravità del reato ed è un ulteriore esempio di come gli abusi contro le donne siano ancora un
fenomeno ancora molto diffuso in Africa proprio grazie alle “scappatoie” offerte dalle stesse legislazioni
nazionali.
Kacinta Muteshi, ex presidente della “Commissione di genere” del Kenya ha dichiarato che le donne
possono essere imputate di falsa accusa di stupro, per la mancanza di prove da presentare. Infatti, accade
che la violenza non viene denunciata subito e nel momento in cui viene fatto molto spesso “potrebbero”
non esserci più le prove.
Ci sono poi, in alcuni Paesi in cui imperversano i conflitti, taciti consensi governativi sugli abusi commessi
contro donne e minori perché vengono ritenuti un modo per placare combattenti e soldati, e per fornire
loro servizi sessuali. È questa in sintesi la dichiarazione rilasciata al Forum di Addis Abeba da Marie Nyombo
Zaina, coordinatrice della Rete nazionale di Ong per lo sviluppo delle donne (Renadef) della Repubblica
Democratica del Congo (RDC).
Sulla violenza delle donne in Africa è entrato ufficialmente in vigore (8 ottobre 2005) il Protocollo sui diritti
delle donne in Africa (documento aggiuntivo alla Carta Africana dei Diritti Umani e dei Popoli sui Diritti delle
Donne in Africa). Documento di estrema importanza sia perché sarà uno strumento per aiutare le donne
africane a conoscere ed utilizzare i propri diritti sia per l’articolo n. 5 in cui il Protocollo sancisce l’illiceità
della pratica delle mutilazioni dei genitali femminili sia civilmente che penalmente, considerandole una
violazione dei diritti fondamentali della persona.
Si tratta probabilmente della forma più pervasiva di violazione dei diritti umani conosciuta oggi, che
devasta vite, disgrega comunità e ostacola lo sviluppo, e secondo il rapporto UNIFEM «è un problema di
proporzioni pandemiche».
I motivi che portano a praticare le mutilazioni sessuali possono suddividersi in cinque gruppi.
Identità culturale: in alcune società, la mutilazione stabilisce chi fa parte del gruppo sociale e la sua pratica
viene mantenuta per salvaguardare l’identità culturale del gruppo.
Identità sessuale: la mutilazione viene ritenuta necessaria perché una ragazza diventi una donna completa.
Controllo della sessualità: in molte società vi è la convinzione che le mutilazioni riducano il desiderio della
donna per il sesso, riducendo quindi il rischio di rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.
Credenze sull’igiene, estetica e salute: le ragioni igieniche portano a ritenere che i genitali femminili esterni
siano “sporchi”...
Religione: la pratica delle mutilazioni genitali femminili è antecedente all’Islam e la maggior parte dei
mussulmani non la usano. Tuttavia nel corso dei secoli questa consuetudine ha acquisito una dimensione
religiosa e le popolazioni di fede islamica che la applicano adducano come motivo la religione.
Gli sforzi internazionali per sradicare la mutilazione genitale femminile hanno una lunga storia, ma è solo in
questo secolo, grazie anche alla crescente pressione delle organizzazioni femminili africane, che si sono
raggiunti risultati concreti.
Finalmente nel 1984 l’ONU creò a Dakar, un “Comitato interafricano sulle pratiche tradizionali
pregiudizievoli per la salute delle donne e dei bambini” (IAC). L’obiettivo principale dello IAC era dar vita a
campagne di sensibilizzazione e formazione per attivisti locali, levatrici e membri autorevoli delle comunità
locali. A partire dagli anni Novanta le mutilazioni genitali femminili vennero riconosciute dalla comunità
internazionale come una grave violazione dei diritti delle donne e delle bambine.
Nella Dichiarazione sulla violenza contro le donne del 1993, le MGF vennero dichiarate una forma di
violenza nei confronti della donna e nel 1994 la collaborazione tra le agenzie dell’ONU e le ONG portò al
varo di un Piano di azione per eliminare le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute della donna e
delle bambine. Questa intenzione venne poi riaffermata con la Conferenza di Pechino nel 1995. Nel
settembre 1997 lo IAC tenne un convegno per giuristi nella sede dell’Organizzazione per l’Unità Africana
(OUA) ad Addis Abeba che elaborò la Carta di Addis Abeba, un documento che chiede a tutti i governi
africani di adoperarsi per sradicare (o drasticamente ridurre) le mutilazioni genitali femminili entro il 2005.
Le mutilazioni vengono vietate anche dall’art.21 della Carta Africana sui diritti e il benessere del fanciullo.
I Paesi africani in cui le mutilazioni sono vietate per legge (in ordine di entrata in vigore)sono: Guinea,
Repubblica Centro Africana, Ghana, Etiopia, Djbouti, Uganda, Egitto, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Tanzania,
Togo, Senegal.
Fig. 1 – Diffusione della pratica delle mutilazioni femminili (fonte: OMS, UNICEF)
Qual è la condizione della donna in Africa oggi?
La strada da percorrere è ancora molto lunga e difficile e gli ostacoli sono numerosi ma pian piano le donne
stanno opponendo resistenza per ottenere un ruolo all’interno della società.
Tuttavia l’apertura di molte associazioni a livello mondiale e l’interessamento di figure femminili di elevato
livello culturale che ricoprono cariche importanti in campo scientifico e politico-economico hanno dato
l’input anche a questa parte femminile del mondo africano.
Dalle informazioni relative all’occupazione lavorativa delle donne del continente africano fornite dall’ILO
(International Labour Organisation), emerge che «quando le donne hanno accesso a finanze, credito,
tecnologie e mercato, sono in grado di espandere i loro affari e di contribuire efficacemente alla crescita
economica sostenibile e allo sviluppo ricordando il successo del microcredito che si è dimostrata la sola via
d’uscita dalla povertà» per molte donne.
Sempre secondo il Rapporto ILO 2007, complessivamente, la tendenza all’aumento dei tassi di
partecipazione alla forza lavoro tra le donne registrato negli anni Ottanta e primi anni Novanta si è
arrestata in regioni come il sud-est asiatico e l’Asia del Sud si è invertita invece nell’Europa dell’Est e
Centrale (non UE), e nell’Africa sub-sahariana. Tuttavia le donne continuano a costituire solo il 40% della
forza lavoro e «restare fuori dalla forza lavoro spesso non è una scelta ma un’imposizione».
La diversità culturale, religiosa e più ampiamente antropologica evidenzia come ancor oggi nonostante
cambiamenti socio-politici-economici la donna africana vive in una condizione di schiavitù, pur essendo una
forza trainante dell’economia, soprattutto primaria, è ancora sfruttata ed emarginata umanamente ed
intellettualmente.
La condizione della donna africana dipende dalla dimensione sociale in cui è inserita. Oggi in Africa ci sono
due livelli di donna: c’è la donna della famiglia tradizionale che ha una condizione a sé, è madre e custode
del focolare domestico e il più delle volte non ha avuto la possibilità di studiare. La donna che vive in città
invece ha la possibilità di andare a scuola e rivestire in futuro incarichi con maggiori responsabilità nel
campo delle cariche istituzionali, del commercio, della giustizia e dell’insegnamento. Le cose, però, stanno
cambiando e la donna del focolare domestico sta cercando di partecipare attivamente alla vita pubblica, di
essere indipendente, di pensare anche a se stessa e vivere la propria vita, di donna in modo autonomo.
Solo alcuni esempi estrapolati da relazioni di campagne di ONG, ricerche di Organizzazioni Internazionali,
letture di vite vissute sono significativi per avere la percezione di un cambiamento che sta avvenendo.
In Camerun le Bayam Sallam percorrono tutto il Paese per comprare i prodotti in eccedenza degli agricoltori
e assumono giovani contadini come guardie del corpo. In Burkina creano campi collettivi. In Senegal alcune
commercianti donne trattano direttamente con i produttori alimentari e talvolta possiedono i loro
appezzamenti di terra. Allo stesso modo a Lomé i grandi commercianti di pesce sono donne e possiedono
due terzi dei pescherecci del porto.
A Ibadan le donne si sono raggruppate in un'associazione, la Cowad (Committee On Women And
Development, Comitato sulle donne e lo sviluppo) per raggruppare i loro acquisti e ottenere prezzi più
vantaggiosi.
L’emancipazione di queste donne è un cammino ancora in salita: esiste, certo, una tradizione che pesa e
peserà a lungo sulla mentalità africana ma tanto può essere ancora fatto per quella che da sempre è
l'invisibile spina dorsale del continente.
È necessaria una maggiore sensibilizzazione e capacità d’intervento da parte dell’intera comunità mondiale
per aiutare l’Africa femminile verso un’emancipazione innanzitutto umana ed intellettuale.
Un grande storico africano Joseph Ki-Zerbo in una sua opera (Storia dell’Africa nera), si chiedeva “A quando
l’Africa?”. Poco prima di morire è Joseph Ki-Zerbo che fa questa domanda nel suo ultimo lavoro: “A quando
l’Africa?”. A quando l’Africa della donna? E attraverso un’attenta riflessione sostiene che l’Africa di oggi
comincia già ad essere l’Africa di alcune donne che faranno l’Africa delle donne.
Nell’Africa di oggi è in crescita la partecipazione istituzionale delle donne. Una donna presidente di uno
stato africano. Ellen Johnson Sirleaf, 63enne, presidente della Liberia, politica di professione, si è laureata
ad Harvard (carcerata durante la dittatura di Samuel Doe e successivamente condannata a morte dal
regime di Taylor), è stata Direttrice dell‘Ufficio regionale del programma di sviluppo delle Nazioni Unite per
l'Africa e funzionaria della Banca Mondiale.
Il Rwanda vanta il primato mondiale di parlamentari donne con il 49% di presenze; in Burundi, Mozambico
e Sud Africa la presenza in Parlamento è intorno al 30%, seguita da altri Paesi con una media di
parlamentari donne più alta di quella Europea ( Rapporto Unicef, 2008).
Nicoletta Varani
Rigoberta Menchú Tum
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